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·6·
Deus Vult - miscellanea di studi sugli Ordini Militari

“Militia” e “militanza”.
Templari e rivoluzionari di professione a confronto.

Giovanni Amatuccio

Hans Jonas, nel suo ormai classico studio sullo Gnosticismo, dedicava un ul-
timo capitolo alla relazione tra il pensiero gnostico dell’Antichità e l’Esistenzia-
lismo moderno. Parafrasando le sue premesse metodologiche, in questo saggio
mi ripropongo di delineare un confronto tra “due movimenti ampiamente
distanti in termini cronologici e concettuali e a prima vista incommensurabili”.1
Nel nostro caso, il primo “movimento” appartiene pienamente al cuore dell’età
medievale - sebbene all’interno di esso rappresenti un fenomeno per certi versi
atipico - ed è quello dell’Ordine del Tempio; l’altro, invece, è rappresentato da
un fenomeno eminentemente “moderno”, quale quello dei cosiddetti “rivolu-
zionari di professione” dell’età contemporanea. L’ipotesi qui delineata è che
essi abbiano qualcosa in comune nonostante la distanza cronologica che li
separa.
L’idea di questa indagine metastorica nasce inizialmente da un sugge-
rimento di carattere lessicale desunto da Jean Leclerq. L’eminente studioso
notava, in un suo intervento al convegno sulla Militia Christi della Mennola,
come il termine “militia” - trapiantato in origine dal lessico militare romano in
quello monastico medievale, riferito alla militia Christi quale metafora della
pugna spiritualis che il monaco combatteva contro il male - fosse in seguito, in
epoca moderna e contemporanea, entrato nel lessico politico con l’accezione di
“militanza”, assumendo il nuovo significato relativo, in particolare, all’impegno
politico per una causa.2
Da parte mia, aggiungo che, nel caso dei Templari, il termine ritornò ad
assumere, oltre al significato metaforico, il suo senso originario riferito al miles
realmente combattente. Partendo da questa constatazione lessicale, tenterò qui
di cogliere alcuni aspetti di confronto tra due realtà cronologicamente distanti,
cercando di dimostrare come ci siano sorprendenti attinenze tra la militia dei
Templari e la “militanza” dei rivoluzionari di professione del XIX e XX secolo.
Che tra i due fenomeni storici possa esserci una qualche affinità, può sembrare
di primo acchito inverosimile; ma l’idea del confronto nasce dalla constatazione
1
H. Jonas, Gnosi e spirito tardo antico, a c. di C. Bonaldi, Milano 2010, p. 1084.
2
notre époque a conservé cette manière de dire, à propos de ceux qui sont ‘militants’ d’un
groupe d’Action catholique ou d’un parti politique . (J. Leclercq, Militare Deo dans la tradition
patristique et monastique, in Militia Christi e Crociata nei secc. XI-XIII, Milano 1992, pp. 3-18,
p. 6).

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che, nel lungo intervallo di tempo che separa le due vicende - in pratica tutto il
Basso Medioevo e l’Età Moderna - non si riscontrano simili esperienze per
quanto riguarda le caratteristiche che qui andrò a delineare, vale a dire: lotta
armata per un ideale superiore, nella quale si sacrifica se stessi, in primo luogo a
una rigida disciplina e in secondo luogo alla possibilità del sacrificio estremo.
La guerra in questo lungo ciclo storico torna a essere - come lo era nel
Medioevo - faccenda di prìncipi e stati, la disciplina militare si basa solo sul
deterrente delle punizioni e gli incentivi sono solo di carattere materiale. Gli
avvenimenti “rivoluzionari” di questo periodo - penso, ad esempio, alle lotte
religiose dei contadini tedeschi durante la Riforma - pur assumendo aspetti di
carattere escatologico, non producono organizzazioni permanenti paragonabili
ai Templari o ai partiti rivoluzionari dell’Età contemporanea. Lo stesso dicasi
per le prime vere esperienze rivoluzionarie dell’Europa del Seicento: la
rivoluzione inglese, quella olandese e quella napoletana, dove è l’elemento
socio-politico a caratterizzare la direzione e l’organizzazione popolare in quei
frangenti tutto sommato sporadici e privi di continuità di lunga durata.
Ciò che invece si verifica nel caso dei Templari e, a distanza di molti secoli,
dei rivoluzionari moderni, è che la “lotta armata” contro un nemico “assoluto”,
viene a caratterizzarsi in maniera decisamente “ideologica”. In particolare, tre
sono, a mio parere, gli aspetti che accomunano i rispettivi atteggiamenti
psicologici delle due figure:
- l’atteggiamento di fronte alla guerra (o alla “lotta armata”) e all’“ideale”,
- il carattere di permanenza della loro scelta,
- la rigida disciplina fondata sulla rinuncia alla volontà individuale.
L’anomalia della rottura dello schema tripartito tipico della società
medievale (oratores, bellatores, laboratores) rappresentata dai Templari, è stata
ampiamente rilevata dalla storiografia. Non a sufficienza, invece, è stata colta
un’altra importante anomalia, quella costituita dalla concezione della guerra
permanente in nome della fede (‘ideale’). Tale anomalia autorizza ad azzardare
il paragone che li vede come precorritori di quelli che saranno i comportamenti
che molti secoli dopo diverranno comuni a tanti uomini dell’Europa moderna: i
“rivoluzionari di professione”, figura storica che a partire dalla Rivoluzione
francese - e precisamente dalle prime esperienza della sinistra giacobina di
Babeuf - arriverà fino ai guerriglieri dei nostri giorni, passando per i cospiratori
risorgimentali, gli anarchici del XIX secolo e i Bolscevichi; insomma tutto il
variegato mondo romantico e post-romantico, che ha fatto della figura del
martire e del combattente per l’ideale, l’eroe dei secoli XIX e XX.3 Costoro
avevano fondato i valori della propria esistenza su di un giuramento, per il quale
s’impegnavano a combattere, uccidere e morire in nome di un “ideale”
superiore costituito nella fattispecie da concetti quali libertà, uguaglianza, difesa

3
Il discorso potrebbe essere esteso anche al filone della destra “rivoluzionaria” - fascismo, nazi-
smo ecc. - ma ciò richiederebbe una focalizzazione diversa dell’indagine e ulteriore spazio.

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del popolo o del proletariato ecc. Le loro organizzazioni si fondavano sull’obbe-


dienza e su di una rigida disciplina, avevano, inoltre, un carattere di perma-
nenza, in quanto i militanti si votavano per la vita alla causa.4
È soprattutto nell’opera di Luciano Pellicani, dedicata alle radici storiche
del terrorismo, Revolutionary Apocalypse, che troviamo un’eccellente sintesi
dei contenuti dell’indagine da seguire, nonché abbondante materiale di riferi-
mento. Ad esempio, Pellicani così accenna alle affinità tra lo “spirito rivolu-
zionario” moderno e i precedenti medievali:

“…Il rivoluzionario di professione segue una chiamata: militanza ‘con la


consapevolezza che la propria vita ha il significato nel servizio di una causa’.
In breve, essere un rivoluzionario di professione significa essere completa-
mente dedicato alla rivoluzione; il partito è la sola ragione di vita e la sola
fonte di gratificazione psicologica. Significa altresì sottomettersi a una rigo-
rosa disciplina, fino al punto di diventare un asceta. Askesis - autodisciplina -
è ciò che caratterizza il modo specifico di essere un rivoluzionario di profes-
sione. [...] In tal senso il rivoluzionario di professione è il crociato della sov-
versione permanente, un monaco guerriero impegnato giorno e notte in una
guerra contro altri Ordini, tutti in vario modo corrotti e corrompenti. Per tale
scopo egli eliminerà dalla propria vita tutto ciò - sentimenti, interessi, passio-
ni, gusti - che possa distrarlo dal suo dovere. Egli perseguirà un inarrestabile
processo di auto-purificazione fino a identificarsi completamente e assoluta-
mente con la causa e l’istituzione - il partito rivoluzionario - che lo incar-
na…”.5

Gli elementi delineati da Pellicani trovano un riscontro evidente nel modello


medievale templare. Dai testi fondanti dell’Ordine (Il de laude, il prologo della
Regola) emerge nettamente la convinzione di una devozione totale alla “causa”;
causa per la quale il monaco-cavaliere offre il sacrificio della sua vita. Tale
sacrificio si pone su un doppio binario: quello della dedizione permanente,
caratterizzata, come vedremo meglio in seguito, dalla “rinuncia alla propria
volontà”, e quello dell’estremo sacrificio della morte in battaglia. Ed è in nome
di tale sacrificio che, al tempo stesso, il combattente templare è autorizzato poi
a uccidere e a sacrificare la vita del nemico senza commettere peccato di
omicidio. La teoria del malecidium di San Bernardo bene si attaglia alla morale,
ad esempio, del rivoluzionario russo che si sente autorizzato a uccidere i re
4
Sui movimenti rivoluzionari del XIX secolo, e in particolare sugli aspetti storico-psicologici, si
veda: J. H. Billington, Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria, Bologna
1986, cap. XXV.
5
L. Pellicani, Revolutionary Apocalypse. Ideological Roots of Terrorism, Westport 2003, pp.
104-105 (t.d.A.). Ho attinto a piene mani da questo testo per quanto riguarda suggestioni e cita-
zioni, in quanto approfondisce con dovizia di particolari e acume critico la psicologia dei rivolu-
zionari moderni. Tuttavia, me ne servo indipendentemente dalle tesi di fondo dell’autore, rivolte a
dimostrare la sostanziale appartenenza del Marxismo e dei movimenti correlati, a una sorta di
neognosticismo laico.

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poiché essi rappresentano il male assoluto.6 In ciò il gesto trova la sua


giustificazione, oltre al fatto che il terrorista, nel colpire a morte il nemico,
sacrifica la propria vita.
Del resto, il parallelo tra queste due pur cronologicamente lontane espe-
rienze, si ritrova negli stessi scritti dei “padri” rivoluzionari. Ad esempio, con
queste parole Friedrich Engels, nel suo saggio su “Schelling e la rivelazione”,
celebrava la lotta per “l’Idea” rivoluzionaria:

“… questa corona, questa sposa, questa santa cosa è l’auto-coscienza


dell’umanità (Idea), il nuovo Graal attorno al cui trono le nazioni si riunisco-
no […] Questa è la nostra vocazione, diventare i Templari di questo Graal,
cinta la spada attorno ai nostri fianchi per la sua causa, rischiando le nostre
vite con gioia, nell’ultima guerra santa, che sarà seguita da migliaia di anni di
regno della libertà. E tale è la forza dell’Idea che colui che l’ha conosciuta
non può cessare di parlare del suo splendore o di proclamare la sua forza
conquistatrice, che gioiosamente e con cuore puro offre tutto, sacrifica corpo
e anima, vita e proprietà in modo che essa e solo essa trionfi. Colui che la
creduto in essa una volta, a cui nella quiete notturna della sua piccola camera
è apparsa in tutto il suo splendore, non potrà mai abbandonarla, egli dovrà
seguirla dove lo condurrà, anche alla morte…”.7

Questo richiamo ai Templari e al Graal stupisce non poco sulla bocca del
padre del materialismo storico, di certo non sospettabile di manie templariste,
pur imperanti nell’Ottocento europeo. Non è un caso che Engels scelga l’esem-
pio dei Templari per esaltare la dedizione rivoluzionaria alla “causa”. Pur non
essendo, probabilmente, conoscitore della storia del Tempio, egli tuttavia attin-
geva a un aspetto dell’immaginario del suo tempo legato alla storia e alla figura
dei Templari quali combattenti devoti “alla causa”: il suo riferimento è desunto
chiaramente dal Parzival, nel quale i Templari sono rappresentati quali custodi
del Graal. Nelle parole di Engels si ritrovano i topoi classici usati già secoli
prima nei testi dell’Ordine per esaltare e al tempo stesso legittimare l’azione dei
cavalieri di Cristo. Così estrapolato dal contesto generale, il suo linguaggio
potrebbe essere tranquillamente scambiato per un frammento di un testo
medievale: la guerra santa, il Graal, i Templari ecc. Ciò non dimostra,
evidentemente, improbabili ascendenze del pensiero rivoluzionario marxista o
pre-marxista dalla storia dell’Ordine, sebbene non è del tutto escluso che la
comprovata ispirazione della massoneria settecentesca ai Templari abbia potuto
influenzare - a partire dagli Illuminati di Baviera, attraverso le sette post

6
Sane cum occidit malefactorem, non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida... Bernardus Clarae-
vallensis, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae, in Sancti Bernardi opera, III, Roma
1963, pp. 213-239, ed. J. Leclerq et alii, par. 4, p. 214.
7
K. Marx, F. Engels, Historich-Kritische Gesaumtausagabe, Frankfurt am Main: Marx-Engels
Archiv, 1927, 1/2 2:225-26 (t.d.A.).

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rivoluzione francese, anche i primi movimenti radicali comunisti (Babeuf ecc.).8


Ciò che qui invece conta è il nesso forte esistente tra la “mentalità” del templare
del XII-XIII secolo e quella del “rivoluzionario di professione” del XIX-XX
secolo. Del resto, riferimenti diretti di un paragone tra partito bolscevico e
Ordini religioso-militari si ritrovano, anche negli stessi discorsi dei suoi leader.
Ad esempio è Stalin, in un discorso del luglio 1921, a definire il partito
bolscevico come “una sorta di Ordine dei Porta-Spada all’interno dello stato
sovietico”; mentre in altra occasione disse a Beria che i bolscevichi erano “una
sorta di Ordine religioso-militare”.9
Oltre agli stessi protagonisti, anche la storiografia ha spesso individuato e
sottolineato il paragone tra organizzazione rivoluzionaria e organizzazione reli-
giosa, assumendo, però, come esempio quello dei Gesuiti, ciò perché esso
costituiva l’esempio più visibile e più vicino cronologicamente alla propria
esperienza. Il primo, forse, a formulare il paragone fu il generale Dumouriez,
che definì i Girondini “i Gesuiti della Rivoluzione”; fu poi Proudhon a usare lo
stesso paragone per i Giacobini, e questa formulazione ebbe ampia fortuna
venendo ripresa in seguito da altri autori ed esteso poi ai Bolscevichi.10 Molti
commentatori, tuttavia, limitano il paragone agli aspetti proverbialmente
attribuiti alla Compagnia di Gesù, il cinismo e il machiavellismo. Di recente è
stato Luciano Pellicani a titolare un capitolo del suo già citato Revolutionary
Apocalypse, proprio “The Jesuits of the Revolution”, dove, invece, il parallelo
viene esteso agli aspetti relativi alla disciplina, al concetto di avanguardia
intellettuale ecc. È in particolare su questi ultimi aspetti che le caratteristiche
attribuite alla Compagnia di Gesù, che vengono messe in risalto nella compa-
razione, sono ascrivibili sicuramente all’esperienza più antica del Tempio.11 Il

8
Sulle vicende del Templarismo del XVIII secolo e gli intrecci con Massoneria, Illuminati di
Baviera e altre sette, si veda la parte seconda di P. Partner, I Templari, tr. it., Torino 1991.
9
J. V. Stalin Works, From Marx to Mao, vol. 5, Mosca 1957, 74; S. S. Montefiore, Stalin: the
Court of the Red Tsar, New York 2003, pp. 85-86.
10
C. F. Du Périer Dumouriez, La vie et les mémoires du général Dumouriez: avec des notes et des
éclaircissements historiques, Paris 1823, p. 314; P. J. Proudhon, De la justice dans la révolution
et dans l’église, Parigi 1860, p. 172. Sul parallelo tra Gesuiti e Bolscevichi, si veda in particolare
R. Fülöp-Miller, The Mind and Face of Bolshevism, Londra 1927, pp. 280 e ss., dove l’autore,
partendo dal Dostojevski della Leggenda del Santo inquisitore, si sofferma soprattutto sulle ana-
logie etiche, in particolare sul concetto di fine e di mezzo, nonché su quello di gerarchia.
11
“Nel tentativo di comprendere questa diversità (che tutti i partiti comunisti hanno indicato come
prova della loro superiorità morale sui partiti riformisti e borghesi), è utile comparare il partito
leninista con l’Ordine religioso Gesuita, com’è stato fatto in molte occasioni. Esso è governato
dagli stessi principi: la Compagnia di Gesù fu concepita dal suo fondatore come una macchina da
guerra al servizio della redenzione. Sebbene non abbia mai confessato il suo debito con Ignazio
da Loyola, quando Lenin cominciò il cammino indicato da Bakunin […] accettò la regola fonda-
mentale dei gesuiti: perinde ac cadaver. Su questa regola egli costruì l’istituzione che credeva
avrebbe salvato l’umanità dalla rovina morale e dall’essere trascinata nella palude borghese.
L’obiettivo dichiarato: massima coesione morale e intellettuale del corpo consacrato, rendendolo
spiritualmente impervio…” (L. Pellicani, Revolutionary, op. cit., p. 105) (t.d.A.).

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confronto diventa, infatti, più calzante nel caso dei Cavalieri di Cristo, se si
tiene presente il dato rappresentato dalla concomitanza dell’ele-mento che
abbiamo definito “ideologico” con quello armato, combattente, fatto questo che
si riscontra sia nel caso dei Templari sia dei rivoluzionari moderni, ma non in
quello dei Gesuiti. Sebbene, infatti, questi ultimi abbiano spesso adottato
metodi, linguaggi e metafore di tipo militare, non si può dire che abbiano mai
costituito una forza armata realmente combattente.
Il primo dei tre aspetti del paragone, a cui si accennava in precedenza, da
considerare è il concetto di militanza per un “ideale”, una causa, per il quale ci
si impegna, da una parte, in un servizio “permanente” fino all’estremo sacrificio
della vita stessa, dall’altra si è disposti a uccidere il “nemico”, ritenendosi
assolti dall’azione violenta e omicida dal valore superiore della causa stessa. Il
punto di partenza necessario per l’indagine su tale aspetto è costituito senz’altro
dalle linee tracciate da Paul Alphandéry e Alphonse Drupont, i quali nell’ambito
della definizione degli elementi ideologici e psicologici dell’ “idea di crociata”,
hanno, tra l’altro, messo in evidenza le analogie tra lo spirito escatologico delle
crociate medievali e le moderne rivoluzioni “justicières”.12 Un parallelo tra
crociata e rivoluzione viene avanzato anche dal filosofo francese Albert Camus,
il quale afferma che “La révolution, même et surtout celle qui prétend être
matérialiste, n’est qu’une croisade métaphysique démesurée”.13
Se si ammette questa equazione tra crociata e rivoluzione, a maggior ragio-
ne, a mio parere, se ne può stabilire un’altra tra monaco-guerriero e rivoluzio-
nario tenendo presente la peculiarità del fenomeno templare all’interno del più
generale movimento crociato. Il cavaliere, in effetti, si fa Templare per
difendere i pellegrini e i Luoghi Santi; ma la sua è una scelta salvifica al pari di
quella del pellegrino: egli sceglie di adempiere un voto per garantirsi la salvezza
della propria anima. Tuttavia, a differenza del pellegrino, o del crociato, il suo è
un voto caratterizzato da una scelta di vita, una scelta definitiva; e in ciò è più
simile al monaco, in quanto sceglie di rinunciare alla propria volontà , in
un’ottica che è di servizio e di sacrificio, ma che gli garantisce il premio
supremo per il Cristiano: la salvezza della propria anima. Se è vero che il
pellegrino gerolosomitano conquista la salvezza compiendo il viaggio verso il
Santo Sepolcro, ciò sarà ancor più vero per chi, armi in pugno, decide di
12
“…il pensiero di Paul Alphandéry, nel rilevare con forza la realtà di nova religio della Crociata,
ha presentito vicinanze tra Crociata e Rivoluzioni. Queste masse povere, custodi della tradizione
della Crociata, che cosa contengono in sè se non il potere della Rivoluzione giustizialista ? [...]
Avvento del socialismo, quale società del regno, senza classi, giusta, armoniosa. In ciò consiste il
compimento comune della Crociata e della Rivoluzione. Tutte e due in movimento verso
l’avvento, e affinché il regno sia fatto” (P. Alphandéry, A. Dupront, La Chrétienté et l’idée de
Croisade. Recommencements nécessaires (XIIe-XIIIe siècles), Paris 1959, pp. 276-277 (t.d.A.). In
altra sede lo stesso Dupront estende il paragone tra i crociati e i rivoluzionari giacobini (A.
Dupront, Croisades et eschatologie, in Umanesimo e Esoterismo: Atti del V convegno
internazionale di studi umanistici, a c. di E. Castelli, Padova 1960, p. 170).
13
A. Camus, L’homme revolté, Paris 1966, p. 136.

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Deus Vult - miscellanea di studi sugli Ordini Militari

difendere quei pellegrini e quel luogo, anche se, come nel caso dei fratelli
d’Occidente, non partecipa direttamente alla guerra in Oriente, garantendo
tuttavia ai combattenti della Terrasanta le risorse economiche e umane.
La novità maggiore dell’Ordine combattente consiste, quindi, nel fatto di
aver introdotto un concetto della guerra in nome di un “ideale”, fenomeno al-
quanto raro per la storia dell’Occidente e che s’invererà solo nell’epoca con-
temporanea. Per rimanere alla storia del Medioevo occidentale, infatti, provia-
mo a chiederci per che cosa si combatteva nel Medioevo. I valori per i quali gli
uomini mettevano in gioco la propria vita erano quelli dell’onore, della fedeltà,
del coraggio, del bottino, del potere. Valori certo comuni a tutte le epoche della
storia comprese la nostra, ma che nel medioevo assumevano un significato par-
ticolare: onore personale e della stirpe; fedeltà verso il signore, il re, l’imperato-
re; coraggio nel combattere, sprezzo della vita; sete di guadagno di bottino, di
terre e di potere. Ora, forse per la prima volta nella storia, nell’esperienza delle
Crociate, ma ancor più con la nascita degli Ordini Militari, compare il concetto
della guerra in nome della fede, quindi per qualche cosa che andava al di là dei
valori summenzionati: combattere e morire per qualcosa di più alto, che esulava
dai meschini guadagni della vita terrena, ma che aveva come ricompensa la vita
eterna. Certo si potrebbe discettare sull’utilitarismo anche di questa concezione,
che a ogni modo prevedeva il guiderdone finale, il premio più alto per un
Cristiano, per colui cioè che credeva nella resurrezione della carne e nella vita
eterna, ma si trattava pur sempre di un premio “ideale”, trascendente.
Se tali considerazioni valgono per i crociati in generale, valgono ancor di
più per i monaci-cavalieri, grazie al carattere permanente del loro servizio, e qui
veniamo al secondo punto del confronto: la permanenza. Come già ricordato, i
Templari e gli altri monaci-cavalieri facevano un voto di servizio permanente,
cosa che li rendeva diversi dagli altri crociati. Questi ultimi svolgevano è vero la
loro missione, il loro pellegrinaggio armato verso i luoghi Santi, ma conclusa la
missione e adempiuto il voto, tornavano alle loro case, ai loro cari e tornavano
semmai a combattere di nuovo per l’oro o per il re; oppure, rimanevano in Siria,
ma in veste di signori feudali, a difendere e amministrare i loro nuovi patrimoni
terrieri. I Templari no, i Templari restavano in servizio permanente, per tutta la
loro vita, a combattere per Cristo e per la Chiesa.
Lo stesso elemento della “permanenza” caratterizza anche i rivoluzionari
“di professione” contemporanei, i quali si distinguono dalle esperienze coeve
dei rivoluzionari, potremmo dire, “occasionali”, vale a dire tutti coloro che, a
vario titolo, si trovano coinvolti nei vari episodi di rivolta più o meno
organizzate, o nelle stesse grandi rivoluzioni dei secoli XIX e XX. La differenza
tra le due figure è facilmente riscontrabile nel carattere permanente delle
organizzazioni rivoluzionarie venutesi a formare in Europa a partire dall’espe-
rienza Giacobina in poi. Carboneria, sette rivoluzionarie nazionalistiche, su su
fino al Partito bolscevico russo della prima ora: in tutte queste organizzazioni la
militanza assumeva il carattere di una dedizione permanente, una scelta di vita,

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che impegnava il militante al di là della semplice partecipazione al singolo


avvenimento rivoluzionario. Per restare dunque nel nostro paragone, possiamo
affermare che il Templare sta al Crociato come il rivoluzionario di professione
sta a quello occasionale. Dunque, oltre alle suaccennate differenze di carattere
ideologico, un altro elemento fondamentale, quello della permanenza, li
distingueva dagli eserciti contemporanei, i quali si costituivano e si scioglievano
alla bisogna, senza che ci fossero strutture permanenti quali caserme o simili.14
Il terzo elemento del confronto è costituito dalla concezione della disciplina
che caratterizzava entrambi i movimenti in esame. È nota ed emblematica la
concezione della disciplina “rivoluzionaria” espressa al massimo livello dal par-
tito bolscevico e da i suoi epigoni. Ma in realtà questa concezione della discipli-
na veniva da più lontano ed era già patrimonio delle sette rivoluzionarie
dell’Ottocento. Una delle testimonianze più sorprendenti in tal senso è
riscontrabile negli scritti di Michail Bakunin. Sorprendente perché stupisce
trovare, nel padre fondatore della dottrina anarchica, un elogio della disciplina e
dell’organizzazione apparentemente stridente rispetto ai canoni del pensiero
libertario, ma del resto è risaputo che il partito bolscevico si modellò sulle
esperienza dei primi rivoluzionari russi del XIX secolo. Vediamo come, ad
esempio, nel seguente passo di Bakunin, si ritrovino i cardini principali del
concetto di disciplina e obbedienza, guarda caso attribuiti dall’autore ai Gesuiti,
ma che noi sappiamo essere presenti nei fondamenti dell’istituzione templare. In
particolare due sono gli elementi che colpiscono per la loro affinità con i testi
fondanti del Tempio - quasi sembrerebbero citazioni testuali, se non fosse
pressoché sicuro che Bakunin non abbia mai conosciuto tali fonti - : la “rinuncia
alla propria volontà” e “l’organizzazione della comunità” che trasforma i molti
in un solo individuo:

“Avete mai pensato alla principale ragione della forza e la vitalità


dell’Ordine dei Gesuiti? Vi dirò la ragione. Essa consiste nell’assoluta estin-
zione dell’individuo nella volontà e nell’organizzazione della comunità. […]
Questo è il sacrificio che io chiedo a tutti gli amici. Io sono il primo pronto a
dare questo esempio. Io non voglio essere Io, io voglio essere noi. Solo a
questa condizione […] la nostra idea trionferà”.15

Come non riconoscere in queste righe straordinarie corrispondenze con le


parole del De Laude Novae Militiae di Bernardo di Chiaravalle.

14
Mi si perdoni l’autocitazione, ma l’argomento è stato da me approfondito assieme ad altri a-
spetti in G. Amatuccio, Dal castrum al claustrum e viceversa. Disciplina monastica e disciplina
cavalleresca nell’esperienza templare, in: “Nuova Rivista Storica”, XICV, fasc. I, (2010), pp.
125-154.
15
Cito e traduco da, L. Pellicani, Apolalypse, op. cit., p. 112, nota 45.

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Deus Vult - miscellanea di studi sugli Ordini Militari

“Vivitur in communi, plane iucunda et sobria conversatione, absque uxo-


ribus et absque liberis. Et ne quid desit ex evangelica perfectione, absque
omni proprio habitant unius moris in domo una, solliciti servare unitatem spi-
ritus in vinculo pacis. Dicas universae multitudinis esse cor unum et animam
unam: ita quisque non omnino propriam sequi voluntatem, sed magis obsequi
patagi imperanti”.16

Ma dove il paragone diventa ancor più calzante è nella Lettera agli ufficiali
dell’esercito russo, laddove l’anarchico, approfondisce la similitudine tra
Gesuiti e rivoluzionari:

“…Mi riferisco a un’organizzazione segreta che già esiste, e che dovrebbe


già contare sulla disciplina, la dedizione e l’appassionata abnegazione dei
suoi membri e sulla passiva obbedienza a tutte le direttive di un singolo co-
mitato che conosce tutti gli scopi non conosciuti da tutti. I membri di questo
comitato hanno dedicato completamente se stessi; ciò li autorizza ad aspettar-
si che lo stesso faccia ciascuno dei membri dell’organizzazione. Essi hanno
abbandonato tutto ciò che è oggetto del desiderio di orgoglio, ambizione e
potere di avidi uomini; rifiutando per uno e per tutto il potere personale, pub-
blico e ufficiale, e in generale ogni celebrità nella società, hanno votato essi
stessi all’oscurità permanente, lasciando agli altri la gloria dell’apparenza e
della fama, preservando per se stessi, e sempre collettivamente, solo
l’essenza dell’impresa. Come i Gesuiti, ognuno ha abbandonato la propria
volontà, non per sottomissione, ma per l’emancipazione del popolo.
All’interno del comitato, quindi nell’intera organizzazione, non è l’individuo
che pensa, vuole e agisce, ma la collettività [...] Un serio membro compie ri-
gorosamente e in condizionatamente gli Ordini e le istruzioni dall’alto senza
chiedere mai, senza voler conoscere, il grado col quale egli contribuisce
all’organizzazione. Egli conosce che tale disciplina è un’essenziale garanzia
della relativa impersonalità di ogni membro che di conseguenza è la conditio
sine qua non della vittoria comune. Egli sa che solo tale tipo di disciplina gli
consentirà di contribuire alla formazione di una vera organizzazione e creare
una forza rivoluzionaria collettiva che, essendo basata sul potere impersonale
del popolo, potrà combattere con successo vis a vis il formidabile potere
dell’organizzazione dello Stato…”.17

Il concetto di “abbandonare la propria volontà”, mutuato dalla regola


benedettina, era alla base della disciplina dell’Ordine; scritto a chiare lettere
nell’incipit della Regola, ricompare poi in più punti:

16
Bernardus Claraevallensis, Liber, op. cit., IV,7, p. 220.
17
Cito e traduco da, L. Pellicani, Apocalypse, op. cit., pp. 132-133.

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Deus Vult - miscellanea di studi sugli Ordini Militari

“Noi ci rivolgiamo principalmente a tutti coloro che disdegnano di se-


guire le proprie volontà e desiderano, con puro coraggio, servire come cava-
lieri il sovrano Re…”.18

“Voi che avete rinunciato alle vostre volontà…”.19

“Noi ordiniamo per comune consiglio, che in questa Casa consacrata da


Dio, nessun fratello combatta o riposi secondo la propria volontà, bensì se-
condo gli ordini del maestro, al quale tutti dovranno inchinarsi…”.20

La rigida disciplina del Tempio, era stata mutuata da quella monastica e


adattata alle esigenze militari. Fu proprio essa che permise ai cavalieri
dell’Ordine di diventare i formidabili difensori della Terrasanta e degli stessi
stati crociati. Grazie a essa, i Templari erano riusciti a creare una formidabile
macchina da guerra che non aveva analoghi negli eserciti secolari del tempo.21
In conclusione, possiamo quindi affermare che il fenomeno templare
rappresenta un caso singolare e unico nella storia del Medioevo in quanto
precursore di elementi “ideologici”, che, trasposti su di un piano profondamente
diverso (laico e materialista), solo molti secoli dopo, si dispiegheranno in tutta
la loro potenzialità nella storia europea.

18
Il Corpus normativo templare. Edizione dei testi romanzi, con traduzione e commento in italia-
no, ed. G. Amatuccio, Galatina, 2009, I, p. i.
19
Ivi, I, p. 1.
20
Ivi, 1, p. 26.
21
Cf. G. Amatuccio, Dal castrum…, op. cit.

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