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Una prospettiva millenaria, capitolo 1

1.L’Italia romana

Nel corso dei suoi duemila e cinquecento anni, l’Italia è stata a lungo, e in diverse epoche, L’economia più
ricca e fiorente del mondo; i romani hanno edificato il più grande e imponente impero dell’età classica.
Quell’impero è declinato e poi crollato a partire dal III secolo d.C., ma sul finale del primo millennio, le città
italiane hanno cominciato a mostrare nuovi segni di vitalità e contribuito al risveglio dell’Europa intera.
L’espansione medievale ha proiettato gli europei alla conquista del globo e da noi questa fase culminerà
con il Rinascimento. Nell’Europa Atlantica questa fase culminerà con la rivoluzione scientifica, illuminista e
per finire con la Rivoluzione industriale.

Ciò nonostante è ancora oggi molto difficile porre dei numeri precisi o affidabili alle principali grandezze
economiche e demografiche. La questione più eclatante concerne con il numero di abitanti che l’ Italia
avrebbe contato in epoca romana: le stime divergono dai 7 milioni ipotizzati da Beloch, fino ai 15-16
milioni ipotizzati dalle recenti revisioni di Lo Cascio e Malanima. Il dato certo è che l’epoca augustea e i tre
secoli di espansione che la precedono, risulterebbero un periodo di crescita straordinaria; basti pensare
che la popolazione italiana si sarebbe attestata su livelli che non sarebbero stati più recuperati fino al XVIII
secolo. Secondo Fenoalte l’economia del mondo classico sarebbe stata razionale e propensa al progresso
tecnologico, specie nella sua componente agricola ma limitata nel contesto geografico (clima
mediterraneo); si trattava di un ambiente povero di acqua e di foraggi. Insomma il mondo classico avrebbe
semplicemente raggiunto gli orizzonti tecnologici consentiti dal suo ambiente. Molto significativo è il grado
di monetizzazione delle loro economie: nei quattro secoli a cavallo della nascita di Cristo, nel mondo
romano venne prodotto una quantità di argento e di rame eguagliata solamente millecinquecento anni più
tardi, in seguito alla Rivoluzione industriale.

Provando a calcolare il prodotto interno lordo (Pil) dell’Impero romano (anche se l’incertezza sul numero di
abitanti rimane assai elevata), secondo Meddinson nel 14 d.C., l’ Italia produceva un reddito per persona
equivalente a 808 dollari del 1990 (a parità di potere d’acquisto con gli altri paesi): quasi il doppio di
quanto ipotizzato per le altre regioni della parte occidentale dell’impero. Altri studi sono stati effettuati
sulla ricostruzione del Pil con risultati diversi, ma ciò che accomuna questi vari tentativi di quantificazione è
che tutti confermano il primato dell’economia italiana sul resto del mondo. L’imperialismo romano al suo
apice poteva effettivamente proporsi come principio ordinatore del caos, forza civilizzatrice che a partire
proprio dall’Italia si irradiava offrendo ai popoli una prospettiva di convivenza pacifica e di buona
amministrazione, di integrazione politica e per certi versi anche culturale.

2.Dal Tardo-antico al Rinascimento.

2.1 Il collasso dell’ordine romano

La spiegazione per il quale il mondo romano crollo include le cause: religiose (ascesa del Cristianesimo),
ambientali (l’esaurimento del suolo), di politica interna (gestione della fiscalità), economico-sociali
(conflitto crescente tra ricchi e poveri) e anche quelle semplicemente di ordine demografico. Di sicuro
appare ineludibile il declino demografico portato dalla diminuzione di fertilità e dalle pandemie del I e II
secolo d.C., portarono l’impero a vietare la mobilità ai contadini e ad alcune attività professionali facendo
regredire i primi passi del capitalismo verso l’autarchia e il feudalesimo. Su questi connotati generali
avrebbero poi inciso alcune condizioni specifiche: a Diocleziano si deve la riorganizzazione fiscale e
l’aumento generale della tassazione e con Costantin lo spostamento della capitale da Roma a Bisanzio,
agevolando la caduta dell’ impero. Mentre Costantinopoli splenderà, Roma tramonterà anche per un
susseguirsi di tradimenti da parte delle residue autorità. Le riforme successive alla crisi del III secolo, anche
se nel breve periodo riescono a puntellare la frana, si riveleranno fatali proprio per la componente
economica e culturale più dinamica di quella società. Nel lungo periodo esse finiscono per peggiorare
ulteriormente le cose e porteranno al collasso definitivo dell’ ordine romano.

2.2 La rinascita in un mondo plurale

Intorno al X secolo l’economia europea e quella italiana, cominciarono a mostrare segni di risveglio;
lentamente ma progressivamente queste tornano a essere il fulcro della manifatture, dei commerci e
anche della cultura. Molte sono le innovazioni che provengono dal modo musulmano o dall’Oriente che
spesso, una volta arrivate in Italia, vengono ulteriormente migliorate. Analizzando l’andamento
demografico, l’Italia avrebbe contato nel 900 più o meno lo stesso numero di abitanti si dei secoli dopo:
all’incirca 9 milioni di abitanti. Ciò non sembra molto credibile per quello che sappiamo circa l’abbandono
delle città; non a caso le stime ipotizzano un andamento molto diverso dal 900 al 1500, gli abitanti
sarebbero all’incirca raddoppiati. Ciò che realmente sappiamo che la ripresa andò progressivamente
aumentando di intensità fra l’ XI e XIII secolo. In questo periodo assistiamo all’emergere di un vero e
proprio ceto borghese che deriva la sua ricchezza dall’industria e dai commerci. Le città sono ormai il
nuovo centro della vita economica e anche politica, importanti soprattutto: Milano, Firenze, Venezia e
Genova. In questo periodo si ha una vera e propria rivoluzione urbana(tassodi urbanizzazione al 21%) e
commerciale(espansione di rotte commerciali verso l’Oriente e la nascita della Via della seta).

Le stime del Pil di cui disponiamo, elaborate da Malanima, indicano che nella prima metà del Trecento
l’Italia avrebbe raggiungo un reddito annuo per persona di circa 1500-1600 dollari del 1990. Cipolla fa
notare che fra il ‘200 e ‘300 dovette migliorare anche il tenore di vita della popolazione: almeno nelle città
più progredite le persone vestivano meglio, mangiavano meglio, le case erano meno disagiate,
disponevano di una maggiore quantità di bene necessari per la le necessità quotidiane. Nel pieno
dell’espansione si abbatté in quel mondo un flagello inaspettato, la Peste nera. Nel giro di pochi anni il
morbo uccide un terzo ella popolazione europea, circa25 milioni di persone. Una tale catastrofe
demografica non ebbe però le conseguenze che abbiamo visto per il mondo romano, le condizioni dei
sopravvissuti ne beneficiarono: aumentarono i salari, i prezzi degli affitti dei fondi agricoli diminuirono e
migliorarono cosi le condizioni dei contadini, accentuando cosi la crisi della società feudale. Le
conseguenze nell’Europa furono diverse: in Europa orientale i feudatari utilizzarono la crisi demografica
per riaffermare la loro forza e imporre situazioni più gravose sulle spalle dei contadini, in Europa
occidentale i contadini colsero l’occasione per liberarsi dalle antiche costrizioni grazie anche alla presenza
di un ceto emergente borghese sempre più consistente, eliminando il servaggio. Quando poi nel
quattrocento si sarebbe manifestata la ripresa demografica, la parte occidentale iniziò a domandare beni
agricoli a quella orientale. Venne a crearsi una specializzazione produttiva e qualcosa di simile si creo anche
all’interno dell’Italia fra il Nord e il Sud. Ciò deriva da un pluralismo politico che non riguarda solo il
dualismo campagna e città, modernità e feudalesimo, ma una più complessa struttura di ridefinizione della
sfera di influenza fra Chiesa e Impero. Con la pace di Vestfalia del 1648 si sancirà la fine delle grandi guerre
di religione e la nascita degli stai moderni in Europa. Nulla di simile si piò osservare all’Impero romano, il
quale, quanto alla “fonte del potere” e alla sovranità, rimane un blocco monolitico. Gli eventi che seguono
derivano dalla nuova concezione del potere tripartito: religioso, politico e della ragione.

I ceti che potremmo chiamare “borghesi” si trovano cosi ad operare in un ambiente plurale, in cui diverse
istituzioni riconoscono loro autonomia e forza rispetto al mondo feudale e all’autorità che promana
dall’aristocrazia fondiaria. Sara proprio grazie alla nascita di questi cambiamenti che porteranno l’Europa
ad affermarsi nel contento mondiale.

3.Verso l’Italia moderna

Per i secoli dell’età moderna i dati riportano un arretramento dell’economia italiana rispetto al resto
dell’Europa occidentale L’analisi dell’andamento ciclico in questo periodo fa riferimento agli studi condotti
da Cipolla il quale conferma che la prosperità italiana nel cinquecento dipendeva da due pilasti:
l’esportazione su larga scala di manufatti tessili e l’attività di intermediazione nel credito e nei servizi
marittimi. Questa situazione fu compromessa a metà del ‘600 in quanto l’Italia si inizio a trovare in una
situazione passiva rispetto la concorrenza olandese, inglese e francese. Nonostante ciò la ricostruzione del
Pil suggerita da Maddison indica una stagnazione, la rivelazione di Malanima addirittura un aumento.

Portando l’attenzione sull’andamento del trend dal ‘500 al ‘800 si rivela una stagnazione dei redditi o
addirittura, se analizzato in termini relativi con quelli europei, in declino. Rimane aperta la questione del
perché quella Rivoluzione industriale non abbia avuto inizio nell’Italia Rinascimentale. La spiegazione
tradizionale sul declino dell’Italia nel Sei e Settecento faceva leva sui fattori di ordine esterno: lo
spostamento dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico, le guerre fra potenze straniere combattute sul
suolo italiano (e quindi la dominazione spagnola nel Mezzogiorno), una fiscalità eccessiva e mal
congegnata che frenò lo sviluppo. Nonostante questi fattori abbiamo contribuito al declino italiano, va
sottolineata l’incapacità di gestire i fattori interni: all’interno di un quadro di insieme in cui l’immobilismo
tendeva a prevalere sull’innovazione, vi erano alcuni aspetti specifici della società e delle istituzioni
italiane, i quali si frapponevano sulla strada di un ulteriore sviluppo capitalistico, sino a bloccarlo. Secondo
gli studiosi il declino italiano deriva da 3 fattori: primo, la mentalità delle classi dirigenti e dei ceti
imprenditoriali, giudicata provinciale e poco aperta alle innovazioni; secondo, la crescente disuguaglianza,
che restringeva il mercato e rendeva poco redditizio reinvestire la ricchezza in attività produttive; terzo, il
ruolo delle istituzioni, da quelle economiche a quelle politiche.

Sulla polarizzazione dei redditi avevano insistito Romano e Malanima che l’aumento della popolazione ha
portato una riduzione dei salari e una distribuzione della ricchezza a favore dei grandi proprietari, con un
ulteriore inasprimento della tassazione indiretta che gravava maggiormente sui ceti umili. Questa
polarizzazione della ricchezza spingeva una grande parte degli abitanti verso un livello di sussistenza, con il
risultato che la domanda interna si manteneva depressa e, non esistendo stimoli alle imprese industriali, la
ricchezza si sterilizzava in investimenti improduttivi: la chiesa e i palazzi del Rinascimento. Cipolla nel suo
resoconto sul crollo delle esportazioni manifatturiere fra il 1600 e il 1700, nota come i prodotti italiani,
anche quando superiori di qualità, venissero soppiantati dalla concorrenza perché avevano un prezzo
troppo alto(derivate soprattutto dalle tasse e dai salari). Anche le istituzioni politiche si rilevano
ampiamente inadeguate; la creazione di stati a dimensioni regionali comportò: aumento della tassazione,
inadeguate politiche espansive, una scarsa efficacia nelle politiche mercantilistiche in quanto non era in
grado di imporre ad altri paesi condizioni favorevoli al loro commercio, non riuscirono a partecipare alla
competizione coloniale e infine non si riusci a mobilitare abbastanza risorse per avviare le grandi
infrastrutture per i trasporti. Nel secolo dei Lumi, nonostante le buone amministrazioni locali, mentre tutte
le altre potenze iniziarono ad avviare uno sviluppo mai visto prima, l’Italia frammentata non riusci a
competere con le grandi potenze europee.

La sfida alla creazione di uno stato nazionale nacque dalle due grandi rivoluzioni, quella politica francese e
quella industriale inglese. Un possibile stato-nazione costituiva la cornice istituzionale essenziale per
permettere al capitalismo industriale di dispiegare la sua forza. Proprio per questo ha un senso porsi il
problema della crescita economia italiana a partire dell’Unità, non solo perché prima l’Italia non esisteva
come entità politica ma anche perché è proprio da allora che il nostro paese si pone nelle condizioni di
poter partecipare alla corsa delle grandi nazioni.

Capitolo 2 “La nuova storia economica d’Italia”

1. Dalle periferia al centro… e ritorno?

Quando l’Italia si è unita, non era più all’avanguardia in Europa. Priva di una base industriale al Nord come
al Sud, e con profondi squilibri di ordine sociale e culturale al proprio interno apparteneva alla
semiperiferia del continente. Dopo un inizio faticoso il nuovo stato, tramite un processo di
industrializzazione e di modernizzazione, diventa una delle maggiori potenze capitalistiche del mondo.
Lungo questo percorso la gran parte dei cittadini italiani ha raggiunto un elevato livello di benessere, ben al
di sopra degli standard internazionali e superiore anche alla media europea. Questo meccanismo però da
circa 20 anni si è arrestato. L’Italia non cresce più come gli altri, cresce di meno di tutti: diminuisce il
benessere, aumenta la povertà, si cronicizzano e amplificano i problemi irrisolti di tipo istituzionale e
sociale ecc.

Ricostruendo la serie storia del Pil di questi anni si notano due importanti dati:

1. il primo è la discontinuità che si produce alla fine della seconda guerra mondiale. A prezzi costanti
dal 1861 al 1940 il reddito medio degli italiani raddoppia a malapena, dal 1948 al 2007 invece si moltiplica
7 volte di più. Il periodo del miracolo italiano infatti è proprio questo.

2. Il secondo è il rallentamento del Pil verificatosi dal 2007 a oggi, frenata che sembra non avere
precedenti.

Guardando l’andamento del Pil possiamo quindi affermare che per l’epoca preunitaria il trend del Pil è
stato sostanzialmente una linea piatta. Alcuni decenni dopo l’unificazione invece, con l’avvio della crescita
moderna data dall’industrializzazione, il Pil inizia ad aumentare in maniera esponenziale. La storia “cambia
verso”: da circolare (fasi di prosperità e carestia in un ciclo continuo) diventa lineare.

Importante è comunque andare a guardare la performance italiana comparandola a quella degli altri paesi.
Ad esempio l’accelerazione repentina seguita alla Seconda guerra mondiale diviene una brillante
convergenza dell’Italia rispetto agli Stati Uniti e alle più avanzate economie europee. La riduzione del Pil
negli ultimi decenni però allontana l’Italia dal gruppo delle economie più forti e la riavvicina alla Spagna. Il
percorso dell’Italia unita è stato definito, da Gianni Toniolo ad esempio, “una storia di convergenza a due
code”: una lunga convergenza che va al 1896 al 1992 con due code di divergenza 1861-1896 e 1992-2010.
Da notare che Toniolo usa il termine “divergenza” e non “declino” e inserisce la “ridotta capacità di crescita
italiana” nel più ampio contesto europeo: l’Italia, l’anello più debole, viene semplicemente colpita in
maniera più incisa dalla sfida della secondo globalizzazione e dall’emergere dei “giganti asiatici”.

L’andamento totale del Pil italiano dal 1861 al 2011 possiamo suddividerlo in 5 o 6 fasi:

1. i primi 35 postunitari in cui l’Italia sembra “arrancare”;

2. l’ultimo tratto dell’Italia liberale dove l’Italia riesce a fare anche meglio dei paesi avanzati, avviando
un’effettiva convergenza
3. il periodo fra le due guerre dove il Pil italiano segue l’andamento degli altri paesi

4. il miracolo economico o età dell’oro 1950-1973

5. l’età dell’argento 1973-1993

6. il declino 1993-2011

Queste fasi possiamo dire che grosso modo corrispondo alle grandi epoche della storia politica ed
economica mondiale contemporanea:

1. la prima globalizzazione 1871-1913 dove si avvia la competizione imperialistica fra le potenze


europee

2. il periodo fra le due guerre, con in mezzo la crisi del ’29, che segna la frammentazione del sistema
internazionale

3. la golden age dell’economia mondiale 1945-1973 caratterizzata soprattutto da ampie e incisive


politiche keynesiane di intervento pubblico

4. l’epoca che inizia con le crisi petrolifere, si accentua con il crollo del blocco sovietico e che sfocia
nella seconda globalizzazione e in un nuovo assetto multipolare del mondo.

2. Questione nazionale e divari regionali

Oltre alla dinamica di crescita Italiana nel suo insieme è anche importante andare a studiare le dinamiche
interne al nostro Paese. Andando a guardare tali dinamiche possiamo suddividere ancora una volta questo
grande periodo in diverse fasi:

1. i primi decenni postunitari, dove l’Italia non cresce o cresce molto poco, i divari interni rimangono
pressoché immutati;

2. verso la fine dell’Ottocento si avviò un vero e proprio cambiamento. Varie decisioni politiche hanno
sicuramente inciso su tale dinamica: la svolta protezionistica del 1887-1888 la quale favorisce gli assetti
cerealicoli del Mezzogiorno, quelli cioè meno vantaggiosi, e protegge alcune produzioni industriali del
centro nord le quali sfruttando dotazioni infrastrutturali, capitale umano, ricchezza di risorse idriche ecc
decollano. Dal 1900 al 1914 comunque possiamo dire sì che vi è stato un innegabile ampliamento dei divari
ma pur sempre contenuto.

3. Gli anni fra le due guerre dove il divario via via si va espandendo: per effetto della Grande guerra e
delle politiche fasciste l’industria si rafforza nel centro-Nord, nel Nord-ovest in particolare, mentre il Sud
rimane indietro;

4. il miracolo economico, definibile come quarta fase, vede una diminuzione del divario Nord-Sud
dovuta in particolar modo ai massicci flussi migratori da Sud a Nord e dalla politiche di intervento realizzare
attraverso la Casse per il mezzogiorno.

5. L’ultima fase che va dagli anni 70 ai giorni nostri vede due trend ben distinti: da un lato il
Mezzogiorno che non converge più con il Nord, dall’altro il Centro-Nord che si “unifica” sempre più
andando a ridurre le distanza fra Nord-Est e Nord-Ovest.
Quando l’Italia è cresciuta a ritmo più intenso, ovvero durante il miracolo economico, i divari fra Nord e
Sud ma negli ultimi anni al declino generale italiano si è sommata l’incapacità del Mezzogiorno di
continuare il suo percorso di convergenza. La mancata convergenza del Mezzogiorno e il declino dell’Italia
sono quindi legati fra di loro, per due ordini di ragioni: primo, perché il Mezzogiorno, proprio per il fatto di
essere “in ritardo” costituisce la maggior opportunità di crescita per il nostro paese, l’area con il più alto
potenziale; secondo, l’immobilismo che è si registrato nel Sud Italia negli ultimi 20 anni è anche
responsabilità della politica nazionale la quale nei suoi momenti migliori è riuscita a trainare con sé il
Mezzogiorno ma che oggi è proprio il fattore di ostacolo alla convergenza dello stesso Sud.

3. Dal reddito al benessere

Oltre al Pil a partire dagli anni ’90 una nuova misura di “crescita” ha riscosso un crescente successo
nell’opinione pubblica: l’indice di sviluppo umano (Human Development Index, Hdi), che combina con pesi
uguali il reddito, l’istruzione e la speranza di vita. Nella prospettiva dello “sviluppo umano” quindi all’analisi
del reddito viene affiancata quella di altre due dimensioni, la conoscenza e la longevità.

Un’altra possibilità per analizzare il benessere degli italiani è esaminare la distribuzione del Pil fra le diverse
fasce di popolazione, scandagliando il reddito medio per guardare più nel dettaglio all’evoluzione della
disuguaglianza e all’incidenza della povertà. Sulla base di queste dinamiche possiamo affermare che l’Italia
è un caso “virtuoso”, che “rompe” per un certo verso le aspettative basate sulla teoria. Durante il decollo
industriale nel nostro paese non vi è stato un aumento delle disuguaglianze, ma una diminuzione; tale
diminuzione è poi proseguita per tutto il miracolo economico e negli anni 70. Anche la linea di povertà
assoluta segue una storia analoga: la percentuale di persone povere si riduce, abbastanza stabilmente, fino
agli anni ottanta del Novecento. Questi andamenti confermano la tesi della così detta “industrializzazione
benigna”: a partire dalla fine dell’800, lo sviluppo economico italiano non ha richiesto alla popolazione
estremi sacrifici, e non è avvenuto al prezzo di significativi peggioramenti delle condizioni di vita. A questo
risultato possono aver contribuito due fattoi: da un lato, la massiccia emigrazione che si è avuta in Italia
proprio in coincidenza con l’inizio dell’industrializzazione; dall’altro, il fatto stesso che l’industrializzazione
italiana abbia preso avvio relativamente tardi, e si sia quindi potuta dispiegare in parallelo con i primi passi
della legislazione sociale, realizzata a tutela delle fasce più deboli, compiuti durante l’età giolittiana. È
anche importante ricordare però che negli ultimi due decenni le dinamiche della disuguaglianza e della
povertà sono in linea con quelle del reddito medio e dei divari regionali: all’inizio degli anni ’90 il trend si
inverte, la povertà e la disuguaglianza aumentano.

Un’altra importante dimensione del benessere è data dalla speranza di vita: dato che riassume
l’alimentazione, le condizioni di vita nella nostra infanzia e quelli di lavoro nella maturità, le nostre vicende
psicologiche, in via indiretta il reddito; e indicatore che riflette lo stato di avanzamento delle conoscenze
mediche e la loro diffusione e applicazione nella società. In particolare la storia della longevità italiana è di
straordinario successo: da speranza di vita infatti passa da 32 anni, nel 1861, a ben 82 anni ai giorni nostri;
tutto ciò essenzialmente grazie al miglioramento dell’alimentazione, aumento delle pratiche di pulizia
personale, costruzione di infrastrutture urbane essenziali, diminuzione delle principali cause di morte
avvenute grazie a loro volta ai miglioramenti in ambito sanitario e ai miglioramenti in ambito di sicurezza e
condizioni lavorative in generale. Il quadro in ambito istruzione è però meno roseo. L’Italia all’epoca
dell’Unità si trovava relegata fra le aree più arretrate di Europa; da lì ovviamente la convergenza italiana sui
paesi avanzanti è andata via via aumentando anche se per anni di istruzione pro capite l’Italia è ancora oggi
indietro rispetto a tutti gli altri paesi avanzati.
L’andamento generale dell’Hdi per l’Italia in scala assoluta segna progressi notevoli. In termini relativi però
i progressi non sono altrettanto notevoli. Per tutto il secolo post-unità l’Italia su 22 paesi presi come
campione si mantiene fra il diciassettesimo e sedicesimo posto. Migliora un po’ durante l’età dell’oro
arrivando al quindicesimo posto per poi però inevitabilmente scendere al 20esimo posto. Su tale
andamento incidono in maniera negativa: la performance del Pil, dell’istruzione e la profonda divaricazione
fra Nord e Sud.

4. Storia economica e storia d’impresa

Per capire a pieno le dinamiche della storia di un paese bisogna andare ad analizzare sia la branca
microeconomica che quella macroeconomica e sia la storia economica che la storia d’impresa.

Un tipico esempio a sostegno di questa teoria è dato dalla letteratura sulle varietà di capitalismi. Secondo
Peter Hall e David Soskice possiamo dividere le esperienze dei capitalismi nazionali in due grandi tipologie:

• economie di mercato liberali o capitalismo di mercato, tipiche dei paesi anglosassoni, dove le
imprese coordinano le loro attività principalmente attraverso i mercati e maggiore risulta la
capitalizzazione di borse e dove quindi fra i soggetti vige la regola della competizione.

• Economie di mercato coordinate o capitalismo organizzato, tipiche dei paesi dell’Europa centrale e
settentrionale, dove a coordinare le attività delle imprese non sono i mercati ma un’ampia congerie di
istituzioni e ordinamenti il cui obiettivo è facilitare lo scambio di informazioni fra gli attori coinvolti e la
sanzione dei comportamenti non cooperativi, e dove la capitalizzazione di borsa è minore.

Fra questi due modelli non vi sono enormi differenze riguardanti i tassi di crescita del reddito ma ve ne
sono di significative sulla sua distribuzione. I due modelli infatti si traslano in una distinta struttura sociale:

• nelle economie di mercati liberali, si registrano solitamente minori tutele del lavoro e una maggiore
disuguaglianza dei redditi

• le economie di mercato coordinare invece si caratterizzano per una più alta equità distributiva.

L’Italia in questo schema è considerata in una posizione caratterizzata sia dal capitalismo di mercato che
dal capitalismo organizzato. Secondo Martin Rhodes l’Italia invece appartiene ad un terzo modello a sé,
definito “mediterraneo” che si contraddistingue per un massiccio intervento dello stato e per un settore
agrario relativamente consistente. Secondo Zamagni invece l’italia è un “non modello”: l’economia italiana
ha una particolare forma in grado di adattarsi facilmente al mutare delle condizioni di contesto. Secondo
Amatori l’Italia invece corrisponde al così detto “capitalismo politico”, dato il ruolo preminente giocato dal
governo in tutta la storia dell’Italia postunitaria. Secondo Della Sala invece quando parliamo dell’Italia
siamo difronte al “capitalismo di stato disfunzionale”: capitalismo simile al capitalismo organizzato ma che
manca di molti elementi cardine di quest’ultimo ad esempio partiti di massa in grado di condurre una
politica di lungo respiro oppure forze sociali collaborative capaci di cooperare per raggiungere obiettivi
comuni.

Un altro esempio di congiunzione fra storia d’impresa e storia macroeconomica è dall’elaborazione di altri
4 idealtipi di capitalismo:

• capitalismo guidato dallo stato in cui il governo stabilisce quali settori e imprese debbano
prosperare,
• capitalismo oligarchico, simile al capitalismo guidato dallo stato ma che ha come obiettivo di
politica economica l’arricchimento di una parte ristretta della popolazione

• capitalismo delle grandi imprese

• capitalismo imprenditoriale, di tipo concorrenziale e basato su imprese di piccole e medie di


dimensioni.

Secondo gli autori esiste un preciso rapporto fra tipologia di capitalismo e performance economica: la
combinazione ideale per una migliore performance economica risulta quella fra gli ultimi due tipologie di
capitalismo poiché si avrà un altro tasso di innovazione (tipico del capitalismo imprenditoriale) ferma
restando però l’importanza delle grandi imprese necessarie per migliorare e per produrre in larga scala le
innovazioni. L’Italia nel corso della sua storia ha sicuramente vissuto tutte e 4 le tipologie di capitalismo.

Per spiegare le ragioni ultime del declino dell’Italia i piani della storia d’impresa e della storia economica si
intersecano con quelli della storia istituzionale e politica. Ricordiamo principalmente due modelli:

• primo modello che evidenzia la differenza fra istituzioni estrattiva, finalizzate ad estrarre una
rendita per una ristretta cerchia di privilegiati e istituzioni inclusive, strutturate per includere le più ampie
fasce di popolazione nel processo di sviluppo economico

• secondo modello che distingue ordini ad accesso limitato e ordini ad accesso aperto. Gli ordini ad
accesso limitato hanno gestito i conflitti cercando di mantenere il potere economico nelle mani di un’élite
chiusa e ve ne sono di 3 tipi, fragile, di base e maturo che sono accumunati dal fatto che i poteri pubblici
manipolano l’economia per garantire o produrre rendite, assicurare stabilità e prevenire la violenza. Gli
ordini ad accesso aperto oltre a riuscire a prevenire la violenza consente un accesso fondato sul merito,
aperto, alle diverse istituzioni politiche ed economiche.

L’Italia moderna all’atto dell’unificazione si presenta sulla scena come incontro di due ordini, entrambi ad
accesso limitato ma su livelli diversi: uno, prevalente nel Nord, che ha le caratteristiche sia della tipologia di
“base”, sia di quella matura; l’altro, nel Mezzogiorno, che appare soprattutto un ordine di “base” ma con
alcuni tratti di quello fragile. L’Italia in tarda età liberale sembra evolvere verso un ordine di accesso aperto
e si dota di istituzioni più inclusive. Con il Fascismo si torna indietro merso un modello ad accesso chiuso a
metà fra maturo e di base ma poi con l’avvento della Repubblica sembra compiersi il balzo definitivo verso
l’ordine ad accesso aperto. Balzo incompleto però in cui si conservano gravi aree di problematicità:
l’incapacità dello stato di prevenire la violenza in importanti regioni; le modalità clientelari di gestione del
potere politico e di una parte di quello economico; la commistione fra politica ed economia. L’Italia
repubblicana costituisce quindi un esempio assai carente di ordine ad accesso aperto, e tale ancora rimane
oggi.

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