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Le cause di estinzione dei trattati agiscono su trattati correttamente formati. Non tutte le
cause di estinzione dei trattati sono indicate nella Convenzione di Vienna, in quanto spesso
sono i trattati stessi a prevedere al loro interno delle cause di estinzione. Le cause di
estinzione possono quindi suddividersi in cause interne al trattato e in cause esterne al
trattato.
La Convenzione di Vienna, all’art. 54, prevede che un trattato cessa di produrre i suoi
effetti in conformità alle disposizioni contenute nel trattato stesso. Un trattato può quindi
estinguersi perché contiene un termine finale, perché prevede una condizione risolutiva o
perché regola la denuncia o il recesso.
La volontà degli Stati parti di estinguere un trattato può anche manifestarsi attraverso la
conclusione di un nuovo accordo. L’art. 59 stabilisce che un trattato è considerato estinto
se tutti gli Stati contraenti procedono successivamente alla conclusione di un nuovo
trattato finalizzato a regolare la stessa materia in modo diverso. Si tratta dunque
dell’ipotesi di un trattato avente medesimo oggetto e stesse parti contraenti: ai fini
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dell’estinzione di un trattato è necessaria la perfetta coincidenza tra i soggetti parti del
primo trattato e i soggetti parti del secondo trattato.
Cosa succede, invece, se non c’è simmetria, ovvero se solo alcuni Stati parti del trattato
antecedente concludono il trattato successivo? In questo caso il trattato antecedente:
- si estingue nei rapporti tra gli Stati che concludono il trattato successivo;
- non si estingue nei rapporti tra gli Stati che non concludono il trattato successivo;
- non si estingue neppure nei rapporti tra gli Stati che concludono il trattato
successivo e gli Stati che non ne diventano parti contraenti.
Per questo motivo l’art. 56 della Convenzione di Vienna stabilisce il principio in base al
quale se un trattato non contiene disposizioni relative alla sua estinzione e non prevede la
possibilità per gli Stati contraenti di denunciare il trattato o di recedere dal trattato, il
trattato non può formare oggetto di una denuncia o di un recesso. Questo principio viene
però temperato dalla successiva previsione di due eccezioni.
In secondo luogo, la possibilità della denuncia o del recesso può essere dedotta dalla
natura del trattato. In base alla natura del trattato avremo trattati “a tempo
indeterminato” e trattati “a tempo determinato”. I trattati che delimitano le frontiere
non possono essere denunciati o da essi non si può recedere; al contrario i trattati di
natura prettamente politica possono essere oggetto di denuncia o di recesso, poiché
l’esistenza del vincolo dipende da una condizione politica che in seguito potrebbe
venire meno, come alleanze militari, trattati di amicizia o di collaborazione
economica.
Un problema che si pone è se il recesso di uno Stato sia ammissibile o meno rispetto
ai trattati in materia di tutela dei diritti dell’uomo. Il problema si è posto
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concretamente rispetto al Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del ‘66.
La Corea del Nord, stanca delle critiche che le venivano rivolte dal Comitato per i
diritti umani in merito alla sua non corretta applicazione delle disposizioni pattizie,
annunciò il suo recesso dal Patto, che però nulla dice in merito alla possibilità di
recesso. Ebbene, il Comitato per i diritti umani, in risposta, affermò che una volta che
dei diritti umani sono stati riconosciuti in capo agli individui per effetto della
conclusione di un trattato, tali diritti non rientrano più nella disponibilità dello Stato,
il quale non può pertanto recedere dai trattati che li prevedono.
Finora sono state descritte le cause di estinzione interne al trattato. Passiamo ora ad
esaminare le cause di estinzione esterne al trattato. La Convenzione di Vienna ne individua
quattro: violazione sostanziale del trattato; impossibilità sopravvenuta; mutamento
fondamentale delle circostanze e contrasto con una norma cogente formatasi
successivamente al trattato.
È prevista dall’art. 60 della Convenzione di Vienna. Questa norma ci dice che non tutte le
violazioni sono suscettibili di determinare l’estinzione del trattato; perché un trattato possa
estinguersi la violazione deve essere sostanziale. Ed è lo stesso art. 60 a dirci quando una
violazione è sostanziale. Una violazione è sostanziale quando si viola una norma essenziale
per la realizzazione dello scopo del trattato (ad esempio nel caso dell’Accordo generale
sulle tariffe e sul commercio, il c.d. GATT, che si prefigge lo scopo di liberalizzare le
importazioni e le esportazioni nel commercio tra gli Stati, la violazione del divieto di
restrizioni quantitative alle importazioni costituisce una violazione essenziale).
a. La prima alternativa consente agli Stati contraenti di estinguere il trattato nei loro
rapporti con lo Stato che ha commesso la violazione o di estinguere il trattato nel suo
complesso.
Prendiamo, ad esempio, il caso della Convenzione sulle relazioni diplomatiche tra gli
Stati, la quale impone l’inviolabilità degli agenti diplomatici, ed ipotizziamo che un
poliziotto italiano, su autorizzazione del Governo, maltratti ed imprigioni un agente
diplomatico francese compiendo così una violazione grave della Convenzione. Stando
alla prima alternativa, tutti gli Stati parti della Convenzione, di comune accordo,
potrebbero decidere di estinguere in toto la Convenzione o di estinguerla solo nei loro
rapporti con l’Italia (si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di una sorta di espulsione
dello Stato dal trattato). In entrambi i casi deve esserci l’accordo unanime degli Stati
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parti, nel senso che la Francia da sola non potrebbe dichiarare l’accordo estinto nei
suoi rapporti con l’Italia.
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5. L’impossibilità sopravvenuta di dare esecuzione al trattato.
Ai sensi dell’art. 61 della Convenzione di Vienna, se un Stato non può più dare esecuzione
al trattato, il trattato si estingue a condizione che questa impossibilità risulti dalla
scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile per dare esecuzione
del trattato; se, invece, l’impossibilità è solo temporanea, il trattato può essere sospeso.
L’impossibilità di esecuzione non può essere invocata da uno Stato se tale impossibilità
deriva dalla violazione di un obbligo internazionale che quello stesso Stato ha commesso.
L’esempio classico è quello di un trattato che prevede l’obbligo di restituire un opera d’arte,
opera che però si distrugge durante il trasporto. In questo caso il trattato dovrà
considerarsi estinto. Potrà invece considerarsi sospeso se l’opera sia risultata solo
danneggiata e abbisogni di lavori di restauro.
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avere l’effetto di modificare radicalmente il peso degli obblighi tra gli Stati parti del
trattato.
Questa causa di estinzione può facilmente prestarsi ad abusi: per questo motivo lo stesso
art. 62 introduce due limiti:
uno Stato non può invocare tale causa di estinzione se il mutamento delle
circostanze dipende totalmente o anche solo parzialmente da un suo
comportamento illecito, in violazione degli obblighi del trattato, o di altre norme
dell'ordinamento internazionale generale.
L’ultima causa di estinzione del trattato è prevista dall’art. 64 della Convenzione di Vienna,
il quale prevede l’estinzione del trattato che entra in contrasto con una norma cogente che
non esisteva al momento della sua stipulazione ma viene ad esistenza in un momento
successivo.
La Convenzione di Vienna prevede regole procedurali che gli Stati devono rispettare per far
valere le cause di invalidità o di estinzione dei trattati. La Convenzione introduce il
principio in base al quale, nel caso di una controversia, uno Stato non può considerarsi
svincolato dal trattato fino a quando non sia stata accertata la fondatezza di una causa di
invalidità o di estinzione. Fino alla risoluzione della controversia, pertanto, il trattato
continuerà a produrre i suoi effetti. Tale obiettivo viene raggiunto imponendo precisi
obblighi procedurali:
È difficile però pensare che queste regole corrispondano al diritto consuetudinario così
esse vincolano solo gli Stati parti della Convenzione di Vienna e non anche gli Stati non
parti. Dobbiamo allora chiederci se esistono degli obblighi procedurali sul piano del diritto
internazionale generale.
Sul piano del diritto internazionale generale, lo Stato, nel momento in cui dichiara invalido
o estinto un trattato, può considerarsi svincolato dal trattato stesso. Se però
successivamente dovesse insorgere una controversia e un giudice internazionale dovesse
accertare la non fondatezza della causa di invalidità o di estinzione invocata, lo Stato che
ha infondatamente invocato la causa sarà considerato responsabile di un illecito
internazionale.
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______________5.3.6______________
LA SUCCESSIONE DEGLI STATI NEI TRATTATI
Quando abbiamo parlato della nascita degli Stati abbiamo visto che oggi i nuovi Stati si
formano in seguito a processi di trasformazione di preesistenti Stati, consistenti
fondamentalmente nella dissoluzione e nel distacco. Vedremo ora se i diritti e gli obblighi
dello Stato predecessore si trasmettono allo Stato che si è sostituito al primo nel governo di
un territorio. Pensiamo allo smembramento dell’Unione Sovietica e domandiamoci che
fine hanno fatto i trattati conclusi dal governo sovietico: sono diventati vincolanti per i
nuovi Stati sorti sul territorio sovietico oppure no? Pensiamo ancora al distacco del Kosovo
e di Montenegro dalla Serbia e chiediamoci se i trattati conclusi dal governo serbo quando i
territori kosovaro e montenegrino erano sottoposti alla sua sovranità continuano a
vincolare il Kosovo e il Montenegro ora che sono divenuti indipendenti.
La successione degli Stati nei trattati è regolata dal diritto consuetudinario. A dire il vero,
esiste in materia anche una convenzione, ovvero la Convenzione di Vienna del 1978 sulla
successione degli Stati nei trattati, ma tale convenzione ha recepito solo in parte la
disciplina vigente a livello di diritto internazionale generale e tra l’altro ha avuto uno
scarso successo, in quanto è stata ratificata da un numero estremamente esiguo di Stati.
Pertanto l’attenzione va concentrata sul diritto consuetudinario.
Il diritto consuetudinario opera una distinzione tra i trattati localizzabili i trattati non
localizzabili. I trattati localizzabili sono quelli che impongono obblighi e conferiscono
diritti rispetto ad un determinato territorio. Pensiamo ai trattati che delimitano le
frontiere, ai trattati che prevedono diritti di passaggio, ai trattati che stabiliscono diritti di
pesca o di navigazione o ancora ai trattati che prevedono la smilitarizzazione di un dato
territorio.
Solo rispetto ai trattati localizzabili vige il principio della continuità dei trattati. In
base a tale principio, lo Stato che si sostituisce ad un altro nel governo di un
territorio è vincolato dai trattati localizzabili conclusi dal predecessore.
Per quanto riguarda i trattati non localizzabili si applica il principio della tabula rasa,
ai sensi del quale il nuovo Stato non è vincolato dai trattati conclusi dal predecessore.
La Convenzione di Vienna del ‘78 si allontana dal diritto consuetudinario, laddove accoglie
il principio della tabula rasa solo con riguardo agli Stati sorti dal processo di
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decolonizzazione, affermando, in relazione a tutti gli altri casi, il principio della continuità
dei trattati.
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LA RESPONSABILITÀ INTERNAZIONALE DELLO STATO
Per prima cosa occorre esaminare l’approccio che è stato seguito dalla Commissione di
diritto internazionale nell’elaborare il Progetto di articoli. Per iniziare con qualche dato
storico. A partire dal 1946 l’Assemblea generale iniziò a sollecitare la Commissione di
diritto internazionale affinché si occupasse di questo tema; solo negli anni ‘50 la
Commissione iniziò uno studio finalizzato alla codificazione delle regole in materia di
responsabilità; studio che si bloccò alla fine degli anni ‘50 per via della difficoltà della
Commissione di impostare il suo lavoro. Nel 1970 questa situazione di stallo si sbloccò e la
Commissione proseguì nel suo lavoro fino a quando, nel 2001, si approvò il Progetto di
articoli.
Il merito della soluzione di questo ostacolo si deve al giurista italiano Roberto Ago che era
allora membro della Commissione, il quale ebbe l’idea di svincolare le norme in materia di
responsabilità dal tipo di norma violata. Il presupposto era che le norme sulla
responsabilità fossero sempre le stesse, a prescindere dunque dall’obbligo violato. Perché
l’intuizione di Ago permise di sbloccare il lavoro della Commissione? Perché la precedente
impostazione imponeva alla Commissione di identificare prima il contenuto dell’obbligo
violato e poi di dire in relazione a questo obbligo quali erano le conseguenze che
discendevano dalla sua violazione. Seguendo questo approccio, si sarebbe dovuto prendere
in esame il contenuto di tutti gli obblighi esistenti nell’ordinamento giuridico
internazionale. Il lavoro della Commissione si alleggerì enormemente, poiché non si
doveva più ricostruire l’intero regime degli obblighi internazionali ma soltanto individuare
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una serie di regole neutre (neutre rispetto al contenuto dell’obbligo violato). Quali sono
queste regole?
2) La seconda parte del Progetto tratta le conseguenze dell’illecito che gravano sullo
Stato autore dell’illecito. Tali conseguenze sono riconducibili all’obbligo di cessare il
comportamento illecito e all’obbligo di riparare all’illecito commesso attraverso la
restituzione, il risarcimento del danno o la soddisfazione.
3) La terza parte del Progetto identifica gli Stati che hanno il potere di invocare la
responsabilità dell’autore dell’illecito, distinguendo a tal fine il regime applicabile a
seguito della violazione di obblighi bilaterali dal regime applicabile a seguito della
violazione di obblighi erga omnes.
Dobbiamo domandarci se esistono, sul piano del diritto consuetudinario, regole speciali in
tema di responsabilità che sono diverse da quelle contenute nel Progetto di articoli. La
risposta è certamente affermativa, ed è lo stesso Progetto di articoli che, all’art. 55,
ammette che le disposizioni in esso contenute non trovino applicazione laddove le
condizioni per l’esistenza di un atto internazionalmente illecito e le conseguenze giuridiche
derivanti dall’illecito sono determinate da regole speciali di diritto internazionale.
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L’ORIGINE DELLA RESPONSABILITÀ
Uno dei problemi fondamentali della Commissione di diritto internazionale era capire
quando un certo comportamento posto in essere inevitabilmente da un individuo - perché
lo Stato agisce per mezzo di individui - potesse essere considerato come un
comportamento dello Stato ai fini della responsabilità internazionale. Nell’affrontare
questo problema il Progetto di articoli opera una distinzione fondamentale tra due tipi di
comportamenti, ovvero tra i comportamenti posti in essere dagli organi dello Stato e i
comportamenti posti in essere da privati. La regola generale che, come vedremo, conosce
alcune eccezioni è che il comportamento di un organo si attribuisce allo Stato, mentre il
comportamento di un privato non si attribuisce allo Stato.
Per chiarire questo punto è utile fare riferimento ad una sentenza resa dalla Corte
internazionale di giustizia nel 1980 nel caso relativo agli ostaggi statunitensi a Teheran.
Nel 1979, dopo la rivoluzione cha si concluse con la cacciata dall’Iran dello scià e con
l’instaurazione di un governo islamico presieduto dall’Ayatollah Khomeini, ci furono in
Iran manifestazioni popolari di protesta contro gli Stati Uniti, perché gli Stati Uniti erano
stati grandi alleati dello scià ed è proprio nel territorio statunitense che lo scià aveva
trovato rifugio. Queste manifestazioni raggiunsero il loro apice quando un gruppo di
studenti islamici entrò nell’ambasciata statunitense di Teheran e prese in ostaggio il
personale diplomatico. Questo caso venne portato davanti alla Corte internazionale di
giustizia dagli Stati Uniti, i quali volevano sapere se il governo iraniano potesse essere
considerato responsabile della violazione delle norme che sanciscono l’inviolabilità sia
della sede diplomatica che degli agenti diplomatici. La Corte doveva dunque stabilire
preliminarmente se il comportamento degli studenti islamici fosse attribuibile all’Iran e,
per farlo, divise la vicenda in due parti. La prima parte riguardava l’irruzione
nell’ambasciata e il sequestro del personale diplomatico da parte degli studenti. La Corte
riconobbe che gli studenti erano semplici privati e non organi dello Stato, non avevano cioè
nessun legame con lo Stato, quindi il loro comportamento non poteva essere attribuito allo
Stato iraniano. Tuttavia, la Corte affermò che, in questa prima fase, il governo iraniano
aveva comunque commesso un illecito. L’illecito che la Corte contestò all’Iran era la
violazione dell’obbligo di fornire protezione alla sede diplomatica. Se l’irruzione e la presa
in ostaggio del personale dell’ambasciata non era attribuibile al governo iraniano, il
governo iraniano era però responsabile per non aver adottato le misure sufficienti ad
impedire che dei privati facessero irruzione nell’ambasciata.
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L’elemento soggettivo: l’attribuzione di un comportamento allo Stato.
Che cos’è un organo dello Stato dal un punto di vista del diritto internazionale? L’art. 4 del
Progetto di articoli dice che: “un organo include ogni persona o ente che ha quella qualità
in base al diritto interno dello Stato”. Questo è un punto importante: per stabilire chi è
organo dello Stato si deve andare a vedere cosa dispone il diritto interno. È quindi il diritto
interno che ci dovrebbe far capire se c’è un legame tra un individuo e lo Stato o tra un ente
e lo Stato.
A ben vedere, l’art. 4 introduce poi un elemento ulteriore, poiché dice che: “un organo
include chi ha tali qualità in base al diritto interno”. L’utilizzo del verbo “include” sta a
significare che non c’è perfetta corrispondenza tra organo dello Stato e soggetti che hanno
la qualità di organo in base al diritto interno, nel senso che nella categoria degli organi
dello Stato possono rientrare anche soggetti diversi da quelli che hanno la qualità di
organo in base al diritto interno. Quali sono questi soggetti? Si tratta dei soggetti che
hanno un rapporto di fatto con lo Stato, ovvero gli organi di fatto dello Stato, in
contrapposizione agli organi di diritto. Quindi se normalmente è il diritto interno lo
strumento che serve ad identificare se un individuo o un ente ha la qualità di organo, ci
sono delle situazioni nelle quali la qualità di organo la si determina attraverso
l’individuazione di uno stretto legame tra un individuo o un ente e lo Stato.
In quali casi il legame tra un individuo o un ente e lo Stato può fare assurgere
quell’individuo o quell’ente a organo di fatto dello Stato? Ciò avviene nel caso degli Stati
fantocci, ovvero enti che apparentemente sono enti indipendenti, ma che effettivamente
sono totalmente sottoposti al potere di un altro Stato da risultare equiparabili ad organi di
quello Stato.
Nel caso Loizidou, portato all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo, fu la stessa
Corte a dire che il comportamento lesivo del diritto di proprietà della signora Loizidou,
benché posto in essere dalla Repubblica Turca di Cipro del Nord, era imputabile alla
Turchia, perché la Turchia di fatto controllava in modo talmente pervasivo la Repubblica
Turca di Cipro del Nord, al punto che tale che la Repubblica Turca di Cipro del Nord altro
non era che un organo di fatto dello Stato turco. Di conseguenza, per il comportamento
lesivo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo verificatosi nella Repubblica Turca
di Cipro del Nord doveva essere considerata responsabile la Turchia.
Quali sono i comportamenti dell’organo di diritto che si attribuiscono allo Stato? Ai sensi
dell’art. 7 del Progetto di articoli, allo Stato si attribuiscono non solo tutti i comportamenti
posti in essere dall’organo nell’esercizio delle sue funzioni, ma anche i comportamenti
posti in essere dall’organo in violazione delle sue funzioni, cioè eccedendo le sue
competenze o andando contro le istruzioni ricevute.
Allo Stato possono essere attribuiti, a certe condizioni, anche i comportamenti degli
individui. L’art. 8 del Progetto di articoli fa riferimento all’ipotesi in cui un individuo, pur
non avendo la qualifica di organo (né di fatto né di diritto), pone in essere una specifica
azione agendo dietro istruzione dello Stato. Che differenza c’è tra l’ipotesi dell’art. 8 e
quella dell’art. 4, per il quale un individuo può essere qualificato come organo di fatto dello
Stato sulla base del totale controllo che lo Stato esercita sull’individuo? La differenza sta
negli elementi di prova che devono essere apportati:
- l’art. 4 chiede che si accerti che il rapporto esistente tra Stato e individuo è un
rapporto talmente intenso e stretto per cui si può effettivamente parlare di un
controllo totale del primo sul secondo, con la conseguenza che tutte le condotte che
sono poste in essere dall’individuo sono attribuibili allo Stato senza dover
dimostrare che una certa condotta è stata posta in essere su richiesta dello Stato;
- l’art. 8 chiede che una specifica condotta venga posta in essere da un individuo solo
perché c’è stato un ordine dello Stato a tenere quella condotta indipendentemente
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dal fatto che tra Stato e individuo vi sia un rapporto di controllo totale dell’uno
sull’altro.
Agirono invece dietro istruzione dello Stato dei cittadini israeliani che nel 1960 in
Argentina catturarono un alto gerarca nazista, di nome Eichmann, e lo trasportarono in
Israele dove fu sottoposto a processo. Questi individui, non agirono a titolo individuale,
poiché il governo israeliano chiese loro di trasferire Eichmann in Israele. In questo caso,
quindi, il comportamento degli individui era attribuibile, in base all’art. 8 del Progetto di
articoli, allo Stato israeliano.
I comportamenti dei privati sono attribuiti ad uno Stato non solo quando lo Stato fornisce
istruzioni sulla condotta da tenere, ma anche quando lo Stato provvede a riconoscere come
propria la condotta tenuta liberamente dagli individui.
Il precedente più celebre, a partire dal quale questa regola è stata ricostruita, è il caso degli
ostaggi statunitensi a Teheran. La Corte, per accertare l’eventuale responsabilità del
governo iraniano, divise la vicenda in due parti. La seconda parte ebbe inizio quando il
governo iraniano avallò l’azione degli studenti, appoggiando apertamente il sequestro del
personale diplomatico dell’ambasciata statunitense. La Corte disse allora che nel momento
in cui la massima autorità del Paese riconosceva e faceva propria la condotta degli studenti,
il comportamento degli studenti diventava automaticamente attribuibile allo Stato. Quindi
lo Stato iraniano non solo era responsabile per aver omesso di proteggere l’ambasciata
statunitense, ma era anche responsabile del sequestro del personale diplomatico.
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L’elemento oggettivo: le cause di esclusione dell’illecito.
Affinché sorga un illecito un comportamento, oltre che essere imputabile allo Stato, deve
essere contrario ad un obbligo giuridico. Il Progetto di articoli prevede, tuttavia, delle
scriminanti, ovvero delle circostanze in presenza delle quali l’illecito non sorge.
Una prima causa di esclusione dell’illecito è la presenza del consenso dello Stato leso,
prevista dall’art. 20 del Progetto.
Il consenso prestato da uno Stato esclude l’illiceità dell’atto compiuto da un altro Stato a
condizione che il consenso sia validamente prestato. Quando il consenso è validamente
prestato? Lo è quando promana dall’organo dello Stato competente ad impegnare lo Stato
stesso sul piano internazionale. Ad esempio, se il consenso allo svolgimento di
un’operazione di polizia da parte di agenti dei servizi segreti russi sul territorio italiano
venisse dato da un poliziotto, che non è legittimato ad impegnare l’Italia sul piano
internazionale, il consenso non sarebbe sufficiente ad escludere l’illecito della Russia,
rappresentato dalla violazione della sovranità territoriale. Se, invece, il consenso allo
svolgimento di una simile operazione fosse prestato dal Governo, il comportamento russo
sarebbe giustifica.
L’art. 20 precisa che il consenso non può essere dato ad uno Stato per permettergli di
violare una norma di diritto cogente. Qui c’è un parallelismo con l’art. 53 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, in base al quale il diritto cogente
non può essere violato mediante accordi. Ugualmente l’art. 20 del Progetto di articoli ci
dice che il diritto cogente non può essere violato neanche mediante un atto unilaterale con
cui uno Stato autorizza un altro Stato a tenere un comportamento illecito. Se, per ipotesi, il
governo italiano autorizzasse la Germania a sottoporre a torture i cittadini italiani che
delinquono sul territorio tedesco, il consenso non sarebbe sufficiente ad escludere l’illecito
della Germania, in ragione del fatto che il divieto di tortura ha carattere cogente.
2. La forza maggiore.
Una seconda causa di esclusione dell’illecito è la forza maggiore, definita dall’art. 23 del
Progetto di articoli come una forza irresistibile ed imprevista, al di fuori del controllo dello
Stato, che rende materialmente impossibile adempiere ad un obbligo giuridico.
L’ipotesi tipica è quella in cui una nave militare che viene spinta nelle acque interne di un
altro Stato da una violenta tempesta. Qui c’è una violazione della sovranità territoriale
dello Stato, poiché le navi militari straniere possono penetrare nelle acque interne di uno
Stato solo se autorizzate dalle competenti autorità, ma siccome questa violazione dipende
da una forza maggiore, essa è giustificata.
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La forza maggiore è stata invocata nel caso Rainbow Warrior. La Rainbow Warrior era
una di Greenpeace che aveva fatto incursione in una zona francese del Pacifico dove si
stavano conducendo degli esperimenti nucleari al fine di impedire la continuazione di
questi esperimenti. Mentre attraccava al porto di Auckland in Nuova Zelanda, la nave saltò
in aria a causa di un attentato che provocò non solo danni materiali, ma anche la morte di
numerosi volontari di Greenpeace. La polizia neozelandese individuò gli autori di questo
attentato: si trattava di un uomo e una donna, appartenenti ai servizi segreti francesi, i
quali furono catturati e arrestati. La Francia ne chiedeva la liberazione, mentre la Nuova
Zelanda voleva sottoporli a processo. La questione fu sottoposta all’arbitrato del Segretario
generale delle Nazioni Unite, il quale decise che i due individui dovevano essere tenuti per
tre anni in confino presso un atollo del Pacifico. Dopo un anno, la Francia, senza il
consenso della Nuova Zelanda, fece rimpatriare la donna, a causa di una gravidanza
rischiosa, infrangendo così l’obbligo comminato dal Segretario generale. Di conseguenza, si
riaccese la controversia tra Francia e Nuova Zelanda, che fu sottoposta ad un tribunale
arbitrale. A quest’ultimo spettava il compito di capire se la violazione della precedente
sentenza arbitrarle potesse essere o meno giustificata, dal momento che la Francia aveva
invocato la forza maggiore. Il tribunale respinse però la pretesa francese, affermando che la
forza maggiore serve per giustificare una condotta involontaria che non lascia alcuna via
d’uscita allo Stato, mentre la Francia aveva volontariamente disposto il rimpatrio della
propria cittadina.
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