Il dato che caratterizza l’ordinamento giuridico internazionale è che i principali attori sono
gli Stati: come negli ordinamenti interni accanto alle persone fisiche, principali attori, ci
sono le persone giuridiche, così anche nell’ordinamento internazionale gli Stati, principali
protagonisti dell’ordinamento internazionale, hanno creato organizzazioni internazionali,
enti dotati di una personalità giuridica autonoma, distinta rispetto a quella degli Stati e che
si affiancano agli Stati. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali è un fenomeno
relativamente recente: le prime organizzazioni sono state create agli inizi del XX secolo,
oggi abbiamo una miriade di organizzazioni che sono molte di più degli Stati.
Il diritto internazionale più moderno regola non soltanto la condotta degli Stati, la
convivenza tra Stati, i rapporti tra Stati ed organizzazioni internazionali, ma in
un’evoluzione estremamente importante, tende sempre più ad indirizzarsi anche agli
individui: ci sono norme internazionali che sembrano avere come destinatari proprio gli
individui. Mentre il diritto internazionale classico, quello degli inizi del ‘900, ignorava
totalmente gli individui e dunque gli unici soggetti cui esso si riferiva erano gli Stati, oggi il
diritto internazionale tende a superare il velo della sovranità statale e ad indirizzarsi agli
individui, riconoscendo loro dei diritti (pensiamo alle norme internazionali a tutela dei
diritti dell’uomo) o imponendo loro degli obblighi (pensiamo alle norme internazionali che
reprimono a livello penale taluni comportamenti posti in essere dagli individui).
Pertanto il diritto internazionale, pur essendo ancora oggi un diritto che volto
principalmente a regolare i rapporti tra gli Stati o tra gli Stati e le organizzazioni
internazionali tende sempre più ad ingerirsi nella vita degli individui per regolare la loro
condotta o per prestare loro delle garanzie.
Il dato caratterizzante della società internazionale è che i principali soggetti sono gli Stati,
enti che da un punto di vista formale si trovano tutti su un piano di parità e quindi il
principio base che regola le relazioni internazionali è il principio della sovrana eguaglianza
degli Stati, in base al quale non può esserci uno Stato che accentri in sé poteri di natura
legislativa, giurisdizionale o coercitiva e che si trovi, pertanto, in una posizione sovra
ordinata rispetto agli altri. Lo stesso art. 2 della Carta delle Nazioni Unite accoglie questo
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principio, laddove afferma che: “l’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana
eguaglianza di tutti i suoi Membri”.
Il giurista di diritto interno che vede nella sanzione l’elemento caratterizzante la norma
giuridica, è portato a pensare che il diritto internazionale, difettando di un apparato
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centrale in grado di prevalere sui consociati, non sia un diritto o sia un diritto scarsamente
effettivo. In realtà il diritto internazionale si può considerare come un vero e proprio
diritto per tre motivi essenziali.
2. Nel diritto internazionale vige il principio del divieto dell’uso della forza: chi ha
subito un illecito, a meno che non si tratti di un’aggressione armata e si ricada
nell’ipotesi della legittima difesa, non può ricorrere alla forza. Nella società
internazionale il valore della pace prevale su ogni altro valore.
Il principio della sovrana uguaglianza degli Stati si afferma sul piano formale, ma dal
punto di vista della realtà fattuale gli Stati non sono tutti uguali: ci sono Stati più piccoli,
più ricchi, meno ricchi. Questa disuguaglianza di fatto ha delle conseguenze sul piano
dell’effettiva applicazione delle norme perché lo Stato più forte è suscettibile di svincolarsi
da taluni obblighi che il diritto internazionale gli impone.
Ad esempio, dopo la rottura del duopolio mondiale Stati Uniti-Unione Sovietica, gli Stati
Uniti sono divenuti l’unica superpotenza e quando gli Stati Uniti violano le regole
internazionali, ad esempio con l’invasione dell’Iraq, non c’è nessuno Stato che utilmente
possa lamentarsi e prendere delle contromisure nei confronti degli Stati Uniti, non solo per
motivi politici ma anche per motivi di forza.
Questo però non significa che i più forti non rispettino il diritto internazionale, infatti gli
Stati Uniti sono i primi ad avere un interesse enorme a rispettare il diritto internazionale
poiché sanno che violare il diritto internazionale crea un precedente che un domani
potrebbe essere invocato ad esempio dalla Russia, dalla Cina, dall’India ecc. Gli Stai più
forti sono quindi i primi a sapere che il diritto internazionale ha una funzione regolativa
senza la quale i loro stessi interessi nazionali risulterebbero pregiudicati. Rispettare il
diritto internazionale risponde nella maggior parte dei casi non tanto ad un ideale
superiore di giustizia, quanto agli interessi nazionali degli Stati ed è per questo che il
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diritto internazionale gode di una certa effettività ed è configurabile come un ordinamento
giuridico anche se non ha vissuto quel processo di accentramento del potere che ha
caratterizzato le realtà statali.
Dal ‘45 al ‘90, il duopolio Stati Uniti-Unione Sovietica (entrambi dotati di un potere di
veto) ha impedito al Consiglio di funzionare, perché uno Stato o ricadeva nella sfera di
influenza sovietica o nella sfera di influenza statunitense e allora se ricadeva nella sfera di
influenza sovietica e gli Stati Uniti proponevano delle misure contro di esso l’Unione
Sovietica le bloccava, viceversa accadeva se lo Stato ricadeva nella zona di influenza
statunitense. Caduto questo duopolio, dal ‘90 in poi ci sono stati dei casi in cui il Consiglio
di sicurezza ha utilizzato la forza ma ben presto gli Stati Uniti hanno perso interesse ad
agire per il tramite dell’ONU, si sono resi conto che il Consiglio di sicurezza era un ente che
impediva loro di agire liberamente. L’apice lo si è avuto nel 2003, quando gli USA hanno
invaso l’Iraq senza tenere conto delle Nazioni Unite. Dal 2003 ad oggi le cose sono
cambiate in conseguenza del fallimento della guerra in Iraq; gli Stati Uniti sono ritornati
ad agire nell’ambito delle Nazioni Unite.
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Ricapitolando, tre sono gli aspetti caratterizzanti la società internazionale:
1. è una società fondata sul principio di eguaglianza sovrana degli Stati, quindi è una
società paritetica, orizzontale, almeno dal punto di vista formale.
2. è assente nella società internazionale il fenomeno dell’accentramento del potere
coercitivo in capo ad un ente; si è così arrivati alla fine della seconda guerra
mondiale ad affermare il divieto di uso la forza nelle controversie internazionali. Le
controversie internazionali devono essere risolte pacificamente.
3. nella società internazionale non si è avuto un processo di verticalizzazione del
potere, ma c’è un’organizzazione internazionale, le Nazioni Unite, costituisce il
tentativo forse più ardito di dare alla società internazionale una forma organizzata,
dal momento che comprende tra i suoi membri quasi tutti gli Stati della comunità
internazionale e che dispone di poteri particolarmente incisivi.
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______________2______________
IL FUNZIONAMENTO
DELL’ORGANIZZAZIONE
DELLE NAZIONI UNITE (ONU)
Assemblea Generale, di cui fanno parte tutti gli Stati membri dell’Organizzazione.
Nel campo del mantenimento della pace l’Assemblea può emettere soltanto
raccomandazioni, cioè atti privi di forza obbligatoria.
L’art. 23 della Carta stabilisce che nel Consiglio di sicurezza siedono 15 Stati: 5 sono
membri permanenti, 10 sono membri non permanenti e vengono eletti dall’Assemblea
generale ogni due anni sulla base di un’equa distribuzione geografica.
Della
procedura di voto all’interno del Consiglio di sicurezza si occupa l’art 27:
- paragrafo 1: ogni membro del Consiglio di sicurezza dispone di un voto;
- paragrafo 2: le decisione del Consiglio di sicurezza su questioni di procedura sono
prese con un voto favorevole di 9 membri;
- paragrafo 3: le decisioni del Consiglio di sicurezza su ogni altra questione sono prese
con un voto favorevole di 9 membri, nei quali siano compresi i voti dei membri
permanenti.
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Distinzione tra questioni di procedura e questioni non di procedura.
- Le questioni non procedurali, vale a dire quelli sostanziali, sono le più importanti. Si
pensi all’esercizio da parte del Consiglio di sicurezza dei suoi poteri sanzionatori, come
l’imposizione di un embargo commerciale nei confronti di uno Stato o come l’uso della
forza armata contro uno Stato.
E qui si pone un problema: occorre cioè chiedersi che cosa succede se il membro
permanente decide di astenersi dalla votazione. La astensione impedisce l’adozione di una
delibera oppure no? Alla luce del dato letterale dell’art. 27, par. 3, sembrerebbe impedire
l’adozione della delibera perché si specifica che c’è bisogno di un voto affermativo. Però
nella prassi è capitato che alcuni membri permanenti si siano astenuti dalla delibera e la
delibera sia stata comunque dichiarata dal presidente del Consiglio di sicurezza come
validamente adottata. Una simile prassi é legittima oppure no?
La questione è stata affrontata nel ‘71 dalla Corte Internazionale di Giustizia nel parere
relativo alla Namibia. La Namibia era una ex colonia tedesca, che le Nazioni Unite avevano
affidato al Sud Africa perché ne amministrasse il territorio nelle more dell’ottenimento
dell’indipendenza. In realtà il Sud Africa era andato oltre il mandato che gli aveva conferito
le Nazioni Unite, poiché di fatto aveva operato come una sorta di inglobamento, una sorta
di estensione della propria sovranità sul territorio della Namibia. Il Consiglio di sicurezza
dichiarò che il mandato del Sud Africa era cessato. L’Assemblea generale chiese alla Corte
Internazionale di Giustizia un parere circa l’effetto che produceva una simile risoluzione.
Nel procedimento davanti alla Corte Internazionale di Giustizia il Sud Africa sollevò
un’obiezione, adducendo che la risoluzione che poneva fine al suo mandato era invalida
perché tale risoluzione era stata adottata con l’astensione di alcuni membri permanenti.
Quindi la Corte era chiamata a risolvere questo problema preliminare stabilendo se la
delibera del Consiglio di sicurezza fosse stata validamente adottata oppure no. La Corte
disse che esisteva ormai una prassi, non contestata dagli Stati, in base alla quale le delibere
adottate con l’astensione di uno o più membri permanenti erano considerate validamente
adottate e, dunque, anche nel caso di specie, la delibera doveva essere considerata valida.
Un altro problema che si è posto con riguardo all’art. 27, par. 3, riguardava cosa succedeva
se il membro permanente anziché astenersi dalla votazione, fosse assente. Questo
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problema si è posto tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘50, quando era invalsa tra i
delegati dell’Unione Sovietica la prassi della c.d. politica della sedia vuota. Accadeva in
sostanza che il rappresentante dello Stato membro permanente non si presentava alla
sedute del Consiglio di sicurezza e questo per manifestare tutta la sua opposizione
all’attività del Consiglio. Ora, se ci atteniamo al testo dell’art 27, par. 3, ai sensi del quale ci
deve essere un voto e deve essere un voto favorevole, occorre concludere che se uno Stato
membro neanche si presenta non solo non c’è un voto favorevole ma non c’è neppure un
voto. L’astensione è comunque una manifestazione di volontà, una forma di voto, ma nel
caso della politica della sedia vuota non c’è neanche questo. Quando l’Unione Sovietica non
si presentava, gli Stati Uniti ne approfittavano per far passare una serie di delibere, alcune
molto importanti, che hanno poi trovato applicazione. La prassi è andata nel senso di
accettare la validità di queste delibere. La conseguenza è stata che la politica della sedia
vuota è stata accantonata dall’Unione Sovietica.
Riassumendo, l’art. 27, par. 3, non si preoccupa di determinare cosa succede nel caso in cui
una delibera venga adottata dal Consiglio di sicurezza senza il voto favorevole di un
membro permanente, perché astenuto o assente. Nella prassi, tuttavia, sono state ritenute
valide delibere adottate nonostante l’astensione o l’assenza del membro permanente. Tale
prassi è stata accettata dagli Stati membri delle NU, tanto che può ritenersi che essa abbia
integrato il contenuto dell’art. 27, par. 3.
La Carta delle Nazioni Unite non risolve questo problema e spesso si sono avute in
seno al Consiglio di sicurezza discussioni tra gli Stati membri circa il modo in cui una
certa questione andava qualificata, se come questione procedurale o come questione
non procedurale. Che cosa si ci è inventati allora? Si è applicato un meccanismo, in
base al quale si fanno 2 votazioni: prima si vota per decidere se la questione è
procedurale o non procedurale; una volta che si è deciso questo, si vota per adottare o
meno la risoluzione relativa a quella questione.
I problemi però non finiscono qui poiché non è chiaro se il voto sulla questione
preliminare, è un voto che prevede o meno l’utilizzo del potere di veto da parte dei
membri permanenti. La prassi che si è seguita è quella di permettere al membro
permanente che vuole impedire l’adozione della delibera con cui si discute sulla
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natura di una questione, di avvalersi del potere di veto. Si parla in questo caso di
procedura del doppio veto.
Ipotizziamo che in Cecenia siano state commesse gravi violazioni dei diritti
umani e gli Stati Uniti proponessero di nominare una commissione di inchiesta
da mandare in Cecenia. A dire degli USA l’istituzione di una commissione di
inchiesta è questione procedurale; di diverso avviso è la Russia, secondo la quale
si tratta invece di una questione sostanziale. Al momento del voto, la Russia vota
contro la natura procedurale della questione relativa all’istituzione della
commissione d’inchiesta; tale questione andrà dunque considerata come
sostanziale e al momento della successiva votazione relativa al se istituire o meno
la commissione di inchiesta occorrerà che nessuno dei membri permanenti
apponga il veto, pena la mancata istituzione della commissione stessa.
La Carta delle Nazioni Unite, agli artt. 108 e 109, prevede due procedure di modifica della
Carta:
- l’art 108 consente che siano apportati emendamenti, con una procedura che prevede
un voto del Consiglio di sicurezza ed un voto dell’Assemblea Generale;
- l’art 109 disciplina la revisione, imponendo a tal fine la convocazione di una
conferenza di Stati membri per provvedere ad una revisione sostanziale della Carta.
Qual è la differenza tra modifica e revisione? Gli emendamenti riguardano questioni
puntuali, singoli articoli; le revisioni riguardano modifiche di intere parti della Carta.
Benché alcune parti della Carta non funzionino, siano cadute in desuetudine, non si è mai
giunti ad una revisione per motivi politici. Infatti c’è bisogno di un momento di forte
coesione sociale. Oggi questa coesione tra gli Stati non c’è, e quindi c’è il timore che se si
aprisse una conferenza di Stati non si arriverebbe a niente. Si potrebbe utilizzare la
procedura degli emendamenti. In effetti recentemente ci sono stati dei tentativi di
modificare alcune parti, come ad esempio, la composizione del Consiglio di sicurezza.
La Carta delle Nazioni Unite dal ‘45 ad oggi è stata formalmente modificata
pochissimo, ma di fatto si è modificata in maniera rilevante a seguito dell’attività
degli stessi organi delle Nazioni Unite. Si pensi soltanto che il Consiglio di sicurezza
ha esercitato dei poteri che la Carta non gli attribuisce: ha creato dei tribunali penali
internazionali ma nella Carta non c’è scritto che il Consiglio può istituire organi
giurisdizionali; ha autorizzato gli Stati ad usare la forza, ma nella Carta non è prevista
questa modalità di intervento armato. In altre parole, la Carta delle Nazioni Unite è
un testo che nella sua applicazione pratica ha subito delle forzature interpretative che
nel tempo sono state accettate dagli Stati. Ragion per cui può essere affermato che si è
così arrivati ad una sorte di modifica tacita della Carta.
C’è poi un altro meccanismo attraverso il quale si è giunti nel tempo ad una modifica
della Carta e ci si riferisce al modo di interpretare la Carta ONU da parte della Corte
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internazionale di giustizia. La Corte ha infatti formulato la c.d. teoria dei poteri
impliciti delle Nazioni Unite. I poteri impliciti sono quei poteri logicamente necessari
per poter raggiungere le finalità che la Carta espressamente si propone. Si tratta di
una tecnica in base alla quale si attribuiscono ad un organo dei poteri facendoli
derivare dagli obiettivi da raggiungere.
Ad esempio, ai sensi dell’art. 101 della Carta il personale amministrativo delle Nazioni
Unite è nominato dal Segretario generale secondo le norme stabilite dall’Assemblea
generale; è quindi l’Assemblea generale a stabilire le norme mediante le quali il
Segretario generale assume le persone. La Carta non stabilisce però cosa succede in
caso di controversie di lavoro tra i funzionari delle Nazioni Unite e l’amministrazione
centrale. Si può licenziare un funzionario? E se quel funzionario viene licenziato, a
quale tribunale si può rivolgere? Per ovviare a tale lacuna, l’Assemblea generale ha
creato un tribunale amministrativo delle Nazioni Unite su richiesta del Segretario
Generale, il quale cercò di difendere la legittimità di questa decisione sulla base del
fatto che egli è posto a capo dell’amministrazione. La questione fu portata
dall’Assemblea generale all’attenzione della Corte Internazionale di Giustizia perché
esprimesse un parere al riguardo. La Corte disse che l’Assemblea generale era
competente a creare il tribunale amministrativo delle Nazioni Unite trattandosi di un
potere che implicitamente si desume dall’art 101 della Carta, il quale prevede che sia
l’Assemblea a dettare delle norme relative alla nomina dei funzionari delle Nazioni
Unite; siccome può dettare norme relative alla nomina, può anche creare un
meccanismo per risolvere le controversie di lavoro. Attraverso questa tecnica
interpretativa si è quindi giunti a dilatare i poteri conferiti alle Nazioni Unite dalla
Carta.
I poteri del Consiglio di sicurezza nel settore del mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale.
Tra gli aspetti caratterizzanti l'azione delle Nazioni Unite, quello forse più rilevante è
costituito dal tentativo di affidare al Consiglio di sicurezza il monopolio dell'uso dell’uso
della forza nelle relazioni internazionali. La Carta delle Nazioni Unite attribuisce al
Consiglio poteri in tema di mantenimento della pace, in tre capitoli diversi della Carta. I
capitoli che riguardano le funzioni del Consiglio di sicurezza sono:
- capitolo VI
- capitolo VII
- capitolo VIII
Lasciamo da parte per il momento il capitolo VIII della Carta, il quale attiene ai rapporti in
tema del mantenimento della pace tra il Consiglio di sicurezza e le organizzazioni
internazionali di tipo regionale, cioè che raggruppano Stati appartenenti a precise aree
geografiche del mondo. Concentriamoci invece, sul capitolo VI e sul capitolo VII. Il
capitolo VI è dedicato alla “Soluzione pacifica delle controversie” mentre il capitolo VII è
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dedicato alle “Azioni rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di
aggressione”.
Che cos'è che caratterizza il capitolo VI e lo contraddistingue dal capitolo VII? Sono due gli
elementi che vengono in rilievo:
______________2.1______________
I POTERI “DIPLOMATICI” DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA
Chiarita questa distinzione, cominciamo a vedere più nel dettaglio quali sono i poteri
attribuiti al Consiglio dal capitolo VI. Agli artt. 34, 35 e 36 della Carta delle Nazioni Unite
si indicano chiaramente quali presupposti oggettivi per l’esercizio dell’attività diplomatica
del Consiglio di sicurezza due ipotesi:
- o l'esistenza di una controversia la cui continuazione sia suscettibile di mettere in
pericolo la pace e la sicurezza internazionale
- o l'esistenza di una situazione che possa portare ad un attrito internazionale o dar
luogo ad una controversia
Si tratta ora di capire quale differenza c'è tra controversia e situazione. Questa è una
differenza difficile da tracciare. Controversia è il caso in cui si ha una pretesa di uno
Stato e un altro Stato che si oppone a quella pretesa (es. Stato1: questo territorio è
mio; Stato2: no, quel territorio è mio. Altro es. Stato1: chiede allo Stato 2 di smettere
di costruire armi nucleari, Stato2: no, ho il diritto di costruire le armi nucleari).
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L’art. 27, paragrafo 3 – relativo alle procedure di voto in seno al Consiglio di sicurezza
– dice che nelle decisioni previste dal capitolo VI lo Stato membro che sia parte di
una controversia deve astenersi dal voto. L’art. 27 paragrafo 3 fa riferimento solo
all’ipotesi in cui il Consiglio si occupi di controversie, e non anche di situazioni.
In dottrina è stato sostenuto che con tutta probabilità una situazione ricorra ogniqualvolta
il Consiglio di sicurezza si occupi di una vicenda del tutta interna ad uno Stato.
Immaginiamo il caso di uno Stato che commetta un genocidio ai danni della propria
popolazione. Secondo questa tesi, dunque, si ha una controversia ogniqualvolta ad essere
coinvolti siano due o più Stati; si è invece in presenza di una situazione quando ad essere
coinvolto è un unico Stato. Questo è un problema che la Carta pone ma che non risolve e
rispetto al quale la prassi del Consiglio di sicurezza è alquanto incerta e contraddittoria.
Un elemento interessante si rinviene nel parere reso dalla Corte internazionale di giustizia
in merito alla Namibia. In quell’occasione il Sud Africa, per contestare la validità della
risoluzione del Consiglio di sicurezza che poneva fine al mandato, sostenne che quella
risoluzione riguardava una controversia, appunto la controversia relativa al suo mandato
in Namibia sorta tra il Sud Africa ed altri Stati membri delle NU che avevano contestato al
Sud Africa di aver esteso un regime di apartheid anche in Namibia, e per questo motivo
avevano chiesto la cessazione del mandato. Tuttavia, contrariamente a quanto richiesto
dall’art. 27 paragrafo 3 della Carta, gli Stati che si opponevano alla continuazione del
mandato del Sud Africa in Namibia votarono l’adozione della delibera, quando invece
avrebbero avuto l’obbligo di astenersi dal voto.
La Corte come rispose? Questo è un punto importante perché ci si poteva attendere dalla
Corte un chiarimento su cosa si dovesse intendere per situazione e cosa di dovesse
intendere per controversia, invece la Corte risolse la questione in modo piuttosto
sbrigativo, sostenendo che la vicenda del Sud Africa in Namibia era stata iscritta all’ordine
del giorno del Consiglio di sicurezza con la denominazione di “situazione” e non con quella
di “controversia” e che al momento dell’iscrizione all’ordine del giorno con la qualificazione
di situazione il Sud Africa non protestò, non sollevò obiezioni e quindi non aveva diritto di
farlo in seguito. Vediamo chiaramente che la risposta della Corte non ci da molte
informazioni.
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Chiariti quali sono i presupposti oggettivi per l’azione del Consiglio di Sicurezza, andiamo
ora a vedere quali sono i poteri di cui il Consiglio può disporre al ricorrere di tali
presupposti.
L’art. 33, al paragrafo 1, ci dice che quando c’e’ una controversia la cui continuazione
sia suscettibile di mettere in pericolo la pace, le parti debbono perseguire la soluzione
della controversia mediante procedimenti diplomatici (negoziato, inchiesta, buoni
uffici, mediazione, e conciliazione) o procedimenti arbitrali o giudiziari. Al paragrafo
2 si afferma che il Consiglio di sicurezza, ove lo ritenga necessario, invita le parti a
regolare la loro controversia mediante uno di tali mezzi.
L’art. 36, al paragrafo 1, ci dice qualcosa di molto simile. Il paragrafo 1 afferma che il
Consiglio di sicurezza può in qualsiasi fase di una controversia o di una situazione,
raccomandare procedimenti o metodi di soluzione adeguati.
Ad una prima lettura sembrerebbe che queste due norme non fanno altro che ripetere la
stessa cosa, ossia, che il Consiglio può raccomandare un metodo di soluzione della
controversia, in realtà c’e’ una differenza, sottile ma c’è:
- l’invito che il Consiglio fa in base all’art. 33, paragrafo 2, è un invito di tipo generico, è
l’invito a risolvere pacificamente la controversia attraverso mezzi la cui scelta spetta
alle parti;
- al contrario l’art.36, paragrafo 1 fa riferimento ad un invito di tipo specifico, cioè il
Consiglio può invitare le parti a risolvere la controversia mediante uno specifico
mezzo; è il Consiglio stesso che indica quello che a suo avviso è il metodo più adeguato
per risolvere la controversia.
Occorre ora chiedersi se, quando il Consiglio fa queste raccomandazioni, gli Stati hanno
l’obbligo di risolvere la controversia oppure no. La risposta è negativa, trattandosi appunto
di raccomandazioni.
Per chiudere con il capitolo VI resta da analizzare un’ultima disposizione, che è l’art.
34, dove è previsto un potere molto importante, ovvero il potere del Consiglio di
sicurezza di fare inchieste internazionali. Le inchieste che cosa sono? Sono operazioni
volte all’accertamento di fatti, quindi non alla qualificazione giuridica di fatti. Questo
potere normalmente presuppone un’attività di inchiesta che può essere efficace se
svolta in loco, cioè se la commissione di esperti è incaricata dal Coniglio di sicurezza
di recarsi sul territorio di uno Stato. Qui si pone un problema: consiste nel vedere se
lo Stato sul cui territorio l’inchiesta deve essere svolta è obbligato o meno a
consentire l’ingresso degli esperti sul proprio territorio. La Carta non lo dice
espressamente; tuttavia considerato che l’art. 34 non prevede poteri vincolanti del
Consiglio di sicurezza, è ragionevole concludere nel senso che lo Stato possa rifiutarsi
di permettere alla commissione d’inchiesta di operare sul proprio territorio.
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