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Gli scrittori degli anni Venti

Gli anni del primo dopoguerra furono anni difficili, di inquietudine, dubbio e incertezza: il vecchio
mondo era ormai finito, ma nessuno riusciva ancora a individuare quali sarebbero stati i nuovi
valori e gli ideali in grado di sostituire i precedenti. La visione negativa di Freud della natura
umana, che avrebbe esercitato una fortissima influenza su molti scrittori del periodo, esprimeva
come le convinzioni intellettuali non fossero altro che razionalizzazioni dei bisogni e desideri
inconsci che determinano in ultima analisi il comportamento dell'uomo. La diffusione di questa
teoria ebbe come conseguenza una diffusa sensazione di disgregazione di tutti i valori, creando un
atteggiamento di amara disillusione, scetticismo e pessimismo sul futuro dell'uomo, che tuttavia
non escludeva il ricorso all'ironia e alla satira tipiche della letteratura britannica.

Gli intellettuali americani erano stati per lo più interventisti, convinti che la guerra europea fosse
giusta e che la vittoria segnasse l’avvento di un’era felice e conciliante per tutti. Ma i programmi
ottimistici del presidente Wilson sulla cooperazione universale rimasero purtroppo sulla carta,
tanto che gli Stati Uniti non entrarono neppure nella Lega delle Nazioni.

Per gli scrittori americani la guerra segnò un risveglio e una presa di coscienza molto amari: in
buona parte l’avevano vissuta combattendo in Europa. Appresero l’assurdità delle stragi, l’orrore
della morte e del sangue e le falsità della propaganda.

Questi avvenimenti prepararono in qualche modo gli scrittori a rinnovarsi, a rivedere anche i
particolari delle loro tecniche espressive, ad aprirsi verso nuove possibilità e nuovi orizzonti.

Fu questo il fondamento del fenomeno dell’espatrio, e il principale richiamo venne da Parigi. Per
prosatori e poeti di terz’ordine, poteva anche trattarsi di una moda, all’ombra dei nuovi ricchi del
dopoguerra che venivano a spendere il loro denaro negli alberghi favolosi della Costa Azzurra. Ma
per gli altri, i migliori, fu un tempo di ripensamento e ricerca.

Parigi, in questo periodo, era stata il polo di attrazione di molti esponenti della letteratura e della
poesia d’oltre Oceano. Alcuni, come Hemingway ad esempio, erano reduci da una diretta
esperienza della guerra combattuta fra i volontari americani inviati sul fronte veneto, e proprio lui,
con il suo “Addio alle armi” del 1929, ne aveva espressa tutta la sua repulsione. Non è senza
importanza l’esperienza di questi scrittori: sarebbe servita loro per vincere più consapevolmente
l’atmosfera superficiale e festosa del dopoguerra, con una sensibilità che altri non avrebbero mai
trovata nel loro intimo.

Dunque Parigi negli anni Venti ospitava una vera folla di intellettuali o di pseudo-intellettuali, tutti
provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico.
La Grande Gertrude e la “Generazione
Perduta“
“Per Parigi non ci sarà mai fine. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, e ne valeva sempre la pena.
Qualunque dono tu le portassi ne ricevevi sempre qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei
bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”.

Ernest Hemingway

La cultura degli espatriati trovò a Parigi voce in un personaggio singolare, la scrittrice Gertrude
Stein. Nel suo salotto in Rue de Fleurus, ospitava molti artisti: narratori, poeti e pittori. Importante
è il suo ruolo di mediatrice tra la letteratura americana e le correnti europee più aggiornate, il suo
stile particolare si accostava a quello di altri scrittori americani d’una certa importanza, primo fra
tutti Sherwood Anderson, un realistico analizzatore della piccola vita di provincia. E proprio
Anderson le presentava, poco tempo dopo, un altro giovane americano molto interessante: Ernest
Hemingway.

Era il 1921, e pochi anni dopo sarebbe giunto a Parigi un altro americano ricco Scott Fitzgerald con
la moglie Zelda e la figlia. “La grande leggenda della bellissima coppia, eroina, simbolo e interprete
di tutte le prodezze sofisticate dell’età del jazz” forniva un esempio del modo di vivere sregolato,
festaiolo ed eccessivo dell’epoca, nonché un esempio per tutti quelli che volessero partecipare alla
“festa eterna”. La destinazione a cui Fitzgerald aspirava doveva essere qualcosa di splendido, di
aristocratico, un posto dove tutti sarebbero stati, come lui e Zelda, belli, liberi e sofisticati. La sua
narrativa e la sua vita avrebbero finito per presentare un modello molto evidente, corrispondendo
alla problematica di una gioventù alla ricerca d’una perfezione irraggiungibile.

Nel 1925 esce il suo capolavoro: “Il grande Gatsby”, dove, nel mondo ovattato ed egoista delle
ricche ville di Long Island, si delinea la dorata tragedia d’un amore impossibile del protagonista per
una donna fatua (legata ad un matrimonio di convenienza) che lo porta verso una morte senza
significato, solo per un banale equivoco. Questo Gatsby (visione autobiografica dell’autore) ha
accumulato una fortuna con l’unico scopo di riconquistare la bella Daisy, suo grande amore di
gioventù: delle proprie ricchezze e della loro discutibile origine gliene importa ben poco. E
Fitzgerald, raccontandoci le delusioni e poi la morte “sbagliata” del suo personaggio, ci introduce
nell’epoca degli anni ’20 - ’30 che qualcuno avrebbe definito “L’epoca del jazz”, inteso solamente
come un simbolo di superficiale svago per ricchi.

La Parigi del dopoguerra cominciava a rivelarsi una sede ideale per questa gente, in buona parte
giovani e occupati a spendere denaro, a consumare alcool, a non avere alcun ideale.

Questa vita richiedeva un enorme dispendio di energie morali e materiali e Scott ne era al centro.
Ma la mancanza di sicurezza lo obbligava a procurarsi modi sempre nuovi di affascinare la gente, e
questo sforzo lo esauriva. Scott e Zelda si stavano lentamente bruciando al fuoco della loro vita
disordinata, ed erano come lo specchio reale di quel decennio inconsistente.
Poi per Scott sarebbe arrivato il crollo: la crisi del ’29, la progressiva pazzia di Zelda, il mediocre
approccio col mondo del cinema, la malattia e la morte a Hollywood, regno di tutte le false
illusioni. Aveva poco più di quarant’anni.

Così la “festa mobile” continuava il suo corso, e “Miss Stein” le faceva da pilota. Poco dopo
avrebbe definito questi americani, in buona parte maturati nel corso della recente guerra, come
“La generazione perduta”.

Hemingway era un entusiasta frequentatore del salotto di Miss. Stein e qualche volta, con un po’
più di denaro in tasca, con lei andava alle corse dei cavalli, e se vincevano c’era in programma un
pranzo alla “Brasserie Lipp” dove, con molta probabilità, potevano incontrare Joyce con la moglie
e i figli. Lo scrittore aveva già dei problemi alla sua vista, ma proprio in quel periodo Sylvia Beach
era riuscita a fargli pubblicare “Ulisse” per la sua “Shakespeare & Company”.

Le Avanguardie
Questo è anche un periodo florido per la nascita di alcune avanguardie. Il termine avanguardia in
letteratura delinea la figura di scrittori che si mostrano polemici verso la tradizione, le regole, le
forme e i contenuti abituali delle opere. Essi si battevano per un linguaggio più istintivo e diretto,
non si interessavano del “bello” o del “buono”, anzi, miravano a provocare disgusto e scandalo. In
sintesi lo scopo delle avanguardie non era quello di dire qualcosa di comprensibile, bensì di
sperimentare un modo diverso di vivere e creare. Fra le avanguardie che nascono in questo
periodo ci sono il Surrealismo francese (1924) e l’Espressionismo italiano (1918).

Il Surrealismo
Nel 1924 André Breton pubblica il suo Manifesto del Surrealismo, questo viene considerato
dall’autore francese come una “sfida alla modernità”, un tentativo di dare vita ad un arte capace di
“cambiare la vita”.

I presupposti chiave del surrealismo erano:

 L’ideologia rivoluzionaria del comunismo;


 L’inesplorata energia psichica dell’inconscio, infatti questa attenzione per i fenomeni
psichici lo differenziano dalle precedenti avanguardie come il Dadaismo e il Futurismo

Così ci fu la nascita di tematiche diverse: il lapsus, la magia, gli incubi, le angosce e le pulsioni
sessuali.

A questo movimento aderirono: pittori come Alberto Savinio, Max Ernst e Salvador Dalí; poeti
come Luois Aragon; registri cinematografici come Luis Buñuel e il regista teatrale Antonin Artaud
con il suo “Teatro della crudeltà”.
La sintassi e la grammatica erano stravolte, nasceva una nuova lingua con regole proprie,
incurante della logica: la “scrittura automatica” (écriture automatique). Questo nuovo tipo di
scrittura mirava a trascrivere il linguaggio dei sogni e dell’inconscio, rappresentazione di questa
tecnica si ha nella sopracitata opera “Ulisse”. Il romanzo di Joyce, coi suoi capitoli più sperimentali
fa da modello al tipo di scrittura surrealista.

l‘ Espressionismo
L’espressionismo nacque nel 1905 in Germania come movimento pittorico, si diffuse poi in Francia
con i pittori fauves (“belve”). Vi era la deformazione della linea e del colore con tonalità accese e
intense mirate a rappresentare il rifiuto dell’equilibrio delle forme, caratteristica di un “armonia”
più classica. C’era invece il tentativo di esprimere realtà profonde ed indicibili, la ricerca di un
effetto esasperato, grottesco, dell’ “urlo”: “l’Espressionismo è un grido.”

Su queste basi nasceva la letteratura espressionista caratterizzata dall’uso di “proiettili verbali”,


mescolanze di ogni tipo, contenuti bizzarri e paradossali, la scomposizione dei piani logici. I temi
preferiti dell’espressionismo erano gli incubi e le ossessioni. Un’influenza di questo movimento
viene percepita anche da James Joyce, mentre in Italia abbiamo gli scrittori “vociani”, ossia un
gruppo di scrittori aderenti alla rivista fiorentina “La Voce”.

In campo teatrale appare per la prima volta il teatro “grottesco” con Rosso di San Secondo e ad
esso, almeno in parte, si richiama anche il teatro pirandelliano con la messa a nudo delle
contraddizioni del vivere, rappresentata dalle sue “maschere nude”. Esempio calzante di questo
richiamo si ha nell’opera “Sei personaggi in cerca d’autore” che non a caso si conclude con la
morte in diretta di uno dei personaggi (il Giovinetto) seguita dalla risata grottesca ed ambigua
della Figliastra.

La Nuova oggettività
In Germania invece abbiamo la nascita della Nuova oggettività (in tedesco Neue Sachlichkeit): un
movimento artistico nato alla fine della prima guerra mondiale che coinvolse principalmente la
pittura.

L'anno più importante per il movimento fu probabilmente il 1925, quando si tenne una mostra
d’arte a Mannheim dedicata alla Nuova oggettività. Essa ebbe punti di contatto più o meno
marcati con il realismo, il neoclassicismo, l’espressionismo, il dadaismo e il surrealismo. In
particolare, fu come reazione all’espressionismo che alcuni artisti cercarono la rappresentazione
della realtà senza trucco; nel tragico dopoguerra tedesco questi artisti, disillusi e pieni di cinismo e
di rassegnazione, volevano osservare le cose concrete con amara acutezza e con una lucidità
descrittiva quasi glaciale, usando l’arte come un’arma, come un freddo specchio teso alla società
malata e corrotta. La Nuova oggettività si distingue tuttavia dal realismo, in quanto conserva una
certa componente emotiva, tipica della tradizione culturale tedesca: è per questa componente che
alcuni particolari vengono accentuati all’estremo ed intensificati espressivamente. In letteratura la
Nuova oggettività cercò una direzione sobria e realistica per rappresentare la società moderna con
l’accuratezza di un documentario ed apparentemente senza sentimenti, attraverso la pura e
semplice osservazione della realtà, senza il pathos tipico dell'espressionismo. Secondo questi
scrittori, la concezione del poeta come guida era stata spazzata via dal mondo moderno, dominato
dal progresso tecnologico. La Nuova oggettività terminò con la fine della Repubblica di Weimar e
con la presa del potere da parte dei nazisti, che consideravano la Nuova oggettività come arte
degenerata: fu allora che numerosi artisti emigrarono, per lo più verso gli Stati Uniti.

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