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Alle volte, ritornano.

Gli incubi, come i sogni, alle volte ritornano.E il tam tam, si estende.
Aveva incominciato il Corriere, che, vabbè, non è più quello di quando c’erano le
mezze stagioni ma è pur sempre il Corriere, con Mucchetti a evocare Beneduce come
stella polare per Luca Cordero di Montezemolo, presidente neo eletto di
Confindustria.
Rimbalza su L’Opinione, giornale più allineato, ma se leggo bene in una fila che non
mi piace; lo trovate sulla colonna a sinistra: “Aridetece l’Iri” di Biagio Marzo.La frase
clou è: “Avendo i governi passati distrutto l’Iri, gli strumenti di politica industriale
che sono in campo serviranno per la bisogna?” e più sotto “Sta di fatto che non si sa
più come intervenire, non avendo a disposizione strumenti di politica industriale”.
Ma torniano indietro.
Nell’articolo c’è un interessante excursus sulla nascita, sulla vita, sulla degenerazione
dell’Iri senza però che gli avvenimenti facciano tirare le conclusioni, che sono ovvie e
che abbiamo davanti agli occhi.
Beninteso, anche nel buco più nero c’è una scintilla di luce, non tutto è stato
inghiottito, qualcosa è stato anche rigurgitato.
I fatti sono la creazione di un capitalismo familiare legato a doppia corda al
capitalismo di stato, nulla ha a che vedere con il concetto di capitale in senso liberale.
Lo stato, grazie alle risorse che reperiva tramite le imposte, ha gestito una ricchezza
non sua nel solito modo con cui si gestiscono le cose degli altri, in maniera
burocratica creando corporazioni e clientele.
Il congegno dell’Iri, quando nacque con la benedizione del Duce e la gestione di
Beneduce, era studiato all’uopo: mentre sulle adunate delle camicie nere si fondava il
mito dell’Italia littoria (anni dopo cambiando colore alle camicie si creò il mito della
Resistenza), lo Stato italiano, sempre antidemocratico e antiliberale, fondato sulle
élites, metteva in piedi, lastricandoli di buone intenzioni, enormi carrozzoni dentro ai
quali c’era di tutto: industrie, banche, potere, politica, affari.
Riservate a pochi, ai migliori, sostenevano loro. Comunque per pochi intimi.
Si spartirono tutto quanto era possibile: nel primo dopoguerra, sempre per il bene
dell’Italia, non bastando l’Iri, fu creato il Ministero delle Partecipazioni Statali,
enorme idrovora che doveva trasferire risorse da chi le produceva, noi, a chi le
dissipava, loro.
Democristiani prima e socialisti poi.
Poi venne l’epoca delle nazionalizzazioni: tutto quello che produceva reddito doveva
passare sotto lo stato perché potesse meglio distribuire la ricchezza. Negli stati guida
il socialismo reale era il faro: qui si faceva quel che si poteva.
Quando la torta stava per finire anche perché chi la produceva e la infornava, noi,
cominciavamo a reclamare qualche fetta o a pretendere di fare qualche brioche per
conto nostro, fu giocoforza chiudere la baracca e tornare indietro.
Iniziò la fiera delle privatizzazioni o. per rendere la cosa più trendy, delle
liberalizzazioni.
Lo chiamarono mercato e capitalismo: falso non c’era mercato (in Europa ora ci sono
17.500 leggi doganali e dazi) non c’era capitalismo perché mancavano i capitali.
Niente paura, grazie alla politica si entra nelle banche, privatizzate ma in mano ai
privatizzatori, e le banche entrano nelle Grandi Aziende.
Grazie alla teoria economica della circolazione della moneta siamo riusciti a ripetere
il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. I soldi sono sempre quelli, solo
che girano, entrano, escono, entrano ancora e restano attaccati alle mani dei “soliti
noti”.
Questa, signori miei, è la politica economica, la pianificazione economica che si è
attuata in Italia per cent’anni; questo è lo strumento di cui (per ignoranza, per
comodo, per partigianeria) si sente la mancanza?
Non serve intelligenza, serve dignità.
Sono stato invogliato, da innominati signori, a studiare più da vicino un fenomeno
che non si trova molto descritto e non rientra negli strumenti di “politica industriale”:
quello che viene definito “modello Nordest”, il modello della piccola e media
industria, il modello dei distretti industriali che si è sviluppato ed esteso in molte
zone dell’Italia.
Ne parlo ora perché è la risposta liberale alla pianificazione centralizzata, di stampo
socialista e statalista.
È una realtà, che uscendo dagli schemi e dalle logiche del potere centrale, non viene
neppure menzionata, non dico presa in considerazione.
È invece la risposta particolare ed individuale di centinaia di migliaia di individui
che spontaneamente, giorno dopo giorno, hanno creato l’unica ricchezza, vera ed
indistruttibile, dell’Italia.
Quella che non questua interventi, che non ha mai avuto favori proprio per la fisica
lontananza dal Palazzo, per la selezione naturale di caratteristiche e qualità
imprenditoriali che cozzano contro la mentalità collusiva, partecipativa,
compromissoria che ha successo a fianco e dentro le concezioni pianificatorie
costruttiviste e interventiste.
È una questione genetica, prima che economica.
Andiamo a leggere cosa significa, in termini di peso economico, questo tipo di
organizzazione spontanea.
Lo leggiamo, in attesa di personali aggiornamenti, in un libro di qualche anno fa che
ha fatto scalpore, almeno dalle mie parti, per avere tolto il velo su realtà che, non
essendo sorte da un piano studiato da economisti sociali e adattato alla bisogna dai
politici di turno, non erano prese in considerazione come alternative economiche
reali.
Si tratta di “Schei [soldi]” di Gian Antonio Stella: “Roma o la stessa Milano non hanno le
idee chiare delle dimensioni del “fenomeno distretti”.
R&S Mediobanca 1995: tolte Fiat, Eni, Enel, Stet, Ferfin, Snam, i grandi sistemi a rete del
Veneto con gli altri ”grandi” del paese se la possono giocare.
Il polo della concia di Arzignano può contare su 660 aziende, dà lavoro ad oltre 8mila
persone, fattura 5.390 miliardi, cioè pari a quello di due giganti come l’Agip o la Pirelli.
E quello vicentino dell’oreficeria, il più importante del Paese, 1200 aziende e aziendine, oltre
10.000 gli addetti, 4.146 fatt. ’94, 2.850 export, è una realtà superiore a colossi come l’Olivetti
(4.146mld) o l’Alitalia (3.784mld).
Distretto dell’occhiale: alla fine del ’95 contava su 760 imprese artigiane, 160 industriali per
un totale di 11.000 addetti e 2.200 mld di fatturato globale. (Luxottica, Safilo, DeRigo). Ritmi
di lavoro da giapponesi, ritmi di vita da montanari, stipendi spesso molto alti (un meccanico
passa facile i 3 milioni), pace sociale (scioperi? non ne ricordiamo da quindici anni).
Manodopera che incide sul costo per il 55-60% ma non c’è nessuno che pensi alla Corea o a
Taiwan. Qui c’è l’80% del totale nazionale (35-40 milioni di occhiali) e una bella fetta
dell’europeo, ma c’è tutto il cervello dell’occhialeria mondiale.”
Credo sia il caso di tornare di dove eravamo partiti: “Sta di fatto che non si sa più
come intervenire, non avendo a disposizione strumenti di politica industriale”.
Il Signore voglia che non ci siano più strumenti disponibili. Il Signore voglia, e i
governi pure lo vogliano, assecondare, seguire, dare fiducia a quelle persone che
individualmente, rischiando il loro denaro, il loro lavoro e la loro vita, cercando il
loro vantaggio personale portano benessere a tutti.
Non è impoverendo l’Italia che si crea ricchezza; le nazioni, le aziende non sono nate
ricche: lo diventano se creiamo le condizioni.
Imposte ridotte, infrastrutture e libertà: i piani sono stati già sconfitti dalla storia.
roberto rossi – 2 apr 2004
www.acquario.splinder.com

magnifico pezzo e....

Mandato da cappuccettorosso Venerdì, 02 aprile 2004, 16:19.


linearmente vero.....in un Italia e in un'Europa a catasfascio rimangono solo "quelle"
imprese che hai descritto così bene....speriamo che a nessuno venga in mente di
metter loro il bavaglio e altri lacci....come avevano cominciato a fare i compagni di
Visco ....

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