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Mira concordia: l’universo attraverso gli occhi di un

medievale — Matteo Macinanti


…tutte le immagini portano scritto:
"più in là"!

E. Montale, Maestrale

Un universo polifonico


Quando avrai osservato l’eleganza e la magnificenza dell’universo in tutte le sue componenti,


spirituali e corporali, troverai senza dubbio che tutte le cose, quelle plurime come quelle singole,
esclamano, o meglio, cantano e fanno risuonare in armonia le lodi e la gloria del Creatore, grazie alla
dolcezza della musica; troverai anche che lo stesso universo è come un cantico bellissimo e che Egli
stesso, per mezzo della sua cetra che è l’unigenito figlio di Dio, compone un’armonia di ineffabile
soavità.


È all’altezza cronologica della prima metà del XIII secolo che si attestano queste parole, non
scevre di un certo respiro poetico e metaforico, eternate nel De Anima di Guglielmo
d’Alvernia. D’altronde, per uno scrutatore dell’universo del ‘200 sarebbe impossibile fare a
meno della figura metaforica: strumento prediletto dai pensatori medievali, al pari delle sue
sorelle — l’allegoria e la simbologia — la metafora connatura nel contemplans l’emozione
suscitata dalla sua percezione del cosmo; meta-phérein, “portare oltre”.

Colto nella sua impossibilità di significar per verba — come dirà Dante, un altro grande
scrutatore coevo — la multiforme realtà e sovra-realtà che, attraverso le vetrate policrome
delle chiese, irradia senza posa su di un mundum immundum fatto di straccioni, folli,
cavalieri, santi, vescovi, sovrani e papi, l’homo medievalis tasta con mano i limiti del suo
linguaggio, quindi del suo mondo, ricorrendo alla poesia come mezzo descrittivo e alla
musica come immagine dell’armonia universale.

Da dove deriva il vescovo Guglielmo questa entusiastica visione di un universo sorretto
dall’armonia di un Deus modulator? Per rispondere a tale questione è necessario proseguire
con la lettura del brano.


Allora ti apparirà chiaramente che le creature più sublimi e nobili intoneranno un canto con voci
molto acute ed eccelse; successivamente le creature sensibili e inanimate risponderanno al canto con
voci assai profonde e gravi; e poi tutte le altre creature, secondo la loro specie, risuoneranno alcune in
modo grave e altre in modo eccelso e acuto e si accorderanno in una concordia mirabile, producendo

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un’armonia di estrema letizia; un’armonia non udibile da orecchie corporali, ma godibile nella sua
soavità ineffabile solo tramite un udito spirituale.


Leggendo, o piuttosto assaporando, il testo in questione nella versione originale, non si può
fare a meno di notare un profluvio di superlativi assoluti (sublimissimas, nobilissimas,
excelsissimas, acutissimas, gravissimas, densissimas) che tradiscono una scrittura solo
apparentemente ingenua e corriva; quasi il resoconto di una visione inaspettata da fissare
d’impulso sulla carta per non dimenticarne i dettagli.

Qual è il retroterra che fa da sfondo a questa immagine metaforica, indubbiamente icastica,
adoperata dal vescovo francese?


Parigi tra XII e XIII secolo: una città-cantiere


Come ricorda il cronista Giovanni da San Vittore, fu il papa stesso, Alessandro III, a porre nel
1163 la prima pietra della futura Cattedrale di Notre-Dame di Parigi, emblema all’unanimità
del gotico. Tuttavia il vescovo Maurice de Sully, promotore dell’edificazione della
Cathédrale, poteva già disporre di un esempio mirabile di architettura gotica ad alcune miglia
dalla capitale del Regno di Francia. Poco meno di trent’anni prima, infatti, la costruzione
della Basilica di Saint-Denis aveva dato il via alla grande stagione dell’opus francigenum
(solo successivamente rinominato “gotico”) il quale, come è noto, era riuscito a dare ai nuovi
edifici un considerevole slancio verticale per mezzo di tecniche di scarico del peso.

Tali innovazioni non derivavano solamente da un mero gusto per lo sviluppo della tecnica,
bensì rispondevano a delle precise esigenze di natura estetica. Nell’intraprendere la
costruzione della nuova basilica, l’abate Sugerio affidava lo sgorgare dei suoi pensieri alla
carta, arrivando a costituire quello che, un po’ infelicemente, è stato considerato il manifesto
della nuova estetica gotica. Scrive Sugerio:


Quando — con mio grande diletto nella bellezza della casa di Dio — l’incanto delle pietre multicolori
mi ha strappato alle preoccupazioni esterne, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale,
allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto
chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia
di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per una via anagogica.

Dal mondo inferiore al mondo superiore: Sugerio non ha dubbi sulla composizione
dell’universo. Esso risulta dall’intreccio di due parti distinte il cui legame inscindibile si
rifrange nella quotidianità. Tale condizione è stata magistralmente descritta da un grande
storico come Johan Huizinga, il quale, indagando sul “senso segreto del mondo” medievale,
riferisce:


Di nessuna grande verità lo spirito medievale era tanto convinto quanto delle parole di San Paolo ai
Corinzi: “ora vediamo oscuramente come attraverso uno specchio, allora invece vedremo
direttamente”. Il Medioevo non ha mai dimenticato che qualunque cosa sarebbe assurda, se il suo

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significato si limitasse alla sua funzione immediata e alla sua forma fenomenica, e che tutte le cose si
estendono per gran tratto nell’aldilà. 


Se il sociologo Lewis Mumford a proposito di ciò parla di “situazione nevrotica” (fuga dalla
realtà, dissociazione dal reale ecc…), l’analisi psicologica che lo storico olandese conduce
sull’homo medievalis non si limita all’autunno del Medioevo, ma, nel nobile intento di
rendere più comprensibile un mondo tanto lontano, Huizinga si spinge a ricercare le
continuità col sentire dell’uomo contemporaneo:


Questa idea è familiare anche a noi, come sensazione non formulata, quando ad esempio il rumore
della pioggia sulle foglie degli alberi o la luce della lampada sul tavolo, in un’ora tranquilla, ci dà una
percezione più profonda della percezione quotidiana, che serve all’attività pratica. Essa può talvolta
comparire nella forma di una oppressione morbosa che ci fa vedere le cose come impregnate di una
minaccia personale o di un mistero che non si dovrebbe e non si può conoscere. Più spesso però ci
riempirà della certezza tranquilla e confortante, che anche la nostra esistenza partecipa di quel senso
segreto del mondo.


Altezza e profondità


“Una percezione più profonda della percezione quotidiana”. Nel sistema terminologico
proprio della mentalità medievale, come di quella latina, l’altus — parola-chiave del
vocabolario gotico — non si sviluppa solo in verticale, bensì scandaglia anche la dimensione
della profondità; come per Virgilio i fiumi profondi sono gli “alta flumina”, così Gilberto di
Hoyland, abate inglese del XII secolo, può chiedersi:


An non tibi quidam puteus altus videtur ille, in quo reconditi sunt omnes thesauri sapientiae et
scientiae Dei?

[Non ti sembra forse un pozzo profondo quello in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della
scienza di Dio?]


Appare chiaro come la visione dell’universo dell’homo medievalis, spesso da noi appiattita in
un verticalismo quasi ingenuo e primitivo tra l’uomo e Dio, in realtà acquisti una profondità e
una nuova dimensione molteplice e polisemica — a volte anche al limite del parossismo — in
cui a risaltare è la parola plurale.

Due testes a riprova di ciò: per i nostri Guglielmo, Maurice, Sugerio e Gilberto, un oggetto
non è mai solo un oggetto ma è l’insieme di tutte le realtà (terragne, ctonie o supere) che
danno consistenza ad esso; così il serpente è al contempo la “bestia selvatica più astuta” del
Giardino edenico e il “serpente di bronzo” salvifico dell’episodio biblico di Numeri 21,4-8.

Un ulteriore riscontro ci giunge nuovamente dall’arte. La questione dell’altus — sia “alto”
che “profondo” — nell’ambito visuale assume infatti i contorni della problematica intorno
alla prospettiva. Si è soliti infatti collegare spontaneamente la tecnica prospettica al
cosiddetto Rinascimento — quod iustum est — dimenticandosi però che già negli artisti

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duecenteschi come Pietro Cavallini o Giotto di Bondone il problema della corporeità e della
profondità aveva assunto un ruolo tutt’altro che trascurabile. Esso infatti porta in nuce una
carica di natura psicologica, certamente sbocciata successivamente, che di rado è messa in
luce. A ragione, l’illuminato storico dell’arte Erwin Panofsky rilevava, quale notevole
distinzione tra il Gotico e il precedente Romanico, il “rinnovato interesse per la psicologia
che era stato dormiente per diversi secoli”.

La prospettiva e la percezione della profondità attraverso cui l’uomo dei secoli XII e XIII
entra in contatto con la realtà non è certamente l’artificio mirabile della tecnica che
caratterizzerà i secoli successivi, ma è l’arte della per-spectiva, ossia del per-spicere
“guardare attraverso”: uno sguardo psicologico sulla pluralità del reale visto come uno
specchio attraverso cui vedere una Realtà altra.


Il termine prospettiva ebbe nella tradizione medievale un significato particolare. Tale termine non
riguardava le tecniche particolari di rappresentazione pittorica sul piano di figure a tre dimensioni, che
furono piuttosto una scoperta della pittura del Rinascimento italiano, ma lo studio dei problemi della
luce, di ordine teologico, ontologico, gnoseologico o solamente fisico, che nel Medioevo si trovarono
discussi in particolari trattati […] con il titolo di Perspectiva. (G. Federici Vescovini)

Lo sguardo prospettico medievale è pertanto munito di quella chiave atta ad aprire e a gettare
luce sul pozzo profondo del molteplice, per immergersi nella sconfinata enciclopedia del
mondo.


La polifonia di Notre-Dame: la musica plurale


Nel suo volume capitale Architettura Gotica e Filosofia Scolastica, Panofsky ha tracciato un
profilo indelebile delle concatenazioni tra lo sviluppo dell’arte gotica e la sistematizzazione
del pensiero filosofico della Scolastica: non tanto una mutua influenza o un semplice
parallelismo, bensì, secondo le parole dello storico, una “naturale relazione di causa-effetto”. 

Sulla scorta di Panofsky, il musicologo Nino Pirrotta allargava la questione al campo della
musica (Dante Musicus: Gothicism, Scholasticism, and Music); mettendo a confronto il
modus operandi del pensiero artistico, intellettuale e musicale, emerge infatti il modus
essendi e la forma mentis che presiedono alla concretizzazione fenomenica attuata in questi
tre campi. Risulta estremamente evidente infatti la correlazione tra lo sviluppo vorticoso delle
strutture architettoniche e l’edificazione di cattedrali intellettuali che troveranno nella Summa
Theologiae di San Tommaso d’Aquino la loro ecclesiarum mater. Tuttavia, anche la musica
non risulta estranea a questa spazializzazione del pensiero (Le Goff): posto di fronte
all’interdizione di modificare il tradizionale canto liturgico monofonico (ossia, tutte le voci
cantano all’unisono la stessa melodia) perché opera dello stesso Spirito Santo, il musicus del
XII secolo si serve del cantus planus gregoriano come fondamento per la costruzione di

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edifici sonori a due, tre, quattro voci (organa).

È la stagione della Scuola musicale di Notre-Dame e del suo prodotto più illustre: la
polifonia. Ora le voci non seguono più uno stesso profilo melodico come espressione di un
singolo corpo teologico e sonoro, ma a volte dialogano, a volte si scontrano e si intrecciano in
un’ “armonia di ineffabile soavità”, alla ricerca di una concordia che derivi dal molteplice e
dal plurale.

Possiamo così rispondere finalmente ai quesiti posti all’inizio riguardo alla visione descritta
da Guglielmo d’Alvernia. Sebbene il teologo asserisca che l’organum cosmico da lui
descritto sia udibile solo ad un livello spirituale, appare ora palese la fonte storica alla quale
egli si rifà come modello per la sua armonia universale: le nuove polifonie e i giochi di
risposta tra voci acute, medie e gravi che venivano intessuti durante le solenni cerimonie alle
quali — molto probabilmente proprio nella stessa Notre-Dame — partecipava in qualità di
vescovo della città di Parigi e nelle quali risuonava la profondità e l’altezza dell’armonia
plurale.



Matteo Macinanti

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