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3Graffiti e geografia

Evoluzione di una città e Mediterraneo

Introduzione

I graffiti che si possono trovare per le vie di Tunisi non sono dei banali disegni o il frutto di atti vandalici, sono
il simbolo delle rivolte nate in Tunisia tra la fine del 2011 e l’inizio del 2011 e conosciute col nome di Primavera
Araba. Man mano che il conflitto si è spostato in altri paesi dell’Africa del Nord e del Medio oriente, ha
lasciato, come nel caso della Tunisia, i suoi segni sui muri delle città interessate, tramite altri graffiti. Ma, oltre
a rappresentare un simbolo delle primavere arabe, è anche una testimonianza della teoria che afferma
l’unicità del Mediterraneo.

Cenni storici

Il termine primavera araba è stato creato dai media per fare riferimento alla serie di rivolte iniziate il 14
gennaio 2011 in Tunisia. L’evento che da inizio alla rivolta è la morte di Mohammad Bouazizi, un venditore
ambulante di 26 anni, che il 18 dicembre 2010 si è dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi
Bouzid, per protestare contro il sequestro della propria merce da parte delle autorità e contro il regime di
Ben Ali. Questo gesto non è passato inosservato ed ha avuto delle forti conseguenze: la gente è scesa in
piazza ogni giorno, con l’intenzione di fare fuori il regime corrotto di Ben Ali. Ben salì al potere nel 1987 e fu
il secondo presidente della Repubblica di Tunisia. Instaurò una repubblica “laica”, appoggiato dagli stati
occidentali che vedevano nella Tunisia di Ben Ali un sostegno e uno stimolo alla diffusione del laicismo in
Nord Africa. Il suo regime dittatoriale ha portato all’aumento della disoccupazione, della povertà e della
corruzione. Un altro fattore che portò alla fine del governo di Ben Ali fu anche la mancanza di libertà
d’espressione e di stampa e la laicizzazione forzata: era impossibile anche solo nominare il nome del
presidente o parlare di politica senza rischiare di finire in prigione, mentre, dal punto di vista religioso, era
vietato ai musulmani praticare appieno la propria religione. Queste furono le ragioni che portarono
Muhammad Bouazizi a compiere l’estremo gesto che ha così dato inizio alla “rivoluzione dei gelsomini”. A
seguito dell’inizio delle manifestazioni di protesta nei confronti del suo regime totalitario, il 13 gennaio Ben
Alì pronunciò un discorso, nel tentativo estremo di riavvicinarsi al popolo, dichiarando di avere commesso
degli errori perché mal consigliato e mal informato sullo stato reale del paese, promettendo libertà di stampa
e di espressione. Il 14 gennaio, dalle prime ore del mattino, i manifestanti, cittadini di ogni estrazione sociale,
si radunano presso Place de la Kasbah, centro del potere politico e militare, dirigendosi verso il palazzo del
ministero dell’interno, che viene considerato il simbolo della repressione poliziesca. Nel corso della
manifestazione sono diversi gli slogan urlati dai manifestanti, ma uno si distingueva dagli altri: “dégage”, una
parola francese che significa “vattene”, riferita all’ancora, per poco, presidente Ben Ali. Nel pomeriggio dello
stesso giorno infatti, Ben Ali abbandonò il paese, arrivando in Arabia Saudita.

Il Mediterraneo, da sempre un luogo di scambi referenziale, cerniera tra le varie civiltà che vi si affacciano,
frontiera che mette in contatto tre continenti, struttura conflittuale che gestisce i

dislivelli tra società, modelli di sviluppo e sistemi politici diversi, si conferma tuttora con “la

primavera araba” come un punto sensibile della politica globale dove affiorano tutte le tensioni e

le problematiche comuni all’intero sistema mondo. Nell’anno 2011 infatti, la regione mediterranea

ha visto, l’irrompere imprevisto delle rivoluzioni arabe nei paesi della riva sud, manifestandosi il

risveglio democratico dei paesi i cui popoli sono costituiti per oltre il 50% da giovani sotto i

trent’anni in nome della libertà e della dignità. Sono protagoniste le giovani generazioni, i “nativi
digitali” espressione della cultura postmoderna originata dalla rivoluzione tecnologica

dell’informazione e della comunicazione, accomunate da istanze democratiche e di giustizia

sociale. Si assiste all’implosione delle società da nord a sud, che, anche se in contesti e modi

diversi, esprimono le due facce della stessa medaglia, dello stesso disagio socio‐economico che

tormenta la regione mediterranea.

L’effetto domino: i disordini si sono diffusi rapidamente Molti Paesi hanno subito l’onda d’urto di una
protesta che è fatta di pochi concetti fondamentali: democrazia, dignità, lavoro, libertà; una richiesta di
giustizia e libertà da parte di masse giovani e alfabetizzate nei confronti di autocrazie corrotte e restie a
qualsiasi tipo di cambiamento. In Egitto, la rivoluzione è meglio nota con il nome “rivoluzione del Nilo”
verificatasi a partire dal 25 gennaio del 2011. Il moto di protesta popolare egiziano, imperniato sul
desiderio di rinnovamento politico e sociale contro il trentennale regime del presidente Hosni Mubarak, si è
inizialmente manifestato con mezzi pacifici, ispirati alle proteste organizzate in Tunisia e in altri paesi arabi
che hanno portato alla destituzione del capo dello stato Ben Ali e a incidenti in numerosi stati, ma ha poi
conosciuto sviluppi violenti, sfociando in aspri scontri che hanno provocato numerose vittime tra
manifestanti, poliziotti e militari. La protesta esordisce il 25 gennaio, quando venticinquemila manifestanti
scendono in piazza, nella capitale, per chiedere riforme politiche e sociali; la manifestazione si trasforma
poi in scontro aperto con le forze dell’ordine, con tumulti che hanno lasciato sul terreno diverse vittime. Lo
stesso giorno i principali social network, tra cui Twitter e Facebook, appaiono oscurati, secondo alcuni per
iniziativa delle autorità per evitare che le notizie in diretta sulle proteste nel paese facciano il giro del
mondo; il vero problema dell’Egitto è da sempre la corruzione, la distribuzione poco equilibrata della
ricchezza. Se una percentuale bassissima della popolazione detiene la maggior parte della ricchezza del
paese, più del 20% degli egiziani vive al di sotto della soglia della povertà. L’assedio non pare placarsi, il 2
febbraio si decide di mantenere i presidi nel centro della capitale egiziana; si introduce anche il coprifuoco e
la tensione si impegna più che mai, causando sempre numerosi feriti, tra i dimostranti a favore di Mubarak
e i contrari. Il 3 febbraio si accende un intenso conflitto a fuoco, dove perdono la vita diversi manifestanti e
dove si contano centinaia di feriti: Il Cairo è in uno stato di guerriglia urbana, si susseguono posti di blocco e
checkpoint. Finalmente, a seguito di intense trattative e di un braccio di ferro tra le opposizioni e il governo,
Mubarak, dopo trent’anni, annuncia le sue dimissioni l’11 febbraio 2011. In Libia gli oppositori di Gheddafi
hanno scatenato violente sommosse a Bengasi, città simbolo della rivolta. Dal febbraio all’ottobre 2011 c’è
stata una guerra civile tra le forze del regime e i ribelli, conclusasi, anche grazie all’intervento ONU, con la
vittoria dei ribelli e la morte di Gheddafi. Dopo qualche mese furono scelti i membri dell’assemblea che
scrissero la Costituzione, venne eletto il presidente della Repubblica e organizzate le prime vere elezioni.
Ma la situazione più dolorosa è vissuta dai Siriani, che dal marzo del 2011 stanno portando avanti una
rivoluzione contro una delle dittature più feroci del mondo, quella del regime poliziesco di Assad, che tiene
la Siria in pugno dal 1971. All’alba di questa rivoluzione, le manifestazioni erano completamente pacifiche,
si chiedevano riforme al presidente Basshar al-Assad. Nonostante ciò, il governo rispose piazzando cecchini,
intensificando i controlli dei servizi segreti, accerchiando intere cittadine con carri armati, con relativi
bombardamenti e massacri, con lo scopo di sfinire e sterminare chiunque osasse ribellarsi. Ma questo non
fece altro che far estendere le rivolte; infatti gli stessi soldati siriani, indignati per la Piazza Tahrir fulcro
della rivoluzione egiziana richieste disumane del governo, si ribellarono, formando quello che viene
chiamato “L’Esercito Siriano Libero”, con lo scopo di proteggere i manifestanti indifesi. A questi si unirono
siriani da ogni strato sociale poiché avevano compreso che il regime non cercava riconciliazione né dialogo.
Le armi che impugnano, ovvero quelle che sono riusciti a sottrarre dall’esercito governativo, le usano per
difendere sé stessi e soprattutto i loro figli. A prova del mancato appoggio dei siriani ad Assad è il fatto che
ormai lui è costretto ad utilizzare mercenari provenienti soprattutto da Libano e Iran (in minor parte anche
da Russia e Iraq) per ammazzare i siriani. Ad appoggiarlo sono solo i suoi fedelissimi, ovvero i generali
dell’esercito, che lui aveva scelto prendendoli dal suo stesso “clan” (gli alawiti) e le truppe dei shabbiha,
ovvero dei delinquenti ex-detenuti che il regime ha liberato dalle prigioni e pagato profumatamente. Questi
soggetti, in risposta ai reclami di libertà dei manifestanti, ribattevano con slogan come “o Assad, o
bruciamo il Paese”, svelando, in effetti, i reali intenti del regime. I siriani morti sono quasi 150 mila. L’85%
sono civili; quelli che ora vivono di stenti in campi profughi fuori e dentro il paese, oppure nelle campagne,
oppure vagano senza meta per paura di morire sotto le macerie delle loro case a causa dei missili e delle
bombe, sono quasi 10 milioni. (Su una popolazione iniziale di 25 milioni) Il 66% di questi sono bambini.
L’intervento esterno è sbarrato da Russia e Cina, che col loro veto e con il loro dichiarato appoggio ad
Assad, impediscono all’ONU di intervenire in favore dei siriani liberi. Nel mentre, assieme all’Iran, vendono
le loro armi al regime. La repressione è volta al radere al suolo intere cittadine, se possibile: il regime usa
missili a lunga gittata (Scud e S-300), veri e propri caccia da guerra (i MiG) ed elicotteri, carri armati ed interi
massacri sono stati compiuti anche con coltelli, lastre di cemento ed accette. È noto l’utilizzo di armi
chimiche da parte del regime già dal 2012 sulla cittadina di Aleppo. Tuttavia, Obama (che aveva posto il
chimico come “linea rossa”) non le ha prese per affidabili, nonostante il 27 maggio 2013 il reporter francese
Laurent Van der Stockt si trovava proprio nel quartiere Jobar di Damasco, accompagnato dai ribelli,
documentando così il momento in cui il regime ha preso a bombardare la zona con le armi chimiche. Nulla
tuttavia si è fatto. Il mondo neanche più guarda laggiù. Non si conosce ancora la data del prossimo incontro
(il cosiddetto “Ginevra 2”) nel quale si dovrebbe trovare la soluzione alla crisi siriana. Intanto i siriani
muoiono a migliaia come se avessero il valore di insetti. Ogni giorno altre migliaia si ritrovano senza casa,
senza padre, senza madre, senza più i propri figli. E se coloro che ne hanno la possibilità decidono di
prendere le armi e di difendersi vengono chiamati “ribelli armati”, “rivoltosi” oppure “terroristi”.

Graffiti e Primavera Araba

Graffiti e Mediterraneo

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