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Gisbert Haefs

LA SPADA DI CARTAGINE

Traduzione di Giuseppe Cospito


Titolo originale: Das Schwert von Karthago
© 2005 Gisbert Haefs Edizione originale Wilhelm Heyne Verlag, Mùnchen, Verlagsgruppe
Random House GmbH
© 2008 Marco Tropea Editore s. r.l. Corso Buenos Aires 36
ISBN: 978-88-558-0029-7
LA SPADA DI CARTAGINE
Cartagine (Qart Hadasht) 230 a. C. Mediterraneo 5 km Lago di Tynes

[229 a. C] Zabugu aveva ucciso e quindi doveva morire. Se avesse ammazzato un


mendicante o pugnalato una piccola canaglia come lui, forse sarebbe stato condannato a una morte
lenta: a lavorare in una cava di pietra, sepolto vivo, ma utile agli altri. L’uccisione di un uomo ricco
e influente, invece, doveva essere espiata con la crocifissione: se il giudice non avesse deciso
diversamente, l’assassino sarebbe stato legato a una croce, gli avrebbero spezzato le braccia e le
gambe e avrebbero lasciato che fossero il sole, la sete e il dolore a fare il resto. Ma Zabugu aveva
commesso il crimine, o peggio, l’idiozia, di uccidere un uomo ricco che faceva parte dei duecento
giudici. Perciò gli altri lo avrebbero di certo condannato a una morte atroce.
Le guardie che, al comando di Bomilcare, assicuravano l’ordine nella città, avevano
condotto Zabugu al Vallo Grande e l’avevano rinchiuso in una delle segrete.
In quella vicenda, però, c’era qualcosa che non convinceva Bomilcare: restavano alcune
domande, domande che avrebbe voluto porre a Zabugu prima che uno degli estrosi boia gli
chiudesse la bocca per sempre.
Mentre attendeva che le guardie della segreta gli consegnassero Zabugu, Bomilcare diede
l’ennesima scorsa ai pezzi di papiro scribacchiati dal suo attendente Autolykos. Tutta quella storia
non gli piaceva per niente; ma poi, con un lieve sorriso, si disse che nessun assassino era obbligato
ad agire secondo i gusti del capo delle guardie della città.
L’omicidio era stato commesso la sera prima, mentre Bomilcare cenava in un’osteria del
quartiere del porto insieme alla sua compagna Aspasia e ascoltava qualcuno raccontare storie
sconclusionate. Autolykos aveva condotto l’assassino alla fortezza e l’aveva difeso con le unghie e
con i denti da alcuni membri del Consiglio che lo volevano trascinare subito nella prigione del
palazzo del tribunale.
«Ha fatto bene» mormorò Bomilcare, che aveva già elogiato calorosamente Autolykos. I
giudici e i loro aguzzini, in ogni modo, avrebbero presto avuto occasione di divertirsi con Zabugu.
Anche Bomilcare avrebbe voluto occuparsi di lui molto prima, quel mattino stesso. Ma gli si
era abbattuta addosso una di quelle calamità tanto inevitabili quanto ricorrenti: i membri del
Consiglio, o le persone che lo volevano diventare. Ogni anno veniva rieletto un terzo del Consiglio,
le votazioni si svolgevano alla fine dell’estate e, prima di allora, tutti quelli che aspiravano a essere
eletti per la prima volta o rieletti, battevano la città per parlare con i concittadini, ascoltare le loro
lagnanze e lusingarli con promesse.
Nato a Ityke, la più antica tra le città puniche, Bomilcare avrebbe potuto ottenere da tempo
la cittadinanza di Qart Hadasht per poter partecipare alle elezioni. Occorrevano proprietà, cariche o
benemerenze. Bomilcare non possedeva terreni e neppure una casa o una bottega, ma aveva
combattuto in Iberia e salvaguardava la pace della città. In realtà non sapeva neanche lui per quale
motivo non se ne fosse mai interessato; forse perché aveva già fin troppo a che fare con i politici.
Come quel mattino, quando otto uomini che non conosceva affatto avevano voluto visitare
prima il posto di guardia e poi la fortezza. Li aveva accompagnati uno dei suoi attendenti, il punico
Achiqar, e per due ore avevano fatto domande, sfogliato incartamenti, avanzato proposte. Alcuni
erano stati cordiali, di una gentilezza mista a condiscendenza, altri si erano dimostrati presuntuosi e
scostanti e, per manifestare la loro appartenenza ai ceti più elevati e la loro distanza da lui e dal
resto del popolino, avevano parlato in modo forbito e stentoreo. Una perdita di tempo, che gli aveva
impedito di occuparsi di cose più importanti. A cominciare da Zabugu.
Bomilcare alzò lo sguardo dai pezzi di papiro e rimase in ascolto. I locali dei tutori
dell’ordine, che comprendevano il posto di guardia vero e proprio e la stanza accanto in cui a volte
trascorreva la notte, si trovavano nella parte delle mura che dalla Porta di Tynes si dirigeva verso
sud fino alle fortificazioni che costeggiavano la laguna. Oltre ai rumori che, come ogni mattino,
provenivano dalla porta e dalla Via Grande, udì un tintinnio di catene. Dopo pochi istanti, davanti
all’ingresso comparvero quattro uomini: due fanti incaricati del servizio di guardia, Zabugu e
Achiqar.
«Ecco il tuo regalo» disse quest’ultimo indicando con il mento il prigioniero. «Bene
impacchettato, spero.»
«Vi ringrazio, soldati» disse Bomilcare con un cenno ai due fanti. «Ci vorrà un po‘“di
tempo. Tornate indietro: quando avremo finito, vi faremo chiamare.»
Zabugu era di origine numida (“probabilmente un massilo “pensò Bomilcare); indossava
soltanto un perizoma di cuoio e portava le catene ai piedi e ai polsi. Aveva le dita dei piedi lunghe e
sudicie, e le piante ricoperte di calli. Quando l’uomo si voltò all’indietro per dare un’occhiata al
posto di guardia, Bomilcare vide sulle sue spalle le tracce di una frustata e alcuni segni bluastri sulla
pelle, probabilmente di colpi inferti con il manico della lancia. Sulle mani e sul volto aveva
tumefazioni più piccole, che parevano essere state provocate da punture d’insetto.
«Siediti» gli disse Bomilcare, indicando uno sgabello.
Zabugu si mostrò alquanto sorpreso, ma poi obbedì all’ordine senza dire una parola. Achiqar
appoggiò la spalla sinistra contro l’ingresso, tenendo la spada corta nella mano destra.
Bomilcare osservò il viso dell’assassino, domandandosi per la centesima volta perché mai
non fosse possibile riconoscere il mestiere, il carattere o le qualità di una persona dall’aspetto fisico.
Zabugu avrebbe potuto essere un contadino, un facchino, un marinaio, un soldato semplice; il
mento irsuto, la bocca larga, il naso un po‘“troppo corto, gli occhi castano scuro, stanchi: non aveva
nulla di singolare, Nessuna spiccata dote di spirito” pensò Bomilcare “ma non mostra neppure segni
particolari di crudeltà o di malvagità”.
«Perché?» domandò.
Zabugu fissò un punto sopra la testa di Bomilcare, forse una macchia nell’intonaco della
parete, e alzò le spalle.
«Vogliono fare in fretta con te.» Bomilcare si appoggiò all’indietro sulla semplice sedia
pieghevole, prese il coltello che aveva usato per tenere fermi i papiri e ne diresse la punta verso
Zabugu. «Domattina presto un giudice si occuperà di te.
Immagino che, verso mezzogiorno, cominceranno a infliggerti una morte lenta.»
Zabugu sembrava non ascoltarlo. Aveva chinato il capo e fissava il pavimento, o forse gli
anelli di ferro che aveva alle caviglie o la catena che li univa.
«Hai sentito?»
Zabugu sollevò il capo molto lentamente e guardò Bomilcare. «Ho sentito, capo delle
guardie» disse piano «ma non ho ascoltato.»
«E perché no?»
«Sarebbe stato inutile.»
«Più tardi, questa sera, parlerò con Himilko, il suffeta.
Forse sa già quale giudice si occupa del tuo caso. Se ne avesse motivo, potrebbe parlare con
il giudice, pregandolo di procurarti, per determinate ragioni, una morte rapida e poco dolorosa.»
Zabugu si morse il labbro inferiore. «Questo sarebbe…»
tossì. «Perché mai un suffeta dovrebbe preoccuparsi per me?»
«È vero» disse Bomilcare posando di nuovo il coltello sui pezzi di papiro. «Perché dovrebbe
farlo? In questa città ci sono due suffeti, duecento giudici, trecento membri del Consiglio, trenta
Anziani e diecimila Zabugu. A chi interessa uno Zabugu?»
«Duecentoquattro giudici» disse Achiqar ridacchiando.
«Centoquattro nobili, che si preoccupano degli interessi dello Stato, e cento meno nobili per
l’ordinaria amministrazione.
Diecimila Zabugu, diecimila Achiqar. E quanti Bomilcare?»
«Più del necessario. Ma uno di questi Zabugu ha fatto qualcosa che riguarda tutti gli uomini
nobili, ricchi e potenti.
Qualcosa che li inquieta. Per questo hanno tanta fretta di occuparsi di te.»
Zabugu rovesciò gli occhi e tacque.
«Per me le cose stanno così» disse Bomilcare. «Tu hai trafitto con una lancia il nobile
Abdosir, mentre usciva dal tempio di Eshmun. Avevi il volto coperto da un velo, ma ti sei
arrampicato su un muro per sfuggire agli schiavi che ti inseguivano e il velo è rimasto impigliato tra
i rami di un albero.
Gli schiavi di Abdosir non sono riusciti a proteggere il loro padrone, ma ti hanno visto, così
come gli altri tre membri del Consiglio che erano stati nel tempio insieme ad Abdosir.
Hanno gridato tutti forte e alcune mie guardie, che si trovavano per caso nelle immediate
vicinanze, ti hanno catturato non appena sei uscito dal giardino.»
Achiqar aprì la bocca, ma la richiuse non appena Bomilcare gli lanciò un’occhiata severa.
«Il giudice prenderà in considerazione questo e nient’altro. Una nullità di nome Zabugu ha
ucciso un cittadino importante; su questo non c’è alcun dubbio, così come non c’è alcun dubbio
sulla tua condanna.»
Il massilo scoprì i denti. «Ma perché tutto questo discorso, signore?»
«Perché ci sono alcune altre cose che mi preoccupano. Te le voglio raccontare, in modo che
tu le comprenda… e comprenda me.»
Zabugu sospirò piano. «È inutile.»
«Lo vedremo. Quasi seicento anni fa, quando la principessa Elissa navigò fin qui da Tiro per
fondare la nuova città, aveva due timonieri. Uno era Ahiram, antenato dello stratega Amilcare, che
sta combattendo in Iberia. L’altro era Baalyaton, antenato del membro del Consiglio e giudice
Abdosir.
Innumerevoli suffeti, sommi sacerdoti, strateghi, giudici, membri del Consiglio. Una delle
famiglie più importanti. Una delle più eminenti tra quelle antiche e potenti, cananei autentici i cui
antenati hanno navigato fin qui da Canaan.
Influente, con parenti e amici molto influenti. Ricchi mercanti, proprietari di case e di
terreni.»
Bomilcare fece una pausa e osservò l’assassino. Zabugu rimase impassibile.
«E tu… figlio di un cammelliere massilo. Tuo padre, leggo qui, faceva il carovaniere e, a
quanto ne sappiamo, non ha mai avuto niente a che fare con Abdosir, né con la sua famiglia. Tu sei
arrivato in città otto anni fa, dopo la fine della guerra contro i mercenari, e da allora hai lavorato
qui. Come facchino, come mandriano, come stivatore al porto e, negli ultimi tre anni, come…
qualcos’altro. Come tirapiedi di Gulussa che, prima di morire l’anno scorso, era uno dei principi dei
bassifondi. Da allora per chi hai lavorato?»
Zabugu alzò le spalle. «Per chiunque mi pagasse.»
«Abdosir ti ha pagato? E per che cosa?»
«Abdosir?» disse Zabugu con gli occhi spalancati e un tono come se volesse accusare
Bomilcare di essere impazzito.
«Abdosir si è rifiutato di pagarti?»
Questa volta Zabugu si limitò a scuotere il capo in silenzio.
Bomilcare pensò che l’idea che uno come Abdosir avesse anche solo saputo dell’esistenza di
Zabugu era altrettanto plausibile dell’ipotesi che, fino a due giorni prima, la luna fosse stata una
delle boe ancorate all’ingresso del porto.
«Quindi non esistono legami tra voi? E va bene… ma allora perché l’hai ammazzato?»
A quel punto Zabugu prese a sogghignare. «Mi andava di farlo.»
Bomilcare annuì. «Sono cose che capitano. Ma non ti aspetterai certo che ti creda.»
«Non mi aspetto proprio niente.»
«E invece sì. Una morte terribile. Faranno in modo che sia esemplare per terrorizzare gli
altri. Ci sono aguzzini esperti.
Che cosa ne dici, Achiquar: due giorni?»
Il punico fece un sorriso obliquo. «Per l’omicidio di un cittadino così importante? Tre
giorni. E tre notti.»
Bomilcare si piegò in avanti. «Molto prima che tu muoia, non riuscirai più a gridare» disse
lentamente. «Ti strapperanno la pelle pezzo dopo pezzo e ti cospargeranno le carni di sale. Ti
faranno…»
Zabugu lo interruppe. «Lo so; ho già visto una cosa del genere. Che vuoi da me?»
«Sapere perché l’hai fatto. E ti voglio anche dire perché lo voglio sapere. Hai agito su
commissione. Qualcuno ti ha detto che dovevi uccidere Abdosir. Forse ti ha detto anche che ti
avrebbe aiutato a fuggire. E sicuramente ti ha detto che non avresti dovuto parlare. Hai una moglie?
Dei figli?»
Zabugu rimase in silenzio, fissando di nuovo il pavimento.
«Se parli, puniranno la tua famiglia e i tuoi amici, non è vero? Come vedi, non cerco affatto
di ingannarti. Ma potrei proteggere i tuoi congiunti. E potrei fare in modo che nessuno venga a
sapere nulla.»
Dall’esterno giunse prima un rumore di passi e poi una voce. Achiqar abbandonò il posto di
guardia e scambiò un paio di parole con qualcuno sulla piazzetta.
«Quando è in gioco il denaro» disse Bomilcare «è in gioco il potere. Con Abdosir è
sicuramente in gioco molto denaro e molto potere. Per te ormai è finita… in tutti i casi. Tra quattro
giorni, forse. Per me continuerà ancora, perché quello che accade una volta, accade anche una
seconda e una terza volta. Per questo voglio sapere, e per questo voglio parlare con il suffeta, che
forse convincerà il giudice a ordinare una morte più veloce.»
«Forse» disse Zabugu «e forse no. I tuoi problemi non mi riguardano, capo degli sbirri.»
Achiqar rientrò, accompagnato da un’altra guardia.
«Chiedo scusa, capo» disse il nuovo arrivato «ma c’è bisogno di te.»
La guardia che condusse Bomilcare al porto con un carro leggero si sforzò di nascondere il
sorrisetto obliquo che aveva sul volto mentre, lungo la strada, gli raccontava del furto subito da un
mercante importante (nonché amico di numerosi membri del Consiglio) e delle difficoltà create dal
capo delle scuderie del palazzo del Consiglio per via del carro e dei due cavalli.
«Riportali indietro» disse Bomilcare quando giunsero all’agorà. «Continuo a piedi. Dove
sono loro?»
«Sul lato mare, verso la metà. Nell’osteria di Shunuk.
Riconoscerai subito il mercante.»
Bomilcare saltò giù dal carro. «E come? Da che cosa?»
La guardia alzò le spalle. «Pensa al misero sacco di grano deiTolomei.»
I capelli acconciati ad arte, lucidi di unguenti profumati, le guance cascanti, una fusciacca
intessuta d’oro che chiudeva sul ventre la veste di purissimo lino bianco: Eurylochos avrebbe potuto
davvero rappresentare il modello del mercante grasso, personaggio fondamentale di tante
commedie. Forse non soltanto a Qart Hadasht, ma Bomilcare conosceva troppo poco le
consuetudini del teatro nelle altre parti del mondo, e quello non era certamente il momento adatto
per occuparsene.
Accanto al mercante (o meglio, al grande mercante: emissario di una delle influenti imprese
che facevano affari in tutto il mondo abitato, su incarico e a beneficio del sovrano) era seduto il
membro del Consiglio Magone che, nonostante il caldo, indossava un copricapo appuntito,
imbottito di pelliccia. Dietro di lui c’erano due guardie del Consiglio, armate di lance, e in quel
momento l’oste in persona, e non un suo schiavo, stava portando agli ospiti illustri una brocca di
vetro azzurro, probabilmente piena di birra. E non era certamente la prima.
«Il capo delle guardie» disse Magone. La sua famiglia possedeva immense tenute
nell’entroterra, alcune manifatture e partecipazioni in almeno due cantieri e un mercato coperto.
Faceva parte dei Nuovi, detti anche Barcidi, dal loro capo Amilcare Barca, che in quel
momento si trovava in Iberia.
Bomilcare aveva già avuto a che fare con lui qualche volta e lo trovava cordialmente
antipatico.
Eurylochos non ritenne necessario salutare uno sbirro e continuò a strillare, mentre
Bomilcare si sforzava di afferrare le questioni essenziali in mezzo al torrente delle sue parole.
Quando l’alessandrino riprese fiato dopo il lungo sproloquio, Magone gli posò una mano sul
braccio e rivolse uno sguardo obliquo a Bomilcare.
«È una vergogna» disse «che i grandi mercanti internazionali non siano più al sicuro nel
nostro porto. Una vergogna. Per tutti noi, ma soprattutto per coloro che vengono pagati per garantire
l’ordine e la sicurezza della città.»
Bomilcare abbozzò un inchino, o piuttosto si limitò ad assentire con energia. «Lo so,
signore, e ne sono assolutamente desolato. I miei uomini rivolteranno le viscere della città per
recuperare il maltolto. Tuttavia…» Fece una pausa per considerare se dovesse pronunciare davvero
le parole che aveva sulla lingua. Bomilcare, in passato comandante di una centuria di fanti sotto
Amilcare in Iberia e ora capo delle guardie, incaricato dal Consiglio di mantenere l’ordine in
cambio di un salario di quattro shekel (dodici volte più di quanto ricevesse un soldato semplice), e il
ricco membro del Consiglio, che avrebbe potuto pagare mille Bomilcare senza con questo
impoverirsi.”Pagare” pensò” ma non comprare.” Decise di ingoiare soltanto la metà di quello che
aveva intenzione di dire.
«Tuttavia cosa?» domandò Magone gettando il capo all’indietro e fissando ancora più
altezzoso la punta del proprio naso.
«Tuttavia i nobili signori non si potranno poi lamentare, se il puzzo proveniente dalle viscere
rivoltate giungerà alle loro narici delicate.»
«Certe persone andrebbero frustate tutti i giorni, affinché non dimentichino il loro posto
nell’ordine delle cose» disse un uomo seduto a un altro tavolo, mentre si rassettava il mantello
giallo. Un punico, dall’accento marcato e la voce chiara e tagliente. Uno degli aspiranti a un seggio
in Consiglio che quel mattino erano stati nel posto di guardia. Accanto a lui era seduto un individuo
scarno, con il collo sottile e un pomo d’Adamo enorme che sussultava ogni volta che bisbigliava
qualcosa all’uomo vestito di giallo.
Il membro del Consiglio alzò la mano destra e indicò Bomilcare con le dita, esibendo tre
anelli che al capo delle guardie parvero di un valore inestimabile.
«Ben detto, amico mio» disse rivolgendosi ai due seduti al tavolo vicino. Quindi, fissando
Bomilcare: «Non vorrai certo diventare insolente, sbirro?».
«Niente affatto, signore. Era soltanto un prudente avvertimento. Il suffeta Himilko, tuo
compagno di partito, mi biasimerebbe se non rimestassi abbastanza a fondo nel fango; tuttavia non
vorrei che le conseguenze del mio rimestare mi attirassero la tua disapprovazione.»
Il nome di una delle due massime cariche pubbliche parve ammansire Magone. «Insomma»
borbottò. «Risolvi la questione.»
La questione era tanto semplice quanto insolubile. La nave di Eurylochos si trovava nel
porto da quattro giorni. Il macedone egizio vi aveva trasportato merci preziose, aveva versato il
dazio di dieci centesimi per il loro valore e aveva trascorso i giorni seguenti, come disse, «a ospitare
uomini nobili e a vendere loro buone merci». Quel mattino si era recato, senza schiavi né altra
scorta, dalla locanda lungo il pendio della Birsa fino al porto. Davanti a una delle osterie sparse tra i
depositi per le merci lungo il lato terra, un mendicante l’aveva trattenuto afferrandolo per un braccio
e, solo dopo essersene divincolato, si era accorto che nel frattempo un altro gli aveva tagliato via il
borsellino dalla cintura.
«Come vedi» disse Eurylochos, sollevando i resti della cinghia di cuoio tranciata.
«Che cosa c’era nel borsellino?»
«Tre mine in monete d’argento: centottanta shekel in monete da uno, da due e da quattro. E
tre preziosi anelli d’oro con pietre verdi. Del valore di altre tre mine.»
Rassicurare, promettere, alludere, affermare, inviare uomini con compiti impossibili… Alla
fine, molto più tardi, Bomilcare si appoggiò al parapetto delle mura marittime, con la schiena rivolta
al bacino del porto, a fissare lontano verso la baia.
Il monte Due Corni sulla sponda orientale sembrava svanire nella nebbia, e insieme a questo
l’intera giornata, il borsellino rubato, gli aspiranti politici e il delitto di Zabugu. L’acqua della baia
era oleosa e il cielo che la sovrastava plumbeo.
“Come piombo appena fuso” pensò Bomilcare, che dall’alto penetrava inavvertitamente
attraverso i fitti strati di aria stagnante e si trasformava in sudore, si insinuava nei pori, paralizzava
il corpo e toglieva il respiro. Alcune grosse gocce di pioggia caddero pesantemente sui blocchi di
pietra delle mura, mentre nel cielo lontano a occidente balenavano fulmini muti. Lampi che
preannunciavano un forte temporale di inizio estate. Quando finalmente la cappa di piombo nel
cielo si sarebbe spezzata, la pioggia avrebbe ripulito l’aria, inondato i quartieri più bassi della città e
riempito tutte le cisterne.
Mare oleoso, aria umida, sudore… Bomilcare pensò sorridendo al cantastorie che aveva
ascoltato insieme ad Aspasia la sera prima e alle sue divagazioni sui liquidi. Liquidi importanti,
venerati dalla fratria dei narratori, senza i quali le storie sarebbero aride, asciutte: il sangue e il
sudore, il vino e gli umori prodotti dagli uomini e dalle donne durante l’amore. Il sudore non gli
mancava certo, a differenza del vino, il sangue avrebbe dovuto vederlo il mattino dopo e, quanto
agli umori… avrebbe voluto ritornarsene a casa, salire all’appartamento di Aspasia, con la quale
conviveva da molte lune, e deliziarsi insieme a lei con l’acqua fresca e poi con gli umori
dell’amore, inventando nomi nuovi, assurdi, complicati o ironici, per le parti intime dei loro corpi, e
più tardi con vino e arrosto.
Ma era ozioso perdersi in simili pensieri, che avrebbero covato nella sua mente rendendogli
ancora più sgradevole adempiere al suo vero compito. Quello che avrebbe dovuto svolgere da
tempo, anziché subire gli strepiti del mercante.
Subire e sopportare. Di Eurylochos avrebbe potuto occuparsi tranquillamente uno qualunque
dei suoi uomini, ma era una persona ricca e importante, con soci in affari altolocati, nobili punici…
meglio che se ne occupasse direttamente il capo delle guardie in persona. Spiacevole, ma meno
spiacevole che essere poi rimproverato dai nobili membri del Consiglio.
Come se tutto questo non bastasse, l’alessandrino aveva parlato con un tono di voce che
Bomilcare non avrebbe saputo definire meglio che stridulo e strascicato. Forse era per questo che la
guardia che l’aveva accompagnato da lui aveva sogghignato in quel modo? In ogni caso le orecchie
non gli fischiavano più: era bastato poco, un centinaio di respiri di silenzio sul muro marittimo, per
farle guarire.
Bomilcare si allontanò controvoglia dal parapetto, che sembrava trattenerlo con le sue pietre
ruvide contro il perizoma madido di sudore. Mentre scendeva verso il bacino squadrato del porto
commerciale, cercò di assegnare un ordine logico alle sue mosse successive. Scrivere un rapporto,
farlo pervenire al palazzo del Consiglio, ascoltare i resoconti dei suoi uomini, visitare il posto di
guardia dell’agorà.
Minuzie. E, nel frattempo, mangiare qualcosa in piedi.
Prevedeva che non sarebbe riuscito a interrogare nuovamente Zabugu prima di sera.
Sotto le mura, nell’infinità di capannoni e magazzini a est del porto, l’atmosfera era ancora
più soffocante. Stivatori, facchini, manovali, sorveglianti: tutti erano sudati. Perfino la frusta tra le
mani di un mandriano insonnolito, che avrebbe dovuto spronare i buoi a trainare un carro, sembrava
deprimerli anziché pungolarli.
Al bancone di Shunuk erano appoggiati alcuni artigiani e operai. Sollevavano il bicchiere
con movimenti fiacchi, bevevano lentamente e sembravano troppo esausti per parlare.
L’uomo vestito di giallo e quello con il collo sottile e lo strano pomo d’Adamo erano
scomparsi, mentre Eurylochos e Magone si erano forse spostati verso luoghi più freschi: i locali
ombrosi del palazzo del Consiglio oppure una delle case dei ricchi in cima alla collina della Birsa,
dove l’aria avrebbe dovuto essere più respirabile. Ma Bomilcare ignorava dove abitasse Magone.
Rivolse lo sguardo verso nord, ma non aveva passato in rassegna neppure la metà del
centinaio di navi ancorate quando, per alcuni respiri, l’animazione parve arrestarsi e,
all’improvviso, tutti guardarono verso sud.
Il ponte mobile che chiudeva l’accesso al porto si sollevò per lasciare entrare tre pentere dal
mare aperto. Strisciando una dietro l’altra come millepiedi stanchi, le navi da guerra attraversarono
il centro del bacino dirigendosi a nord, verso il porto militare circolare. Le porte di bronzo si
richiusero dietro di loro con un rombo sordo e il ponte si abbassò di nuovo come quello davanti
all’ingresso meridionale. “Millepiedi stanchi sull’acqua” pensò Bomilcare “e mosche esauste
nell’aria”. Ne vide una che sbatteva faticosamente le ali come se nuotasse in una brodaglia densa e
si posò sul pennone di un mercantile a vela ormeggiato… o meglio vi si afflosciò, simile a un sacco
vuoto.
Poco prima del tramonto del sole il temporale incombeva ancora sulla città, come una
minaccia o una promessa non mantenuta. Tutto era diventato stranamente silenzioso. Di solito, a
quell’ora la gente affollava strade e piazze, andava a trovare gli amici, mangiava e beveva in
compagnia oppure ascoltava cantastorie e musici che si aggiravano per il quartiere. Ma non quel
giorno. Qua e là ardeva qualche fiaccola e da alcune case filtrava una luce pallida. Era come se la
città si fosse chiusa in se stessa ad attendere la pioggia torrenziale.
Bomilcare gemette piano. Cercò di asciugarsi il sudore dal viso con la manica corta del suo
kitun, ma il tessuto ormai era bagnato.
Il numida Duush chiuse la porta dell’officina, in cui c’erano sempre alcuni uomini che
costruivano o riparavano i carri. Uomini che appartenevano alle guardie, ma non portavano corazze
e a volte neppure armi: per il loro lavoro delicato, una vista e un udito acuti erano più importanti di
una spada affilata.
«A domani, capo» disse il numida. Alla luce tremolante di una fiaccola vicina, il suo sorriso
si trasformò in un ghigno crudele. «Con un po‘“di fortuna, riusciremo ad arrivare a casa ancora
asciutti.»
«Tu, forse» ribatté Bomilcare. «Io devo fare un altro po‘“di strada.»
«E per dove? La casa di Aspasia non è poi così lontana.»
«Devo tornare alle mura».
«Camminare per tre miglia?» Duush fece schioccare la lingua. «Con questo tempo? E che
cosa vai cercando laggiù?»
«Zabugu.»
Duush sospirò. «Non parlerà.»
«E voi siete riusciti a scoprire qualcosa?»
«Tutti quelli che possono origliare nei punti importanti sono stati avvisati. Ma tu hai un’idea
di che cosa debbano cercare di preciso?»
Bomilcare aggrottò la fronte. «Se ne sapessi di più…
Devono averlo assoldato. Continuerò a pensarlo fino a che qualcuno non sarà in grado di
mostrarmi un legame diretto tra Zabugu e Abdosir.»
«Hai ragione, ma in qualche modo…» Duush arricciò il naso. «Un legame tra Abdosir e uno
dei principi dei bassifondi mi appare altrettanto improbabile. Si racconta che abbia condotto la vita
impeccabile che si addice a un nobile.»
«Chi è stato a dire che la maggior parte degli dèi sono demoni mascherati?» disse
Bomilcare. «Inoltre dovremmo pensare a una rete più grande. Al tale nobile non piace il nobile
Abdosir, per cui parla con un altro nobile, che dice a qualcuno meno nobile di portare i propri saluti
a uno dei principi dei bassifondi. Questo principe trasmette i saluti a un altro, che finalmente
incarica qualcuno.»
«Ehi» esclamò Duush con un sogghigno. «Non ti viene mal di testa a pensare in modo così
contorto? E poi, se le cose stessero così… come potremmo mai venirne a capo? E
soprattutto, a che scopo?»
«Perché, se le cose stessero così, sarebbero parecchio dispendiose. E nessuno spende molto
per una questione da poco. E, se è un affare grosso, dovremmo conoscerlo. Per poterci difendere.»
«Vuoi dire che stiamo ascoltando il ronzio confuso di una mosca, mentre in realtà, al piano
di sopra, un elefante ci sta ballando sulla testa?»
Bomilcare rise. «Qualcosa del genere. E mi piacerebbe tanto saperlo, prima che sfondi il
soffitto e ci precipiti addosso.»
«Forse hai ragione. Denaro e potere… non sono cose per le mosche. Terremo le orecchie
bene aperte.»
«Fatelo. Adesso camminerò nella notte, per interrogare di nuovo a fondo la mosca Zabugu.»
Ma poi Bomilcare decise di non andare a piedi. Tre miglia alla fine di una giornata
tormentata. Le stalle di pertinenza del palazzo del Consiglio non erano lontane: bisognava risalire la
strada dei velai fino alla Via Grande, percorrere alcune centinaia di passi verso destra fino all’agorà,
sul cui lato settentrionale si riunivano consiglieri, giudici e suffeti quando avevano qualcosa da
discutere, e proseguire fino al retro del palazzo. Il capo delle scuderie, che al mattino pareva avesse
protestato, al cospetto del capo dei tutori dell’ordine non osò battere ciglio.
Bomilcare gli ordinò di attaccare un cavallo a un carro leggero.
La Via Grande, che iniziava all’estremità meridionale dell’agorà e proseguiva per tre miglia
verso ovest, fino alla Porta di Tynes, era quasi deserta. Ogni tanto si incontrava qualche cane
randagio e sicuramente, negli angoli più oscuri, si aggiravano prostitute e ladruncoli. Mentre
Bomilcare procedeva nella notte, che la corsa del carro non rendeva meno soffocante (più che il
vento, sentiva giungergli una brezza appiccicosa), immaginò per alcuni istanti di essere immerso in
uno spaventoso incubo, in cui la vita fuoriusciva dalla città e si raccoglieva spessa e densa in un
luogo incredibilmente orribile; poi pensò di nuovo a Zabugu e a tutto quello che era legato al suo
nome.
E a quell’altro nome: Abdosir. Gli intrighi in cui erano coinvolti personaggi potenti e
altolocati si concludevano di rado con la morte di un uomo importante. Ma se i nobili cominciavano
a massacrarsi tra loro, allora presto anche la gente comune che era alle loro dipendenze si sarebbe
ammazzata a vicenda. Doveva immaginarselo, ma non avrebbe potuto fare nulla per evitarlo.
Bomilcare sentì un brivido freddo corrergli giù per la schiena. Conosceva quella sensazione.
Aveva ventinove anni, viveva nella capitale da tre e in tutto questo tempo l’aveva avvertita tre o
quattro volte. Ma decine di volte in passato, quando combatteva con le truppe di Amilcare in Iberia.
Quando lui e i suoi uomini cadevano, o stavano per cadere, in un’imboscata; quando c’era un
nemico appostato nel buio; quando da un cespuglio sarebbe potuta arrivare una freccia che non
avrebbe fatto in tempo a scansare.
Aveva raggiunto le grandi mura della fortezza, prima della porta aveva svoltato in direzione
sud, verso la piazzetta davanti al posto di guardia, e aveva ancora i brividi. Legò le briglie intorno a
un palo, accarezzò il cavallo sul collo e camminò lentamente verso l’entrata illuminata. Senza
sapere perché, d’un tratto si ritrovò il coltello tra le mani. Gli venne in mente in modo confuso,
come un ricordo celato nei recessi della memoria, che da alcuni giorni non si era più esercitato a
lanciare il coltello, a tirare con l’arco, a duellare con le spade di legno…
Poi entrò nel posto di guardia. Il suo attendente Autolykos era seduto dietro il tavolo a
scribacchiare sul papiro; le tre lampade a olio facevano abbastanza luce per vedere che, oltre
all’elleno campano dagli occhi grigi, nella stanza c’era soltanto un’altra persona, una delle guardie,
distesa su una panca.
Bomilcare tirò un sospiro di sollievo e infilò di nuovo il coltello nel fodero.
Autolykos alzò lo sguardo, con un’espressione più dispiaciuta che preoccupata.
«Che cosa c’è?» gli chiese Bomilcare.
«E perché mai dovrebbe esserci qualcosa?»
«Te lo leggo in faccia.»
Autolykos annuì e protese il labbro inferiore. «Forse dovrei portare una maschera» disse.
«Come gli attori nelle commedie antiche.» Allungò la mano verso un pezzo di papiro e lo porse a
Bomilcare. «Tieni.»
«Che cos’è?»
Bomilcare non rimase particolarmente sorpreso quando Autolykos gli disse: «L’ordine del
giudice Tybon di consegnargli immediatamente il prigioniero Zabugu».
Bomilcare fissò per alcuni istanti il sigillo senza realmente vederlo. Alla fine posò il pezzo
di papiro sulla panca accanto a sé e alzò gli occhi.
«Ci sono giorni che sarebbe meglio dimenticare» disse.
«Come quelli che iniziano con la visita di aspiranti membri del Consiglio e finiscono con
questa specie di merda di cammello.»
«Hai la stessa espressione degli eroi dei tempi antichi, prima di partire per la guerra.»
Autolykos era ancora seduto al tavolo di Bomilcare. Aveva appoggiato il mento sulle mani
intrecciate e strizzava gli occhi.
«Sciocchezze.» Bomilcare scivolò all’indietro sulla panca fino ad appoggiare la schiena alla
parete. «La guerra, bah.
Conosci Tybon?»
«No. Però ho già sentito questo nome. Perché?»
«È uno dei Vecchi» disse Bomilcare. «Uno dei confidenti più stretti di Annone.»
Autolykos gemette piano. «Ancora lui!»
Rab Annone. Annone il Grande. L’uomo più potente della città, padrone di grandi tenute
nell’entroterra, capo del partito dei Vecchi, negli ultimi anni della grande guerra romana avversario
di Amilcare e di tutti quelli che avrebbero voluto vincerla, perché non credevano nella volontà di
Roma di giungere a un’intesa. Membro del Consiglio, sommo sacerdote di Baal Melqart,
proprietario di schiavi, navi e officine. L’anno prima Bomilcare e i suoi uomini avevano avuto il
dubbio piacere di conoscere Annone un po‘“più da vicino. L’indagine sull’omicidio di un mercante
romano si era trasformata in una vertiginosa e sanguinosa danza delle spade, che aveva coinvolto i
bassifondi e le massime autorità cittadine, piccoli sicarii e grandi somme di denaro. Annone, occhi
di serpente che sembravano di ossidiana… gli bastava pensare ad Annone, menzionare il suo nome,
per sentire ancora quel brivido freddo, come il contatto con una lama gelida, una punta di lancia
contro la schiena.
«No, sicuramente no, questa volta» disse Bomilcare. «Che cosa potrebbe avere mai a che
fare Annone con Zabugu e Abdosir?»
«C’è qualcosa con cui Annone non abbia niente a che fare, in questa città?»
«Se avesse voluto eliminare Abdosir, avrebbe avuto ben altre possibilità.» Bomilcare scosse
il capo. «Non avrebbe assoldato una piccola canaglia.»
«Forse l’avrebbe fatta assoldare?»
«Che cosa… oh no, amico mio: non è nello stile di Annone. O almeno non lo sembra. Non
ancora.»
«Probabilmente hai ragione. MaTybon è uno dei suoi uomini.»
Bomilcare riprese il papiro e ne osservò il sigillo. Non era uno degli antichi sigilli egizi
rotondi, con il nome di qualche sovrano defunto, usati da tanti nobili punici, ma l’impronta circolare
dell’effige di un anello, con una palma e la testa di un cavallo: lo stemma della città, non di una
persona.
«Tybon» disse «è un giudice. Uno dei Trecento. Credo che abbia molta fretta di occuparsi di
Zabugu.»
«Pensi che voglia emettere una sentenza esemplare al più presto? O comunque archiviare la
faccenda, perché lo distoglie da questioni più importanti?»
Bomilcare si alzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro nel posto di guardia. «È
possibile. Un giudice e membro dei Trecento viene assassinato, l’assassino è stato catturato, perciò
perché mai attendere a lungo per il verdetto?
Probabilmente nel corso della giornata deve risolvere questioni importanti e vuole…»
Si interruppe; mentre camminava, aveva sfiorato con lo sguardo il volto di Autolykos e vi
aveva colto un accenno di sorriso.
«Che cos’hai da sorridere?»
Il campano intrecciò le mani dietro la testa e fissò il soffitto. «Trascuri qualcosa.»
«E che cosa?»
«Quando è morto Abdosir?»
«Ieri. Ah.»
«Proprio così. Ah. L’odore della putrefazione, capo.»
Bomilcare si sentì improvvisamente stanco, vecchio e sciocco. «È naturale. Domani lo
seppelliranno con tutti gli onori. Come si addice a un ricco giudice e membro del Consiglio.»
«Infatti. E gli altri giudici e membri del Consiglio parteciperanno alle esequie. Come al
solito. Perciò la fretta.» Fece una breve pausa, prima di aggiungere: «E non certo per sottrarti
Zabugu».
Bomilcare ritornò verso la panca e vi si lasciò cadere.
All’improvviso una delle lampade si spense perché l’olio si era del tutto esaurito. Autolykos
si alzò, prese un recipiente con il becco da uno scaffale e riempì l’alimentatore. Nel frattempo disse
senza voltarsi: «O comunque non solo per questo.
Forse a lui interessa davvero che tu non interroghi a fondo Zabugu. Per chissà quale ragione.
Ma il motivo principale sono sicuramente i funerali».
«C’è qualcosa» disse cupo Bomilcare «che mi insinua dubbio e preoccupazione tra i
visceri.»
«Tanto peggio per i tuoi visceri.» Autolykos avvicinò un truciolo alla fiamma di un’altra
lampada e lo usò per riaccendere lo stoppino di quella che si era spenta. «Che genere di
preoccupazioni?»
Bomilcare cercò di esporgli i propri timori in poche parole. «Come vedi» concluse «non
credo che sarà tutto finito con la condanna e l’esecuzione.»
«Dunque ci attenderebbero cose terribili?» Autolykos scosse la testa. «Intendi dire che tutto
questo potrebbe avere a che fare con quell’altra faccenda?»
«Quale altra faccenda?»
La voce di Autolykos parve prudente, quasi circospetta, nel dire: «Qualche giorno fa non mi
hai riferito di una conversazione con il suffeta Himilko?».
«Ah, quella.» Bomilcare chiuse gli occhi per il tempo di un respiro. Il suffeta l’aveva
mandato a chiamare per suggerirgli di trascurare appositamente qualcosa. Nei giorni successivi un
certo gruppo di uomini avrebbe fatto certe cose. «Quali uomini, e quali cose?» aveva domandato
Bomilcare. Il suffeta gli aveva risposto che esistevano prove sicure del fatto che in città vi fossero
nuove spie romane, e anche egizie; che volevano sorvegliarle e, se possibile, eliminarle. Alcuni
uomini che intendevano concorrere per le cariche più alte avrebbero dovuto così dimostrare la
propria abilità, operando nello stesso tempo a vantaggio della città e della sua sicurezza.
«Non credo» disse riaprendo gli occhi.
«Non hai notato davvero nulla di questi avvenimenti misteriosi?»
«No» disse Bomilcare. «E non voglio neppure notare nulla. Tu e io potremmo snocciolare a
memoria a Himilko i nomi di tutte le spie…»
«Non se alcune sono nuove.»
«Certo, nessuna persona nuova. Ma se i nobili signori del Consiglio decidono di affidare il
difficile compito della sorveglianza a gente che non ha ricevuto la dovuta formazione, non sarò
certo io a impedirglielo.»
«Dobbiamo soltanto rimuovere le macerie che si lasceranno dietro, come al solito» disse
Autolykos.
«È vero, e sappiamo entrambi che, senza i signori del Consiglio, certe macerie non ci
sarebbero neppure. Ma questo non ha importanza, e sicuramente non c’entra nulla con Zabugu e
Abdosir.»
Autolykos aggrottò la fronte. «Forse hai ragione e forse invece no. Ma ormai che cosa puoi
ottenere più da Zabugu?
Sempre che intenda davvero parlare?»
Bomilcare scoppiò a ridere e batté le mani. «Credo di sapere che cosa.»
«E cioè?»
«Te lo racconto più tardi. Presidi tu la postazione qui?»
«Niente affatto: me ne vado subito a casa. C’è Mutumbal di turno.»
«Allora ci vediamo domattina presto.»
«Ma insomma, dimmi che cos’hai intenzione di fare!»
«Indurre Zabugu a parlare.»
«Ma come?» chiese Autolykos con un tono più scoraggiato che curioso. «Deve tacere per
proteggere la sua famiglia: se parla, sa perfettamente che cosa le accadrà. E come vuoi indurlo a
parlare se non ci sei riuscito qui, quando era ancora nelle tue mani?»
Bomilcare allargò le braccia. «Forse non ci riuscirò. Te lo farò sapere.»
Mentre conduceva il carro preso in prestito in direzione dell’agorà, finalmente iniziò a
cadere la pioggia tanto attesa.
Nel giro di pochi istanti, il velo soffocante che aveva avvolto ogni cosa si squarciò e
sull’intera città si abbatté un temporale. Qua e là si videro ancora gli ultimi bagliori di fiaccole,
presto spente dal torrente d’acqua. Il nitrito del cavallo parve a Bomilcare quasi un gemito di
sollievo. Erano trascorsi appena un paio di battiti di ciglia dall’inizio della pioggia ed era già
bagnato fradicio. L’acqua schizzava dal selciato della Via Grande fino al bordo del carro; nei vicoli
non lastricati dovevano essersi già formate pozzanghere grandi come stagni.
Molte persone stavano uscendo di casa. Bomilcare ne vide alcune, completamente nude o
quasi, che se ne stavano sotto l’acqua con le braccia aperte e la faccia rivolta verso il cielo.
Buontemponi? Adoratori di antiche divinità della pioggia? O forse qualcuno che voleva davvero
annegarsi?
Poco dopo la metà del tragitto dalle mura della fortezza all’agorà, Bomilcare infilò il carro
in una via laterale che si dipartiva sulla sinistra. Al di sotto della collina della Birsa, riservata ai
ricchi e ai templi, le antiche mura interne correvano dall’agorà fino a quel punto, per poi piegare
verso settentrione. Un miglio più a nord, incontravano le mura esterne della Birsa, che proseguivano
verso ovest, fino al vallo della fortezza. Oltre queste mura, fino alla fortificazione costiera, si
estendevano i campi, gli orti e i poderi della Megara; dall’altra parte si ammassavano le case
modeste e le officine dei tintori e dei cuoiai. Dietro il ponticello sul canale, in parte all’aperto e in
parte sotterraneo, che portava le maleodoranti acque di scarico verso una baia a nordovest, c’era un
posto di guardia.
Era occupato da due uomini; uno stava sull’ingresso a fissare la pioggia, l’altro si era disteso
su una panca di pietra con tanto di coperta all’interno del locale e cercava evidentemente di
dormire.
«Facciamo la guardia, come vedi» disse l’uomo nell’ingresso, quando Bomilcare scese dal
carro e legò le briglie a un palo. «Ma che cosa ti spinge fin qui? A quest’ora, con questo tempo?»
«Gli altri sono in giro?» domandò Bomilcare.
«Sissignore, come sempre. Fanno la ronda.»
La guarnigione di dodici uomini lavorava su due turni; quindi dovevano esserci quattro
guardie a perlustrare il quartiere sotto l’acqua. E a mantenere l’ordine in città.
«Ho bisogno di un piccolo delinquente» disse Bomilcare.
«Possibilmente ubriaco perso. Ne avete uno sottomano?»
L’uomo che era sul giaciglio si sollevò. «Ne abbiamo due»
disse. «Ma a che cosa possono mai servire?»
«C’è una segreta che dev’essere riempita con urgenza.»
«Si può sapere…»
«Non si può. E sarebbe anche meglio che oggi non mi tratteneste a lungo.»
«Allora, capo, ti regaliamo una preda speciale.» L’uomo che era in piedi nell’ingresso fece
d’un tratto un largo sogghigno.
«Da stamattina presto ha cercato di bersi una quantità incalcolabile di denaro. O di
annegarvisi, chi può saperlo? Poi, più tardi, ha voluto giocare con i coltelli e, visto che nessuno
voleva giocare insieme a lui, è diventato un po‘“aggressivo. Per questo adesso è qui, e non credo
che ritornerà in sé prima di domani mattina.»
«Portamelo qui» disse Bomilcare. «Ma che cos’ha di speciale questa preda?»
«Il suo nome. Si chiama Bomilcare.»
Il prigioniero gli ricordò la mosca di quella mattina: aveva l’aspetto e la consistenza di un
cencio bagnato. Rischiava continuamente di rotolare giù dal cassone del carro, aperto dietro.
Bomilcare dovette trattenerlo per i piedi.
Quando finalmente giunsero all’agorà, continuava a piovere. Sul lato meridionale della
grande piazza, che digradava verso il quartiere del porto, dovettero attraversare una specie di
ruscello in cui l’acqua riversata dal cielo sulla terra defluiva verso il mare. Il nitrito del cavallo
parve di nuovo un sospiro di sollievo: questa volta, probabilmente, perché la stalla era vicina.
Il capo delle scuderie aveva affidato tutto a uno degli schiavi più anziani e se n’era andato a
casa. Bomilcare ordinò al guardiano dei cavalli di occuparsi dell’animale e del carro, entrambi
completamente luridi, e di andare a chiamare un altro schiavo. «Uno in grado di portare pesi.»
Quando quello comparve, Bomilcare gli disse di prendere dal carro quel fagotto che prima o
poi sarebbe ritornato a essere una persona e di seguirlo. Camminò sotto il tetto spiovente del piano
superiore del palazzo del Consiglio fino all’angolo successivo, dietro cui si trovava l’accesso alle
segrete del tribunale.
Due uomini facevano la guardia nell’anticamera; anche il comandante del carcere se n’era
andato.
«Mi conoscete?» domandò Bomilcare.
«Ma certo, capo delle guardie» disse una delle sentinelle, che erano sedute su due sgabelli
davanti alla porta pesante, rivestita di ferro.
«Ho un uomo che deve rimanere nella segreta fino a domattina, quando lo verrò a prendere e
lo porterò da un giudice.»
Uno degli uomini si alzò, si sfilò il mantello, che probabilmente doveva proteggerlo dal
freddo notturno che sarebbe iniziato solo dopo otto lune, e sollevò la grossa trave. I cardini erano
oliati e gemettero appena, quando la porta si aprì. Dietro di essa, una fiaccola ardeva in un pugno di
ferro che sporgeva da una parete. La guardia ne prese una seconda da un secchio, l’accese con
l’altra e si avviò per prima giù per le scale.
Il carcere del tribunale non era pensato per ospitare tanti prigionieri per parecchi giorni, ma
solo pochi alla volta fino al processo. Perciò non c’erano molte stanze singole, bensì un unico
corridoio con il locale destinato alle torture e agli interrogatori sulla destra e, sulla sinistra, una
lunga segreta, suddivisa da grate in sei gabbie più piccole. Sul pavimento del corridoio era posata
una grande lampada a olio. Nella prima gabbia c’era un uomo che Bomilcare non conosceva; era
incatenato e russava. Nella seconda era seduto Zabugu.
Mentre la guardia apriva la terza gabbia, Bomilcare osservò il massilo. Zabugu era seduto su
uno dei pagliericci sparsi alla rinfusa. Aveva le mani libere e le caviglie legate da due anelli uniti tra
loro da una catena corta, che a sua volta era attaccata a una un po‘“più lunga, fissata alla parete.
Lo schiavo lasciò cadere bruscamente l’ubriaco a terra.
«Qualcos’altro, capo?»
«Va bene così; puoi andare.» Bomilcare diede un calcio all’ubriaco con la punta del piede;
l’uomo parve non accorgersene nemmeno.
«Un po‘“di paglia?» domandò la guardia.
Bomilcare si mostrò esitante. Quando lo schiavo scomparve su per le scale, disse: «Sì, un
po‘“di paglia, e anche una ciotola d’acqua. E un mastello. Forse così, se siete fortunati, non
insudicerà l’intera segreta quando vomiterà».
La guardia sogghignò per un istante. «Subito, capo.»
Quando si diresse con la fiaccola verso la stanza delle torture, dove probabilmente si trovava
tutto l’occorrente, Bomilcare mormorò in modo quasi impercettibile: «Riesci ad arrivare fino alla
grata?».
Zabugu annuì. Alla luce fioca della lampada nel corridoio, Bomilcare riusciva a stento a
vedergli la faccia, mentre il bagliore della fiaccola della guardia nella stanza accanto non era di
alcun aiuto.
«Lascerò questo qui» disse toccando ancora l’ubriaco con il piede «appoggiato contro la
grata. Lui e i suoi abiti. Se mi dici un nome.»
Il numida inspirò profondamente. La luce della fiaccola nella stanza delle torture si mosse;
la guardia sarebbe tornata a breve.
«Bodashtart il Verde» sussurrò Zabugu.
Poi tacque e assunse un’aria indifferente, mentre la guardia gettava la paglia sul pavimento,
vi posava un mastello e ritornava nel corridoio, per riempire una ciotola d’acqua dalla grande
brocca.
«Va bene» disse Bomilcare. «Riportami di sopra. Avete bisogno del suo nome?
Di altri ordini?»
«È sufficiente il tuo nome, capo.»
Sebbene la pioggia si fosse fatta un po‘“meno intensa, prima di avere attraversato l’agorà
Bomilcare era di nuovo bagnato fradicio e quando giunse alla Via Grande si sfilò la tunica.
“Meglio togliersi i vestiti” pensò “della sensazione di avere indosso una palude. In fondo
non è una brutta idea presentarsi da Aspasia direttamente senza kitun.”
Bomilcare procedette verso ovest per quattro isolati, poi svoltò a sinistra nella strada degli
incisori di timbri e, dopo qualche decina di passi, giunse all’arco della porta che conduceva
all’interno del quadrilatero. L’abitazione di Aspasia si trovava al terzo piano di un edificio che ne
contava cinque e faceva parte di un isolato che verso nord confinava con la Via Grande, costituito
da una serie di imponenti costruzioni disposte a due a due una alle spalle dell’altra: le botteghe e le
abitazioni dell’una guardavano verso l’esterno, affacciandosi sulla strada più vicina, quelle
dell’altra verso l’interno.
Lungo i muri che delimitavano il cortile interno correvano ballatoi di legno su cui si
aprivano le abitazioni e, su tutti e quattro i lati, una scala conduceva fino in cima al tetto.
Nel cortile, in cui si trovavano i bagni in comune, gli orti, le stalle per i piccoli animali e una
serie di magazzini e officine, di solito la sera ardevano alcuni fuochi intorno ai quali si incontravano
gli abitanti dell’isolato, ma in quel momento non c’erano più neppure le fiaccole sulle scale o
davanti alle porte. Il bagliore tenue delle lampade o dei focolari nelle case faceva sembrare
l’oscurità ancora più fitta. E perfino più umida, o almeno così parve a Bomilcare.
Strizzò il kitun, si sfilò i sandali, li avvolse nella veste e salì le scale a tentoni. Sul legno
scivoloso si sentiva meno insicuro a piedi nudi.
L’appartamento di Aspasia era aperto; davanti alla porta le perle di vetro del tendone
ondeggiavano con un lieve fruscio e le imposte delle due finestre non erano state chiuse. Il profumo
delle salsicce, del pane caldo e del vino giungeva fino al pianerottolo e, mentre si avvicinava alla
luce e alle voci smorzate, Bomilcare si rese conto di avere fame. Una fame tremenda, “anzi no”
pensò “è una fame particolarmente piacevole, che presto si spegnerà in una morte ristoratrice”.
Aspasia era seduta di fronte all’ingresso, dietro il tavolo basso; lo salutò con un sorriso, in
parte celato dal bicchiere che stava portando alla bocca. Accanto a lei erano seduti, alla sua sinistra,
Tazirat e il suo amante del momento, Idnibal, e dall’altra parte l’arabo Amidi e un altro uomo che
Bomilcare non conosceva.
Amidi posò un pezzo di panfocaccia sul tavolo e batté le mani. «A piedi nudi, con solo il
perizoma e il resto sottobraccio: sembra avere fretta, Aspasia, eppure ormai vi conoscete da così
tanto tempo. Dobbiamo andare via subito, oppure potete aspettare ancora un po’?»
«Un affamato che torna a casa bagnato fradicio ha molte esigenze diverse» ribatté Bomilcare
passando tra lo sconosciuto e Amidi, senza toccare il vassoio con le bevande e le provviste. Soffiò
un bacio fra i capelli di Aspasia. «E
comunque nessuna di queste potrebbe mai indurmi a cacciare via degli ospiti.»
«Freddo e bagnato» gli disse Aspasia. «Mi sembri un pesce. Ti presento Taqur, grande
navigatore e mercante. Il resto a quando sarai asciutto e presentabile.»
Bomilcare annuì e attraversò la tenda di perle per passare nella stanza vicina. Una lampada a
olio posata su uno sgabello in fondo al letto ampio e basso emanava una luce fioca.
“Un chiarore imbronciato?” pensò “oppure una luminosità stentata?”Ad alcuni chiodi che
erano conficcati nell’intonaco e nelle commessure tra le pietre erano appesi cestini di giunco di
dimensioni diverse. Prese un kitun pulito da uno di questi, un perizoma dall’altro e li gettò entrambi
sul letto.
Appese i vestiti bagnati a un gancio vicino alla finestra, davanti alla ritirata, grande appena
due passi per due. Quindi si alleggerì sul mastello per i bisogni, si ripulì le parti che non erano state
lavate dalla pioggia e si asciugò. Quando ritornò nel soggiorno, Tazirat guardò verso di lui, alzò la
mano, lo additò e scoppiò a ridere.
«Che kitun elegante, per tutti gli dèi!» esclamò.
Bomilcare abbassò lo sguardo su di sé: nella stanza da letto poco illuminata aveva preso una
tunica speciale, regalo di compleanno dei suoi uomini dell’officina dei carri. La parte anteriore era
trapuntata di frecce falliche, dirette verso gli attributi, in mezzo alle quali c’era scritto, con uno
spesso filo rosso: “La mano che cerca accresce la scoperta”.
«Oh, quanta premura!» disse Amidi. «Ti posso utilizzare vestito così?»
«Dove e come?»
«Devo dipingere la parete del salone di un negozio. Di un ricco mercante di tessuti» rispose
Amidi ridacchiando.
«Andrebbe proprio bene.»
«Soltanto se vi si può vendere anche questo kitun»
disse Bomilcare. «E senza la mia faccia: potrebbe spaventare i clienti.»
Si sedette accanto ad Aspasia sul ruvido cuscino di cuoio imbottito di stracci. «Ho fame,
principessa di questo castello»
disse nel frattempo. «Festeggiate qualcosa di particolare oppure no?»
«Festeggiamo il tuo arrivo» disse Aspasia, chinandosi in avanti a prendere due spatole di
legno. Sul tavolo c’era un braciere di bronzo in cui ardeva carbone. Sulla griglia di ferro erano
posate alcune salsicce, il cui grasso ogni tanto colava sfrigolando nella brace, e del pane.
«E prima» disse Idnibal «abbiamo festeggiato pregustando il piacere del tuo arrivo.»
Aspasia tolse due salsicce dalla griglia, le posò su un vassoio insieme a un panfocaccia e lo
porse a Bomilcare.
«Rimettiti in forze» gli disse.
«Per che cosa mi devo ritemprare?»
«Per poi stancarti di nuovo» rispose Amidi ridendo a singulti.
«Qualcuno potrebbe imbavagliare quest’arabo, una buona volta?» disse Bomilcare versando
vino e acqua in un bicchiere.
«Quale?» domandò Tazirat guardando verso l’estremità opposta del tavolo. «Ce ne sono
due.»
Taqur accennò un lieve inchino e un sorriso, ma non disse nulla.
«Quelli che tacciono non c’è bisogno di imbavagliarli.
Sono felice di vedervi tutti e, mentre cerco di bere e di mangiare, forse qualcuno di voi
potrebbe illuminarmi sulle cose importanti della vita. No, non tu, Amidi.»
«Coincidenze» disse Idnibal. «Come la maggior parte delle cose importanti. Dopo il lavoro,
Tazirat e io siamo andati da Aspasia per discutere insieme a lei su come organizzare la serata. In
quel momento nella sua bottega c’erano Amidi e Taqur, che non sapevano che cosa fare.»
«E visto che l’osteria qui vicino era strapiena e nessuno di noi aveva voglia di camminare
molto, ci siamo comprati semplicemente qualche salsiccia e un po‘“di pane, e abbiamo tenuto tutto
in caldo quassù.» Aspasia gli posò una mano sulla coscia. «Spero che questo incontri la tua
approvazione.»
Bomilcare afferrò la mano robusta e callosa, la portò alle labbra e disse: «E in caso
contrario?».
«Non cambierebbe niente» rispose lei ridendo piano. «Tu invece ti dovresti almeno
cambiare d’abito.»
«Non mi sembra il caso» ribatté Bomilcare addentando la prima salsiccia. Poi, con la bocca
mezza piena, aggiunse: «Arabo di dove?».
«Credo che ti riferisca a me» disse Taqur sorridendo.
Il suo punico era quasi impeccabile, almeno in quelle poche parole; Bomilcare annuì
cercando di cogliere le sfumature quasi impercettibili rispetto alla lingua della capitale.
«Arabo di Kane… ammesso che questo dica qualcosa a qualcuno dei presenti, escluso il mio
conterraneo.»
«È vero che i cananei sono sciocchi» disse Amidi «ma fanno affari ovunque. Per questo loro
ti…»
«Imbavaglieranno» disse Aspasia. «Lascia finire di parlare Taqur. Dov’è Kane? Io almeno
non lo so.»
Bomilcare terminò di masticare il suo secondo boccone, deglutì e sollevò il bicchiere. «Kane
è il porto più importante della Costa dell’Incenso, principessa. Si è arricchita grazie al commercio
tra l’Arabia meridionale e l’India. E Taqur sembra essersi trattenuto a lungo nella nostra città
madre, non è vero?»
L’arabo annuì. «Tiro, regina dell’ospitalità» disse in ellenico, rivolto ad Aspasia; poi, in
punico: «Sì, sono stato molto tempo a Suru».
Bomilcare bevve un sorso. «Continua a parlare. Vorrei sentire un lungo discorso. Così,
innanzitutto, Amidi starebbe zitto, e poi io potrei ascoltarti mentre mangio.»
Taqur sorrise. «E va bene… spero soltanto di non annoiare nessuno.»
Disse che aveva trentatré anni, era cresciuto a Kane, figlio di un fabbricante di navi, ma
aveva sempre desiderato andarci per mare, piuttosto che costruirle. Aveva preso parte ad alcuni
viaggi in India come stivatore e marinaio, cercando di apprendere l’arte del commercio che, «come
certamente tutti voi sapete, consiste nello spellare vivi gli altri senza che questi se ne accorgano».
Ma nelle antiche imprese commerciali di Kane non c’era posto per un nuovo venuto, per cui un
giorno si era fatto assumere da un mercante elleno di Charax, sulla foce dell’Eufrate, ed era giunto a
Tiro passando per Babilonia e Damasco. Da tre anni ormai possedeva una nave di proprietà, con cui
trasportava i suoi carichi ovunque potesse trovare da venderli.
«Bighellonava per il porto» disse Amidi quando Taqur ebbe finito. «Riparte domattina
presto e voleva comprare ancora un gioiello per la sua compagna di giochi dalla lingua di miele.
Così l’ho accompagnato da Aspasia.»
«E tu che cosa ci facevi al porto?» chiese Bomilcare.
Amidi alzò le spalle. «L’uomo che mi ha chiesto di dipingergli tutta la parete, ci vuole anche
qualche nave. Così oggi sono andato al porto a osservarne alcune. Certo che le vele non hanno
niente a che vedere con il tuo kitun, né l’albero con…»
«Imbavagliamolo» disse Bomilcare.
«Comunque adesso so che, quasi tutto quello che si racconta su di voi, non è vero» disse
Taqur. «E già questo mi ha ripagato del viaggio.»
«E la prima volta che vieni qui?» chiese Tazirat. «Ma che cosa si racconta mai su di noi? E
chi lo racconta?»
«Ah, soprattutto gli elleni. Anche quelli di Alessandria.
Carcedoni ombrosi, punici crudeli, gentaglia senza spirito, che non fa altro che sacrificare
bambini e cose del genere.»
«Bisognerebbe proprio ricominciare a farlo» disse Bomilcare sogghignando, mentre
afferrava la seconda salsiccia.
«Adesso sacrifico questo bambino qui; ma non a Baal Melqart, bensì a BaalVentre.»
Amidi assunse un’espressione stranamente seria.
«Purtroppo quello che diceTaqur è vero. Anch’io ho sentito e creduto a tutto questo, prima
di venire qui.»
«E che cosa si potrebbe fare per smentire queste voci?»
domandò Aspasia. «Mi piacerebbe sapere perché si raccontano storie simili. Da dove
vengono.»
«Credo» disse Idnibal «che queste storie vengano da Roma e, soprattutto, dall’Eliade, non è
vero?»
Taqur annuì. «Immagino che dipenda in qualche modo dalla lunga storia di inimicizie tra
elleni e fenici.»
«Qualcosa del tipo “tutti gli elleni abusano dei fanciulli, tutti i cretesi mentono, tutti i punici
sacrificano i bambini”?»
chiese Tazirat.
Aspasia diede una gomitata a Bomilcare. «Dì qualcosa.»
Bomilcare inghiottì la sua salsiccia e si risciacquò la bocca con il vino. «Sui nemici si
raccontano sempre belle storie»
disse poi. «Chi crederebbe mai che, l’anno scorso, ho conosciuto un romano capace di
sorridere?» Sogghignò. «Idnibal e Taqur non lo conoscono, ma gli altri mi credono, non è vero?»
«Un romano?» domandò Tazirat con un’espressione impassibile. «A chi ti riferisci?»
«Bè, certo, tu l’hai incontrato quasi sempre di notte, per cui ti ricorderai meno del suo
sorriso che del resto.»
«Una delle cose che mi hanno sorpreso è stata, per esempio, che amate tanto scherzare,
proprio come tutti i popoli che vivono sulla costa» disse Taqur. «Probabilmente gli ateniesi
direbbero che una battuta a Carcedonia è verosimile all’incirca quanto un’inondazione nel deserto.
Ma da dove derivano queste storie sui bambini? Deve esserci pur stato qualcosa di vero, un tempo.»
«C’è sempre qualcosa di vero in quello che si racconta»
disse Bomilcare. «Non c’è fumo senza il fuoco; ma a volte il fuoco è già spento mentre il
fumo si può vedere e sentire ancora. In effetti, le antiche famiglie nobili sacrificavano i bambini:
bambini nati morti, oppure che si erano ammalati molto piccoli e poi erano morti. In questo modo,
coloro che non avrebbero visto la vita potevano averne una nell’oltretomba e, inoltre, il signore
della città, Baal Melqart, si sarebbe ricordato che c’era bisogno di bambini. Così, poi, il prossimo
nato della famiglia sarebbe stato sano.»
«È tutto qui?» domandò Taqur con tono quasi di delusione.
«Probabilmente, in tempi molto brutti, ci sono stati anche alcuni sacrifici veri e propri.
Credo che a volte i romani seppelliscano vivo qualcuno, quando cercano l’aiuto degli dèi. E
non dimenticare tutti i giovani che gli elleni sacrificano ad Ares. In ogni guerra.»
«Prima che tu arrivassi, stavamo giusto parlando dei nobili cananei» disse Tazirat. «Tu li
conosci bene, i nobili e i potenti. Siedono in Consiglio, sono giudici e grandi mercanti, e fanno le
leggi. E, se Taqur ha ragione, improntano anche l’immagine della città, quella che giunge agli
stranieri.»
«Il convito serale che stiamo tenendo è qualcosa di abituale?» domandò l’arabo. «Per Qart
Hadasht, intendo dire.»
Idnibal storse il naso. «Abituale? Bè, sì… sì, insomma. Non per i nobili, è chiaro. Quelli se
ne stanno tra loro. In luoghi preclusi alla gente come noi. Ma, se ho inteso bene le tue parole, è così
anche da voi.»
Bomilcare vuotò il suo bicchiere, lo riempì di nuovo e, mentre gli altri parlavano, mangiò il
pane e un’altra salsiccia.
Aspasia aveva trentaquattro anni, cinque in più di Bomilcare. Suo marito, un argentiere
elleno, quattro anni prima si era ammalato improvvisamente ed era morto. Poiché aveva sempre
lavorato insieme a lui e non aveva ereditato debiti, era riuscita a mandare avanti l’officina e la
bottega, per sfamare se stessa e i suoi due figli. L’inverno scorso si era fatta insegnare a leggere e a
scrivere da Tazirat; di fare i conti era già capace. Bomilcare l’aveva conosciuta poco dopo il suo
trasferimento dall’Iberia; sua figlia aveva allora diciassette anni e viveva presso una ricca famiglia
di meteci elleni, dove lavorava ancora come domestica e bambinaia, anche se poco tempo prima
aveva comunicato alla madre di volersi sposare al più presto. Il figlio quindicenne era mandriano
presso un mercante punico, le cui carovane facevano regolarmente la spola tra Qart Hadasht e
l’Egitto.
Tazirat aveva trentadue anni, aveva perduto presto i genitori e lavorava nei magazzini di un
cugino; se suo padre e sua madre fossero stati ricchi, e ancora vivi, sarebbe stata sposata da tempo,
anziché vivere da sola in un’abitazione del caseggiato. Il padre di Idnibal aveva un banco al
mercato, davanti alla Porta diTynes; suo figlio lavorava come scrivano nella ditta commerciale del
cugino di Tazirat. Amidi, che era originario della Costa dell’Incenso, nell’Arabia meridionale, come
Taqur, non se la passava male come pittore e scultore; vent’anni prima aveva lasciato Adane, il
porto più grande del suo paese insieme a Kane, e si era recato dapprima in Egitto, dove le sculture
erano più apprezzate che in Arabia. Ora aveva quasi quarantanni e da sei o sette abitava a Qart
Hadasht.
“In fin dei conti” pensò Bomilcare “questo è una specie di convito serale abituale.”
Sapeva molto bene che l’immagine della città era improntata dai nobili, che quelli che i
romani chiamavano “cartaginesi” e gli elleni “carcedoni” erano i ricchi mercanti internazionali o gli
ambasciatori del Consiglio, uomini dalle spose virtuose e per lo più invisibili. Rappresentavano
Qart Hadasht all’estero, con il cerimoniale delle loro cariche e le tradizioni delle loro famiglie.
Rigidi, severi, ricchi.
E tanto estranei agli altri popoli quanto questi lo erano a loro. Quanto a Bomilcare, figlio di
una famiglia di artigiani di Ityke, aveva trascorso diversi anni nell’esercito di Amilcare, in Iberia,
insieme a libi, numidi, iberi, celti, elleni, cretesi, spartani, persiani, e a quell’epoca, gli uomini di
Qart Hadasht che comparivano di tanto in tanto erano parsi anche a lui degli estranei. Quantomeno
gli ambasciatori del Consiglio, che non si mescolavano con la gente comune come lui. Nella grande
città vivevano più di cinquecentomila persone: quanti di loro potevano essere davvero cananei puri?
E quanti elleni, libi, egizi, giudei, arabi, iberi?
«Ovviamente facciamo il bagno nudi alla spiaggia» stava dicendo Idnibal. «Uomini, donne e
bambini, ma non i ricchi.
Loro hanno bagni riservati. Non so come si comportano i nobili ad Alessandria…»
«Allo stesso modo» disse Taqur. «Ovunque. Forse è questo a renderli tanto nobili.»
Anche i senatori a Roma. I membri del nostro Consiglio hanno un loro bagno riservato nei
pressi dell’agorà, che è vietato alla gente comune. Ma racconta, chi hai incontrato, con chi hai
parlato o hai concluso affari? E da quanto tempo sei qui?»
«Da tre giorni» rispose Taqur scuotendo il capo. «Troppo pochi per vedere qualcosa o
conoscere davvero qualche persona. Per questo sono felice della coincidenza che mi ha introdotto in
questo convito. E ho fatto affari con un punico, responsabile di un grande magazzino di proprietà di
una banca. I soliti affari che si fanno ovunque, niente di particolare.
Perciò…» alzò le spalle.
«E adesso sei deluso perché nessuno ti trascina al tofet né vi sacrifica i bambini?» disse
Aspasia. «Spero almeno che tu non sia deluso anche del mio gioiello.»
Taqur sorrise. «Anche se fosse, sarebbe scortese dirlo qui, nella tua abitazione. Sicuramente
era abbastanza caro.»
«Il che significa» disse Idnibal «che prevedi di poterlo rivendere vantaggiosamente a Tiro o
ad Alessandria.»
Taqur rise. «Forse. Vedremo. Porterò il tuo capolavoro al collo, così con un po‘“di fortuna
sfuggirà ai controlli alla dogana deiTolomei.»
«Alessandria, dunque» disse Bomilcare. «Ma che genere di merci trasporti? Forse puoi
nascondervi il gioiello.»
«Non credo. Sono soprattutto bottigliette di vetro colorato, piene di profumi di ogni genere.
Barattoli di unguento.
Lavori d’intaglio e uova di struzzo decorate. Divinità, animali ed eroi di zanne d’elefante.»
Bomilcare fischiò tra i denti. «Sembrano preziosi. Fammi indovinare… hai trattato con il
Banco della Sabbia?»
Taqur annuì. «Non era difficile da indovinare, non è vero?
Credo che sia l’unica banca che si dedichi a traffici così diversificati. Soprattutto con gli
stranieri.»
«Appartiene per metà a un punico e per l’altra metà a un meteco. Un elleno di nome
Antigonos. I grandi banchieri punici nobili non sono così aperti con gli stranieri. E non hanno artisti
propri che producano oggetti simili.»
«Bisogna essere nel posto giusto al momento giusto»
disse Taqur «quando si vuole vendere qualcosa. Oppure non si ha a disposizione una propria
nave per il trasporto. La fortuna determina più della metà del guadagno. E, con un altro po’
di fortuna, si possono far passare due o tre cose di contrabbando alla dogana.»
«Hai molta merce da contrabbandare?»
«Mi piacerebbe averne di più» rispose Taqur sorridendo.
«Oggetti preziosi molto richiesti, per esempio. Ricordi di eroi e semidei del passato… ci
sono cose del genere qui?
Cose da poter rubare? Un busto della fondatrice Elissa?
L’ancora della sua nave? Il perizoma sudicio di un eroe di guerra?»
Amidi rise a singulti. «Che belle idee. Ma sì, voi che siete tutti punici, non c’è niente del
genere? Il malleolo di un criminale famoso? Le ultime volontà di un suffeta?»
«In un tempio, credo quello di Melqart, c’è la tavola di bronzo su cui Annone il Navigatore
ha fatto incidere la sua relazione sulla lunga traversata verso occidente e verso sud»
disse Idnibal. «Pensavi a qualcosa del genere? Alla pelliccia della grande scimmia
antropomorfa che ha portato con sé? O
forse invece cerchi qualcosa come la maschera di una celebre attrice?»
Taqur batté le mani. «Tutte ottime proposte. Ma, come sapete, il sovrano di Alessandria
colleziona soprattutto divinità. Immagini di divinità. Oggetti sacri. Non avete niente di sacro?»
«Allora potresti provare a rubare» disse Bomilcare «l’antico Baal Melqart di pietra dal
tempio del tofet, il dio a cui venivano sacrificati i bambini. Quindi la tua prossima tappa è
Alessandria? E poi dove andrai?»
«Ho sempre desiderato andare in Iberia, una volta o l’altra. Vedremo.»
A un certo punto fuori smise di piovere e gli ospiti se ne andarono. Amidi decise di
accompagnare Taqur al porto e Idnibal accompagnò Tazirat alla sua abitazione. Aspasia uscì
insieme a loro sul ballatoio, perché aveva ancora qualcosa da chiarire con Tazirat. Bomilcare iniziò
a riordinare stoviglie e vassoi per il cibo, ripensando nel frattempo ad alcune affermazioni di Taqur
che gli erano parse ambigue.
«Taqur sa che cosa faccio?» domandò ad Aspasia non appena fu rientrata.
«Abbiamo parlato brevemente di te prima che arrivassi.
Perché?»
«Solo così. Mi stavo domandando se non avesse voluto mandarmi qualche messaggio
cifrato.»
«In che modo?»
Bomilcare posò le mani sui fianchi di Aspasia. «La storia del contrabbando e della dogana,
per esempio. Potrebbe essere stato un suggerimento. Ho qui qualcosa che vorrebbe essere
contrabbandato nel tuo entroterra.»
«Ah.» Aspasia fece un passo indietro e l’osservò con un sorrisetto ambiguo. «Va proprio
bene. Così finalmente ti dovrai sfilare questo terribile kitun.»
«Subito, cara.»
«A proposito, come è stata la tua giornata?» gli domandò mentre fissava le imposte alle
finestre.
«Complicata. Conosci qualcuno che si fa chiamare Il Verde?»
«No. Mi devo informare?»
«Con prudenza.»
Aspasia annuì. «Domani a mezzogiorno devo andare a una riunione della fratria. Forse
potrei chiedere che generi di affari tratta o cose simili.»
«O cose simili.»
Quando lei si voltò, Bomilcare si sfilò prima il kitun e poi il perizoma.
«Ah» disse Aspasia. «Ma non parliamo del colore verde.
Parliamo piuttosto di quello della carne.»
«Potremmo inscenare una vecchia commedia» disse Bomilcare ridacchiando e prendendola
per il braccio.
«Mi dirai certamente come si intitola la commedia, non è vero?»
«Il colore della carne, che si perde nel cespuglio.»
«Che titolo stupido.»
Prima di recarsi nuovamente all’agorà e al carcere del tribunale, Bomilcare passò dal vicolo
dei facchini. Nell’officina dei carri due uomini erano intenti a riparare una ruota che non girava più
bene: i raggi di ferro nuovi, forniti il giorno prima dal fabbro, non erano delle dimensioni esatte e
dovevano essere scaldati e ribattuti. Il libio Zililsan era accovacciato sul bordo di un carro e
guardava l’altro, reggendo con la mano destra un recipiente di forma sferica da cui sorbiva brodo di
verdure bollente con una cannuccia di paglia.
«Novità?» chiese Bomilcare.
«Il giudice ti aspetta» rispose Zililsan porgendogli il recipiente. «Sembra che sia irritato.»
«Ti ringrazio, ma è troppo presto per le bevande salutari.
Irritato? Quale giudice, e perché?»
«Tybon. Per via di Zabugu, a quel che ho sentito.»
Bomilcare annuì. «C’era da aspettarselo. Vado subito da lui.
Dopo devo recarmi al muro. Però ho qualcosa da fare per te.»
«Sono entusiasta di sentirlo. Che cosa?»
«Bodashtart il Verde: ti dice qualcosa questo nome?»
Zililsan protese il labbro inferiore. «Certamente. A te no?»
«Te lo domanderei, in tal caso?»
«Talvolta tu fai domande anche se conosci già le risposte.
E altre volte fai domande ma non vuoi avere risposte.»
«Che mi dici di quell’uomo?»
«Sui trentacinque anni» rispose il libio. «Commercia in verdure, da cui il soprannome. Ha
alcuni orti fuori città, in direzione di Tynes, e alcuni scagnozzi che, di tanto in tanto, si preoccupano
che gli altri ortolani non vendano a prezzi inferiori ai suoi.»
«Ah, quello?» disse Bomilcare aggrottando la fronte. «Non sapevo che avesse un
soprannome. Sei sicuro che non ci sia nessun altro che si chiama così? Uno che potrebbe
appartenere ai principi dei bassifondi?»
«Presumo che abbia relazioni in città, altrimenti non potrebbe combinare molto nel mercato
fuori dalle mura. Ma non so altro.»
«Fai in modo di venirne a sapere di più.»
«A quale proposito? E di che si tratta?»
«Non lo so ancora. Non appena sarò in grado di dirti di più, lo farò.»
Fischiettando tra i denti, Bomilcare si diresse al posto di guardia più vicino, che si trovava in
una via secondaria tra l’agorà e il porto. Anche lì gli riferirono che Tybon l’aspettava, anche se non
“irritato”, bensì “soffiando fuoco dalle froge rosse”. Bomilcare si informò sugli avvenimenti della
notte precedente, quindi ordinò al sottocapo di attaccare il cavallo a un carro e di mandare subito un
messo al tribunale con la notizia che Bomilcare doveva recarsi con grande urgenza al Vallo Grande.
Tra le colonne che sorreggevano il piano superiore del palazzo del tribunale, c’erano due
soldati con le armature luccicanti, l’elmo con il pennacchio e i giavellotti argentati; altri due erano
seduti sui gradini che conducevano ai porticati sulla destra e sulla sinistra del portale. Si trattava di
uomini della guardia d’onore, addetti alla scorta dei due suffeti. Bomilcare conosceva uno di loro;
in un primo momento decise di passargli davanti con un cenno ed entrare nell’edificio. Poi,
all’improvviso, gli venne in mente che quello avrebbe potuto essere un dono inaspettato degli dèi.
Di qualunque divinità si trattasse: forse della piccola demonessa di colore rosso chiaro Dsindsin, i
cui doni nelle antiche storie avevano sempre un lato buono e uno a volte triste, a volte terribile.
«Ti auguro una splendida mattinata, Mishides. Chi avete accompagnato qui?» gli domandò.
«Il nobile Germiskar. Il che» aggiunse il soldato con un sogghigno «rende un po‘“meno
splendida la mattinata.»
Bomilcare si morse il labbro inferiore. Avrebbe preferito l’altro suffeta, Himilko, ma in caso
di necessità anche Germiskar avrebbe dovuto occuparsi dell’ordine pubblico. Faceva parte dei
Vecchi ed era considerato un uomo retto, anche se un po‘“rigido.
«Dove si trova?»
«A colloquio con due giudici.»
«Non conoscete i loro nomi?»
Mishides scosse il capo.
«Va bene.» Bomilcare rifletté per un istante, poi disse: «Se il nobile Germiskar dovesse
lasciare l’edificio prima di me, chiedetegli voi un colloquio da parte mia. Mi troverà dal giudice e
membro del Consiglio Tybon».
«Ho inteso e obbedisco, capo delle guardie.»
Bomilcare si portò la mano al petto ed entrò nel palazzo del Consiglio. Dal primo piano
provenivano voci concitate che risuonavano nel porticato inferiore, tra le quali quella acuta e nasale
del giudice era inconfondibile. Bomilcare serrò le labbra, si preparò ad affrontarlo e salì l’ampia
scalinata.
Tybon si trovava in un ufficio di fronte alle scale insieme a due scrivani e al comandante
della prigione. Quando vide Bomilcare si fece tutto rosso in viso.
«Guardiano del disordine» tuonò «ostacolo alla giustizia, lurida feccia! Come osi mettere i
bastoni tra le ruote ai giudici in questo modo?»
Bomilcare si accorse che altri uomini giungevano nel porticato da destra e da sinistra,
probabilmente per ascoltare. Gli sembrò di vedere con la coda dell’occhio una veste gialla e un
collo lungo e sottile. Tuttavia non ci fece caso, la sua attenzione era tutta rivolta a Tybon.
«Non so quali brutti sogni ti abbiano fatto perdere il controllo, Rab Tybon» disse con voce
fredda. «Quando sarai di nuovo in grado di parlare in modo appropriato, mi troverai nel carcere del
tribunale.» Si voltò e fece il gesto di ridiscendere le scale.
«Resta qui!» gridò Tybon battendo i piedi, come se volesse seguire il ritmo delle sue stesse
parole.
Bomilcare si voltò di nuovo verso il giudice. «Ti riferisci a me?»
«E a chi altri, se no?»
«Ah, sono presenti abbastanza testimoni del tuo eloquio inappropriato» disse Bomilcare
guardando verso destra con un fuggevole sorriso e indicando nello stesso tempo verso sinistra.
«L’edificio risuona della tua magnifica voce e tutte le orecchie si abbeverano avidamente alle tue
parole.»
Tybon agitò ambo le mani nell’aria e aprì la bocca, ma prima che potesse trovare le parole
che cercava, una voce dura e roca sulla sinistra del porticato disse: «Che cosa significa questo
indegno frastuono?».
Il suffeta Germiskar si avvicinò a passi rapidi, sfiorò Bomilcare con un’occhiata indifferente
e guardò nell’ufficio in cui si trovava Tybon.
«La giustizia bisogna vederla e toccarla» disse Germiskar «ma non bisogna necessariamente
ascoltarla. Insomma, di che si tratta?»
«Quello lì» disse Tybon sforzandosi evidentemente di calmarsi «quel sedicente tutore
dell’ordine, ha impedito che l’assassino di Abdosir venisse giudicato, come esempio per i giusti e
monito per i reprobi.»
Mentre Germiskar si voltava verso Bomilcare, il suo splendido mantello di porpora intessuto
d’oro, la veste ufficiale dei suffeti, fu sul punto di scivolargli dalle spalle. Uno scrivano che l’aveva
seguito intervenne prontamente a richiudergli la fibbia sul collo.
«Ostacolare la giustizia? Non è questo il compito del capo delle guardie. E non sarebbe
all’altezza della fama di Bomilcare. Che cosa è accaduto?»
«Ne sono all’oscuro quanto te, signore» rispose Bomilcare. «Non so di che cosa parli il
nobile Tybon.»
«Ah! L’assassino…»
Germiskar l’interruppe. «È dunque certo che sia lui l’assassino?»
«Senza alcun dubbio» ribatté Tybon. «Abdosir verrà sepolto oggi a mezzogiorno.
L’assassino avrebbe dovuto ascoltare dalla mia bocca la condanna stamattina presto e la sua lenta
esecuzione avrebbe dovuto accompagnare degnamente il funerale del nobile.»
Il suffeta aggrottò la fronte. «E che cosa c’entra Bomilcare con tutto questo?»
«Ha impedito l’esecuzione, come ho detto.»
Germiskar sospirò. «E come ha potuto farlo, se il giudice non ha neppure pronunciato la
condanna?»
«Ha permesso che l’assassino si impiccasse in prigione.»
«In quale prigione?»
Tybon indicò il pavimento sotto i propri piedi. «Nella prigione del tribunale.»
«E come ha fatto a permettere che si impiccasse? Lo ha indotto e aiutato a farlo?»
«Ha rinchiuso un piccolo delinquente nella gabbia accanto. L’assassino si è fatto una corda
con il tessuto dei suoi vestiti e…»
«Bomilcare era presente?»
«No, però…»
«Permettimi di parlare, signore» disse Bomilcare.
«Concesso.»
«Fino a questo momento non sapevo nulla della morte del prigioniero. In ogni caso è meglio
cominciare dal principio.»
«Ma non da troppo lontano.»
Bomilcare abbozzò una via di mezzo tra un cenno e un inchino. «Il nobile Abdosir è stato
assassinato. L’uomo che verosimilmente ha commesso questo crimine è stato arrestato.
Il mio compito è quello di chiarire le circostanze e di accertare il movente dell’accaduto.»
Tybon gracchiò qualcosa di incomprensibile, poi disse: «A che scopo tutti questi chiarimenti
e accertamenti, se non ci sono dubbi sul delitto e sul colpevole?».
«Soltanto quando sapremo perché l’assassino lo ha commesso, e soltanto quando saremo
certi che egli non faccia parte di un complotto più vasto, io, come tutore dell’ordine, potrò dormire
di nuovo tranquillo, senza dovermi preoccupare del fatto che, forse, qualcuno desideri eliminare
proprio il nobile Tybon o altri grandi della città.»
Non ne era sicuro, ma gli sembrò di vedere un accenno di sorriso far capolino sul volto del
suffeta.
«Il boia» disse Tybon «l’avrebbe interrogato a fondo in proposito durante il lungo
procedimento.»
«Non c’è dubbio. Ma non credi che sarebbe stato bene apprendere tutto questo prima di
pronunciare ed eseguire la sentenza?»
Germiskar fissò il soffitto. «Andiamo avanti» borbottò.
«Non posso perdere tutto il giorno. Anche io devo, cioè, voglio porgere l’estremo omaggio
al nobile Abdosir.»
«Prima che potessi terminare di interrogarlo, l’assassino è stato portato nella prigione del
tribunale per ordine del giudice Tybon. Ieri sera ho ritenuto mio dovere verificare ancora una volta
che tutto si svolgesse nel modo dovuto. Lungo la strada ho acciuffato un piccolo farabutto esagitato
e l’ho sbattuto nel carcere del tribunale. Dal momento che era talmente ubriaco da perdere i sensi,
non ho ritenuto opportuno prendere ulteriori provvedimenti.»
«Come incatenarlo?» disse il suffeta. «Bè sì, a che scopo immobilizzare chi è già immobile?
È un peccato che questo Zabugu si sia sottratto alla condanna e all’esecuzione. Ma che venga
giustiziato o che si sia tolto la vita da solo… il risultato non cambia.»
«Però…» disseTybon.
Germiskar alzò la mano. «La tua sentenza
indubbiamente giusta non ha potuto venire pronunciata. È un peccato, non c’è dubbio. E tu,
capo delle guardie, sei riuscito a sapere qualcosa sulle circostanze e i retroscena?»
«Niente, signore.»
«Anche questo è un peccato, ma non ci si può fare nulla.»
Germiskar si fregò il naso, guardando prima Bomilcare e poi Tybon, che continuava a essere
visibilmente insoddisfatto.
«Nel prossimo caso del genere bisognerà agire con maggior circospezione» disse infine il
suffeta. «Da ogni punto di vista. Bomilcare dovrà ottenere più tempo per le indagini, e poi fare in
modo che, dopo il crimine, il colpevole non possa eseguire anche la sentenza.»
Bomilcare si sforzò di conservare un’espressione impassibile. «Ho inteso e obbedisco,
signore.»
«Bene. Tybon… la prossima volta, che gli dèi non vogliano che accada, nel caso in cui sia di
nuovo tu a occupartene, parla con il capo delle guardie, prima di impartire ordini.»
Il giudice sibilò tra i denti qualcosa di incomprensibile, che il suffeta interpretò
evidentemente come un cenno d’assenso.
«Scrivi un’annotazione negli atti» disse Germiskar «e consegnala al mio scrivano; io poi
confermerò ogni cosa. Non ci saranno ombre sul tuo nome, Tybon, né ostacoli alla tua carriera. Che
gli dèi possano conservarvi serenità e determinazione.»
Si voltò e s’incamminò verso sinistra, probabilmente per ritornare nella stanza da cui era
uscito quando era scoppiato l’alterco. Il suo scrivano lo seguì.
Per Bomilcare fu tutt’altro che semplice continuare a mostrarsi impassibile, senza
manifestare in alcun modo la propria soddisfazione, neppure con un lieve sorriso.
“Forse è più facile assumere un’altra espressione del viso che restare del tutto indifferenti”
pensò. “Contrita?
Sottomessa? Rispettosa?”
Tybon lo fissava: si attendeva un chiarimento, una giustificazione? Come sarebbe andata a
finire l’intera faccenda?
Ovviamente, si disse Bomilcare, la decisione del suffeta non era vincolante per Tybon.
Avrebbe potuto rivolgersi agli altri novantanove giudici; quindi chiamare in causa i centoquattro
giudici supremi, responsabili soprattutto delle questioni politiche e di stato; il comitato di cinque
membri del Consiglio, i pentarchi, che vigilavano sulla legge e l’ordine; l’intero Consiglio della
città, i trecento potenti. E alla fine anche i trenta notabili, il Consiglio degli Anziani. Se neppure in
questo modo si fosse raggiunto un accordo, Consiglio e suffeti avrebbero potuto rivolgersi insieme
all’assemblea popolare. Ma a che scopo? Perché mai Tybon avrebbe dovuto attribuire tanta
importanza a un incidente apparentemente insignificante?
Rimasero a fissarsi per non più di due respiri, prima che Bomilcare prendesse una decisione.
L’atteggiamento di Germiskar gli aveva fatto comprendere che non aveva bisogno di un
interminabile procedimento legale, che gli avrebbe impedito ogni movimento, ma di un alleato, che
certamente non avrebbe potuto essere il suffeta.
«Venerabile» disse accennando a un inchino «avrei preferito che avessimo potuto discutere
tutto questo tra noi. In modo consono e con il riguardo dovuto nei confronti di un giudice. Vuoi
perdonarmi alcune parole grossolane? Ti assicuro che non erano assolutamente rivolte ad attaccare
te, ma soltanto a difendere me.»
Il volto di Tybon aveva ormai ripreso il suo colore abituale. Il giudice continuava ad agitarsi,
come se volesse saltare fino all’alto soffitto del porticato. Scoprì i denti ed emise una specie di
«ntz», che avrebbe potuto esprimere disappunto, biasimo o disprezzo, ma che forse, invece,
significava soltanto che sarebbe rimasto ad ascoltarlo per qualche altro battito di ciglia.
Alcuni scrivani erano ancora abbastanza vicini da poter ascoltare. Bomilcare si schiarì la
voce ed affermò: «Naturalmente mi dispiace che quella canaglia si sia sottratta alla giustizia, Rab
Tybon. Temo tuttavia che non fosse solo. E che la vita di altri membri del Consiglio e giudici sia in
pericolo».
Tybon masticò alcune parole senza pronunciarle e alla fine borbottò: «Che cosa vuoi?».
«Il tuo consiglio, signore, e forse qualche direttiva utile… a difendere l’ordine e la vita.»
«Vieni.» Tybon si voltò e ritornò nella stanza di fronte alla scalinata. Due scrivani o servitori
del tribunale, che fino ad allora erano rimasti lì ad ascoltare, si precipitarono verso i rotoli e le
tavolette di cera che erano posate sul tavolo.
Il giudice sbuffò e passò oltre senza dire una parola.
Bomilcare lo seguì nella stanza accanto. Doveva trattarsi dell’ufficio di Tybon, ma aveva
piuttosto l’aspetto di una fortezza assediata. Contro ogni parete, perfino sotto i vani delle due
finestre, c’erano ripiani carichi di tavolette e di rotoli, sparsi o dentro cilindri di terracotta; scaffali
stracolmi, alti come una persona, erano inchiodati alla scrivania, che era ingombra di stili, calami
masticati, boccette d’inchiostro, e altro occorrente per scrivere. Bomilcare vide una scodella con un
cucchiaio dall’impugnatura in avorio in parte immerso in una specie di miscuglio di formaggio
fresco, miele e chicchi di sesamo. C’erano anche datteri secchi, e lungo il manico del cucchiaio era
intagliata una donna snella con tre seni appuntiti. Lì accanto si distingueva una statuetta di
terracotta, un leone iberico grande come una testa, nelle cui zanne erano infilzati pezzi di papiro.
Tybon si accasciò pesantemente sulla sedia pieghevole dietro la scrivania e allungò una
mano verso la scodella, indicando con un borbottio uno sgabello.
Bomilcare lo interpretò come un invito, trascinò lo sgabello di fronte al tavolo da lavoro e si
sedette.
Tybon socchiuse gli occhi a formare due fessure; poi sospirò, disse: «parla» e si infilò il
cucchiaio in bocca.
«Che gli dèi possano assicurarti sempre nutrimento e piaceri» disse Bomilcare. «Oltre a beni
a dismisura.»
«Beni?» disse Tybon inarcando le sopracciglia. «Non sempre sono il fondamento della
ricchezza e della giustizia.» Leccò il cucchiaio, lo posò di nuovo nella scodella e si piegò in avanti.
«Ne ho abbastanza di discussioni, chiacchiere e complimenti; che cosa vuoi veramente?»
«Indagare» rispose Bomilcare incrociando le braccia davanti al petto. «Non credo che un
piccolo delinquente possa avere qualcosa a che fare con uno come Abdosir. Qualcuno deve averlo
assoldato per ucciderlo: voglio riuscire a scoprire chi è stato e perché. Soltanto allora sapremo se
anche altri nobili sono in pericolo.»
«Mi sembra un’assurdità, ma va bene, parla.»
Alla fine Bomilcare fu sorpreso della facilità e della rapidità con cui avevano discusso di
ogni cosa. Sorpreso… ma fino a un certo punto. Tybon sembrava incline agli accessi d’ira, come se
nel suo animo regnasse una confusione simile a quella della sua scrivania. Ma era pur sempre un
membro del Consiglio e un giudice, obbligato a rispettare le leggi e gli ordinamenti, ovviamente
anche a proprio vantaggio.
Prima ancora che comparisse la guardia che avrebbe dovuto condurre Bomilcare al Vallo
Grande, Tybon aveva fatto preparare, a malincuore ma in modo sollecito, alcune istruzioni che poi
aveva sigillato. Bomilcare passò dalla prigione del tribunale per rilasciare l’ubriacone che aveva
arrestato.
Quando fu di nuovo all’aperto e si diresse verso le scuderie, vide spuntare in mezzo alla
folla nell’estremità meridionale dell’agorà, come al solito assiepata di gente che contrattava, litigava
o bighellonava, una testa che si muoveva su un collo sottile, accanto alla quale gli parve di
distinguere una macchia rossa. Si domandò distrattamente se l’uomo vestito di giallo potesse essersi
cambiato d’abito nel palazzo del Consiglio.
Lungo il tragitto fino alla fortezza dovette sforzarsi di trattenere un sorriso. La sua
sensazione di benessere era accresciuta dall’aria che, dopo le forti pioggie, si poteva dire quasi
fresca e dalla Via Grande pulita.
«Sei caduto in un vaso di miele?» gli chiese Autolykos a mò di saluto. Era insieme a uno
scrivano della fortezza, in piedi davanti alla panchina del posto di guardia, sulla quale avevano
accatastato in diverse pile tavolette e rotoli.
«Ho un aspetto così appiccicoso?»
«Dolce. Disgustosamente dolce, come dopo un pasto sontuoso e un accoppiamento
appagante.»
Bomilcare rise. «Non sapevo che le discussioni con i giudici potessero avere effetti simili.»
«Che cosa ti spinge tra le braccia dei giudici di buon mattino?»
«Te lo dico dopo. Prima ho bisogno di un conducente. Di quale dei tuoi uomini ti puoi
privare?»
Autolykos alzò le spalle. «Non abbiamo nulla di particolare da fare. Prendi chi vuoi.»
Bomilcare si recò nella stanza accanto, dove erano sedute a dormicchiare tre guardie. Ordinò
a una di occuparsi del cavallo e del carro e di tenersi pronta. Dopo di che uscì con Autolykos nella
piazzetta, dove avrebbero potuto parlare senza essere ascoltati.
«In qualità di tuo attendente» disse alla fine il campano con un sorriso obliquo «preferisco
non aver sentito i dettagli.
Zabugu si è impiccato, dunque, e prima ha fatto il nome di Bodashtart il Verde? Quello
passa là davanti almeno tre volte al giorno» aggiunse indicando con il mento in direzione della
vicina porta e della Via Grande.
«Lo so: il mercato delle verdure e gli orti fuori dalle mura.
Ma che cosa può avere a che fare con Abdosir?»
«Non ne ho idea. Mi informerò prudentemente in giro. A parte noi due, nessuno deve sapere
che Zabugu ha fatto il suo nome?»
«Nessuno. Scopri dove vive la famiglia di Zabugu. Voglio parlare con sua moglie.»
«Va bene. E a che cosa ti servono il carro e il conducente?»
«Per andare a ispezionare il luogo del delitto. Chi ha catturato Zabugu, dopo l’omicidio?»
«È stato Barako. Adesso è di ronda nei quartieri meridionali.»
«Spero di trovarlo presto. Sai con precisione quando verrà sepolto Abdosir?»
Autolykos storse il naso. «Ma insomma, chi di noi due qui è il cananeo? Credo che i ricchi
facciano sempre i funerali a mezzogiorno, non è vero? Così, dopo aver finito, possono
gozzovigliare fino a notte.»
Il sole, nascosto dall’imponente edificio sul lato sudorientale della piazza, non si riusciva a
vedere. Bomilcare diede uno sguardo alla lunghezza delle ombre.
«Allora non devo perdere tempo.»
«Non dovresti farlo mai.»
«Qui è accaduto qualcosa di importante?»
Autolykos gonfiò le guance. «Bah. Sempre le solite cose.
Qualche rissa. Un paio di furti. Una zuffa al mercato. Ah, e un cadavere nella fortezza, ma
se ne occupano direttamente loro.»
«Che cosa è successo?»
«Probabilmente una vecchia lite tra numidi. Nelle scuderie. Stamattina presto c’era un morto
in mezzo ai cavalli.»
Bomilcare si fermò a riflettere mordendosi il labbro superiore; alla fine disse: «Dovevo
comunque riprendere a esercitarmi, prima o poi. Lo farò questa sera. Me ne occuperò allora. Se
senti qualcosa prima, prendine nota. Ah, in ogni caso, fai portare il cadavere da Artemidoros».
Autolykos sospirò piano. «E va bene. Vuoi soltanto che finalmente il medico abbia di nuovo
qualcosa da tagliare a pezzi, non è vero?» : - Š
«Altrimenti si arruginisce.» . .
Il caso aveva voluto che la guardia Nislakh, che Bomilcare aveva scelto come conducente,
fosse un numida. Mentre percorrevano la Via Grande diretti a est, verso il cuore della città,
guardandosi intorno alla ricerca delle guardie di ronda, Bomilcare l’interrogò sui suoi rapporti con
gli altri numidi, soprattutto quelli delle truppe di cavalleria della fortezza.
«Non ce ne sono molti, capo» disse Nislakh. «Due centinaia, non di più. Ne conosco alcuni
che provengono dalla mia stessa regione; con gli altri non ho alcun rapporto.»
«Sai qualcosa del morto?»
«Soltanto che l’hanno trovato. Non lo conoscevo.»
«Va bene. Entra nella via secondaria là davanti, sulla destra. Gli uomini dovrebbero essere
proprio qui, da qualche parte… avete visto le guardie?»
Alcuni bambini che giocavano lungo il ciglio della strada indicarono genericamente verso
sudest, dicendo che i soldati erano stati lì poco prima e poi si erano allontanati in quella direzione.
«La seconda via a sinistra. E, mentre tu guidi e io mi guardo intorno, prendi in
considerazione una cosa.»
Nislakh teneva lo sguardo dritto davanti a sé.
«Io faccio sì che tu, all’inizio di ogni luna, riceva sempre dieci shekel e, forse, ti posso
proteggere dai tuoi connazionali. Quelli, invece, non ti possono sicuramente proteggere da me.
Considera, Nislakh, se per te è più importante rimanere fedele alla città oppure alla tua stirpe. E
fermati: sono là davanti.»
Bomilcare saltò giù dal cassone del carro, fece alcuni passi nel vicolo stretto che serpeggiava
verso il muro meridionale e gridò: «Barako! Vieni qui!».
Dovette urlare una seconda volta, prima che le guardie lo sentissero.
Barako, un giovane robusto con la barba nera ben curata, si diresse verso di lui a passo di
corsa.
«Che cosa desideri, capo?» gli domandò. Nel constatare che respirava appena più
rapidamente del solito, Bomilcare si ricordò della propria intenzione di riprendere, quella sera, gli
allenamenti nella fortezza che aveva trascurato per troppo tempo.
«Visitare il luogo in cui hai catturato Zabugu e ascoltare una descrizione minuziosa degli
avvenimenti.»
Barako annuì. «Certamente. Gli altri proseguono?» ò; ; , «Quanti sono?»
«Tre, oltre a me.»
«Bastano.» Bomilcare si infilò due dita in bocca, emise un fischio stridulo e poi disegnò un
cerchio con il braccio: il segnale della ronda. Gli altri risposero con un cenno e proseguirono.
«Vieni, andiamo al carro.»
Quando giunsero all’angolo in cui Bomilcare era sceso, trovarono il veicolo con il cavallo,
ma Nislakh era scomparso.
«Che il piccolo demone marrone del mal di pancia lo possa tormentare» borbottò Bomilcare
afferrando le briglie.
«Chi, capo?»
«Nislakh. Credo che abbia appena abbandonato il servizio.»
«Come mai?»
«Te lo dirò lungo il tragitto. Tieniti forte.»
Barako infilò il giavellotto nella faretra che si trovava nel cassone del carro, sistemò la spada
che aveva nel cinturone e si tenne stretto al bordo del veicolo. Bomilcare riportò il carro sulla Via
Grande e, mentre correvano verso est, fece un resoconto sintetico a Barako.
«Zabugu impiccato, un numida morto nella fortezza, Nislakh scomparso?» Barako scosse il
capo con energia, poi allungò la mano per sistemarsi l’elmo a catino che gli stava scivolando. «Io
però non so dirti molto su di lui, capo.»
«Non parlate mai tra di voi, qualche volta?»
Barako rise, ma sembrava alquanto turbato. «Certo, ma siamo ben duecento, per cui
ciascuno non conosce molto più del nome degli altri. Tranne quelli con cui lavora più spesso,
oppure è amico.»
«E tu e Nislakh non lo siete?»
«Siamo stati di ronda insieme; una volta ho fatto il turno di guardia con lui nel quartiere dei
tintori. Credo che abbia una moglie o un’amante da qualche parte, fuori dalle mura: lavora al
mercato ed è originaria della sua stessa città. Ma non so nemmeno più come si chiami.»
«C’è qualcuno che lo conosce meglio?»
«Chiedilo agli altri numidi, capo.»
Bomilcare rifletté in silenzio fino a che, poco prima dell’agorà, si diressero verso nord e
raggiunsero le mura della Birsa, che separavano la collina dei ricchi e dei templi dalla città bassa.
Oltre la porta c’era una piazzetta con un pozzo.
Bomilcare promise una monetina da un decimo di shekel a uno dei ragazzi che vi si
aggiravano, affinché sorvegliasse il carro fino al loro ritorno e desse da bere al cavallo.
Poi strinse gli occhi per osservare il sole. «In questo momento staranno seppellendo il nobile
Abdosir» disse. «È il momento migliore… vieni con me.»
«Dove, capo?»
«A casa di Abdosir. È proprio qui davanti.»
Barako tossicchiò. «Ma non ci sarà nessuno, se le esequie si stanno svolgendo proprio in
questo momento.»
«Sicuramente nessuno dei ricchi; ma io voglio parlare con gli schiavi.»
«Ah.»
La casa di Abdosir, circondata da mura e da un giardino rigoglioso, si trovava sul pendio
della collina. Il portinaio, uno schiavo dalla pelle scura, li pregò di attendere mentre andava a
chiamare il sorvegliante, un elleno anche lui schiavo, ma che indossava abiti preziosi del lino
migliore e, con il portamento e l’espressione del viso, faceva intendere con chiarezza che in realtà
era troppo importante per occuparsi di un punico qualunque.
«Sai leggere?» gli domandò Bomilcare.
«Ovviamente. Perché?»
Bomilcare emise un lieve sospiro, estrasse dalla cintura uno dei pezzi di papiro scritti da
Tybon, lo srotolò e lo tenne davanti agli occhi dell’elleno.
«Ascolta.»
«Forse. Perché?»
«Ascolta bene e in fretta, schiavo» disse Bomilcare. «Io sono il comandante delle guardie e
il massimo responsabile dell’ordine della città; tu ti rivolgerai a me chiamandomi “signore” ed
eseguirai molto in fretta le mie istruzioni. Questo è l’ordine del giudice Tybon, che si sta occupando
dell’omicidio del tuo padrone Abdosir. Come puoi vedere, scrive che opero su suo incarico e che
tutti gli abitanti della città mi devono aiutare. Hai capito, schiavo?»
L’uomo annuì. «Sì.» Quindi, dopo una pausa eloquente, aggiunse tra i denti un «signore».
«Bene. Voglio parlare con gli schiavi che scortavano Abdosir quando è stato assassinato.»
«Non so se è possibile.»
«Deve esserlo, e subito. Se mi ostacoli, dovrò disturbare la famiglia del tuo padrone, che se
la prenderà con te, non con me. Porta qui gli schiavi. Subito.»
Il sorvegliante si allontanò borbottando qualcosa tra sé.
Barako si schiarì la voce e parve sul punto di dire qualcosa; Bomilcare scosse il capo e
guardò il portinaio, che se ne stava sotto un fico a una decina di passi di distanza, e sembrava
intento a contarne le foglie.
Passò un po‘“di tempo prima che l’elleno ritornasse con tre schiavi.
«Il quarto non c’è» disse. «Ti bastano questi tre? Eh, signore?»
«Avete accompagnato voi il nobile Abdosir al tempio, il giorno in cui è stato assassinato?»
Gli schiavi annuirono. Bomilcare osservò i loro visi.
Sembravano tutti e tre svegli: evidentemente Adbosir trattava bene i suoi uomini e non
acquistava i più stupidi che riusciva a trovare.”Un libio” pensò Bomilcare “un celtico…
forse gallo? E un uomo originario dell’Asia? O del paese tra i due fiumi?”Poi, a voce alta,
disse: «Venite con me. Faremo la strada fino al tempio, e voi mi racconterete con precisione quello
che avete fatto e visto… no, tu rimani qui. Non ci vorrà molto».
Il sorvegliante, che avrebbe voluto unirsi a loro, fece una smorfia ma non disse nulla.
I tre schiavi parlavano un punico abbastanza buono. Si alternarono a raccontare, senza
contraddirsi tra loro; del resto non c’era molto da riferire.
Si erano allontanati dalla casa nella formazione consueta: due precedevano il loro padrone e
due lo seguivano. Si erano diretti al tempio di Eshmun a passi misurati (Abdosir non era più molto
giovane, e per di più era piuttosto corpulento) e a mani vuote: evidentemente Abdosir non voleva
offrire alcun sacrificio, ma discutere con il dio o con i sacerdoti.
«Siamo rimasti accovacciati qui a sonnecchiare» disse il libio, indicando una fitta siepe di
fronte al portale del tempio.
Dietro le piante, che lo ricoprivano soltanto in parte, c’era un vecchio muro di mattoni
consumati dalle intemperie.
«Per quanto tempo?»
«Che importanza ha il tempo, per uno schiavo?» Questa volta a parlare, sorridendo e
allargando le braccia, era stato l’uomo che a Bomilcare era sembrato un asiatico (persiano o
battriano, si disse ora). «Forse un’ora, forse anche di più.»
«Vai avanti.»
«Il padrone e gli altri escono dal tempio…»
«Fermati. Quali altri?» . •
«Altri nobili. Quelli…»
Bomilcare alzò la mano. «Piano. Chi? Quanti? Ed erano già nel tempio quando siete arrivati
voi, oppure sono comparsi più tardi?»
«Tre membri del Consiglio» disse il libio. «Abdshamash, Jehaumilk e Bodtinnit. Erano già
nel tempio, quando vi è entrato il padrone.»
«Quindi avevano appuntamento con lui?»
«Sarà stato così.»
Bomilcare borbottò piano. «Va bene. Vai avanti.»
«Quelli escono dal tempio. Noi saltiamo in piedi e andiamo incontro al padrone; gli altri
schiavi fanno altrettanto.»
«Mi fate disperare. Quali altri schiavi?»
«Quelli degli altri signori.»
«Anche loro erano seduti qui a sonnecchiare?»
«Sissignore.» .
«Quanti?»
«Quattro per ciascuno.»
«Quindi sedici, compresi voi? Dovete essere stati piuttosto stretti, all’ombra. E poi?»
«Il nostro padrone portava qualcosa.» Il libio sporse l’avambraccio in avanti e lo mosse
come uno che tenesse in braccio un bambino piccolo. Oppure un oggetto particolarmente delicato.
«Che cos’era?»
«Non lo sappiamo. Era avvolto in un panno prezioso.»
«Grande, piccolo, lungo, corto?»
Il celta indicò la spada corta di Bomilcare. «Pressappoco così. Come uno scettro, oppure una
spada.»
Abdosir, disse il libio, aveva detto qualcosa agli altri ma a voce molto bassa, impossibile da
udire. Evidentemente i signori volevano andare insieme da qualche parte, con l’oggetto che Adbosir
teneva in mano. Poi, all’improvviso, da un’altra siepe che si trovava sulla destra, era saltato fuori un
uomo che aveva conficcato un giavellotto nel ventre di Abdosir e gli aveva portato via l’involto.
«È scappato da lì» disse il celta indicando uno spazio tra due gruppi di siepi, dietro cui il
vecchio muro di mattoni era più basso, perché in parte crollato. «Ha scavalcato il muro e via. Aveva
il volto coperto da un velo, che però è rimasto impigliato in un ramo.»
Bomilcare si fece descrivere di nuovo con precisione quello che avevano fatto tutti i
presenti. Senza dubbio Zabugu aveva agito prima che gli schiavi potessero disporsi di nuovo
intorno ai loro padroni. Ma come era possibile che un aggressore sfuggisse a sedici schiavi, anche
se questi non gli si erano parati davanti?
«Avevate ricevuto istruzioni, in precedenza?» domandò loro.
«Nossignore. Ma che genere di istruzioni?»
«Di fare o non fare qualcosa.»
«Niente del genere.»
«E, mentre eravate seduti qui a sonnecchiare, avete parlato con gli altri schiavi?»
«Non molto. Soltanto qualche parola.»
«E loro vi hanno forse parlato di qualche istruzione?»
«Assolutamente no. Ma perché ce lo chiedi?»
«Mi sorprende che un solo uomo riesca a passare davanti a sedici persone, assassinare un
membro del Consiglio e fuggire via. Senza che nessuno muova un dito per bloccarlo.»
L’asiatico alzò le spalle. «Eravamo tutti sorpresi, paralizzati dalla paura.»
Bomilcare rifletté per alcuni istanti su questa risposta. «Va bene» disse alla fine.
«Andatevene a casa; forse vi dovrò interrogare ancora una volta.»
Barako li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano e, quando non poterono più sentirlo,
disse: «Credi che non sappiano davvero nient’altro?»
Bomilcare alzò le spalle. «Credo che questo non abbia molta importanza. Potevo bene
immaginare che non avessero tentato di difendere il loro padrone mettendo a repentaglio la loro
vita, ma in ogni caso adesso ne sappiamo molto più di prima. Di che genere di oggetto poteva
trattarsi?»
«Quando lui, voglio dire Zabugu, è scivolato giù dall’altra parte del muro» disse lentamente
Barako «non aveva più niente con sé.»
«Lasciami riflettere un po’, prima di parlare di questo.»
Bomilcare strappò un ramo da una delle siepi davanti al vecchio muro; poi fece qualche altro
passo sulla destra, verso l’angolo sudorientale del tempio, dove terminava il selciato e, oltre le
grandi lastre di pietra, si poteva vedere una superficie sabbiosa.
Vi si inginocchiò e iniziò a tracciare segni nella sabbia con il ramo. Voleva essere certo di
non dimenticare niente di importante, per poi annotarlo sul papiro nel suo ufficio.
Fece uno schizzo della collina della Birsa e, mentre disegnava la casa di Abdosir sul suo
pendio sudoccidentale con un quadrato nella sabbia, pensò al quartiere dei tintori e dei cuoiai, a
sudovest delle case, dei palazzi e dei templi. Il vento soffiava quasi sempre da nord e da nordovest,
qualche volta dai quadranti orientali o meridionali, ma quasi mai da sudovest, dall’entroterra.
“Altrimenti i ricchi da tempo avrebbero fatto in modo che i cuoiai si trasferissero” pensò
ridacchiando tra sé e sé. Gli alberi, le siepi e le mura avrebbero potuto proteggere un po‘“i loro nasi
delicati, ma certo non abbastanza.
Alcune linee per le vie e le strade. All’estremità meridionale della sommità pianeggiante
della Birsa, una specie di piccolo altopiano, il tempio di Eshmun, davanti al quale era inginocchiato
in quel momento. Più a est i templi di Reshef e Tanit, altri templi, ma soprattutto grandi case a nord.
A sud, lungo il pendio davanti al tempio di Eshmun, il terreno circondato dal vecchio muro di
mattoni in rovina, con due strade sulla destra e sulla sinistra che scendevano verso la città bassa.
«Strano» disse a mezza voce.
Barako, che gli si era avvicinato e si era chinato sul disegno, si rimise in piedi. «Che cosa
c’è di strano, capo?»
«Questo» rispose Bomilcare indicando con il ramo il pezzo di terreno circondato dal muro.
«Non è grande, duecento passi per duecento? E piuttosto ripido; probabilmente è la parte più ripida
di tutta la collina della Birsa. Però è in una posizione eccellente, sotto i templi e a meno di mezzo
miglio di distanza dall’agorà. Perché si trova in queste condizioni?
Perché non ci sono case? Due o tre belle casette per ricchi, con un piccolo giardino, oppure
un intero caseggiato per gente un po’ meno ricca?»
Barako scosse il capo. «Non lo so. Io…» S’interruppe; quando riprese a parlare, aveva un
tono un po‘“meravigliato. «Hai ragione, capo… è strano. E soprattutto è strano che io, come gli
altri, sia passato qui davanti per anni, senza avere osservato mai altro che il muro di mattoni e le
siepi.»
Bomilcare si alzò in piedi. Cercò con un’ultima occhiata di imprimersi nella memoria
l’intrico di linee e di quadrati.
«Vieni» disse. «Andiamo a vedere un po‘“meglio.»
Il rettangolo lastricato davanti al tempio poteva misurare circa venticinque passi per
quindici. Bomilcare osservò il colonnato color sabbia, cui si accedeva tramite tre gradini bassi di
pietra squadrata. Il timpano soprastante era un triangolo anch’esso color sabbia, disadorno a parte
due occhi rossi brillanti, probabilmente quelli del dio, e alcune iscrizioni azzurre che invocavano la
sua benedizione e protezione sulla città. Il tetto era dorato ma, dal punto in cui si trovavano, non lo
potevano vedere.
Sotto il timpano, in mezzo alle colonne, l’ombra fitta e allettante nella calura meridiana.
Bomilcare sapeva che, dietro la parete, si trovavano alcuni locali, gli appartamenti dei sacerdoti, e al
di là di questi, lo spazio aperto interno, che avrebbe emanato il calore di un braciere ardente. Serrò
le labbra asciutte, pensò all’acqua, si maledisse in silenzio per non aver portato con sé una fiasca di
cuoio e si rivolse verso il muro ricoperto di vegetazione lungo il lato meridionale del quadrilatero.
Alle sue spalle sembrava essere tutto verde, con molte sfumature diverse, e quando Bomilcare alzò
il capo, vide un intrico di cime di alberi alti come torri.
Nel punto in cui, secondo la testimonianza degli schiavi, Zabugu era fuggito scavalcando la
recinzione di quel terreno misterioso, osservando più da vicino, scoprì alcune tracce di
danneggiamenti recenti. Si grattò la testa.
«Sembra che abbia rotto qualcosa mentre si arrampicava»
disse Barako sfiorando delicatamente i mattoni con la punta delle dita.
«Potrebbe anche essersi preparato la fuga» replicò Bomilcare. «Un giorno prima? Due? Ma
ha importanza?»
«In tal caso sapremmo che è stato tutto preparato in modo scrupoloso.»
«Quello lo sappiamo comunque. O forse credi che se ne stesse accucciato in questa siepe,
per vedere se nel tempio succedeva qualcosa, e a un certo punto si sia semplicemente avventato su
Abdosir?»
«Perdonami, capo. Ero sovrappensiero.»
Bomilcare si arrampicò con cautela sul muro di mattoni, per evitare di recargli ulteriori
danni; Barako lo seguì.
Dall’altra parte trovarono una via, evidentemente aperta soltanto di recente, in mezzo alla
siepe fitta e alle piante che arrivavano fino all’altezza dei fianchi. A nessuno dei rami era appeso
qualcosa che avrebbe potuto essere stato usato per celare il viso, né era possibile dire se per caso si
trovasse sul terreno, dove l’intrico era impenetrabile.
Dopo tre passi giunsero a uno spiazzo quasi aperto; Bomilcare si fermò, si guardò intorno e
fischiò tra i denti. «Un giardino segreto» disse. «Nelle antiche storie in posti come questi si
nasconde sempre un demone, o uno stregone malvagio.»
Videro i resti di un vecchio sentiero in mezzo al giardino, che un tempo era stato lastricato
con mattoni rossicci; la maggior parte era ricoperta dalla vegetazione e in diversi punti alberi e
cespugli avevano interrotto il selciato. Dove molto tempo prima potevano esserci stati piccoli corsi
d’acqua o stagni, crescevano pareti di canne alte più di un uomo. E, al di sopra di tutto, alberi
immensi, antichissimi, i cui tronchi erano ricoperti da giunchi e piante rampicanti e le cui chiome si
erano fuse insieme in un’intreccio inestricabile, una tettoia che spargeva un’ombra fitta.
«Sei pratico di alberi?» domandò Bomilcare con tono involontariamente basso, come se
temesse di disturbare qualche entità antichissima. Che forse era sacra, ma forse invece malvagia.
Barako alzò lo sguardo a fissare quel cielo inferiore di foglie e aghi, rami e getti. «Non
particolarmente. Alcuni sono comuni, indigeni… quelle palme là dietro. Quello accanto è, credo, un
cedro. E quello là? Quell’albero simile a una felce gigante?»
Lentamente e facendo attenzione a non calpestare piante rare o a risvegliare i serpenti che
potevano nascondere, penetrarono più a fondo nell’ombra del giardino. A Bomilcare parve di
riconoscere alcune latifoglie particolari che aveva visto in Iberia, mentre altre sembravano spuntate
da un sogno confuso. Dovettero tagliare pareti di canne, arrampicarsi su tronchi abbattuti e, dal
momento che il terreno continuava a digradare, anche se con una pendenza irregolare, più di una
volta si aggrapparono all’ultimo momento a un ramo o a una pianta rampicante per evitare di cadere
nell’ombra.
«Qui diventa pianeggiante» disse a un tratto Barako, che precedeva di alcuni passi
Bomilcare sulla sinistra e sembrava diventare sempre più alto.
Mormorando un’invocazione agli dèi, Bomilcare estrasse la spada e si aprì la via. Quando
raggiunse Barako, si accorse che si trovavano su una superficie ricoperta da strati di fogliame e di
piante marce che un tempo avrebbe potuto essere una terrazza, oppure il pavimento di una piccola
costruzione ormai scomparsa.
Rovistarono un po‘“in giro, Bomilcare con la sua spada e Barako con la lancia, e alla fine
identificarono i contorni della superficie piana. Misurava circa dieci passi per dieci e in questo
quadrato c’erano frammenti di colonne sottili oltre a eminenze regolari, anch’esse ricoperte da strati
di marciume, che potevano nascondere i resti di pareti.
Al di sotto di questa superficie, che adesso Bomilcare interpretava come le mura maestre e il
basamento di un edificio ormai distrutto, la boscaglia digradava ancora più ripida e quando giunsero
alla cinta inferiore, i due avevano trascorso nel giardino almeno un’ora.
Finalmente si ritrovarono sulla strada, con qualche piccola escoriazione provocata dal muro
scavalcato, quando udirono il richiamo sordo di un venditore d’acqua.
«Capita proprio al momento giusto» disse Bomilcare.
«Dove potrebbe essere?»
«Da quella parte» rispose Barako indicando genericamente verso sud.
Si trovavano in una via stretta in mezzo a due muri di pietra: dietro di loro quello di mattoni
del giardino, di fronte una parte del vallo della Birsa. La porta davanti alla quale il ragazzo li
attendeva con il carro e il cavallo doveva trovarsi alcune centinaia di passi più sulla destra, verso
occidente; una porta più stretta, non molto lontana da loro sulla sinistra, era sicuramente più vicina
al venditore d’acqua. L’attraversarono e giunsero alla strada, un po‘“più larga, che correva a sud del
muro della Birsa.
Dall’altra parte, di fronte a loro, c’erano officine e magazzini bassi di legno, mentre alle loro
spalle si elevava la parete posteriore senza finestre di una casa a quattro piani.
Barako si affrettò a raggiungere l’isolato successivo e batté le mani. «Vieni qui, portatore
d’acqua» gridò.
Bomilcare lo seguì lentamente, gettando l’occhio nei magazzini, alcuni dei quali aperti, che
contenevano soltanto ciarpame. Anche quelle che un tempo avevano dovuto essere le abitazioni
degli artigiani, erano inutilizzate. La parete alta e senza finestre della casa gli diede da pensare; alla
fine si disse che, probabilmente, un tempo laggiù dovevano esserci stati due grandi palazzi uno
contro l’altro. Ma perché avrebbero dovuto abbatterne uno per fare posto a magazzini e officine e
poi lasciarli andare in rovina?
Quando giunse all’angolo, vi trovò Barako accanto a un vecchio asino ridotto pelle e ossa.
La bestia, quasi sepolta sotto due immensi otri per l’acqua, apparteneva a un libio barbuto che
girava per le strade del quartiere cantando «acqua, acqua buona, acqua fresca». Nella grande città,
in cui non c’erano molti pozzi profondi, secondo i calcoli di Bomilcare almeno cinquecento persone
si guadagnavano da vivere in questo modo.
Tirò fuori una monetina di bronzo e la diede al libio.
Questi gli porse un recipiente di terracotta lurido, che non divenne affatto più pulito dopo
che l’ebbe strofinato con un panno ancora più sporco. Bomilcare afferrò un lembo di stoffa del suo
kitun e pulì personalmente la ciotola, prima di farsela riempire d’acqua.
«E stato qui, dunque?» disse Bomilcare dopo che si furono ristorati e il venditore d’acqua
ebbe ripreso il suo cammino.
«Qui» rispose Barako indicando la porta nel muro della Birsa che avevano appena
attraversato, dove i carri passavano a stento. «Eravamo qui in giro per il quartiere. La solita ronda di
quattro uomini. In quel momento c’era abbastanza silenzio, per cui abbiamo potuto sentire bene le
grida. Dietro il muro.”Aiuto, assassino, prendetelo” o qualcosa del genere. Allora attraversiamo di
corsa la porta e sentiamo le voci provenienti dalle strade che scendono accanto al giardino. Alcune
appartengono agli schiavi, ma nessuno si è avventurato nel giardino. Noi però non li abbiamo
ancora visti, continuiamo soltanto a sentirli quando, più o meno nel punto in cui noi ci siamo
arrampicati sul muro, compare Zabugu. Non appena ci vede, manda
un’invocazione a chissà quale divinità numida, scivola a terra e si arrende. In quel momento
anche gli schiavi spuntano dagli angoli a destra e a sinistra e dicono:”È stato lui!”. Così l’abbiamo
trascinato via, prima di nuovo al tempio dove si trovava il cadavere, e poi alla fortezza.» ; «Zabugu
aveva qualcosa con sé?»
Barako scosse il capo.
«Dove può aver lasciato quell’oggetto, qualunque cosa fosse?»
«Da qualche parte, là dentro nella boscaglia, capo»
rispose Barako. «Anche se l’avessimo cercato… là dentro potrebbero cercarlo cento uomini
per giorni.»
«E gli schiavi… quanti erano? E a chi appartenevano?»
, «Stavo per dirtelo lassù davanti alla casa, quando mi hai fatto capire che dovevo tacere…
che li ho visti e li avrei riconosciuti. Erano quei tre. Correvano dietro Zabugu gridando.
Il quarto, quello che oggi non c’era, era rimasto ad aspettarli davanti al tempio accanto al
cadavere.»
«E gli altri membri del Consiglio?»
«Di loro non ne sapevo nulla prima d’ora.»
«È sorprendente, non è vero?» disse Bomilcare con voce strascicata. «Quattro nobili si
incontrano nel tempio.
Quando ne escono fuori, uno di loro viene assassinato e gli altri scompaiono come se niente
fosse? Con tutti i loro schiavi?
Vieni, andiamo di nuovo al tempio. Forse laggiù qualcuno ne sa qualcosa.»
Nel vestibolo del tempio di Eshmun si trovava un vecchio servitore che spazzava il
pavimento. All’inizio si rifiutò di condurre gli uomini nei «sacri appartamenti del sacerdote», ma
poi, dopo un breve alterco, acconsentì.
Bomilcare salutò cortesemente il sacerdote, gli riferì il proprio nome e il proprio rango, gli
mostrò l’ordine del giudice Tybon e poi disse: «Adesso mi piacerebbe sapere che cosa hanno fatto i
nobili nel tempio e che cos’era l’oggetto con cui Abdosir è uscito fuori».
Il sacerdote lo fissò con i suoi vecchi occhi neri, conficcati nelle orbite profonde come pietre
preziose nefaste incastonate nella carne grigia. Poi, con espressione impassibile, disse: «Dovrai
domandarglielo di persona, capo delle guardie».
La sua voce era forse ancora più scura degli occhi e più profonda delle orbite.
«Ma l’oggetto? Doveva certo trovarsi già prima nel tempio. Che cos’era, e perché Abdosir
ha voluto portarselo dietro? E dove?»
Il sacerdote alzò ambe le mani davanti al petto, con le palme rivolte verso Bomilcare.
«Vattene, sbirro. E metti via l’ordine di Tybon: il tempio è soggetto ad altre leggi.»
Bomilcare digrignò i denti. «Qualcuno parlerà, e qualcuno pagherà» disse. «Dimmi il tuo
nome, sacerdote, in modo che possa riferirlo.»
Quando il vecchio rise, a Bomilcare si rizzarono i capelli sulla nuca. Dei demoni che
maciullassero un mostro tra macine nere avrebbero potuto fare un rumore simile a quella risata. O
quasi.
«Mi chiamo anch’io Abdosir.» Il sacerdote si voltò e ritornò ai suoi appartamenti. Poi, senza
voltarsi, aggiunse: «È… era mio nipote».
Durante il viaggio di ritorno verso la fortezza rimasero in silenzio. Barako sembrava una
guardia di ronda, intenta a osservare la gente, gli angoli, le vie secondarie e tutte le piazzette in cui
la Via Grande si allargava di continuo. Bomilcare pensava ai tre membri del Consiglio
Abdshamash, Jehaumilk e Bodtinnit, che avevano abbandonato il cadavere di Abdosir sul terreno;
ai sacerdoti; a quello strano giardino; ai numidi morti e scomparsi. E, di tanto in tanto, a quella
vecchia storia del filo grazie al quale un soldato trovava la via d’uscita dal labirinto.
Qualcuno (forse una donna?) aveva tenuto in mano l’altra estremità del filo. Bomilcare non
ricordava i nomi, ricordava soltanto che era una storia ellenica. Si disse che forse doveva cercare il
filo che qualcuno teneva in mano, ma che tuttavia non sapeva come questo filo era fatto. Forse di
parole, forse di azioni, oppure di odori. Inoltre era probabile che ormai non lo tenesse più stretto
nessuno, ma fosse stato lasciato cadere, e in realtà non poteva neppure essere certo che tutti i
dettagli confusi in mezzo ai quali brancolava, messi insieme, costituissero un labirinto.
“Un labirinto” pensò “è una costruzione ordinata in cui tutto ha uno scopo, vale a dire quello
di confondere; se però questo caos non ha nessuno scopo, ma è soltanto un disordine accidentale…
come è possibile venirne a capo?”
Quando giunsero alla piazza vicina alla Porta di Tynes, ornata da palme nel frattempo di
nuovo impolverate, Bomilcare continuava a non sapere come avrebbe dovuto proseguire le sue
indagini. Ordinò a Barako di riportare il cavallo e il carro alle scuderie, e di fare in modo che gli
preparassero un cavallo fresco. Poi, prima che fosse troppo tardi, gli venne in mente ancora una
cosa.
«E non una parola con nessuno, hai capito? Almeno per il momento.»
Barako si tolse l’elmo per grattarsi i capelli, corti e neri. «Ma capo, tanto chi mi crederebbe?
E comunque è tutto troppo confuso per poterne ricavare una buona storia.» Poi scoppiò a ridere.
«Almeno per il momento. Forse però tu ci riuscirai, e forse io ti posso aiutare.»
«Penserò a te, quando sarà il momento.»
In effetti, Barako sembrava essere più brillante rispetto alla media delle guardie; Bomilcare
poteva sempre aver bisogno di un sottocapo capace. Decise di tenerlo d’occhio e di metterlo alla
prova. Più tardi. In quel momento c’erano molte altre cose più urgenti.
Entrò nel suo ufficio. Sulla panca era seduta una guardia, che aveva deposto elmo e lancia e
sembrava sul punto di appisolarsi. Sull’ampio tavolo c’erano come al solito l’occorrente per
scrivere, i timbri e la catasta delle pratiche ancora da sbrigare: rotoli di papiro, tavolette di cera,
comunicazioni.
Bomilcare si avvicinò alla nicchia accanto alla panca di pietra e si rinfrescò la faccia con
l’acqua di una ciotola posata su uno sgabello. Nei primi tempi in cui si trovava a Qart Hadasht
aveva alloggiato in due stanze nel settore della fortezza in cui venivano ospitati gli ufficiali della
cavalleria; da quando viveva insieme ad Aspasia, utilizzava come alloggio occasionale l’ufficio e la
camera accanto e aveva rinunciato alle altre stanze.
Una cassapanca e due grandi recipienti di terracotta contenevano vestiti e altri oggetti
personali, ma nel complesso l’ambiente appariva piuttosto inospitale. Tuttavia, in quel momento,
avrebbe tanto desiderato abbandonarsi sul giaciglio nella stanza accanto.
«Ci sono questioni urgenti?» domandò mentre si dirigeva verso la scrivania.
«Nossignore.» La guardia si era alzata e si era messa sull’attenti accanto alla panca.
«Autolykos e Mutumbal sono in giro, ma non hanno lasciato niente in sospeso.»
«La guardia Nislakh si è allontanata. Sai qualcosa a riguardo?»
«Nossignore.»
Bomilcare annuì. «Va bene, stai pure seduto.» Diede una scorsa ai pezzi di papiro e alle
tavolette di cera scarabocchiate. Dopo aver verificato che si trattava delle solite questioni di tutti i
giorni, tolse il tappo di cera da un recipiente e si versò un po‘“di vino allungato in un bicchiere.
Bevve lentamente e con piacere; nel frattempo si rese conto che ancora una volta, per
l’ennesima volta, non aveva mangiato niente. Gli borbottava lo stomaco. “Non importa; prima le
cose essenziali” si disse.
Intinse un calamo nel boccettino dell’inchiostro, prese un pezzo di papiro non ancora usato e
disegnò le strade, le case, il tempio e lo strano giardino. Accanto scrisse: oggetto allungato,
Abdshamash, Jehaumilk, Bodtinnit, a chi appartiene il giardino?
Contemplò il papiro per alcuni istanti, poi decise di non aggiungervi anche i numidi.
Zabugu, Nislakh, il morto della fortezza ancora senza nome… forse era proprio questo il passo
successivo obbligato. Per tutte le altre informazioni avrebbe dovuto attendere fino a quando non
avesse saputo a chi poterle chiedere.
Infilò il papiro e le istruzioni del giudice in una cassettina munita di chiave, poi alzò lo
sguardo verso la guardia che sonnecchiava.
«Rimani seduto» gli disse. «Vado alla fortezza, dal medico… nel caso in cui qualcuno mi
cercasse. Poi ritorno di nuovo qui.»
Artemidoros, figlio di padre macedone e di madre egizia, era giunto a Qart Hadasht da
Alessandria quindici anni prima, durante la guerra, quando c’era urgente bisogno di buoni medici.
Si era unito in matrimonio con una punica ed era rimasto come medico della fortezza e delle
guardie.
E, all’occorrenza, aiutante di Bomilcare. I sovrani tolomei dell’Egitto ritenevano che perfino
un criminale condannato a morte potesse essere ancora utile alla società: per questo spesso non
facevano eseguire le sentenze dai boia ma, secondo modalità molto più lunghe e dolorose, da
medici che così potevano compiere osservazioni interessanti sul corpo umano e sul funzionamento
degli organi vitali. Artemidoros utilizzava queste conoscenze per guarire i pazienti, ma anche per
accertare le cause della morte nei casi sospetti.
«Non ho tempo, non ho tempo» disse il medico all’arrivo di Bomilcare. Era in piedi davanti
a uno degli scaffali di cui era ingombro il suo studio luminoso e stava rovistando in una cassetta che
conteneva i suoi ferri del mestiere: coltelli, tenaglie, lame sottilissime, fermagli, chiodi. Con una
sega dai denti sottili tirata a lucido si avvicinò alla finestra che si affacciava sull’ampia strada tra la
fortezza e le scuderie. Osservò lo strumento alla luce, borbottò qualcosa a bassa voce e poi si voltò
verso Bomilcare.
«Una gamba» disse. «Qualcuno è andato a finire sotto un elefante.»
«Ti hanno portato il numida morto?»
«Non ho tempo… ma vieni con me; ti dirò quello che c’è da dire strada facendo.»
Il medico batté le mani e dalla stanza accanto accorse uno schiavo con un cesto pieno di
bende e panni. Artemidoros ripose la sega accanto ad altri strumenti che a Bomilcare parvero
altrettanto inquietanti.
Lasciarono i locali del medico, che si trovavano al pianterreno delle mura interne della
fortezza, e si diressero verso nord. Mentre camminavano, Artemidoros parlava in fretta.
«Nome: Masauchan, secondo le informazioni di un sottocapo. Età: ventitré; robusto, denti
buoni, le solite piccole cicatrici di ferite da scontri o incidenti. Tumefazioni più piccole, provocate
da colpi o da punture d’api o simili. Ematomi sparsi, che devo ancora osservare e valutare con
calma.
Causa della morte: due colpi, probabilmente di giavellotto, al cuore e alla gola.»
«Che cosa mi dici degli ematomi?»
«Che dobbiamo essere prudenti, amico mio… Sono quasi certo che l’abbiano tenuto fermo.
Un altro uomo, forse anche due. Tenuto fermo e poi trafitto con il giavellotto.»
«Ha l’aria di un’esecuzione premeditata, non dell’esito di una lite tra soldati, non è vero?»
«Sembrerebbe così, ma devo ancora esaminare più a fondo… Vuoi assistere?»
Dall’altra parte della strada, davanti a una delle grandi porte, c’era un mandriano che si
agitava per l’impazienza: evidentemente stava aspettando il medico per condurlo dal malcapitato.
Dietro la porta, sulla destra, iniziava la grande rampa lungo la quale si potevano spingere i cavalli
fino ai piani superiori, dove c’era posto per un massimo di quattromila animali, mentre i locali del
pianterreno potevano ospitare trecento elefanti da guerra.
«Assistere mentre amputi una gamba? Preferisco di no.
Quando mi potrai dire di più?»
Artemidoros sbuffò. «Questa sera.» Poi alzò la mano e seguì il mandriano nel buio delle
scuderie.
Bomilcare rimase per alcuni respiri incerto sul da farsi. Nel frattempo, una parte dei suoi
pensieri era rivolta alla questione di quanti animali potessero esserci nelle stalle; di solito i cavalli e
gli elefanti venivano condotti al pascolo fuori dalla fortezza. A parte i cavalli che servivano sempre
per i carri e i cavalieri, naturalmente, e qualche elefante malato o molto giovane, non ancora del
tutto addestrato. Era stato forse uno di questi animali a ferire il malcapitato mandriano.
Poi pensò ai soldati: ufficiali punici e mercenari provenienti da tutta l’ecumene. La fortezza
avrebbe potuto ospitare quattromila cavalieri e ventimila fanti; l’ultima volta che aveva dovuto farlo
era stato nove anni prima, durante la guerra contro i mercenari e, prima ancora, durante la grande
guerra romana. Alcune delle guardie che erano ai suoi ordini vivevano nella fortezza insieme a una
guarnigione difensiva.
Duemila, forse tremila soldati, la maggior parte dei quali erano tuttavia sempre in missione
nell’entroterra, dove proteggevano le carovane, costruivano strade o completavano il loro
addestramento. Amilcare Barca, stratega di Iberia e di Libia, aveva trasferito la maggior parte degli
iberi a Qart Hadasht e dei libi in Numidia, portando con sé in Iberia la maggior parte dei numidi,
soprattutto massili, ma anche alcuni massesili. Perciò non potevano esserci molti massili nella
fortezza.
Uno che veniva da fuori, Zabugu, aveva ucciso Abdosir; la guardia Nislakh era scomparsa;
il soldato Masauchan era stato ammazzato. Troppi numidi? Troppe coincidenze?
Bomilcare camminò lentamente verso sud. La strada larga, quasi una piazza allungata tra
ilVallo Grande e gli altri edifici della fortezza, era deserta. Sentiva in sottofondo, come il suono di
una cascata in lontananza, la città e i mille rumori di uomini, attrezzi, carri e animali: il nitrito dei
cavalli, il raglio degli asini, il canto del gallo in qualche cortile interno. A nord delle scuderie, in
una piazza alberata, forse in quel momento alcuni guerrieri tiravano con l’arco contro dischi di
giunco, oppure combattevano tra loro con spade di legno.
Decise che quella sera si sarebbe unito a loro: anche se non fosse riuscito a riprendere a
correre o a lanciare il giavellotto, avrebbe dovuto almeno tirare con il coltello contro bersagli
piccoli. E quando era stata l’ultima volta che aveva fatto una lunga cavalcata fuori città?
Seguendo il rosichio della fame e un’ispirazione improvvisa, giunse fino alla fortezza. Non
molto più a nord della Porta diTynes, a un centinaio di passi di distanza dalle stanze del medico, al
primo piano c’era una specie di mensa sempre aperta. A quell’ora non c’era da attendersi granché,
ma in ogni caso avrebbe potuto mangiare qualcosa e riflettere sulle sue prossime mosse, senza
essere distratto dal brontolio del proprio stomaco.
Nel locale lungo e basso erano presenti due delle sue guardie e circa una decina di soldati.
Bomilcare si avvicinò al bancone dei cibi. Uno schiavo della cucina era inginocchiato davanti a uno
degli enormi focolari e vuotava la cenere in un mastello. Sul fuoco c’erano tre pentole e più a
destra, sotto uno dei grandi camini, c’erano alcune ossa di agnello su una griglia.
«È troppo tardi per la carne?» chiese Bomilcare.
Lo schiavo si alzò in piedi, sorrise di sbieco e afferrò una scodella di legno. «Troppo tardi
per molte cose, troppo presto per molte altre ancora.» Versò nella scodella un cucchiaio del purè di
fagioli che era in una delle pentole e uno della mistura di pezzi di verdura e striscie di carne che era
nell’altra.
Con il cibo, un bicchiere di cuoio pieno d’acqua e mezza pagnotta, Bomilcare si diresse
verso il tavolo a cui erano seduti i suoi due uomini.
«Custodi della pace» disse. «Sapete qualche novità?»
«È sempre la solita vecchia storia» disse uno degli uomini, un punico con la barba. «Viene
quando viene e va quando va e, dopo che è se ne è andato, uno si chiede se era tutto qui.»
L’altro, un ibero, rovesciò gli occhi in silenzio e continuò a masticare.
«Chi dei nostri interroghereste, se voleste sapere qualcosa sui numidi?»
«Numidi morti o scomparsi?»
«Le voci corrono in fretta, non è vero?»
Il punico sospirò. «Qui almeno sì. Quando accade una cosa simile… non capita così spesso
che uno di noi se la svigni.
Nislakh ha alcuni amici; forse sanno qualcosa. Io però credo di no.» Fece tre nomi.
«Ancora una domanda, uomini saggi» disse Bomilcare tra una cucchiaiata e l’altra. «Al di
sotto del tempio di Eshmun c’è un grande giardino abbandonato, circondato da un muro. Ne sapete
qualcosa? Per esempio, a chi appartiene?»
«Giardino?» Libero scosse il capo. «Sapevo soltanto che c’era un muro.»
Neppure il punico (che proveniva da una città dell’entroterra) sembrava saperne nulla.
Mentre faceva ritorno al suo ufficio, Bomilcare giunse alla conclusione che non c’era da
meravigliarsi del fatto che quello strano giardino passasse inosservato. Le guardie di ronda
dovevano preoccuparsi dell’ordine e non avevano motivo di accorgersi dei luoghi in cui non
accadeva mai nulla.
Non c’erano novità che potessero distoglierlo da quello che avrebbe preferito rimandare.
“Preferisco venire tutti i giorni alle mani con i delinquenti” si disse “che affrontare con le parole i
nobili signori nel palazzo del Consiglio una volta ogni luna”.
Mentre cavalcava verso l’agorà, lo confortava soltanto l’idea che, quando fosse giunto al
palazzo del Consiglio, sarebbe stato troppo tardi per incontrarvi ancora qualcuno, a parte qualche
scrivano.
Come al solito lasciò il cavallo nella stalla di sosta; poi salì al primo piano e cercò le stanze
di Tybon.
a «Se cerchi il nobile signore» gli disse uno dei due scrivani «dovrai aspettare un bel po’.»
«Credete che oggi si farà ancora vedere?»
«In condizioni assolutamente disastrose, immagino»
rispose l’altro. «Sai, dopo il funerale.»
«Ah. L’avevo dimenticato» disse Bomilcare
abbandonandosi su una sedia pieghevole. Ormai il funerale di Abdosir doveva essere
terminato con un banchetto solenne. Trasformatosi in un banchetto sontuoso. Se davveroTybon
fosse rientrato nel palazzo del Consiglio e del tribunale, non si poteva certo pretendere che fosse
sobrio dopo tutte quelle gozzoviglie.
«Forse nel frattempo potete essermi d’aiuto voi.»
Gli scrivani si scambiarono un’occhiata, ma non dissero nulla.
«Chi di voi sa qualcosa di più sugli incarichi ufficiali di Tybon?»
Il più giovane si alzò in piedi e ridacchiò. «È meglio che ti rivolgi all’esperto Yaroah. Io
avrei ancora qualcosa da sbrigare; questo ci eviterà di polemizzare.» Raccolse alcuni rotoli in fretta
e furia e abbandonò il locale.
«Che cosa vuoi sapere, capo delle guardie?» gli chiese Yaroah.
«Tu sai che Tybon mi ha attribuito poteri discrezionali?»
«Sono stato io a scrivere le disposizioni, prima che lui le siggillasse.»
«Quando è stato sottoposto al suo giudizio questo caso?»
«Quello di Abdosir e del numida?»
«Sì.»
Yaroah esitò. «L’altro ieri» disse poi «quando è giunta la notizia dell’omicidio, se n’è
occupato immediatamente. Ieri mattina ha ricevuto l’incarico da parte della commissione.»
«Chi potrebbe sapere che cosa avevano da discutere al tempio di Eshmun i nobili Abdosir,
Abdshamash, Jehaumilk e Bodtinnit, prima che Abdosir venisse assassinato?»
Lo scrivano aggrottò la fronte. «Avevano qualcosa da discutere?»
Bomilcare sospirò. «Sono venuto a cercare informazioni, non per essere controinterrogato.»
Yaroah intrecciò le mani sul piano del tavolo ingombro, le sciolse, afferrò uno stilo e
cominciò a giocarci. Il suo sguardo vagava verso uno degli scaffali su cui erano posati i rotoli, ma
Bomilcare non riuscì a identificare di quale si trattasse.
«A volte capita che i nobili signori non discutano di questioni di particolare importanza in
Consiglio, ma in un tempio» disse lo scrivano.
«Naturalmente tu non sai quali questioni di particolare importanza possano essere sorte negli
ultimi tempi.»
Bomilcare sorrise e guardò verso l’apertura della porta; nel corridoio non sembrava esserci
nessuno. «Ma se dovessi indovinare, che cosa diresti?»
Yaroah si alzò in piedi con un gemito, come un vecchio. Si stiracchiò, si diresse verso la
porta, uscì nel corridoio, si voltò di nuovo su se stesso e ritornò indietro. «Oggetti sacri, forse?»
disse piano, quasi sussurrando.
«Per esempio, oggetti un po‘“più lunghi del mio avambraccio?»
Questa volta Yaroah scosse la testa con decisione. «Non lo so. Non so neppure quali oggetti
vengano custoditi nel tempio. Accade tuttavia che oggetti particolarmente sacri vengano trasportati
da un tempio all’altro. Affinché non appartengano sempre alla stessa divinità.»
Bomilcare si alzò in piedi. «E questo lo sa soltanto il Consiglio, non è vero? Oppure i suoi
membri che se ne occupano?»
«E così, capo delle guardie. Lo dovresti domandare a Tybon. E probabile che non lo sappia,
ma potrà dirti chi lo sa.»
«Me lo dirà?»
Yaroah sorrise fuggevolmente. «Se lo riterrà opportuno.»
«Va bene. Adesso ho una seconda richiesta.» Bomilcare si alzò in piedi. «Accompagnami un
momento dai funzionari del catasto.»
«Che cosa devo venire a fare io?»
«Tu, scrivano del nobile Tybon, devi dire ai funzionari che agisco su incarico del tuo capo.»
Yaroah esitò per un istante, poi disse: «Ti accompagno e glielo dico… prima che tu ponga
loro le tue domande.
Qualcuna di queste potrebbe anche non piacere a Tybon.»
«Non vedo proprio per quale motivo.» Bomilcare nascose un sorriso e si incamminò.
Probabilmente avrebbe potuto anche fare a meno di farsi accompagnare, si disse Bomilcare
in seguito; ma in fondo non si poteva mai sapere. Il responsabile delle scritture in cui erano
registrati tutti gli appezzamenti di terra della città, i loro proprietari, le suddivisioni, le ipoteche da
parte delle banche e i valori catastali, non oppose alcuna difficoltà.
QuandoYaroah se ne fu andato, Bomilcare fece il nome del terreno che gli interessava.
«Sotto il tempio di Eshmun?» domandò il funzionario. «È
vero, c’è qualcosa; però finora non mi sono mai chiesto…» Si avvicinò a uno degli scaffali
che riempivano tutte le pareti della stanza allungata al terzo piano, ne estrasse un tubo di terracotta,
osservò la sigla che riportava, scosse il capo e si diresse verso un altro scaffale.
«Ecco. Vediamo un po’.» Estrasse dal tubo un papiro arrotolato ben stretto, ne fermò
un’estremità sotto un leone di terracotta grande come una mano e non particolarmente attraente, e
srotolò il foglio sul tavolo. Dopo una breve ricerca, trovò la registrazione e parve restare interdetto.
«Ah» disse poi. «Uhm.» Alzò lo sguardo con un sorriso obliquo. «Il terreno appartiene a un
altro tempio. Se vuoi saperne di più, devi parlare con il sommo sacerdote di Baal Melqart.»
Bomilcare represse un gemito e si sforzò di non mostrare alcuna emozione. «Annone?»
«Sì, Rab Annone il Grande.»
«Ti ringrazio. Mi sei stato di grande aiuto.»
«Ne dubito.»
Lentamente, per non inciampare nei propri piedi mentre era immerso nei suoi pensieri,
Bomilcare attraversò il corridoio che conduceva alla scalinata e la discese fino al primo piano. La
voce diTybon da basso si sentiva da molto lontano.
Il giudice sembrava essere di ottimo umore. A quanto pareva, durante il funerale del nobile
Abdosir non si erano limitati alle onoranze dovute agli dèi e agli uomini. Anche se aveva perso la
parte iniziale del suo racconto, a Bomilcare fu sufficiente ascoltarne alcune parole per comprendere
che Tybon e i suoi due scrivani erano impegnati in un animato scambio di storie avvincenti.
Parlavano di fosse dalle quali usciva il miele perché vi si erano annidate le api, di urne funerarie
cotte male che, quando venivano riempite delle ceneri non ancora abbastanza fredde, andavano in
frantumi ai piedi degli addolorati, di folate di vento che disperdevano le sacre ceneri in turbini di
polvere, di pesanti lastre di pietra che scivolavano dalle mani di schiavi maldestri e che, durante il
funerale del padre, schiacciavano il figlio: «Così qualcuno si è riprodotto anche da cadavere».
Bomilcare attese sulle scale la successiva salva di risate, prima di presentarsi ai tre
buontemponi.
«Ah, il guardiano dei viventi» disse Tybon quando lo riconobbe. «Continui ancora a
interrogare i morti?»
Bomilcare sentì l’odore del vino nell’alito di Tybon quando questi era ancora fuori dalla
porta, a sei passi di distanza.
E si domandò se lo sorprendesse di più la vista diTybon ubriaco che scherzava oppure la
prospettiva di avere di nuovo a che fare con Annone il Grande nei giorni successivi. Quel pensiero
gli fece ritrovare la lucidità.
«Li interrogo come mi hai ordinato di fare, signore» disse con un sorriso un po‘“forzato «e
alcuni rispondono perfino.»
«Ah sì? E che cosa dicono?»
Tybon si sedette sul bordo della scrivania e incrociò le braccia. Doveva essere arrivato
direttamente dal funerale e dal successivo banchetto, dal momento che indossava l’abito che si
addiceva ai nobili e ai ricchi in simili occasioni: un kitun di lino chiaro che arrivava fin quasi alle
caviglie, con fili d’oro, strisce di porpora e passamaneria di lana nera, con sopra un berretto scuro a
punta. Un ampio mantello di lana scura con decorazioni rossiccie era posato su una sedia
pieghevole.
Aveva il berretto di traverso e la tunica elegante era tutta macchiata di vino e di grasso di
arrosto.
«Alcuni hanno scherzato su quello che è capitato a qualche nuovo arrivato nel regno dei
morti.»
Tybon rise a singulti. «E come potrebbe essere altrimenti?»
Bomilcare vide cheYaroah continuava a fissare alternativamente lui e il giudice. L’altro
scrivano si era messo in disparte vicino alla finestra e se ne stava appoggiato alla parete con
espressione indifferente.
«Altri si domandano» si affrettò ad aggiungere Bomilcare con un sorriso che avrebbe voluto
essere accattivante «come mai Abdosir non abbia potuto portarsi dietro quello che aveva preso nel
tempio di Eshmun insieme ad Abdshamash, Jehaumilk e Bodtinnit.»
Tybon ridacchiò. «Si domandano questo? Vedo che hai rovistato davvero da cima a fondo.»
«E un segreto, signore?»
Finalmente Tybon smise di sorridere; Bomilcare gliene fu quasi riconoscente. «Nessun
segreto» rispose il giudice, che sembrava tornato del tutto sobrio. Poi, con voce dura, aggiunse:
«Soltanto che non interessa a nessuno».
«Dal momento che è stato commesso un omicidio, a me qualcosa interessa.» .
Tybon contrasse i muscoli delle guance. Forse digrignò i denti, ma Bomilcare non sentì
nulla.
«Insisti nelle tue indagini?» gli domandò il giudice parlando a denti stretti.
«Devo farlo, signore, se voglio adempiere al mio dovere verso la città.»
Tybon rovesciò gli occhi. «Non ti fai particolarmente benvolere. Ma, se è proprio
necessario… ehi, voi due, lasciateci soli per un po’.»
I due scrivani trasalirono e si affrettarono a raggiungere il corridoio. Tybon fece segno a
Bomilcare di avvicinarsi.
«Porgimi l’orecchio, guardia, affinché nessuno ci ascolti.
Ma prima dimmi, a bassa voce, che cosa vuoi sapere con esattezza.»
Bomilcare sussurrò: «Quattro nobili abbandonano il tempio con un oggetto allungato
avvolto in qualcosa. Un uomo esce dal giardino abbandonato che appartiene al tempio di Baal
Melqart, assassina Abdosir, prende con sé l’oggetto e scompare nel giardino. Poco dopo, quando
viene catturato, non ha più niente con sé. Gli altri tre nobili non rimangono neppure a vegliare
l’ucciso, ma se ne vanno via.
Fuggono. Abbandonano Abdosir. Insieme ai loro schiavi, dodici in tutto».
Tybon si morse il labbro inferiore. Poi, a mezza voce, disse: «Accade a volte che alcune
discussioni si svolgano in un tempio e non in Consiglio. Si trattava di trasferire un oggetto sacro dal
tempio di Eshmun a quello diTanit. Eshmun l’ha conservato a lungo; adesso per un po‘“sarebbe
toccato alla dea. O ai suoi sacerdoti. Abdosir era uno dei numerosi sacerdoti di Eshmun; come
probabilmente ormai sai già, il sommo sacerdote è suo zio. Per questo avrebbe dovuto portare
l’oggetto per metà del tragitto, prima di passarlo a Jehaumilk.
Dopo l’attentato omicida, i tre si sono recati in tutta fretta al Consiglio, per informarne gli
altri membri e gli Anziani. Forse avrebbero dovuto vegliare il defunto…».Tybon alzò le spalle.
«Come sai, nessuno di loro è giovane o molto veloce; si sono detti che un membro del Consiglio
morto era già sufficiente. Non c’è nulla di misterioso, ma soltanto un po’, bè, sì, di viltà.»
«Questo oggetto» disse Bomilcare «è scomparso, immagino; oppure se ne sa qualcosa?»
«È sparito» rispose Tybon con un sospiro. «Prima o poi la città lo verrà a sapere. Tu lo vieni
a sapere adesso… ma vieni nel mio ufficio: là potremo stare seduti e parlare senza essere ascoltati…
ehi, uomini» gridò verso il corridoio «andatevene a casa: oggi non ho più bisogno di voi.»
Bomilcare seguì il giudice nella stanza accanto. Era sorpreso della loquacità di Tybon dopo
la sua aperta ostilità iniziale, e attendeva con trepidazione le rivelazioni che stava per fargli. Passò
in rassegna tra sé tutti gli oggetti importanti che gli venissero in mente, ma soltanto pochi avrebbero
potuto essere portati in braccio avvolti in qualcosa: le antiche immagini degli dèi; il Baal Melqart di
ferro del tempio nel tofet; la prua della nave della sala del Consiglio; gli effetti personali di antichi
suffeti e capi militari; la relazione di Annone il Navigatore, incisa su una lastra di ferro, sui paesi
della remota costa occidentale della Libia, oppure la pelle della scimmia dalle fattezze quasi umane
che avevano chiamato gorilla; il rapporto, risalente anch’esso a duecento anni prima, scritto sul
cuoio da un Himilko, sulla traversata ancora più a nord della Britannia, ricca di stagno, fino a
un’isola di ghiaccio con montagne di fuoco e sorgenti che spruzzavano acqua bollente; o ancora
oggetti portati in patria da mercanti e navigatori: iscrizioni sulla pietra, armi singolari, statue di
divinità sconosciute…
Dopo che si furono seduti, Tybon intrecciò le mani sul piano del tavolo, chiuse gli occhi e
disse a bassa voce, con una sfumatura di dispiacere o di tristezza: «Non parlarne con nessuno,
tranne che con coloro che ti aiutano e sanno tenere la bocca chiusa. È stata rubata la spada di Qart
Hadasht».
Come la grande maggioranza dei punici, Bomilcare non aveva mai visto la spada. Non era
propriamente segreta, ma non faceva parte degli oggetti che venivano mostrati in pubblico.
Chi la voleva vedere poteva farlo, nel tempio. Era sufficiente chiedere in quale tempio
venisse conservata e rivolgersi al sacerdote responsabile. Forse qualcuno l’aveva fatto davvero, in
passato; in ogni caso rientrava tra le cose di cui si occupavano i sacerdoti e i membri del Consiglio.
C’erano molti altri oggetti di questo genere: una pietra dell’antico tempio di Baal a Tiro, che Elissa
aveva portato con sé quando era partita da lì, quasi seicento anni prima; un contratto (segni sbiaditi
su fragile cuoio) tra i re Hiram e Salomone, che si diceva fosse stato portato via illegalmente da
Tiro da qualcuno del seguito di Elissa; suppellettili come calici e bracieri per l’incenso, di proprietà
di uno o dell’altro tempio.
E la spada. Forgiata a Tiro, si diceva per la mano della principessa Elissa, che l’aveva
portata con sé, dapprima a Kition sull’isola del rame di Cipro, e poi in Libia, dove aveva fondato la”
città nuova”, Qart Hadasht. Un principe indigeno, libio o numida, aveva permesso ai cananei
appena sbarcati di occupare tutto il terreno che fossero riusciti a delimitare con la pelle di un vitello,
ed Elissa ne aveva fatto ricavare delle striscioline che alla fine avevano racchiuso, in una
sottilissima linea di confine, un pezzetto di costa e la collina della Birsa.
Avevano dovuto pagare un tributo e il principe aveva domandato la mano di Elissa. Dal
momento che la principessa si era rifiutata, lui aveva preteso come segno di sottomissione la sua
spada. Più tardi questa era finita tra le mani di un re numida e si diceva che l’antichissimo oracolo
del tempio di Siwah, nel deserto egizio, avesse promesso al proprietario della spada il dominio su
tutti i territori vicini. In una delle loro antiche guerre sanguinose, i soldati di Qart Hadasht avevano
inflitto al successore di quel re numida una sconfitta terribile e riconquistato la spada.
Era da allora, si diceva, che Qart Hadasht possedeva la Libia settentrionale, dalla Sirte al
confine con l’Egitto fino al Grande Mare al di là delle colonne di Melqart. E adesso era scomparsa:
il simbolo del suo potere, soprattutto sui numidi, rubato da un numida…
«Naturalmente in Consiglio nessuno crede a queste vecchie storie» disse Tybon. «Il potere si
fonda sulle spade nuove e sul denaro, non sugli antichi detti degli oracoli. Ma lo sai come sono fatti
gli uomini: se hanno qualcosa di bello e antico a cui poter credere, non metteranno le mani su
qualcosa di nuovo, meno bello e che non richiede fede, ma lavoro.»
Bomilcare esitò. La sua mente era attraversata da troppe incertezze, contraddizioni e
questioni diverse. Alcune andavano assolutamente discusse, altre andavano altrettanto
assolutamente taciute a Tybon. Tuttavia una domanda gliela voleva porre. Non gli avrebbe fatto fare
passi avanti, o comunque non in quel momento, ma forse una sua risposta avrebbe chiarito subito un
aspetto del problema. E avrebbe sviato il giudice.
«Signore» disse «perché gli altri tre membri del Consiglio sono fuggiti? Non posso credere
che, in una faccenda così importante, i consiglieri di Qart Hadasht antepongano la propria vita e il
proprio benessere alle esigenze della città.»
Tybon si passò la mano sugli occhi. «Verranno biasimati dal Consiglio e dagli Anziani»
disse con voce sorda. «Ma questo non servirà a nulla.»
«Puoi ordinare una perquisizione del giardino? Di quello che appartiene al tempio di
Melqart?»
Tybon strinse gli occhi a formare due fessure. «Una perquisizione? E a che scopo?»
«L’assassino è fuggito nel giardino con la spada. Quando è stato catturato, all’estremità
inferiore del terreno, non aveva più nulla con sé.»
«Questo non è sicuro.» Tybon protese le labbra in avanti.
«Potrebbe anche essere che i tuoi uomini mentano. Forse sono stati loro a portare via la
spada, per rivendersela.»
«Li interrogherò in modo approfondito. Tuttavia vorrei proprio perquisire il giardino. Forse
ci sono delle tracce, forse la spada, forse qualcos’altro.»
Il giudice sospirò. «Bisognerebbe chiedere ad Annone.»
«Annone il Grande è più semplice da raggiungere per te che per me» disse Bomilcare.
All’improvviso Tybon sogghignò. «Inoltre, un anno fa, avete avuto alcune divergenze di
vedute, non è vero?»
«così.»
«Non posso risparmiartelo. Dovrai parlare con lui di persona.»
Bomilcare esitava, non soltanto di fronte alla prospettiva sgradevole di dover disturbare
l’uomo più potente della città; si domandava anche se potesse azzardarsi a sottoporre al giudice
un’altra questione. Una questione che non riguardava direttamente le sue competenze; d’altra parte
quell’uomo non era soltanto un giudice, ma anche un membro del Consiglio.
E la questione di cui si trattava avrebbe dovuto essere discussa in Consiglio. Inoltre Tybon
era evidentemente di buon umore e aveva voglia di parlare. Forse sarebbe stato più opportuno non
porre la questione in forma di domanda.
«Mi permetti» gli disse Bomilcare «di farti ancora una domanda e di chiederti un
consiglio?»
«Te lo permetto. Il che non significa che ti fornirò il consiglio. Di che si tratta?»
«La domanda è questa: che aspetto ha la spada? Sarebbe utile sapere con esattezza che cosa
si cerca.»
«È una semplice spada diritta» rispose Tybon. «Forse un palmo più lunga di una normale
spada corta. L’elsa al di sotto dell’impugnatura termina con due piccole teste di leone che guardano
verso la lama, e nel manico è incastonata una pietra blu.»
«Grazie, signore. E ora il consiglio. Il suffeta Himilko mi ha ordinato, qualche tempo fa, di
non fare nulla in una certa circostanza. Non è una cosa molto semplice.»
«Di qualunque cosa si possa trattare… perché non lo domandi a lui stesso?»
«Ci ho provato, ma evidentemente negli ultimi giorni non è stato in città. O comunque non
era qui quando sono venuto a cercarlo.»
«È spesso in viaggio» assentì Tybon. «E va bene; vai avanti.»
Bomilcare si schiarì la voce. «Come posso trascurare avvenimenti che ricadono nelle mie
competenze, se non so con esattezza quali di questi appartengano a quelli di fronte ai quali devo
chiudere un occhio?»
«Insomma, perché parli in modo così enigmatico?» Tybon protese in avanti la mandibola.
«Di che cosa si tratta?»
«Il suffeta ha detto che si preparavano a sorvegliare nuove spie per poi catturarle. Spie di
Roma, ma anche di Alessandria, se ho inteso bene.»
Tybon annuì appena. «Ricordo che in Consiglio se ne è parlato. E allora?»
«In effetti questo rientrerebbe nei compiti ordinari delle guardie. Vale a dire mio e dei miei
uomini. Invece è stato affidato ad altre persone: persone con capacità e conoscenze particolari, a
quel che presumo.»
Tybon alzò le spalle. «Dev’essere così. Sarebbe assurdo affidare incarichi importanti a degli
incapaci.»
«Questo è senz’altro vero, signore. Però: se si giunge alla cattura, potrebbe essere impiegata
la forza e versato del sangue.»
«Non è da escludere, non è da escludere. Questo turba il tuo animo? In tal caso
sarebbe fin troppo delicato per i compiti che svolgi.»
«Non turba assolutamente il mio animo, signore. Ma, se accade qualcosa del genere, i miei
uomini interverranno. È il loro dovere. E, negli ultimi giorni, si sono verificati alcuni fatti strani.»
Tybon rise. «Fatti strani? Che cosa sarebbe una grande città senza fatti strani? Un deserto,
una desolazione, un buco nella sabbia.»
«Sai se è stata già fatta qualche mossa in questa direzione? Qualcosa su cui dovrei smettere
di indagare? Se per caso l’omicidio di Abdosir ha qualcosa a che fare con tutto questo?»
«Nulla» rispose Tybon con voce molto sicura e decisa.
«Abdosir non c’entra nulla con tutto questo. E, a quanto ne so, non è ancora successo nulla.
Però solleciterò il Consiglio affinché, prima di intraprendere qualcosa di concreto, te ne venga data
comunicazione.»
Al mattino Bomilcare trovò Achiqar e Autolykos nel posto di guardia. Il campano aveva
dormito nella stanza accanto e aveva un aspetto ancora più grigio e abbattuto del solito.
«La mia famiglia» borbottò quando Bomilcare gli domandò quale genere di volpe della
steppa avesse turbato il suo sonno. «Una visita. Della madre di mia moglie, da quel villaggio
sperduto tra i monti. E di una zia. E di una figlia della zia. E
di due schiave sdentate. Perciò preferisco dormire male qui che non dormire affatto a casa.»
«E tu?» chiese ancora Bomilcare fissando Achiqar, che aveva appena passato l’olio sui suoi
capelli scuri e sembrava volere surclassare il sole in luminosità e splendore.
«Ho riposato bene e attendo istruzioni da parte tua.»
«Bene. Allora ti voglio affidare i preparativi di un’operazione, nonché, quando sarà tutto
pronto, la sua realizzazione.»
Achiqar sollevò le sopracciglia. «Parla, capo, e sarà fatto.»
Bomilcare descrisse brevemente il giardino abbandonato in cui si era appostato Zabugu,
aggiungendo che questo apparteneva al tempio di Baal Melqart. «Spero di ottenere oggi da Annone
il permesso di perquisirlo. In tal caso, dovremmo cominciare domattina presto. Tu, Achiqar, prepara
tutto. Gli schiavi per scavare e disboscare, un carpentiere e altri schiavi per praticare un’apertura nel
muro senza danneggiarlo troppò.
Oltre ai carri e agli utensili. E pane, acqua, frutta… tutto il necessario.»
Quando il punico se ne fu andato, Autolykos disse: «E per me? Le solite incombenze
quotidiane, oppure hai desideri particolari?».
«Li ho. Zabugu aveva una famiglia… dove? E che cosa riusciamo a scoprire su questo
mercante di verdure, Bodashtart ilVerde?»
«Immagino che tu voglia un’indagine accurata, senza che nessuno venga a saperne nulla,
non è vero?»
«È per questo che mando te, e non uno sbirro qualunque.»
Bomilcare fu impegnato fin dopo mezzogiorno a redigere rapporti che attendevano da tempo
e a verificare, ordinare o scartare informazioni. Autolykos non era ancora ritornato.
Bomilcare scrisse alcune istruzioni per lui e Mutumbal sulle tavolette di cera, affidò il posto
di guardia ai due uomini presenti e si recò da Artemidoros. Il medico, però, non era nelle sue stanze.
Bomilcare mangiò un po‘“di pane e una zuppa densa con pezzi di pesce e di polpa di
granchio in un’osteria lungo la Via Grande. Quindi fece visita a due posti di guardia in quartieri
della città in cui non metteva piede da molto tempo, e parlò con gli uomini che li presidiavano. Si
fermò brevemente da Aspasia, che stava discutendo di un gioiello (un coccodrillo grande come un
pollice, realizzato con pietre verdi incastonate nell’oro, da appendere a una catena d’argento e
portare al collo) con un mercante elleno nella sua officina, e passeggiò fino al posto di guardia
dietro l’agorà.
Da lontano vide di nuovo l’uomo con il collo sottile e il pomo d’Adamo. Senza sapersene
spiegare la ragione, fece venire una delle guardie.
«Lo vedi quell’uomo laggiù? Bene. Fai in modo di scoprire qualcosa sulla sua persona. E su
un altro che è spesso insieme a lui. Quell’altro non è così secco e, di solito, indossa vesti preziose e
colorate.»
Quando Bomilcare ritornò da un giro di perlustrazione per il porto, la guardia era già
rientrata nella postazione dell’agorà.
«Quello secco con il pomo d’Adamo» disse «si chiama Adherbal. È lo scrivano, l’aiutante o
qualcosa del genere del sedicente nobile Bodbal, che indossa sempre vesti gialle, rosse oppure blu.»
«Che cosa vuol dire sedicente nobile? E che cosa fa?»
La guardia alzò le spalle. «Bodbal è un mercante. Un mercante internazionale, possiede
alcune navi e carovane. Un deposito per le merci fuori città, aTynes. E vuol essere eletto in
Consiglio.»
«Di antica famiglia?»
«Niente affatto. È uno di quelli che sono arrivati dopo la guerra. Nessuno sa con esattezza da
dove; forse da Sikka.»
Nel frattempo era metà pomeriggio. Bomilcare esitò brevemente, poi rimandò ancora una
volta la passeggiata poco piacevole che l’attendeva e si recò all’officina dei carri, dove trovò
soltanto Vavurro e Patroklos. Li pregò di cercare di scoprire, nei giorni successivi («prima o poi,
non c’è fretta»), qualcosa di più su Bodbal e Adherbal, se era il caso anche a Tynes. «Forse
dovrebbe farlo Zililsan… senza dare nell’occhio, chiaro?»
Lungo la strada fino al palazzo di Annone, Bomilcare cercò di rivolgere il pensiero alle
questioni urgenti. E al fatto che non credeva a una sola parola del giudice. D’altra parte, non vedeva
per quale ragione Tybon avrebbe dovuto mentire.
Ma fu tutto inutile. La prospettiva di trovarsi di fronte ad Annone lo impegnava più di ogni
altra cosa. In circostanze normali, si disse, avrebbe preferito soffrire la fame e rimanere di guardia
per giorni, piuttosto che presentarsi da lui. E
a maggior ragione in quell’occasione. “Chi vuole cercare qualcosa tra i denti di un
coccodrillo” si diceva “dovrebbe dapprima ammansirlo a dovere. Ma come si ammansisce un
coccodrillo? E chi ti dice che resterà in quello stato innaturale per più di due respiri?”
Il palazzo cittadino di Annone il Grande, sulle pendici orientali della collina della Birsa, era
presidiato quasi come una fortezza. L’edificio era interamente circondato da alte mura. Due guardie
armate che sorvegliavano la porta lasciarono passare Bomilcare e lo affidarono a una terza, che lo
condusse attraverso un magnifico giardino fino all’edificio principale, dove un quarto uomo, armato
come gli altri, dopo una breve discussione lo condusse su per le scale insieme a un domestico.
Bomilcare aveva già visto una volta la veste di seta indossata da Annone: l’autunno passato,
in occasione di un difficile colloquio nel corso del quale era stato risolto un caso complicato. Il
magnifico abito era blu, bordato di rosso e con ampi riquadri del medesimo colore; sullo sfondo si
vedevano draghi spaventosi che sembravano soffiare e combattere ogni volta che Annone si
muoveva. Bomilcare si disse, con una certa soddisfazione, che neppure l’uomo più ricco e potente
della città possedeva un abito nuovo per ogni singolo giorno della propria vita.
Come la volta precedente, Bomilcare percepì un odore di acqua salmastra in mezzo ai
profumi preziosi della stanza. In parte questi provenivano dallo stesso Annone, che era appoggiato
vicino alla finestra e l’osservava con le sopracciglia aggrottate, in parte derivavano da ciotole e
scodelle in cui nuotavano alcune foglie. Il sale invece si trovava nell’acqua dello stagno dei pesci in
giardino, dove Annone teneva le murene alle quali, a quel che si diceva, di tanto in tanto dava in
pasto i nemici o gli schiavi indisciplinati.
«Il capo degli sbirri» disse Annone con voce velata, come se avesse appena bevuto vino
aspro, pensò Bomilcare.
«Lasciaci soli.»
Lo schiavo anziano, probabilmente un elleno, che era in piedi davanti a un tavolo allungato
alla destra di Annone, fermò con alcuni pesi diversi rotoli di papiro aperti, si inchinò e se ne andò.
«È passato molto tempo» disse Annone «da quando abbiamo avuto di che discutere. Non ho
sentito la tua mancanza.» Si abbandonò sulla sedia pieghevole che si trovava davanti al tavolo e
indicò uno sgabello.
Mentre si sedeva, Bomilcare sfiorò con lo sguardo uno dei fermapapiri, la statuetta di bronzo
di un leone che divorava un uomo, prima di rivolgere tutta la sua attenzione all’uomo più potente
della città. Il piccolo felino gli sembrava una specie di rappresentazione di Annone; poi però si disse
che, al confronto, i leoni erano inoffensivi.
«Ho provato la stessa sensazione, signore» disse Bomilcare.
«Ed è solo a malincuore che ti importuno con una richiesta.»
Annone incrociò le braccia davanti al ventre. Le unghie delle dita, tagliate finemente a
punta, brillavano come se fossero ricoperte di smalto. «Parla. E parla in fretta: il mio tempo è
prezioso.»
«L’assassino del nobile Abdosir gli ha strappato, come certamente sai, la spada di Qart
Hadasht ed è fuggito in un giardino abbandonato che appartiene al tempio di Baal Melqart.
Quando è stato catturato, all’estremità opposta del giardino, non aveva più niente con sé. Per
perquisire il giardino è necessaria l’autorizzazione del sommo sacerdote; ti prego di concederla.»
Occhi da serpente di ossidiana etiopica. Bomilcare si sentì sezionato dal loro sguardo,
eppure provò soltanto un lieve disagio. Per lo sguardo e per non essere riuscito a trovare un
paragone migliore per descriverlo.
« «Che cosa ti riprometti di ottenere?»
«Forse troviamo la spada, forse almeno qualche prova…
qualche traccia… qualcosa che ci faccia andare avanti.»
Annone annuì. «È strano, non è vero? Che gli altri tre siano semplicemente fuggiti.» Intorno
alla sua bocca si disegnò un sorriso obliquo e persistente.
All’improvviso Bomilcare avvertì quel lieve brivido. Gli si rizzarono i capelli sulla nuca e
sentì un fremito lungo la spina dorsale.
Come negli anni in cui aveva combattuto in Iberia, sotto Amilcare Barca, quando rischiava
sempre di finire in un’imboscata. Come in alcune situazioni, apparentemente innocue ma in realtà
pericolose, in cui si era trovato in città. Un avvertimento da parte degli dèi, oppure di un organo di
senso che non si trovava nel suo corpo.
«Proprio così, signore: è molto strano» disse Bomilcare con una voce che non riconobbe,
domandandosi nel frattempo perché quel brivido non fosse iniziato quando aveva avvertito l’odore
dell’acqua salmastra o gli sguardi taglienti di Annone, ma dopo quel sorriso. Timore… ma di che
cosa? Era sicuro che là non avrebbe potuto accadergli nulla: neppure Annone si sarebbe potuto
permettere di… eliminare il capo dei tutori dell’ordine nell’esercizio delle sue funzioni.
«Tuttavia è ancora più strano che tu sia stato addirittura obbligato a costringere le persone
competenti a fare qualcosa, non è vero?»
Bomilcare si schiarì la voce; aveva la bocca asciutta.
«Come fai a saperlo?»
«Sarei quello che sono, se non lo sapessi?» Nella sua voce non c’era presunzione e neppure
compiacimento: era una semplice constatazione.
«Che cosa sai esattamente, signore? Te lo domando per sapere di che cosa parliamo. E di
che cosa possiamo tacere.»
Il sorriso di Annone si fece più aperto, quasi… amichevole?
«Tybon avrebbe voluto processare l’assassino il giorno dei funerali della vittima; per questo
te l’ha sottratto. Tu l’hai voluto interrogare e poi hai fatto in modo che potesse impiccarsi con la
corda ricavata dagli abiti di un ubriaco.
Immagino che in cambio ti abbia detto ancora qualcosa. Forse un nome. Della spada non ti
saresti dovuto nemmeno occupare: nessuno te ne aveva parlato. Immagino che adesso tu abbia
costretto in qualche modo Tybon a intraprendere qualcosa.»
«È così, signore. Il terreno del tempio, cui appartiene anche il giardino, non è sottoposto al
suo potere legale. Dice lui.»
«Ne dubiti, forse?»
«Forse non può inviare le guardie in un tempio; ma un giardino abbandonato è un’altra
faccenda. Avrà voluto mostrare riguardo per il potente Annone.»
Annone chiuse gli occhi per un istante. «Al contrario di quello che hai fatto tu l’anno
scorso.»
Bomilcare rimase in silenzio ad aspettare.
Aveva di nuovo, come quella volta, la sensazione di dover affrontare uno spadaccino molto
più abile di lui. Si ricordava della stanchezza fisica che aveva avvertito dopo i suoi confronti con
Annone. Le sue conoscenze non lo sorprendevano più: senza fonti e informatori ovunque, non
avrebbe mai potuto conquistare e conservare il proprio potere.
«Bè, sì» disse alla fine Annone, riaprendo gli occhi.
«Avremo bisogno di uno scrivano. Un po‘“di pazienza.» Batté le mani.
«A che cosa ci serve uno scrivano?»
«Un po‘“di pazienza, capo degli sbirri. Lo vedrai presto»
rispose Annone con un sorriso.
Bomilcare avvertì di nuovo un brivido gelido lungo la schiena. Poi pensò all’unico uomo di
fronte al quale Annone avesse mai dovuto chinare la fronte: Amilcare Barca. Due personaggi
potenti, nemici giurati da due decenni e mezzo.
Avevano entrambi cinquantuno anni, e avevano cercato entrambi, durante la grande guerra
romana, di indirizzare le sorti della città in base alle proprie aspettative: Annone, per iVecchi, che
volevano commerciare con i territori sottoposti e i grandi possedimenti dell’entroterra coltivati da
coloni privi di diritti e schiavi; Amilcare, per i Nuovi, ormai da tempo detti Barcidi dal suo
soprannome, che volevano gli strumenti migliori per esercitare il commercio con il mondo intero e
per questo consideravano indispensabili, in città e nell’entroterra, innovazioni e maggiori libertà.
Ma il vero elemento di contrasto tra loro era il giudizio su Roma. Annone considerava i
romani nemici come tutti gli altri con cui i punici avevano fatto la guerra: prima o poi si sarebbe
giunti a un accordo con loro e, fino a quel momento, era importante soltanto non perdere il dominio
sull’entroterra. Amilcare, coinvolto direttamente in scontri sanguinosi per anni come stratega in
Sicilia, considerava Roma un nemico di tipo nuovo: un nemico che non avrebbe accettato alcun
accordo, ma conosceva soltanto la vittoria o la sconfitta. Annone aveva fatto in modo che il
Consiglio lasciasse andare in rovina la gloriosa flotta di Qart Hadasht e, quando l’esercito in Sicilia
avrebbe dovuto essere rafforzato, aveva arruolato truppe con cui massacrare i contadini libi
nell’entroterra. Così la guerra era stata perduta: i punici avevano dovuto cedere la Sicilia ai romani
e versare loro immense quantità d’argento.
Dopo la guerra era stato di nuovo Annone a imporsi nel Consiglio quando i soldati,
ricondotti a Qart Hadasht dalla Sicilia, avevano preteso i molti anni di paga arretrata. Il Consiglio
aveva opposto un rifiuto e così era cominciata la terribile guerra contro i mercenari, nella quale alla
fine Amilcare aveva vinto contro i suoi stessi ex combattenti, salvando la città dalla catastrofe. I
punici erano tanto indeboliti che alla fine avevano dovuto cedere al ricatto dei romani, pagare altro
argento e, dopo la Sicilia, ritirarsi anche dalla Sardegna e dalla Corsica.
In quei momenti così bui, il trionfo più amaro per Amilcare era stato quello di riuscirsi a
imporre su Annone e ottenere dal Consiglio la carica di “stratega di Libia e Iberia” con pieni poteri.
Considerava inevitabile una nuova guerra contro Roma e voleva preparare la città procurandole
nuove fonti di ricchezza e di soldati in Iberia. Annone, sempre convinto che, prima o poi, sarebbe
stato possibile raggiungere una pace tra eguali con Roma, partecipava ai guadagni in Iberia, ma
nello stesso tempo cercava di conservare lo status quo e i rapporti di forza tradizionali a Qart
Hadasht.
«Siete molto simili l’uno all’altro, signore.»
Bomilcare aveva parlato quasi contro la sua volontà e, mentre echeggiava quella frase, si
sorprese della propria audacia.
Ma poi fu Annone a sorprenderlo, continuando a sorridere mentre diceva: «Immagino che ti
riferisca ad Amilcare. Non si può crescere senza un buon nemico; ma, a un certo punto, bisogna
smettere di crescere».
Prima che Bomilcare potesse riprendersi dallo stupore e chiedersi il senso di questo
discorso, lo schiavo che prima era stato mandato via ritornò nella stanza.
«Che cosa desideri, padrone?» domandò.
«Scrivi» rispose Annone indicando il tavolo. «Annone, membro del Consiglio di Qart
Hadasht, membro del comitato dei Cinque responsabile per le finanze, sommo sacerdote di Baal
Melqart, autorizza i tutori dell’ordine a perquisire il giardino al di sotto del tempio di Eshmun.»
«Potrà essere una perquisizione accurata?» domandò Bomilcare.
«Per quel che mi riguarda, potete rivoltare il giardino.»
«Ti ringrazio per la comprensione e la disponibilità, signore.»
Annone attese che lo schiavo avesse versato una goccia di cera sul papiro, dopo di che vi
impresse il suo sigillo e congedò lo scrivano con un cenno.
«Prendilo come segno della mia fedeltà alla città, al suo ordine e alla sua sicurezza» disse
Annone. «E fammi conoscere i risultati della tua perquisizione.»
Bomilcare arrotolò il pezzo di papiro e se l’infilò nella scollatura della tunica. «Avresti un
suggerimento da darmi, signore?» disse. «A proposito della spada?»
Annone aggrottò la fronte. «Soltanto quello che bisogna prendere sempre in considerazione»
disse piano. «Chi ne ha un vantaggio, chi ne viene danneggiato e così via.»
«Non sai davvero niente altro? Tu che pure sai quasi tutto quello che accade in città?»
«So molte cose» rispose Annone sorridendo di nuovo e facendo ancora una volta
rabbrividire Bomilcare. «Non tutto.
So che, più o meno a quest’ora, deve giungere al porto un’ambasceria romana. So che, entro
domani, il Consiglio riceverà una notizia meravigliosa. So che questo mi rende di buonumore, tanto
che ti ho sopportato molto più del necessario.
Adesso vattene.»
Bomilcare chinò il capo. «Che le tue giornate e le tue notti siano piacevoli, signore» disse
dirigendosi verso la porta.
«Un’ultima cosa» disse Annone con un tono
improvvisamente rabbioso, e non più quasi amichevole come fino a poco prima. «Voglio
leggere l’esito delle tue indagini, non sentirlo da te. Sarebbe meglio che non mi capitassi mai più
davanti agli occhi.»
Non disse nient’altro, ma Bomilcare comprese la minaccia inespressa. L’uomo più potente
di Qart Hadasht non avrebbe dato in pasto alle murene quel piccolo sbirro; sicuramente conosceva
altri sistemi, più crudeli e dolorosi, per liberarsi da un moscone fastidioso.
Bomilcare era impegnato in tutta una serie di simpatiche considerazioni e di presagi infausti
di questo genere quando giunse alla porta del muro orientale della Birsa. Il sorriso di Annone. La
sua disponibilità a collaborare. Là notizia meravigliosa. L’ambasceria romana.”Che i demoni gialli
della perfidia si possano annidare nei suoi visceri” pensò.
Ma poi rimandò a più tardi ragionamenti e maledizioni. Il crepuscolo era già iniziato e
presto si sarebbe fatto buio.
Avrebbe potuto consegnare l’indomani a Tybon il papiro destinato agli archivi del giudice.
E poi sarebbe stata una dimostrazione di particolare stoltezza perquisire il giardino abbandonato di
notte, sia pure con le fiaccole. Sempre che vi fosse qualcosa da trovare. Anche se Zabugu vi avesse
nascosto la spada, tutti quelli che nel frattempo ne erano a conoscenza avrebbero potuto portarla
via.
“Domani sarà un’altra giornata lunga” pensò Bomilcare esausto. In realtà avrebbe voluto
parlare ancora con Artemidoros, esercitarsi a lanciare i coltelli, impartire ordini, sorvegliare certe
persone e, con un po‘“di fortuna, interrogare qualche schiavo senza dare nell’occhio. Ma non ne
fece nulla: ormai non desiderava altro se non riposare per rimettere ordine nei propri pensieri,
qualcosa da mangiare, un po‘“di vino e il sorriso di Aspasia.
Nel posto di guardia dietro l’agorà impartì gli ordini necessari: sorvegliare il giardino
abbandonato e comunicare ad Achiqar che l’indomani, con il permesso di Annone, avrebbe dovuto
iniziare a rovistarvi.
Mentre si recava da Aspasia, Bomilcare avvertì di nuovo quel brivido nel ripensare per
l’ennesima volta alle affermazioni di Annone, ripetendosele tra sé e cercando di decifrarle. Era
inutile, si disse alla fine: avrebbe dovuto saperne di più anche solo per poter stabilire se quelle
parole fossero lineari o enigmatiche. D’altra parte, da Annone ci si poteva attendere di tutto, tranne
certamente qualcosa di lineare.
La calura aveva asciugato strade e piazze; della pioggia del giorno prima restava solo quella
che era finita nelle cisterne.
Nel cortile interno dell’isolato ardevano diversi fuochi e si sentiva profumo di arrosto, di
vino e di pane fresco.
Bomilcare sentiva borbottare il suo stomaco così forte da aspettarsi quasi che la gente
intorno ai fuochi si voltasse a guardarlo.
Poi qualcuno lo chiamò per nome.
Si diresse verso il secondo fuoco, dov’era Aspasia, che gli si avvicinò di qualche passo e lo
prese per mano.
«Visite» gli disse con un sorriso obliquo.
«Chi è?»
«Lasciati sorprendere.» Se lo trascinò dietro dall’altra parte del fuoco, dove si trovavano
alcuni tavoli e panche leggere. Nell’aria c’era odore di olio di sesamo, di birra, del sangue dei polli
macellati, del grasso che colava nelle fiamme.
Quegli aromi suscitavano ricordi, in particolare di un’altra sera d’estate, un anno prima,
quando nello stesso cortile era stata organizzata una festa. Con Aspasia e Tazirat, con il pittore
Amidi e il persiano grasso Bagayash, con l’irriverente Daniel, amministratore delle grandi tenute di
Amilcare nel lontano sudest, con Tito Letilio Mucro, il soldato romano, nemico e amico, avversario
e alleato, che gli era stato d’aiuto e di ostacolo nelle indagini su un omicidio e sui suoi complessi
retroscena.
D’un tratto gli si parò davanti Duush. Il numida aveva abbozzato un sorriso altrettanto strano
di quello di Aspasia.
Ancor prima che Bomilcare potesse dire: «Ma che cosa ci fai qui?», accanto a lui comparve
il libio Zililsan e poi un altro degli uomini dell’officina dei carri.
«Siamo venuti a sostenerti, nel caso dovessi vacillare»
disse Zililsan.
«Non fate tanto i misteriosi. Perché dovrei vacillare?»
«Per questo» disse Aspasia, indicando un uomo voltato di spalle, che si alzò dalla panca e si
voltò lentamente.
«Ave, Bomilcare» disse Tito Letilio Mucro.
«Sei tu l’ambasceria romana?» chiese Bomilcare non appena si fu ripreso dallo stupore.
Il romano lo sorprese per la seconda volta allentando la presa intorno all’avambraccio destro
di Bomilcare, abbracciandolo e appoggiando per un momento la guancia a quella del punico.
«Non esattamente» disse nel frattempo. «Faccio parte della scorta. Come certo saprai, sono
piuttosto pratico del luogo. Inoltre nel frattempo, come avrai sentito, il mio punico è diventato
abbastanza buono.»
Zililsan si schiarì la voce. «Adesso che avete finito, potreste anche sedervi come si deve.
Ehi, romano, come ti dobbiamo chiamare?»
«”Ehi romano” va già abbastanza bene, non vi pare?»
«L’anno scorso abbiamo continuato a chiamarti Letilio. Nel frattempo, perfino io che sono
uno stupido libio ho capito che è sbagliato. Mucro, non è vero?»
«Continua pure con Letilio.»
Bomilcare si avvicinò al fuoco insieme ad Aspasia. Ascoltò l’inizio della spiegazione («Tito,
della famiglia che porta il soprannome di Mucro, che fa parte della grande stirpe di nome Letilio»)
mentre metteva pollo e lenticchie in un piatili
to di legno e Aspasia gli riempiva un bicchiere con acqua e vino.
«È passato dall’officina dei carri» gli disse «ed è venuto fin qui insieme agli altri. Immagino
che volessero aspettarti a casa mia. Non sapevi davvero che si aggirava da queste parti?»
Bomilcare scosse il capo. «Ho saputo soltanto oggi che era attesa un’ambasceria romana.»
«Sai che cosa vogliono?»
«No. Letilio ha detto qualcosa?»
Aspasia sospirò. «Niente; ed eccoci di nuovo nel bel mezzo del vostro vecchio gioco di
intrighi e di misteri.»
«Domandiamolo un po‘“a lui.»
Aspasia e Bomilcare si sedettero a tavola insieme agli altri. Letilio levò il bicchiere per bere
alla loro salute. Prima che Bomilcare potesse domandarglielo, disse: «E, affinché tu non debba
continuare a rimuginare, il Senato invia ambascerie a tutti coloro che potrebbero essere interessati
alla questione, per comunicare loro che Roma e la regina di IlliriaTeuta si trovano in stato di guerra.
Tutto qui.»
«E tu scorti i messi?»
Il romano sorrise. «Naturalmente devono discutere anche di una serie di questioni con il
vostro Consiglio. E forse, nel frattempo, hanno bisogno di qualcuno che traduca loro qualcosa o che
mostri loro gli angoli caratteristici della città.»
Bomilcare aggrottò la fronte, ma non disse nulla; iniziò a mangiare per far tacere il brontolio
del suo stomaco.
«Hai l’aspetto del dubbio fatto persona» disse Duush.
Bomilcare masticò, deglutì e sollevò il bicchiere. «Oggi ho avuto un colloquio con Annone
il Grande. Questo è sufficiente a farmi dubitare del mondo intero» disse prima di bere.
«Uh» esclamò Letilio con una smorfia. «È vero. Mi ricordo malvolentieri di lui. Preferisco
scambiare effusioni con gli scorpioni. Di che cosa si trattava?»
«Te lo racconterò più tardi. Annone era già al corrente che doveva giungere un’ambasceria
romana. Quando siete arrivati?»
«Poco prima del tramonto del sole» rispose Letilio con un largo sorriso. «Forse Annone ha
la vista particolarmente acuta.»
«Oppure il Consiglio lo sapeva già da tempo, o forse le nostre navi gliel’hanno comunicato
con i loro segnali.»
Bomilcare dubitava che fosse tutto così facile da spiegare, ma non voleva iniziare una
discussione sulle relazioni di Annone.
«Inoltre ha detto che domani sarebbe giunta una notizia meravigliosa. E quando Annone si
compiace di qualcosa e lo definisce “meraviglioso”, a me vengono i brividi.»
Il sorriso sul volto del romano si raggelò. «I brividi?»
mormorò.
Aspasia si piegò in avanti. «Sembra che tu ne sappia qualcosa.»
«Non vogliamo attendere domattina per questo? Non è mia intenzione rovinarvi la serata.»
Poi, con un sorriso palesemente sforzato, aggiunse: «Altrimenti si dirà di nuovo che i romani non
oscurano soltanto il sole, ma anche le stelle di Qart… di Cartagine.»
«Che cos’altro credi che potremmo fare per il resto della notte, se non rimuginare intorno ai
tuoi discorsi oscuri?»
disse Bomilcare vuotando il suo bicchiere. «È meglio che dici subito quello che hai da dire,
così ci togliamo il pensiero.»
Letilio protese la mano verso la brocca con il vino allungato. «Lascia che ti versi da bere: ne
avrai bisogno.»
Bomilcare gli avvicinò il bicchiere, poi disse meravigliato: «Guarda come ti tremano le
mani. Sputa il rospo, una buona volta».
Letilio si osservò le dita, poi incrociò le braccia come se non volesse più vedere le proprie
mani. «Durante il viaggio abbiamo incontrato una nave messaggera» disse a bassa voce.
«Un veliero. Poi ci sono stati due giorni di bonaccia: le nostre due triremi hanno potuto
procedere ugualmente, la nave arriverà sicuramente domani.»
«Continua a parlare, amico!»
«Lo sai che l’inimicizia non deve intaccare minimamente il rispetto, non è vero?» disse il
romano con tono penetrante.
Bomilcare annuì. Iniziava di nuovo a rabbrividire e, quando Letilio riprese a parlare, la sua
voce gli giunse come da una remota oscurità.
«In Iberia c’è stata una battaglia, lungo un fiume di nome… Tagus? Tagos? Taggo? Il vostro
alleato, il principe dei vacchei, ha tradito e ha attirato l’esercito in un’imboscata.
Alla fine avete vinto lo stesso. Ma Amilcare Barca è caduto.»
Bomilcare trascorse una parte della notte a invocare in silenzio gli dèi. E a ricordare Baraq,
il Fulmine. I movimenti rapidi e sorprendenti che già nella grande guerra romana gli avevano valso
quel soprannome che poi, nel crogiolo di popoli e di lingue dell’esercito, si era trasformato in”
Barca”. Le notti negli accampamenti, all’aperto, davanti al fuoco; gli spostamenti notturni, le marce
per giorni e giorni, gli attacchi alle prime luci dell’alba oppure a sorpresa, durante l’avanzata; le
dure vittorie, il sangue proprio e quello degli altri, ma anche la ricostruzione e la fondazione di città,
la sistemazione di strade e ponti (quelle che il genero e secondo di Amilcare, Asdrubale il Bello,
aveva chiamato “le terribili guerre della pace”), la trasformazione di uomini provenienti da ogni
paese in un grande corpo, in una famiglia di combattenti, il cui padre era il Fulmine. Cercò di
ricordarsi quello che aveva provato alla morte prematura del padre, ma non vi riuscì, perché
l’uccisione di Amilcare sovrastava ogni altra cosa.
Si sentiva ferito nell’intimo: come se gli avessero raschiato l’anima con una di quelle
spazzole lunghe che venivano utilizzate per pulire i recipienti stretti. In realtà non gli era mai stato
davvero vicino. Eppure… se quattro anni prima non avesse abbandonato l’Iberia per Qart Hadasht,
Bomilcare avrebbe potuto proteggere lo stratega con il proprio corpo, presso quel fiume da qualche
parte nel centro di quel territorio.
L’uomo la cui spada aveva difeso la città quando i mercenari la minacciavano; che forse
avrebbe potuto annientare Roma nella grande guerra, se Annone non avesse rifiutato i rinforzi…
Le relazioni di Annone. Come aveva fatto a saperlo già?
Bomilcare non dubitò neppure per mezzo respiro del fatto che la “notizia meravigliosa”
fosse la morte di Amilcare. A letto, accanto al corpo tiepido di Aspasia che dormiva, sentì di nuovo
freddo e rimase a lungo a pensare a cose fredde. Era sicurissimo che non sarebbe riuscito a dormire;
fino a che Aspasia non lo svegliò riscuotendolo.
«Come ti senti?» disse Aspasia dopo che ebbero sorbito in silenzio un po‘“di brodo di
verdure bollente con del pane raffermo.
«Orfano» rispose Bomilcare alzando le spalle. Poi, con un debole sorriso, aggiunse: «Oggi
molti si sentiranno così».
«E molti altri esulteranno; non te lo dimenticare.» Gli posò una mano sul ginocchio.
«Possiamo sempre consolarci a vicenda. Più tardi, questa sera. Nel caso in cui allora tu abbia ancora
bisogno di consolazione.»
«Che cosa vuol dire” nel caso in cui”?»
Aspasia gli accarezzò la guancia. «Gli artigiani ottusi come me non ne sanno molto di affari
di stato…»
«Puah.»
«…Ma in ogni caso sappiamo che, dopo qualche ora, qualunque ferita inizia a rimarginarsi.»
«Hai ragione» disse Bomilcare prendendole il viso con entrambe le mani e baciandola. «Ti
ringrazio di avermelo ricordato. E, qualunque cosa faremo insieme più tardi, non sarà soltanto per
consolarci.»
Aspasia rise. «Fanciullo inconsolabile… vedo il bagliore nei tuoi occhi e ti dico: non adesso.
Io devo lavorare. E anche tu.»
Discese le scale e lo precedette nel cortile interno; d’un tratto Bomilcare le posò una mano
sulla spalla. «Ah, prima che me ne dimentichi… hai scoperto qualcosa su quell’uomo che chiamano
il Verde?»
«Non molto. Due o tre degli altri hanno fatto già qualche piccolo affare con lui. Un gioiello,
un anello e cose del genere. Paga sempre subito. E si chiama Bodashtart. Pare che sia uno dei più
grandi mercanti di verdura che operano fuori città, nel mercato davanti alla porta.»
Percorsero in silenzio il breve tragitto fino allo sbocco della strada degli incisori di timbri
nella Via Grande. Pochi passi più a oriente, accanto a un’osteria quasi sempre strapiena, al di sotto
del livello della strada si trovavano i locali dell’officina di Aspasia. Davanti ai sette gradini che
scendevano fino all’ingresso, Bomilcare trattenne l’ellena e la strinse tra le braccia.
«Ti ringrazio» le soffiò tra i capelli.
«E di che cosa, uomo meraviglioso?» replicò reprimendo un risolino.
Bomilcare se ne accorse. «Di essere così come sei. E ti prego per due cose. La prima è di
non cambiare mai.»
«Ah» disse Aspasia. «Stai contando i miei capelli grigi?
Non posso arrestarli né allontanarli con la preghiera. Le divinità del tempo…»
«Non mi riferivo a questo. E la seconda è: stai attenta.»
Aspasia l’allontanò da sé. «Io? Non dovresti essere tu a farlo?»
«Io sono sempre circondato da uomini armati. Ma, se vado a toccare questioni che certe
persone trovano fastidiose, potrebbe essere che queste…» Bomilcare s’interruppe.
Aspasia terminò la frase al posto suo. «Che grattino via me, perché considerano te la causa
del loro prurito.»
«Qualcosa del genere.»
«E io come dovrei fare a difendermi da questo?»
«Se hai la sensazione che qualcuno tenga d’occhio te e la tua bottega, fammelo sapere
subito, in modo che possa mandare uomini a sorvegliare.»
«Terrò gli occhi aperti.»
Bomilcare le fece un cenno, poi riprese a camminare in fretta verso il porto, svoltò a destra
ed entrò nell’officina dei carri. Vi si trovavano soltanto due uomini: Patroklos ungeva di grasso il
mozzo di una ruota e Duush era davanti alla grande mola, accanto a un carro a mano che conteneva
una collezione di pugnali, spade, lance e frecce.
«Cercavo proprio te» disse Bomilcare.
«E mi hai trovato. Che cosa succede?»
«Avrei voluto discutere con te fin da ieri sera, ma la notizia…»
Duush annuì. «Le cose importantissime hanno la precedenza su quelle importanti, come
sappiamo. Di che si tratta?»
«Tre numidi. E i loro connazionali tacciono.» Espose a Duush le cose che sapeva o credeva
di sapere, e alla fine disse: «La prudenza è d’obbligo. Ma forse tu riuscirai a scoprire più degli
altri».
Duush storse il naso. «Quelli probabilmente hanno fatto qualche giuramento di sangue. Che
cosa ne dici di Masgabaz?»
Si trattava di un numida giovane e sveglio, di cui Bomilcare non sapeva molto. «Da quanto
tempo è con noi?»
«Da sei mesi.»
«Va bene; lavora insieme a lui ma, come ti ho detto: prudenza. E, non appena scopri
qualcosa, fammelo sapere… ah, ancora una cosa: riferiscilo a Zililsan e agli altri.»
«Che cosa?»
«L’ordine recente di tenervi lontani da alcune note spie vale ancora.»
«C’è qualche novità?» Duush si grattò la schiena contro uno dei manici del carro. «Qualcosa
che dà fastidio al Consiglio? O a qualcun altro?»
«Non so che cosa abbiano in mente; ma, qualunque cosa sia, noi dobbiamo restarne fuori. Ci
sono troppe questioni collegate.»
Duush annuì. «Come al solito, del resto» disse con un fuggevole sogghigno «ma soprattutto
adesso. Con i romani in città e la catastrofe in Iberia.»
«Ti prego di fare in modo che tutti si attengano agli ordini. E affida questo incarico a
Zililsan. E ancora: digli che è più importante della questione di quel Bodbal.»
«Con piacere, che debba sudare. Di che si tratta?»
Bomilcare gli fece i nomi dei tre membri del Consiglio che erano nel tempio insieme ad
Abdosir.
«Erano tutti accompagnati dai loro schiavi. Soltanto quelli di Abdosir hanno cercato di
inseguire l’assassino. Gli altri non hanno fatto niente.»
«Quanti erano?»
«Sedici. Dodici schiavi e i loro tre padroni non fanno nulla. Per quanto riguarda gli schiavi,
me lo posso spiegare: perché dovrebbero rischiare la propria vita per un padrone che non è il loro?
Però…»
Duush alzò la mano. «Probabilmente intendi dire che lo spiazzo davanti al tempio è piuttosto
angusto? Come è possibile che un assassino isolato passi e ripassi davanti a sedici persone?»
«È così, amico mio. Io, almeno per il momento, non posso prendere l’iniziativa di
interrogare ufficialmente gli schiavi. Avrei bisogno di un’altra autorizzazione del giudice per farlo.
Non si può importunare così i membri del Consiglio e le loro proprietà. Ma forse uno di quegli
schiavi se ne va in giro da qualche parte a chiacchierare. Se qualcuno gli offre un po’ di vino o
qualcosa del genere.»
Mentre si dirigeva verso il giardino abbandonato, Bomilcare si domandava se il suo stato
d’animo gli facesse percepire cose che esistevano soltanto per lui, oppure se davvero la città
giacesse come sotto una coltre di tristezza. C’erano ovunque persone che parlavano tra loro a bassa
voce; tutto sembrava meno vivace, più sbiadito del solito. Anche se la nave messaggera non era
ancora arrivata, si disse, erano bastate le poche parole di Letilio, che nel frattempo dovevano essersi
diffuse per tutta la città. E poi forse anche altri romani avevano già parlato, la sera prima.
Davanti al giardino trovò Achiqar che discuteva con uno dei carpentieri della fortezza.
Parlavano del modo meno demolitivo per aprire una porta larga due passi nel muro, da richiudere
più tardi. Gli schiavi avevano già iniziato a riumuovere gli strati superiori dei mattoni. Dall’interno
del giardino si sentivano provenire alcune voci, il rumore delle seghe e il tonfo sordo delle zappe.
«Lo sai già?» gli chiese Achiqar.
Bomilcare annuì. «Come tutta la città. È arrivata la nave messaggera, o sono stati i romani a
diffondere la notizia?»
«L’uno e l’altro.»
«Chi c’è nella fortezza?»
«Mutumbal. È stato lui a mandarmi qui. Autolykos è in giro a sorvegliare i soliti posti.»
Quando nell’immensa città accadeva qualcosa che coinvolgeva tutti, che avrebbe potuto
toccare ogni suo centro vitale, dovevano essere prese alcune misure di sicurezza. I relativi piani
erano stati elaborati da uno dei predecessori di Bomilcare; lui e i suoi attendenti Autolykos, Achiqar
e Mutumbal li avevano rivisti più volte insieme ai giudici competenti e ai suffeti che si erano
succeduti.
«Bene.» Bomilcare indicò il giardino. «Avete già trovato qualcosa?»
«Questo panno qui; forse il velo perduto da Zabugu. In alto, tra i cespugli.» Achiqar gli
porse il brandello di tessuto.
«Del resto nemmeno una traccia. Come era da attendersi, dopo la pioggia. Ha lavato via
tutto.»
«Siate prudenti.» Bomilcare si grattò la barba stopposa.
«Rivoltate pure tutto da cima a fondo, ma cercate di non distruggere nulla. E… informatemi,
se scoprite qualcosa. Avete un carro qui?»
Il carpentiere indicò verso ovest, in direzione dell’angolo più vicino.
«Te lo rimando indietro» disse Bomilcare.
«È meglio che ne mandi due e anche qualche cavallo. Per i messaggi.» Achiqar sorrise.
«Non si sa mai.»
Nell’ultimo tratto di strada prima della Porta di Tynes regnava una certa animazione. Forse
Bomilcare si sbagliava, ma gli sembrava che ci fosse più gente del solito in giro tra la città e il
grande mercato che si trovava fuori dalle mura. “Quando succede qualcosa” si disse” la gente fa
innanzitutto provviste.
Potrebbe succedere altro.”
Saltò giù dal carro e ordinò al conducente di ritornare al giardino abbandonato. Nella piccola
piazza a sud della porta, davanti al posto di guardia, gli schiavi della città raccoglievano i rifiuti e li
caricavano tutti su un carro. I due buoi che lo trainavano non badarono a Bomilcare che passava
davanti a loro; quello di sinistra smise per un istante di ruminare ed eruttò. In lontananza,
probabilmente dalle scuderie a nord della porta, risuonarono i barriti di almeno due elefanti, simili
al suono d’incitamento delle fanfare. Sembrava quasi che volessero squarciare il velo di tristezza
che si era disteso sulla città.
«Finora nessun evento particolare, signore del mattino.»
Mutumbal si appoggiò alla scrivania e annotò qualcosa su una tavoletta di cera che consegnò
nelle mani di una delle due guardie in attesa. Quando gli uomini se ne furono andati, disse:
«Autolykos comunica che è tutto tranquillo. Nessuna zuffa tra chi è in lutto e chi festeggia».
«Ci sono manifestazioni di giubilo?»
Mutumbal alzò le spalle. «IVecchi non piangeranno certamente in pubblico perché è morto
il loro grande avversario.
Ma probabilmente non manifesteranno il loro giubilo direttamente in strada. In fondo hanno
investito abbastanza denaro nelle miniere e nei latifondi dell’Iberia. » Si voltò per metà e afferrò un
bicchiere che era posato sul tavolo.
Bomilcare prese il recipiente dalle sue mani, lo annusò e ne bevve un sorso: succo di frutta
con un po‘“di vino. «Se qui non c’è bisogno di me» disse «salgo un momento da Artemidoros. E
vado a lanciare qualche coltello. Sai dove trovarmi. Poi ritorno qui.»
«Ti eserciti?» Mutumbal sogghignò. «Immagina di avere come bersaglio Annone.»
Il medico stava mangiando. Aveva un pezzo di pane nella mano destra, con cui indicò uno
sgabello o una panca alle proprie spalle. Con la sinistra reggeva una scodella poco profonda.
Bomilcare l’annusò, ma non percepì alcun odore. «Ti sei dato ai piaceri insipidi?»
Artemidoros deglutì. «Nei giorni amari» disse poi «ho bisogno di cose dolci.»
«Che cos’è?»
«Panna, miele, chicchi di sesamo. Ah.» Intinse il pane nella scodella, lo portò alla bocca e lo
masticò con energia.
«Mhmmm» disse nel frattempo.
«Hai sicuramente ragione, ma qual è il motivo?»
Il medico posò la scodella e il pane sul tavolo.
«Masauchan» disse. «Immagino che, mentre io piango il più grande tra tutti i punici, tu vuoi
saperne di più su un piccolo numida morto, non è vero?»
«Non che questo diminuisca il mio lutto per Amilcare, ma il Fulmine non rientra tra i miei
doveri d’ufficio.»
«Io invece trattengo il tuono.»
Bomilcare non poté fare a meno di ridere quando, a queste parole, il medico prese a
dimenare il posteriore in modo quasi provocante.
«Dunque» disse prendendo un pezzo di papiro dal tavolo. «Nome, età e così via. Cicatrici.
Una decina di punture di api.»
«Punture di api?»
«Bè, sì, oppure di vespe. In ogni caso punture. Segni di colpi, alcuni ematomi. Soprattutto ai
polsi e alle caviglie. Due colpi di giavellotto al cuore e alla gola, ognuno dei quali sarebbe stato
sufficiente da solo. Come ti ho già detto ieri: diversi uomini l’hanno tenuto fermo, mentre altri due
l’hanno ucciso con i giavellotti. O forse uno solo, che l’ha colpito due volte.»
«Quindi una specie di esecuzione tra soldati?»
«Così sembra. Ma non è tutto.»
«Rendimi partecipe della tua sapienza.»
Artemidoros annuì. «Così va bene. Però potresti anche chiedermelo per favore.»
«Potrei farlo; adesso però voglio farne a meno, in modo che tu giunga più rapidamente al
punto della questione.»
«Escoriazioni intorno alla bocca… presumo che sia stato imbavagliato, e che il bavaglio sia
stato tenuto fermo con un panno.»
«Perché non gridasse, è chiaro. I miei uomini dicono di essere abbastanza sicuri che sia stato
ucciso là dove è stato trovato, negli alloggiamenti.»
Il medico dondolò il capo. «È possibile. Ho esaminato il posto. La pozza di sangue non era
grande quanto avrebbe dovuto per via delle ferite. Ma questo non significa nulla. Può essere stato
ammazzato altrove e poi trascinato fin lì, oppure qualcuno ha rimosso la maggior parte del sangue.
Ha ripulito in qualche modo. In ogni caso, il corpo non mostra segni che indichino un lungo
trascinamento o qualcosa del genere… ma c’è ancora una cosa.»
«Hai un tono quasi di trionfo» disse Bomilcare. «Lasciami indovinare… hai trovato
qualcosa nello stomaco.»
Artemidoros sorrise. «Ha mangiato della canapa.»
«Ah.»
«Semidigerita. In effetti, chi non è abituato a consumarla, dovrebbe cadere in un sonno
profondo. Ma allora a che scopo imbavagliarlo e tenerlo fermo?»
Bomilcare allargò le braccia. «Mi sembri indeciso. E sei sicuro che il momento della morte
non sia così lontano da quello in cui ha mangiato la canapa che la vittima poteva essersi già
risvegliata?»
«È escluso.» Il medico inspirò profondamente e si inoltrò in una lunga discussione su
quantità, digestione, tempo di assimilazione, contenuto residuo nello stomaco, fino a che Bomilcare
non alzò le mani.
«Aiuto! Sto affogando nelle tue parole. Insomma, detto molto semplicemente, per un piccolo
stupido sbirro come me: se era in preda all’ebbrezza, non c’era bisogno di imbavagliarlo e tenerlo
fermo. A meno che non fosse talmente assueffato alla canapa, che neppure una dose maggiore
l’avrebbe messo fuori combattimento.»
Artemidoros protese il labbro inferiore. «Esiste ancora una possibilità; ma non posso
esprimermi a riguardo, perché mi mancano le conoscenze.»
«Sono entusiasta» disse Bomilcare «di sentirti dire che ti mancano determinate
conoscenze!»
«Taci, ragazzo imbelle. La terza possibilità è che la canapa faccia parte di una cerimonia.»
«Intendi dire che alcune persone pregano un dio mangiando canapa?»
«Oppure gli sacrificano un ariete o una persona che deve aver mangiato canapa per essere la
vittima adatta.»
La piccola faretra di cuoio che Bomilcare portava sulla schiena, sotto il kitun, conteneva
cinque coltelli leggeri da lanciare.
Nella piazza ombreggiata dagli alberi a nord delle scuderie alcuni libi e iberi, armati di
spade di legno e di lance con la punta smussata, si esercitavano nel combattimento ravvicinato;
Bomilcare non fece nemmeno caso alle grida dell’istruttore .Visto che in quel momento non c’erano
arcieri, avrebbe potuto utilizzare uno dei loro bersagli delle dimensioni di un uomo.
«Annone» mormorò. Ma questo non lo aiutava molto. I suoi pensieri erano rivolti altrove,
era da troppo tempo che non si esercitava e i suoi movimenti, che avrebbero dovuto essere rapidi ed
eleganti, apparivano sgraziati. Due dei cinque lanci mancarono il bersaglio o ne sfiorarono al
massimo i bordi. Aveva la mano, il braccio e la spalla contratti.
Tuttavia continuò a lanciare fino a che non fu tutto indolenzito. Degli ultimi cinque lanci
nessuno mancò il bersaglio, ma soltanto uno sarebbe stato in grado di mettere fuori combattimento
l’avversario. Annone. E uno per Amilcare. E uno per Zabugu. Per i numidi che mangiavano la
canapa. Per quelli che abbandonavano il servizio nelle guardie se qualcuno faceva loro domande.
Per i giardini abbandonati… chissà se vi cresceva la canapa? Bodashtart il Verde… trafficava con la
canapa? Qualcuno aveva bisogno della spada di Qart Hadasht per tagliare a pezzi il gambo della
canapa o spaccarne i semi?
Come sarebbe stato mettere i semi della canapa su una pietra rovente, aspirarne i fumi e poi
partire per un lungo viaggio notturno insieme ad Aspasia?
«Sono pieno di ammirazione per il tuo zelo» disse a un certo punto qualcuno alle sue spalle.
Tito Letilio Mucro teneva le braccia incrociate davanti al petto. Il suo sorriso obliquo non
sembrava propriamente di ammirazione. Il romano indossava i sandali, una tunica corta chiara e
aveva un coltello alla cintura.
«Hanno stabilito che sei superfluo?» Quasi contento di avere un pretesto per interrompere i
suoi esercizi, Bomilcare raccolse i coltelli e li infilò nella faretra che portava sulla schiena.
«Oggi a Cartagine tutti i romani sono superflui: i nobili cananei del Consiglio devono
discutere le notizie provenienti dall’Iberia.»
«E che cosa fanno i tuoi amici per tutto questo tempo?»
«Si riposano e visitano qualche tempio, insieme a guide eminenti.» Letilio alzò le spalle.
«Così ho pensato che forse avrei potuto divertirmi a ostacolare le tue indagini.»
«Che buona idea» disse Bomilcare ridendo. Poi osservò la posizione del sole. «Metà
mattina… sarebbe già ora di mangiare? Oppure non hai ancora fame?»
«I soldati devono mangiare ogni volta che riescono a trovare qualcosa. Infatti non si sa mai
quando sarà la prossima volta.»
«Proprio vero .Vieni. Credo che tu non conosca ancora questa osteria.»
Si inoltrarono nelle mura della fortezza fino alla mensa in cui Bomilcare aveva mangiato il
giorno prima. Questa volta la grande sala da pranzo era piena: almeno cento soldati di varie unità e
di origine differente erano seduti attorno ai tavoli lunghi o stavano in piedi davanti ai banconi del
cibo.
Letilio si guardò intorno. «Tutti punici autentici?» disse a bassa voce. «Soprattutto quelli là,
non è vero?»
Bomilcare seguì il suo sguardo, poi rise a singulti. «Vuoi che te li presenti?»
In mezzo ai numidi, agli iberi e ai libi, il romano aveva scoperto tre illiri, riconoscibili dal
pizzo di barba ispida e dalle cicatrici tribali colorate di blu sulle guance. Uno di loro portava il suo
berretto di pelliccia di donnola anche mentre mangiava, gli altri avevano posato i loro copricapi sul
tavolo.
«Se vuoi liberarti di me così in fretta…»
Bomilcare batté le mani. «Silenzio! State a sentire!»
Un sottocapo dai polmoni d’acciaio tuonò: «Silenzio per il capo delle guardie!».
«Che cosa succede?» chiese il romano inspirando profondamente tra i denti.
Bomilcare attese che il frastuono del locale fosse diminuito, poi esclamò: «State a sentire,
uomini. In città ci sono alcuni ospiti. Che cosa facciamo con gli ospiti?».
Qualcuno nella coda davanti al bancone del cibo disse ad alta voce: «Mangiare? Servire?».
«Sono coriacei e indigesti. Dovremo essere cortesi con loro e rifocillarli. Soprattutto qui
nella fortezza. Voi dovrete anche evitare di raccontare loro brutte storie. Altrimenti, dopo il loro
ritorno in patria, potrebbero lamentarsi di noi. E noi non vogliamo certo che a Roma si parli male di
noi.»
Qua e là qualcuno rise. Altri uomini fissarono Letilio con espressione di indifferenza, di
disprezzo o di ostilità.
«I romani possono entrare nella fortezza?» domandò qualcuno nella coda.
«Naturalmente» rispose Bomilcare ad alta voce. «Affinché sappiano che qui non riusciranno
a ottenere niente.
Neppure del buon cibo. Oppure oggi è migliore del solito?»
«In onore degli ospiti» disse ad alta voce un gigantesco responsabile della cucina «oggi ci
sono le lenticchie. E carne tritata, di romani morti. I romani infatti non sono tutti conigli?»
Uno degli illiri si era alzato in piedi. Estrasse dal cinturone un coltello lungo e lo piantò nel
piano del tavolo, dove rimase conficcato a vibrare. Con l’altra mano afferrò il suo bicchiere di latta.
«Ehi, romano» esclamò «tu bere alla regina, con noi.»
Bomilcare si guardò intorno, individuò tre dei suoi uomini e fece loro un cenno. Le guardie
si avvicinarono senza dare nell’occhio, pronte a intervenire in caso di necessità. A differenza della
maggior parte dei soldati, erano armate.
Letilio sospirò piano e si avvicinò a piccoli passi al tavolo degli illiri. «La vostra regina?»
chiese il romano dopo aver raggiunto il tavolo.
«Teuta, dove voi iniziare guerra.»
Non c’era certo da stupirsi, si disse Bomilcare, che anche quella notizia si fosse già sparsa
ovunque.
Letilio si piegò in avanti e indicò un bicchiere che si trovava sul tavolo. Un ibero annuì e lo
spinse verso di lui.
«Abbiamo bisogno di buoni nemici» disse Letilio sollevando il bicchiere. «Senza buoni
nemici, non possiamo diventare forti. Per questo beviamo pure. Alla vostra reginaTeuta e ai suoi
valorosi soldati. Questi renderanno forte Roma e noi li onoreremo. E al miglior nemico che Roma
abbia mai avuto; un uomo insieme al quale ho potuto bere il vino un anno fa. Alla gloria e alla
memoria di Amilcare Barca.»
Il romano bevve. L’illiro sogghignò apertamente e vuotò il suo bicchiere. Da ogni angolo
giunsero mormorii di approvazione; molti uomini bevvero a loro volta e alcuni si avvicinarono al
tavolo per dare una pacca sulle spalle di Letilio.
«Bel discorso» disse il responsabile della cucina con voce tonante. «In cambio avrai una
porzione particolarmente abbondante di carne tritata. Vieni qui, piccolo romano.»
Ci volle ancora un po‘“di tempo prima che potessero sedersi e mangiare. All’inizio lo fecero
in silenzio, dal momento che intorno a loro c’erano ancora alcune persone che discutevano oppure
facevano osservazioni. Quando finalmente non ci fu più nessuno che potesse ascoltarli, Letilio posò
il cucchiaio di legno sulla montagna di lenticchie ancora quasi intatta e disse a bassa voce: «Era
proprio necessario?».
Bomilcare finì di deglutire un boccone di carne, lenticchie e del misterioso intingolo con un
sorso del suo bicchiere che conteneva birra tiepida allungata. «Assolutamente» disse poi.
«In casi simili è meglio rispondere prima che qualcuno faccia domande. Inoltre c’erano miei
uomini a sufficienza nelle vicinanze.»
«E se avessi detto qualcosa di sbagliato?»
«Tu sei un buon nemico. Ero fiducioso che avresti detto la cosa giusta.»
Letilio aggrottò la fronte e riprese a mangiare.
«Per quanto tempo vi fermerete qui?»
«Non lo so. Quattro, cinque giorni. Il tempo necessario.»
«E poi?»
«Alessandria.»
Bomilcare si prese un momento per mandare giù la notizia, insieme al cibo. «Avete
questioni importanti da trattare con Tolomeo?»
«Io sono soltanto un semplice uomo della scorta» rispose Letilio con un sorriso. «Le persone
importanti non mi dicono in anticipo quello che hanno intenzione di fare. Ma dimmi tu qualcosa.»
«Che cosa vuoi sapere?»
«Due cose. La prima: che cosa farà il Consiglio dopo la notizia proveniente dall’Iberia? E la
seconda: in quali strane faccende sei coinvolto, da dover rivoltare giardini abbandonati?»
«È una storia piuttosto lunga. Per quanto riguarda la prima domanda… immagino che oggi,
poco prima del tramonto del sole, terranno una cerimonia funebre nell’agorà.»
«Soltanto lì o anche in un tempio?»
«Probabilmente, nei prossimi giorni, si terranno cerimonie particolari nella maggior parte
dei templi. E questa sera parteciperanno sicuramente i sommi sacerdoti più importanti. Ma perché
me lo domandi? Vuoi assistere?»
«Non ho mai visto una cosa simile.»
Bomilcare sospirò. «Terranno i soliti discorsi. Un grande uomo, i suoi servigi, una perdita
irreparabile e cose del genere. Probabilmente sacrificheranno un agnello innocente. Di solito in
simili cerimonie parlano i suffeti; temo però che Annone non perderà l’occasione per dire
qualcosa.»
«Che tu vorresti risparmiare alle tue orecchie sensibili?
Riesco quasi a comprenderti. Ma che cos’è questa storia del giardino?»
Bomilcare impiegò un bel po‘“di tempo a raccontargliela mentre mangiavano. Quando
ebbero vuotato i loro piatti, era arrivato allo stato attuale delle cose.
«È sorprendente.» Letilio si asciugò la bocca con il dorso della mano, incrociò le braccia e le
appoggiò sul tavolo.
«Tutto, intendo dire. Questi numidi, il comportamento dei membri del Consiglio, il giudice.
Senza dimenticare Annone.»
Scosse il capo. «La spada di Kart Hadasht…»
Quando, come al solito, il romano pronunciò una kappa sonora al posto del corretto k
profondamente gutturale, Bomilcare rinunciò a correggerlo. «Non credo» disse «che ci sia molto da
trovare nel giardino. Né che le guardie trovino questa spada al porto o in qualche carovana.»
«Chiunque ce l’abbia, basta solo che la porti tranquillamente alla cintura per nasconderla.
Forse qualcuno l’ha infilata sotto mille altre spade qui nella fortezza, in un deposito di armi.»
Bomilcare annuì. «Una spada antica con una pietra blu nell’impugnatura… che poi in realtà
per noi non ha una grande importanza.»
«E allora per chi? Per i numidi?»
«Come simbolo. Se i massili o i massesili la possedessero, potrebbero dire che il predominio
punico è terminato. Il che , non modificherebbe assolutamente i rapporti di forza. Non appena
saremo deboli, si metteranno contro di noi… spada o non spada.»
«Quanto tempo è passato dall’ultima rivolta dei numidi?»
«Hai ragione. Quattro anni… non è molto.»
«E se la spada finisse tra le mani dei romani?» disse Letilio sorridendo.
«Dovreste costringere i numidi all’obbedienza esattamente come noi. Oppure comprare la
loro obbedienza.»
Bomilcare si alzò in piedi. «Vieni, andiamo. Ho da fare.»
«Per quanto tempo?»
«Forse un’ora, forse un po‘“di più. Perché?»
«E poi di nuovo al giardino?»
«Probabilmente sì. Se non capita nulla di più urgente.» ; «Allora mi piacerebbe venire con
te. E, nel frattempo…»
Letilio tracciò un cerchio in aria con il dito.
«Ah. Vuoi dare ancora un’occhiata al muro dell’istmo?»
«Rinnovare un’antica conoscenza.»
Bomilcare si guardò intorno fino a che non vide una delle sue guardie; l’uomo, un punico,
era evidentemente sul punto di andarsene. Lo chiamò.
«Se non hai niente altro da fare» gli disse «potresti scortare il romano?»
«Ai tuoi ordini, capo!»
«La fortezza, forse un’occhiata al grande mercato fuori dalla porta e quindi, tra un’ora, al
posto di guardia.»
La guardia esitò, spostando lo sguardo alternativamente da Bomilcare a Letilio. «Ma può
entrare? Un romano nella fortezza?»
«L’ha già vista l’anno scorso, con il permesso del Consiglio.»
Quando Bomilcare giunse alla Via Grande, dovette attendere per alcuni battiti di ciglia. Un
gruppo di saltimbanchi e di musici stava attraversando la città con carri e animali.
C’erano alcuni cammelli, un leone e un orso in gabbie su ruote, due struzzi dallo sguardo al
contempo altezzoso e corrucciato, e due o tre uomini che portavano grandi serpenti intorno al collo
e alle spalle. Su un carro erano seduti una donna con un flauto doppio, un suonatore di tamburo e un
citaredo, che accompagnavano il corteo con suoni acuti. Accanto al carro alcune ballerine
procedevano ancheggiando e muovendosi a tempo e, accanto a un uomo molto alto, che indossava
un mantello nero come la notte e una maschera da commediante, camminava un mangiatore di
spade. Questi naturalmente, mentre camminava, si limitava ad accennare al suo repertorio, ma
riportò di nuovo i pensieri di Bomilcare ai misteri di cui si doveva occupare.
Mentre, seduto alla sua scrivania, si affannava tra notizie e rapporti da leggere e da redigere,
con la mente faceva spuntare spade sacre negli angoli più nascosti della città: nell’esofago di un
mangiatore di coltelli, nell’otre di pelle di capra di un venditore d’acqua, in mezzo a un mucchio di
rottami sul carro a mano di un raccoglitore di metallo vecchio, nel bagaglio di un fabbro ambulante.
Nascondeva spade in case e giardini, facendone il piolo di una spalliera ricoperta dalla vite, il
puntello di un muro di mattoni d’argilla, o immaginandole così, senza motivo, dentro un’anfora,
all’interno di una statua cava di qualche divinità, in mezzo alle travi del tetto di un tempio. Si mise a
ridere tra sé al pensiero di trasformare la spada in un attizzatoio e di abbandonarlo in mezzo alla
sporcizia, sotto il focolare della cucina di un’osteria, oppure di usarla, così com’era, per rafforzare il
letto traballante di una prostituta di lusso; una tristezza cupa e vaga si insinuò dentro di lui quando
la portò in Iberia e la depose nel mausoleo funebre del più grande di tutti i punici. Ma Amilcare era
caduto da qualche parte nell’entroterra del paese; chissà se era stato possibile seppellire il cadavere
nel modo dovuto?
Forse aveva davvero ragione Letilio, forse la spada era finita in uno dei depositi di armi
della grande fortezza. Dove nel frattempo si aggirava il romano… per ritrovarla? Per riferire alla
sua gente che Qart Hadasht era inespugnabile?
Dall’esterno… e anche dall’interno? Anziché occuparsi di pezzi di papiro e tavolette di cera
scarabocchiate, avrebbe potuto visitare la fortezza nel suo interno e all’esterno insieme a Letilio,
passeggiare, discutere del più e del meno, magari accertarsi che la città fosse al sicuro. O forse
accorgersi che non lo era?
La città su cui vigilava Bomilcare era stata paragonata a una nave ancorata lungo la costa,
che poteva essere minacciata soltanto dalla terraferma. Questa fascia di terra era l’istmo, largo poco
più di cinquemila passi, tra il Lago diTynes a sud e la baia poco profonda a nordovest. A nord vi
erano i passaggi verso la zona collinare della Megara, con i suoi campi, i boschetti e le case dei
ricchi; sulle sponde del Lago di Tynes, nel punto in cui il muro meridionale era collegato al muro
dell’istmo tramite un sistema di torri, baluardi e antemurali, c’era la Porta di Tynes. Da qui la Via
Grande, attraverso le fortificazioni, i ponti e i fossati, conduceva fino alla zona del mercato e ai
sobborghi. Dalla sua postazione, Bomilcare poteva sentire continuamente i passi di uomini e
animali, il cigolio delle ruote, l’intrico delle voci e lo scricchiolio dei carri.
Il resto dell’istmo era difeso dalle mura più imponenti del mondo conosciuto. Là Agatocle
aveva fallito ottant’anni prima e si diceva che perfino gli eserciti di Alessandro vi si sarebbero
dissanguati, ma per loro fortuna il grande macedone era morto a Babilonia, prima di poter iniziare la
spedizione militare verso occidente. Nella grande guerra i romani non avevano neppure tentato di
attaccarle; nella guerra contro i mercenari, tutti i loro tentativi di assedio erano falliti.
In caso di necessità il fossato esterno, largo ventidue passi e profondo al centro come cinque
uomini, poteva essere inondato rapidamente, abbattendo i sottili argini sulla baia settentrionale e sul
Lago di Tynes. Nel fossato, inoltre, erano conficcati giavellotti, falci, uncini e punte. Seguivano un
piano inclinato, difeso da spuntoni di ferro ravvicinati, e il primo muro, alto come due uomini e
spesso sette passi. Dietro questo, un altro fossato, con una foresta di giavellotti disposti
verticalmente, un nuovo piano inclinato armato e il secondo muro, alto come cinque uomini e
spesso sette passi, con un parapetto e una serie di feritoie per arcieri e frombolieri. Anche l’ultimo
fossato, il più interno, poteva venire inondato, e poi c’era ancora il Vallo Grande: alto come otto
uomini, spesso quindici passi, aveva punte di ferro rivolte verso il basso sul bordo del parapetto e
pietre appuntite, schegge di metallo e cocci di vetro nell’intonaco; torri a quattro piani a intervalli di
ottanta passi; catapulte, calderoni per la pece, piramidi di cunei di pietra, depositi pieni di armi e
casse ricolme di frammenti di metallo.
Dove terminava la triplice fortificazione inespugnabile, iniziava il muro marittimo, che si
dirigeva dapprima verso nord e poi, sempre seguendo la costa, verso est. Fino a che le navi da
guerra puniche dominavano il mare, sarebbe stato inattacabile; si estendeva da Capo Kamart a
nordovest fino al porto, passando per Capo Qart Hadasht a nordest. La lingua di terra tra il mare e il
Lago di Tynes a sud, occupata da officine, cantieri, magazzini e orti, era troppo stretta per un
esercito assediante.
Però. C’era un grande però. Venticinque anni prima, le legioni di Regolo erano state
sconfitte molto più a est dallo spartano Xanthippos e dai cavalieri comandati dal giovane Amilcare,
che allora non si chiamava ancora Barca. E, otto anni prima, era stato di nuovo Amilcare a riportare
la vittoria decisiva che pose fine all’orribile carneficina della guerra contro i mercenari. Quanto era
inespugnabile il muro, quanto era effettivamente sicura la città senza uno come Amilcare? Chi
avrebbe potuto prendere il suo posto? Un muro poteva resistere se non era presidiato dagli uomini
giusti?
E la città avrebbe potuto sopravvivere a lungo senza l’entroterra, il lavoro dei contadini libi,
la forza militare dei cavalieri numidi? Che cosa sarebbe accaduto se un principe dei massili o dei
massesili rispettoso degli dèi e degli oracoli si fosse trovato tra le mani quella spada dalla quale si
diceva che dipendesse il predominio dei cananei?
Se allora avesse deciso di non mettere più a disposizione della città, in cambio di argento o
di oro, i suoi cavalieri, di richiamarli anche dall’Iberia e di attaccare… ah no, non avrebbe attaccato
le mura, non si sarebbe dissanguato contro le fortificazioni, ma avrebbe potuto devastare
l’entroterra, tagliare fuori la città da tutto, fino a che le fossero restati soltanto le navi e il mare.
Perché gli altri membri del Consiglio non avevano cercato di trattenere l’omicida Zabugu, di
strappargli la spada dalle mani? Perché Bomilcare aveva quasi dovuto costringere il giudice e il
suffeta affinché gli permettessero di occuparsi della questione? E i membri del Consiglio!?
Perché…
«Capo?»
Bomilcare alzò gli occhi dalle tavolette che aveva smesso di guardare già da molto tempo.
Nell’ingresso c’era una delle guardie che stazionavano nella piccola piazza davanti alla loro
postazione.
«Che cosa c’è?»
«C’è un mendicante che vuole assolutamente parlare con te.»
«Che cosa c’entro io con i mendicanti?»
La guardia alzò le spalle. «Dice di avere comunicazioni importanti per te.»
Bomilcare borbottò piano. «E va bene, mandamelo dentro» disse alla fine.
L’uomo che la guardia spinse nella stanza era tutto lacero e sporco. Avvolto intorno alla
testa aveva un panno lurido, una specie di strofinaccio, una punta del quale gli penzolava
sull’occhio destro. Gli stracci del colore della terra che lo ricoprivano, un tempo potevano essere
stati una tunica bianca; il suo volto era ricoperto di polvere e di fango, i piedi callosi erano quasi
neri.
«Che cosa vuoi?» gli domandò Bomilcare.
Il mendicante si avvicinò al tavolo, si piegò in avanti e disse con voce roca, udibile a stento:
«Un dono gentile, signore, in cambio di alcune notizie».
«Fammi sentire le notizie e poi deciderò la gentilezza del mio dono.»
«Bene» sussurrò l’uomo. «Neanche quelli là fuori mi hanno riconosciuto, capo» disse con
un cenno d’intesa.
Bomilcare strinse gli occhi. C’era qualcosa di familiare in quel volto. Quando finalmente lo
riconobbe e fece per aprire la bocca e pronunciare il suo nome, il presunto mendicante si portò un
dito alle labbra.
«Barako» mormorò Bomilcare. Era la guardia che l’aveva accompagnato e aveva guidato il
carro… quando era stato, ieri? «A che scopo il travestimento?» Poi scosse il capo, inspirò attraverso
gli incisivi e indicò uno sgabello. «Siediti. Ma perché te ne vai in giro così?»
Barako si sedette sullo sgabello. «Ho tenuto le orecchie bene aperte» disse. «Visto che oggi
sono di turno nell’ultima ronda…»
«Non ti devi scusare con me per aver fatto più del tuo dovere. Che cosa hai cercato e che
cosa hai scoperto?»
«Non voglio annoiarti con i dettagli. Ho gironzolato per il mercato fuori dalle mura» disse
indicando vagamente verso ovest con un movimento all’indietro della nuca «e sono andato in cerca
di numidi.»
«Là ce ne sono alcuni. E allora?»
«A nord, tra la strada per Ityke e la costa…»
«Dove pascolano gli animali della fortezza?»
«Sì, dietro i pascoli ci sono orti e coltivazioni. E alcune osterie. Una di queste appartiene a
un numida che alleva le api. Rifornisce il mercato di miele e cera. Da lui qualche volta, a quel che si
dice, si ritrovano i numidi della guarnigione.»
Bomilcare pensò ai numidi morti. Alle api. E ai segni che, secondo Artemidoros, avrebbero
potuto essere punture d’insetti. «Come si chiama quell’uomo?»
Barako sorrise. «Non lo sa nessuno. Si fa chiamare Dabar.»
«Le api? Che bello… stai a sentire. Hai lavorato bene; non lo dimenticherò. Non so come
andrà a finire tutto questo, ma dovresti essere prudente.»
Barako strinse gli occhi. «Nei confronti di chi?»
«Non ne parlare. Tranne che con me e con Autolykos.»
«Mutumbal? Achiqar?»
«Per il momento no. Se tu… ah, conosci l’officina dei carri?»
«Nel vicolo dei facchini? Naturalmente.»
«Se non mi riesci a trovare, parla laggiù con Duush o Zililsan. Nei prossimi giorni non
svolgerai alcun servizio ordinario.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Continua a fare il mendicante. Ti cancello dai turni. E…
fai attenzione!»
Barako annuì. «Grazie, capo.»
«E per che cosa? Per averti messo in pericolo?»
«Per la fiducia.» Barako sorrise. «Però ho ancora qualcosa per te.» ;
«Parla.»
«Sul mercato.» Si schiarì la voce. «Non cercavi informazioni su Bodashtart il Verde? Quello
che commercia con le verdure. Controlla il commercio.»
«Sì, e allora?»
«Ho ascoltato i discorsi di alcuni dei suoi uomini, là fuori.
Non è risultato molto di interessante.»
Barako fece una pausa, come se dovesse cercare le parole o i ricordi.
«Non molto?» disse Bomilcare. «Ma forse qualcosa?»
«Molto poco, e non so se sia utile. C’erano alcuni numidi, dell’osteria di Dabar. A comprare.
Hanno parlato di un altro Bodashtart e del fatto che anche quello viene chiamato” ilVerde”.»
«Due Bodashtart verdi?» Bomilcare incrociò le braccia davanti al petto. «Ah. E chi è il
secondo?»
«Si dice che sia uno di quelli che vuole essere eletto in Consiglio per i Nuovi.»
Bomilcare tacque per un istante. «Credo» disse piano alla fine «che d’ora in poi dovresti
ricevere un aumento della paga.»
Prima che Letilio arrivasse, Bomilcare era riuscito a sbrigare la maggior parte del lavoro
urgente. Autolykos e gli altri attendenti si erano occupati al posto suo dei turni di servizio e “di altre
questioni secondarie, in modo che lui potesse dedicarsi agli ordinari disordini. Incidenti nel mercato
davanti alla porta e in quelli dei diversi quartieri, i soliti alterchi per via delle merci e del denaro.
Nel quartiere intorno alle sponde del Lago diTynes, abitato soprattutto da meteci e da altri stranieri,
quella sera si sarebbe dovuto svolgere un corteo funebre per Amilcare e bisognava inviare alcune
guardie a sorvegliarlo. Nel teatro dello stesso quartiere era prevista un’altra cerimonia funebre, già
autorizzata dal Consiglio, con musica, recitazione di inni antichi ed esibizione di alcuni poeti con
versi nuovi per il ritorno in patria del grande uomo: anche laggiù le guardie avrebbero dovuto
occuparsi dell’ordine. I proprietari della pista da corsa lungo le sponde del lago volevano
organizzare gare di cavalli, cammelli ed elefanti per il giorno dopo; una parte delle cifre perdute
dagli scommettitori avrebbe dovuto essere utilizzata per costruire un monumento… ma innanzitutto
le guardie avrebbero dovuto controllare l’andamento ordinato delle corse.
Inoltre c’erano le solite comunicazioni riguardo a furti e atti violenti. Un armaiolo
denunciava la scomparsa di alcune punte di giavellotto e sembrava che alcuni cavalli fossero stati
rubati nei pascoli della fortezza. Bomilcare scrisse su una tavoletta di cera un ordine per il
comandante della fortezza: «Occupatevene direttamente voi». Nel porto c’era stata una zuffa tra
marinai punici e cretesi, durante la quale era stata danneggiata la proprietà di un oste che chiedeva il
riconoscimento dei danni subiti. Un pescatore, un pescatore d’acqua dolce che operava con la sua
canoa nel Lago diTynes, durante una lite aveva colpito un suo collega che, cadendo, si era rotto
l’osso del collo, e il giudice competente richiedeva informazioni dettagliate. C’erano state un paio
di effrazioni e alcune rapine ai danni di mercanti: nulla che non accadesse tutti i giorni.
L’unica novità divertente era la denuncia presentata da un tempio a ovest del quartiere dei
meteci: un vicino possedeva due camelopardi, animali rari provenienti dal sud con il collo lungo
come due uomini; sembrava che questi mostri avessero divorato tutte le chiome degli alberi del
boschetto sacro adiacente.
Bomilcare avvertiva una certa preoccupazione. Aveva la sensazione di aver tralasciato
qualcosa di banale. Tempio.
Sacerdoti. Sommi sacerdoti. Annone. Sommo sacerdote di Melqart. Abdosir, sacerdote di
Eshmun e membro del Consiglio.
Membri del Consiglio. Continuava a masticare la punta del suo calamo.
Membri del Consiglio e giudici. Candidati alle elezioni per il Consiglio. Cento ne uscivano o
volevano essere rieletti, alcuni vi entravano per la prima volta. Il secondo Bodashtart il Verde. Lo
sgradevole Bodbal con il suo vestito giallo. E
alcuni membri del Consiglio erano al contempo giudici.
Appartenevano al corpo dei Cento e forse volevano entrare a far parte di quello più eminente
dei Centoquattro. Che cosa aveva in mente Tybon? Aspirava alla rielezione? Puntava a una carica
più elevata? Da dove veniva? Un’altra lacuna: Abdosir, Abdshamash, Jehaumilk e Bodtinnit, a
quale partito appartenevano? Vecchi, grassi e ricchi, erano soltanto membri del Consiglio, oppure
uno di loro faceva addirittura parte dei Trenta, degli Anziani? Abdosir era stato giudice: uno dei
Cento? Uno dei Centoquattro? E ancora una cosa: di solito, a quel che sapeva, i giudici si
distribuivano tra loro i casi importanti al termine di lunghe discussioni. Chi aveva stabilito, nel giro
di una giornata, anzi meno, che Tybon si sarebbe occupato di Abdosir e di Zabugu? A chi avrebbe
potuto domandarlo?
Mentre ci rifletteva, si mise a scarabocchiare con il calamo tutto masticato su un pezzetto di
papiro strappato, riempiendolo di omini e di camelopardi quattro volte più grandi.
Gli venne in mente Annibale, lo scrivano del giudice Budun, con cui aveva avuto più volte a
che fare l’anno prima.
Avrebbe potuto rivolgersi a lui?
Un’altra cosa. Prese un nuovo calamo, un foglio di papiro pulito e scrisse al comandante
della fortezza, Giskon. Poi si disse che sarebbe stato meglio parlare a quattr’occhi con lui; ma che
non avrebbe avuto tempo di farlo prima dell’indomani.
Aveva appena arrotolato e sigillato la lettera, quando arrivò Letilio. Bomilcare diede
un’ultima scorsa alle istruzioni che aveva lasciato per Autolykos: rafforzare certe postazioni,
distribuire altre guardie in modo diverso, mandare qualcuno a interrogare i pescatori sulle sponde
del lago. Diede la lettera a una delle guardie che erano di turno in quel momento e se ne stavano
accovacciate all’ombra della piazza.
«Consegnala al comandante della fortezza. Se lui non c’è, fai in modo che la lettera giunga
sul suo tavolo senza essere aperta. Vieni, torniamo di nuovo al giardino.»
Lungo la strada Letilio gli descrisse l’abbondanza di merci sul mercato e il cattivo stato dei
fossati tra i tre muri. «Prima che vi assediamo, dovete strappare un bel po‘“di erbacce, altrimenti
non sarà divertente.»
Bomilcare rise. Poi, all’improvviso, gli venne in mente di fare una piccola deviazione.
«Avrei qualcos’altro di divertente per te. Un’erbaccia gigantesca.»
«Quindi non commestibile?»
«Non lo so; però immagino che sia difficile prepararla.»
Bomilcare ordinò al conducente di svoltare dalla Via Grande in direzione sud.
Il tempio di Dagon si trovava sul limitare del quartiere dei meteci, dove una strada
conduceva da una piazzetta fino al muro e alle sponde del lago. Bomilcare e Letilio saltarono giù
dal carro ed entrarono nel tempio. Il sacerdote che aveva scritto la lettera di denuncia non era
presente, c’era soltanto un vecchio servitore del tempio che, con un grande pennello, riverniciava di
rosso il piede di una colonna tutto sbiadito.
«I mostri?» belò ridendo. «Vieni, signore, te li voglio far vedere.»
Lo seguirono nel boschetto davanti al lato meridionale del tempio, dove c’erano cespugli
bassi, alberi da frutta, un orto per le verdure («siamo un tempio piccolo e povero di un dio piccolo e
povero, ma di tanto in tanto dobbiamo mangiare anche noi») e, alle sue spalle, un intrico confuso
formato da alcune palme, cipressi e latifoglie provenienti dall’Iberia o da altre località ancora più a
nord. Le loro chiome erano per la maggior parte spoglie, tutte mangiate. Oltre un muro di mattoni
alto come un uomo sporgeva qualcosa che inizialmente Bomilcare scambiò per il corpo maculato di
un immenso serpente. La strana testa con le orecchie mobili e i cornetti mozzati rovistava tra i rami
più alti, dove ormai erano rimaste ben poche foglie.
«Pensavo che fossero due» disse Bomilcare.
«Che razza di animale è?» disse Letilio. «O si tratta di una nuova divinità?»
«Il secondo starà ruminando o si stara facendo un sonno ristoratore.» Il servitore gettò il
capo all’indietro e guardò in alto. «Ma non credo che servirà a renderlo meno brutto.»
«Quest’animale si chiama camelopardo» disse Bomilcare.
«Perché ha il tronco grande come quello di un cammello senza la gobba e maculato come
quello di un leopardo. Alcuni lo chiamano anche semplicemente collolungo. Proviene dalle steppe
del profondo sud della Libia. E si ciba di foglie. Il sacerdote ha protestato per questo.»
«Perché? Vuole mangiare lui le foglie?»
Il servitore fece una smorfia. «Questi alberi sono rari. Più di cento anni fa, li ha portati con
sé un viaggiatore da un paese a nord di Massalia, quando erano ancora molto piccoli. Li ha donati al
dio, per ringraziarlo di un buon raccolto di grano. Per questo gli alberi appartengono a Dagon e
quindi sono sacri.»
«Da quanto tempo sono qui questi animali?»
«Dall’inizio della primavera.»
Letilio fece schioccare piano la lingua. «Ma perché, per tutti gli dèi, qualcuno tiene simili
mostri? E per di più all’interno della città?»
«La casa… bè, insomma, quella stalla abitabile accanto appartiene a una donna molto
chiara» disse il servitore. «Forse ha bisogno dello sterco o dell’urina di animali rari per sbiancarsi la
pelle.» »
«Sai come si chiama?» chiese Bomilcare.
«Tigalit.» ,:-:
«Non può essere!» esclamò Letilio sogghignando.
«La principessa dei bassifondi?» chiese Bomilcare.
Il servitore annuì. «La chiamano anche la Grande Crisalide, per via della mole e del suo
colore. Ma non abita lì.»
«Lo so dove abita; parlerò con lei. Dillo al sacerdote.»
Ritornarono al carro e Bomilcare ordinò al conducente di prendere la via più veloce per
arrivare al giardino abbandonato.
Letilio continuava a sogghignare. «Tigalit» mormorò con il vento in faccia. «Che cosa fa
adesso?»
L’anno prima avevano avuto più volte a che fare con quella donna gigantesca. Era alta e la
sua pelle era bianca, ma non aveva gli occhi rossi e nel suo corpo immenso non c’era un filo di
grasso. Era stata la compagna di un principe dei bassifondi malato, ne aveva amministrato le
molteplici attività e, dopo la sua morte, le aveva proseguite.
«Sempre le stesse cose» rispose Bomilcare. «Per quanto ne so: non l’ho mai più vista da
allora.»
«Ma che cosa se ne vuole fare di questi animali?»
«Ingrassarli? Scommettere su di loro alle corse?
Accarezzarli e farli danzare in modo leggiadro?»
«Potrebbe essere capace di tutto. A proposito… come sta Daniel?»
«Non so se continua a spassarsela in mezzo alle sue cosce, quando è in città. Immagino che,
prima o poi, salterà fuori. L’eredità…»
«Ritieni che lo sappia già?»
Bomilcare alzò le spalle. «I terreni di Amilcare sono molto lontani, ma forse hanno mandato
un’ambasceria speciale dall’Iberia; in qualità di amministratore, Daniel sarà sicuramente al
corrente. Probabilmente arriverà qui presto per discutere sul da farsi con i padroni della banca.»
Letilio rimase in silenzio a osservare le case e le persone.
Bomilcare immaginò che pensasse al figlio maggiore di Amilcare, Annibale, che il romano
ammirava e che adesso avrebbe dovuto gestire e amministrare l’eredità paterna.
«Ho ancora da fare qui» disse Bomilcare quando giunsero al giardino. «Vuoi restare con me
a sarchiare? Oppure preferisci raggiungere i tuoi?»
«Raggiungo i miei.» Letilio si grattò la testa. «Non so se hanno bisogno di me, ma dovrei
farmi vedere.»
«Portalo all’agorà. Poi ritorna alla fortezza; oggi non ho più bisogno di te.» ,
«Sissignore» disse il conducente.
Bomilcare saltò giù dal carro. «Se domattina presto non hai niente da fare… per prima cosa
mi tratterò un po’ all’officina dei carri.»
«Immagino che ci vedremo laggiù» disse Letilio portandosi per un istante la mano al petto.
Il carpentiere della fortezza aveva fatto aprire una piccola porta nel muro; dopo di che era
scomparso insieme ai suoi schiavi manovali, lasciando il resto del lavoro alle guardie e agli schiavi
della città ai loro ordini. Accanto alla breccia c’erano i mattoni vecchi, impilati ordinatamente in
attesa di essere risistemati, e dal giardino si elevavano verso il cielo pomeridiano tre sottili colonne
di fumo, provenienti dai fuochi in cui venivano bruciati rami e cespugli.
Bomilcare si cacciò due dita in bocca e fischiò. Al centro del quadrilatero che ora mostrava
con chiarezza la struttura muraria, la testa di Achiqar sembrava emergere dal terreno.
«Vieni subito, capo!»
Gli schiavi alzarono a loro volta la testa e poi si rimisero al lavoro. Achiqar uscì dal buco in
cui si era infilato; mentre si avvicinava a Bomilcare, si guardava a destra e a sinistra, impartiva
ordini e, forse, faceva anche qualche rimprovero.
Bomilcare diede uno sguardo d’insieme al giardino, il cui caos precedente era stato
assoggettato a un nuovo ordine. Un ordine che trovava noioso. Gli alberi alti, fino a poco tempo
prima circondati dagli arbusti, sembravano rabbrividire in mezzo a tutta quella solitudine; delle
siepi e dei cespugli in cui si era sentito annegare come in mezzo alle onde di un mare in tempesta,
erano rimasti soltanto brevi monconi.
“Annone sarà contento” pensò Bomilcare “sempre che venga a saperlo. Ma per quale motivo
mi devo preoccupare che Annone sia contento?”
Fin dall’inizio aveva ritenuto improbabile che qualcuno potesse nascondere una spada in
quel giardino; e, anche in quel caso, come fare a trovarla? Ora era praticamente certo che non si
sarebbe trovato niente. E che bisognava interrompere le ricerche.
«Allora, avete trovato qualcosa?» domandò quando Achiqar usc? dalla porta provvisoria.
«Qualcosa. Ma non quello che cercavamo» rispose Achiqar indicando alle sue spalle con il
pollice della mano destra.
«Una volta, tanto tempo fa, su questa terrazza doveva sorgere un tempietto. O comunque un
piccolo edificio. Si vedono ancora i resti dei muri e ci sono mattoni e assi marce sparse
dappertutto.»
«Tutto qui?»
«Quasi.» Achiqar cercava di ripulirsi le mani incrostate di fango e di erbacce, strofinandole
l’una contro l’altra. «Per qualcuno potrà essere eccitante venire a sapere che, in questo basamento,
c’è un passaggio sotterraneo che conduce a oriente. Però è stato murato.»
«Da molto tempo?»
«Da moltissimo tempo. Puoi vederlo tu stesso; qui non si è più intrufolato nessuno negli
ultimi cento anni.»
Dalla destra si avvicinarono due uomini che conducevano altrettanti cavalli. Achiqar li
sfiorò con lo sguardo, poi aggrottò la fronte.
«Stavo quasi per dimenticarlo» disse. «Abbiamo trovato alcune monete e la testa di un dio.
Aspetta: te le prendo.»
Achiqar si voltò, si chinò e rovistò dall’altra parte del muro, dove probabilmente c’erano
ancora dei cespugli.
I due uomini con i cavalli si avvicinarono. Il primo si trascinava dietro l’animale, che così si
trovò tra Bomilcare e la porta; il secondo passò dietro Bomilcare.
“Numidi” pensò.”Che cosa…”
Colse con la coda dell’occhio il gesto con cui l’uomo dietro di lui afferrava qualcosa che era
infilato in una sacca o in una faretra appesa al collo del cavallo. Nello stesso tempo l’altro numida
gli si parò davanti passando sotto l’animale, sogghignò mostrando i denti bianchi ed estrasse dal
cinturone un coltello lungo.
Bomilcare si lasciò cadere a terra, rotolò sotto il cavallo e andò a sbattere contro le gambe
del primo uomo, che barcollò all’indietro e lanciò un’imprecazione quando, per via di quel
movimento brusco, perse la lancia che non impugnava ancora saldamente. Bomilcare si rimise in
piedi… appena in tempo per scansare il fendente del secondo numida. L’uomo saltellò sul posto,
continuando a sogghignare, e si protese con il coltello in un allungo rabbioso, diretto al fegato.
Bomilcare piegò il busto verso destra, sentì la lama che gli sfiorava le costole e colpì l’aggressore
con un pugno alla laringe. In mezzo al ronzio del sangue che gli pulsava nelle orecchie, sentì
Achiqar che gli gridava qualcosa, allungò la mano dietro la schiena, brandì il coltello e lo lanciò. La
traiettoria dell’arma si concluse contro il collo dell’altro numida che, colpito, lasciò cadere la lancia
e si accasciò gorgogliando.
L’uomo con il coltello lungo aveva sollevato la mano sinistra verso la gola e l’aveva portata
sul punto che gli doleva al punto da dargli la nausea. Dietro il cavallo comparve Achiqar, con la
testa della statua di un dio tra le mani; si sentirono nuovi richiami e grida, mentre si avvicinavano le
altre guardie.
Achiqar scagliò la testa del dio contro il numida, senza tuttavia colpirlo. L’uomo lasciò
cadere il coltello, allungò un braccio intorno al collo del cavallo che si trovava più vicino a lui e,
con un movimento agile ed elegante, balzò sulla schiena dell’animale. Bomilcare gli lanciò contro
un coltello, ma lo mancò; nel frattempo Achiqar si chinò a raccogliere la lancia.
Prima che potesse scagliarla, cavallo e cavaliere erano ormai troppo lontani per un colpo
sicuro; fece comunque un tentativo, ma l’arma si limitò a sfiorare il posteriore dell’animale.
«Sei ferito, capo?» esclamò la prima delle guardie accorse, indicando la tunica.
Bomilcare si ricordò della carezza della lama fredda e abbassò lo sguardo su di sé. Soltanto
allora, nello scorgere il tessuto strappato e intriso di sangue, avvertì il dolore; chiuse gli occhi,
barcollò leggermente e respirò stringendo i denti.
«Allora, rovistiamo di nuovo tutto da cima a fondo e poi sospendiamo il lavoro?» domandò
Achiqar. «Mi sembra ragionevole, se me lo domandi. Ma prima fatti ricucire.»
Bomilcare si sforzò di sorridere. «Sarà proprio bello. Ci vediamo domani.»
Non avendo la forza per reggersi in piedi, si sedette nel cassone del carro che erano andati a
prendere dalle stalle di servizio e si tenne con la mano destra al bordo del veicolo. La strada per la
fortezza gli parve molto più lunga del solito; in ogni caso ebbe abbastanza tempo per pensare: ai
numidi, alle spade, alle ferite.
Quando Bomilcare entrò a passi lenti nell’infermeria, Artemidoros batté le mani. «Ti hanno
beccato, finalmente?»
domandò. «Era da molto che lo desideravo… esercitare per una volta su di te l’abilità
tecnica per la quale mi stimi tanto.
Stenditi qui. E tu aspetta fuori.»
Il conducente annuì e uscì; Bomilcare non riuscì a vedere se sogghignasse.
«Il tuo kitun non valeva comunque molto, immagino.» Il medico tagliò con un coltello
affilato i brandelli luridi della tunica di Bomilcare, fino a scoprirgli tutto il busto. «Perfetto»
disse poi. «Adesso ti farà un po‘“male; poi ti potrai vendicare raccontandomi che cosa hai
combinato.»
Quando gli palpò e gli premette la cassa toracica, Bomilcare dovette strìngere forte i denti
per non strillare.
«Da un certo punto di vista sono dispiaciuto» disse alla fine Artemidoros. «Le costole sono
tutte sane. Hai perduto sangue e in cambio, forse per la gioia della tua compagna di giochi, ti resterà
una cicatrice bella lunga. Non c’è altro da segnalare. Adesso ti pulirò la ferita, te la ricucirò e te la
benderò.
Potresti raccontare mentre ti cucio, così non gridi.»
Il sole stava tramontando quando il carro giunse nella strada degli incisori di timbri. Davanti
alla bottega di Aspasia c’erano alcune persone; a Bomilcare parve di scorgere Zililsan e Nymar.
«Fermati qui» disse.
Il conducente borbottò qualcosa e ordinò ai cavalli di trottare all’indietro verso la Via
Grande. «Hai ancora bisogno di me, capo?»
«Aspetta qualche istante.»
Si lasciò scivolare con cautela giù dal carro.”È strano camminare così” pensò” senza poter
muovere il braccio sinistro”.
Artemidoros glielo aveva legato al busto, in modo che la ferita ricucita non si aprisse per
movimenti bruschi.
Accanto ai due uomini dell’officina dei carri, c’erano due guardie e alcuni curiosi. E
Aspasia. I gradini che scendevano fino alla sua officina erano tutti ingombri di frammenti di tavoli,
panche e attrezzi rotti; Aspasia teneva in mano un cestino in cui aveva raccolto pezzi di oggetti
preziosi.
«Che cosa è successo?» domandò Bomilcare.
«Sono venuti a trovarmi quattro uomini, tutti punici»
rispose Aspasia con la voce velata e lo sguardo triste. «Hanno fatto tutto a pezzi; hanno detto
che, se continui a cercare spade e numidi e non impari niente dai primi due avvertimenti, moriremo
tutti e due. Che cosa…» Allora si accorse dell’andatura di Bomilcare, del braccio bendato e della
tunica lacera e macchiata di sangue.
«Quando è successo?»
Visto che Aspasia non rispondeva, Zililsan disse: «Da circa mezzora. In due l’hanno tenuta
ferma e l’hanno minacciata, mentre gli altri due hanno fatto a pezzi e calpestato tutto».
Aspasia posò il cestino e si avvicinò a Bomilcare. Indicò le bende e la tunica a brandelli.
«Dunque era questo il primo avvertimento?»
«Piuttosto esplicito.»
«Ah, Bomilcare» esclamò accarezzandogli teneramente la guancia. «E adesso che cosa
facciamo?»
Se Aspasia dormì male, Bomilcare che gli era accanto non ci riuscì quasi del tutto. La ferita
gli doleva al benché minimo movimento; non era un dolore insopportabile, ma non gli permetteva
di dormire, lasciandogli tutto il tempo per pensare: alla canapa, per esempio, e ai suoi effetti
soporiferi; ai numidi che ne facevano uso; alle aggressioni e alle contromosse.
Aspasia aveva detto che gli uomini nella sua officina erano stati punici: anche se avevano
tutti e quattro il volto nascosto da un panno, li aveva riconosciuti come tali dall’abbigliamento, dal
modo di parlare e di muoversi.
In realtà esisteva un’unica soluzione possibile.
Nell’immediato futuro si sarebbe trasferito insieme ad Aspasia nella fortezza. In uno dei
locali di servizio del posto di guardia, per essere più precisi. Bisognava sorvegliare e proteggere
Aspasia per tutto il giorno. L’alternativa, quella di sospendere le indagini, non la prese neppure in
considerazione. Tanto più che, anche in quel caso, entrambi non sarebbero stati affatto al sicuro.
Come avrebbe potuto farlo sapere a coloro che li minacciavano? Quelli probabilmente avevano
deciso che lui ne sapesse già fin troppo.
Troppo, ma non abbastanza. Trascorse le lunghe ore che lo separavano dal mattino,
interrotte soltanto da brevi momenti di una parvenza di sonno, a contare i sospiri di Aspasia e a
meditare sui suoi prossimi passi. Ma i sospiri della compagna addormentata erano più numerosi dei
possibili passi di Bomilcare che vegliava.
Quando Aspasia lo ridestò portandogli una scodella di brodo di verdura, fu alquanto
meravigliato di essersi infine addormentato. E di avere fame. La sera prima non aveva voluto
ingerire quasi nulla.
«Vieni» le disse. «Andiamo a mangiare qualcosa all’osteria. Da lì potremmo osservare
l’ingresso della tua bottega; ci farà stare meglio.»
«Farà stare meglio te, forse.» Aspasia scosse il capo, poi sorrise e gli passò le punte delle
dita tra i capelli.
Mangiarono carne fredda, pane e frutta, bevendoci insieme birra allungata tiepida e
ascoltando i molti consigli oziosi del servitore dell’osteria, che si trattenne a lungo accanto al loro
tavolo sulla terrazza a meditare ad alta voce sull’opportunità di completare la distruzione
dell’officina danneggiata, trasformandone la confusione deprimente in un piacevole caos.
Quando finalmente se ne andò, discussero sul da farsi.
Bomilcare fece alcune delle proposte su cui aveva riflettuto durante la notte. Aspasia però si
rifiutò di importunare per giorni alcuni amici, che in realtà erano dei conoscenti, nei villaggi
dell’entroterra. Voleva rimettere tutto a posto, onorare i vecchi impegni e trovare nuovi clienti.
A un certo punto Bomilcare si grattò la testa e disse: «E se lasciassi anch’io la città?».
«Adesso stiamo parlando di una vacanza per due?»
«Ti piacerebbe di più?»
Aspasia rovesciò gli occhi. «E di che cosa vivremo, se nessuno dei due lavora?»
«D’aria e d’amore» rispose Bomilcare ridendo. «Almeno fino a quando non sarò di nuovo in
grado di muovermi.
Inoltre ho ancora da parte un po‘“della mia paga principesca.»
«Se hai intenzione di usarla per corrompermi, comincia almeno a pagare questa colazione.»
Lentamente, perché Bomilcare avvertiva ancora dolore a ogni movimento brusco, si
diressero verso il vicolo dei facchini. Nell’officina dei carri lavoravano Zililsan, Nymar e altri tre
uomini. Duush e Masgabaz non si erano più visti dal mattino prima e nessuno aveva saputo più
nulla neppure di Barako. Bomilcare e Zililsan discussero a bassa voce nell’angolo più appartato
dell’officina, mentre Aspasia s’intratteneva con gli altri sui segreti della lavorazione dei metalli.
«Nessuna novità a proposito della spada» disse Zililsan.
«E neppure su quel Bodbal. E non sono riuscito ancora ad avvicinarmi agli schiavi dei nobili
signori.»
«Ti viene in mente qualcosa a proposito dei numidi?»
Il libio aggrottò le sopracciglia. «Cavalieri? Domatori di cavalli? Predoni di carovane?»
«Mi rendo conto di aver fatto bene ad affidare l’incarico a Duush.»
Non c’erano novità importanti neppure nei bassifondi della città. Zililsan disse che le cattive
notizie giunte dall’Iberia il giorno prima avevano soffocato quasi tutto, perfino lo spirito d’iniziativa
dei principi dei bassifondi.
«E su Bodashtart il Verde?»
«Nulla, capo.»
D’un tratto comparve Letilio. Salutò Aspasia, fece un cenno agli altri e pregò Bomilcare di
accompagnarlo per alcuni istanti nel vicolo.
Usciti dall’officina, Bomilcare si appoggiò al muro di una casa. Letilio osservò le bende e il
braccio immobile.
«Hai cercato di grattarti con un coltello?»
Mentre guardava i passanti, Bomilcare gli riferì, quasi sussurrando, quello che era accaduto
davanti al giardino abbandonato e nell’officina di Aspasia.
«Evidentemente non ti si può lasciare da solo» disse il romano. «E neppure Aspasia.»
«Si direbbe che tu stia per formulare offerte di aiuto o simili minacce.»
«Dipende da come uno le prende.»
«E come dovrei prenderle?»
«Come una proposta, del tutto sincera.»
«Ti ascolto timoroso.»
«Non hai motivo di temere… bensì di sorprenderti, immagino.» Letilio l’osservò
attentamente, poi ammiccò. «Ho pensato che forse, in questo momento, potessi avere bisogno di
qualcuno che ti guarda le spalle. L’ho pensato prima ancora di sapere del tuo passatempo di ieri.»
«E allora?»
Letilio disse di aver parlato con i nobili signori (i senatori che guidavano l’ambasceria),
pregandoli di esentarlo provvisoriamente dal servizio.
Bomilcare rimase per un momento interdetto, poi disse: «Perché? Soltanto per la bellezza
del mio deretano? E loro che cosa hanno detto?».
«Hanno acconsentito. Ritengono che io sia
assolutamente inutile.»
«Per una volta, sia pure a malincuore, mi trovo in completo accordo con il vostro Senato…
ma voi che cosa vi ripromettete da tutto questo?»
«Nell’ambasceria ci sono diverse persone in grado di sostituirmi. Le indagini complicate
sono molto più avvincenti; inoltre può essere nell’interesse di Roma osservare più da vicino
avvenimenti singolari nel campo del nemico.»
Bomilcare, che non si era ancora ripreso del tutto dal suo stupore, alla fine disse: «E va
bene. Accetto, ma soltanto a una serie di condizioni».
«Quali condizioni?»
«Innanzitutto vorrei essere certo che tu non approfitti delle circostanze per colpirmi alle
spalle.»
Letilio scosse il capo e assunse un’espressione triste. «Mi credi capace di una cosa simile?»
Bomilcare sogghignò. «E, in secondo luogo: se riesco… se riusciamo a ritrovare questa
spada, non cercherai di portarla a Roma.»
«Prometto che, senza il tuo permesso, non mi impadronirò di alcun oggetto né essere
vivente, ma soltanto di informazioni.»
«A questo punto dunque io dovrei dire che accetto la tua offerta con la dovuta riconoscenza,
non è vero?»
«Mi accontento di questo semplice accenno… ma c’è ancora qualcosa di cui discutere» disse
Letilio. «L’anno scorso ero un romano quasi privo di mezzi, affidato alla tua guida…»
«Ah ah.»
«…e ospitalità. Questa volta ho un po‘“più di denaro con me. Vorrei che tu e Aspasia e… sì,
Tazirat? Non so se ne ha voglia… insomma, vi vorrei offrire un buon pranzo.»
«Che cosa intende un romano per buon pranzo?»
«Chicchi di cereali, lasciati a bagno nell’acqua per mezza giornata, con un sorso d’aceto
della fiasca di cuoio.» Letilio sogghignò. «Ma possiamo mangiare anche qualcos’altro.
Scegli pure tu.»
Bomilcare rifletté per alcuni istanti. «È possibile che, oggi o domani, sia necessario un
grande banchetto notturno»
disse alla fine.
«Necessario? Ha l’aria di un lavoro.»
«Potremmo definirla una cena di affari. Nel caso in cui nessun altro sia disposto a pagarla,
dovrò farlo io; naturalmente, in quanto mio collaboratore, potresti partecipare alle spese.
In caso contrario, dovremo rimandare il tuo invito di qualche giorno.»
«Che cosa hai in mente? Chi intendi invitare?»
«Non so quali saranno i prossimi sviluppi. Voglio cercare di mettere insieme diverse cose.»
«Due leoni con un giavellotto? Due pulci con un peto?»
Bomilcare gli diede una pacca sulla spalla. «La tua conoscenza dei modi di dire punici fa
progressi.»
«Quando hai intenzione di mettermi a parte dei tuoi segreti?»
«Più tardi; avremo abbastanza tempo durante il giorno.
Adesso andiamo nell’officina e sbrighiamo prima le questioni urgenti.»
All’interno gli uomini stavano facendo una piccola pausa.
Bevevano attraverso un tubicino da un recipiente che si passavano a turno; ad Aspasia
avevano concesso il privilegio di una piccola brocca e una cannuccia tutte per lei. L’ellena le divise
con Bomilcare, mentre Letilio beveva insieme agli altri.
«Anche se non si può mai sapere quale veleno si nasconda nella bocca di un romano» disse
Nymar.
«Brodo di verdura» disse Letilio «succo di frutta e un po’
di vino? È in grado di neutralizzare tutti i miei veleni. Che buona bevanda mattutina, signori
miei.»
Gli uomini risero. «Signori? Non farti sentire dai nostri nobili» disse uno. «Altrimenti
verremo giustiziati per esserci appropriati indebitamente di una delle loro prerogative.»
Bomilcare prese da parte Zililsan. «Sai dove abita l’incomparabile Tigalit?»
Zililsan annuì come se pregustasse già qualcosa. «Vuoi passare all’attacco?»
«Che genere di attacco?» chiese Aspasia indicando Bomilcare con la cannuccia. «Ti devi
riguardare per qualche giorno, hai sentito?»
«Certamente, o leggiadra tra le leggiadre. Ma per farlo davvero ho bisogno di cure
amorose.»
«Tigalit» disse Zililsan.
«Vai dal suo… no, aspetta. Vai prima al Banco della Sabbia: è lungo la strada. Porgi i miei
saluti al nobile Bostar e digli che vorrei invitarlo a cena, oggi o domani. Meglio domani, ma
dipende da quando ha tempo. Poi vai da Tigalit: lei può liberarsi più facilmente, immagino.»
«Si tratta di una cena o di due?»
«Di una. Alla quale dovrebbero partecipare entrambi.»
«Bene. E dove?»
Bomilcare diede un’occhiata ad Aspasia. «Hai qualche proposta?»
«Magone?» disse lei.
Una parte dei singolari fatti di sangue di cui si erano occupati Bomilcare e Letilio l’anno
passato si era svolta nell’elegante e relativamente cara locanda di un punico di nome Magone. Si
trovava alcuni isolati a occidente dell’agorà, in una zona abitata quasi esclusivamente da cananei
benestanti; tra i suoi clienti abituali, annoverava molti membri del Consiglio e grandi mercanti.
«Va sempre bene» disse Bomilcare «ma non vorrei essere costretto a incontrare di nuovo
mezzo Consiglio.»
Zililsan si schiarì la voce. «Potrei fare una proposta? Tra l’altro non è lontano da qui, quindi
facile da raggiungere per tutti: è un ibero, Tuzillu. Non è particolarmente economico, ma si mangia
molto bene.»
«Dove di preciso?»
«Nel quartiere dei meteci.» Zililsan menzionò alcuni templi e altri edifici nelle cui vicinanze
si trovava l’osteria.
«Bene. Allora, per favore, vedi di convincere Bostar e Tigalit ad accettare l’invito e Tu…
come, Tuzillu? Tuzillu a tenerci il posto.»
«Posto per quanti?»
«Una decina.»
Mentre camminavano verso l’agorà, Bomilcare cercò ancora una volta di convincere
Aspasia a evitare per qualche giorno l’officina, a recarsi da amici in un altro quartiere, in periferia,
in campagna. Aspasia si rifiutò. Fino a che lui fosse rimasto in città, non se ne sarebbe andata
neppure lei.
Alla fine Bomilcare fu costretto ad acconsentire. «A condizione che io ti faccia sorvegliare e
che tu non cerchi di seminare le guardie.»
«Sì, mio signore. E tu» aggiunse rivolta a Letilio «stai attento a lui. Si dovrebbe riguardare.»
«Viviamo in tempi confusi» disse Letilio con un sorriso.
«Un’ellena che prega un romano di stare attento a un punico?»
«Io non prego» disse Aspasia. «Io pretendo. Altrimenti verserò polvere di vetro nella
prossima pietanza che mangerai e resterò a guardare sorridendo mentre muori tra i tormenti.»
Bomilcare si recò al posto di guardia dietro l’agorà e ordinò a due dei suoi uomini di tenere
d’occhio per tutto il giorno la bottega di Aspasia e di proteggere la sua compagna.
Poi entrò nel palazzo del Consiglio insieme al romano.
Dapprima cercò il capo dei Cinque responsabili per la legge e l’ordine, ma nelle sue stanze
c’erano soltanto due scrivani.
Gli dissero che il nobile Balhanno si era recato a una riunione con altri capi dei Nuovi. Dopo
la tragica scomparsa del grande Amilcare, c’erano molte questioni da discutere.
«Sono nella Megara, nella tenuta di Amilcare?»
«È così, signore.»
«Fino a quando?»
«Non lo sappiamo. Domani sera ha appuntamento con un mercante in città; quindi sarà di
ritorno al più tardi per allora.»
Bomilcare si grattò la testa e si sforzò di assumere un’espressione dispiaciuta.
«Che peccato» disse. «Il suffeta Himilko è con loro?»
«Sissignore.»
A Bomilcare toccava dunque affrontare iVecchi: il giudice Tybon e il suffeta Germiskar. Si
trovavano entrambi, come gli disse Yaroah, lo scrivano di Tybon, in riunione con il capo dei Cinque
responsabili per gli affari esteri, Arish.
«Allora dovremo aspettare.» «
Yaroah ammiccò. «Metà della vita non è riempita dall’attesa di qualcosa che, in seguito, si
rivela superfluo se non addirittura dannoso?»
Il locale in cui discutevano i nobili signori dava su un corridoio in fondo al quale, sul
cornicione di una finestra, si sedettero Bomilcare e Letilio.
«Arish, vero?» disse il romano. «È sempre lo stesso di un anno fa?»
«Ridimensionato ed estremamente arrendevole nei confronti di Annone» rispose Bomilcare
ridendo a bassa voce; poi aggiunse: «Ma tu non sai come sono andate a finire le cose».
«Avresti potuto scrivermelo.»
«Avrei potuto anche imparentarmi con la tua famiglia, non è vero?»
«Non rinfocoliamo i vecchi rancori. Allora ho fatto quello che era bene per Roma, senza
danneggiare te.»
Bomilcare annuì. «Hai rinunciato ad ammazzarmi, questo è vero. Però… e va bene, che cosa
vuoi sapere?»
«La fine. Avrai avuto sicuramente un’altra conversazione lunga e cordiale con Annone, non
è vero?»
Mentre attendevano la conclusione della riunione, Bomilcare gli raccontò l’epilogo del caso
complicato.
«Bene» disse Letilio alla fine. «Più o meno come me l’ero immaginato.»
Bomilcare fece una smorfia. «Ascolta, vecchio nemico»
disse. «In qualunque modo vada a finire questa storia, vogliamo metterci d’accordo su una
cosa?»
«Vale a dire?»
«Che ci scriveremo qualche lettera, nel caso in cui uno di noi abbia ancora qualche
domanda?»
Letilio ridacchiò. «Adesso dovrei essere io a imparentarmi con la tua famiglia? E va bene.
Sì, sono d’accordo.»
Bomilcare si lasciò scivolare giù dal cornicione. «Ho sentito qualcosa. Vieni.»
La pesante porta di legno scuro della stanza in cui i nobili signori avevano discusso si aprì
lentamente, quasi controvoglia. Il primo a uscirne fu Arish. Quando passò davanti a loro, trasalì e
s’arrestò.
«Non mi aspettavo di vedervi» disse. «Cercate me?»
Letilio abbozzò un lieve inchino, ma non disse nulla.
Bomilcare guardò oltre Arish, verso Tybon e Germiskar.
«Una conversazione raffinata e amichevole con te, come quella di un anno fa, sarebbe certo
la benvenuta, signore»
disse «ma con mio grande rincrescimento il dovere mi chiama e mi impone di importunare il
suffeta e il giudice.»
Tybon sorrise per un istante, Germiskar strabuzzò gli occhi e Arish rimase impassibile.
«E allora che aspetti, importunali. Ma quando, da tutto quello che state tramando voi due,
verrà fuori qualcosa di tangibile, me lo dovrete riferire. Devo essere informato su tutto quello che
accade tra Roma e Qart Hadasht, anche se avviene a mia insaputa.»
Si voltò e s’incamminò rapidamente lungo il corridoio.
«Ehi» disse Tybon. «Si deve leccare vecchie ferite? E lui chi è?»
«Tito Letilio Mucro. E stato inviato qui da Roma l’anno scorso, quando ci fu da trasportare
per nave un mercante morto, e Arish…»
«Lo sappiamo, lo sappiamo.» Germiskar fece un cenno al romano. «E adesso è venuto
insieme ai senatori? Ah, ecco.
Ma che cosa volete?»
«E che cosa hai fatto al braccio?» chiese Tybon indicando la fasciatura e le bende di
Bomilcare.
«È venuto con me soltanto per soddisfare la sua curiosità»
disse Bomilcare rivolgendo un’occhiata a Letilio, che aveva assunto un’espressione del tutto
impassibile. «Visto che viaggia insieme ai senatori romani, si voleva accertare che i membri del
Consiglio di Qart Hadasht non avessero nulla da invidiare loro quanto a conoscenze e cortesia.»
Tybon fece schioccare rumorosamente la lingua, ma non disse nulla. Germiskar sospirò in
modo quasi impercettibile.
«Non è nostro compito intrattenere gli ufficiali romani»
disse poi. «Vieni al punto.»
Bomilcare chinò il capo. «Ai tuoi ordini, signore. Ieri sera, mentre osservavo l’andamento
dei lavori nel giardino abbandonato, sono stato aggredito da due numidi. Come sapete, i numidi
giocano un certo ruolo negli avvenimenti confusi degli ultimi giorni.»
«L’assassinio di Abdosir?» disse Germiskar. «E che cos’altro?»
Tybon si schiarì la voce. «Te lo spiegherò più tardi.
Aggredito e ferito, presumo?»
«È così, signore. Nei prossimi giorni potrò adempiere solo in parte al mio dovere. Nello
stesso tempo è stata distrutta l’officina della mia compagna, da punici e non da numidi, i quali le
hanno detto che, se non sospendevo le indagini sui numidi e sulla spada, avrebbero ucciso lei e me.»
Germiskar si morse il labbro inferiore. «L’orafa ellena, vero? Uhm…»
«E adesso che cosa intendi fare?» domandò Tybon.
«Chiedere consiglio. Istruzioni. Se non avete ordini diversi, continuerò come ho fatto
finora.»
«A cercare la spada e dare la caccia ai numidi?» Germiskar diede un’occhiata a Tybon. «Tu
che cosa ne pensi?»
Il giudice sorrise, in un modo che a Bomilcare parve fin troppo amichevole. «Sarebbe
opportuno; d’altra parte, non possiamo certo mettere a rischio la tua vita, e neanche quella della tua
consorte… cioè, compagna.»
Germiskar picchiò il rotolo di papiro che teneva nella mano destra contro l’avambraccio
sinistro. «Credo che non sarebbe molto opportuno. Anzi, decisamente idiota. È
Balhanno il responsabile, non è vero? In veste di capo dei Cinque per l’ordine pubblico?»
«Sì. E anche Himilko. Ma nessuno dei due è in città.»
«Sono fuori» confermò Tybon indicando genericamente verso nord. O verso quello che
Bomikare immaginò dovesse essere il nord. «I Barcidi stanno discutendo nella tenuta di Amilcare.
Perciò dobbiamo decidere noi.»
«E lo facciamo malvolentieri» aggiunse Germiskar aggrottando la fronte. «Credo che gli
uomini che stanno svolgendo certi compiti speciali, ehm…» sfiorò Letilio con un’occhiata «possano
occuparsi per qualche giorno anche di questa faccenda della spada. Per la sicurezza della città è
importante che il capo delle guardie si ristabilisca in fretta per poi riprendere a operare nel pieno
delle forze.»
Bomikare ammirava Letilio, che continuava a restare impassibile. Lo scambio di battute tra
il giudice e il suffeta sembrava il dialogo raffazzonato di una commedia di terz’ordine.
Avrebbe desiderato tanto ridere ad alta voce, cosa che naturalmente era fuori discussione.
«Allora, che cosa devo fare?» domandò.
Tybon assunse l’aria di chi, dopo una difficile discussione con una voce interiore, fosse
giunto a una decisione spiacevole. «Ti devi curare. Forse dovresti anche andartene in campagna.
Vogliamo dire che, durante la tua convalescenza, continuerai a ricevere la tua paga?»
Germiskar alzò le spalle. «Per me va bene»
«Allora sarà fatto. Cedi a qualcuno il comando delle guardie e prenditi una vacanza insieme
alla tua compagna.
Almeno fino a che non sarà tutto chiarito e noi ti potremo inviare un messo per comunicarti
che non esiste più alcun pericolo.»
Incredulo di fronte al pessimo spettacolo, Bomikare disse: «Ma se invece Balhanno e
Himilko non sono d’accordo?».
«Ci pensiamo noi. A chi dovrebbe cedere il comando?»
domandò Germiskar rivolgendo uno sguardo interrogativo a Tybon.
«Hai alcuni meteci con te, non è vero?»
Bomilcare annuì.
«Il comando, naturalmente, può essere assegnato soltanto a un punico. La cosa migliore»
aggiunse Tybon con un sorriso condiscendente «è che tu parta oggi stesso. Oppure devi ancora
sbrigare qualcosa di importante?»
«Minuzie, signore.»
«Occupati di queste minuzie. Fino a, diciamo mezzanotte. Poi la convalescenza. A distanza
di sicurezza dalla città.»
«E lascia detto dove ti possiamo trovare… per il messo, come abbiamo detto, e per
qualunque evenienza.»
Quando furono fuori dal palazzo del Consiglio, nell’agorà, Letilio sfiorò il braccio di
Bomilcare.
«È stato tutto un sogno?»
«Se qui fossimo a Roma» disse Bomilcare «quale conclusione ne trarresti?»
«Che tu eri sul punto di trovare qualcosa che avrebbe dato fastidio a quei signori. Che loro
volevano toglierti il caso dalle mani e sono stati molto felici di poter prendere a pretesto il tuo
ferimento.»
Bomilcare gli diede una pacca sulla spalla. «Vedo che Roma e Qart Hadasht sono più simili
tra loro di quanto sarebbe bene per tutti.»
Bomilcare si procurò un carro nelle scuderie del palazzo del Consiglio. Lungo il tragitto fino
alla fortezza dovettero essere prudenti, per non farsi sentire dal conducente; tuttavia riuscirono a
discutere, con cauti giri di parole, sulle motivazioni del comportamento dei nobili signori.
«È abbastanza chiaro» disse alla fine Letilio, dopo che furono scesi dal carro davanti al
posto di guardia ed ebbero rimandato il conducente all’agorà «che vogliono averti fuori dai piedi.
Come l’anno scorso, mi sembra. Ma quale può essere mai la ragione?»
«Credo che rientri nella categoria della follia» disse Bomilcare. «E questa forma particolare
di follia si chiama politica.»
«Certo, io sono soltanto uno sciocco soldato, per cui non ne capisco nulla.» Letilio fece
schioccare la lingua. «Chissà se è davvero così anche da noi? In tutti i dettagli incredibili?»
«È così ovunque. Gli elleni hanno fornito alcuni esempi efficaci. Pensa soltanto a
Demostene.»
«Che cosa c’entra?»
«Ha sempre fatto quello che era vantaggioso per lui. Non necessariamente a vantaggio di
Atene.» «Dovrei forse entrare in politica, prima o poi?»
Bomilcare rise. «Se allora sarò ancora vivo e non saremo impegnati nella prossima guerra
tra di noi, fammelo sapere.
Mi piacerebbe tanto venire a vedere mentre ti barcameni tra i nidi di vipere della politica di
Roma.»
Nel posto di guardia trovarono Autolykos che, appoggiato al bordo del tavolo, ripuliva le
tavolette di cera.
«Nessun avvenimento particolare» disse senza sollevare lo sguardo. «Sto cancellando
rapporti che ormai non servono più.»
«Attività meritoria» disse Letilio.
«Ah, il romano.» Autolykos posò le tavolette e protese la mano destra per stringere
l’avambraccio di Letilio. «Avevo già sentito che eri in città. Non sei cambiato affatto.»
«Ci aiuterà un po’» disse Bomilcare. «L’anno scorso è riuscito perfettamente a moltiplicare i
pasticci dei punici; forse ce la farà anche questa volta.»
«È meglio che racconti ad Autolykos gli ultimissimi pasticci del Consiglio, piuttosto che
attribuirmi intenzioni che non nutro.»
«Che genere di pasticci? Ah, e come va la tua ferita?
Achiqar mi ha raccontato tutto.»
«Artemidoros mi ha bendato così stretto che riesco a stento a muovermi. Spero che guarisca
presto ma, secondo il volere del giudice Tybon e di Germiskar, il suffeta, dovrò trascorrere la
convalescenza fuori città.»
Il campano dai capelli grigi strinse gli occhi. «Ho inteso bene?»
«Hai inteso bene, amico mio. Evidentemente, mentre indagavamo sulla spada e sui numidi,
abbiamo toccato qualche nervo scoperto. Per questo mi è stato ordinato di lasciare il comando a
qualcuno a partire dalla mezzanotte. E che sia un punico.»
Autolykos sbuffò. «E va bene. A chi toccherà, a Mutumbal o ad Achiqar?» .
( «A Mutumbal. Ma insieme a te. Parlerò oggi stesso con entrambi.»
i «Che cosa vuoi sbrigare ancora prima di mezzanotte?»
«Alcune minuzie» rispose Bomilcare sogghignando. «Mi conosci, non è vero? Barako…»
«Lo sbirro?»
«Sì. Sta operando bene; nel prossimo futuro dovrebbe lavorare più per l’officina dei carri
che per noi qui. Mi ha riferito alcune cose.»
Autolykos ascoltò attentamente il racconto dell’osteria dei numidi vicino al pascolo dei
cavalli.
«Attendo un altro rapporto per oggi, intorno a mezzogiorno. Se procede tutto come previsto,
forse oggi stesso ci occuperemo di una minuzia con i soldati della fortezza.»
«Non si tratterà mica di una minuzia un po‘“troppo grande? I nobili Tybon e Germiskar
potrebbero aversene a male»
disse Autolykos.
«Noi ci limiteremo a osservare, che è una minuzia. La maggior parte del lavoro la faranno i
soldati. Rimani qui a disposizione, hai inteso?»
«Ho inteso e ubbidisco. Ah, c’è ancora qualcosa per te.
Estrasse dalla cintura un pezzo di papiro e lo porse a Bomilcare. «L’indirizzo della moglie di
Zabugu. Cioè, la vedova.»
«Grazie, amico mio. Me ne occupo io.» Bomilcare fece un cenno a Letilio e si diresse verso
l’uscita; poi si voltò di nuovo verso Autolykos. «Ancora una cosa, prima che me ne dimentichi.
Qualcuno si è occupato di quel Nislakh?»
«Naturalmente.»
«E allora?»
«Allora niente» rispose Autolykos, piegando gli angoli della bocca verso il basso. «E
scomparso. E anche sua moglie.
Nessuno ne sa niente. Se ci fosse stato qualcosa, te l’avrei detto.»
«Scusami.»
«Rifletterò se sia il caso, di fronte a simili minuzie.»
Artemidoros si informò sulle condizioni di salute di Letilio e della sua famiglia e fece
qualche battuta contro i romani in generale, mentre esaminava senza particolare delicatezza la ferita
di Bomilcare. Si mostrò soddisfatto del processo di guarigione e la bendò di nuovo, questa volta
però senza bloccare il braccio.
«Lo appendiamo al collo. Potrai muoverlo, ma la tracolla ti dovrebbe ricordare che devi
farlo con cautela.»
«Funzionerà?»
«Con persone dotate di buon senso, funziona. D’altra parte, non ti posso bendare anche la
mente. Non so dove si trovi. Sempre che tu ce l’abbia. Ma questa volta a che razza di gioco volete
giocare?»
«Se tu abbatti il mio numida, io abbatto il tuo.»
«Sembra un passatempo divertente. Io ho fame. Volete accompagnarmi a mangiare qualcosa
e descrivermelo meglio?»
«Dove? Qui, nella mensa?»
Artemidoros sollevò entrambe le mani.
«Risparmiatemela! Vengo pagato male per le mie arti, ma non così male da dovermi imporre
questa tortura.»
«E dove, allora?»
Il medico fece il nome di un’osteria sulle sponde del lago, davanti alla Porta diTynes.
Bomilcare gli chiese di pazientare per alcuni istanti, perché prima voleva scambiare qualche parola
con il comandante della fortezza.
«Anche lui mangia lì, di tanto in tanto» disse Artemidoros. Poi mandò il suo schiavo a
cercare Giskon.
Lo schiavo ritornò indietro poco tempo dopo. «Il nobile signore Giskon si unirà con piacere.
Vi prega di precederlo; non appena avrà sistemato un paio di minuzie, vi raggiungerà.»
«Allora precedete anche me» disse Bomilcare alzandosi in piedi. «Là fuori c’è ancora
qualcosa che vorrei esaminare, prima di mangiare.»
La sposa che Zabugu aveva reso vedova abitava in una capanna a ovest del mercato. Quando
Bomilcare vi entrò, la donna lo guardò, fece un sospiro e mandò fuori i due figli piccoli.
«Andate a giocare con le galline fino a che non vi chiamo.»
Poi, quando i bambini se ne furono andati, disse: «Che cosa c’è ancora, nobile signore? Vuoi
indietro il denaro? Allora restituiscimi mio marito».
Bomilcare osservò il volto della povera numida. Non esprimeva tristezza, bensì piuttosto
rabbia e disprezzo. Il suo abito da casa era semplice e macchiato, la capanna non era neppure
modesta, ma decisamente squallida.
«Ti puoi tenere il denaro» le disse. «Non ho niente a che fare con quelli che te l’hanno
dato.»
La donna strinse gli occhi e disse con voce dura: «E che cosa vuoi, allora? Se non sei uno di
loro…».
«Voglio sapere se senti la sua mancanza.»
«Se sento la sua mancanza?» Sul volto della numida si diffuse un misto tra scherno e
repulsione. «Chi sei tu per farmi simili domande?»
«Il capo delle guardie.» Bomilcare attese alcuni istanti e si accorse che la sua espressione
cambiava. Lo scherno e la repulsione svanirono, cedendo il posto al timore manifesto.
«Non devi avere paura di me» disse. «Io gli ho lasciato un ubriaco a portata di mano e lui, in
cambio, mi ha fatto un nome. Che nessuno verrà mai a sapere da me, stanne pur certa.»
Gli occhi della donna fiammeggiavano, ma lei continuava a tacere.
«Tu lo conosci, quel nome?»
La numida scosse lentamente il capo. «Non mi ha detto nulla. Soltanto che lui doveva fare
qualcosa e io… noi, avremmo ricevuto in cambio del denaro. Tanto da poterci vivere io e i
bambini.»
«E allora? È abbastanza?»
«Più di quanto ne abbia mai visto.»
«Sai altro? Ti ha detto qualcosa? Accennato?»
La donna proruppe in una risata roca, carica di amarezza e di disgusto. «Non abbiamo
parlato del lavoro, signore.»
«Non c’è davvero nulla che potrebbe servire a metterti al sicuro? Da quelli che forse, un
giorno, ritorneranno a prendersi il denaro, i bambini e la tua vita?»
«Uno della fortezza» disse la donna a bassa voce «ha portato il denaro e mi ha domandato
per quale motivo ricevessi tutto quell’argento da parte dei nobili punici.» Aggrottò la fronte e si
fermò come per riflettere, poi aggiunse: «Qualche tempo fa, una luna o forse anche più, sono corse
alcune voci. Voci provenienti dalla nostra terra, riguardo a principi, tradimenti e intrighi. Qualcuno
ha ucciso qualcun altro per prendere il suo posto, o qualcosa del genere. Allora Zabugu ha riso e ha
detto che era proprio come qui in città.»
«Non sai niente altro?»
«Soltanto una cosa. Che è giusto che sia così.»
L’osteria era collocata su una palafitta sulle sponde del lago, circondata da un canneto che
veniva periodicamente dato alle fiamme per diminuire il fastidio provocato da mosche e zanzare. Vi
si trovavano ottimi pesci freschi in diversi intingoli, oltre a conserve di verdura e di frutta.
«L’anno scorso» disse Letilio «ho gustato una prelibatezza punica particolare. Qui non c’è?»
Bomilcare si limitò a fare una smorfia.
«E quale sarebbe?» domandò Artemidoros.
«Cane. Cane ingrassato, arrostito e servito su uno strato di pasta, miele e sesamo.»
«Ah no, qui non c’è. Ma ti potrei consigliare una specialità che si trova soltanto qui. O forse
anche molto più nell’interno, in località particolarmente umide.»
«Vale a dire?»
«Sarapsuqa» rispose Artemidoros con espressione indifferente. «Un piatto a base di giovani
serpenti, scuoiati e stufati.»
«Uh. Brrr. Bleah» fece Letilio. «Allora preferisco il cane. E
ancora di più il pesce.»
Giskon giunse quando avevano appena ordinato.
All’inizio la presenza del romano lo rese diffidente. Poi disse che in Sicilia, durante gli anni
della grande guerra, aveva visto più romani di quanti il mondo intero gli sembrava ne potesse
sopportare; perciò avrebbe considerato quello che aveva di fronte come un semplice essere umano.
«I romani sono esseri umani?» domandò Artemidoros.
«Facciamo finta che lo siano.»
Bomilcare chiese della sua lettera sigillata del giorno prima. Giskon gli disse che l’aveva
ricevuta ma che, prima di fornire informazioni, desiderava riceverne a sua volta.
«Su questo vai d’accordo con il romano» disse Letilio.
Bomilcare parlò in fretta e a bassa voce, per non essere ascoltato da chi era seduto agli altri
tavoli. Raccontò di Zabugu, della spada, dello strano comportamento di alcuni membri del
Consiglio, delle indagini, della scomparsa di alcuni numidi, delle aggressioni.
«Quanto alla tua domanda» disse Giskon «non sono io a stabilire chi fa la guardia ai pascoli
e ai recinti; viene deciso dai sottocapi. E non esiste neppure un elenco in cui vengano annotate
queste cose. Tuttavia, approfondendo la questione senza dare nell’occhio, sono venuto a sapere che,
nelle ultime lune, questo compito è stato sempre affidato a uomini di una determinata unità. A
questa unità appartengono quasi esclusivamente membri della tribù massila diTadhira. Tra cui
Masauchan. Che adesso è morto.»
«Anche Zabugu apparteneva a questa tribù.» Bomilcare esitò. «Quanto a Nislakh, lo sbirro
scomparso, non ne sono sicuro.»
Quando giunsero all’ultima portata, frutta e formaggio fresco con vino dolce, comparve
all’improvviso Barako.
Sembrava esausto, come se avesse passato la notte insonne, e aveva i vestiti strappati.
Quando fece per prendere in disparte Bomilcare, questi gli disse: «Parla. Stavamo giusto discutendo
di tutto quello che riguarda il caso».
«Duush e Masgabaz sono prigionieri, fuori città, in quell’osteria di numidi. C’è stata una
collutazione. Sono entrambi feriti, forse morti.»
L’osteria di Dabar. Dove si incontravano i numidi della fortezza. Un posto tranquillo, vicino
ai pascoli dei cavalli. Forse si faceva uso di canapa, aveva pensato Bomilcare, e forse se ne sarebbe
dovuto occupare, una volta o l’altra. E adesso questo. All’improvviso quel posto tranquillo era
diventato qualcosa di diverso. Un nido di vipere.
Bomilcare pensò rapidamente a tutte queste cose, avvertendo su di sé gli sguardi degli altri.
«E una fortuna che oggi io sia ancora in servizio.» Poi si rivolse a Giskon. «Ho bisogno di
uomini. Quanti, Barako?»
Dopo una breve esitazione, il punico rispose: «Venticinque dovrebbero bastare».
Giskon annuì. «Nessun numida, immagino?»
«Potresti darmi degli iberi? E anche qualche elleno?»
«Quando?»
«Ci vogliono due ore per arrivare, non è vero? La strada è visibile? Bene; allora ci dobbiamo
avvicinare a piccoli gruppi, a piedi o a cavallo. Il più presto possibile; ci dovremmo incontrare
subito prima dell’osteria.»
Giskon si alzò in piedi. «Darò subito gli ordini. Un sottocapo verrà qui per discutere con te
di tutto il resto.»
Bomilcare si ricordò appena in tempo che aveva incaricato Zililsan di organizzare la famosa
cena.
«È meglio che mandi il sottocapo al posto di guardia.
Abbiamo ancora alcune questioni da sistemare.»
Vi si recò insieme a Letilio per terminare gli ultimi preparativi. Attinse alle risorse che erano
a sua disposizione nella fortezza per procurarsi un carro, che venne caricato con vecchie
gualdrappe, finimenti strappati e altri scarti; mandò una guardia a cavallo a prendere Zililsan e un
altro uomo all’officina dei carri. All’inizio aveva pensato all’elimo Vavurro, che era assennato e
con il giavellotto era in grado di centrare bersagli anche piccoli, poi all’elleno Patroklos, che era un
bravo spadaccino. Alla fine si decise per Nymar. L’uomo era originario dell’oriente, di una tribù di
maci lungo il confine egizio, ed era un buon arciere: forse sarebbe riuscito a fare un buon lavoro dal
carro. Avrebbe dovuto continuare a sorvegliare e a proteggere Aspasia. E non certo da solo.
Achiqar era appena arrivato. Al mattino aveva sorvegliato gli ultimi lavori di sgombero nel
giardino non più abbandonato, preoccupandosi che il muro venisse richiuso. Poi era stato nella
fortezza, per un «pasto frettoloso, consumato per così dire su una gamba sola», come aveva riferito.
«Vai al posto di guardia dell’agorà» disse Bomilcare.
«Anzi, prendi un cavallo: corre più veloce di quanto tu cammini.»
«Che cosa devo fare laggiù?»
«Proteggimi le spalle, nel caso in cui qualcuno del Consiglio voglia qualcosa. Sai come
fare… dissimulare, sollevare questioni assurde. Inoltre puoi sorvegliare il porto e i suoi dintorni
settentrionali.»
«Il Labirinto?» Achiqar gemette piano. «Chissà se i signori dei bassifondi daranno il
benvenuto ai nostri uomini?»
Letilio fischiò piano. «Mi ricordo le nostre peripezie dell’anno scorso» disse. «Bisognerebbe
essere almeno in quattro, non è vero?»
Si trattava della parte più antica della città, un intrico di vicoli e di case fortificate: il
quartiere in cui abitavano e regnavano i principi dei bassifondi.
«Non credo che in città si svolga una qualche attività redditizia senza il loro
coinvolgimento.»
«Ma se uno di noi passasse di lì per caso, non lo si direbbe certo in giro non è vero?»
Achiqar scosse il capo.
«Semplice prudenza?»
«Per ogni evenienza: non si sa mai… forse qualcuno dei nostri uomini sente per caso
qualcosa. E fai in modo che ci sia sempre qualcuno a sorvegliare Aspasia. C’è già uno degli uomini
dell’officina, ma un secondo non guasterebbe.»
Quando Achiqar se ne fu andato, Letilio disse: «Ma non dovevi sbrigare soltanto qualche
minuzia? Stanno diventando sempre più grandi. A Roma sarebbe un grave atto di
insubordinazione.»
Bomilcare alzò le spalle. «Anche qui. Ma ci sono costretto per vivere.»
«E osservare mentre i soldati della fortezza eseguono i tuoi ordini, non è un atto di
insubordinazione?»
«È una minuzia che rientra nei miei doveri.»
Recuperato da uno dei messi, Mutumbal si presentò mezzo assonato, dato che negli ultimi
tempi aveva svolto spesso il turno di notte; quasi contemporaneamente a lui giunse il carro veloce
con a bordo Zililsan e Nymar.
Bomilcare affidò il posto di guardia a Mutumbal e gli diede alcune istruzioni; alla fine lo
informò che sarebbe stato in licenza fino a nuovo ordine.
«Fino al mio ritorno, ti affido il comando. Consigliati con Autolykos. Sai bene che è più
esperto di te.»
«Lo so.»
«È questo che ti distingue da Achiqar: lui infatti non vuole saperlo.»
Mutumbal ne prese atto con un sorriso. «Quanto tempo pensi di dedicare alla tua
convalescenza?»
«Dipende da quanto mi ci vorrà per guarire.»
:: «E se si presentano questioni urgenti?»
«Discutine con Autolykos. Se necessario con Giskon. E se la situazione si fa proprio seria,
potete pur sempre scrivermi.»
«Ah. E dove?»
: «Questo ve lo scriverò io, forse. Non appena lo saprò.»
Zililsan riferì l’esito dei suoi inviti a cena; Bostar aveva impegni urgenti per quella sera, ma
l’indomani si sarebbe presentato dall’ibero.
«Non che sia molto entusiasta» aggiunse con un sorriso il libio, rivolgendo uno sguardo
obliquo a Letilio. «Il signore del Banco della Sabbia dice che, dopo quella romana, la cucina iberica
supera tutte le altre per pesantezza e mancanza di gusto.»
«Bah» disse Letilio.
Bomilcare ammiccò rapidamente. «E Tigalit?»
«Ha detto che le farà piacere cenare insieme a persone colte. Ma non verrà da sola.»
«Chi porterà con sé?»
Zililsan protese la bocca. «Una… amica? concubina?
compagna d’armi? Non lo so. È snella, ha la pelle scura e si chiama Penthesileia.»
«Ah Ah.» Bomilcare annuì. «Ho sentito parlare di lei. Nel Labirinto si dice che fosse l’unico
guerriero a poter sfidare a duello Amilcare Barca.»
«Questo purtroppo non potrà più avvenire. Mi sarebbe piaciuto tanto assistere.» Zililsan si
grattò la schiena contro lo spigolo della porta e sospirò di piacere. Poi disse: «E adesso, capo,
raccontaci una buona volta che cosa sta succedendo».
«Lungo la strada. Forza, andiamo, sui carri.»
Alcuni cavalieri iberi della fortezza stavano ancora ultimando i preparativi. I fanti erano già
partiti. Un sottocapo comunicò a Bomilcare quando e dove si sarebbero dovuti incontrare.
«Giskon dice che hai tu il comando, capo.»
«Non abuserò del mio potere.»
Il sottocapo rise. «Questo non ci preoccupa. Sappiamo che hai combattuto in Iberia. E che
hai combattuto bene.»
Finalmente il carro si mosse. Autolykos guidava i due cavalli e Bomilcare era seduto
accanto a lui, mentre Barako, Zililsan, Nymar e Letilio si erano accomodati alla bell’e meglio in
mezzo al carico di rottami. Varcarono la prima porta, oltrepassarono il ponte sul grande fossato, la
seconda porta e il secondo ponte. Dopo che si furono lasciati alle spalle la parte esterna delle
fortificazioni ed ebbero attraversato il mercato sferragliando, il romano affermò: «Si dice che,
quando vanno di fretta, i punici raggiungano la velocità con cui le vacche italiche ruminano. I
cavalli procedono al trotto. Perché non li lanciate un po‘“al galoppo?».
«Gli dovremo promettere qualcosa» disse Autolykos.
«E cioè?»
«Un romano tritato nel foraggio della sera. Questo forse li spronerà.»
In mezzo ai banchi del mercato e poi tra le case dei sobborghi regnava la solita calca fìtta,
tanto che furono costretti a condurre i cavalli al passo. Soltanto quando le case divennero sempre
più modeste e alla fine cedettero il posto a capanne e tende, Autolykos spronò gli animali. I
cavalieri armati della fortezza, che fino allora si erano mantenuti nelle loro vicinanze, fecero un
cenno e partirono al galoppo lungo una strada che conduceva verso nordovest attraverso i campi di
grano.
Mentre li seguivano, Bomilcare era costretto a cambiare continuamente la sua posizione
seduta per non essere sbalzato fuori dal carro né risvegliare la sua ferita. Quando si fu ? abituato
agli scossoni provocati dalla strada dissestata, disse: «Dobbiamo discutere di alcune cose. Barako,
che aspetto ha l’osteria di questo numida?».
Il giovane punico, che fino allora era rimasto in silenzio, descrisse con grande precisione la
posizione, la vegetazione, le vie d’accesso e gli ostacoli. Con la collaborazione attiva di Autolykos e
Zililsan, Bomilcare e Letilio idearono un piccolo piano di battaglia. Quando furono d’accordo sul da
farsi, Bomilcare disse: «La cosa più importante è riportare , a casa sani e salvi Duush e Masgabaz.
Sempre che siano ancora vivi».
«Temo che almeno uno di loro si sia incamminato lungo la strada che conduce al regno dei
bassifondi» disse Barako con un tono che parve triste, ma forse era soltanto stanco.
«C’è stato un grido… un grido di morte, se non mi sbaglio.»
«Forse hanno mandato in avanscoperta proprio un numida» disse Zililsan. «Nel regno dei
bassifondi, intendo dire.»
«E poi?» chiese Letilio. «Qual è l’altra cosa importante?»
«Bloccare tutte le strade attraverso cui qualcuno potrebbe fuggire. Probabilmente non
riusciremo a catturarli tutti. Del resto non possiamo presidiare anche i campi e i pascoli: ci
servirebbero alcune centinaia di uomini.»
Nymar sollevò l’arco e ne tese la corda che penzolava molle. «Sprecherò qualche freccia»
disse. «Forse diminuirà il numero di quelli che cercheranno di fuggire attraverso i pascoli.»
«E tu per quali pascoli scorrazzerai nei prossimi tempi, capo?» chiese Barako. «E fino a
quando?»
Bomilcare avrebbe voluto rispondere con un nitrito ma, prima di potersi convincere che
sarebbe stata un’idiozia, una buca particolarmente profonda fece sobbalzare il carro e risvegliò la
sua ferita, strappandogli un gemito.
«Chiedo scusa» disse Autolykos con uno sguardo obliquo «ma ho tralasciato di far ripianare
la strada per tempo. Devo procedere con maggiore lentezza?»
Bomilcare strinse i denti. «Continua così, abbiamo fretta.»
Fece una serie di respiri profondi, poi aggiunse: «Non so ancora per quanto tempo sarò
lontano. E nemmeno dove andrò a rintanarmi. Forse in un villaggio in riva al lago, o in una capanna
di giunchi della Lingua. Vedremo. Ma forse andrò ancora più lontano».
«Allora non potresti dirci qualcosa di più, nel frattempo?»
«Sull’intero caso? Moventi, retroscena e simili?»
Zililsan annuì. «Potremmo proseguire meglio le indagini, se sapessimo su che cosa
dobbiamo davvero indagare.»
Bomilcare sospirò. «Mi dispiace, amico mio, ma non so proprio nulla. O comunque non
abbastanza. E non ti voglio tediare con ipotesi pessimistiche.»
«E invece tediami, capo.»
«Potrei confonderti. Magari poi mi sbaglio e tu, credendo a me, indaghi nella direzione
errata.»
«Mi viene in mente che non sono ancora riuscito a decimare gli schiavi in soprannumero.»
«Vorrei che continuassi a sforzarti di farlo.»
«Per quanto tempo avete intenzione di proseguire questi discorsi insensati?» chiese Letilio.
‘. «Fino a che non ci verrà il buon senso romano, probabilmente» rispose Bomilcare
storcendo il naso. «Anzi, speriamo di no.»
«Capo» disse Barako «che cosa devo fare, mentre non ci sei?»
Bomilcare diede di gomito ad Autolykos. «Quello lì»
disse «è sprecato per i soliti compiti da sbirro. Come ti ho già detto.»
Autolykos annuì. «Quando va all’officina dei carri, devo cancellarlo dall’elenco dei turni?
Oppure scrivere: incaricato di compiti speciali?»
«È meglio che lo cancelli. A scopo cautelativo. Infatti non si sa mai chi legge quegli elenchi.
Sei d’accordo che venga con voi, Zililsan?»
Il libio sfiorò Barako con un’occhiata. «Certamente. Se tu lo ritieni adatto… ma adatto per
che cosa?»
«Per le solite cose.»
Zililsan annuì. «Bene.»
«Quali sono le solite cose, capo?» chiese Barako.
«Te lo dirà Zililsan. E Nymar e tutti gli altri. E tu, Autolykos, farai in modo che Murumbal e
Achiqar non sentano la sua mancanza.»
Come la Porta diTynes a sud del Vallo Grande, nel punto in cui la Via Grande si allargava
nel mercato e poi, attraverso i sobborghi, conduceva a Tynes e quindi nell’entroterra, a nord della
fortezza ce n’era una più piccola, la Porta di Ityke.
Da lì iniziava una via che serpeggiava per un po‘“tra i campi e la sponda della baia, sfiorava
i pascoli della fortezza e diventava una strada vera e propria solo molto più a occidente, nel punto in
cui si incrociava con quella che proveniva da sud e la congiungeva con la strada per Tynes.
Quindi, seguendo la costa, conduceva verso nordovest fino all’antica città di Ityke, che era
quasi duecento anni più antica di Qart Hadasht, fondata da mercanti e da cittadini provenienti da
Sidone. Poche miglia più avanti, da questa strada si dipartiva verso occidente una via commerciale
che attraversava l’entroterra settentrionale.
L’osteria del numida, che allevava anche le api ed era conosciuto come Dabar, si trovava a
metà strada tra la via di collegamento perTynes e questa diramazione.
«Come mai si chiama Dabar, se è un numida?» chiese Letilio. «Non è una parola punica, che
vuol dire api?»
«Di sicuro si chiama in modo completamente diverso.
Dabar è un buon nome per un allevatore di api che vende miele.»
Letilio si voltò verso destra, dove tra la strada e il mare si poteva vedere una ventina di
elefanti da guerra della fortezza. In un avvallamento c’erano gli edifici delle scuderie semicoperte e
i depositi per il foraggio e le altre provviste.
«Intendi dire che si chiama così come, per esempio, uno che allevasse pachidermi a Roma
potrebbe chiamarsi Elephas?»
«Sì, anche se il suo nome è Letilio.»
Zililsan fece schioccare la lingua. «In effetti i pascoli in riva al mare sono sprecati per
cavalli ed elefanti» disse.
«Agnelli… non agnelli da latte, ma di quelli che hanno pascolato sui prati salati soltanto per
qualche luna. Uhm… che voglia di infilzarli nello spiedo, girarli sul fuoco e cospargerli di vino…»
Una fitta siepe divideva il pascolo degli elefanti dal successivo, separato dalla strada da una
recinzione, in cui brucava un gran numero di cavalli.
Sulla sinistra, a sud della strada, c’erano campi di grano, intervallati da frutteti e quindi da
lunghe file di uliveti. Un sentiero stretto e sconnesso conduceva a una grande casa colonica, che
tuttavia da lontano si riusciva appena a intrawedere. A meno di quaranta passi a sud della via
iniziava un gruppo di alberi.
«Fermati un momento» disse Bomilcare. I
Autolykos obbedì; quando i cavalli si arrestarono, disse: «Qui?».
«Sì. Torno subito.» Bomilcare diede di gomito a Letilio.
«Vieni con me?»
«Credi che mi lascerei scappare un’occasione simile?»
Scivolarono giù dal carro e si diressero verso gli alberi, dove li attendeva il sottocapo.
Quando si introdussero nel boschetto, vi trovarono gli altri cavalieri e i fanti, del tutto invisibili
dalla strada.
«Come dobbiamo procedere?» chiese il sottocapo.
«State a sentire.» Bomilcare parlò con voce abbastanza alta perché tutti potessero intenderlo,
ma non tanto da essere udito dalla strada. «Conoscete l’osteria di Dabar?»
Alcuni soldati annuirono.
«Bene: descrivetela a quelli che non la conoscono.
Nell’osteria e nei locali adiacenti si nascondono alcuni numidi.
Soldati come voi, della fortezza, e forse anche qualche altro.
Hanno rubato qualcosa da un tempio della città, una spada particolare che per loro è
importante. Noi abbiamo bisogno di questa spada.»
Uno dei fanti iberi picchiò sulla sua spada corta. «Una come questa?»
«No, non è una falkata divoratrice di anime, amico mio; è una spada diritta con una pietra,
una pietra blu sull’impugnatura. L’elsa termina con due teste di leone. Ed è antica; probabilmente
non molto affilata.»
«I numidi… ma che cosa vogliono quelli?» chiese un altro ibero.
«Deporre il loro re Gya, che è alleato della città. Molti dei suoi uomini sono in Iberia,
insieme al principe Naravas; vorranno abbattere anche lui. E, se ci riescono, provocheranno un
bagno di sangue. Tra i vostri parenti.»
«Ah.» Diversi uomini sguainarono le loro spade appuntite e le infilarono di nuovo nei
foderi.
«Inoltre là dentro ci sono due dei miei uomini… numidi anche loro, ma valorosi e fidati.
Forse sono feriti e sicuramente legati. Ci servono… e vivi.»
«Come dobbiamo procedere?» chiese il sottocapo.
«Ci sono diversi modi per abbandonare l’osteria. La strada, un sentiero che va verso sud in
mezzo ai pascoli e ai campi, e uno che costeggia la spiaggia.»
Discussero rapidamente su come disporsi. Bomilcare e gli altri che erano sul carro, insieme
a cinque iberi, avrebbero bloccato la strada; i rimanenti avrebbero dovuto raggiungere l’edificio
sparpagliandosi per gli altri accessi. Un uomo avrebbe dato il segnale di attacco soffiando in un
corno di bronzo non appena avesse potuto vedere gli altri da un punto prestabilito.
«Considerate inoltre» disse Bomilcare «che un paio di prigionieri non guasterebbero.
Prigionieri che siano ancora in grado di parlare.»
Mentre ritornavano al carro, Letilio tossicchiò piano. «La storia dei parenti in Iberia» disse
«ti è venuta in mente davvero sul momento?»
«Intendi dire che le bugie appropriate bisognerebbe prepararsele molto tempo prima?»
Bomilcare rise. «E poi non è neppure una bugia. Che cosa credi che faranno, quando avranno
abbattuto il re e sobillato i loro connazionali in Iberia?»
«Forse invece hanno in mente qualcos’altro con la spada.»
«E che cosa?»
«Non lo so.» Letilio lo aiutò a risalire sul carro.
«Qualunque cosa. Non riesco proprio a immaginare come possano scatenare una grande
rivolta.»
Autolykos borbottò qualcosa, si schiarì la voce e sputò.
«Avanti, destrieri della vendetta! Hopp, hopp. Ehi, romano, hai mai sentito parlare
dell’ultimo giro?»
«Di quale ultimo giro?»
«Dopo la guerra libica…»
«Intendi dire la vostra guerra contro i mercenari?»
«Proprio quella. Tre anni dopo, vale a dire cinque anni fa, c’è stata una sollevazione. Alcuni
principi dei massesili fecero combutta con qualche principe dei massili. Allora Amilcare dovette
inviare soldati dall’Iberia per reprimere la rivolta.»
Letilio sfiorò la spalla destra di Bomilcare. «C’eri anche tu?
Eri in Iberia, in quel periodo.»
«Ero insieme ad Amilcare, nei Monti Neri» rispose Bomilcare. «Ha mandato Asdrubale e
Naravas, che allora era in Numidia, l’ha aiutato.»
«I due generi del Fulmine insieme?» Letilio fischiò piano.
«Fortunato colui che, in caso di difficoltà, ha una famiglia abbastanza numerosa. Ma adesso
Naravas è in Iberia, non è vero?»
«Ne abbiamo parlato insieme o l’hai saputo a Roma?»
«La cosa ti sorprenderebbe?»
Bomilcare sbuffò. «Mi sorprenderebbe che le vostre spie fossero così inette da non avervelo
riferito. Ma mi sorprende anche che tu ti sia preparato così bene per la tua visita qui.»
«È bello ascoltare due vecchi amici discutere in questo modo» ridacchiò Zililsan.
«Mi sono preparato così bene» disse Letilio «che so addirittura che Salambua, la moglie di
Naravas, ha raccolto informazioni per suo padre, il Fulmine, in Numidia. E che Asdrubale, dopo la
morte di Sapanibale, la sua seconda figlia, ha preso in moglie un’ibera.»
«Non darti tante arie» disse Bomilcare. «Non mi dirai che sai addirittura come si chiama
Libera?»
«Tituye» rispose il romano ridendo a singulti. «Però non so come funzionino da voi i
rapporti di parentela.»
«Che cosa intendi dire?»
«Asdrubale continua a essere il genero di Amilcare, anche se la figlia di Amilcare è morta?
Rimane il genero di Amilcare, adesso che Amilcare è caduto?»
Autolykos rise. «Ora, con il tuo punico fluente, ti puoi anche inventare termini nuovi per
esprimere questi gradi di parentela. In ogni caso, genero o non genero, Asdrubale il Bello è stato
nominato dall’esercito nuovo stratega di Libia e d’Iberia.»
«Ah» disse Letilio con un tono che parve di sorpresa.
«Questo non lo sapevo. Annone ne sarà particolarmente contento, non è vero?»
«Fare contento Annone è in ogni caso la preoccupazione principale di tutti i punici» disse
Bomilcare simulando dei conati di vomito.
Si fermarono a una curva della strada, nel punto in cui la siepe che si dirigeva verso la costa
separando due pascoli tra loro, terminava in un intrico di cespugli che impediva la vista del carro e
dei suoi occupanti dall’osteria di Dabar. Le loro discussioni, ancora a bassa voce, vennero
inghiottite dalla palude dell’attesa come rivoli dal deserto.
Il sole iniziava già a calare quando finalmente risuonò il segnale convenuto. Dall’edificio
dell’osteria e dalle stalle adiacenti si udirono presto provenire alcune grida e il tintinnio delle armi.
A piedi non riuscì a fuggire nessuno; ce la fecero alcuni a cavallo, tagliando attraverso i campi. Due
cavalieri numidi tentarono di dirigersi verso la città: uno fu disarcionato da Nymar con una freccia,
l’altro si arrese. Vi furono undici prigionieri e sei morti. Il presunto capo della presunta congiura,
Dabar, fu uno di quelli che riuscirono a fuggire a cavallo.
Bomilcare e gli altri perquisirono gli edifici, cercando perfino nelle arnie ma, a fronte di
diverse punture di api, non trovarono né la spada né altri oggetti di valore. Bomilcare si imbatté in
una specie di altare dietro la costruzione principale, una pietra bianca e piatta, sorretta da ceppi di
legno, un po’
scavata nel mezzo. La piccola incisione era colorata di scuro: sul momento era difficile
stabilire se a tingerla fosse stato il sangue delle vittime o il vino versato in onore degli dèi. In una
piccola rimessa, a pochi passi di distanza dall’altare, ritrovarono armi e provviste, tra cui anche una
scatola, avvolta in un telo impermeabile, che conteneva semi di canapa e papavero.
In un’altra rimessa, chiusa a chiave, scoprirono l’ibero Duush. Era ferito. Aveva subito
alcuni colpi alle cosce e all’avambraccio nel corso di uno scontro, ma le lesioni erano state allargate
e approfondite durante il pressante interrogatorio.
Dopo aver tagliato i legacci, lo sistemarono su uno dei tavoli dell’osteria per soccorrerlo
d’urgenza.
«È stato molto facile tirare fuori tutto, all’inizio» disse trascinando la voce a fatica, mentre
Zililsan gli bendava le ferite.
«Allora non dev’essere stato poi così brutto.»
«Tieni la bocca chiusa, stupido libio. È stato facile per noi…
i numidi, intendo dire. Ahhh! Un po‘“più di delicatezza, ragazzo!»
«Questo era per lo stupido libio.»
«Chiedo perdono, illustrissimo!»
«Così va meglio.»
Duush gemette. «In ogni caso non era un segreto che alcuni di loro si incontrassero qui. A
pregare per Godogma…»
«Chi è Godogma?» chiese Bomilcare.
«Non l’ho capito bene.» Duush si morse le labbra e tacque fino a che Zililsan non ebbe
terminato. «Grazie, amico»
disse piano alla fine.
«Godogma» ripetè Bomilcare.
«Un nuovo dio. O una commistione tra diversi vecchi dèi.
Come in Egitto, quell’incrocio tra Osiris e Apis.»
«Sarapis? Ah sì.»
«Godogma beve il sangue e gli sono sacri il correggiato e la ruota.»
Bomilcare sorrise. «Il correggiato? Forse un’antica divinità dei cereali. Oppure il signore del
miglio?»
«Ma la ruota?» disse Letilio. «Numidi, cavalli… perché mai la ruota? E perché, che ne so,
non la frusta e il morso?»
«Una ruota verticale» disse Duush. «Che gira in eterno.
Adesso Qart Hadasht è in alto; quelli, con l’aiuto di Godogma, vogliono farla girare ancora e
portare in alto i numidi. Poi mangiano i semi di canapa oppure li sfregano su una pietra arroventata
e ne aspirano i vapori. Alcuni hanno anche strani recipienti di terracotta: una specie di stilo o di
canna vuota con un pentolino all’estremità. Lo riempiono di erbe (foglie di menta e simili) e di
canapa, gli danno fuoco e ne aspirano il fumo.»
Bomilcare annuì in silenzio. Pensò a un uomo ormai morto, uno scrivano del Consiglio, che
di tanto in tanto fumava porcherie nauseabonde e che utilizzava simili aggeggi. Una volta aveva
provato anche Bomilcare, ma non aveva più voluto ripetere l’esperienza.
«Lo sai chi ha inventato questo nuovo dio?» disse.
«Non riesci a immaginare che non l’abbia inventato nessuno, ma che possa esistere
davvero?» domandò Letilio cercando di assumere un’espressione piena di rimprovero.
«Al mattino» disse Duush «abbiamo cominciato a cercare. Ci siamo raccolti qui durante la
notte e, al levar del sole, li abbiamo visti riuniti intorno all’altare e poi…» Deglutì, chiuse gli occhi
e disse piano: «Ci hanno scoperti. Masgabaz l’hanno sacrificato. Lentamente. È stato molto
coraggioso, ma… E
poi mi hanno torturato». Riaprì gli occhi. Erano ricolmi di dolore. Ricolmi del ricordo del
dolore. E ricolmi d’odio, pensò Bomilcare.
Posò la mano destra sulla fronte di Duush. «Dabar e altri sono fuggiti» disse. «Non
tortureranno più nessuno.» ‘.
«Dabar era molto fantasioso. Se…» s’interruppe.
«Se lo catturiamo, potrai interrogarlo tu.»
Duush cercò di sorridere. «Grazie, capitano… ma c’è ancora qualcosa. Stamattina è stato qui
un punico. Non l’ho visto, ho sentito solo la sua voce.»
«Sei sicuro che fosse un punico? Oppure ha soltanto parlato in punico?»
«Sono sicuro. Apparteneva agli ambienti più elevati: lo sai, la pronuncia particolarmente
netta, le espressioni ricercate e tutto il resto. E gli altri lo chiamavano” signore”.»
«Sapresti riconoscere la voce?»
: «Sempre e ovunque.»
«Bene. Che cosa hai sentito?»
«Niente a proposito del dio, nel caso in cui tu voglia saperne di più. Ma qualcosa a proposito
della spada.»
«Le spade sono più importanti degli dèi» borbottò Zililsan.
«Ha detto che non si trova più nel paese. È su una nave.
Qualcuno l’ha consegnata nelle mani di un capitano di nome Mandrokles, che la porterà ad
Alessandria insieme a un loro emissario e da lì, dopo aver sbrigato l’indispensabile, in Iberia.
AMastia.»
Lo coricarono sul carro e ritornarono in città. Lungo la strada si interrogarono sulle ragioni
dell’accaduto.
Al termine di un animato scambio di battute, Letilio disse: «Immagino che la vogliano nel
caso in cui riesca la loro grande rivolta, per concordare con iTolomei una specie di tregua e la
prosecuzione delle relazioni commerciali. E, non appena sarà tutto sistemato, per sobillare le truppe
numide in Iberia. E forse perfino gli iberi».
«Chi può essere questo punico?» disse Autolykos. «Di nuovo uno dei nobili? E che cosa si
ripromette da questo tradimento senza precedenti?»
Condussero Duush da Artemidoros, che abitava in una casa spaziosa nei pressi del mercato:
fuori dalla città, dove le case grandi erano molto più care.
«Ha l’aria di un lavoro accurato» disse il medico dopo aver esaminato superficialmente il
numida. Voltò il capo e tuonò in direzione del corridoio che conduceva al cortile interno: «Donna!
Acqua bollente e bende, per cortesia!».
«Lo puoi tenere qui stanotte?»
Artemidoros sogghignò e puntò l’indice contro Duush.
«Ehi tu, avevi forse intenzione di spassartela, questa notte?»
«Dormirei con piacere.»
«E da solo. Sei troppo debole per il resto.»
Barako si trattenne a sua volta da Artemidoros, a fare la guardia per ogni evenienza.
Bomilcare mandò avanti gli altri e si prese un bel po‘“di tempo per percorrere lentamente i pochi
passi che lo separavano dal posto di guardia. Tempo che gli servì, se non per superare la delusione e
lo scoramento, almeno per rielaborarli e confinarli in un angolo remoto della sua mente. L’osteria di
Dabar, un posto tranquillo diventato un nido di vipere, assaltato con un certo dispiego di forze,
qualche vipera uccisa, qualcuna scacciata via e… niente altro che il salvataggio di Duush. Duush
ferito, Masgabaz morto.
L’unico risultato erano alcune voci su un nobile punico e il nome di un capitano. Nulla che
giustificasse l’attacco. Per non parlare della morte di Masgabaz.
Mutumbal sembrava intendersela bene con Aspasia e gli altri: quando Bomilcare giunse al
posto di guardia, stavano bevendo vino e ridendo a proposito di qualche cosa.
«Le guardie mi hanno condotta qui» disse Aspasia «in modo che potessi prendere in
consegna il tuo cadavere, nel caso in cui qualcosa andasse storto. Dove vi eravate cacciati?»
«Più tardi» disse Bomilcare posando la mano destra sulla sua guancia. «C’è ancora qualcosa
di urgente, qui?»
Mutumbal scosse il capo indicando le tavolette e i rotoli di papiro. «Soltanto le solite
faccende. Che cosa avete in mente?»
«Combattere contro la fame. Chi viene con noi?»
Autolykos però voleva ritornare a casa da sua moglie, e Zililsan e Nymar mormorarono frasi
incomprensibili, accennando a loro volta a donne e letti. Bomilcare ordinò a una delle guardie di
turno di procurare loro un carro.
«E tu?»
Letilio sbadigliò. «Approfitto del carro» disse «e spero di trovare ancora qualcosa da
mangiare al porto.»
«Zililsan ti indicherà il luogo migliore dove prenderti cura della tua fame. Ci vediamo
domani.»
Quando tutti furono scomparsi, Bomilcare si rivolse a Mutumbal. «Noi due» disse
guardando Aspasia «passeremo la notte qui, amico mio. Da qualche parte ci deve essere ancora la
porta che serviva a separare questa stanza da quella accanto.»
«La farò rimettere a posto prima che abbiate finito di mangiare.»
In un’osteria vicina, frequentata soprattutto da attori, musici, ladri e soldati, trovarono
ancora qualcosa per cena: pesce, pane e vino. Aspasia ascoltò Bomilcare riferirle sinteticamente e a
bassa voce gli avvenimenti del giorno e lo lodò per essersi tenuto lontano dalla mischia.
Ritornarono al posto di guardia. Mutumbal aveva fatto risistemare la porta e procurato
alcune coperte per il giaciglio, oltre a due teli, un catino e una brocca d’acqua. Aspasia chiuse la
porta a metà per rinfrescarsi.
«Ti lavi?» le chiese Bomilcare.
«Le donne non sono mai sporche» rispose Aspasia. «Si ripuliscono di continuo con il
pensiero.»
Mutumbal voleva ancora sentire che cosa fosse accaduto e Bomilcare gliene fece un
riassunto sintetico. «Tutto il resto» disse alla fine «lo verrai a sapere domani da Autolykos. Adesso
voglio sentire le ultime novità sulla mia stanchezza.»
Mutumbal rise. «Ascoltale attentamente e fai attenzione che la tua stanchezza non sprechi le
sue parole.»
Bomilcare si sentiva sporco ed esausto. Si ripulì alla meglio in piedi davanti al catino.
«Sei terribilmente nudo» disse Aspasia. «Vieni qui.»
Bomilcare si fermò davanti al giaciglio a osservare quello che riusciva a scorgere, alla tenue
luce della lampada a olio, sotto le coperte sollevate da Aspasia. «E un peccato» disse «che non mi
possa muovere.»
Aspasia si passò la lingua sulle labbra. «Lascia fare tutto a me.»
Mutumbal aveva trascorso parte della notte vegliando e parte sonnecchiando sulla panca
scomoda. Al mattino mandò uno schiavo della fortezza a prendere dalla grande cucina birra leggera
tiepida, pane e formaggio.
Avevano appena iniziato a fare colazione, quando si presentò Achiqar per dare il cambio a
Mutumbal; pochi istanti dopo giunse anche Autolykos.
«Che cosa ci fai qui?» gli chiese Achiqar. «Non è mica il tuo turno.»
«È un giorno particolare» rispose Autolykos inchinandosi in modo plateale davanti ad
Aspasia. «E non soltanto perché una bella donna divide il nostro misero pasto. Dobbiamo anche
chiarire alcune cose.»
Bomilcare ripetè ad Achiqar quello che aveva già spiegato agli altri il giorno prima: la
sospensione dal servizio, la convalescenza forzata, il passaggio del comando a Mutumbal.
Achiqar reagì con un’espressione non proprio entusiasta.
«In realtà, come in precedenti occasioni, il comando toccherebbe ad Autolykos: ha più
esperienza. Ma suffeta e giudice hanno imposto un punico, e Mutumbal è in servizio da più tempo
di te» disse Bomilcare.
«Allora deve essere così.» Achiqar si portò la mano al petto e chinò il capo davanti a
Mutumbal.
«Mi aspetto che non accada nulla senza che Autolykos lo sappia e l’approvi, e che voi vi
comportiate come se io dovessi arrivare tra due respiri, da dietro il prossimo angolo.»
«Ti puoi fidare di noi.» Mutumbal si fregò gli occhi. «Non ci volevi dare ancora qualche
ordine?»
Aspasia afferrò l’ultimo pezzo di formaggio. «Se nessuno lo vuole… E, prima che iniziate a
discutere di cose che mi annoiano e non mi riguardano per niente… dove ci incontriamo?»
«Hai voglia di trattenerti per un po‘“da Artemidoros?»
disse Bomilcare. «Vengo a prenderti lì più tardi.»
Ci volle un po‘“di tempo prima che finissero di discutere di tutte le questioni aperte. Alla
fine Bomilcare disse: «Va bene.
Che cosa c’è ancora?… I cavalli. Domattina presto mi serviranno alcuni cavalli».
«Quanti, dove e quando?» chiese Mutumbal.
«Lo comunicherò a uno di voi, non appena lo saprò.»
Lasciò il posto di guardia insieme ad Autolykos per andare a parlare con Giskon nella
fortezza. Vennero così a sapere che gli interrogatori dei numidi sopravvissuti confermavano nella
sostanza le informazioni di Duush.
«Siete poi riusciti a scoprire che cosa si nasconde dietro tutto questo?»
«Non ancora.»
Autolykos si schiarì la voce. «Se il comandante della fortezza non ha obiezioni, farò alcune
domande ai prigionieri.
Con una certa insistenza.»
«Tu sei d’accordo, Bomilcare?» chiese Giskon.
«Certamente: Autolykos sa quello che deve fare. E dopo, che cosa ne sarà di quegli
uomini?»
«Verranno consegnati alla loro gente, sotto scorta. Il loro re gli ha dato il permesso di
combattere per la città; perciò non hanno agito soltanto contro di noi, ma anche contro di lui.»
Bomilcare annuì lentamente. Pensò con un certo raccapriccio a determinate punizioni che i
sovrani numidi erano soliti infliggere per il tradimento. Tra queste c’era lo scuoia mento; altri
uomini invece erano stati costretti ad ammazzare il proprio cavallo prediletto, la cui pelle fresca era
stata poi cucita loro addosso, in modo che, seccando e ritirandosi, li aveva soffocati a poco a poco.
«Mi fanno quasi pena» disse.
Aspasia attendeva da Artemidoros, tutta intenta a discutere con lui; sembravano entrambi
compiaciuti di parlare in un ellenico fluente.
«Ho condotto Duush all’infermeria della fortezza» disse il medico.
«Da solo?»
«Mi prendi per un idiota? No, ci sono sempre alcuni uomini fidati nelle vicinanze. Nel caso
in cui qualche numida provi ad avvicinarlo.» Ammiccò. «Forse laggiù sentirà pure qualcosa.»
Bomilcare si recò da Duush insieme ad Aspasia e Autolykos.
Il numida disse che si sentiva debole ma, a parte questo, stava di nuovo abbastanza bene.
Discussero a bassa voce su quello che sarebbe accaduto nei prossimi giorni; Bomilcare affidò a
Duush e Autolykos alcuni incarichi particolari e ordinò a Duush di seguire Barako insieme a
Zililsan. Poi pregò Autolykos e Aspasia di aspettarlo fuori.
«Deve occuparsi di tutto Barako?» chiese Duush a Bomilcare non appena furono soli.
«Non di tutto. Soltanto di quello che riguarda gli immediati dintorni.»
«Di qualcosa in particolare?» chiese Duush. “
Bomilcare si chinò su di lui e gli sussurrò all’orecchio.
Duush borbottò e disse: «Non mi soprenderebbe».
Nel posto di guardia Bomilcare scrisse due lettere. Diede la prima ad Autolykos: «Per
Annibale, lo scrivano del giudice Budun, ti ricordi? Consegnagliela senza che la veda il giudice o
nessun altro, e digli che, quando conoscerà le risposte, deve darle a te, nel caso in cui io non sia
ancora ritornato».
Arrotolò la seconda, se l’infilò nella tunica e poi si diresse verso l’agorà insieme ad Aspasia.
Lungo il tragitto parlarono il minimo indispensabile e in modo allusivo, per non confondere il
conducente.
Di fronte all’officina di Aspasia, dall’altra parte della Via Grande, c’erano alcune botteghe.
Patroklos era appoggiato a un albero rinsecchito, nel punto in cui gli odori di un pescivendolo si
confondevano con quelli di un fabbricante di profumi. Bomilcare si domandò se le condizioni
miserevoli dell’albero dipendessero dal terreno della città, secco e duro, oppure da quelle esalazioni
pestilenziali.
«Aspasia deve fare ancora un po‘“di ordine» disse. «Poi l’accompagnerai alla sua abitazione
e resterai con lei fino a questa sera. Vi aspetto tutti e due all’osteria diTuzillu, verso il tramonto.»
«Dovrò mangiare insieme a voi?» domandò Patroklos con tono di meraviglia.
«Se lo desideri… come ricompensa per aver lavorato in mezzo a tutti questi bei profumini.
Non so se ci sarà il pesce, ma spero che abbia un odore migliore di questo.»
Letilio attendeva nell’officina dei carri; aveva con sé il suo bagaglio: una bisaccia. Da sotto
il mantello da viaggio arrotolato intorno, spuntava l’impugnatura della spada.
«Un equipaggiamento modesto per un lungo viaggio»
disse Bomilcare. «E, se non piove o fa freddo, perfino il mantello è superfluo.»
«Devo per questo sperare nella pioggia?» disse Letilio mostrando i denti.
«Perché mai un lungo viaggio?» chiese Zililsan spostando lo sguardo da uno all’altro. «Si è
chiarito qualcosa, nel frattempo?»
«Non ho fatto altro che rivoltare i miei pensieri da una parte all’altra» rispose Bomilcare.
«Immagino che resterò lontano almeno per una luna, forse di più.»
«Ah. E da che cosa dipenderà, se sarà di più?»
«Dal vento e dalle onde.» Bomilcare sogghignò. «E anche dal sole e dalla luna.»
«E quel romano lì?»
Letilio aggrottò le sopracciglia.
«Il romano viene con me. E forse ritornerà anche con me, se lo vorrà. Evidentemente ha già
deciso quantomeno di partire e ha fatto il suo fagotto.»
Discussero di alcuni dettagli e alla fine Bomilcare disse: «Vieni daTuzillu, questa sera. Non
so se prima di allora accadrà ancora qualcosa, ma in ogni caso ne potremo discutere per l’ultima
volta laggiù. E ti potrai anche riempire la pancia.»
«Voi che cosa farete fino allora?»
Bomilcare osservò Letilio, che ricambiò il suo sguardo con un sorriso obliquo.
«Credo che dovremmo restare lontani dagli occhi di membri del Consiglio, giudici e suffeti.
Tu non ci hai visto, amico mio… nel caso in cui qualcuno di loro ti chieda di noi.»
«E nel caso in cui me lo chieda qualcuno dei nostri?»
Bomilcare si rivolse al romano. «Hai preferenze particolari?»
Letilio esitò. «Mi piacerebbe rivedere il giardino di Amilcare. Ma probabilmente la Megara
è piena di nobili punici, non è vero?»
Bomilcare pensò con tristezza e malinconia a quell’appezzamento estremamente curato nei
pressi della tenuta di Amilcare: il santuario in cui il grande stratega aveva seppellito sua moglie e
certamente avrebbe voluto anche lui riposare. Laggiù, ai piedi di un’altura, all’ombra di ampie
latifoglie, sgorgava una sorgente; era circondata da pietre scure e alimentava un limpido bacino in
cui crescevano piante acquatiche multicolori. Dall’altra parte sorgeva una specie di tempietto:
quattro colonne semplici e sottili, di marmo color carne, sostenevano un tetto spiovente, al di sotto
del quale si trovava solo un comodo giaciglio di legno nero pregiato.
Su ambo i lati della costruzione, un tempo (era trascorso un anno o un’eternità?), si
estendevano aiuole fiorite dai mille colori, brulicanti di api. Le piante emanavano un profumo dolce
e delicato. Davanti al lato anteriore dell’edificio c’era un secondo bacino, più piccolo. Dal giaciglio
si vedeva una pietra marezzata, con venature rosso sangue e i motivi confusi dei cristalli di quarzo:
una lastra, non molto più alta del busto di un uomo. Erano rimasti a lungo laggiù: Bomilcare, Letilio
e Daniel, l’amministratore della grande tenuta nella lontana Byssatis, che si trovava nel piccolo
podere in occasione di ogni evento particolare. Daniel, che ora Bomilcare aveva deciso di andare a
cercare e di cui gli sembrava quasi di sentire la voce, mentre parlava della sua padrona amorevole,
la madre dei Leoni, le cui ceneri erano seppellite in quel giardino, dentro un calice d’oro. Allora
Letilio aveva sorpreso e addirittura commosso Bomilcare con un’osservazione profonda, che il
punico non si sarebbe mai aspettato, tanto più da un romano: ci sono luoghi in cui si avverte una
presenza. È lì che si rifugiano gli dèi, quando sono disgustati dagli esseri umani.
Bomilcare ricordò con nostalgia lo stratega, il più grande di tutti i punici, caduto in Iberia e
sicuramente cremato in un luogo tanto lontano dalla quiete di quel giardino.
Gli costò una certa fatica riscuotersi da ricordi e amare sensazioni.
«Il giardino di Amilcare? Non sarà possibile» disse. «È un peccato, ma… non conosco il suo
nuovo amministratore, e inoltre c’è da temere che vi si trattengano alcuni membri del Consiglio dei
Nuovi. Che al momento non desidero incontrare.»
«Allora proponi tu qualcosa.»
Bomilcare si grattò la testa. «Nampamo» disse all’improvviso.
«È una malattia?»
Zililsan scoppiò a ridere. «È un nome. Bene, adesso so dove trovarvi. A stasera, dunque.»
L’osteria di Nampamo si trovava nella Lingua, la sottile striscia di terra che separava il Lago
diTynes dalla baia marittima.
Presentava due aperture per permettere il passaggio alle imbarcazioni da carico e ai
pescherecci: una direttamente a sud del porto di Qart Hadasht e la seconda verso il centro, entrambe
attraversate da un piccolo ponte. Nel mezzo si trovavano magazzini, officine, cantieri e soprattutto
orti con coltivazioni di frutta e verdura. In uno di questi orti, l’anno prima, Bomilcare avrebbe
potuto trovare un pezzo di papiro importante, se solo gli fosse venuto in mente qualche ora prima…
«È proprio un bel posto per sparire senza che nessuno se ne accorga» disse Bomilcare.
«Meno male che quest’idea mi è venuta al momento giusto.»
«Mi esporrai sicuramente le tue considerazioni complicate» disse Letilio. «Questo mi
potrebbe aiutare a comprendere su che cosa devo fare affidamento.»
Bomilcare rise. «Vieni» disse. «Andiamo all’abitazione di Aspasia, a prendere le mie cose.
Bisaccia, monete e così via.
Ti dirò quello che ti devo dire lungo la strada.»
Dalla porta a occidente del bacino commerciale si dipartiva una strada stretta che conduceva
alla Lingua. Bomilcare scambiò qualche parola con una delle sue guardie, che era seduta lì a fissare
il mare. Attraversarono il primo ponte e si diressero verso sud in mezzo alle officine degli artigiani
e agli orti; nel frattempo studiarono i piani per i giorni successivi. Un po‘“meno di un’ora dopo
essere entrati nella Lingua giunsero a un secondo ponte e, subito dopo, alla capanna del vecchio il
cui nome era sembrato a Letilio quello di una malattia.
Nampamo doveva avere più di cinquantanni; il suo volto era attraversato, anzi solcato, da
rughe e pieghe. Dopo aver salutato Bomilcare e fatto la conoscenza di Letilio con un borbottio,
portò loro acqua e vino e si piazzò davanti al focolare della capanna per preparare il pranzo.
Letilio si sedette su un ceppo di legno. «Quel viso» disse «o meglio, quelle sembianze, deve
averle rubate certo da qualche parte.»
Bomilcare fece un piccolo sogghigno. «E dove?»
«Probabilmente un tempo sono appartenute a un demone che, per aver instillato brutti sogni
nel riposo degli uomini, è stato confinato in un tempio sotterraneo e adesso, fino alla morte di
Nampamo, deve errare senza la faccia attraverso l’oscurità dell’oltretomba. Forse gli dèi degli inferi
l’hanno pietrificato.»
Bomilcare rise. «Hai delle trovate sorprendentemente brillanti, per un romano.»
«Dipenderà certo dal fatto che passo fin troppo tempo insieme a punici sconclusionati.»
«Però mi è difficile immaginare di errare pietrificato; come è possibile?»
«A me invece sembra ancor più difficile, e molto più avvincente» disse Letilio con voce
affettata «sapere quali dèi siano responsabili della pietrificazione e quali a favore del fatto che, alla
morte di Nampamo, il volto venga restituito al vecchio proprietario.»
«E allora Nampamo che cosa rara? Senza volto nel regno delle ombre?»
«Sicuramente ne ha un altro, che ci svelerà nel corso della giornata.»
Dal momento che erano entrambi in vena di facezie, oppure non volevano più parlare di
quello che li attendeva, si avventurarono in una lunga discussione sulle pietre erranti e il vento
sabbioso, che dovettero condurre in ellenico perché a un certo punto al romano vennero a mancare i
termini punici.
«Raccontami qualcosa su di lui» disse alla fine Letilio, stanco di ridacchiare. «Chi è, e da
dove viene?»
«Un vecchio soldato.» Bomilcare guardò in direzione della capanna di tavole e giunchi,
dalla quale provenivano scricchiolii, sibili e imprecazioni. «Uno dei sottocapi di Amilcare nella
grande guerra. Padre libio, madre punica. Alcuni anni prima della fine della guerra è stato
gravemente ferito da un tuo connazionale ed è ritornato in patria. Ha ereditato da suo padre
un’officina e due imbarcazioni in questo stesso posto.
È andato tutto distrutto nella guerra contro i mercenari: una schiera di numidi ha
saccheggiato la Lingua fino al ponte. Lui è stato legato a una croce e gli hanno spezzato le gambe
sotto il ginocchio: per questo zoppica. Poi hanno violentato e ucciso sua moglie davanti ai suoi
occhi e hanno arrostito vivi i suoi due figli. E sono ripartiti a cavallo, senza preoccuparsi più di lui.
E rimasto appeso alla croce per due giorni, fino a che non sono ritornati i suoi vicini, che erano
riusciti a fuggire in tempo.»
Letilio rimase per un po‘“in silenzio, poi mormorò: «Una storia adatta per ritornare seri. Ha
famiglia?».
«Vive con una donna nera, originaria del profondo sud.
Credo che sia una schiava fuggita; ma chi verrà mai a cercarla qui?»
«Una schiava di Cartagine?»
«No, di una delle città antiche: Ityke o Hipu. Probabilmente si occupa delle capre, sulle
colline all’estremità meridionale della Lingua.»
Nampamo aveva preparato un pranzo squisito a base di muscoli, granchi e pesce con porri,
vino e spezie, insieme a pane appena sfornato. Si sedette con loro a tavola (la ruota di un carro sul
ceppo di un albero, ricoperta da alcune assi di legno) e mangiò a sua volta qualcosa da una scodella.
«Che cosa fa la tua donna?» gli chiese Bomilcare.
«È con le capre. Stasera ritornerà a casa con il formaggio fatto con il loro latte.»
«Devi sapere che il formaggio è amato in modo particolare dalle mie guardie e dai soldati
della fortezza.»
«Vengono spesso qui?» chiese Letilio.
«Quando qualcuno di loro non si riesce a trovare, puntualmente un altro dice: “Lo avete già
cercato nella Lingua?”.»
Nampamo borbottò piano. «Che cosa vi conduce qui? Un romano e un cananeo?»
«Ti senti a disagio con i romani perché ti hanno ferito?»
chiese Letilio.
«È accaduto in guerra. Io ho ucciso i romani, i romani hanno ucciso i nostri uomini. È quello
che hanno stabilito gli dèi, e gli uomini lo fanno.»
«Bomilcare mi ha raccontato dei numidi…»
Il vecchio alzò le spalle. «Buoni soldati dalla nostra parte, buoni nemici quando sono stati
contro di noi» disse. «E più tardi, alcuni non erano più umani. O forse… forse erano troppo umani.
Non so ancora, dopo tutti questi anni, se l’umanità che è in noi si perda nella bramosia del sangue e
nella crudeltà, oppure se si manifesti soltanto in questo modo. Forse è meglio non saperlo.»
«Sai che cosa ne è stato di loro?»
«Uno l’ho rivisto.» Nampamo fissava l’acqua del mare lontano. «NellaValle della Sega.»
Letilio si piegò in avanti. «Ceri anche tu? Pensavo…»
«Un vecchio, ferito e con le gambe spezzate? Ah, romano, ci sono cose più importanti delle
ferite e delle ossa. L’odio. La brama di vendetta. E Amilcare aveva bisogno di uomini.»
Bomilcare chiuse gli occhi per alcuni istanti. La Valle della Sega. Aveva visto molte facce
della morte e molti modi di uccidere, lenti e crudeli, rapidi e pietosi. Durante la guerra, in
scaramucce, nella lotta contro i criminali della città. Alcuni gli erano apparsi onorevoli ed eroici,
altri semplicemente inevitabili, molti orribili. Ma, se mai gli dèi misteriosi avevano permesso o
prodotto l’orrore perfetto e assoluto, era stato in quella valle. Era sufficiente menzionarla per far
impallidire guerrieri ben temprati; e perfino quelli che, come lui o naturalmente Letilio, ne avevano
soltanto sentito parlare, trasalivano quando veniva fatto quel nome.
Una valle rocciosa in un altopiano roccioso. Otto anni e mezzo prima, Amilcare e il suo
alleato numida, il futuro genero Naravas, con abili mosse avevano attirato e spinto l’esercito dei
mercenari in quella strettoia. Gli elefanti e la fanteria pesante ne avevano sbarrato l’accesso, i fanti
avevano occupato le pareti rocciose che la circondavano. Era la trappola perfetta, ancor più dopo
che Amilcare aveva fatto spostare con elefanti, ganci e leve alcuni enormi blocchi di pietra per
chiudere ogni possibile via d’uscita. Anche le pareti ripide sui lati erano state rese più inaccessibili
di quanto già erano, grazie a soldati che le sorvegliavano giorno e notte.
Cinquantamila libi, iberi, celti, sicelioti, italici, con un migliaio di prigionieri e circa
diecimila schiavi, alcune centinaia di cavalli e numerosi buoi da traino. Per i primi giorni ebbero
cibo e acqua.
Scavarono alla ricerca dell’acqua, ma trovarono solo miseri rivoli. E nella valle non c’erano
altro che pietre. Niente alberi, niente cespugli, niente erba. All’inizio diedero fondo alle provviste.
Poi macellarono gli animali. Oltre ai carri, non avevano nulla per accendere il fuoco; dovettero
mangiare tutto in fretta, crudo, prima che andasse a male con il calore del giorno.
Poi i prigionieri. Quindi gli schiavi. Macellati e divorati.
Crudi, senza fuoco. E alla fine si giocarono a dadi i soldati semplici. Non i capi,
naturalmente. Bevvero il sangue, allungato con la poca acqua del torrente.
Con l’assassinio di inviati e ostaggi, all’inizio della guerra, avevano oltraggiato gli dèi e le
regole dell’umana convivenza. Con quello che accadde nella Valle della Sega, persero le loro ultime
parvenze di umanità e divennero ricettacoli di orrore, la feccia della terra.
Non potevano arrendersi e nessuno poteva accettare la loro resa. Chi di loro avrebbe potuto
mai ritornare nel suo villaggio o nella sua città, dormire con la propria moglie, pregare gli dèi?
Amilcare avrebbe detto che avevano distrutto tutto ciò che separa gli esseri umani dal nero nulla…
perché mai allora avrebbe dovuto farli nutrire e abbeverare dai suoi uomini, permettere al male di
andarsene per il mondo a impestare ogni cosa?
Alla fine i comandanti dei mercenari uscirono dalla valle per trattare, nonostante tutto.
Amilcare pretese degli ostaggi; poi tutti gli altri avrebbero potuto abbandonare la gola, uno per volta
e disarmati. Quando i comandanti accettarono, prese come ostaggi loro e le loro scorte.
Gli assediati videro soltanto che i loro capi erano stati legati. Si sentirono disonorati da
infami traditori. Strillarono, sbraitarono, presero le armi, si precipitarono in mezzo alle rocce.
«Un muro di cadaveri» disse Nampamo con tono inespressivo «su cui gli altri continuavano
ad attaccare come se fosse una rampa. Suoni per i quali non esistono parole.
Morte, morte, morte, un tappeto sonoro di sangue raggrumato, la melma nera dell’Ade. A
migliaia hanno cercato di aprirsi la strada combattendo. Altri hanno provato a scalare le ripide pareti
di roccia; in alto li attendevano giavellotti e spade.
Alla fine, gli elefanti, cento elefanti con lunghi coltelli sulle zanne, le zampe larghe molli e
pesanti, spinti avanti e indietro per la valle. E poi gli avvoltoi.»
Rimasero per qualche tempo in silenzio. Bomilcare bevve un sorso di vino allungato con
l’acqua e gli parve che qualcuno vi avesse intinto la lama sporca di sangue.
A un certo punto Nampamo disse: «Uno l’ho visto, come ho detto, alla fine. Era rimasto tra
gli ultimi. L’ho tirato fuori dal mucchio e l’ho interrogato. Ha detto che gli altri erano morti tutti, a
parte il capo del gruppo. Di lui però non sapeva nulla. Forse era morto, forse era fuggito, ma non
era nella valle». Ammutolì.
«E allora?» disse piano Letilio. «L’hai cercato?»
Nampamo annuì. «Inutilmente. Anche tra coloro che, dopo la guerra, sono giunti a Qart
Hadasht da altre città. Aveva troppi nomi, sapete. Oppure nessuno. Non so in che modo il tempo
abbia cambiato il suo volto, sempre che sia ancora vivo. Ma mentre… ma mentre era sopra mia
moglie e rideva, perché lei gridava, ho visto una cicatrice sul suo sedere.
Comincia al di sopra della natica sinistra e prosegue diagonalmente come una saetta, come
una falce seghettata. Ho sognato per molte notti di poter esaminare tutti i numidi della stessa età con
il posteriore nudo. Ma lo spettacolo era così ridicolo che mi sono sempre svegliato sghignazzando,
prima di trovarlo.»
«E l’altro? Nella Valle della Sega?»
Nampamo si guardò le mani e ne contrasse le dita come se le volesse mettere intorno al collo
di qualcuno e stringere.
«Dopo che ha parlato, l’ho ucciso. Lentamente.»
Letilio annuì. «Gli dèi erano con te e senza dubbio ti hanno perdonato.»
Bomilcare strinse gli occhi a fessura. Conosceva quella storia, ma non aveva mai sentito
prima di allora il vecchio raccontarla in modo così dettagliato.
«E poi?» disse. «Ti è… servito?»
Nampamo lo guardò con un’espressione che parve un po’
meravigliata. «Uomo saggio» disse a bassa voce. «No, non è servito. Da allora mi sento
come uno di loro.»
Dopo una pausa più lunga, aggiunse: «Parliamo di voi. Che cosa pensate di fare?».
«Di nuovo i numidi» disse Bomilcare.
«Ah. Racconta.»
Senza entrare troppo nei dettagli, Bomilcare gli riferì gli avvenimenti degli ultimi giorni.
«E così volete partire a cavallo questa notte o domattina presto?» disse alla fine Nampamo
scuotendo il capo.
«C’è qualcosa che non ti convince?» gli chiese Letilio.
«Troppi uomini in città» borbottò Nampamo. «Se tu fossi quel Dabar, romano, dove ti
nasconderesti? All’aperto, in campagna, dove chiunque ti vede da lontano, oppure in mezzo a
cinquecentomila altri? Uno dei suoi uomini potrebbe lavorare nell’osteria di quell’ibero. Forse a
uno dei tirapiedi di un membro del Consiglio viene voglia di mangiare le stesse cose e questa sera vi
si reca e vi vede, e gli viene in mente che un giudice ha ancora qualche domanda.»
«Tu che cosa proponi?»
«Sarebbe meglio che non andaste più in città. Ma, se è proprio necessario…» Nampamo
indicò la sua capanna. «Venite qui, dopo che avete mangiato. Fate in modo che domattina presto un
paio di cavalli vi attendano all’estremità meridionale della Lingua, vicino alle mie capre. Partite da
laggiù.
Senza che nessuno vi veda.»
L’osteria di Tuzillu assomigliava quasi a una fortezza. La costruzione a due piani si trovava
al centro del cortile interno di un edificio. Un quadrato dentro un quadrato, che copriva una
superficie di circa trenta passi per trenta, e sembrava avere cent’anni o anche più. Il cortile interno
ospitava anche le stalle; nella sua struttura Tuzillu poteva non solo nutrire gli affamati, ma anche
alloggiare i viaggiatori al piano superiore e i loro animali nei locali adiacenti.
L’oste non era particolarmente alto; quanto all’età, a Bomilcare pareva sui trentacinque anni.
Tuzillu accolse di persona Aspasia, Letilio, Patroklos e Bomilcare, che si erano ritrovati davanti
all’ingresso.
«È un grande onore, capo delle guardie» disse. «Qui, prego. Oggi le sale da pranzo
rimarranno vuote; con il bel tempo, approfittiamo del cortile.»
«Il cortile interno di un edificio nel cortile interno di un blocco di case.» Bomilcare scosse il
capo meravigliato mentre attraversavano le sale da pranzo del pianterreno e uscivano di nuovo
all’aperto. Al centro dello spiazzo c’era una fontana in muratura; alcune teste di leone sputavano
acqua in una vasca piatta, collocata in alto, dalla quale il liquido defluiva in altre situate più in
basso.
«Come funziona?» chiese Letilio. «Hai una pompa da qualche parte, azionata da alcuni
schiavi?»
Tuzillu era raggiante. «Bello, non è vero? Venite, vi faccio vedere.»
Passarono davanti ad alcuni tavoli ancora liberi; dietro la fontana c’era una cassa di legno
decorata con fiori e rami dipinti. Dal momento che era alta più di un uomo, Bomilcare si domandò
se non potesse essere definita piuttosto come una rimessa.
«Vedete?» Tuzillu aprì un’anta della cassa, una specie di porta. Fece un cenno a uno schiavo
dell’osteria, che stava accendendo lampade e fiaccole. «Illuminaci qui!»
I visitatori osservarono che, all’interno, la cassa si allungava per altre due braccia circa sotto
il livello del suolo. Sul fondo c’era un grande bacino pieno d’acqua, con due telai, collegati tra loro
da ruote dentate ingranate l’una nell’altra.
Dalle piccole vasche della fontana di fronte, disposte a torre, scendevano diagonalmente
alcuni tubi, in modo che l’acqua in eccesso confluisse in un beccuccio di scarico, dal quale cadeva
in grandi recipienti di bronzo appesi l’uno sopra l’altro a una catena sottile.
Quando uno dei recipienti era pieno scendeva e si svuotava nel bacino, tirando verso il basso
la catena che correva su una ruota dentata. La prima ruota azionava la seconda, che si muoveva in
direzione contraria. I suoi denti si inserivano nei passanti di una correggia a forma di scala e la
tiravano verso il basso. L’estremità superiore della cinghia di cuoio passava su un cilindro, dall’altra
parte del quale il meccanismo tirava verso l’alto un’altra correggia cui erano appese, per mezzo di
ganci, alcune bisacce di tessuto impermeabile. Erano leggere e grandi appena la metà dei recipienti
di bronzo del primo sistema, e portavano l’acqua dal bacino inferiore fino a un recipiente di
terracotta posto in alto, dal quale il liquido si riversava nelle fauci dei leoni.
«Davvero geniale» disse Letilio fischiando tra i denti.
«Chi l’ha costruito?» domandò Bomilcare.
«Un artigiano egizio itinerante.» Tuzillu sogghignò. «Si è bevuto tutti i suoi averi e ha
dovuto saldare il conto lavorando per me.»
Si sedettero a un tavolo lungo accanto alla fontana.
Tuzillu fece portare diverse brocche piene di vino, acqua fresca e succo di frutta, insieme a
semplici bicchieri di terracotta.
«Per mangiare aspettiamo che arrivino gli altri» disse Bomilcare. «Spero che ci sia qualcosa
di buono.»
Tuzillu si alzò in piedi. «Nel giro di un anno mi sono guadagnato una buona reputazione. Se
non vi piacerà, venderò l’osteria!» Sembrava davvero indignato.
Verso il tramonto il cortile interno si riempì. Bomilcare osservò di soppiatto gli altri
avventori. Autolykos e Zililsan, arrivati più tardi, dissero a bassa voce che non vedevano nessuno
che ispirasse loro sfiducia. La maggior parte degli uomini erano originari dell’Iberia o comunque
meteci; in mezzo a loro non c’era nessun numida, almeno che si potesse riconoscere dall’aspetto o
dalla lingua, e si distinguevano solo due punici anziani.
Tigalit comparve con la donna di nome Penthesileia e due guardie del corpo. “Fin troppo da
guardare, con quel corpo”
pensò Bomilcare “il terreno potrebbe anche sprofondare sotto il suo peso.”La donna
imponente, che era più alta di lui di una testa e pesava circa una volta e mezzo più di lui, aveva
avvolto il suo corpo bianco come il latte in un lungo kitun verde, che le arrivava fino alle caviglie, e
con le maniche lunghe fino ai polsi. Il capo era fasciato da una sciarpa di colore rosso vivo; i lobi
delle orecchie sporgenti ed elefanteschi, dai quali pendevano monili d’argento con pietre verdi,
erano altrettanto bianchi. Così come il volto; Bomilcare si disse di nuovo che era il profilo di donna
più bello che avesse mai visto.
Bella e soffocante.
«Il guardiano della città» disse Tigalit avvicinandosi con un ampio sorriso e abbracciandolo.
Mentre Bomilcare si sentiva schiacciato a quel corpo sodo dai muscoli tesi, si domandò come
avesse fatto lui, tutore dell’ordine, a guadagnarsi le simpatie di quella principessa dei bassifondi… e
perché mai lui l’avesse pregata di venire. Per disperazione? Perche sperava in suggerimenti proficui
dal regno dei bassifondi?
Tigalit salutò Aspasia stritolandola in modo simile: «La signora dei gioielli migliori; ti
ricordi i miei orecchini?», e Letilio: «È di nuovo qui anche il piccolo romano? Ti annoiavi a casa?».
Penthesileia era alta tanto quanto Tigalit, ma snella: un fascio di tendini, di energia, stretto in
un abito di cuoio scuro. Aveva la pelle olivastra, tesa sugli zigomi; i suoi occhi neri e sottili
sembravano voler trafiggere Bomilcare, che immaginò provenisse dall’Asia, dalle steppe orientali
ben al di là delle terre degli sciti. Poteva avere venticinque anni…
sempre che nel suo paese le persone invecchiassero con il medesimo ritmo delle altre. Un
cenno, un lieve sorriso, che avrebbe potuto essere altezzoso oppure invece timido, e poi si rivolse
agli altri.
Le due guardie del corpo si sedettero a un tavolino vicino al passaggio dal cortile interno
porticato all’osteria e in qualche modo, come Bomilcare si accorse più tardi, riuscirono a tenere una
mano sempre vicina all’impugnatura del loro coltello lungo anche mentre mangiavano e bevevano.
Come la maggior parte degli altri, portavano sandali e tuniche chiare.
La vivacità del verde e del rosso di Tigalit, e del marrone scuro del cuoio di Penthesileia,
venne in qualche modo sovrastata dall’abbigliamento di Bostar. Il punico arrivò per ultimo, e da
solo. Il suo kitun lungo sino alle ginocchia era composto da strisce verticali: seta nera, lino bianco,
lana sottile tinta di porpora, ognuna delle quali separata da fili d’oro quasi impercettibili. Sui suoi
capelli crespi scuri portava un copricapo realizzato con strisce di cuoio tinte di verde, di porpora e
d’oro.
Il comproprietario del Banco della Sabbia, uno degli uomini più ricchi di Qart Hadasht,
riusciva a non essere per niente pacchiano nemmeno con quell’abbigliamento di certo per lui
inusuale. Dopo aver salutato tutti si diresse al suo posto a capotavola con grande naturalezza, senza
apparire affatto arrogante. E lì si fermò.
«Avevo già sentito dire che eri di nuovo in città, romano»
disse.
«Gli uomini deboli non riescono mai a liberarsi dalle cattive abitudini» replicò Letilio.
«Parleremo delle abitudini, buone e cattive, mentre mangiamo. Prima però ordiniamo. Chi è
stato a invitare?»
«Nobile signore Bostar» disse Bomilcare «il romano voleva assolutamente ricambiare la
cortese ospitalità che gli era stata riservata l’anno scorso.»
Bostar diede una pacca sulle spalle di Letilio. «Questo ti onora, ma potrai farlo a Roma,
prima o poi. Se nessuno ha obiezioni, offre il Banco della Sabbia.»
Nessuno ribatté e, uno dopo l’altro, presero tutti posto intorno al tavolo lungo. Alla sinistra
di Bostar si sedettero Aspasia, Bomilcare, Patroklos e Zililsan, alla destra Tigalit, Letilio,
Penthesileia e Autolykos.
«Tazirat mi ha detto di salutarvi» disse Aspasia. «Tra breve si sposerà con il suo compagno
Idnibal e ha ritenuto meglio non accettare il tuo invito.»
Letilio annuì. «Dille che mi dispiace non vederla, ma che comprendo le sue ragioni e auguro
a lei e a suo marito la felicità e il favore degli dèi.»
Bostar e Tuzillu (che almeno all’inizio servì personalmente gli illustri ospiti, anziché
lasciare il compito agli schiavi e alle cameriere dell’osteria) discussero sui particolari del pranzo,
accordandosi su miglio con olio di sesamo, muscoli, carne di granchio e fagioli neri, seguiti da un
vassoio con pesci stufati, cipolle, porri e una salsa al vino, poi coniglio arrosto, frutta a pezzetti con
succo e panna e, per finire, formaggio fresco mescolato con miele e noci. Quando fu tutto sistemato
eTuzillu fece portare altro buon vino della Byssatis, Bomilcare si rivolse a Bostar.
«Hai qualche altra notizia dall’Iberia, signore? Noi abbiamo appreso soltanto della morte
dell’impareggiabile Amilcare.»
Bostar si passò la mano sugli occhi. «Una perdita tremenda» disse con tono cupo. «La città
dovrebbe piangere per giorni.»
«Che cosa fanno gli altri? I figli, Asdrubale… e Antigonos che, a quanto ho sentito, si
trovava per caso in Iberia?»
«Sono caduti molti uomini validi. La sera stessa della battaglia in cui morì Amilcare,
l’esercito ha nominato Asdrubale nuovo stratega. I figli di Amilcare sono vivi, così come
Antigonos.» Bostar contrasse la bocca in una smorfia ironica.
«Sebbene mi domandi che cosa abbia fatto per meritarlo.
Antigonos, intendo dire. Se deve essere sempre presente quando accadono cose importanti,
non è detto che debba cavarsela sempre.»
«Ti ha scritto? Altrimenti come faresti a essere così bene informato?»
«Il Banco della Sabbia ha investito molto denaro nelle imprese iberiche; per questo abbiamo
molte persone che ci informano. E non dimenticare che le notizie vengono trasmesse anche per
mezzo dei fari lungo le coste, oltre che con la nave messaggera veloce. Tuttavia, non tutti i dettagli
che il Consiglio e altri vengono a sapere giungono fino alle orecchie del popolo.»
Tuzillu e due schiavi dell’osteria portarono i primi vassoi e le scodelle. Intorno al tavolo si
intrecciarono sei o sette argomenti di conversazione; Bomilcare non riusciva a seguirli tutti, però si
accorse che la misteriosa donna originaria delle steppe dell’Asia mangiava in abbondanza e taceva
sistematicamente. Letilio fece a più riprese evidenti tentativi di parlare con lei, ma non riuscì ad
andare al di là di cenni, gesti e singole parole. Fino a metà del pranzo si parlò di cose senza
importanza, ci si scambiarono voci e pettegolezzi o si lodò il cibo.
«Adesso tocca a te» disse alla fine Bostar, quando i pesci furono divorati e vennero portati i
grandi vassoi con i conigli.
«Che cosa è successo?»
«Temo che in qualche modo sia tutto collegato» disse Bomilcare. «Numidi, iberi e tutto il
resto.»
«Ti riferisci alla spada?»
«Come fai a saperlo? Dovrebbe essere un segreto, a quel che si dice.»
Tigalit ridacchiò. «Io lo so. E lo sanno anche i signori dei bassifondi, che la stanno
cercando.»
«Tu come fai a saperlo, e loro come fanno?»
«Nulla rimane segreto» disse Bostar. «Ognuno conosce qualcuno che per caso sente o vede
qualcosa e lo riferisce, e chi possiede sufficienti informazioni può ricostruire dai singoli frammenti
l’anfora dell’orrore. È così, o immensa?»
«È così, signore dei tesori. Oppure devo già dire membro del Consiglio… Rab Bostar?»
Il punico sorrise appena. «Non so come tu faccia a sapere anche questo; in effetti non ho
ancora deciso. Ma probabilmente andrà a finire così.»
«Un uomo valido in Consiglio non guasta di certo» disse Letilio. «Te lo dico da buon
nemico.»
«Ti ringrazio» ribatté Bostar con un inchino ironico.
«Sebbene l’approvazione di un romano non mi mandi in visibilio.
Quello che Roma approva, può recare soltanto danno a Qart Hadasht.»
«Ci sono fin troppi idioti in Consiglio» disseTigalit. «E
troppi uomini che, prima di ogni decisione, chiedono innanzitutto ad Annone che cosa ne
pensa. Un uomo come te, Bostar, che sa da dove viene il denaro, che cosa è il potere e che il mondo
continua al di là del mare… è una ricchezza per il Consiglio e per la città. Per tutti noi.»
«Io conosco una persona che non la vedrà così. Anzi, due.»
«Chi sono questi due?»
«Uno è Annone.» Bostar storse il naso. «Da vent’anni il denaro del Banco della Sabbia e
Antigonos rappresentano un ostacolo per lui.»
«Speriamo che questo ostacolo sussista ancora a lungo»
disse Bomilcare. «E l’altro chi è?»
«Antigonos» rispose Bostar ridendo. «Ama viaggiare.
Però, se io non potrò più occuparmi soltanto della banca ma, di tanto in tanto, anche della
città, dovrà trattenersi qui più a lungo.»
Bomilcare riferì degli strani avvenimenti riguardo alla spada, al tempio, al giardino, ai
membri del Consiglio e ai numidi. Alla fine disse: «Uno dei miei uomini, catturato dai numidi, ha
sentito il loro capo discutere con un punico, probabilmente un nobile. Parlavano di una spada che
verrà trasportata prima ad Alessandria e poi in Iberia».
Bostar chiuse gli occhi per un respiro, li riaprì e disse: «Questo significa che stanno
organizzando una rivolta nell’entroterra che potrebbe coinvolgere anche la città; prima vogliono
ottenere una tregua o addirittura un aiuto dall’Egitto e poi sobillare i soldati numidi in Iberia. E
forse anche gli iberi».
«Chi potrebbe nascondersi dietro tutto questo?» chiese Ti galit fissando Letilio. «Chi… a
parte Roma?»
«Io non ne so nulla» rispose Letilio alzando entrambe le mani. «E sono sicuro che nemmeno
i senatori insieme ai quali sono venuto ne sanno qualcosa. Certamente a loro… a noi piacerebbe
molto avere la spada; non voglio certo negarlo.
Ma, per quanto ne so, non c’entriamo con questa storia.»
«Bah bah bah» disse Tigalit. «E a parte Roma?»
Bostar appoggiò il mento sulle mani intrecciate. «Se non fosse completamente assurdo»
borbottò «direi: Annone.»
Tigalit soffiò l’aria tra i denti, ma non disse nulla.
«Ho parlato con lui» disse Bomilcare. «Mio malgrado.»
«Lo credo bene» ammiccò Bostar. «Uno si sente come…
come se stia attraversando un bosco sapendo che dietro ogni albero, dietro ogni parola di
Annone, potrebbe essere nascosto un arciere pronto a colpirlo.»
«A me sembrava piuttosto di dover attraversare a nuoto uno stagno pieno di coccodrilli»
disse Bomilcare.
Tigalit rise. «Non ho ancora avuto questo piacere, ma mi state rendendo curiosa.»
«In ogni caso» disse Bomilcare «era di buonumore; immagino che sapesse già della morte
del Barca. Disse che trovava tutta questa storia dei membri del Consiglio che fuggono davanti alla
morte di uno di loro, della spada eccetera…
insomma, disse che la trovava strana, e mi ha concesso senza esitazioni di rovistare nel
giardino. Il giardino appartiene al tempio di Baal Melqart.»
Bostar strinse le labbra a formare una striscia sottile.
«Annone ha un solo interesse, vale a dire la sua grandezza e il suo potere personale. Per i
suoi scopi è disposto ad accettare montagne di cadaveri. Ma non riesco a collegarlo in alcun modo a
questi avvenimenti.»
«Neanch’io» disse Tigalit. «Annone può essere grande e potente soltanto se lo è anche la
città nella quale vive. La città è l’albero su cui si trova il suo nido. Questa storia della spada… se
tutto è così come sembra, non ci può guadagnare nulla.»
Letilio sollevò il bicchiere. «In tal caso brindiamo alla salute di Annone il Grande» disse «al
suo potere e alle sue ricchezze. Mi piace il tuo paragone con l’albero e il nido, donna possente.
Stando così le cose, abbatterebbe l’albero sul quale vive.»
Tigalit bevve, osservandolo da oltre il bordo del bicchiere.
«A proposito, ti sono piaciute le mie graziose bestioline, piccolo romano?»
«In questa città non rimane nascosto davvero nulla, a quel che sembra. Begli animali, ma…»
Letilio sorrise. «Quando hanno mal di gola, probabilmente si lamentano molto a lungo.»
«Di che si tratta?» chiese Bostar.
«Tiene due camelopardi vicino a un tempio di Dagon.»
Bomilcare tossicchiò. «Principessa dei bassifondi, quegli animali divorano la chioma di
alberi che per il sacerdote sono sacri.
Si è lamentato.»
«Faccia pure. Anni fa mi ha offesa. Quando portavo ancora i pesi al mercato, mi ha ordinato
ogni genere di frutta e di carne per una festa e quando ho insistito per essere pagata, anziché
regalare tutto al dio, mi ha chiamato “lurida scrofa verrucosa”.»
«E così hai comprato la casa accanto al tempio e ti sei fatta portare quegli animali enormi
dal profondo sud della Libia solo per farlo arrabbiare?» disse Letilio. «O abissi punici!» aggiunse
raggiante.
«La casa apparteneva a Gulussa; l’ho ereditata dopo la sua morte, insieme a tutto il resto. E
con gli animali voglio partecipare alle gare di corsa.»
Bomilcare rise. «Mi piacerebbe proprio vederli! Fammi un piacere, Tigalit: aspetta che io sia
di nuovo in città, prima di farli gareggiare. Camelopardi da corsa! Hai già trovato anche un modo
adatto per chiamarli: “leggiadri animaletti” o “piccoli coccoloni” o qualcosa del genere?»
«Le persone dalle quali li ho comprati, nella loro lingua li chiamano zurafo ziraf. Così ho
chiamato il maschio zirafa e la femmina zirafat. Chissà, forse non sanno soltanto correre, ma anche
riprodursi.»
Bostar nascose una smorfia con la mano. «Se permetti, lasciamo perdere le tue zirafim.
Dunque voi avete intenzione di scomparire?»
«Dal momento che evidentemente per giudice e suffeta è importante che io non lavori più al
caso, ma mi dedichi a un’interminabile convalescenza…»
Tigalit scosse il capo. «Ma questo è completamente assurdo. E come se sapessero qualcosa.
Oppure fossero coinvolti.»
«Oppure temono che potrei scoprire qualcosa che è più grave della scomparsa della spada.»
«La spada non ha alcuna importanza… per noi» disse Bostar. «Nemmeno come simbolo.
Infatti non ci crede quasi nessuno. Ma per i numidi avrebbe un’importanza enorme. I nobili signori
che cosa potrebbero…» Si fregò il naso. «Vedrò se qualche nostro compagno di partito ne sa
qualcosa. O se l’immagina. O è in grado di scoprirlo. Ma restiamo a noi. Se ho inteso bene, hai
deciso di andare avanti, non è vero?»
«Assolutamente.»
Tigalit gli posò la mano destra sull’avambraccio. «I miei complimenti, figliolo. Dove e
come?»
«La spada è in viaggio per Alessandria» disse Bomilcare.
«E poi per l’Iberia. Forse riusciamo a intercettarla ad Alessandria. E in caso contrario?»
Alzò le spalle.
«I lunghi viaggi per mare fanno bene alla salute.» Bostar rise a singulti. «Così dicono. La
questione non mi riguarda, io sono sedentario, ma forse troverete davvero qualcosa. Voi…
questo significa che tu andrai con lui, Letilio?»
«Mi hanno lasciato piena libertà» rispose il romano. «I miei capi ritengono che sia
opportuno essere informati il meglio possibile sui comportamenti assurdi dei punici.»
«E se trovate la spada, che cosa accadrà?» chiese Bostar guardando Bomilcare. «Come fai a
essere sicuro che lui non se la porti a Roma, in modo che quelli possano rivolgerla contro di noi,
insieme ai numidi?»
«Ha prestato un giuramento.»
«Uhm.» Tigalit fece una smorfia. «I romani credono a qualcosa su cui prestare un
giuramento a un punico?»
«È così. Ma dimmi una cosa, o immensa: nel corso di questa vicenda è stato fatto il nome di
Bodashtart il Verde.»
«Vuole diventare il padrone del mercato» disseTigalit. «Ma sono in molti a volerlo.»
«Dunque lo conosci.»
«Da molti anni. Da quando facevo la facchina.»
«Riesci a immaginare un possibile legame tra lui, la spada e i numidi?»
Tigalit fissò il vassoio del cibo ormai vuoto. «No» disse dopo una breve esitazione. «Ma
questo non significa nulla. Mi informerò in giro.»
Bostar intrecciò le mani dietro la testa. «Questo mi rende diffidente, Tigalit. Tu, uno dei
principi dei bassifondi… perché vuoi aiutare Bomilcare?»
«Sono nella stessa situazione di Annone» rispose lei mostrando i denti. «Posso prosperare
soltanto se la città prospera. E questi due, lo sbirro cananeo e il suo amico romano, li trovo
semplicemente deliziosi.»
Bomilcare diede un’occhiata a Letilio. «Amico?» disse. «E
sia. Mettiamoci d’accordo ancora su una cosa, Bostar.»
«Cioè?»
Bomilcare si mise una mano sul petto, facendo scricchiolare il papiro che aveva sotto il
kitun. «Nel caso in cui la spada abbia già lasciato Alessandria, qualcuno in Iberia deve esserne
informato. Ho scritto una lettera.»
Bostar allungò la mano. «Dammela.»
«Che cosa ne farai?»
«La farò ricopiare e aggiungerò ancora qualcosa di mio pugno. Come ben sai, il Banco della
Sabbia ha affari e interessi in Iberia. Al momento, proprio per via di questi tempi confusi, le navi
vanno e vengono continuamente da lì.»
Bomilcare gli porse il rotolo. «Nel caso in cui» disse poi «ripartissimo da Alessandria alla
volta di Mastia, puoi farmi un nome?»
«Il tuo orecchio.»
Quando Bomilcare avvicinò l’orecchio alla bocca di Bostar, il banchiere sussurrò: «Ad
Alessandria porta i miei saluti al banchiere Leonnatos. A Mastia a Mandunis, il principe dei
contestani. Ma forse allora ci sarà anche Asdrubale».
«Che cosa ci fa a Mastia?»
«Eh, ha alcuni progetti. Sempre che, prima di allora, le cose nell’entroterra siano sistemate.»
«Ancora una cosa, signore del Banco della Sabbia»
aggiunse Bomilcare sempre sussurrando. «Ho sentito che anche tra i Nuovi c’è un
Bodashtart che chiamano il Verde.»
«Non ne so nulla.»
«Si dice che voglia farsi eleggere in Consiglio.»
Bostar parve riflettere. «Me ne occuperò» disse. «Ma non ne ho mai sentito parlare prima
d’ora.»
«Ti posso importunare con altre richieste?»
«Di che si tratta?»
Bomilcare fece a bassa voce i nomi di giudici e membri del Consiglio di cui desiderava
conoscere la posizione, il rango e i trascorsi; Bostar gli promise di occuparsi anche di questo, ma
disse di non sapere se sarebbe stato in grado di rispondere a tutte le domande.
Tigalit guardò Bomilcare e poi Aspasia. «La tua graziosa amante dalle dita abili è sprecata
per te» disse. «Fra un po‘“mi piacerebbe avere qualche tuo gioiello nuovo. Forse qualcosa di adatto
per Penthesileia?»
Quando venne fatto il suo nome, l’asiatica alzò gli occhi, scosse il capo e disse: «Nessun
gioiello per le cacciatrici, soltanto armi. E sangue».
«Ehi.» Tigalit sorrise e si rivolse di nuovo ad Aspasia. «Che cosa intendi fare, mentre i due
ragazzi sono in viaggio? Ti potrei offrire un alloggio sicuro. In cambio, diciamo, di due anelli?»
«Una buona proposta» disse Bomilcare annuendo. «Che cosa ne pensi, o sublime?»
Aspasia sorrise prima a lui e poi a Tigalit. «Ti ringrazio, principessa. Ma, dal momento che
non mi sono mai allontanata da Qart Hadasht prima d’ora, non mi lascerò certo scappare questo
viaggio.» .
Bomilcare parlò con Autolykos di quattro cavalli e scambiò qualche parola anche con
Zililsan, che mormorò qualcosa a proposito di ombre nella notte; poi lui, Letilio e Aspasia si
diressero con il loro modesto bagaglio fino al porto e da lì alla Lingua. Dapprima si confrontarono
sulle discussioni della sera, poi ognuno avanzò le proprie supposizioni su Penthesileia. Quindi
taquero per un po’; a un certo punto Bomilcare sospirò e disse: «Compagna di giochi… vuoi farlo
davvero?»
«Lo voglio» rispose Aspasia. «Ho sempre desiderato andare ad Alessandria, prima o poi.»
«Però…»
«State zitti» disse Letilio. «Mi sembra di aver appena sentito qualcosa.»
«Oh romano dall’udito sopraffino» borbottò Bomilcare.
Poi però rimase in silenzio mentre riprendevano a camminare. Quando ormai la via
costeggiava alcuni magazzini isolati e per il resto passava soltanto in mezzo a piccoli campi e
giardini, Letilio fece cenno agli altri due di proseguire nel modo più silenzioso possibile: non lungo
la strada, dove ogni tanto si udivano scricchiolii, ma sull’erba del ciglio.
Allora anche Bomilcare sentì qualcosa. Dei passi che si facevano sempre più rapidi e si
avvicinavano. Si accorse che il romano allungava la mano verso l’impugnatura della spada.
Si voltarono entrambi ed estrassero le armi nel medesimo istante. Dietro di loro, ben visibili
alla tenue luce delle stelle e della luna non ancora piena, comparvero quattro uomini con il volto
coperto e le lance.
«Buttati a terra» disse Bomilcare mentre gli aggressori sembravano esitare. Il rumore che
sentì alle sue spalle gli confermò che Aspasia aveva seguito il suo consiglio. “Una volta tanto”
pensò.
I quattro uomini si gettarono su Letilio e su di lui. Il romano si piegò per evitare un colpo di
lancia e la deviò colpendone il manico con la spada. Bomilcare si scansò quando il secondo
aggressore lanciò contro di lui, maledicendo nel frattempo la ferita che gli bruciava come il fuoco e
gli impediva i movimenti.
Il terzo uomo lasciò improvvisamente cadere la lancia, alzò le mani e precipitò in avanti. Il
quarto rimase visibilmente interdetto, poi si voltò a metà e venne colpito al petto da una freccia
scagliata da un punto non illuminato dal chiarore lunare. I primi due aggressori fuggirono di lato,
verso la riva del mare.
Bomilcare s’inginocchiò accanto all’uomo che era caduto per primo. Questo mosse
debolmente le mani, che strisciarono sulla strada come se cercassero qualcosa, ma il suo movimento
terminò con un tremito.
Dall’oscurità comparvero Zililsan e Patroklos, entrambi con la spada in mano. Bomilcare
indicò la riva del mare.
«Attenzione, forse aspettano laggiù.»
Zililsan sbuffò; lui e Patroklos corsero piegati verso il punto in cui erano scomparsi i due
aggressori superstiti.
Letilio li seguì, mentre Bomilcare si occupava dell’altro ferito. Anche lui non avrebbe più
fornito alcuna informazione.
«Ti capitano sempre queste cose di notte, quando non ti corichi accanto a me?» domandò
Aspasia. Era seduta in mezzo alle piantine di giunco lungo il ciglio della strada; il suo viso, rivolto
verso la mezza luna, sembrava quasi bianco.
«Non di norma, ma sempre più spesso.» Bomilcare le si avvicinò e l’aiutò a rialzarsi, senza
smettere di guardarsi intorno.
Letilio li raggiunse. «Andati» disse «con un’imbarcazione.»
Dietro di lui comparve Nymar, che aveva appena rilasciato il tendine del suo arco. Guardò i
due morti con un’espressione impassibile.
«Capo» disse poi «ho tirato ancora qualche freccia verso l’imbarcazione, ma…» Alzò le
spalle.
«Grazie per averci salvato la vita, amico.»
Nymar sorrise. «Come ricompensa» disse «potresti almeno offrirmi qualcosa da bere. Credo
che dovremmo tutti trascorrere la notte da Nampamo e fare la guardia a turno, non pensi?»
«Tu lo sapevi?» chiese Aspasia.
«Lo temevo» rispose Bomilcare. «Per questo ho pregato Zililsan di seguirci a distanza. Se
l’avessi saputo, non ti avrei esposto a questo pericolo.»
«Ah» disse Aspasia. «Ti devo credere?»
«Meglio di no» disse Letilio raccogliendo il suo fagotto.
«Fino adesso ti avevo considerato una donna saggia, non una credulona.»
Il mattino dopo Barako li attendeva presso le capre, con tre cavalli da sella e una bestia da
soma.
Zililsan sbadigliò. «E va bene» disse. «Finora non abbiamo dormito molto, e adesso
dobbiamo rifare di nuovo tutta la strada fino al fiume e portare via i numidi morti. Venite, uomini.»
«Grazie» disse Bomilcare. «Ancora una volta grazie a tutti, amici. Ma non volete augurarci
buon viaggio?»
Zililsan ridacchiò in modo stridulo. «Non ritornate indietro troppo presto. Non prima che ci
siamo riposati a dovere.»
Impiegarono sette giorni per raggiungere la grande tenuta della famiglia dei Barca nella
Byssatis meridionale.
Trascorsero una notte nel fienile di un contadino ospitale, due in locande per mercanti e
carovane lungo la strada costiera che da Hadrymes conduceva verso sud e le altre all’aperto. I primi
giorni si rivelarono tutt’altro che privi di difficoltà, soprattutto pervia di gambe e natiche doloranti.
Quando si furono abituati a cavalcare a lungo, ormai anche la ferita di Bomilcare era guarita al
punto da non essergli più troppo d’impedimento lungo la strada.
Aspasia in particolare apprezzò i paesaggi e gli odori: la campagna sconfinata e non
delimitata da muri, le ondulazioni di pianure e colline ricoperte dalle piante dei cereali, le file
infinite degli ulivi e delle viti. Villaggi e cittadine, e poi ancora fattorie fortificate, sui cui campi
lavoravano gli schiavi, si alternavano con i campi e i frutteti dei contadini libi. L’aria salmastra
proveniente dal mare trasportava i profumi dei fiori selvatici e li mescolava all’odore della rugiada
dei campi e alle esalazioni dei cavalli.
«Bisognerebbe viaggiare sempre» disse a un certo punto Aspasia. «A che cosa servono le
città e la vita sedentaria? A poco a poco capisco mio figlio, che vuole rimanere per sempre insieme
agli animali e alle carovane.»
All’inizio i discorsi continuarono a ruotare intorno agli avvenimenti che erano stati
all’origine del viaggio. A un certo punto il romano iniziò a raccontare della sua patria, degli edifici
e degli odori della sua città e del territorio circostante, dei contadini, dei pescatori e degli uomini
ricchi delle antiche famiglie che prendevano tutte le decisioni importanti. Aspasia parlò della sua
infanzia nei sobborghi e della sua vita insieme all’orafo Laomedon, della nascita dei figli e della
malattia che le aveva portato via il marito.
Bomilcare rimase quasi sempre ad ascoltare gli altri due che conversavano. Era contento di
sentire la sua ferita guarire, di godersi il vento e il panorama, di essere per qualche tempo libero
dalle angustie della città e dai propri doveri. Era felice che la donna che amava si godesse il viaggio
e cambiasse continuamente, pur rimanendo la stessa.
Inoltre, come aveva già constatato l’anno prima, Letilio, il romano, il nemico fidato, si rivelò
un piacevole compagno di viaggio. Aspasia sembrava pensarla allo stesso modo. Una sera lei e
Bomilcare si erano appartati dietro un cespuglio per scoprire quanto fossero davvero cambiati e
quanto rimasti gli stessi. Più tardi, quando fu di nuovo accanto a Letilio davanti al fuoco, Aspasia
disse all’improvviso: «Peccato che io non sia un’etera».
Bomilcare rise piano, a singulti; Letilio distolse lo sguardo dalle fiamme che si stavano
spegnendo e disse: «Che cosa intendi dire?».
«In tal caso potrei, senza turbare il mio animo, né quello di Bomilcare, rendere più
gradevole anche il tuo viaggio, Letilio. E tu il mio.»
Letilio allargò le braccia. «Davvero. Ma non evochiamo fantasmi che in seguito ci
potrebbero venire a tormentare.»
«Inoltre non è il caso di sopravvalutare l’intesa tra romani, elleni e punici» disse Bomilcare.
«E potrebbe essere che tu non pensi alla tua famiglia tanto quanto si conviene a un romano bensì, di
tanto in tanto, a un’agile cacciatrice dell’Asia?»
«Ah» disse Aspasia sorridendo. «Se fosse così, bisognerebbe perdonarti. Peccato che lei
abbia parlato così poco.»
Giunsero all’antica tenuta della famiglia dei Barca con il caldo di una tarda mattinata. Il
cielo blu scuro era attraversato da strisce sottili del colore della panna liquida.
Quando la strada si divise in tre, tennero a freno i cavalli incerti sulla direzione. Sul lato
settentrionale della collina, circondato da cipressi e da piccole palme, c’era un capanno appoggiato
a un grande serbatoio per l’acqua in muratura. Le strade e i canali d’irrigazione si confondevano in
lontananza in strisce indistinte, oltre le quali le piante d’ulivo pendevano dal cielo a testa in giù. La
pianura ondulata avrebbe potuto proseguire fino ai confini del mondo, con i filari degli ulivi, la
lanugine bianca dell’aglio, le viti, i cereali, i carciofi.
Un uomo che lavorava in mezzo alle viti sulla loro sinistra gridò qualcosa indicando verso
destra.
«Probabilmente è la strada che porta alla casa» disse Bomilcare.
«Se è un vero punico, può anche essere la strada che porta a una fossa di serpenti» disse
Letilio sbuffando piano. «Ma qui i punici non lavorano certo nei campi, non è vero?»
La strada serpeggiava tra viti e ulivi, colline ai cui piedi si trovavano cisterne e fossati,
attraversava diversi ponticelli di pietra, saliva un poco e quindi ridiscendeva in un’ampia vallata
verde, in cui pascolavano mucche e cavalli. Al centro della valle, un muro alto come tre uomini
circondava un gruppo di maestose latifoglie secolari di colore verde scuro, in mezzo alle quali
s’intrawedevano le pareti bianche. Al di fuori dell’area circondata dal muro c’erano altre costruzioni
e stalle.
Attraversarono a cavallo la porta aperta e giunsero nel cortile, dove incontrarono un secondo
muro, poco più basso di quello esterno. Alcuni bambini che correvano li guardarono con curiosità
ed esclamarono qualcosa.
Dalla porta del secondo muro comparve un uomo con un’ampia veste bianca. Fece un passo
avanti, incrociò le braccia, fece un passo indietro, appoggiò le spalle alla parete e disse: «Una testa
d’argilla punica, una testa d’argilla romana, una flessuosa artigiana ellena! Che cosa ho fatto per
meritare questo indegno piacere?».
Bomilcare scivolò giù dal cavallo e lanciò le briglie a uno dei bambini, che nel frattempo si
erano avvicinati.
«Nobile Daniel, alcuni viandanti bersagliati dalle avversità della sorte bramano asilo,
alloggio e consiglio.» Mentre pronunciava queste parole, si guardò dall’esterno e si sorprese della
rapidità con la quale si era adeguato al modo di parlare dell’amministratore di Amilcare, che
ricordava piuttosto confusamente. “Adesso basta” si disse “è sufficiente che sia lui a parlare in
questo modo.”
Daniel allargò le braccia. «Entrate, derelitti, e portate con voi le vostre bisacce; qualcuno si
occuperà dei cavalli.»
Camminarono sotto gli alberi fino al secondo muro, all’interno del quale si trovavano altri
magazzini e stalle. Il terreno tra il muro e la casa era piastrellato di mattoni; Bomilcare vi scorse tre
pozzi. La casa vera e propria occupava una superficie di circa cinquanta passi per cinquanta; il
primo dei tre piani non aveva aperture verso l’esterno. La porta era rinforzata da sbarre di ferro.
Sotto le finestre del secondo piano, punte di ferro correvano lungo l’intero edificio come un orlo
sfrangiato.
«Gli abitanti della casa» disse Letilio «non sembrano vivere propriamente in pace con il
vicinato.»
«I tuoi connazionali non sono giunti fin qui» disse Daniel al romano sogghignando. «Sotto
Regolo; come sai, è stato…
dunque, ventisei anni fa. Durante la guerra contro i mercenari siamo stati assediati per
qualche giorno. Ma entrate, una buona volta
La piccola costruzione fortificata doveva il suo aspetto attuale, spiegò più tardi in un ampio
deambulatorio, al padre del padre di Amilcare, il Fulmine. I loro antenati si erano dovuti difendere
spesso dai predoni numidi o libi. Alcuni elementi dell’arredamento erano molto più antichi delle
mura.
C’erano pesanti cassapanche che risalivano a molti secoli prima, recipienti egizi di vetro
dell’epoca del dominio persiano sul Nilo, un pettorale di bronzo che era appartenuto a un soldato di
Creso, statuette di giada intagliate provenienti dalla Cina, una grande testa di scimmia imbalsamata
in modo misterioso (un loro antenato di nome Magone aveva partecipato alla lunga
circumnavigazione della Libia attraverso l’Oceano condotta da Annone il Navigatore). Da qualche
parte c’era un vassoio d’argento, delle dimensioni di una ruota da carro, con le immagini lavorate a
sbalzo di antiche divinità indiane, e accanto, su un’altra cassapanca, un semplice recipiente di legno
di cedro levigato, di un colore indefinito, per conservare l’incenso che il pilota della nave della
principessa Elissa aveva portato con sé da Tiro. Nelle stanze videro, sparse alla rinfusa, migliaia di
statuette di animali ricavate da ossa di balena, zanne d’elefante, scudo di tartaruga, onice, corniola.
In un locale del piano superiore Aspasia rimase senza parole davanti a gioielli d’oro,
d’argento e di rame verde, con centinaia di pietre preziose differenti; e ammirò una collana di pietre
verdi brillanti che si alternavano con altre più piccole, di colore rosso sangue, distribuite lungo un
sottilissimo filo d’oro, con due dischi dorati grandi come il palmo della mano, chiusi da un
fermaglio d’oro, su cui si pavoneggiavano uccelli fantastici di pietre preziose ricoperte da uno strato
sottile di vetro affumicato.
«La padrona amorevole» disse Daniel «la madre dei Leoni, che è sepolta nel giardino
segreto della Megara, indossava questa collana nelle occasioni speciali.» Si passò la mano sugli
occhi. «Anche Amilcare dovrebbe riposare laggiù. Ma venite; nel frattempo mia moglie avrà
preparato un modesto rinfresco.»
«Tua moglie?» disse Aspasia. «L’anno scorso sembravi piuttosto… bè, diciamo scapolo.»
Daniel ammiccò. «Deve dipendere dal fatto che il dio dei miei avi mi prescrive di prendere
in moglie soltanto un’ebrea.
Lei invece è una libia.»
«Quindi hai rinnegato la fede dei tuoi avi?» domandò Letilio.
«Oh no; l’ho svuotata con l’indifferenza e la trascuranza.»
Bomilcare strinse gli occhi. «Se non mi sbaglio, quella volta hai detto che in futuro
avremmo dovuto domandarti se nel frattempo avessi trovato un dio in cui valesse la pena di credere
o qualcosa del genere.»
«Domandamelo in futuro.» Daniel sorrise. «Non bisogna cercare troppo in fretta; alla fine si
potrebbe pure trovare qualcosa di spiacevole.»
I corridoi dei due piani superiori terminavano in ballatoi che davano sul cortile interno, cui
si poteva discendere tramite scale di legno. Davanti alle pareti interne del pianterreno, semplici
colonne di marmo verde sostenevano le arcate di mattoni su cui era posato il pavimento del
ballatoio. Fiori dai mille colori e dai diecimila profumi in vasi e aiuole riempievano il cortile al
centro del quale c’era un pozzo di marmo nero. Accanto, su un tavolo circondato da panche di
legno, c’era il rinfresco cui aveva accennato Daniel: arrosto freddo, pesce, pane, carciofi, porri
stufati, miele, formaggio, frutta, vino e acqua.
La donna silenziosa e gentile che li attendeva aveva preso il nome punico di Arishat. Daniel
le si rivolse più volte con un «oh tu, alla quale bisogna obbedire», lei lo chiamò una volta
«sovrano», due volte «ehi tu» e le altre «Daniel».
«Cinque figli» disse la donna «la metà dei quali intrattabili come questo qui. Perciò vogliate
scusarmi: passo il mio tempo a rassettarli e ripulirli.»
«Quanto fa la metà di cinque, regina della casa?» disse Bomilcare.
«Troppo» rispose la donna, scomparendo con un sorriso nelle profondità dell’abitazione.
Mentre mangiavano, Bomilcare spiegò, con aggiunte da parte di Letilio e interventi di
Aspasia, le ragioni del loro viaggio.
Daniel pose alcune domande intelligenti e alla fine si appoggiò all’indietro sulla panca e
intrecciò le mani dietro la testa.
«I soliti pasticci punici» disse. «Chissà come andranno a finire. Se siete venuti perché faccia
svanire per magia le vostre difficoltà, vi devo deludere.»
«Siamo venuti a farti visita» disse Aspasia sollevando il bicchiere d’argento e bevendo alla
sua salute. «E per non dormire sotto gli alberi per una notte.»
«Un bagno?» disse Daniel. «Dopo di che i piaceri del talamo, per poi rinnovare, alla sera,
quelli del convito? Per voi va bene, figli miei. Ma tu, romano, solo in terra straniera, a che cosa ti
dedicherai per tutto questo tempo?»
«Al bagno e al pianto» rispose Letilio storcendo il naso.
«Come fanno sempre i romani in terra straniera.»
«Ah, il pianto.» Daniel separò le mani che aveva intrecciato, si piegò in avanti e appoggiò i
gomiti sul piano del tavolo. «Le occasioni non sono certo mancate. Ma io mi ci sono dedicato in
privato e ora non ho più lacrime; neppure per le vostre peripezie.»
«Adesso tu che cosa farai?» gli chiese Bomilcare. «Che cosa ne sarà della tenuta e del
patrimonio? Hai ricevuto istruzioni?»
«E quando mai? C’è stata una breve lettera.» Daniel sospirò. «Nessuno più che scriva:
“Vecchio idiota, fai questo e non fare quell’altro”. Soltanto la comunicazione che il Fulmine era
morto. Voi sapete altro?»
Bomilcare riferì quello che aveva sentito da Bostar.
«Bè, certo» disse Daniel. «I giovani Leoni hanno altri problemi che le tenute di campagna e
i possedimenti bancari.
Immagino che quello scopacapre elleno, il meteco Antigonos, e il suo tirapiedi punico
Bostar mi diranno che tutto deve procedere come prima. Per il momento.»
Poi fece schioccare la lingua. «Bodashtart ilVerde» borbottò nel frattempo. «Nel giro di una
luna mi recherò nella capitale, per discutere di queste cose con Bostar e Antigonos, se nel frattempo
sarà ritornato. Potrei informarmi in giro: conosco ancora alcune persone dai vecchi tempi.»
«Sono sicura» disse Aspasia «che alla fine aiuterai in qualche modo questi ragazzi a chiarire
tutto. Senza di te, in ogni caso, non ce la farebbero.»
«Per quanto tempo avete intenzione di fermarvi?»
Bomilcare e Letilio si scambiarono occhiate incerte, poi il romano mormorò: «Più a lungo
possibile; ma la brevità è l’anima di quasi tutto».
«Ripartiremo a cavallo domani.» Bomilcare picchiò sul tavolo. «Purtroppo. Ma è necessario.
Com’è la situazione nel porto? A Ruspy, intendo dire.»
«In questo periodo da lì dovrebbero partire numerose navi per Alessandria.» Daniel borbottò
qualcosa, poi si mise a ridere. «Ho alcuni affari da sbrigare, a Ruspy. Perché non domani?
Se partiamo presto, saremo laggiù verso mezzogiorno; giusto in tempo per vedere quale
capitano che mi deve qualcosa è in partenza per l’Egitto… volete visitare ancora un po‘“la casa?
Tra voi c’è qualcuno che si entusiasma per gli scritti?»
Attraversarono il vasto edificio accompagnati da Daniel, illuminati dalle sue spiegazioni e
intrattenuti dalle sue divagazioni. Quasi tutte le stanze erano ricoperte da tappeti spessi, annodati in
prevalenza a Qart Hadasht, ma anche in Egitto o in India; ovunque, insieme ad antiche spade, erano
appesi arazzi multicolori; da tutte le pareti si protendevano braccia e pugni di ferro o di bronzo per
reggere le fiaccole. Tutte le stanze, anche quelle del piano terra che non aveva finestre verso
l’esterno, erano luminose e fresche: le pareti bianche riflettevano la luce del cortile interno, mentre
pozzi e feritoie assicuravano il ricambio dell’aria. Le finestre dei piani superiori che guardavano
verso sud erano chiuse con le imposte; tutte erano munite di telai di legno mobili, ricoperti da
vescica di maiale trasparente.
Le stanze per gli ospiti, in cui posarono le loro bisacce, disponevano di un ampio giaciglio
imbottito di cuoio, tavoli, sedie e di un accesso a un grande bagno con vasche e mastelli su cui,
come disse Daniel, «ci si può trattenere e liberare senza tormentarsi il posteriore, mentre si medita
sulla decadenza delle cose. Sempre che uno voglia farlo». Schioccò le labbra. «Di tanto in tanto
abbiamo ospiti provenienti da ogni parte del mondo, che si dilettano in tal modo.»
Negli altri locali, quelli del padrone di casa e della sua famiglia, utilizzati per l’ultima volta
molti anni prima, c’erano letti pesanti di legno d’ebano, con teste umane intagliate e dischetti
d’avorio, lenzuola di lino bianco sul cuoio teso e zigrinato, con sopra coperte di seta tinta di porpora
con passamaneria d’oro o di pesante broccato dorato.
Sugli scaffali neri della biblioteca, tre stanze comunicanti nell’ala occidentale, c’erano
migliaia di cilindri di terracotta sigillati con la cera. Contenevano rotoli di papiro, copie o pezzi
unici di opere incomparabili, inestimabili e in parte incredibili.
«Da anni mi diverto a compilarne un elenco» disse Daniel sventolando un rotolo spesso; alla
luce pomeridiana, che filtrava dalle aperture delle finestre attraverso le chiome degli alberi, i segni
che vi aveva tracciato sembravano le impronte delle zampe di cornacchie ubriache. «Ma non sarà
mai finito, e trovo continuamente cose nuove.»
Poi camminò lungo gli scaffali, tirò fuori alcuni rotoli e ne lesse titoli e incipit; quando
qualcuno glielo domandava, il papiro veniva srotolato su uno dei grandi tavoli: il racconto di
viaggio del pilota Magone, cento volte più dettagliato di quello di Annone che si trovava nel
tempio; un’antica trascrizione ellenica dei versi su Odisseo del cieco Omero, accompagnata da
un’antica traduzione in fenicio; copie delle cronache dei re della città di Tiro; cronache di Gadir,
Tarshish, Liksh, Kalpe, Kerne, Qart Annone sulla foce del Gyr; le cronache di Qart Hadasht, i
rapporti dei comandanti delle fortezze in Sicilia e in Sardegna, i rapporti dei comandanti dei porti
delle Isole Felici; le annotazioni dei capitani che avevano praticato il commercio attraverso
l’Oceano; una trascrizione clandestina dei libri sacri degli egizi in caratteri demotici; gli originali
egizi di Manetone; una versione in caratteri egizi ieratici delle storie sumere di Gilgamesh ed
Engiddu; una copia integrale dei libri della Sibilla, compreso quello che la veggente aveva distrutto
quando i romani non glielo avevano voluto pagare - Daniel lo mostrò ad Aspasia e Bomilcare
quando Letilio si allontanò per alleggerirsi: «Non vogliamo certo che i romani ne vengano a
conoscenza, non è vero?» -; le osservazioni astronomiche degli egizi e dei babilonesi; gli scritti
degli strateghi, dei tattici e degli assediatori elleni; Aristotele, Platone, Euripide, Sofocle, Eschilo,
Aristofane e molti altri autori greci; le memorie di Temistocle, scritte alla corte del re di Persia; le
storie mendaci, intricate e spiritose di Mutumbal, che era vissuto a Qart Hadasht quattrocento anni
prima; il racconto sintetico e, di tanto in tanto, malevolo di un mercante fenicio di nome Zaqarbal su
quello che era realmente accaduto a Ilio; scritti dei templi; elenchi commerciali, elenchi assicurativi,
elenchi di merci di navi che un tempo erano appartenute alla famiglia; la relazione di un navigatore
punico sul suo viaggio dall’Egitto fino alla Costa dell’Incenso, all’India e a Taprobane, alle isole
nel remoto Oriente in cui si trovavano tigri, elefanti, rinoceronti, strane lucertole giganti e montagne
che sputavano fuoco, e ancora oltre fino alla Cina, e poi indietro attraverso steppe e deserti,
montagne e fiumi impetuosi, fino al Ponto Eusino; i canti d’amore appassionati e malinconici -
mentre Aspasia li leggeva ad alta voce, versò lacrime nel suo bicchiere d’argento - di una poetessa
punica senza nome dell’epoca immediatamente successiva alla fondazione della città; i poemi epici
su mercanti e guerrieri di Bityas di Ityke, Glymat di Qart Hadasht, Magone l’Empio, Boshmun
l’Accidioso; i trattati tra Qart Hadasht e Tarshish, i trattati con etruschi, sicelioti, italioti, ateniesi,
corinzi, lacedemoni, egizi, persiani, arabi, cusciti, massalioti, romani, macedoni, getuli…
«Oh che tesori, che delizie!» esclamò Bomilcare sedendosi sul bordo del letto e affondando
le dita dei piedi nel tappeto spesso. Guardò le due piccole lampade a olio posate su una cassapanca,
che tremolavano allo spiffero proveniente dalle finestre; poi si voltò per metà e sfiorò le spalle di
Aspasia con la punta delle dita.
L’ellena si voltò sul ventre e appoggiò il mento sulle mani. «Sono assolutamente d’accordo
con te. Ma a che cosa ti riferisci esattamente?»
«All’acqua tiepida, all’olio e agli unguenti dopo una lunga cavalcata. E al piacere supremo
di dividere il letto con te.»
Rise. «Chissà se qualche grande pensatore ha mai riflettuto sul fatto che forse tutta la vita
non è altro che detergere il sudore per poi produrne altro. Pulirsi per poi sporcarsi.»
«Tu non sei un grande pensatore.» Aspasia lo guardò con una certa severità. O almeno a
Bomilcare sembrò che tentasse di farlo. «Io non mi sento sporca e sono contenta che la tua ferita
guarisca. Forse però potrei essere d’accordo con te, se tu non ti riferissi allo scopo. Detergersi il
sudore per poi produrne altro… dovresti dire: detergersi il sudore e poi produrne altro.»
«Ovviamente hai ragione.» Bomilcare scivolò giù dal bordo del letto, s’inginocchiò e chinò
il capo sorridendo. «Sono contrito. I semplici sbirri non dovrebbero azzardarsi ad anticipare i
pensieri delle persone più intelligenti. Sono stato inopportuno, oh bellissima.»
«Siediti… come ti chiama Daniel? Testa d’argilla punica. E
dì qualcosa di intelligente sugli scritti.»
«Quanto intelligente?»
«Più o meno come le tue facezie di prima sul sudore; a proposito, voglio farti qualche
domanda.»
Bomilcare si sedette e posò il palmo della mano sulla schiena di Aspasia. «Preferirei
accarezzarti» disse. «Qui, per esempio, oppure là. Oppure laggiù, ma per questo ti dovresti voltare.»
Aspasia si voltò e ridacchiò. «Non cambiare argomento.»
«Gli scritti? La stanza del tesoro delle verità dimenticate?»
«Bene» disse Aspasia a Bomilcare, che sul momento non comprese se si riferisse alle sue
mani o alle sue parole.
«Verità, Bomilcare… ammirare le verità per mentire meglio?»
«Quando mai avrei mentito, oh sublime?»
Aspasia si mise a sedere. «Ogni volta che parlate degli avvenimenti in città. Tu sai
certamente più di quel che dici. O
almeno lo immagini.»
Bomilcare gonfiò le guance e lasciò che l’aria ne sfuggisse lentamente. «Hai ragione» disse
poi. «Presumo di vedere determinati nessi. Ma, fino a che non sarò sicuro, non desidero parlarne . »
«Parlandone potresti diventarne più certo.»
«Donna saggia. Ma non è possibile.»
«Perché?»
«Letilio.»
Aspasia sospirò. «Voi uomini!»
«Questo non c’entra niente. È un romano, e alcune delle cose che credo di vedere hanno a
che fare con la sicurezza di Qart Hadasht. Con… con la raccolta e la trasmissione di informazioni
segrete.»
«È proprio per questo che dico “voi uomini”. Lui gioca al tuo stesso gioco.»
«Che cosa intendi dire?»
«Questa casa qui» disse Aspasia. «La fortezza dei Barcidi.
“Di tanto in tanto abbiamo ospiti provenienti da ogni parte del mondo”, eh? Qualcuno
raccoglie informazioni per Amilcare. Cioè, adesso per Asdrubale. Certamente non soltanto in Iberia
e in Italia, ma anche nel deserto, in Egitto, presso gli elleni, nell’entroterra. Esiste un luogo migliore
di questo per raccoglierle e metterle insieme? E per tenere, di tanto in tanto, incontri tra i
procacciatori di notizie, per discuterle oppure per impartire nuove istruzioni? Senza essere osservati
dal Consiglio o dalle spie romane? E chi potrebbe metterle insieme e riferirle meglio di un innocuo
amministratore della tenuta, che conosce da lungo tempo anche i lati oscuri di Qart Hadasht e visita
la città di tanto in tanto?»
«Temo che Letilio la veda in modo simile.» Bomilcare si alzò e si diresse verso una sedia su
cui erano posati abiti puliti. «E per questo che qui, alla portata delle sue grandi orecchie, non posso
parlare con Daniel nel modo in cui vorrei. Ma lo faremo in seguito.»
«Le orecchie di Tito non sono così grandi.» Aspasia rise e si alzò in piedi a sua volta.
«Quindi menti perché non ti fidi di lui?»
«Oh no.»
«E allora perché?»
«Perché mi fido di lui. Sono assolutamente fiducioso del fatto che utilizzerà a vantaggio di
Roma tutto quello che gli sembrerà utile.»
«Ma ti ha pur fatto una promessa. Che non ti danneggerà.»
«L’ha fatto.» Bomilcare annuì. «Non farà del male a te e non dimenticherà nessun coltello
nella mia pancia. Forse neppure nella mia schiena. Ma non danneggiare me e non danneggiare Qart
Hadasht sono due cose diverse.»
«Non vuoi proprio parlare con me delle tue supposizioni o intuizioni?»
«Potrebbe anche essere utile, ma…» Bomilcare esitò, poi disse a mezza voce: «È possibile
che, prima della fine del viaggio, ci imbattiamo in qualche pasticcio in cui sarà meglio non sapere
troppe cose».
Aspasia sospirò. «Probabilmente hai ragione. E adesso?»
«Andiamo. Ci vestiamo, mangiamo e parliamo.»
Parlarono fino a tarda notte; dapprima nel cortile, poi davanti al fuoco in uno dei grandi
soggiorni del primo piano.
Bevvero vino bollente allungato con miele e pepe, sentirono il crepitio della legna e quella
strana mistura di incenso e di altre erbe che saliva dal braciere come l’acqua fresca del porto, i canti
notturni di una vecchia libia provenienti dalle stalle, le storie di Daniel, divertenti e a volte
malevole, sulla sua giovinezza a Qart Hadasht, durante la grande guerra romana, le bravate insieme
agli amici Bostar, Antigonos e Itubal, un punico che gestiva una grande conceria, le grida degli
uccelli notturni, che si spensero lasciando spazio ai richiami delle cicale, e vino e parole, parole e
vino.
Al mattino il cortile interno era un labirinto di linee grigie e di aiuole verdi, permeate da
rivoli d’acqua e dai versi delle colombe che si risvegliavano. Il cielo si colorava di rosso pallido. I
profumi dei fiori, confinati durante la notte, si effondevano freschi e umidi.
Quando si congedarono da Arishat, la libia disse con un movimento del braccio che
sembrava voler circoscrivere tutta la casa: «È un buon posto per ritornare. Ritornate».
Aspasia l’abbracciò; Daniel batté le mani e disse: «I cavalli scalpitano. Questo è anche un
buon posto da cui partire.
Bada alle mie cose, oh tu alla quale si deve obbedienza, fino a che non sarò ritornato con
tutta la mia mediocrità».
Giunsero a Ruspy a mezzogiorno. C’erano numerose navi che avevano intenzione di partire
per l’Oriente il giorno dopo, con il vento del mattino. Qualcuna era diretta a Cirene, altre a Creta.
Soltanto un capitano voleva andare ad Alessandria, e per di più direttamente, senza
trascorrere notti a terra: un mercante cretese, che aveva venduto recipienti ottenendo in cambio
cereali, olio e prodotti d’artigianato. Daniel non aveva con ti in sospeso con lui, che tuttavia li prese
a bordo, dal momento che erano disposti a pagare il prezzo richiesto. O
almeno quasi. Il cretese pretendeva mezzo shekel al giorno per ciascun viaggiatore; dopo un
piccolo litigio, Bomilcare riuscì a farlo scendere a uno shekel per tutti e tre.
«Abbiamo bisogno di provviste? Di coperte?»
«Non vi preoccupate» rispose il capitano. «Abbiamo coperte in abbondanza e ci occuperemo
del vostro sostentamento.»
Presero congedo da Daniel, che promise di riportare i cavalli a Qart Hadasht la luna
successiva. Bomilcare saltò ancora una volta sul molo per scambiare qualche parola a bassa voce
con Daniel.
Quando fu di nuovo sulla nave, Letilio lo fissò con gli occhi stretti.
«Allora, è riuscito a farti i nomi delle vostre spie ad Alessandria?»
Aspasia aggrottò la fronte; Bomilcare rise.
«Certo. Ma ha fatto ancora di più: anche i nomi delle spie di Roma.»
La traversata non fu particolarmente piacevole. Bomilcare e Letilio la ritennero ancora più
sgradevole della maggior parte delle altre che avevano già compiuto; Aspasia, che affrontava per la
prima volta un viaggio in mare, lo trovò orribile. Il mercantile largo e panciuto traballava sull’acqua
come un carro troppo carico su una strada sconnessa. L’equipaggio non si preoccupava molto della
pulizia, né tantomeno della presenza di una donna a bordo, per non parlare della bontà del cibo. Ci
furono pesce salato, olive e funghi sott’olio, vino allungato con acqua di mare che piuttosto era
aceto, oppure acqua di anfore che, come sospettava Letilio, erano state lavate per l’ultima volta
poco prima della fondazione di Roma.
Dopo una sola notte, l’acqua imbarcata a Ruspy sapeva già di marcio. Il secondo giorno il
cibo consisteva in funghi sott’olio, pesce salato e olive; il terzo giorno ci furono olive, funghi
sott’olio e pesce salato; il quarto il capitano rese il banchetto ancor più sontuoso, offrendo del pane
grigio.
La notte Letilio e Bomilcare mettevano Aspasia in mezzo a loro per proteggerla dai marinai.
La seconda sera che erano in mare uno degli uomini, un elleno siriaco lurido, ricoperto di cicatrici e
di pustole, e con i pochi denti rimasti tutti neri, si accovacciò ai piedi dell’albero maestro.
«Ehi, figlia della gioia» disse.
Aspasia, seduta contro la murata tra Letilio e Bomilcare, alzò gli occhi.
Il marinaio sogghignò, si sfilò il sudicio perizoma e iniziò ad armeggiare con il membro
turgido.
«Ti vuoi accoppiare con le mosche?» disse Aspasia ridendo. «Attento, altrimenti ti si spezza
la canna.»
L’uomo borbottò qualcosa, ma non interruppe i suoi sforzi.
Bomilcare mormorò: «La tua spada, romano».
‘ Letilio annuì e infilò la mano nella sua bisaccia da viaggio.
Bomilcare si portò una mano dietro la schiena. Il coltello si conficcò nell’albero maestro,
due dita sopra la testa del marinaio. «Il prossimo ti libererà da ogni piacere» disse.
L’uomo si rimise il perizoma lanciando alcune imprecazioni oscene e si diresse verso prua.
«Comunque non era necessario» disse Aspasia. «Non mi turbo così facilmente. Ma grazie lo
stesso.»
«Bomilcare ha pensato sicuramente anche a se stesso»
disse Letilio ridendo a singulti. «Ha avuto paura che, ogni volta che ti si fosse avvicinato,
avrebbe ricordato questo senso di disgusto e non avrebbe più provato piacere.»
«Mi ricorderò anche di una serie di altre cose» disse Bomilcare.
«Per esempio?»
«Per esempio del fatto che, da questo momento in poi, io e te non possiamo più dormire
contemporaneamente, e che tu ti sei dichiarato disposto a fare il primo turno di guardia.»
Il romano annuì. «Sono già stati molti i marinai a finire in pasto ai pesci per motivi molto
più futili.»
Quel viaggio sgradevole durò otto giorni e sette notti.
Quando, in un tardo pomeriggio, entrarono nel porto orientale di Alessandria, non ebbero
sguardi di ammirazione per l’imponente torre luminosa sull’isola di Faro, per la struttura ardita
dell’argine lungo sette stadi che l’univa alla città, per le splendide facciate di marmo delle grandi
case commerciali: volevano soltanto abbandonare la nave il più presto possibile.
«Mi dovete dieci shekel» disse loro il capitano mentre si apprestavano a scendere sul molo.
«Dieci?» disse Bomilcare. «Uno al giorno, fanno otto.»
«Più due per ringraziarmi di avervi portati sani e salvi ad Alessandria d’Egitto.»
Letilio estrasse la spada. «Diglielo, Bomilcare.»
Il cretese guardò prima la punta della spada, che danzava nell’aria a meno di un avambraccio
di distanza dalla sua gola, e poi il volto di Bomilcare. «Che cosa mi devi dire, punico?» L’ultima
parola gli morì quasi in gola.
«Otto shekel per otto giorni» disse Bomilcare. «Ne sottraggo uno perché non tocca a te, ma
agli dèi che hanno rinunciato ad affondare la tua barca. Un altro perché dovremo spendere molto
denaro nei bagni, per lavarci via lo sporco e la puzza di questa nave. Un altro ancora perché
abbiamo dovuto mangiare merda di cammello e bere piscio di cane. E uno perché hai spacciato per
coperte quattro stracci tenuti insieme a fatica dai pidocchi. Fanno quattro. Te ne do cinque per
ringraziare di non dover vedere mai più la tua faccia.»
In una locanda non lontana dal porto di Eunostos trovarono due stanze abbordabili, semplici
e pulite che tuttavia, dopo i giorni e le notti a bordo, apparvero loro di un lusso sfrenato: lettiere
imbottite di cuoio al posto di panche luride, coperte senza bestioline al posto di stracci, oltre a un
tavolino e a una scodella con una brocca d’acqua in ogni camera. Dopo aver sistemato le proprie
cose e pagato per tre notti, il sole era già tramontato.
«Che cosa vogliamo fare?» disse Letilio quando furono nella via illuminata dalle fiaccole.
‘ « Qui ci saranno sicuramente dei bagni aperti a tutti. »
Aspasia storse il naso e si annusò le ascelle.
«Ci sono; mi sono già informato.» Bomilcare indicò verso destra. «Due isolati, poi uno a
sinistra. Una casa in una piccola piazza.»
«Andiamoci subito!» Letilio s’incamminò, poi si fermò di nuovo. «Ci saranno anche dei
vestiti?»
«Butteranno via i nostri stracci e ci daranno abiti puliti; non costeranno moltissimo. A meno
che tu non desideri una pelle d’orso colorata di porpora.»
«Dopo il bagno» disse il romano «vi abbandonerò. Per un pochino. Ho alcune esigenze, e vi
assicuro che non si tratta di pelli d’orso.»
Aspasia gli sfiorò il braccio. «Ti auguro di urlare per il piacere, e che Priapo ti conceda
abbastanza fiato per riprovarci.»
«Sei davvero sprecata per quello lì» disse Letilio.
«Me l’hanno già detto molte volte» ribatté Aspasia ridendo. «Ma si dicono tante cose, e
spesso a sproposito.»
«Abbiamo anche altre esigenze» disse Bomilcare allontanando Letilio e Aspasia, che
continuavano a sorridersi.
«Domani, per esempio. Come vogliamo procedere?»
«Ah» sospirò Aspasia. «Adesso ricominciano i vostri squallidi giochetti?»
«Non proprio squallidi» replicò Letilio protendendo la bocca. «Hai una proposta?»
«Sì, ne ho una. Non possiamo lasciare Aspasia sola in questa città. Se uno di noi rimarrà
sempre insieme a lei mentre l’altro raccoglie informazioni, saremo anche sicuri di non spiarci a
vicenda.»
Dopo il bagno Bomilcare e Aspasia ritornarono alla locanda.
«Dopo essersi lavati, bisognerebbe ritemprarsi» disse Bomilcare sbirciando attraverso
l’ingresso della sala da pranzo, da dove provenivano rumori e odori invitanti; poi guardò la scala
che conduceva alle stanze per gli avventori del primo piano. «Oppure stancarsi, per poi ritemprarsi
ancora di più.»
Aspasia gli afferrò la mano e lo trascinò verso la scala. «È
da molto tempo che non inventiamo più parole nuove.»
Bomilcare fece schioccare la lingua. «Hai ragione. E, visto che ci troviamo in un posto in cui
non siamo mai stati prima d’ora, sfruttiamo l’occasione. Lo sai come si chiama qui il porto
orientale, vero?»
«Eunostos.» Aspasia rise e lo tradusse dall’elleno al punico. «Vuol dire “felice ritorno”. Ti
riferisci a questo?»
«Ho voglia del tuo Eunostos, mia cara.»
«Allora» disse Aspasia «io voglio vedere se il tuo Faro brilla.»
Il mattino dopo un Letilio dall’aspetto alquanto sbattuto («è stata… ah, potente») si assunse
il compito, che definì estremamente piacevole, di tenere compagnia ad Aspasia fino a mezzogiorno.
Bomilcare si recò per prima cosa nella banca cittadina per incontrare la persona di cui gli
aveva parlato Bostar.
Leonnatos, uno degli uomini preposti al commercio con l’Occidente, era un macedone sulla
quarantina, con il naso appuntito, gli occhi taglienti e rughe profonde che dagli angoli della bocca
gli scendevano fino al mento. Fece in modo che Bomilcare potesse cambiare venti shekel punici con
trentasei dracme con l’effigie di Tolomeo III senza dover pagare una commissione eccessiva.
Tuttavia non aveva informazioni utili da dargli; confermò soltanto che alcuni uomini di cui
Bomilcare gli aveva chiesto notizie si trovavano ancora in città.
«Ma di questa nave di… come hai detto, Mandrokles? No, non ne ho mai sentito parlare. E
neanche di messi punici o numidi.» Giocava con uno stilo dorato che sembrava sprecato per
incidere semplici cifre su una comune tavoletta di cera. “Almeno scrivere una preghiera sulla parete
di un tempio”
pensò Bomilcare “oppure qualche verso con giochi di parole osceni su un papiro.”
«Comunque ritorna di nuovo da me domani sera» disse alla fine Leonnatos. «Poco prima del
tramonto del sole, l’ora in cui chiudiamo. Forse per allora avrò sentito qualcosa.» Poi si piegò in
avanti. «E comunque sii prudente. Le orecchie lunghe del sovrano sono ovunque.»
«Ti ringrazio per l’avvertimento, ma non avevo intenzione di fare nulla contro Tolomeo.»
Leonnatos scosseli capo. «Basta una battuta.»
«Anche se è brutta?»
«Più è brutta, meglio è.» Leonnatos sorrise stanco. «Una buona battuta sul sovrano o su uno
dei suoi alti consiglieri è sufficiente per finire in una cava di pietra per qualche anno.
Forse una battuta brutta passa inosservata.»
Neppure dai tre uomini con cui parlò nel corso della mattinata riuscì a ottenere informazioni
sulla nave di Mandrokles. In effetti non c’era da meravigliarsi, si disse, con la grande quantità di
navi provenienti da tutto il mondo che giungevano ogni giorno a ognuno dei porti di Alessandria.
Poteva evitare di prendere in considerazione il porto principale, quello orientale fortificato:
laggiù non sarebbe entrata nessuna nave proveniente da Qart Hadasht. Ma il solo Eunostos era
grande e, nella parte orientale del porto di occidente, c’era il bacino artificiale protetto di Kibotos,
dal quale un canale che attraversava la città conduceva verso sud, al mare interno. A quanto gli
aveva detto Leonnatos, la maggior parte delle merci finiva laggiù. Tutto quello che non era
destinato direttamente o veniva prodotto ad Alessandria, ma proveniva o doveva essere inviato
nell’entroterra, arrivava al Lago di Mareotis, a uno degli immensi magazzini. Oppure veniva
trasbordato direttamente su navi più piccole, che percorrevano il canale che conduceva verso sudest
fino al Nilo e quindi risalivano il fiume. Mandrokles poteva aver avuto le sue ragioni per dirigersi in
questo mare interno; ma come avrebbe potuto un uomo solo interrogare i mille lavoratori del porto e
i duemila schiavi dei magazzini?
A mezzogiorno incontrò Letilio e Aspasia nel luogo convenuto, davanti a una colonna sul
limite orientale del bacino di Kibotos, dedicata al fondatore della dinastia regnante.
Mentre cercava di decifrare in qualche modo i lineamenti del primo Tolomeo (vi colse
brama di potere e consapevolezza della propria forza, ma nessuna traccia delle esperienze
straordinarie vissute dall’amico di gioventù, compagno di battaglia e diadoco del grande
Alessandro), sentì la voce del romano alle proprie spalle.
«Non ti sforzare, punico: non parla con il primo venuto.»
Mentre mangiavano qualcosa, Aspasia raccontò che erano stati nei giardini del palazzo e alla
tomba di Alessandro.
«Però ci tornerei una seconda volta con te, se lo desideri. È
tutto molto bello. È molto morto.»
«La tomba o i giardini?»
«I giardini sono vivi, ma… troppo ordinati. L’erba, i fiori e gli alberi, tutto curato e azzimato
come soldati che attendano l’arrivo del generale che li passi in rivista.»
Per un punico la tomba del grande macedone non era altro che oro, marmo, raffigurazioni di
imprese eroiche, splendore freddo. Bomilcare e Aspasia bighellonarono lungo le strade ampie,
imbattendosi di continuo in esempi di splendore freddo: case alte, frontoni inarrivabili, schiavi
altezzosi. E
sbirri, sbirri ovunque, che andavano in giro a osservare la gente e a scacciare i mendicanti
dalle strade dei ricchi.
«Ci sono pochissimi egizi» disse Bomilcare all’improvviso.
«Almeno qui, in questa parte.»
«Hai ragione. Eppure io che sono un’ellena punica non me ne ero ancora accorta.»
Uno schiavo che stava spazzando i gradini che conducevano al portone di una casa elegante,
li aveva sentiti.
«Voi stranieri?» disse. «Qui anche romet… cioè egizi, ma solo pochi ricchi. Di solito romet
fuori, Rhakotis.» Indicò verso sudovest.
«Dobbiamo essere prudenti» disse Bomilcare a bassa voce mentre riprendevano il cammino.
«È meglio che parliamo in punico. Immagino che le guardie delle parole e dei pensieri non lo
conoscano.»
Trascorsero diverse ore al Museion e soprattutto nell’adiacente Grande Biblioteca.
Bomilcare si divertì a chiedere di alcuni testi che aveva avuto tra le mani solo pochi giorni prima
nella biblioteca dei Barcidi. Per due volte i custodi degli scritti lo sorpresero: erano disponibili sia le
annotazioni del mercante Zaqarbal sulla guerra di Troia, sia una traduzione del resoconto di Annone
sulla traversata dell’Oceano.
Tuttavia l’uomo che andò a prendergli i rotoli gli disse che, da quando lavorava nella
biblioteca, qualche volta gli avevano chiesto l’opera di Annone, ma mai quella di Zaqarbal prima di
allora. Gli altri testi che Bomilcare gli aveva elencato invece non c’erano.
«Impressionante» disse Bomilcare alla sera, quando furono seduti insieme a Letilio nella
sala da pranzo della locanda, a mangiare carne di ippopotamo e a bere birra scura amara.
«Assolutamente impressionante, lo ammetto.
Assolutamente splendido. Ma assolutamente altero e freddo.»
Letilio scosse il capo. «Sono indeciso. Da una parte ti do ragione. Dall’altra mi piacerebbe
che a Roma ci fosse almeno un poco di quello che qui è fin troppo.»
Aspasia rimase in silenzio. Bomilcare immaginò che, dicendo da una parte, Letilio si
riferisse a Qart Hadasht, ai vicoli brulicanti della città bassa, all’animazione della Via Grande, alle
case dei ricchi e ai templi sulla collina della Birsa, alle ville di campagna nella Megara. Alessandria,
fondata quando la città dei punici aveva già cinquecento anni di vita, era come il palazzo
appariscente di un arricchito. Però ovviamente Letilio non poteva dirlo apertamente e Bomilcare
rinunciò a farlo al posto suo.
Immaginò che Aspasia stesse pensando qualcosa del genere.
«Siete molto gentili» disse improvvisamente il romano, sorridendo e alzando il bicchiere.
«Che i vostri antenati possano godere ancora a lungo di discendenti così degni. Però avrei una
piccola richiesta.»
«Parla» disse Aspasia. Poi, con un sorriso quasi affettuoso, aggiunse: «Sciocco romano».
«Domattina spero di vedere un uomo che oggi non sono riuscito a trovare. Perciò domani
dovremmo invertire l’ordine dei turni.»
Nel primo pomeriggio Bomilcare incontrò lo scrivano di un mercante rodio che faceva affari
con il Banco della Sabbia. Il mercante invece, come gli assicurò lo scrivano, si divertiva ad
andarsene in giro, a bordo della sua nave, da qualche parte tra Asia e Siria.
«Ma se posso esserti utile io…» Guardò Bomilcare aggrottando le sopracciglia e mormorò
in punico: «lo farò con piacere».
Bomilcare chinò il capo. «Permettimi una sola domanda…
riguardo alla nave di un capitano di nome Mandrokles.»
«Proveniva da Carcedonia» disse lo scrivano, passando di nuovo alla koiné comune a tutti
gli elleni «si è trattenuto qui per qualche giorno ed è ripartito alla volta dell’Iberia.
Mastia, credo.»
«Fate affari con lui?»
«Non noi, ma altri da cui abbiamo sentito qualcosa.»
«Quando è stato qui e da quanto tempo è partito?»
Lo scrivano rifletté. «Non lo so con precisione, ma… credo che sia arrivato dieci giorni fa e
ripartito otto giorni fa.»
Dal momento che la sua strada passava comunque dalla banca di Leonnatos, decise di fargli
una breve visita, sebbene il tramonto del sole fosse ancora lontano.
«È capitato» disse il macedone «che ieri sera abbia cenato con alcuni soci in affari. Il tuo
capitano, Mandrokles, è stato al palazzo nove giorni fa.»
«Al palazzo? Ha parlato con il sovrano?»
Leonnatos alzò le mani con le dita divaricate. «Ma che cosa vai a pensare! Come se il divino
sovrano avesse tempo per un mercante. Però ha parlato con uno dei collaboratori del consigliere più
importante per le relazioni con l’Occidente.»
Bomilcare si alzò e accennò a un inchino. «Nobile Leonnatos, mi sei stato di grande aiuto.»
Il banchiere posò le mani sul piano del tavolo e rimase seduto.
«Non io» disse. «Qualcuno ti ha detto qualcosa. Io ti ho consigliato perché vuoi investire del
denaro ad Alessandria, non è vero? Tra questi consigli c’è ancora qualcosa.» Ammiccò.
«Il capitano non era solo. Con lui c’era un punico… un uomo di nome Adherbal, a quel che
si dice, con il collo particolarmente lungo e il pomo d’Adamo.»
Al porto Bomilcare si sedette a riflettere su una delle massicce pietre da ormeggio. Gli
sembrava di riuscire a pensare bene mentre fissava l’acqua o il fuoco, ma sapeva che era soltanto
un’illusione e che quei due elementi facevano ondeggiare i suoi pensieri o li trascinavano in un
luogo remoto, in cui tutte le idee si incrociavano, si intrecciavano e si confondevano.
D’un tratto qualcuno gli toccò la spalla. «Mi sbaglio o sei davvero Bomilcare, il compagno
di giochi dell’ospitale Aspasia?»
Bomilcare alzò lo sguardo e vide il volto sorridente del mercante arabo Taqur. «Non ti
sbagli… ma che cosa ci fai qui?»
Taqur appoggiò un piede alla bitta sulla quale Bomilcare era ancora seduto. «Non ti avevo
detto che volevo andare ad Alessandria?»
«È vero, me l’avevi detto. Hai tempo?»
«Poco. Parto domattina presto, se il vento sarà favorevole.» Indicò un gruppo di mercantili
addossati l’uno all’altro, ormeggiati intorno a un’isola galleggiante nel centro del porto. «Laggiù c’è
la mia nave, ma da qui non la puoi vedere.
Tempo per che cosa?»
«Per una passeggiata, un bicchiere, due parole?»
Taqur rise. «Andiamo» disse. «Ma non qui. Qui c’è troppo rumore. E troppe orecchie.»
Camminarono lungo la sponda occidentale del canale che dal bacino di Kibonos conduceva
verso sud, fino al Lago di Mareotis. Taqur non aveva fretta di ascoltare quello che Bomilcare voleva
dirgli; gli fece osservare alcuni vicoli particolarmente tortuosi che si dipartivano dalle rive del
canale, le taverne egizie e i cani randagi nei quali una setta, i cosiddetti “ascoltatori orecchiuti dei
sussurri di Anubis”, vedeva la reincarnazione dell’antico sovrano.
«La parte migliore di Alessandria» disse a un certo punto a bassa voce, sebbene nelle
vicinanze non ci fosse nessuno che avrebbe potuto ascoltarlo «è Rhakotis.»
«I macedoni migliori sono gli egizi?»
Taqur rise. «Vedo che ci intendiamo.»
Si recarono in una modesta osteria, frequentata soltanto da egizi, per bere birra e
chiacchierare. All’inizio si mossero entrambi con grande prudenza. Parlarono in punico, e non
soltanto perché ritenevano che questo diminuisse le possibilità di essere origliati. Il domino secolare
dei macedoni era certamente inattaccabile, ma l’amore degli egizi per i dominatori stranieri era
altrettanto scarso.
A un certo punto Taqur disse che il giorno dopo aveva intenzione di partire per l’Iberia, per
Mastia.
«Hai posto per tre ospiti?»
Taqur rimase per un po‘“in silenzio a fissare la superficie oleosa del mare interno attraverso
l’apertura della finestra dell’osteria. «Tu e chi altri?» disse alla fine.
«Aspasia. E un romano.»
«Romano?»
«Mi aiuta.» Bomilcare raccontò al capitano della loro collaborazione dell’anno prima e di
questo nuovo viaggio. Poi decise di confidare all’arabo qualcos’altro.
«Speravo che qui fosse possibile trovare una nave che portasse l’occhio rosso di Melqart
sulla vela.»
Taqur annuì lentamente. «Parliamoci chiaro» disse poi. «Le navi del Banco della Sabbia…
lo so che la banca è legata ai Barcidi.»
«Non è un segreto importante. La banca amministra il patrimonio di Amilcare.»
«E adesso il patrimonio dei suoi figli. Se speri di trovare una nave di questa banca, significa
forse che tu…» scosse il capo e ammutolì.
«Se questo ti può aiutare» disse Bomilcare «non intendo nascondere che, in veste di capo
delle guardie di Qart Hadasht, devo proteggere tutti gli abitanti, tutti i cananei. A qualunque partito
appartengano. Se tuttavia fossi un cittadino con pieni diritti, e non lo sono, quando si tratta di
elezioni non dovrei conservare una simile imparzialità.»
«Il capo delle guardie della città non è un cittadino con pieni diritti?»
«Sono nato a Ityke. Probabilmente potrei ottenere il diritto di cittadinanza, ma…» Alzò le
spalle.
«Allora a chi daresti il tuo voto?»
«Ai Barcidi. Ho combattuto in Iberia sotto Amilcare e Asdrubale, il suo genero e successore.
Sarei un uomo dei Nuovi. L’anno scorso, il romano te lo confermerà se glielo domandi, ho avuto…
abbiamo avuto uno scontro molto duro con iVecchi.»
«ConAnnone?»
Bomilcare annuì.
«Lo conosci personalmente?»
«Conoscerlo?» Bomilcare rise. «Si può conoscere un coccodrillo? Un terremoto? Un
serpente demoniaco?»
«E così?»
«Così. E altro ancora. Ancora peggio. Più terribile. Più imperscrutabile.»
Taqur sorrise. «Nella tua voce e nelle tue parole non risuona propriamente un amore
smaccato per Annone.»
«Non sono capace di mentire in modo così smaccato.»
«Tutti sappiamo mentire, in modo più o meno smaccato, ma forse, prima di intraprendere un
lungo viaggio per mare, bisognerebbe dire almeno una parte di verità.»
«Allora dimmi la tua parte di verità, arabo. »
«L’hai già detta tu stesso.»
Bomilcare sollevò le sopracciglia. «In che senso?»
«Se fosse per Annone e per i Vecchi, nello stato dei cananei un arabo non potrebbe fare
nessun affare.»
«Non esattamente. Fino a… dunque, otto anni fa, avresti potuto attraccare soltanto nel porto
della capitale. Gli altri porti erano vietati ai mercanti stranieri. Così avresti potuto fare benissimo
affari con mercanti che appartenessero ai Vecchi.»
«Non buoni affari, punico. I buoni affari si possono fare soltanto con persone che ti trattano
da pari a pari. Per la maggior parte deiVecchi, gli arabi e gli altri sono esseri inferiori.»
«Questo significa che preferisci i Nuovi?»
Taqur sorrise. «E chi altri, se no? Io non conto nulla a Qart Hadasht, dove sono stato una
volta sola, quando ci siamo conosciuti. Pertanto potrebbe essermi indifferente chi governa da voi.
Ma se fossi un cittadino, saprei a chi dare il mio voto.»
«Allora permettimi di domandarti ancora una cosa.
Quella notte, nell’abitazione di Aspasia, hai parlato di oggetti sacri.»
«Mi ricordo confusamente.»
«Sai qualcosa della spada di Qart Hadasht?»
L’arabo scosse il capo. «So che c’entra qualcosa con voi e con i numidi, nient’altro; perché
me lo domandi?»
«È una storia lunga.»
«Allora beviamoci un’altra birra allungata.»
Senza menzionare dettagli che riteneva scabrosi, Bomilcare gli descrisse gli avvenimenti che
erano all’origine del viaggio.
Quando ebbe terminato, Taqur fissò per qualche tempo il suo bicchiere. «Uhm» fece poi.
«Questo Mandrokles che adesso vuoi inseguire fino a Mastia, potrebbe dunque averla a bordo?»
«Così immagino.»
«È un bel guaio per voi punici, se la porta in Iberia, vero?
Ed è un bel guaio per i numidi se, durante il lungo viaggio, una tempesta s’inghiotte lui e la
spada.»
Bomilcare annuì. «È un bel guaio anche per me, in quel caso.»
«E perché? Tu saresti comunque libero da tutte le tue preoccupazioni. O almeno dalla
maggior parte.»
«Sì e no. Lo sarei soltanto se potessi esserne certo. Ma come si può essere certi che una nave
scomparsa sia davvero affondata? Forse un giorno ricompare di nuovo.»
«E forse un pescecane tira fuori la spada dal relitto per diventare un pescespada.» Taqur rise.
«Dormirò sulla nave. Più tardi deve passare ancora un uomo dell’amministrazione del porto per
discutere di questioni doganali.»
«Di notte?»
«Diciamo che un amico dell’amministrazione del porto viene sulla mia nave per discutere di
particolari questioni doganali. Va meglio?»
«Almeno spiega l’ora tarda. E allora?»
«Lo domanderò a lui. Forse sa qualcosa su Mandrokles e sui suoi affari.»
«Quando intendi partire?»
«Fate in modo di essere a bordo al sorgere del sole.»
«Cercherò di svegliare gli altri in tempo. Ah, ancora una cosa. Abbiamo fatto un viaggio
sgradevole fin qui: le coperte erano stracci pieni di pidocchi, il cibo era tremendo, i marinai erano
luride canaglie. Spero che con te sarà diverso.»
«Lo sarà.»
«Dobbiamo portarci dietro le provviste?»
Taqur sollevò le mani in un gesto di difesa. «Non mi offendere; pensiamo a tutto noi. E a
bordo si sta stretti: meno cose portate con voi, meglio è.»
«Bene. E qual è il prezzo?»
«Non te lo posso ancora dire.»
«Perché no?»
«Dipende dal vento e dalla corrente quanto impiegheremo fino all’Iberia. Da quante volte
dovremo scendere a terra per procurarci acqua e provviste. Da quanto volete mangiare e bere.
Faremo i conti a Mastia; chissà, forse ci viene in mente ancora qualcosa.»
Alle prime luci dell’alba, quando salirono a bordo, Taqur salutò Aspasia con affetto e il
romano con cortesia. Indicò i loro posti nel cassero di prua della nave, poi prese Bomilcare in
disparte.
«Ho un altro nome per te» disse piano. «Mandrokles ha parlato a lungo con un mercante
chiamato Eurylochos. Che diceva di essere appena ritornato in patria da Qart Hadasht.
Questo ti dice qualcosa?»
«Mi dice qualcosa.» Bomilcare strinse le labbra a formare una fessura. «Solo che non so che
cosa sia.»
«Avrai tutto il tempo per pensarci.»
Bomilcare ricordava malvolentieri gli strepiti e la voce fastidiosa del mercante. E si
domandava quali affari potessero avere mai da discutere insieme Eurylochos e Mandrokles.
Salparono con il vento del mattino. Taqur tenne il timone il più possibile verso nord; disse
che, in quella stagione, vicino alla costa il vento soffiava in prevalenza da ovest. In mare aperto
invece c’era una lieve corrente contraria e, in determinate condizioni di tempo, di tanto in tanto
venti favorevoli dai quadranti orientali.
A bordo si intrecciavano molte lingue diverse; la maggior parte però parlava la koiné
ellenica, che tutti comprendevano.
Dell’equipaggio del veliero veloce facevano parte arabi, assiri, egizi, elleni asiatici, ma
anche uomini provenienti dal nord.
Uno di questi, basso e con i capelli scuri, il cuoco della nave, veniva chiamato Germanikos;
lui diceva che effettivamente apparteneva a quella stirpe, ma che il suo nome vero era Ahi luf o
qualcosa del genere: «In ogni caso nessuno di voi sarebbe in grado di pronunciare il nome esatto».
«Provaci; forse ci riusciamo.»
Il germano sorrise. «Aluluf» disse. «O qualcosa del genere.» Abbassò lo sguardo, si osservò
le mani e sospirò. «Ah, il lavoro. Adesso getterò la rete. Qualcuno di voi è forse in grado di evocare
i pesci… no? Avrei dovuto immaginarlo.»
In qualche occasione mangiarono pesce sotto sale, ma la maggior parte delle volte era stato
appena pescato e arrostito da Aluluf sul piccolo focolare sotto la poppa. Ed ebbero frutta, prima
fresca e poi conservata, prosciutti scuri seccati all’aria, formaggi duri e saporiti, noci, uva passa,
funghi sott’olio solo di tanto in tanto, vino bevibile e, ogni tre giorni, pane appena sfornato.
Faceva parte dell’equipaggio anche un etrusco che suonava (non molto bene) la citara e
cantava canzoni sguaiate. Il timone di destra veniva manovrato di solito da Taqur in persona; di
quello di sinistra era responsabile il pilota Mandarax, un gigante originario della Gallia
nordoccidentale. Disse che anni fa aveva viaggiato a bordo di una nave punica, «con l’occhio rosso
sulla vela», carica di stagno della Britannia. Aveva avuto fortuna.
«La fortuna di qualcuno è sempre sfortuna per qualcun altro, non è vero? Tutto nel mondo
deve restare in equilibrio. Per uno che veglia, qualcuno dorme da qualche altra parte e, per uno che
muore, un altro nasce. Così vogliono gli dèi.»
Taqur si era messo al timone e, nella notte chiara e tiepida, lo dirigeva in modo che la stella
del nord si trovasse sempre sulla destra della nave. Bomilcare immaginò che il capitano osservasse
anche altre stelle. Decise di domandarglielo più tardi: a quell’ora era già contento di sedere accanto
ad Aspasia e a Letilio ai piedi dell’albero maestro, ad ascoltare l’etrusco, a cantare insieme a lui, a
sentire gli strattoni della vela e i cigolìi del fasciame.
Mandarax si alzò, si diresse verso la murata, tuffò il secchio in mare e ritornò indietro con
l’acqua salata con cui lui e la maggior parte degli altri allungavano il vino.
Quando si fu seduto di nuovo, Aspasia gli domandò: «Qual è stata dunque la tua fortuna, e
per chi è stata una sfortuna?».
«Si erano imbattuti in una tempesta, i punici, e avevano perduto alcuni uomini. Quando
approdarono da noi per riparare i danni, hanno cercato qualcuno che fosse disposto ad andare con
loro. Altrimenti…» Alzò le spalle robuste.
Bomilcare aggrottò la fronte. «Che cosa c’è di fortunato nella possibilità di morire per
mare?»
«Ero destinato ad altre cose. Come dice il mio nome.»
«Che cosa dice il tuo nome?»
«Mandarax è il modo in cui l’hanno ridotto questi qui»
disse il gallo indicando gli altri marinai. «In realtà io mi chiamo Manduragos, “colui che
procede davanti al cavallo piccolo mentre ara”. Mio padre era troppo povero per cavalli grandi.»
«Da dove provieni esattamente?» domandò Letilio.
«Sei pratico della Gallia?»
«Ne ho sentito parlare molto.»
Mandarax sorrise. «Non bisogna credere a tutto quello che si sente. Sono originario del
Nordovest, del luogo in cui ci sono alcune file di grandi pietre.»
Letilio scosse il capo. «Questo non mi dice nulla.»
«A me invece sì.» Bomilcare ammicò.’«Ne ho sentito parlare, ma non ci credevo.»
«Uomo saggio. Che cos’altro sai di noi?»
«I tuoi parenti più a oriente, i celti, dovrebbero aver detto qualcosa di importante ad
Alessandro Magno cento anni fa.»
«Ah, Alexandros!» Mandarax annuì. «Un grande uomo.
Che cosa gli hanno detto?»
«Dopo una terribile battaglia, ha domandato loro se non avessero paura di nulla. Allora pare
che gli abbiano risposto: “Soltanto che il cielo ci possa cadere sulla testa”.»
«Vigliacchi» disse Mandarax. «Che cos’è mai un cielo che precipita? Non è poi peggio di un
mare in tempesta.»
«Tu di che cosa hai paura?» domandò Aspasia.
Mandarax rovesciò gli occhi. «Di una cosa sola, bella donna. Riesci a indovinarlo?»
«Delle donne volanti?» domandò Letilio.
Bomilcare rise. «Delle pietre saltellanti, che non vogliono restare in fila?»
Aspasia scosse il capo. «Mandarax ha paura soltanto di una cosa» disse. «Della paura.»
Taqur incontrò i venti sperati, ma vi furono giorni di bonaccia e lunghi tratti in cui dovettero
remare perché le correnti vennero a mancare o conducevano troppo verso nord.
Toccarono un porto per due volte, a Melite e a Ebusus, per fare scorta di acqua e provviste;
dopo trentatré giorni di navigazione giunsero alla baia di Mastia.
Era mattino presto. Il sole era dietro di loro a sudest e faceva risplendere la superfìcie
dell’acqua e l’ambiente circostante. Letilio era a prua accanto a Bomilcare e guardava avanti con gli
occhi stretti.
«Ha proprio l’aspetto che voi avete sempre immaginato, non è vero?» disse.
«Illuminami, romano: che cosa intendi dire con” voi” e “immaginare”? Immaginare che
cosa?»
Letilio alzò le mani e disse, con una sfumatura di disperazione ironica: «Voi, i vostri
connazionali, punici e fenici. Voi avete sempre cercato luoghi simili per i porti e le basi
d’appoggio».
«È possibile.» Bomilcare osservò il ripido pendio roccioso sulla destra e sulla sinistra
dell’entrata stretta, l’isola minuscola quasi al centro, le ampie baie secondarie alle sue spalle e la
collina con la piccola fortezza ai piedi della quale sembravano stringersi case e capanne. «Ma
dimentichi che questo non appartiene a” noi”.»
Sulla sinistra, a ovest della collina, era stato allestito un piccolo porto, o almeno eretto un
molo dietro il quale si potevano vedere diversi alberi maestri. Taqur vi fece rotta.
Mandarax aveva messo mano a uno dei remi lunghi grazie ai quali il veliero strisciava
sull’acqua increspata della baia nonostante il vento che spirava dalla terraferma.
«Dovremmo dare una mano» disse Letilio. «Lo so che questa è la capitale dei contestani, ma
mi domando per quanto tempo ancora.»
Bomilcare lo seguì e remarono in silenzio. Si avvicinarono al molo con una lentezza infinita,
lo circumnavigarono e alla fine si fermarono in mezzo ad altre due navi, davanti a un ponticello che
emergeva dall’acqua.
Cinquecento soldati contestani al comando del figlio del principe Mandunis avevano
combattuto per Amilcare contro Roma negli ultimi anni della guerra siciliana. Per Amilcare
personalmente, non per la città. Bostar vi aveva alluso in modo fuggevole e neppure Daniel era
entrato molto di più nei particolari, quella notte nella Byssatis; da quel poco che ne sapeva,
Bomilcare poteva supporre, pur senza averne la certezza, che Amilcare e Antigonos, il signore del
Banco della Sabbia, avessero pagato i contestani quando il Consiglio di Qart Hadasht aveva
provocato la guerra contro i mercenari con il suo rifiuto di ricompensare nel modo pattuito coloro
che avevano combattuto nella grande guerra. Evidentemente in seguito Mandunis era diventato re
dei contestani con l’appoggio dei Barcidi (e della banca?), aveva sostenuto a sua volta Amilcare in
Iberia e concedeva particolari condizioni commerciali al Banco della Sabbia; al seguito di Daniel,
alcuni artigiani strettamente legati alla banca si erano stabiliti a Mastia.
E Bostar, il secondo signore del Banco della Sabbia, aveva inviato le lettere di Bomilcare ad
Asdrubale e Mandunis con aggiunte da parte sua. O aveva intenzione di farlo. Mentre Taqur e i suoi
uomini ormeggiavano la nave, Bomilcare osservò gli altri velieri che galleggiavano sull’acqua
calma dietro il molo. Più lontano, davanti alla spiaggia, c’erano alcuni pescherecci che tuttavia non
attirarono particolarmente la sua attenzione.
La maggior parte degli altri mercantili presentava le consuete caratteristiche strutturali. Di
alcuni era possibile stabilire la provenienza dal nome o dai simboli riprodotti sul fianco; nel
complesso potevano esserci una sessantina di navi.
Mercantili punici, qualche veliero veloce di quelli che venivano impiegati per la
trasmissione delle notizie, mercantili provenienti dalle città della costa settentrionale della Libia e
dagli altri porti iberici; tre o quattro mostravano caratteri ellenici sullo scafo e potevano essere
giunti da Massalia, Siracusa o Alessandria.
«Due navi italiche» disse Letilio quando fu di nuovo accanto a lui a prua. «Quelle due là.»
Bomilcare annuì. «In tempo di pace tutto è possibile.»
Sorrise, ma ritornò subito serio. «Ti viene in mente ancora qualcosa?»
Letilio gli rivolse uno sguardo interrogativo, poi fece un giro completo su se stesso mentre
sembrava osservare la baia, l’acqua e i monti. «Forse» disse incerto. «A che cosa ti riferisci? Alle
torri lassù?»
Bomilcare seguì gli sguardi del romano. «Anche.» Sulle cime a oriente e a occidente
dell’ingresso del porto si vedevano costruzioni di pietra e legno. «Torri di segnalazione puniche. Ma
io mi riferivo a qualcos’altro. A qualcosa che manca.»
Aspasia si avvicinò loro; sembrava aver sentito le ultime frasi. «Quello che manca non fa
danno» disse ironica.
«Immagino che ti manchino le navi da guerra, non è vero?»
«Ah» fece Letilio.
«Donna saggia e leggiadra» disse Bomilcare accennando a un inchino. «Sono confuso.
Avevamo detto che non è un porto punico, ma il capoluogo dei contestani. Ci sono torri puniche,
ma non ci sono navi da guerra.»
«C’è ancora qualcosa» disse Aspasia indicando il molo al quale si stavano avvicinando
alcuni uomini. Probabilmente funzionari del comandante del porto, o
dell’amministrazione doganale… accompagnati da due individui armati.
«Fanti libi» borbottò Letilio. «Un porto dei contestani, vero? Vedremo quali altre sorprese ci
riserverà.»
«Comunque sia» disse Bomilcare «dobbiamo prendere le nostre cose e andare a cercare il
principe.»
«Io vengo con voi?» Letilio ammiccò.
«Certo, così ti puoi rendere conto di persona. Oppure devi andare a trovare altre spie
romane?»
«C’è tempo per questo.»
Aspasia gemette. «Un bagno» disse poi «un alloggio. I vostri squallidi giochetti a più tardi,
vi prego.»
«Dobbiamo chiarire ancora alcune cose.» Bomilcare guardò di nuovo verso il molo,
doveTaqur parlava con i presunti doganieri. «Che cosa accadrà in seguito, per esempio. Che cosa
intende fare Taqur. Che cosa gli dobbiamo per la lunga traversata.»
L’arabo ritornò presto a bordo; aveva l’aria pensierosa e forse un po‘“irritata, o così parve a
Bomilcare.
«Non è tutto così semplice» borbottò quando vide gli sguardi interrogativi. «Un carico
speciale comporta procedure speciali o qualcosa del genere.»
«Ma che cosa hai caricato?» gli chiese Aspasia. «Durante il viaggio ci hai sempre parlato di”
certe cose”…»
«Debiti» risposeTaqur sogghignando. «Questa nave è stracarica dei debiti che ho fatto ad
Alessandria.»
«E i signori della dogana non sanno come valutare i debiti?»
disse Letilio scuotendo il capo. «Chissà qual è l’aliquota prevista.» Rise.
Taqur si grattò la nuca. Sembrava combattuto. «Permetti una parola, Bomilcare?»
Scesero sul molo attraverso la passerella; soltanto allora Bomilcare si accorse che, nel punto
in cui questa toccava la banchina, era stato allestito una specie di posto di blocco, presidiato da
uomini armati.
«Temo di avere bisogno del tuo aiuto» disse Taqur.
«Parla.»
«Ho caricato oro egizio.» Taqur parlava a bassa voce, benché nelle vicinanze non ci fosse
nessuno che li potesse ascoltare. «E altre minuzie di cui evidentemente qui si deve occupare il
sovrano in persona».
«Ma perché porti oro in Iberia? E come mai, durante il viaggio…»
Taqur abbozzò un sorriso stentato. «L’oro avrebbe potuto suscitare certe brame» disse. «I
miei uomini sono fidati ma, anche se li conosco da anni, chissà che uno di loro…»
«…O forse uno degli ospiti a bordo?»
«…per l’oro non mediti di… ehm, sostituirsi al capitano?
Certo, questo vale anche per romani, punici ed ellene.»
«Te lo domando di nuovo: perché l’oro in Iberia?»
«Tu non sei un mercante, per questo non lo sai. In Egitto c’è molto oro e poco argento; in
Iberia c’è molto argento e poco oro. A Qart Hadasht ci vogliono dodici shekel d’argento per averne
uno d’oro. Ad Alessandria l’oro vale un po‘“meno: forse undici a uno, in Iberia tredici a uno,
perché è più raro.
All’incirca.»
«Bene; ho capito. E i doganieri dicono che non sono in grado di valutarlo? Uhm. E per
quanto riguarda le altre minuzie?»
«Ah, alcune cosette.»
Bomilcare rise a mezza voce. «Stammi a sentire, amico mio.
Se devo fare o ottenere qualcosa per te, devo sapere le cose con precisione. E con maggiore
precisione le so, tanto meglio potrò calcolare quanto guadagnerai grazie alla mia mediazione.»
«Ehi.» Taqur sorrise debolmente. «Per barattarlo in cambio di quello che mi dovete per il
viaggio? Ti avevo pur detto che ci saremmo accordati in modo amichevole.»
«Non saranno certo alcune informazioni a impedirci di farlo. Insomma, che cos’altro hai
caricato?»
«Un mercante rodio indebitato doveva consegnare alcune anfore di vino molto buono alla
dogana di Alessandria.»
«E il tuo amico della dogana che ti è venuto a trovare sulla nave di notte ha fatto da
intermediario?»
«È così. Sai, i doganieri non vengono pagati particolarmente bene.»
«Immagino. E che cos’altro?»
«Pietre preziose azzurre, provenienti dai monti dell’Asia: uqnu.* Qualche bisaccia piena di
una polvere che, disciolta e cotta nell’acqua bollente insieme ad altre cose, fornisce lo splendido
colore blu per il vasellame e i dipinti che soltanto gli egizi conoscono.»
Bomilcare annuì. «Prezioso, non c’è dubbio… per vasai e pittori che vogliono regalare o
vendere bene qualcosa al re.»
«Zanne d’elefante lavorate a intaglio» aggiunse Taqur «antichi sigilli per rotoli, raffinati
prodotti artigianali di ogni genere.»
«Bene. Vedrò quello che riesco a fare. Dove ti trovo?»
Taqur allargò le braccia. «E dove altro mai? Sulla nave.
Alcuni uomini faranno sempre la guardia insieme a me, gli altri faranno i turni nelle osterie e
con le prostitute.»
* Lapislazzuli. [N. d A.]
Letilio, Aspasia e Bomilcare non incontrarono difficoltà a lasciare il molo. Una delle
guardie, fanti libi come aveva detto Letilio, diede un’occhiata alle loro bisacce da viaggio e li lasciò
passare.
«Dove posso trovare il principe Mandunis?» gli chiese Bomilcare in punico.
Il soldato alzò le spalle. «Non è in città… a quanto ne so.
Credo che sia dall’altra parte, sulla terraferma» disse indicando dietro di sé.
«Che cosa vuol dire sulla terraferma? Perdonami, amico, ma è la prima volta che vengo
qui.»
«Dietro la città c’è un lago, alle spalle del quale c’è l’Iberia. Asdrubale ha il suo
accampamento laggiù.»
Bomilcare spalancò gli occhi. «Da quanto tempo è qui?»
«Due giorni.»
La collina era in realtà l’altura più elevata della penisola su cui sorgeva Mastia. A est c’era
un sottile collegamento terrestre, a ovest una specie di canale con gli argini in muratura e un ponte
mobile. Dietro la penisola si estendeva un grande lago interno poco profondo, quasi una laguna.
Sulla sponda opposta, che poteva distare due miglia, si riuscivano a intravvedere costruzioni e
tende.
Come Bomilcare aveva segretamente temuto, la maggior parte delle locande era
sovraffollata per via di tutte quelle navi e dei loro equipaggi; dopo qualche tentativo, ne trovarono
una in riva al canale dove ottennero una camera piccola con un letto grande e un giaciglio
supplementare di cuoio con il materasso di paglia. L’oste disse loro che c’era un bagno pubblico
non molto lontano.
«Andrò a provarlo.» Letilio si guardò intorno nella camera da letto, fece schioccare piano la
lingua e prese alcuni oggetti dalla sua bisaccia. «Voi potete anche venire più tardi.»
-; Bomilcare gli diede una pacca sulla spalla e chiuse la porta dietro di sé. «E stata dura»
disse mentre armeggiava con il chiavistello «viaggiare per tanti giorni accanto a te, oh leggiadra, e
doversi trattenere. E come è stato gentile, questo romano… Vogliamo gettarci l’uno sopra l’altra?»
Quando si voltò verso Aspasia, lei si era già spogliata. «Non stare a parlare» gli disse.
«Vieni.»
In una piccola locanda all’aperto mangiarono datteri avvolti in strisce di carne di maiale e
vuotarono scodelle con una mistura di miglio, succo di frutta, formaggio fresco e miele.
Letilio allontanò da sé il proprio piatto, bevve un sorso d’acqua e posò i gomiti sul piano del
tavolo. Indicò con il mento il mare e la riva lontana con le tende e le capanne.
«Adesso che ti sei lavato, rifocillato e cambiato d’abito, ti vuoi presentare dal nuovo stratega
di Libia e d’Iberia? Per non appesantire ulteriormente, con un aspetto sgradevole, il fardello che
deve già portare come successore di Amilcare?»
Bomilcare abbassò gli angoli della bocca. «Con queste chiacchiere sminuisci lo splendore
della tua presenza, che prima avevi accresciuto con la tua scomparsa tempestiva.»
«Oh povera me!» disse Aspasia. «Vi prego, parlate in modo più rapido e diretto; altrimenti
domani mattina saremo ancora seduti qui.»
Bomilcare le accarezzò la mano sinistra e Letilio la destra.
«Ti ascoltiamo e obbediamo» disse il romano. «Immagino che tu voglia andare da solo da
lui.»
Bomilcare annuì.
«Mi sarebbe piaciuto vederlo» disse Aspasia. «Almeno da lontano. Ma naturalmente è
meglio così.»
«Scambiarsi informazioni senza essere ascoltati da un romano?» Letilio sorrise. «Al quale
nel frattempo affidi la regina del tuo cuore? Di chi sentirai di più la mancanza: di me o di lei?»
«Ah, piantala» esclamò Bomilcare alzandosi in piedi.
«Potete visitare le osterie del luogo e verificare se Mandarax regge così bene il vino come
sostengono gli altri.»
Dopo tutte quelle giornate a bordo della nave, dove c’erano state ben poche occasioni di
muoversi, Bomilcare si godette fino in fondo la lunga camminata sulle rive del lago.
Quando giunse all’accampamento di tende e capanne, era già pomeriggio inoltrato. Nei
viottoli stretti tra le capanne l’aria era immobile, satura di ogni genere di cattivo odore; neppure un
alito di vento mitigava il calore soffocante. Le tende, più lontane dalla riva sul pendio di una
collinetta, erano meno strette; lassù l’aria era migliore.
Alcuni fanti libi lo bloccarono ai piedi della collina. Tra loro non c’era nessuno che poteva
conoscere dai tempi in cui era stato in Iberia.
«Bomilcare, già comandante di una centuria sotto Amilcare, ora capo delle guardie di Qart
Hadasht» disse. «Lo stratega non mi aspetta, ma sarà contento di vedermi.»
Il comandante delle sentinelle aggrottò le sopracciglia. «Lo stratega è molto impegnato.»
«Manda un uomo a domandarglielo.»
Il messo ritornò subito indietro. «Lo devo accompagnare»
disse «affinché non si perda. Lascia qui le tue armi.»
Bomilcare rinunciò a replicare; consegnò spada e coltello al comandante delle sentinelle e
seguì il soldato. Nel frattempo si disse che, al posto di Asdrubale, sarebbe stato altrettanto prudente.
Chiunque poteva inventarsi un nome e una carica, e sicuramente c’erano diversi uomini che erano
disposti a tutto pur di eliminare il nuovo capo dei Barcidi.
Iberi che non volevano essere governati da Qart Hadasht; persone alle quali Asdrubale in
precedenza aveva fatto o tolto qualcosa; nemici provenienti dalle fila degli avversari politici…
e, oltre a iberi e punici, anche i romani: per coloro che governavano sulle rive del Tevere,
ogni indebolimento dei punici era occasione di gioia.
Il soldato non condusse Bomilcare alla tenda più grande, al centro del pendio, ma a una più
piccola, che si trovava lateralmente alle sue spalle. Anche questa era una misura di sicurezza, si
disse. Asdrubale doveva avere le sue buone ragioni. Chi cercava la tenda del comandante, sarebbe
andato sicuramente nella più bella.
Davanti all’ingresso c’erano altre due sentinelle. Una sguainò la spada, appoggiò la punta
della lama alla gola di Bomilcare e indicò con la testa verso l’interno, immerso nell’ombra.
Asdrubale il Bello, fino alla morte della moglie Sapanibale genero del grande Amilcare e,
dopo la sua caduta in battaglia, eletto nuovo stratega supremo dall’esercito, era seduto su una sedia
pieghevole davanti a un tavolino da campo. Con lui c’erano alcuni scrivani, oltre ad altri uomini
armati e a un ibero con il pettorale.
Quando scorse Asdrubale, Bomilcare si spaventò. Lo stratega aveva trentadue anni, ma
sembrava un vecchio: grigio, stanco, coperto di rughe.
«Bomilcare» disse a mò di saluto, ma soprattutto per rassicurare la sentinella. «È tutto a
posto. Va fuori.»
La lama si allontanò dalla gola di Bomilcare; il soldato sollevò la spada, chinò il capo,
rinfoderò l’arma e se ne andò.
«Non so se ti avrei riconosciuto, stratega» disse Bomilcare.
Libero che era seduto accanto ad Asdrubale aggrottò la fronte, facendo scivolare giù il
nastro d’argento che portava intorno alla testa come una corona mozzata o i resti di un elmo.
«Quando te lo dicono i vecchi soldati, forse li dovresti ascoltare e dormire per una notte»
disse.
Asdrubale abbozzò un sorriso sofferente. «Quando sarà tutto sistemato. Siediti.»
Uno degli scrivani si alzò e portò uno sgabello, che collocò davanti al tavolo. Bomilcare vi
si sedette.
«Ho ricevuto le lettere» disse Asdrubale. «La tua e quella di Bostar. Te lo dico subito, per
alleviare le tue preoccupazioni.» Quindi, rivolto all’ibero: «Mandunis, quest’uomo è stato un buon
soldato e adesso è il miglior difensore della città.
Bomilcare, ti presento il re dei contestani. È a conoscenza dei fatti, puoi parlare apertamente.
Voi altri» disse riferendosi agli scrivani e agli uomini armati «lasciateci soli fino a che non vi
chiamerò».
Bomilcare attese che gli uomini fossero usciti, puntando lo sguardo prima sul volto stanco di
Asdrubale, poi sulla montagna di rotoli di papiro, e quindi di nuovo sugli occhi dello stratega.
«Capo» disse alla fine «dal momento che hai ricevuto le lettere, ti riferirò soltanto quello che
è accaduto dopo di allora.»
Descrisse in modo sintetico, senza tutti i dettagli, il viaggio a cavallo da Daniel e il
soggiorno ad Alessandria. Alla fine disse: «Non voglio importunarti con queste cose, ma ho
promesso… il capitano arabo, Taqur, ha a bordo merci preziose, tra cui oro dell’Egitto. I doganieri
dicono che se ne devono occupare il principe o lo stratega».
Asdrubale e Mandunis si scambiarono un’occhiata; il contestano alzò le spalle. «Decidi tu.»
Asdrubale si passò una mano sugli occhi. «Dopodomani mattina dobbiamo discutere con
alcuni principi vicini, e anche con qualche ambasciatore. Nella fortezza sopra il porto, dall’altra
parte. Recatici insieme a quest’arabo. Ne discuteremo.»
«Anche del resto? Della questione della spada di Qart Hadasht?»
ki Mandunis si piegò in avanti. «Quando sono giunte le lettere, Asdrubale non era ancora
qui» disse. «Per questo mi sono occupato io della questione. La nave di Mandrokles si trova nel
porto.»
«E dov’è Mandrokles?»
«Con i suoi padri, sempre che li abbia.»
Asdrubale osservò l’espressione di Bomilcare, sorrise e disse: «Devi dirgli qualcos’altro,
Mandunis».
Il re posò le mani sul tavolo e le guardò come se dovesse contarne le dita. «L’abbiamo
interrogato a fondo» disse.
«Molto a fondo. Le ultime domande le ha poste Asdrubale.
Mandrokles ha parlato molto e detto poco. Adesso sappiamo tutto, se non si è portato le
ultime risposte nell’oltretomba.» Alzò lo sguardo e aggiunse con una smorfia obliqua: «Anche se ne
dubito: quelli che l’hanno interrogato sapevano il fatto loro.»
«E gli altri uomini che erano a bordo?»
«Due l’hanno seguito; gli altri sono ancora vivi, ma non sanno niente. O comunque, non
abbastanza.»
«Che cosa siete venuti a sapere?»
A quel punto intervenne Asdrubale e disse che Mandrokles era stato pagato molto bene per
portare ad Alessandria un punico di nome Adherbal, il quale vi aveva condotto alcune trattative e
poi era ritornato di nuovo a Qart Hadasht via terra; prima aveva lasciato a Mandrokles altro denaro,
insieme all’incarico di trasportare un determinato oggetto a Mastia, dove avrebbe dovuto
consegnarlo nelle mani di un principe iberico.
«Taraquiis» disse Mandunis. «Un mio cugino» aggiunse come se quel nome gli desse il
voltastomaco.
«E stato interrogato anche lui» disse Asdrubale con voce rabbiosa, ma l’espressione
impassibile. «Ci sono ancora alcuni dettagli da chiarire, ma nel complesso le cose stanno nel modo
in cui immaginavi tu. La spada di Qart Hadasht sarebbe dovuta servire a fomentare rivolte qui e in
Numidia; quel punico, Adherbal, avrebbe dovuto occuparsi in Egitto della…
diciamo, tregua e della successiva ripresa delle relazioni commerciali.»
«Con chi?» chiese Bomilcare a mezza voce.
«Con coloro che avrebbero preso il potere dopo la rivolta.
Punici che, con l’aiuto dei numidi, avrebbero estromesso l’attuale governo della città. È
cos??» disse Mandunis rivolgendo un’occhiata ad Asdrubale.
«È così.» Lo stratega strinse gli occhi. «O tu la vedi diversamente?»
Bomilcare credette di percepire una sfumatura ironica nella voce, ma forse era soltanto
stanchezza. Oppure una domanda da aggiungere alle altre?
«Capo» disse «io credo che non sia così. Ma non so com’è.»
Asdrubale strinse gli occhi fino a formare due fessure sottili. «Parla.»
«I numidi che vogliono abbattere Qart Hadasht li potrei comprendere. Non giustificare, ma
comprendere. I punici che minano la potenza di Qart Hadasht per potersene impadronire? Di che
cosa si impadronirebbero, a quel punto? I numidi che vengono incitati alla rivolta per poi servire i
nuovi potenti? I cananei, che hanno molte ricchezze in Numidia e in Iberia, e che gettano via tutto
questo per impadronirsi della città dopo averla indebolita e impoverita?»
Asdrubale sbadigliò. «Stupido, non è vero?» disse poi.
«Non può essere così, capo. E niente di tutto questo spiega perché mai tre nobili membri del
Consiglio decidano di trasportare la spada da un tempio a un altro. Quando uno di loro viene trafitto
a morte, gli altri non fanno nulla per catturare l’assassino, l’uomo che si sta portando via questa
spada così importante. Non ordinano neppure ai loro schiavi di inseguirlo. I membri del Consiglio e
i giudici che si devono occupare del caso non vogliono che io faccia nulla; li devo quasi costringere
a impartirmi determinati ordini.
Quando vengo ferito, mi mandano fuori città tutti contenti. Membri del Consiglio e
giudici… e numidi come sicari?
Chi…» si piegò in avanti e continuò a parlare a mezza voce, ma con più enfasi «chi, stratega
di Libia e di Iberia, si evirerebbe mai da solo?»
Asdrubale diede uno sguardo di sbieco a Mandunis. «Non ti avevo detto che è un uomo
valente?»
Mandunis sorrise. «Me l’avevi detto.» Poi ritornò serio. «Ma questo non ci fornisce ancora
alcuna risposta. Né a questa domanda né ad altre.»
«Quali altre, capo?»
«In seguito ai terribili avvenimenti qui nell’entroterra»
disse Asdrubale «ho dovuto delegare ad altri alcune cose. La raccolta di notizie e
informazioni, come sai.»
Bomilcare annuì. «Lo so, capo, e sono orgoglioso di poter collaborare a questo. Però…»
Asdrubale alzò una mano. «Aspetta. Ti voglio dire subito quello che so: non è molto, ma
apre una prospettiva differente. Innanzitutto considera questo: tra breve, circa una luna prima del
giorno dell’equinozio d’autunno, a Qart Hadasht verranno eletti cento membri del Consiglio. Eletti
per la prima volta oppure riconfermati.»
I pensieri di Bomilcare iniziarono a danzare vorticosamente. Perché mai non aveva collegato
in modo più stretto la spada e le elezioni? Trecento membri del Consiglio, pensò. I trenta Anziani
non sono coinvolti nel voto, ma decadono soltanto con la morte; gli altri, o meglio un terzo di loro,
vengono eletti, per la prima volta o confermati, ogni anno. «Però…»
disse debolmente.
«C’erano troppe altre cose da fare.» Ora la voce di Asdrubale era decisamente turbata e
intorno alla sua bocca erano comparse alcune rughe. «Io ero nell’entroterra, sul grande fiume Baits,
a fondare una città e ad allestire i rinforzi per Amilcare. Forse non sono venuto a sapere certe cose,
oppure non ho attribuito a certe informazioni l’importanza che meritavano. Poi…» alzò le spalle.
Bomilcare continuò tra sé: “Poi sei partito per portare i rinforzi ad Amilcare e sei arrivato
appena in tempo per vederlo morire e per rovesciare le sorti della battaglia, riportando la vittoria”.
A mezza voce disse: «Però continuo a non comprendere come possano essere collegati questi fatti».
Asdrubale si alzò in piedi. «Vieni» disse «ti voglio mostrare qualcosa. Poi considereremo le
questioni da aspetti differenti.» Sorrise e d’un tratto parve ritornare quello di sempre: Asdrubale il
Bello, abile a conservare la pace e a rafforzare l’esercito, non più Asdrubale l’Esausto, schiacciato
dal peso delle responsabilità.
Bomilcare si alzò a sua volta e seguì lo stratega fino a una cassapanca che si trovava accanto
al suo modesto giaciglio, non lontano dal tavolo.
Asdrubale aprì il coperchio e tirò fuori qualcosa. Un fagotto. «Ecco» disse. «Guarda che
cosa c’è nel panno.»
Bomilcare prese il fagotto, srotolò il panno e contemplò, con una sorta di timore
reverenziale ma senza sorpresa, la vecchia spada arruginita. L’elsa tra il manico e la lama terminava
con due teste di leone che guardavano verso il basso e nell’impugnatura c’era una grande pietra blu.
«La spada di Qart Hadasht» disse piano. «Allora Mandrokles l’aveva davvero.»
Asdrubale continuava a sogghignare. Si piegò, prese dalla cassapanca altri due fagotti e li
posò sul tavolo. «Guarda e stupisciti» disse nel frattempo.
Bomilcare rimise nella cassapanca la spada avvolta nel panno e aprì prima il secondo e poi il
terzo fagotto. Fissò senza parole le due spade antiche, tutte e due arruginite, tutte e due con le teste
di leone che guardavano verso il basso, tutte e due con la pietra blu nell’impugnatura.
«Siediti» disse Asdrubale. «Dobbiamo discutere di alcune cose.»
«E rispondere ad alcune domande.»
«Allora comincia con le domande.»
Bomilcare prese il bicchiere offertogli da Mandunis, ringraziò il re e bevve. Poi disse: «Da
dove vengono le altre due spade?».
«Alcuni giorni prima che arrivasse Mandrokles» disse Mandunis «è giunta una nave da Qart
Hadasht. La solita nave messaggera del Consiglio, con informazioni, richieste e così via. Insieme
c’era un pacchetto con le due spade, senza nep pure una riga di accompagnamento.»
«Chi potrebbe averlo portato a bordo della nave?»
Asdrubale fece una smorfia. «Qualunque membro del Consiglio. Qualunque scrivano.
Qualunque marinaio. Partiamo da un’altra considerazione. Passiamo in rassegna i nomi di tutti gli
uomini che finora sono coinvolti in questa storia.»
Per fortuna, sulla lunga via del ritorno, Bomilcare continuò a incontrare capanne di pescatori
illuminate, fuochi o fiaccole, che l’aiutarono a non cadere in qualche buca, senza tuttavia
distoglierlo del tutto dai pensieri tetri, che lo accompagnarono per tutto il tragitto intorno al lago.
Quando giunse alla meta, nessuno di questi si era minimamente chiarito.
Bomilcare non era tanto dispiaciuto di non poter parlare, almeno per il momento, né con
Aspasia né con Letilio di quello di cui aveva discusso con Asdrubale e Mandunis. Tenersi i pensieri
sgradevoli per sé faceva parte del suo mestiere. A metterlo di malumore era piuttosto il fatto che, a
fronte di poche risposte utili, erano sopraggiunte molte domande nuove.
Perciò gli costò una certa fatica assumere un’espressione serena dopo aver ritrovato gli altri
due in un’osteria. Alcuni iberi cantavano e ballavano accompagnati dalla citara dell’etrusco
dell’equipaggio di Taqur, e di tanto in tanto Mandarax intonava a squarciagola canzoni
incomprensibili, probabilmente della sua patria, mentre due ibere, sedute sulle sue ginocchia, si
alternavano a versargli il vino nella gola.
Era praticamente impossibile parlare. Bomilcare sorrise a Letilio, baciò Aspasia sulla fronte
e si sedette accanto a loro con un bicchiere di vino non allungato.
Al mattino mangiarono pane, formaggio, frutta e bevvero vino diluito con acqua tiepida
nella locanda sul canale.
«Si è occupato bene di te?» chiese Bomilcare.
«Sì, tra una cosa e l’altra» rispose Aspasia sorridendo al romano. «A parte quando è
scomparso con un’ibera o ha parlato in latino con alcuni uomini. Spie, immagino.»
«Marinai italici» replicò Letilio con un gesto di diniego.
«Dopo la mia lunga assenza, volevo sapere se c’erano novità sulla guerra illirica. E tu? Hai
avuto successo?» ; «Dipende dai punti di vista.»
«Ti potresti spiegare?»
«Alcune risposte e molte domande nuove. Forse buone notizie per Taqur: domani Mandunis
e Asdrubale parleranno con lui. E anche con voi, se volete.»
Aspasia era raggiante. «Davvero? Bene. Dopo tutto quello che ho sentito dire di lui… è
davvero così bello?»
«Più uno è bello, meno è uomo» mormorò Letilio. Poi rise. «L’anno scorso era molto
attraente.»
«Adesso no. E esausto e dimostra dieci anni di più di quelli che ha.»
«Hanno parlato dei loro progetti?» chiese Aspasia.
«Quali progetti? Che cosa avete sentito?»
«Mandunis rimane il principe dei contestani e di questa regione, ed è il vostro alleato più
importante» rispose Letilio.
«E ti ricordi quello che ho detto sulla baia e sulla posizione della città?»
«Sì. E allora?»
«Asdrubale farà di Mastia la sua nuova capitale e la chiamerà” Città nuova”: la Qart Hadasht
dell’Iberia.»
Bomilcare tacque per alcuni istanti. «Non mi sorprende»
disse poi. «Mi sembra proprio adatta, non è vero?»
«Mi domando soltanto che cosa ne diranno i miei connazionali. Secondo i vecchi trattati, il
promontorio poco più a nord di qui segna il confine che abbiamo stabilito. Una nuova capitale
potrebbe cambiare le cose.»
«Questo si vedrà. Avete sentito altre notizie interessanti?»
Allora gli riferirono le storie che si raccontavano nelle osterie: sulla spedizione militare di
Amilcare fino a un fiume di nome Taggo, nel profondo entroterra, a nord, sul tradimento del
principe Aranginos, che era considerato un alleato e che invece rafforzava l’esercito dei nemici;
sull’agguato, al quale Amilcare era riuscito a sfuggire portando i suoi uomini dall’altra parte del
fiume a prezzo di gravi perdite; sulla morte del grande stratega, trafitto da diverse frecce (in un’altra
versione, giavellotti); su Asdrubale, che aveva conservato la mente lucida e sostenuto l’esercito che
stava vacillando; su Annibale, Asdrubale e Magone, i figli di Amilcare, che quella notte stessa
avevano condotto il contrattacco e annientato i nemici ebbri di vino e di successo… E Bomilcare
cadde di nuovo vittima della nera tristezza per la morte di quell’uomo insostituibile, che credeva
ormai superata, unita a un senso di tradimento: se anni prima non fosse andato a Qart Hadasht ma
fosse rimasto in Iberia, avrebbe potuto proteggere il generale.
Dopo colazione si separarono. Letilio voleva andare a trovare alcune persone «di cui tu non
devi sapere nulla, punico». Bomilcare e Aspasia si recarono al molo per informare Taqur della
piccola festa del giorno successivo.
«Intendono parlare con me delle mie merci?» disse l’arabo. «Bene bene; vedrò quanta
riconoscenza ti devo, Bomilcare. Ma ho già sentito altre cose sulla festa.»
«E cioè?»
«Sarà un grande festeggiamento per i soldati e i contestani» rispose Taqur con un sorriso
obliquo. «Durante il quale giustizieranno un traditore. Per il godimento e il raccapriccio collettivo,
immagino.»
Aspasia e Bomilcare trascorsero il resto della giornata a passeggiare per la città,
chiacchierando con la gente e mangiando qualcosa qua e là. Bomilcare ebbe diverse volte la
sensazione di scorgere con la coda dell’occhio qualcuno che conosceva, forse un vecchio compagno
d’arme ma, non appena si voltava, vedeva volti sconosciuti.
La sera, nei pressi del canale, toccò la mano di Aspasia.
«Vorresti proporre di ritirarci e di dedicarci al piacere?» gli chiese lei.
«Mi devo dissetare alla tua fonte, mia cara» rispose lui ridendo. «Lo so che questa
espressione non è nuova, ma non mi viene nessun’idea brillante.»
«Allora vediamo come brillano le idee senza parole.»
Asdrubale si tenne in disparte: era il momento del re Mandunis. All’inizio Bomilcare,
Aspasia e Letilio rimasero sul margine della piazza antistante la porta della fortezza, dove la gente
si accalcava. La maggior parte naturalmente erano contestani e iberi, ma c’erano anche volti punici
ed elleni, oltre a molti uomini scesi dalle navi. Taqur aveva portato con sé Mandarax; il gigante
gallo sembrava essersi ripreso senza difficoltà dalle gozzoviglie di due notti prima e portava diverse
ceste e sacchi pesanti senza mostrare alcun segno di fatica.
L’esecuzione del traditore Taraquiis richiedeva un certo tempo. Mentre Mandunis
descriveva i crimini del traditore in un discorso breve e secco, in iberico, tradotto in punico da uno
dei suoi consiglieri per gli altri spettatori, Bomilcare osservava il cugino del principe. L’uomo
robusto, sulla trentina, era stato legato con le gambe e le braccia divaricate alla croce che si trovava
al centro della piazza davanti alla porta.
Taraquiis era nudo e aveva il corpo del tutto privo di peli. Da lontano non si poteva vedere
se la rasatura, presumibilmente non molto delicata, avesse lasciato ferite.
«Il re ha le sue guardie del corpo, soldati iberi» disse Letilio. «Ma non vedi che i vostri
connazionali controllano tutto il resto?»
In effetti la catena di uomini armati che tenevano la folla a distanza e presidiavano l’accesso
alla fortezza era composta da soldati libi, tutti con l’equipaggiamento dell’esercito punico: semplice
elmo a catino, pettorale di cuoio rafforzato con dischetti di metallo, tunica rossiccia, lancia e spada
corta. I quattro sottocapi, che camminavano avanti e indietro lungo il cordone di sbarramento,
sembravano punici. A Bomilcare parve di riconoscerne uno, ma da quella distanza non ne era
sicuro.
«E proprio necessario?» chiese Aspasia con tono più angosciato che contrariato. «Restare
qui ad assistere?»
Letilio si mostrò sorpreso. «Che cosa ti turba?» le chiese.
«Secondo te non è giusto punire i traditori?»
«Certamente. Ma io non devo osservarli per ore.»
«Le vostre donne sono tutte così delicate?» disse Letilio dando di gomito a Bomilcare. «In
tal caso la prossima guerra dovremmo lasciarla fare alle donne: le romane non hanno alcuna
difficoltà con queste cose.»
Bomilcare prese la mano di Aspasia. «Neppure le puniche.
Ma confermo che non è uno dei miei passatempi preferiti assistere mentre qualcuno viene
tormentato a morte per ore.
Venite con me.»
«Anche noi?» chieseTaqur con una punta di dispiacere nella voce.
«Anche voi. Credevo che fossimo venuti alla fortezza per trattare, non per dilettarci con
queste cose.»
Dovettero farsi strada a spintoni; quando finalmente giunsero alla fine del cordone di
sentinelle, dietro le quali a Bomilcare parve di scorgere il vecchio conoscente, iniziò la seconda
parte dell’esecuzione. I due boia sollevavano ogni singolo strumento, in modo che tutti lo potessero
vedere, mentre un altro consigliere del re pronunciava il suo nome in iberico e in punico. Alcuni
erano semplici: «tenaglie per i denti», «strappaunghie» e simili, altri avevano denominazioni più
fantasiose. Aspasia fu colta da lievi conati di vomito quando il consigliere disse: «Questo cucchiaio
con i bordi taglienti è un castratore, e questo lungo filo di ferro seghettato e uncinato serve a
ispezionare e sezionare i visceri».
Ma ormai avevano raggiunto il cordone e il sottocapo era davvero una vecchia conoscenza
dei tempi in cui Bomilcare aveva combattuto in Iberia, e li condusse all’interno della fortezza.
Nel grande salone, piacevolmente fresco, non penetravano né l’afa né le grida. Asdrubale
era già arrivato e stava parlando con tre principi o comandanti iberi. I servitori andavano avanti e
indietro per riempire di cibo e bevande il tavolo lungo e portare bicchieri e vassoi a quelli che erano
seduti ai tavoli più piccoli o ai gruppi di persone in piedi.
Taqur mormorò qualcosa sulla «barbarica mancanza di decorazioni e tappeti», appoggiò le
natiche al bordo di un tavolo e bevve con cautela dal bicchiere che gli era stato offerto.
«Almeno il vino è bevibile» disse. «Non è buono come quello rodio che abbiamo portato
con noi, ma è bevibile.»
Aspasia si era seduta sul cornicione in muratura di una finestra. Bomilcare le portò un
bicchiere che aveva riempito per due terzi di vino e per un terzo d’acqua.
«Bevi, compagna di giochi» disse a mezza voce. «Sei bella come sempre, solo un
po‘“pallida intorno al naso.»
Aspasia sorrise e bevve, poi guardò oltre Bomilcare, spalancò gli occhi e si alzò in piedi.
Asdrubale si era allontanato dagli iberi e si stava avvicinando a loro. «C’è di nuovo anche il
romano?» disse. «Sta diventando un’abitudine?»
Letilio accennò a un inchino. «Non volevo rinunciare a trovarmi un’altra volta davanti ai
tuoi occhi.»
Asdrubale rise e si rivolse a Bomilcare. «Chi altri hai portato?»
Lo stratega sembrava aver dormito: Bomilcare trovava che mostrasse meno rughe rispetto a
due giorni prima.
«Buoni propositi, che sembrano essersi realizzati almeno in parte, per quel che riguarda il
riposo» disse. «Ti presento Aspasia, che fabbrica gioielli d’oro e d’argento a Qart Hadasht e fa in
modo che la mia vita non sia sempre un fiume in piena, ma presenti anche piacevoli lagune.»
«Sono estasiato.» Asdrubale sorrise. «Ho sentito che perfino Annone il Grande loda la tua
abilità tecnica. Vorresti realizzare qualcosa per il collo della mia sposa e mandarmelo?»
«Niente potrebbe entusiasmarmi di più, signore.» Aspasia esitò visibilmente, ma poi si
riscosse. «Temo di essere inopportuna, ma… quanto potrebbe venire a costare?»
Asdrubale rise di nuovo. «Quanto è costato il gioiello per Annone?»
«Cento shekel.»
«Allora fai in modo che la collana per la mia consorte ne costi duecento. È vero che lei vale
molto di più del doppio di Annone, ma tutto ha un limite.»
«Sarà per me un onore e un piacere.»
«Bene. E lui chi è?»
«Taqur, il proprietario della nave che ci ha condotti fin qui.
Accanto a lui, quella montagna di un gallo, è il suo pilota Mandarax; porta una parte delle
merci che mettono in imbarazzo i tuoi doganieri… cioè, quelli del re Mandunis.»
Asdrubale annuì e indicò con il mento una porta nella parete posteriore del salone. «Per
favore, entrate là dentro con i preziosi: li voglio esaminare. Arrivo subito. Ancora una parola,
Bomilcare.»
Si diresse verso il vano di un’altra finestra. Quando Bomilcare gli fu accanto, abbastanza
lontano da tutte le altre persone che erano nel salone, Asdrubale gli disse a mezza voce: «Il giorno
prima delle elezioni, a Qart Hadasht si svolgerà una piccola festa. Probabilmente io non potrò
venire; ho troppo da fare qui. Qui e nell’entroterra. Il signore del Banco della Sabbia…».
«Antigonos?»
«Proprio lui. Antigonos arriverà qui tra qualche giorno e poi porterà qualcosa a Qart
Hadasht. Per la festa che deve organizzare. Fai in modo di essere di nuovo in città per tempo.»
«Che cosa potrebbe mai impedirmelo? Ho intenzione di ritornare in patria il più presto
possibile, con la spada… le spade.»
Asdrubale sorrise; d’un tratto sembrava di nuovo, come in occasione del loro primo
incontro, un ragazzo che stesse architettando qualche brutto scherzo. «Parleremo di nuovo insieme
tra poco» disse. «Prima devo chiarire alcune questioni con quell’arabo.»
Pochi istanti dopo Mandarax ritornava già indietro dall’altra stanza. Senza fermarsi, prese
due bicchieri dal tavolo lungo; due passi dopo ne posò uno, vuoto, su un tavolo più piccolo e si
avvicinò loro.
«Quando iniziano le dure contrattazioni» disse con un largo sogghigno «i galli stupidi si
devono costruire trincee alcoliche.»
«Con tutto quello che hai bevuto l’altro ieri sera» disse Bomilcare «non puoi certo avere
ancora sete.»
«Bah.» Mandarax vuotò il secondo bicchiere, fece cenno a un servitore di avvicinarsi e
scambiò il recipiente vuoto con uno pieno. «Come mi ha detto anni fa il nostro vecchio sacerdote in
patria, l’uomo assennato dovrebbe costruirsi in estate una casa sicura per l’inverno.»
«Quindi bevi contro la sete futura?»
«Quella di domani e di dopodomani.» .
Aspasia ridacchiò. «Che cos’altro ti ha consigliato il tuo sacerdote?»
«Avete molto tempo? Infatti le sue dottrine sono lunghe.»
Letilio sospirò. «Qui non abbiamo niente altro da fare se non aspettare; possiamo anche stare
a sentire quello che i vostri druidi considerano importante.»
Quando Taqur e Asdrubale ritornarono dall’altra stanza, l’arabo aveva l’aria un po‘“assente.
“Delusa?” pensò Bomilcare “oppure confusa?” Tuttavia non ebbe il tempo di pensarci, perché
Asdrubale gli fece di nuovo cenno di avvicinarsi.
«Un’altra cosa in fretta» disse «prima di occuparmi di nuovo di politica. Taqur e io ci siamo
accordati su alcuni punti; più tardi riceverà istruzioni precise da uno scrivano reale. Loro partiranno
subito… voi potete restare o andare con lui, dipende da voi.»
Bomilcare annuì.
«Scaricheranno la nave e caricheranno nuove merci; avranno finito entro domani sera. Taqur
partirà domattina presto, con il primo vento.»
«Noi saremo a bordo?»
«Voi sarete a bordo.» Non era un ordine, ma la semplice constatazione di un evento
ineluttabile. «Questa notte ho dormito bene e, nel frattempo, ho riflettuto. Tra le informazioni
raccolte negli ultimi anni ci sono alcuni nomi e fatti.»
Tacque e aggrottò la fronte.
«Quali nomi, capo?»
«Sono conservati là dove si trovano anche i tuoi rapporti…
e dove conducono i fili che ho in mano fino a questo momento. A Qart Iuba. Non ho più
presenti i nomi e mi ci vorrebbe troppo tempo per recuperarli. Ma mi ricordo gli avvenimenti.» Si
interruppe, come se formulasse un pensiero e poi lo scartasse. «No» disse di malumore «ci vuole
troppo tempo. Non appena avrò recuperato i nomi, invierò una lettera a Qart Hadasht. Indirizzata ad
Antigonos.»
«Perché non a me?»
«Tu» disse dando un colpetto con l’indice sul petto di Bomilcare «non sarai a Qart Hadasht.
Forse dovresti portare con te il romano: come sai, quattro occhi vedono meglio, quattro orecchie
sentono meglio e due spade sono meglio contro eventuali nemici. La tua bella e abile compagna di
giochi dovrebbe partire per Qart Hadasht insieme aTaqur.»
«Io dove sarò, capo?» Bomilcare avvertì un brivido freddo che gli scendeva lungo la schiena
e sentì i capelli drizzarsi sulla nuca.
«Tu, il romano e qualche altro soldato… ti darò alcuni ordini per il comandante di una
fortezza; li riceverai domani.
Sbarcherete a Hipu, sulla costa settentrionale della Libia.»
Bomilcare annuì. «Conosco la città e il porto.»
«Bene. Da lì partirete a cavallo verso sudest.» Asdrubale descrisse la strada, menzionò
alcune località e fortezze, e alla fine disse: «Poi altri due giorni in direzione sudest, attraverso un
territorio roccioso, fino a che non arriverete alla meta del vostro viaggio. Là ci sono alcune persone
che si occupano di ossa».
«Ossa?»
«È una vallata, Bomilcare. Alcuni la chiamano “Valle dell’oscurità”, altri” Luogo senza
ritorno” o’Tatria dei morti”.»
Bomilcare deglutì. Si rivide con il pensiero seduto nella Lingua insieme al vecchio
Nampamo, ad ascoltare il suo racconto di orrori. Disse con voce fioca, quasi inespressiva: «Ti
riferisci alla Valle della Sega?».
«Cavalcherete fin laggiù.»
Era appena l’alba. Il sole non era ancora sorto eppure sembrava che mezza città fosse già in
piedi. E quasi tutti erano venuti per dire addio a Mandarax. Bomilcare vide almeno quattro donne
che cercavano di trattenerlo e alcune altre che avrebbero voluto fare altrettanto, ma non riuscivano
ad awicinarglisi abbastanza. Innumerevoli uomini, iberi ma non solo, gli davano pacche sulle spalle,
gli stringevano le manone e lo ricoprivano di doni. Lentamente, molto lentamente, indietreggiando a
piccoli passi, il gigante riuscì ad arrivare al molo e poi alla passerella. Qui si fermò, allargò le
braccia, borbottò in gallico qualcosa che dal tono parve molto malinconico e poi tuonò in punico:
«E adesso non salite sulla passerella, altrimenti si spezza».
Taqur era davanti al remo destro di poppa; quello di sinistra, di cui avrebbe dovuto
occuparsi Mandarax, era comunque incastrato tra la murata e la passerella. La maggior parte degli
altri uomini dell’equipaggio era davanti ai remi lunghi e quelli che non avevano altro da fare
avevano formato una fila per caricare sulla nave i doni per il gallo.
In quel momento Mandarax afferrò il comandante dei pescatori, un ibero anziano che pesava
almeno una volta e mezzo Bomilcare o Letilio (o qualunque altro uomo normale), gli impresse sulla
fronte un bacio schioccante e lo sollevò in aria apparentemente senza fatica. Nel frattempo gridò:
«Vi amo tutti. Non vi riempite gli occhi di lacrime, altrimenti non potrete vedermi quando ritornerò.
Presto, molto presto, miei cari!».
Poi si voltò, attraversò la passerella con una velocità sorprendente e saltò a bordo.
«Salpiamo» gridò Taqur. «Presto, prima che arrivino!»
Bomilcare allontanò lo sguardo dalla folla che si agitava e gesticolava. Aspasia era da
qualche parte in mezzo alla calca, ma non riusciva a identificarla. Guardò in avanti, oltre la prua.
Al centro della parte occidentale della baia c’era un’altra nave che era salpata prima di loro.
Sembrava che avesse qualche problema con i remi o le gomene delle vele: i marinai si sforzavano
visibilmente di liberarsi di qualcosa o di sistemarlo meglio. Un po‘“più a destra, nei pressi
dell’imboccatura del canale, un’altra nave si preparava a salpare.
Letilio si trovava ai piedi dell’albero maestro, con la mano sull’impugnatura della spada.
«Che cosa succede?»
«Non lo so» borbottò Bomilcare. «Ho soltanto qualche timore. Che Asdrubale ci veda giusto
e noi forse abbiamo sottovalutato il tutto.»
Dopo una decina di colpi con i remi lunghi furono abbastanza lontani dagli edifici e dalla
collina che impedivano al vento di spirare e poterono sentire sulla pelle la brezza fresca del mattino
che gonfiava la vela.
Gli uomini volevano smettere di remare, ma Taqur gridò: «Non siamo ancora fuori,
continuate ancora, uomini».
Quando Bomilcare si voltò verso poppa, vide i lineamenti tesi di Taqur. Forse nel frattempo
l’arabo era stato assalito dal dubbio riguardo al piano escogitato da Asdrubale?
Forse a Mastia c’era qualcuno che aveva osservato tutto e adesso avrebbe tentato di rubare la
spada. Una nave, un assalto nella baia, la fuga in mare aperto. Gli uomini esperti erano sicuri di
poter respingere l’attacco, e poi sarebbero intervenuti gli uomini di Asdrubale. Quindi di nuovo al
porto per interrogare i prigionieri, prendere a bordo Aspasia e partire con informazioni più
complete. Ma se invece le imbarcazioni nemiche fossero state due?
La nave che era rimasta ferma al centro della metà occidentale della baia sembrava aver
risolto le sue difficoltà e si mise in movimento. Bomilcare calcolò che, nel giro di quindici o venti
respiri, sarebbero passati davanti all’altra imbarcazione, a una distanza di pochi passi. Strinse gli
occhi e fissò la sponda occidentale, dove alcune piccole imbarcazioni di pescatori stavano
scivolando sotto gli alberi lungo la riva. Il sole saliva sui monti della parte orientale; ai suoi primi
raggi, in uno dei pescherecci brillò un oggetto metallico. La terza nave, che era salpata nei pressi del
canale, si avvicinava rapidamente.
Avevano quasi raggiunto la prima, quando la vela di questa iniziò a strappare e la sua prua si
mosse verso sinistra, dirigendosi contro il punto in cui sarebbe sopraggiunto presto il veliero di
Taqur.
Bomilcare si sedette sulla cassa, rinforzata da stecche di metallo lucenti, che aveva sistemato
ai piedi dell’albero maestro.
Mandarax fece per salire la scala stretta che portava alla poppa e prendere il suo posto al
timone di sinistra. Si voltò per metà, vide la nave impazzita con la quale si trovavano in rotta di
collisione, brontolò: «Ma che cosa…», alzò lo sguardo verso Taqur e poi verso la terza nave che si
avvicinava, posò il piede sul gradino successivo e gridò: «Ehi voi, state attenti!».
In quel momento nella coperta risuonò la voce di Taqur: «Smettete di remare!».
Meno di due battiti di ciglia più tardi la prua della terza nave passò scricchiolando sopra i
remi della fiancata di sinistra.
Uno degli uomini non aveva ancora smesso di remare: l’assiro, che era sempre un po‘“più
lento degli altri. Quando l’altra nave passò sopra la pala del remo, l’estremità opposta si sollevò in
alto per reazione; il legno urtò violentemente contro il mento dell’assiro, che venne scagliato
all’indietro.
Germanikos, che aveva appena raggiunto l’ingresso del cassero di poppa, barcollò e poi si
gettò a terra, mentre la prua della nave diTaqur si scontrava con quella dell’altro mercantile, che nel
frattempo si era messo quasi per traverso.
Ormai la terza nave li aveva affiancati e alcuni uomini scavalcarono la murata con le spade
sguainate, mentre dall’imbarcazione una voce orribile e strascicata strillava: «Non vogliamo niente
da voi, soltanto la cassa». A bordo della prima nave, messa per traverso, Bomilcare scorse alcuni
arcieri, pronti a scoccare le loro frecce in qualunque momento; venne sbalzato giù dalla cassa e si
meravigliò della volgare imprecazione in latino lanciata da Letilio quando qualcuno gli strappò la
spada dalle mani. Nel frattempo si disse che era stato un idiota a non riconoscere subito, come
avrebbe dovuto, l’uomo con quella voce, la voce orribile del mercante Eurylochos, che aveva visto
in città con la coda dell’occhio.
Poi uno degli assalitori si piegò sull’assiro, che giaceva disteso inerte, e gli cacciò la spada
nel ventre. Nel ponte di poppa due uomini si gettarono su Taqur, che aveva abbandonato il timone
ed era riuscito appena a sguainare la spada per difendersi. Dalla coperta uno cercò di colpire dal
basso le gambe di Mandarax, che si trovava ancora sulla scala. Nell’aria sibilarono alcune frecce,
una delle quali centrò la spalla dell’etrusco, che si piegò troppo tardi.
Qualcuno crollò addosso a Bomilcare, che cercò di liberarsi scivolando faticosamente sotto
il cadavere; il caduto lasciò andare una spada: il punico allungò la mano per prenderla, riuscì a
stento a rimettersi in piedi e la cacciò nel petto dell’uomo che si stava gettando contro Letilio,
armato soltanto di uno scudo di legno. Da qualche parte si sentì un borbottio e un ronzio, forse
l’intrico di voci delle persone che dal porto, distante poche centinaia di passi, riuscivano a vedere
abbastanza per capire di non poter arrivare in tempo. O forse invece, si disse più tardi, era soltanto il
sangue che gli pulsava nelle orecchie. Vide Letilio che strappava l’arma al nemico caduto e si
difendeva da un altro aggressore, vide il balzo felino con cui Mandarax si gettò contro l’uomo che
l’aveva colpito alle gambe. Il cuoco Germanikos strisciò con un girarrosto in mano da dietro un
barile d’acqua sul cassero di poppa, si sollevò su un ginocchio e trafisse uno degli uomini che
minacciavano Taqur. Mandarax, che con un pugno aveva maciullato il cranio del suo avversario, ne
afferrò il cadavere e lo scagliò contro altri due assalitori. Alcuni uomini si strinsero intorno a
Bomilcare, che d’un tratto si ritrovò con la schiena contro quella di Letilio. E mentre cercava di
difendersi dagli assalti e sentiva dietro di sé un grido di morte che non poteva essere quello del
romano, vide volare alcune frecce e si stupì di trovare il tempo per meravigliarsi del fatto che non lo
colpissero.
Mandarax afferrò il braccio armato di un assalitore e lo piegò all’indietro. Due frecce
trafissero la schiena e il collo del gigante. Bomilcare sentì odore di feci e di urina, di sangue e di
ferro umido, e avvertì il rumore del braccio dell’uomo che Mandarax aveva trascinato davanti a sé
come uno scudo, mentre si spezzava. Vide il sole brillare sull’intelaiatura della cassa che due
uomini portavano a bordo della prima nave. E sulla lama della spada che squarciava il ventre di
Mandarax.
Poi, finalmente, udì lo scricchiolio del legno contro il legno, quando le imbarcazioni dei
pescatori si affiancarono a loro e i guerrieri libi dall’armamento pesante entrarono nel
combattimento. La prima nave riuscì a liberarsi, scivolare davanti alle altre, e addentrarsi nella baia,
verso l’uscita e il mare aperto. Alcuni uomini rimasti indietro si tuffarono in acqua e cercarono di
inseguirla a nuoto.
Anche il terzo mercantile si mosse. A bordo c’erano alcuni libi, ma probabilmente in
inferiorità numerica. La cassa contesa si trovava sulla prima imbarcazione, mentre la terza
abbandonò almeno sei combattenti sul veliero di Taqur. Un gruppetto di uomini ancora vivi che non
era disposto ad arrendersi.
A parte Germanikos, avevano riportato quasi tutti ferite lievi. L’assiro e altri due membri
dell’equipaggio erano morti.
Mandarax era ancora vivo quando gli tolsero di dosso il cadavere dell’uomo con il braccio
spezzato: dopo essere stramazzato al suolo, il gallo lo aveva strangolato.
«Devono bere alla mia salute» mormorò il gigante scoprendo i denti. Con la mano sinistra
brancicò il piumaggio della freccia che gli aveva trafitto il collo, mentre la mano destra strisciava
come uno scarafaggio enorme verso la ferita aperta del ventre, da cui fuoriuscivano i visceri. Poi
gemette e rimase immobile.
Dal lungo taglio sull’avambraccio destro di Bomilcare continuava a colare sangue. Seguì
con lo sguardo una goccia, la vide cadere e fondersi in una piccola pozza insignificante tra le tavole.
Deglutì più volte senza riuscire ad alleviare l’amarezza che gli si diffondeva sempre più
intensamente nella bocca. Avevano parlato con tutti gli uomini e tutti avevano accettato, e
tuttavia…
Alcune centinaia di passi più avanti il terzo veliero aveva invertito la rotta: evidentemente i
libi erano riusciti a sopraffarli. La prima nave invece, che trasportava la cassa, si avvicinava già
all’uscita della baia. Niente avrebbe potuto più trattenerla.
Niente a parte le due pesanti triremi che dal mare scivolarono nella baia. Una delle navi da
guerra puntò contro il veliero, strisciando sull’acqua come un millepiedi. “Come la mano sul ventre
di Mandarax moribondo” pensò Bomilcare. La seconda trireme si mise per traverso in mezzo
all’uscita. Le tre file di remi nella parte in vista vennero sollevate dall’acqua, ma non ritirate. La
nave avrebbe potuto riprendere la navigazione, in avanti o all’indietro, in qualunque momento.
Il veliero non aveva più alcuna possibilità di raggiungere il mare aperto. All’improvviso i
suoi occupanti invertirono la rotta: evidentemente speravano di raggiungere la sponda occidentale
della baia. Laggiù il pendio alberato si spingeva fino alla spiaggia oppure, dove non c’era la
spiaggia, fino alle rocce.
Un’altra imbarcazione li affiancò cigolando. Bomilcare non vi fece caso, continuava a
fissare lontano, verso il veliero, e quindi trasalì quando qualcuno gli sfiorò il braccio. Era Aspasia,
pallida ma decisamente padrona di sé.
«Vieni, lascia che ti bendi la ferita» gli disse. Teneva un panno umido in una mano e aveva
appeso una benda all’altra spalla. Mentre gli lavava via il sangue, che non si era ancora arrestato del
tutto, dall’avambraccio e dalla mano, disse a bassa voce: «Era proprio indispensabile?».
«Era necessario.» Bomilcare si sentì vecchio e svuotato, e fece fatica a pronunciare qualche
altra parola. «Avevamo il sospetto che qui, oltre a Mandrokles e agli altri, ci fosse ancora qualcuno
coinvolto nella faccenda. Dovevamo preparare una trappola e noi eravamo l’esca. Tutti volontari.»
«Per questo anche la cassa visibile da lontano?»
Bomilcare annuì. «E se avessimo sostituito l’equipaggio con dei soldati, avremmo dato
nell’occhio: dovevamo mettere in conto che saremmo stati osservati.» Si sforzò di sorridere. «Già è
stato rischioso lasciarti a terra. Visto che eravamo così osservati.»
«E adesso? Che succede se quelli riescono a fuggire sulla terraferma, portandosi dietro la
cassa?»
«Nella cassa ci sono inutili spade comuni.»
Poi rimasero in silenzio con lo sguardo fisso in avanti, verso il punto in cui il veliero,
sospinto dai remi lunghi, si precipitava contro la costa. La trireme lo inseguiva, ma era ancora
troppo lontana. Gli uomini saltarono giù dal veliero, sguazzarono nell’acqua della riva, giunsero alla
spiaggia.
Che si riempiva di uomini armati, spuntati da dietro gli alberi.
Il secondo tentativo di uscire dalla baia di Mastia fu più fortunato e molto più tranquillo del
primo. Mentre alcuni uomini appena ingaggiati prendevano confidenza con il lavoro, gli altri
membri dell’equipaggio continuavano a pensare agli avvenimenti del giorno prima. E della sera,
quando avevano allestito un immenso fuoco sulla spiaggia per i propri morti e dopo la mezzanotte
ne avevano sparso le ceneri nella baia occidentale.
Durante il giorno Taqur insegnò a maneggiare il timone a un elleno che navigava con lui da
molto tempo. Il vento era favorevole e nessuno dovette mettersi ai remi, per cui la maggior parte
degli uomini era seduta qua e là a riparare vele o gomene, ad affilare i coltelli e le lame delle spade
e a parlare dei morti. Del modo in cui nei paesi di origine di ognuno ci si comportava con i defunti e
di quale forma di sopravvivenza dopo la morte era considerata verosimile o almeno credibile.
Bomilcare aveva bisogno di un po‘“di tempo per rielaborare quello che considerava un
sanguinoso insuccesso. Perché non avevano previsto due navi? E perché gli dèi avevano concesso
una morte rapida al mercante Eurylochos a bordo della terza nave, che sicuramente avrebbe potuto
chiarire molte cose?
Bomilcare trascorse alcune ore nella coperta di poppa insieme aTaqur, con discorsi che
iniziavano con Asdrubale e finivano quasi sempre con Mandarax. Questo dipendeva anche dal fatto
che Bomilcare non sapeva come Asdrubale si fosse accordato con Taqur, ma aveva i suoi buoni
motivi per non essere così curioso da domandarglielo. Tanto più che, in tal caso, l’arabo avrebbe
potuto pretendere a sua volta una serie di spiegazioni che Bomilcare non voleva dare e, almeno in
parte, temeva di non conoscere neppure.
Tuttavia richiese e ottenne da Taqur un’informazione particolare, che lo sorprese alquanto. Il
secondo giorno di navigazione mostrò all’arabo le tre spade che teneva nel cassero di poppa.
Asdrubale gli aveva ordinato di affidarle aTaqur, che avrebbe dovuto portarle a Qart Hadasht e
consegnarle nelle mani del suffeta Himilko.
«Antiche spade preziose, tutte e tre uguali?» disse Taqur.
«Ma quante ne avete ancora nei vostri templi?»
«Non ne ho idea. Ma tu sei esperto di pietre.»
«Un po’. E anche di armi. Sono cose che si imparano facendo il mercante.»
«Allora esamina le spade. Che genere di pietre sono?»
Taqur prese la prima spada e ne avvicinò l’impugnatura alla luce che penetrava dalla porta
del locale. «Perché lo vuoi sapere?»
«Innanzitutto per curiosità. E secondariamente perché suppongo che due di queste siano
false. Più ne so in proposito, tanto più facile potrebbe essere in seguito trovare il fabbro che ha
realizzato i falsi.»
L’arabo annuì. Ripose la prima spada e prese la seconda, ne esaminò la lama, l’elsa, le teste
di leone, l’impugnatura, la pietra.
«Come mai» chiese Bomilcare incidentalmente «Asdrubale vuole che le spade siano affidate
a te, non appena Letilio e io scenderemo dalla nave?»
«Sa dove mi può trovare per rompermi l’osso del collo.»
Taqur ridacchiò ed esaminò la terza spada. «Inoltre sa, o almeno immagina, ancora qualcosa.
Come mi ha detto.»
«E cioè?»
L’arabo ripose la terza arma insieme alle altre due e guardò Bomilcare negli occhi. «Che
sono tutte e tre false.»
«Ne sei sicuro?»
«Le pietre blu sono di vetro. I leoni sono nuovi; se tu fossi un esperto, potresti vederlo dalla
lavorazione.» Mostrò a Bomilcare le tracce di levigatura e ripulitura recente. «E le lame? Bè, sì,
quelle sono più vecchie, ma sono state lavorate di nuovo poco tempo fa: affilate e portate alla forma
giusta.»
Aspasia, Letilio e Bomilcare trascorsero la maggior parte del tempo seduti ai piedi
dell’albero maestro, a chiacchierare a bassa voce di questioni prive di importanza. A un certo punto
Aspasia sollevò le mani sopra la testa e disse, visibilmente irritata: «E proprio necessario, piccoli
svergognati? Ognuno ha segreti per l’altro e nessuno si fida a parlare. Eppure si intuisce
chiaramente che vi piacerebbe confidarvi a vicenda. Per gli dèi, romani, punici, elleni o, per quel
che m’importa, perfino arabi e assiri… chi posso ancora invocare? Parlate una buona volta di ciò
che è davvero importante per voi!».
«Sarebbe difficile» disse Letilio con un sorriso.
«Precipiteresti negli abissi oscuri che si spalancherebbero davanti a te, e noi vogliamo
risparmiartelo a ogni costo.»
«Quali oscurità? Quello che è accaduto nella baia è stato abbastanza brutto, e io ho assistito:
in che cosa dovrei dunque evitare di precipitare?»
«Non sto parlando di quel che è successo, ma delle oscurità delle nostre menti.»
«Menti?» disse Aspasia adesso con tono di scherno. «Due misere ciotole semivuote
dovrebbero essere anfore ricolme?»
«Stai calpestando i fiori delicati delle nostre sensibilità»
disse il romano.
«Ah ah ah.»
Bomilcare intrecciò le mani dietro la testa e si appoggiò all’albero maestro. «Comprendo la
tua irritazione, mia cara. E
se le cose stessero diversamente… ascolta Mucro, riguarda te…
se le cose stessero diversamente, cercherei di ottenere la sua amicizia. Ma è impossibile.»
Letilio lo guardò negli occhi. «Sei un uomo per bene, punico. Quando ci siamo ritrovati
schiena contro schiena, ho pensato che forse non ci sarebbe stato un compagno migliore per
combattere e morire. Però…» s’interruppe, mostrandosi quasi imbarazzato.
Bomilcare si schiarì la voce. «Esatto: però. Le cose stanno come stanno, perciò non è
possibile cambiarle. Ma ti ringrazio per le parole e ti assicuro che potrei dire la stessa cosa.
Però sarebbe solo una ripetizione… fratello.»
«Uomini!» disse Aspasia. «Ragazzi stupidi! Due buoni compagni, ottimi amici, sono qui
seduti e desidererebbero tanto abbracciarsi, ma si aggrappano alla diffidenza come uno che sta per
annegare si aggrappa a un’asse di legno e non si è ancora accorto che l’acqua in cui si dibatte gli
arriverebbe appena ai fianchi, se solo avesse il coraggio di spingere una gamba verso il basso,
anziché sbatterla e dimenarla.»
Letilio rise. Protese ambo le braccia, ne posò una sulla spalla di Aspasia e con l’altra mano
strinse l’avambraccio di Bomilcare. «Dimenarsi può sembrare indecoroso, ma qualunque
movimento è meglio dell’inerzia.»
«Devo cercare un letto grande, in cui vi possa far dimenare e gridare tutti e due
contemporaneamente?» disse Aspasia. «Per cambiare le cose?»
«Io accetterei subito» disse Taqur. Aveva lasciato il suo posto al timone ed era comparso
improvvisamente alle loro spalle. Bomilcare si domandò che cosa avesse sentito l’arabo.
«Posso sedermi in mezzo a voi, o volete passare all’azione? In posizione orizzontale?»
«Siediti» disse Aspasia con voce ancora irritata. «Credo che anche tu sia uno di quelli.»
«Se le cose stanno così, beviamoci sopra.» Taqur si sedette sul tavolato. Aveva un bicchiere
in una mano e con l’altra reggeva una brocca. Riempì il recipiente per bere e lo offrì per primo ad
Aspasia.
L’ellena vi guardò dentro, lo annusò e bevve; poi diede il bicchiere a Letilio. «L’ordine è
assolutamente casuale» disse.
«Nel caso in cui vi preoccupiate anche di questo.»
Bomilcare attese che il romano gli passasse il bicchiere, bevve e poi disse: «A proposito,
quanto ti dobbiamo per la traversata da Alessandria a Mastia? E per questa?».
«Niente.» Taqur si passò la mano tra i capelli. «Per come sono andate le cose, non mi dovete
niente.»
«Per questo ci domandiamo, in modo del tutto innocente» disse Letilio «come faccia l’oro
egizio, di cui si può occupare soltanto il sovrano, a finire tra le mani di una canaglia araba. Così
come il colore blu.»
«Ah» disse Aspasia. «Lo avevo detto: è uno di quelli.»
«Adesso ne potremmo discutere approfonditamente.»
Taqur sorrise. «Del fatto che forse raccolgo informazioni segrete per il grande Tolomeo III e
per questo posso trasportare oro destinato unicamente al conio. Che forse l’ho consegnato ad
Asdrubale affinché lo coniasse e forse, visto che questi mi ricompensa con buon argento, raccolgo
notizie anche per lui.
E per chi altri ancora? Forse per la regina degli illiri, che si trova in guerra contro Roma?
Forse anche per Roma? Per i seleucidi, Atene o la Macedonia? Invece non discuteremo di questo
perché è inutile, così come la risposta alla domanda se Bomilcare, per via dell’amicizia con il
romano, possa dimenticare di essere punico o se Letilio, per il sorriso di un punico, possa trascurare
gli interessi del Senato e del popolo.»
Sospirò. «Forse la vita sarebbe più divertente, se tutto questo accadesse; noi però non siamo
soltanto quelli che siamo, ma anche una parte di qualcosa di più grande, che non possiamo
abbandonare, tradire o dimenticare. Perciò» concluse alzandosi in piedi e sorridendo a tutti gli altri
«parliamo di altre cose. Per esempio del fatto che, quando voi sarete sbarcati a Hipu, io dovrò
condurre Aspasia a Qart Hadasht.»
Per molti giorni Aspasia si rifiutò ostinatamente di accettare quel progetto; alla fine
Bomilcare si vide costretto a dirle di più sulla vera e propria meta del suo viaggio. La Valle della
Sega, l’orrore della guerra contro i mercenari, gli uomini che probabilmente laggiù non si
occupavano soltanto di ossa.
«Temo che sarà orribile e sanguinoso» disse alla fine. «Non so che cosa ci attenda ma, dal
momento che Asdrubale mi ha ordinato di prendere con me alcuni soldati da una fortezza vicina, ti
prego di ritornare in patria insieme a Taqur.
Qualunque cosa ci possa accadere, sarà più facile sopravvivere se non dobbiamo
preoccuparci continuamente per te.»
Dopo quello che Letilio definì un «congedo provvisorio e frettoloso», si diressero verso
sudest con i cavalli della fortezza locale. Passati cinque giorni di viaggio, trascorsero la notte in una
piccola fortezza punica, il cui comandante l’indomani consegnò loro una ventina di cavalieri iberi.
Due giorni dopo raggiunsero la loro meta, la Valle della Sega, il luogo senza ritorno.
Il mattino dopo l’ultima tappa sembrava che il giorno non volesse più arrivare. Veli di
foschia rossastra circondavano il sole; sulla pianura sassosa aleggiavano spettri di sabbia che si
disponevano in colonne, si disperdevano e si ricompattavano. I ventiquattro cavalieri iberi erano
accovacciati intorno a quattro fuochi che le raffiche del vento continuavano ad attizzare, e
mormoravano tra loro.
«Non hanno l’aria particolarmente allegra» disse Letilio indicando con il capo il gruppo più
vicino.
Uno dei due capisquadra, un punico, camminava avanti e indietro tra i gruppi,
evidentemente per impartire gli ordini per la partenza. L’altro si inginocchiò davanti al fuoco vicino
a Bomilcare per allacciarsi i sandali.
«Non gradiscono questo tempo» disse. «Ne sei sorpreso?»
«Ci possiamo fidare di loro?» Bomilcare vuotò nel fuoco la scodella dalla quale aveva
sorbito brodo di verdura, rinforzato con un po‘“di vino, e sputò via la sabbia.
«Che cosa intendi dire?»
«Quelli hanno i loro spiriti del vento» disse Bomilcare.
«Leoni del vento, cani della tempesta, dèi delle nuvole.
Forse per loro questo è un giorno in cui non bisognerebbe fare nulla.»
Il caposquadra si alzò in piedi e proruppe in una risata asciutta. «Sei pratico di queste cose,
capo. Ma del resto sei già stato abbastanza a lungo con le truppe in Iberia.»
«Allora è così?»
«No.» Il punico guardò verso gli uomini, che in quel momento stavano spegnendo i fuochi e
mettendo le gualdrappe ai cavalli. «I soldati apprezzano le comodità e non amano i cambiamenti.
Sono di malumore perché il vento soffia la sabbia nella loro colazione.»
Il cielo si faceva via via sempre più scuro. La visibilità continuava a peggiorare e, quando il
sole invisibile sarebbe dovuto essere proprio sopra di loro, a mezzogiorno, scoppiò una tempesta di
sabbia.
Bomilcare, Letilio e i due capisquadra si consultarono.
Furono costretti a gridare per sovrastare gli ululati della tempesta che li ricopriva di sabbia e
di polvere.
Intorno c’erano alcuni frammenti di roccia sparsi e ciottoli piatti: niente che potesse offrire
davvero riparo. La strada che seguivano era segnata dai solchi dei carri; anche se non potevano
vedere molto lontano, sarebbero riusciti comunque a mettere un piede dietro l’altro in mezzo alle
tracce.
«Senza la tempesta» gridò uno dei capisquadra «probabilmente potremmo già vedere i denti
della Sega. Ancora un’ora, ormai non può essere molto lontana.»
Si coprirono bocca e naso alla bell’e meglio con dei panni. Con le cinghie di cuoio dei
morsi, di cui al momento non avevano bisogno, alcune corde che si erano portati per legare i cavalli
e altri panni annodarono una lunga fune alla quale gli uomini si sorreggevano come se fosse un
corrimano, per non finire gli uni addosso agli altri mentre procedevano alla cieca tra polvere e
sabbia.
Improvvisamente le tracce dei carri curvarono verso sinistra. Davanti a Bomilcare, che
cavalcava in testa, gli ammassi di polvere sembravano farsi ancora più oscuri. Il caposquadra che
era accanto a lui sollevò il braccio, scivolò giù da cavallo e fece alcuni passi a piedi; anche gli altri
si fermarono, perché i primi cavalli bloccavano loro la strada.
«Le rocce» disse il punico quando riemerse dalla nuvola di sabbia. «La strada le segue per
alcune centinaia di passi, fino all’ingresso della vallata. Ci arriveremo presto.»
«Sei sicuro? Da quando sei stato qui con Amilcare, potrebbe essere cambiato qualcosa. La
tua memoria, per esempio» disse Bomilcare. «Sono pur sempre passati quasi nove anni.»
«Ci sono cose che non si dimenticano. La Valle della Sega è una di queste. »
Decisero di attendere davanti alla parete di roccia: sarebbe stato assurdo entrare a cavallo
nella valle alla cieca. Da quello che avevano sentito nella piccola fortezza, vi si trovavano una
trentina di uomini: operai, sorveglianti e soldati mercenari. Nessuno sapeva che cosa facessero
laggiù. E, dal momento che la fortezza distava due giornate di viaggio e nessuno aveva mai avuto
una ragione per andare a curiosare nella valle, Bomilcare riteneva più che opportuno nutrire dubbi
anche sulle poche informazioni ricevute. I soldati avrebbero potuto essere anche di più… oppure
non esserci affatto.
Aspettare. Inghiottire la sabbia. Polvere e sabbia entravano dappertutto, perfino quando uno
appoggiava la fiasca di cuoio alla bocca per bere un po‘“d’acqua. Quando, secondo i calcoli di
Bomilcare, furono trascorse circa due ore, si fece un po’ più chiaro; la tempesta si placò, ma la
cortina di polvere rimase comunque impenetrabile. Bomilcare procedette a tentoni lungo la parete di
roccia insieme a uno dei capisquadra.
Contò quattrocentoundici passi, prima di giungere a una specie di capanno delle guardie, una
costruzione di legno traballante. Era vuota: evidentemente nessuno nella vallata riteneva necessario
fare la sentinella con quel tempo.
Bomilcare si fermò davanti al capanno; il caposquadra ritornò indietro a chiamare gli altri.
Poi di nuovo aspettare. Con l’aiuto della fune annodata si disposero a semicerchio davanti
all’ingresso della vallata: gli iberi, a due passi di distanza l’uno dall’altro, erano invisibili in mezzo
alla sabbia e alla polvere. Sedici uomini furono sufficienti perché l’arco dei soldati, distesi con il
ventre a terra, arrivasse a toccare l’altra parete rocciosa. Anche lì, secondo quanto mormorò
qualcuno, c’era un capanno delle guardie abbandonato.
Improvvisamente la tempesta terminò; coltri di polvere e colonne di sabbia ricaddero a terra.
Il sole pomeridiano, di un rosso malaticcio, riversò sulla vallata una specie di sangue che non
voleva scorrere via.
Videro un pozzo in muratura, ricoperto di legno, con accanto un secchio per attingervi pieno
di sabbia. Videro alcune misere capanne, dietro le quali erano legati due cavalli che soffiavano via
la sabbia e tre asini. E videro mostri enormi, rossi pallidi, che rivolgevano verso l’ingresso della
valle le loro fauci spalancate con zanne lunghe come braccia.
C’erano dieci guardie armate, che si arresero immediatamente.
Venti schiavi, dall’aspetto sfinito e miserevole. Due sorveglianti: un cieco vecchissimo e un
libio robusto e muscoloso.
In una delle capanne trovarono tre schiave luride e terrorizzate; come gli uomini,
mostravano i segni della frusta di cuoio che il libio portava arrotolata intorno al ventre.
Quella sera nella vallata e in quelle che seguirono, durante la marcia verso la fortezza,
udirono le loro storie, che in realtà erano tutte uguali, con minime varianti.
Era iniziato tutto sette anni prima. Qualcuno - «la voce di un uomo ricco e istruito, abituato a
comandare» - era andato dal vecchio cieco e gli aveva domandato se volesse continuare a vivere
delle modeste elemosine di estranei sul ciglio della strada di Sikka, oppure preferisse fare
qualcos’altro.
«Estranei?» disse Letilio. «Non hai amici? Parenti?»
Il vecchio proruppe in un nitrito roco, che avrebbe dovuto essere una risata. «Ero
sorvegliante di schiavi in una cava di pietre» disse. «Prima di diventare cieco. Non è il miglior
modo per trovare amici o donne.»
L’uomo ricco l’aveva messo in groppa a un asino e aveva cavalcato per giorni insieme a lui
nel deserto, fino alla valle.
Il vecchio disse che all’inizio non sapeva di che posto si trattasse e che più tardi non gli era
più interessato. Laggiù c’era già un altro uomo, che subito dopo era stato mandato in giro con del
denaro perché procurasse guerrieri e schiavi.
Mentre era lontano, il ricco aveva impartito al cieco alcuni ordini e poi era sparito.
Bomilcare lo interruppe. «Non è più ritornato?»
«Sì. Ma solo di rado. Gli altri dicono che è sempre ritornato da solo, con il volto coperto da
panni e senza parlare con nessuno, mi ha fatto uscire dalla valle unicamente per darmi denaro o
nuove istruzioni.»
«E l’altro? Quello che doveva procurare schiavi e guerrieri?»
«E tornato indietro insieme a loro. Quando furono nella valle e tutte le cose importanti erano
state chiarite, il ricco è ritornato per la prima volta, a viso coperto. Ha detto a lui e a me di seguirlo.
Quando siamo stati fuori dalla valle, ha ucciso l’altro con la spada e mi ha detto che potevamo
lasciarlo lì agli animali oppure seppellirlo, a lui non interessava. Io avrei dovuto soltanto dire a tutti
che nessuno che avesse visto il suo volto sarebbe mai sopravvissuto.»
Tutti, gli schiavi, le guardie e il libio, confermarono il suo racconto. Bomilcare nutriva
alcuni dubbi sul libio, che era stato il vero e proprio sorvegliante ed era sicuramente un terribile
aguzzino. Si disse tuttavia che avrebbe potuto interrogarlo a fondo più tardi, a Qart Hadasht, e
rimandò i dubbi al momento in cui avrebbe potuto dare loro risposta.
Di tanto in tanto il ricco veniva a portare loro del denaro; a intervalli variabili a seconda
delle esigenze, due guardie cavalcavano a dorso d’asino fino a una delle località più vicine per
comprare provviste. Poi avevano acquistato le tre donne, che dovevano essere a disposizione di
tutti, anche degli schiavi, come animali domestici. Era inevitabile che mettessero al mondo bambini,
che erano stati immediatamente soffocati o sepolti vivi.
«Sette anni.» Il vecchio scoppiò in una risata stridula. «Ma l’obbiettivo non è molto più
vicino che all’inizio.»
E il loro compito era questo: nella valle, chiusi in trappola dai soldati di Amilcare, erano
entrati in diecimila.
Avevano sofferto la fame e la sete, bevuto il sangue e alla fine mangiato carni che gli dèi
avevano proibito di consumare. Gli dèi che, fin dall’inizio dei tempi, ingannano e tormentano gli
uomini, qualche volta li elevano e alla fine li divorano sempre. Le spade, le lance e, più tardi, gli
elefanti dell’esercito di Amilcare, avevano eliminato tutti i superstiti. Ma quelli non erano certo
entrati nella valle a mani vuote. Il bestiame e le provviste erano stati divorati, però era rimasto il
resto: oro e argento, il bottino di tre anni di scorrerie e di saccheggi. Gioielli, pietre preziose, monili
costosi: non erano cose che si potessero mangiare.
Dopo il massacro, gli uomini di Amilcare avevano raccolto le armi. Probabilmente avevano
cercato anche i preziosi, ma senza alcun risultato. I capi, interrogati prima della lenta esecuzione,
non avevano detto nulla e si pensò che avessero seppellito tutto nella valle, dove giacevano
montagne di cadaveri puzzolenti, un nonluogo in cui nessuno avrebbe più voluto mettere piede.
E così questi reietti, schiavi ed emarginati, avevano scavato per anni, per un uomo ricco
senza volto. Proprio all’inizio avevano ritrovato dell’argento seppellito: molto, ma troppo poco a
confronto di quello che i mercenari avrebbero dovuto possedere. Poi avevano rinvenuto soltanto
ossa di animali, i resti delle bestie da macello che i soldati si erano portati dietro. E ossa umane.
«Ha detto che avremmo dovuto usarle per costruire altari agli dèi del luogo.» Il vecchio
ridacchiò di nuovo. «Ma quali dèi può avere un luogo simile? Soltanto mostri. Così, con le ossa,
abbiamo costruito dei mostri.» Alzò le mani davanti agli occhi ciechi. «Vedo appena appena il
chiaro e lo scuro, non i contorni, ma riesco a percepirli con il tatto. Dei bei mostri.
Prima o poi, alla fine, forse uno degli dèi veri verrà e darà loro la vita. Così voleranno per il
paese e devasteranno tutto.»
Bomilcare lasciò indietro sei iberi, che avrebbero dovuto distruggere i mostri, bloccare
l’accesso alla valle e sorvegliarla fino a che non fosse arrivato qualcuno ad aiutarli e a dare loro il
cambio. Gli altri si recarono alla fortezza da cui provenivano i soldati; Bomilcare ordinò al loro
comandante, in nome dello stratega Asdrubale, di mandare soldati e muratori per rendere la valle
inaccessibile.
Liberarono gli schiavi e le donne, tra i quali venne suddiviso il denaro che era ancora in
possesso del vecchio e del libio. Le guardie mercenarie furono disarmate e consegnate al capo della
fortezza, che avrebbe potuto arruolarle oppure mandarle via.
Il mattino del primo giorno l’aguzzino libio venne trovato morto. Durante la notte diversi ex
schiavi dovevano essersi avvicinati furtivamente e averlo strangolato con la sua stessa frusta.
Bomilcare rinunciò a cercare i colpevoli.
Bomilcare e Letilio portarono il vecchio cieco a Qart Hadasht. Diceva che avrebbe
riconosciuto sicuramente l’uomo dalla voce stentorea.
Non rivelò molto altro. Il quinto giorno di viaggio, durante il cammino, emise un gemito
tormentoso e cadde da cavallo. Lo seppellirono accanto alla strada. Poi fecero una sosta. Letilio si
appisolò all’ombra di un albero. Bomilcare si distese sotto un cespuglio, a pensare al Consiglio
della città, ai giudici e ai nobili, a quelli che volevano essere eletti e alla loro origine. Riesaminò più
volte i nomi, gli avvenimenti, i possibili retroscena. E ogni volta si domandò se quella che
conosceva fosse la verità. E se sarebbe stata sufficiente per mettere fine a quel brutto gioco.
Quando giunsero a Qart Hadasht, mancavano appena tre giorni alle elezioni… e due alla
festa che Antigonos, il signore del Banco della Sabbia, avrebbe dovuto organizzare.
Avevano deciso che Letilio sarebbe rimasto da Nampamo con una delle spade per i prossimi
due giorni e mezzo. Il romano si era detto assolutamente d’accordo con i piani di Bomilcare, e
inoltre non voleva fare la parte del terzo incomodo in occasione del suo ritorno da Aspasia.
Bomilcare provò una sensazione strana nell’entrare di nascosto, di notte, attraverso una delle
piccole porte nei pressi del porto, nella città di cui aveva difeso tanto a lungo l’ordine. Due ore dopo
il tramonto era davanti all’officina dei carri, ma non c’era più nessuno.
Provò una sensazione strana anche nell’avvicinarsi, in modo furtivo e silenzioso,
all’abitazione di Aspasia senza sapere che cosa lo aspettasse. Avrebbe potuto esserci una festa nel
cortile; forse Aspasia intendeva continuare a tenergli il broncio; forse erano venuti a trovarla alcuni
amici; forse… trovava spiacevole formulare questi pensieri, ma si disse che il suo dispiacere non
era un criterio per valutarli. Non erano sposati, non avevano pronunciato alcun giuramento. L’anno
passato Bomilcare era scomparso per mesi; al suo ritorno Aspasia gli aveva parlato di due punici,
forse inventati, forse reali, e Bomilcare non le aveva mai più chiesto altro. Anche perché, per parte
sua, conservava ancora il ricordo di una giovane ibera.
Tuttavia, si disse mentre si dirigeva verso le scale nel cortile interno deserto, rievocare i
trascorsi durante una lunga assenza era ben diverso che assistervi direttamente.
Nell’abitazione brillava una lampada a olio. Aspasia non aveva sistemato le imposte
rimuovibili né alle finestre né davanti all’ingresso, dove la cortina di perle di terracotta si muoveva
dolcemente a un alito di vento quasi impercettibile.
All’improvviso gli venne in mente un altro pensiero e la sua mano si posò automaticamente
sull’impugnatura del coltello. Le minacce. Le imposte davanti all’officina sulla Via Grande, come
aveva appena verificato, erano state richiuse con cura e non c’erano segni esterni di ulteriori
devastazioni.
Però avrebbe potuto esserci qualcuno in casa. Non sdraiato accanto a lei, ma a puntarle un
coltello alla gola nell’attesa che quella notte, ogni notte, comparisse Bomilcare.
Poi si diede dello sciocco. Chi avrebbe potuto sapere che sarebbe ritornato quella notte? Chi
avrebbe trascorso infinite notti a minacciare Aspasia per poi lasciarla andare al lavoro al mattino,
senza che lei chiedesse aiuto a Duush, Zililsan o Autolykos?
Troppe domande. E le risposte si trovavano in quell’abitazione. Bomilcare lasciò la mano
sull’impugnatura del pugnale ed entrò.
Aspasia era ad appena due passi da lui, evidentemente sul punto di prendere le imposte per
sistemarle. Lo fissò per il tempo di un respiro come se fosse uno spettro; poi sorrise, fece un passo
verso di lui mentre Bomilcare ne faceva uno verso di lei, gli mise le braccia al collo e lo baciò.
Fu un bacio impetuoso, profondo e ristoratore, che lasciò entrambi senza fiato.
«Hai cavalcato duramente e a lungo, amore mio?» gli disse alla fine.
«Sì, duramente e a lungo. In mezzo a polvere, sabbia e sangue. Ma mi sono mancate quelle
cavalcate notturne che mi facevano gemere.»
Aspasia rise piano. «Anche a me sono mancate alcune cose. Recuperiamo il tempo perduto.
Subito. Adesso. Parleremo più tardi.»
Non c’erano state ulteriori minacce né aggressioni. Gli uomini dell’officina, disse Aspasia,
avevano tenuto gli occhi bene aperti per tutto il tempo e lei aveva visto più volte anche alcune delle
guardie.
«Chi?»
«Autolykos è stato spesso nel laboratorio. Quello nuovo, come si chiama? Barako? E
Achiqar.»
«Ti hanno fatto domande?»
«Soltanto su come stavo, se era accaduto qualcosa e così via. Achiqar ha voluto sapere che
cosa era successo durante il viaggio. Naturalmente» aggiunse ridendo «non avevo idea di che cosa
potesse essere accaduto ad Alessandria e in Iberia. In seguito mi ha chiesto ancora una o due volte
se avessi saputo qualche novità da te.»
«E loro ti hanno raccontato qualcosa? Hanno scoperto qualcosa di nuovo?»
Aspasia scosse il capo.
«Bene» disse Bomilcare. «Dovevano fare proprio questo.»
Al mattino si recò innanzitutto all’officina dei carri, dove trovò Duush, perfettamente
guarito dalle ferite. Il macio Nymar e l’elimoVavurro arrivarono subito dopo Bomilcare.
Quando ebbero esaurito gli immancabili saluti, Bomilcare disse: «Dove sono gli altri:
Zililsan, Patroklos? E c’è qualcosa che dovrei sapere prima di recarmi dal giudice?».
«Vuoi comunicare il tuo ritorno?» disse Duush con un sogghigno. «Saranno felici, con tutta
la fretta che avevano di liberarsi di te. Però… no, non c’è nulla di nuovo. O comunque non molto.»
«Dimmi quel poco.»
«Zililsan ha interrogato alcuni schiavi… sai, gli schiavi degli altri membri del Consiglio, che
non sono intervenuti quando Abdosir…»
«Lo so. E allora?»
«Dicono che i loro padroni avevano detto loro in precedenza che non avrebbero dovuto fare
assolutamente nulla, qualunque cosa fosse accaduto.»
«Ah.»
«Bodashtart ilVerde, il mercante di verdure, è morto.»
«Ah e poi ah. Come è successo?»
Nymar alzò la mano. «Ero per caso nelle vicinanze. Un incidente. Sai, una di quelle stupide
coincidenze. Stava scaricando qualcosa da un carro al mercato. Un carro carico fino all’orlo. Il bue
che lo trainava ha fatto un passo, forse due, e Bodashtart è rimasto schiacciato sotto il peso di una
ruota.
Non c’era nessuno nelle vicinanze che potesse averlo spinto o tirato.»
Bomilcare rimase per un momento a riflettere. «E va bene» disse poi. «Una pedina in meno
sulla scacchiera.
Dopodomani mattina si terrà una piccola festa, se non accade nulla nel frattempo, e il giorno
dopo ci saranno le elezioni.»
Duush aggrottò la fronte. «La festa inizierà verso la mezzanotte e terminerà dopodomani
mattina. E, prima che cominci, ci sarà un’altra cosa.»
«E cioè?»
«Una corsa sulla pista lungo il Lago diTynes.»
«Qualcosa di particolare?»
Duush annuì. «Ci saranno anche quei due animali giganteschi diTigalit.»
«Favoloso» disse Bomilcare ridendo. «Potrebbe essere una buona occasione… se ci saranno
tutti quelli che sono coinvolti nel gioco.»
Duush strinse gli occhi. «Che cosa dobbiamo fare, capo?»
«Avevo in mente qualcos’altro. Riunire tutti nella fortezza. Ma la corsa potrebbe essere
un’occasione migliore. State a sentire. Iniziamo da questa.» Posò una delle spade fasulle sul tavolo
degli attrezzi.
«Che cos’è?»
«Un falso. Sembra la spada di Qart Hadasht, ma è un’imitazione. Chi avrebbe potuto
realizzare una cosa simile, e così in fretta?»
Vavurro si chinò sull’arma, la prese e la soppesò tra le mani. «Conosco due o tre persone
che sono in grado di farlo. E
che sanno chi potrebbe essere stato, se non loro.»
«Bene. Indagate a riguardo. E adesso state a sentire.»
Per la modifica del piano che avevano concordato era necessaria la partecipazione di alcune
persone che Bomilcare avrebbe avuto difficoltà a coinvolgere personalmente. Perciò rimandò la sua
visita al palazzo del Consiglio, diede agli uomini dell’officina dei carri alcuni ordini e messaggi da
trasmettere e si diresse verso il Banco della Sabbia, che si trovava all’estremità settentrionale del
porto, passando per stradine secondarie dove sperava di non incontrare membri del Consiglio a
passeggio.
Antigonos non c’era, ma Bostar lo ricevette subito.
«Ho sentito che saresti stato coinvolto in oscure macchinazioni in Iberia» disse dopo che
Bomilcare si fu seduto su una sedia pieghevole davanti alla sua scrivania, come sempre ingombra di
rotoli e tavolette. «Vuoi bere qualcosa?»
«Così di buon mattino dovrei conservare la mente lucida; ho molte cose da fare.»
Bostar batté le mani; quando entrò un servitore, gli ordinò di portare acqua fresca e succo di
frutta.
Prese un rotolo di papiro da una cesta di giunco e lo spinse verso Bomilcare. «Alcune
risposte alle tue domande su giudici e membri del Consiglio» disse. «Non tutte, ma è sempre meglio
di niente.»
Bomilcare resistette alla tentazione di leggerle immediatamente: sarebbe stato inopportuno.
«Ti ringrazio. Dove si trova Antigonos? Ti ha dato informazioni?»
«Antigonos mi ha detto tutto quello che è venuto a sapere da Asdrubale. È nella Megara,
nella tenuta di Amilcare.»
Poi scosse il capo. «Ci vorrà molto tempo per abituarci al fatto che non vive più. Insomma,
nella casa dei Barcidi.»
«I preparativi per dopodomani?»
«Anche quelli. E, naturalmente, bisogna continuare a occuparsi del patrimonio. Credo che
Daniel sia con lui.
Discutono e decidono.»
«A proposito delle macchinazioni e della loro oscurità»
disse Bomilcare «ho bisogno del tuo aiuto.»
Bostar attese che il servitore avesse riempito i bicchieri e se ne fosse di nuovo andato.
Intrecciò le mani sul tavolo e si piegò in avanti. «Sei riuscito a scoprire qualcosa?»
«Grazie all’aiuto di Asdrubale e ad alcune coincidenze. Ma non ne sono del tutto certo;
mancano alcune prove.»
«Sentiamo.»
Il condirettore dell’importante banca ascoltò in silenzio il resoconto di Bomilcare,
interrompendolo più volte con domande soltanto verso la fine.
«Potrebbe essere» disse poi. Posò i gomiti sul tavolo e fece una specie di piramide con le
dita proprio davanti alla punta del suo naso. «Fammi pensare.»
Bomilcare attese pazientemente. Sarebbe stupido, si disse, che un piccolo sbirro mettesse in
qualche modo fretta al grande banchiere. Se fosse stato d’accordo, Bostar sarebbe potuto diventare
il suo alleato più importante. Inoltre era intelligente e scaltro, e Bomilcare si rendeva conto di
rispettarlo e stimarlo.
«Credo che potrebbe essere davvero così» disse d’un tratto Bostar. Sorrideva, ma nella sua
espressione si poteva cogliere anche una certa cautela. «Che piano, per tutti gli dèi!
E… che follia.»
«Ti riferisci a quello che ho in mente di fare?»
«No, no, quello è audace ma non folle. Mi riferisco alla spada e a tutto il resto. Io che cosa
devo fare?»
«Essere presente, domani pomeriggio. E fare in modo che ci siano anche gli altri uomini
importanti.»
Bostar annuì. «Alcuni verrebbero comunque, credo: non si lasceranno certo sfuggire una
cosa del genere.
Naturalmente bisogna fare in modo che siano belli vicini. Uhm. Qualcun altro non verrà
certo di sua spontanea volontà; bisognerà convincerlo. Con le buone o con le cattive.»
«Come intendi farlo?»
Bostar sollevò le sopracciglia; d’un tratto era completamente cambiato: gelido, pieno di sé,
consapevole del proprio potere. «Dimmi che cosa non riesce a ottenere il denaro, e io ti dirò dove
finisce la mia influenza.»
«Perdonami, signore.»
«Non fa niente.» Sorrise di nuovo. «Alla mia sicurezza ci penso da solo; tu però ti dovresti
preoccupare della tua personale. Molti porteranno con sé coltelli lunghi.»
«E altri li sorveglieranno con spade corte.»
«Bene. E adesso che cosa accadrà? Che cos’hai in mente?»
Bomilcare si alzò in piedi. «Adesso vado da Tigalit. Poi mi recherò alla fortezza, girando al
largo dal palazzo del Consiglio, e parlerò con gli altri. Con le altre guardie. Dopo di che
comunicherò il mio ritorno al giudice Tybon e ai suffeti.»
Bostar fece una smorfia. «Non ti aspettare che ti diano il benvenuto.»
La nuova casa di Tigalit si trovava in uno dei quartieri più eleganti, a ovest dell’agorà e a
nord della Via Grande, e assomigliava a una fortezza. La proteggevano alte mura e nel giardino
stazionavano diversi uomini armati.
Con sua grande sorpresa, Bomilcare non venne accompagnato in casa dai servitori, ma dalla
taciturna Penthesileia.
L’asiatica lo condusse da Tigalit, che si accapigliava con un piccolo leopardo, sdraiata sul
pavimento ricoperto di tappeti di una stanza ingombra di cassapanche e di specchi.
«Il capo delle guardie… di nuovo in città?» disse. Poi si alzò e affidò a Penthesileia il felino
che soffiava. «Portalo via… per favore. E tu, ragazzo, siediti insieme a me su questo campo di
battaglia.»
Bomilcare attese che la donna robusta si fosse seduta sull’ampio giaciglio di cuoio, tappeti e
coperte; poi prese prudentemente posto accanto a lei. Penthesileia si allontanò con il leopardo.
«Aspettiamo che lei…?» disse Bomilcare.
«Che cosa? Ah. Oh.» Tigalit rise. «No, non è la mia compagna di giochi a letto e neppure la
mia socia in affari. È
soltanto la migliore guardia del corpo che abbia mai avuto.
Parla. Immagino che tu voglia qualcosa da me; altrimenti non saresti certo venuto fin qui.»
«Bramavo lo splendore della tua vista.»
«Bene, bene: questa brama dovrebbe essere stata soddisfatta. Che cosa vuoi veramente?»
«Ci vorrà un po‘“per spiegarlo.»
«Ho tempo. Non molto.»
Per la quarta volta in quel giorno Bomilcare descrisse gli avvenimenti confusi, le sue
conclusioni e le sue intenzioni. Tigalit rise più volte fragorosamente e pose alcune domande acute.
Alla fine palpeggiò la terza spada.
«Naturalmente ti aiuterò; non c’è niente che non si possa scoprire» disse. «E durante la
corsa… Ah! Chi se la lascerebbe mai scappare? Tuttavia bisognerà fare qualche modifica, in modo
che possano sedere tutti insieme. Ma ci riusciremo.»
«Che genere di corsa sarà?»
Tigalit fece schioccare la lingua. «Lucrosa, amico mio. Verrà scommesso molto denaro. Un
terzo è destinato alle vincite, un terzo lo trattiene il padrone della pista da corsa e un terzo tocca a
me.»
«E chi corre?»
«Cani da caccia» rispose la donna. «Cani da ingrasso, così ci sarà un po‘“da ridere.
Cammelli. Alcuni vecchi schiavi correranno nei sacchi: il vincitore riceverà dell’oro e la libertà.
Corse di cavalli e di cammelli. E, alla fine, i miei due zirafim.»
Bomilcare rise. «Bene. Dovremmo soltanto fare in modo che alla fine non siamo costretti a
correre anche noi.»
Tigalit storse il naso. «Hai qualche proposta più concreta?»
«Bostar sostiene che molti porteranno coltelli lunghi. I signori più o meno nobili non
verranno certo senza scorta armata.»
«Allora dovremmo fare in modo di attrezzarci anche noi.
Ah, ancora una cosa. Tu sei stato via; chi sa che sei di nuovo in città?»
«Tu, Bostar, gli uomini della banca che mi hanno visto, i miei uomini dell’officina dei carri.
E naturalmente Aspasia.»
«Domani bisogna smuovere in qualche modo la situazione.» Tigalit strinse l’occhio e
sorrise. «Per esempio con una sorpresa. Volevi andare dai giudici?»
«Devo comunicare loro il mio ritorno.»
«E invece glielo comunicherai domani, durante la corsa.»
Bomilcare esitò; poi rise. «Va bene. Un altro cambiamento, ma credo che ne possa valere la
pena.»
Quando Bomilcare entrò nel posto di guardia, Autolykos era seduto a scrivere. Saltò in piedi
e lo abbracciò; poi l’allontanò da sé e lo fissò in volto.
«Non sei diventato più giovane» disse «e neppure più bello. Ma sei di nuovo qui, e questa è
la cosa più importante.»
«Prima di rivoltarmi da capo a fondo a furia di domande, dimmi che cosa è successo.»
«In generale?»
«Numidi» rispose Bomilcare lasciandosi cadere su uno sgabello. «Spade. Spie. Ah, e ancora
una cosa: io non sono qui.»
«Davvero sorprendente. E allora dove sei?»
«In viaggio. Comunicherò il mio ritorno ai nobili signori domani, durante la corsa, per fare
loro una sorpresa.»
Autolykos si portò un dito alla tempia. «Sei malato, amico mio? O forse dovresti
raccontarmi prima di tutto che cos’hai intenzione di fare, in modo che io sappia meglio quali parti
del mio racconto ti interessano davvero?»
«No, parla tu. Quello che dirai potrebbe influenzare l’andamento della festa. Modificarlo.»
Sorrise. «Oggi ho già cambiato il piano diverse volte; deve continuare a essere elastico.»
«Per quel che riguarda la tua presenza qui… ti vuoi nascondere? Anche dagli altri?»
«Alle guardie qui fuori ho già detto che non mi hanno visto. Chi potrebbe arrivare ancora?»
«Achiqar, tra due ore. Mutumbal, questa sera.»
«A quell’ora me ne sarò già andato da un pezzo. Perciò parla.»
«Da che cosa comincio?»
Bomilcare sospirò. «Inizia dalle spie. Ah, prima questo: hai avuto una risposta da parte di
Annibale, lo scrivano di Budun?»
«È quasi ammuffita, per via della tua lunga assenza e delle maledizioni che lo scrivano ti ha
rivolto con il pensiero.»
Autolykos allungò una mano dietro di sé, prese un rotolo dallo scaffale e lo porse a
Bomilcare. «Dice che questo è l’ultimo favore che ti fa e che non vuole essere tirato in ballo.»
Bomilcare esaminò il sigillo e aprì la lettera. Oltre alle maledizioni, conteneva una serie di
nomi e di fatti: più di quelli che Bostar fosse riuscito a scoprire, anche se le sue informazioni
coincidevano con quelle di Annibale.
«Bene» disse alla fine. «Adesso le spie e i numidi.»
Autolykos gemette. «Niente. In entrambi i casi. Alcune persone ne hanno sorvegliate altre,
sulle spie non c’è niente di più da segnalare. Tutte quelle che conosciamo fanno quello che hanno
sempre fatto finora. Tra i numidi non ci sono stati nuovi incidenti: assassini o cose simili. Si dice
che quel Dabar sia stato visto in città, ma quando abbiamo indagato sulla faccenda, non siamo
riusciti a trovare nulla.»
«Il che non significa che non sia vero. Ma va bene. E la spada e i politici?»
«Della spada non si è più parlato. Tutti quelli che hai ordinato di sorvegliare, hanno
continuato a fare con zelo le loro visite, a tenere discorsi in giro, distribuire doni e dispensare
promesse che nessuno potrà mai mantenere.»
«Quindi niente di nuovo neppure su questo.» Bomilcare tacque, fissò il papiro e rifletté.
«Veramente ho ancora qualcosa» disse Autolykos. «Non che sia stato in grado di ricavarne
molto…»
«Di che si tratta?»
«Di Giskon, il capo della fortezza. Ha ricevuto un dispaccio urgente dall’Iberia, da parte di
Asdrubale.»
«Dispaccio urgente?» ripetè Bomilcare mordendosi il labbro inferiore. «Ma certo… i segnali
luminosi delle torri lungo la costa. Così il Consiglio viene a sapere anche degli eventi luttuosi,
prima che i messi veri e propri… ma qual è questa notizia?»
«Giskon saprà certamente come interpretarla, ma io non so che cosa significhi. Il messaggio
recita: “Baal non Ashtart armi guardie ordine”. Tu ci capisci qualcosa?»
Bomilcare rimuginò per alcuni istanti con gli occhi socchiusi. Poi scoppiò a ridere. «Forse è
così: “Non Baal, ma Ashtart. Non Bodbal, ma Bodashtart. Le tue armi e le guardie devono
cooperare”. Lo trovi sensato?»
«Se ne sapessi di più, forse lo troverei addirittura eccitante.»
All’improvviso a Bomilcare venne un’idea folle. Rimase come paralizzato per alcuni battiti
di ciglia; poi inspirò profondamente e scoppiò a ridere.
Autolykos si appoggiò all’indietro, fissò il soffitto e disse a mezza voce, quasi triste: «Come
ci si comporta con uno che, dopo una lunga convalescenza, ritorna con il corpo sano ma con
l’anima completamente impazzita?».
«Lo si sta a sentire.» Bomilcare si piegò in avanti.
«Porgimi l’orecchio, amico.»
Parlò in fretta, con voce bassa e suadente, descrivendo il suo viaggio, quello che era
accaduto, quello che credeva di avere scoperto, le informazioni di Bostar e Annibale, il dispaccio
urgente decifrato, il piano più volte modificato e l’ultima variazione che gli era appena venuta in
mente.
Autolykos ascoltò in silenzio, limitandosi a scuotere ogni tanto la testa, a sgranare più volte
gli occhi e infine a mormorare: «Quale demone ti ha defecato nel cervello?».
«Questo bisognerebbe domandarlo al tempio» rispose Bomilcare ridendo a singulti. «La
cosa più importante è: riesci a fare tutti i preparativi necessari senza dare nell’occhio?»
«Sì sì sì. Si può certamente giustificare tutto con la grande corsa e la successiva festa.
Però…»
«Obiezioni?»
Autolykos si fregò gli occhi. Improvvisamente sogghignò e si alzò in piedi. «Nessuna
obiezione. Assolutamente nessuna, amico mio. Se il piano riesce, saremo tutti felici fino all’ultimo
dei nostri giorni di avervi preso parte. E se fallisce, la nostra fine giungerà così rapida che non
avremo neanche il tempo per dispiacerci.»
«Allora esaminiamo ogni dettaglio e vediamo se ci sono punti deboli.»
Riunire nella fortezza, con il pretesto di discussioni urgenti sulla sicurezza della città, tutti
quelli che presumibilmente sono coinvolti nei confusi avvenimenti: il primo piano era questo.
Trasferire tutti sulla pista da corsa, circondarli con le proprie armi e quelle di Tigalit, sotto gli occhi
del popolo: il secondo piano. Indurre con una comunicazione gli avversari a fare qualcosa
spontaneamente: l’ultimissima, folle variazione. Passarono al vaglio ogni particolare, scoprirono
elementi incerti e imponderabili, ma nessun punto debole pericoloso.
Alla fine Autolykos disse: «Mi occupo io di tutti i preparativi.
Fidati di me».
«Lo farò senz’altro. Non dire nulla a Mutumbal. Parla con Giskon. E dai un ordine ad
Achiqar, ma in modo che nessuno lo senta tranne lui.»
«Che cosa gli devo dire?»
«Mezzora prima dell’inizio della corsa, mi deve incontrare presso il tempio di Dagon, per
una… questione particolare.»
C’era ancora qualcosa da sbrigare. La parte più importante.
Bomilcare si fece procurare da Autolykos abiti vecchi e luridi; poi si diresse di nuovo, per
vie secondarie, verso il porto, fino all’officina dei carri. Provò un senso di sollievo nel trovarvi
anche qualcuno che altrimenti avrebbe dovuto far cercare: Barako.
«Ci sono alcune variazioni che devono essere comunicate a Bostar e Tigalit» disse. «E a
quelli che adesso non sono qui.»
Dopo aver impartito nuovi ordini, prese da parte Barako.
«E tu ritornerai a fare il mendicante.»
«A chi devo chiedere l’elemosina?»
«Andrai nelle case di alcuni nobili, dove parlerai con gli schiavi o i portinai. Dirai loro di
riferire con la massima urgenza ai loro padroni che la guardia Bomilcare è stato nella Valle della
Sega e che ne parlerà domani durante la corsa.»
Barako ammiccò rapidamente. «Le case di quali nobili, capo?»
«Per gli dèi! » disse Bomilcare. «Non mi viene risparmiato proprio nulla!»
Si era annerito il volto, fasciato la testa e aveva indossato un mantello marrone scuro che era
ridotto praticamente a un cencio. Aspasia, che aveva voluto assolutamente assistere alle sue
rivelazioni, era stata scortata da Patroklos eVavurro nel luogo in cui tutto avrebbe dovuto giungere a
una soluzione illuminante. Se il piano fosse riuscito. Nymar era dovuto andare insieme a un altro
uomo a prendere Nampamo e Letilio all’officina.
E ora Nampamo si trovava sulla riva, nel punto in cui iniziava la pista da corsa, e aveva
appena comunicato a Bomilcare che Letilio era scomparso da quel mattino e che aveva sicuramente
portato via con sé la spada.
«E perché gli dèi ti dovrebbero risparmiare qualcosa?»
borbottò il vecchio. «Perché proprio a te oggi e non a me anni fa?
O ad altri nel frattempo?»
«E tu non hai sentito niente?»
«Niente. E neanche la mia donna.»
Nymar si schiarì la voce. «Non ci sono tracce di lotta o cose simili» disse. «Pare proprio che
il romano se ne sia semplicemente andato.»
Bomilcare esitò: gli sembrava di vedere i suoi stessi pensieri che gli danzavano nella testa.
«È tutto inutile» disse alla fine. «Possiamo soltanto continuare come se non fosse accaduto
nulla. E sperare.»
Aggiunse tra sé: “Sperare che Letilio non ci danneggi, visto che non ci aiuta. Che cosa
direbbe Aspasia adesso, della sfiducia e dei giochetti squallidi?”.
«Andiamo» ordinò ad alta voce. «Accompagnate Nampamo da Aspasia, nel luogo che
sapete, e poi raggiungeteci.»
Achiqar attendeva davanti all’ingresso del tempio di Dagon, i cui alberi erano stati tutti
spogliati dai voraci zirafim di Tigalit.
«Che bello vederti» disse Bomilcare sforzandosi di sorridere. «Ho bisogno di te per un
compito sgradevole.»
Achiqar non sorrise, ma estrasse la spada. «Non mettere la mano dietro la schiena» disse.
«Lo so che ci tieni il coltello…Voi potete venire.»
Da dietro le colonne d’ingresso del tempio spuntarono due uomini armati. Non
appartenevano alle guardie della città, ma a quelle del Consiglio. Assunsero un’espressione
ostentatamente impassibile e si portarono accanto a Bomilcare.
«Che significa tutto questo?»
«Per ordine dei giudici ti devo arrestare e portare nel carcere del Consiglio» disse Achiqar.
«Non renderci le cose più difficili del necessario; vieni semplicemente con noi.» Diede un’occhiata
a un carro con il tiro doppio che si trovava al successivo angolo della strada.
«Quali giudici ordinano una cosa simile?»
«Ha importanza? Vieni.»
Bomilcare sospirò. «E va bene» disse. «Puoi rinfoderare la spada: non farò resistenza.»
Achiqar lo guardò con diffidenza, ma abbassò l’arma.
Bomilcare fischiò e una freccia si conficcò nella spalla destra di Achiqar. Da dietro il carro
saltarono fuoriVavurro, Patroklos, Duush e Zililsan, che si avvicinarono di corsa, pronti a lanciare i
giavellotti. Nymar li seguiva più lento: aveva incoccato una freccia e teso l’arco.
«Però» disse Achiqar. La sua spada tintinnò sul terreno mentre si stringeva la spalla con la
mano sinistra.
Le guardie del Consiglio non opposero resistenza; una delle due sospirò visibilmente
sollevata e disse: «Siamo rimasti sorpresi, capo delle guardie… ma abbiamo dovuto obbedire».
«E allora obbedite anche adesso, però a me» disse Bomilcare gettando loro uno shekel
d’argento. «Buttate le vostre armi sul carro, bevete un bel po‘“di vino alla mia salute e domattina
presto andate al lavoro come al solito.»
«E lui?» disse l’altra guardia indicando Achiqar.
«Ci serve ancora.»
Un terzo uomo delle guardie del Consiglio, che in origine avrebbe dovuto guidare il carro,
evidentemente si era lasciato convincere a sua volta ad arrendersi, senza fare resistenza, da Duush,
Zililsan o da uno degli altri. Si unì ai suoi due compagni e insieme s’incamminarono verso
occidente, in direzione del mare.
«Perché?» chiese Achiqar mentre l’aiutavano a salire sul carro. Duush prese le briglie
mentre Vavurro cercava di fasciare la ferita alla spalla del punico.
«Hai commesso alcuni errori stupidi» disse Bomilcare quando il carro si mise in movimento.
«Sei stato troppo zelante. Troppo smaccatamente irritato, quando ho ceduto il comando a
Mutumbal. Forse ti avevano promesso di più, non è vero? Il mio posto, per esempio. Quando ho
voluto interrogare Zabugu, tu sei arrivato con gli uomini che volevano essere eletti. Immagino che
tu abbia mandato qualcuno al porto per fare in modo che, quando fosse stato derubato quel
mercante, non mandassero a chiamare gli uomini del posto di guardia dell’agorà, ma me. E sei stato
un po‘“troppo lento quando i due numidi mi hanno aggredito davanti al giardino abbandonato.»
Vavurro rivolse uno sguardo interrogativo a Bomilcare, con la mano sulla spalla di Achiqar.
«Posso?»
Bomilcare annuì. «Un poco.»
Vavurro premette senza troppa forza. Achiqar emise un gemito e si morse il labbro inferiore.
«Basta così. Adesso non abbiamo tempo per occuparci più a fondo di te» disse Bomilcare.
«Pensa alla tua spalla, ricordati della stretta di Vavurro e rifletti su quello che vorrai dirci più tardi.
Adesso per il momento ti portiamo al sicuro, sotto la sorveglianza delle guardie. Ma prima tu ci
dirai chi ti ha dato l’ordine di arrestarmi.»
Qualcosa non tornava, qualcosa mancava e a Bomilcare iniziavano a drizzarsi i capelli sulla
nuca. Ma non sapeva ancora di che cosa si trattasse.
Era in piedi accanto alla tribuna di legno in cui si trovavano i posti per le persone
particolarmente importanti, ricche e nobili. Più in basso, sulla pista da corsa, i cavalli compivano
una curva stretta scivolando intorno al palo orientale, riprendevano velocità e sfrecciavano verso il
traguardo. Ma forse dovevano percorrere ancora un altro giro, o forse di più.
Bomilcare non lo sapeva e non gli interessava neppure saperlo.
La gente saltava in piedi, esultava, lanciava urla d’incitamento o grida di rabbia. Ovunque,
sparpagliate in modo da non dare nell’occhio, vedeva le guardie. E uomini che probabilmente
appartenevano al regno dei bassifondi di Tigalit e che in quel giorno speciale avrebbero dovuto
collaborare con i loro eterni nemici, gli sbirri.
Vide Autolykos, che invece non l’aveva ancora individuato. L’espressione del vecchio
campano appariva preoccupata, ma forse era soltanto tesa.
Bomilcare si inoltrò ancor di più nella calca degli spettatori, imprecando sottovoce. Le
guardie gli fecero un cenno, alcuni uomini, fedeli di Tigalit, gli sorrisero. Avevano bloccato un
passaggio dietro la tribuna dei nobili. Discese alcuni gradini, fece qualche passo, attraversò la porta
aperta nelle mura retrostanti, oltre le quali un altro passaggio era tenuto libero: conduceva
all’osteria diTuzillu, la fortezza nella fortezza di un cortile interno facile da sorvegliare.
Che cosa poteva essere? Mutumbal, messo al corrente da Autolykos, gli fece un cenno: non
per salutarlo, ma per invitarlo ad avvicinarsi e discutere di qualcosa. Bomilcare annuì, chiese scusa
con un gesto e risalì i gradini che conducevano alla tribuna.
Poi li vide. I posti vuoti. I troppi posti vuoti. Si era aspettato che alcuni personaggi non si
sarebbero presentati, sarebbero fuggiti o avrebbero preso contromisure. Ma i posti vuoti erano molti
di più del previsto. Vedeva soltanto le schiene, le nuche e i copricapi, ma non i volti, per cui non
poteva identificare gli assenti.
Quando raggiunse Mutumbal, questi si portò il pugno al petto. «Salute, capo e amico» disse.
Dovette quasi gridare perché Bomilcare lo sentisse in mezzo agli urli di giubilo. «Ci sono alcune
difficoltà.»
«Che cosa è successo? Mancano molti…»
«È proprio questo. È appena arrivato un messo. Tigalit e Bostar ti aspettano daTuzillu. Sono
stati rapiti entrambi i suffeti, le loro mogli e una decina di Anziani.»
Autolykos finalmente l’aveva visto e si faceva strada in mezzo alla folla. Bomilcare
trascorse il tempo che impiegò a raggiungerlo immerso in pensieri che si accavallavano in modo
febbrile, eppure sorprendentemente chiaro. Aveva desiderato che i nemici facessero qualcosa. Che
mandassero Achiqar per eliminarlo. Aveva messo in conto che potessero tentare di fuggire. Ma non
un’iniziativa simile.
«Chi e dove?» disse quando il campano fu accanto a lui.
«Non lo sa nessuno.»
«Ci sono richieste?»
Autolykos fece un sorriso obliquo. «Indovina un po’.»
«Dimmelo.»
«La tua testa.»
Bomilcare pensò di sfuggita alla corsa degli zirafim che non avrebbe potuto vedere neppure
seguendo il piano. Poi si riscosse. C’erano questioni più importanti da affrontare. Ne andava, tra le
altre cose, della sua stessa vita.
Il cortile interno dell’osteria diTuzillu era strapieno.
Guardie e soldati della fortezza erano ovunque sotto il porticato.
Achiqar era seduto in un angolo, sorvegliato da due uomini di Bomilcare; non lontano da lui
c’era Aspasia, con accanto Penthesileia e Tigalit. E poi Bostar, Balhanno, capo dei Cinque
responsabili per la legge e l’ordine, alcuni giudici, numerosi membri del Consiglio e Anziani, lo
stratega Giskon giunto dalla fortezza. E Annone il Grande, che aveva intrecciato le mani davanti al
ventre e sorrideva.
Bomilcare batté le mani fino a che la confusione delle voci cessò e gli occhi furono rivolti su
di lui.
«Criminali senza scrupoli hanno preso prigionieri alcuni dei più nobili tra noi» disse. «Per il
momento pretendono la mia testa. Dobbiamo attenderci altre richieste.»
«Perché mai vogliono la tua testa?» chiese Bostar.
«Un prezzo modesto per la vita di molti nobili» disse Annone. «C’è molto da discutere?»
«È meglio che discutiamo dopo che vi avrò detto perché vogliono la mia testa.»
Il messo che era stato mandato dai rapitori, un numida, alzò la mano. «La tua testa senza
discorsi preliminari»
disse bruscamente.
«In caso contrario?»
«In caso contrario moriranno tutti.»
Ci volle di nuovo un po‘“di tempo prima che si ristabilisse la calma.
«Non servirà a niente» disse Bomilcare ad alta voce. «Nel frattempo ho già riferito ad altri
quello che so.»
«I criminali non hanno preteso la testa degli altri, ma la tua.» Annone si alzò in piedi e si
guardò intorno. «Se lo lasciamo parlare, moriranno i suffeti, alcuni degli Anziani, diversi
sacerdoti… È così, non è vero?… E alcune delle loro mogli. Io propongo di non esitare oltre.»
Giskon alzò un braccio. «Si tratta della sicurezza della città.
Io parlo in qualità di portavoce dello stratega Asdrubale. Se cediamo, ci arrendiamo. Quale
sarà la prossima richiesta: la testa di Annone?» Diverse persone risero.
«Così non va!» Balhanno si alzò in piedi e salì su una sedia. «In qualità di capo dei Cinque
per la legge e l’ordine, sono responsabile delle guardie. E di Bomilcare. Perciò…»
Qualcuno più indietro gridò: «E allora consegnaglielo».
Alcuni manifestarono la propria approvazione, altri fischiarono.
Giskon disse: «Bomilcare ha servito bene la città; io credo che dovrebbe parlare».
Bostar scambiò alcune occhiate con un uomo seduto con la schiena rivolta a Bomilcare.
Quando questi si girò e si alzò in piedi, Bomilcare vide che era Mastanabal, uno degli uomini più
importanti tra i Nuovi e probabilmente, in assenza del suffeta Himilko, il loro portavoce.
«Bomilcare deve parlare» gridò. «Da quando la città sacrifica i suoi fedeli servitori, senza
concedere loro un’ultima parola?»
«Ogni qualvolta sono in pericolo servitori molto più nobili e altrettanto fedeli» disse
Annone. Poi, indicando uno degli Anziani: «Che cosa ne pensi, venerabile?».
Bomilcare ascoltò con mezzo orecchio il successivo scambio di battute. Il decano,
Barmokar, pretese una votazione tra i membri del Consiglio presenti. Bomilcare scambiò alcune
occhiate con Giskon, Autolykos, Tigalit e Zililsan.
Naturalmente, per risolvere la questione, doveva parlare.
Aveva predisposto tutto in modo da poter costringere, in caso di necessità, i presenti ad
ascoltarlo. D’un tratto tuttavia la situazione sembrava sfuggirgli di mano.
Poteva fare affidamento sugli uomini dell’officina dei carri… ma erano pochi. Le guardie, in
caso di dubbio, avrebbero eseguito, sia pure a malincuore, gli ordini di Balhanno, che di sicuro
avrebbe dovuto piegarsi a una decisione dei membri del Consiglio e degli Anziani presenti. Così
come Giskon. Per quasi seicento anni il Consiglio e i tribunali avevano guidato la città, rendendola
grande, ricca e potente. Era inimmaginabile che adesso Bomilcare violasse la legge che doveva
proteggere, forzasse i nobili. Sospirò: se davvero fosse accaduto che…
«L’esito della votazione è il seguente: Bomilcare non parlerà» disse il decano. «Noi lo
consegneremo. A malincuore, ma la vita di molte persone vale più di quella di una sola.
Guardie della città e soldati della fortezza, prendetelo.»
Autolykos era inorridito. Qua e là si elevarono ancora lievi proteste. Bostar strinse le labbra
a formare una fessura e fece cenno a Balhanno di avvicinarsi. Giskon, sottoposto agli ordini del
Consiglio, aveva gettato il capo all’indietro e fissava il cielo.
D’un tratto scoppiarono nuovi disordini. Da ogni parte si sentiva il tintinnio delle armi. Sul
tetto dell’osteria spuntarono alcuni uomini armati di lance e di archi. Una voce limpida e tagliente
disse: «Non verrà consegnato. Parlerà». Tigalit si alzò in piedi e avanzò di qualche passo.
«Chi lo dice?» disse il decano guardandosi intorno.
;: «I principi dei bassifondi. Il ventre della città.»
Ci volle un po‘“di tempo prima che grida e imprecazioni si placassero. Bostar scosse il capo
quando Balhanno gli disse qualcosa; poi guardò Bomilcare e fece un cenno. Giskon ordinò a gesti ai
suoi sottoposti di non fare nulla.
Annone si scambiò un’occhiata con il decano; poi impose la sua autorità.
«Tigalit» disse. «Signora della corsa qui accanto, cui non possiamo assistere. Signora dei
truffatori, degli accoltellatori, delle prostitute e dei sicari prezzolati. Perché ci dovremmo lasciare
forzare da te?»
«E perché non da me, ma da loro? Quelli hanno alcuni nobili della città… qui ce ne sono
altri. Ti vuoi difendere, Annone? Vuoi un grande bagno di sangue?»
«Questo è…»
Qualcuno lo interruppe, gli sussurrò qualcosa e gli indicò l’ingresso alle spalle di Bomilcare.
Laggiù era comparso Letilio, che fece un cenno a Bomilcare e si avvicinò ad Annone,
tenendo nella mano destra la spada falsa: una delle tre.
«Una parola, grande Annone» disse.
«Che cosa ha da dire a riguardo un romano?»
«Voglio dirtelo in un orecchio, in modo che tu possa valutare meglio se sia da pronunciare
ad alta voce.»
Annone strinse le labbra ma non disse nulla.
Letilio parve mostrargli la spada; poi si piegò in avanti e avvicinò la bocca all’orecchio di
Annone. Furono poche parole, forse due brevi frasi; poi Annone lo allontanò da sé, rivolse lo
sguardo a Bomilcare, abbassò gli angoli della bocca e disse: «Parla, capo degli sbirri».
Bomilcare esitò per un battito di ciglia. Come tutti gli altri, avrebbe tanto voluto sapere
quello che Letilio aveva detto.
Ma era in gioco la sua testa, oltre alla vita dei rapiti. Inspirò profondamente e cominciò a
parlare. E, mentre lo faceva, vide Letilio avvicinarsi ad Autolykos, poi, insieme a lui, a Giskon, e
infine uscire con entrambi da un ingresso secondario. Due guardie si avvicinarono con
circospezione al messo numida, per impedirgli di andare a raggiungere i suoi mandanti.
Bomilcare si sforzò di spiegarsi in modo rapido e comprensibile, senza tralasciare troppe
questioni ma cercando di non indugiare nei particolari. Alcuni avrebbero dovuto dedurli gli
ascoltatori, altri sarebbero stati discussi nei giorni successivi.
Iniziò con l’assassinio di Abdosir, la fuga di Zabugu con la spada di Qart Hadasht (qui ci fu
la prima interruzione: evidentemente molti non ne avevano ancora sentito parlare) e lo strano
comportamento degli altri membri del Consiglio e dei loro schiavi. Riferì di come gli fosse stato
impedito di interrogare a fondo l’assassino e di come avesse dovuto quasi costringere il giudice
competente, con l’aiuto del suffeta rapito Germiskar, a lasciarlo almeno proseguire le indagini.
«È una menzogna» esclamò a quel punto un membro del Consiglio. «Non è possibile… e
comunque, chi sarebbe il giudice?»
Mutumbal approfittò del vociare confuso che ne seguì per avvicinarsi a Bomilcare e dirgli
piano: «Devi parlare a lungo…
tanto a lungo da dare a Giskon e agli altri due il tempo di ritornare. Il romano sa dove si
trovano i rapiti».
Bomilcare impiegò alcuni istanti a digerire quella notizia; poi batté le mani e riprese a
parlare. Parlò, in modo più lento e dettagliato, di una congiura di numidi, dell’oste e allevatore di
api Dabar, delle strane forme di adorazione del nuovo dio Godogma e di un valoroso numida di
nome Masauchan, che - in realtà si trattava di una supposizione, che tuttavia considerava verosimile
- aveva posto domande, quando aveva dovuto consegnare del denaro a qualcuno, e che poi gli altri
avevano ucciso, per così dire, giustiziato.
«Uno dei miei uomini» disse «è stato preso prigioniero e torturato dai numidi.
Successivamente ha sentito qualcuno, nella stanza accanto, dire che la spada di Qart Hadasht era
stata consegnata nelle mani di un mercante di nome Mandrokles, che avrebbe dovuto portarla ad
Alessandria e poi in Iberia, per concordare la prosecuzione dei rapporti commerciali con l’Egitto in
seguito ai rivolgimenti a Qart Hadasht, e per sobillare i soldati in Iberia e Numidia.»
«Chiacchiere» disse un membro del Consiglio. «Hai qualche prova?»
«Ho le prove e, prima della fine della sera, le presenterò.
Ma continuate ad ascoltare.»
Raccontò del ferimento, della fretta e dell’apparente soddisfazione con cui un giudice e il
suffeta Germiskar l’avevano congedato, del suo viaggio in nave ad Alessandria e di come laggiù gli
avessero descritto in modo molto preciso un punico che era giunto insieme a Mandrokles, aveva
discusso a palazzo e poi era ritornato in patria via terra.
«Chi è quest’uomo?» gridò qualcuno.
«Se, come spero, è ancora vivo, più tardi dovrà rispondere ad alcune domande.»
E poi l’Iberia, Mastia, le tre spade…
«Tre? Tre diverse spade di Qart Hadasht? Dove sono queste presunte spade?»
«Una l’avete già vista. Il romano Letilio l’ha mostrata al nobile Annone, non è vero?»
Annone mosse controvoglia il capo in quello che poteva essere interpretato come un cenno
d’assenso.
«La seconda è qui» esclamò Zililsan. Si avvicinò a Bomilcare e gliela porse, dicendo a bassa
voce: «Non siamo riusciti a sapere nulla sulla spada».
Tigalit aveva portato a sua volta con sé la terza spada. La diede a un uomo che era seduto
davanti a lei, che la passò a un altro e così via.
Bomilcare attese che almeno la metà delle persone avesse osservato e toccato una delle
spade. Poi proseguì, descrivendo l’abbordaggio nella baia di Mastia e accennando brevemente alle
informazioni ricevute da Asdrubale sugli avvenimenti sospetti nella Valle della Sega.
Gli bastò nominare quel luogo per produrre un silenzio quasi doloroso.
«Noi tutti sappiamo quale orrore sia legato a quel nome»
disse. «Su incarico dello stratega… ho un papiro con il suo ordine, che naturalmente verrà
consegnato al Consiglio… ho cavalcato fino a quel luogo terribile. Ho portato con me alcuni soldati
di una fortezza vicina.»
Descrisse in modo dettagliato gli avvenimenti della Valle della Sega e le vicende che vi si
erano svolte negli anni precedenti. I presenti ricominciarono a parlare, interrompendosi a vicenda;
Bomilcare stava riflettendo su quanto spazio dedicare alle false ambascerie che aveva inventato e
trasmesso il giorno prima, quando le voci si placarono all’improvviso.
Tutti lo fissavano. Poi gli fu chiaro che guardavano qualcosa dietro di lui. Si voltò.
Entrarono soldati della fortezza, portando alcuni numidi incatenati; un paio di loro
sanguinavano da orribili ferite. Li seguiva un sottocapo, che fece un cenno a Bomilcare ed esclamò:
«Lo stratega Giskon comunica che i rapitori si sono trincerati in una casa fortificata insieme ai
rapiti. Prega i nobili di trattenersi qui e, possibilmente, di interrogare i numidi che abbiamo portato
con noi. Domanda a Tigalit di recarsi da lui con alcuni dei suoi armati, dal momento che la casa si
trova in un luogo in cui lei potrebbe essere d’aiuto. Inoltre Giskon ordina che il capo delle guardie,
Bomilcare, si rechi da lui».
Bostar fece un cenno a Balhanno. Il capo dei Cinque balzò in piedi e disse: «Bomilcare, vai
subito. Assumo io qui il comando».
Era il crepuscolo quando giunsero alla piazzetta. Ovunque ardevano fiaccole. I soldati della
fortezza e le guardie armate avevano formato cordoni per tenere lontani gli abitanti del quartiere.
Non c’erano stati ancora spargimenti di sangue, ma si sentivano mormorii minacciosi.
La piazza si trovava nel Labirinto, la parte più antica della città. Tra il porto a sud, il muro
marittimo a est e la collina della Birsa a ovest, era il regno dei principi dei bassifondi. Le guardie di
Bomilcare mettevano piede in questo quartiere di rado, malvolentieri e mai in meno di quattro.
Dalla piazza alcuni vicoli tortuosi s’addentravano nell’oscurità che calava rapidamente. In
un angolo Autolykos e Giskon discutevano con alcuni sottocapi. Lo stratega parve visibilmente
sollevato quando vide Tigalit e Bomilcare.
«Signora dei bassifondi» disse. «Abbiamo sopraffatto le loro avanguardie e le abbiamo
mandate da voi, nell’osteria. Non riusciamo ad avanzare ulteriormente. O comunque abbiamo
grandi difficoltà. Dobbiamo difenderci dagli abitanti del posto e questo ci impedisce ogni altra
azione.»
Tigalit annuì. «Dammi venti respiri di tempo» disse. Si avvicinò al cordone di sbarramento
insieme a Penthesileia e ad alcuni uomini.
Mentre, come supponeva Bomilcare, Tigalit cercava di indurre alla calma i caporioni dei
bassifondi, Giskon e Autolykos riferirono che era stato Letilio a condurli fin là. La casa in cui si
trovavano rapitori e rapiti era una specie di fortezza ed era quasi addossata al muro marittimo.
«Abbiamo occupato il muro» disse Giskon. «Dietro c’è una via stretta e poi, come un
secondo muro, la parete posteriore delle case. Ci sono canali di scarico per l’acqua ovunque.»
Bomilcare si grattò la testa. «Lo so. Possono fuggire sotto il muro e, dall’altra parte, ci sono
sicuramente imbarcazioni a sufficienza. Dov’è il romano?»
«Qui.» Letilio spuntò dal vicolo buio e sorrise a Bomilcare. «Ho tenuto le orecchie aperte: là
dentro si discute e si litiga. Di tanto in tanto si sente tintinnare qualcosa.»
Duush e Nymar erano arrivati insieme dall’osteria di Tuzillu. Si scambiarono alcune
occhiate, poi Duush disse: «Potremmo riuscire a entrare, capo: ci sono passaggi segreti».
«Li conoscono anche gli altri. Per il momento restate qui.»
Tigalit ritornò indietro dal cordone di sbarramento.
Quando gli fu accanto, Bomilcare si accorse che quel brontolio inquietante era cessato. Si
guardò intorno. Gli abitanti del quartiere sembravano disperdersi nella notte: non tutti, ma certo la
maggior parte.
«Che cosa hai detto loro?»
Tigalit alzò le spalle. «Che voi e noi, i principi dei bassifondi, collaboriamo in via
eccezionale per acciuffare alcuni furfanti.
Che voi non avete intenzione di conquistare il quartiere né di… portarvi l’ordine.» Rise
brevemente. «Penthesileia è già in marcia con alcuni uomini. Avete strumenti d’assedio?»
«Tre catapulte leggere» disse Giskon «e alcuni arieti.
Perché?»
«Le catapulte non ci serviranno. O comunque non subito.
Dove sono gli arieti?»
«Nel vicolo a sinistra.»
Tigalit diede un’occhiata a Bomilcare, che annuì, e poi disse: «Bene. Allora venite con me».
Giskon sospirò. «E i rapiti? Che gli altri vogliono ammazzare?»
«Non sappiamo quanti dei rapiti siano in realtà rapitori.»
«O collaborino insieme a loro» disse Autolykos.
«Questo non ci aiuta» disse Bomilcare guardando negli occhi Giskon. «Dobbiamo attaccare,
altrimenti perdiamo tutto.
Non soltanto i pochi che forse sono stati davvero rapiti.»
Giskon rovesciò gli occhi. «Che gli dèi vogliano essere con tutti noi. Andiamo.»
Bomilcare strinse un braccio a Duush. «Se vedi Dabar»
disse «considera che ci potrebbe ancora servire vivo.»
Duush mostrò i denti. «Ma mi avevi fatto una promessa.»
«Lo so. Più tardi.»
Fu un assedio breve e sanguinoso. I soldati di Giskon, con gli scudi sopra la testa,
scagliarono un ariete contro la porta fortificata della casa. Dalle mura e dal tetto piovvero su di loro
frecce e pietre. Gli arcieri di Giskon cercarono di decimare i difensori; alcune grida di dolore
testimoniarono che effettivamente ci riuscirono, ma anche diversi soldati subirono ferite.
I combattenti di Tigalit, condotti da Penthesileia, cercarono altre vie d’accesso. Attraverso
canali di scarico e cantine, muri diroccati e tetti delle case vicine, si avvicinarono agli assediati.
Quando questi furono distratti dall’attacco contro la porta, Penthesileia e le truppe dei bassifondi
penetrarono nella casa. Nei canali ci furono aspri scontri corpo a corpo perché, come aveva
immaginato Bomilcare, laggiù fervevano da tempo i preparativi per fuggire passando sotto il muro
marittimo.
La porta non poteva resistere ancora a lungo all’ariete. I fanti iberi vi penetrarono attraverso
i buchi. Insieme agli uomini diTigalit, annientarono i difensori nel cortile interno, bonificarono i
corridoi e i locali della casa e radurarono tutti i sopravvissuti.
Bomilcare e Giskon decisero per il momento di non fare alcuna differenza tra rapitori e
rapiti. Se mai ci fosse stata. La maggior parte dei combattenti era composta da numidi, oltre che da
alcuni mercenari provenienti da altre regioni, ma quasi nessuno era punico.
Mentre Giskon e Autolykos impartivano ordini su come trattare i prigionieri, che dovevano
essere condotti all’osteria di Tuzillu, Bomilcare si diresse verso la destra del cortile interno, dove le
armi dei vinti erano state accatastate in mezzo alle fiaccole.
Laggiù Tigalit era in ginocchio davanti a un corpo decapitato. Si fissava le cosce, sulle quali
cadevano le sue lacrime. In grembo, sul kitun lurido, teneva la testa di Penthesileia.
Bomilcare allungò la mano e accarezzò la guancia umida diTigalit. La signora dei bassifondi
si limitò a mostrare i denti ed emise un lamento profondo e doloroso.
Il cortile interno di Tuzillu diventava sempre più affollato. Le guardie, condotte da
Bomilcare, vi si fecero strada per prime insieme ai numidi prigionieri. Dietro di loro, stravolti e
arruffati, ma visibilmente in buona salute, venivano i punici dalle vesti nobili, uomini anziani tra cui
Abdosir, il sommo sacerdote del tempio di Eshmun e, tra gli altri, i due suffeti Himilko e
Germiskar, seguiti dal giudice Tybon, Bodbal, per una volta vestito non di giallo ma di rosso, il suo
uomo di fiducia Adherbal, il membro del Consiglio e mercante Magone e altri soldati. In coda
procedevano Giskon, Autolykos e Letilio; solo allora Bomilcare si rese conto che non aveva più
visto il romano da prima dei combattimenti.
«Annone è una vipera.» Mutumbal sfiorò il braccio di Bomilcare. «Se voi non foste giunti
così presto… ha fatto girare la testa a tutti con le sue parole.»
Visto che per il momento non si poteva pensare a ulteriori dichiarazioni, Bomikare volle
discutere con Giskon e soprattutto con Letilio su tutto ciò di cui non avevano potuto parlare lungo la
strada. Giskon ammiccò, ma poi fece un cenno di diniego e riprese il suo colloquio con Himilko,
che evidentemente era iniziato molto prima. Autolykos afferrò Letilio per un braccio e lo spinse
davanti a Bomikare.
«Che cosa è successo?»
Letilio sorrise. «Non mi vuoi innanzitutto ringraziare per avere imbavagliato Annone?»
Bomikare accennò a inginocchiarsi. «Ti ringrazio per avere imbavagliato Annone e per
avermi salvato la vita» disse.
«Come hai fatto, che cos’altro hai fatto, come sono andate le cose e dov’è la spada?»
«È stata danneggiata durante la piccola zuffa» rispose Letilio continuando a sorridere. «La
pietra, cioè il vetro blu, si è rotta. In questo momento la spada è in riparazione. E che cosa ho fatto
io? È molto semplice.» S’interruppe, continuando però a sorridere.
«Allora dimmelo… ti prego, dimmelo in modo semplice o complicato, ma parla!»
«Durante la notte» disse Letilio improvvisamente serio, «mi è venuta un’idea che sarebbe
dovuta venire, a te o a me, molto tempo prima. Chi è, amico punico, che osserva quello che accade
nella vostra meravigliosa città?»
«Le guardie… noi» disse Autolykos.
«E i miei uomini dell’officina dei carri.» Bomikare mise le mani sulle spalle del romano.
«Alcuni cittadini che hanno determinati compiti. I principi dei bassifondi che vogliono fare affari.»
«Nessun altro?»
Bomilcare lo lasciò andare e sollevò le sopracciglia. «E chi altri?»
«Le nostre spie» disse Letilio. «I garanti della sicurezza di Roma.»
«Ah» disse Autolykos scuotendo il capo. «Certo.»
«Perciò durante la notte mi sono detto che voi» disse guardando Autolykos «quando non
avete niente altro da fare, osservate i nostri uomini. Ma che forse non osservate quello che loro
osservano mentre voi li osservate.»
«Questo l’ho capito. E allora?»
«Sono andato dai nostri uomini. Sai, ce ne sono diversi, e spero che non li conosciate tutti.
Ma adesso questo non ha importanza. Li ho interrogati e loro mi hanno fornito alcune risposte.»
«Quali risposte? Dimmelo, ti prego, o mi devo inginocchiare davanti a te?»
«Aspasia potrebbe fraintendere.» Letilio ridacchiò. «I saggi garanti della nostra sicurezza
hanno osservato alcune cose sorprendenti nelle lune passate. Per esempio un armaiolo che, per
ordine di un nobile punico e dietro un buon pagamento, ha realizzato tre spade. Per farlo si è servito
di lame vecchie, che le facessero sembrare in qualche modo autentiche, e per caso le ha acquistate
da uno dei nostri uomini.»
«Non vuoi farmi per caso qualche nome?»
«Ah, amico, lasciamici pensare fino a domani. Del resto dovremmo sbrigarci, altrimenti ci
perdiamo la festa: lo sai, Antigonos…»
«Prima continua a parlare… più rapidamente, se vuoi.»
«Va bene. Ma i nostri uomini hanno visto anche altre cose. Ieri sera, per esempio, in certi
posti, in alcune case eleganti, ci sono stati momenti di agitazione dopo che un mendicante cencioso
aveva parlato con gli schiavi. In seguito a questa agitazione è successo che la casa vicino al muro
marittimo…»
«Ma perché mai nel regno dei signori dei bassifondi?»
«Quelli, e nessuno dovrebbe sorprendersi, hanno sempre . intrattenuto buone relazioni con i
ricchi e i potenti.»
«Bomilcare sospirò. «Sì. Bene. Oppure male. Continua a parlare.»
«Laggiù si è raccolta gente sospetta: criminali, numidi, membri del Consiglio e così via.»
Dal momento che non aggiungeva altro, Bomilcare disse: «E così hai pensato che le città
amiche di Roma e Qart Hadasht avrebbero dovuto aiutarsi a vicenda?».
«Ho pensato» disse serio Letilio «che al momento Roma conduce una guerra in Illiria e che
a noi non conviene affatto che a Qart Hadasht prendano il potere dei criminali.
Chi può mai sapere contro chi progettano di commettere i loro prossimi crimini?» Fissò
Bomilcare negli occhi e aggiunse, a voce più bassa: «Inoltre qui ho alcuni amici.
Aspasia, per esempio».
Autolykos tossicchiò. «Mi dispiace interrompere questa vostra conversazione intima, ma ci
aspettano, Bomilcare.»
Nel cortile interno il clima si era fatto decisamente più tranquillo; qualcuno esclamò:
«Perché Tybon non si può sedere?
È inaudito!». Un’altra voce pretendeva ulteriori spiegazioni da Bomilcare.
Bomilcare sfiorò con la mano il braccio di Letilio e si sforzò di sorridere per un momento;
poi si rivolse ai convenuti.
«Non vi voglio trattenere ancora per molto, nobili signori; ma mancano ancora alcune
spiegazioni.»
«E allora parla» gridò qualcuno.
«Le votazioni» disse Bomilcare.
D’un tratto si fece silenzio.
«Durante la guerra, le due guerre, contro Roma e contro i mercenari, sono caduti numerosi
uomini validi. Qui e altrove ci sono stati rivolgimenti, volti nuovi, distruzioni e ricostruzioni. In
città sono giunti uomini di cui nessuno conosceva il passato ma, dal momento che facevano bene il
loro lavoro, sono stati i benvenuti e molti hanno ottenuto il diritto di cittadinanza. Soprattutto se
provenivano da famiglie nobili di altre città, possedevano patrimoni, avevano stretto amicizie. E se
non era possibile mettere in dubbio la loro origine nobile, perché durante la guerra case, archivi e
città erano andati distrutti.»
«A chi ti riferisci?» esclamò una voce.
Bomilcare alzò la mano. «Pazienza: vengo subito al punto. Le elezioni, dicevo. Sono una
possibilità per ottenere potere e influenza. Non necessariamente ricchezze, anzi queste bisogna già
possederle, altrimenti è impossibile farsi eleggere.»
Qua e là risuonarono alcune risate.
«Perché uno venga eletto, bisogna che non venga eletto un altro. O rieletto. Oppure… che
muoia.»
Ritornò di nuovo il silenzio.
«Abdosir era vecchio e molto influente. Un membro del Consiglio, pensavo io che non sono
nessuno. Inoltre so che apparteneva agli Anziani, ai Trenta venerabili. Quando è stato assassinato,
ha lasciato libero un posto che ora deve essere occupato per riportare gli ormai solo Ventinove
venerabili aTrenta. Non so chi sceglierà il Consiglio. Sono stati fatti alcuni nomi» Bomilcare cercò
gli occhi di Annone, che però guardavano lontano o verso il cielo «ma chi conosce mai le intenzioni
dei nobili? Comunque sia… uno sale e un altro scende. Alcuni desiderano soltanto essere eletti,
perché finora non ci sono riusciti. Ad altri interessa rivestire un’altra carica, oltre a quella di
membro del Consiglio: per esempio quella di sommo sacerdote in un tempio. O di giudice. Altri,
come il giudice Tybon, un uomo onorato, non vogliono più tediarsi con ladri e assassini, ma
ascendere dalla cerchia dei Cento giudici a quella dei Centoquattro supremi, che non si occupano di
crimini, ma soprattutto degli affari pubblici.»
Š«Chi lo dice?» gridò Tybon.
«Ma se lo sappiamo tutti!» disse il suffeta Himilko «Non ne hai mai fatto mistero.»
Quando cessarono le risa, Bomilcare proseguì.
«Però non capisco proprio come mai uno che non si vuole occupare più di criminali comuni
fa di tutto per poter giudicare un certo assassino, senza discuterne come di consueto con i colleghi.
Gli altri giudici lo verificheranno sicuramente: la sera del giorno in cui è stato assassinato Abdosir,
Tybon si è fatto assegnare il processo contro Zabugu da alcuni nobili signori che si trovavano per
caso nel palazzo del tribunale. Il suffeta Germiskar, a quel che ho sentito, si è adoperato in suo
favore. Quando ho parlato con lui, ha affermato di non sapere nulla sull’accaduto, ma poi
all’improvviso ha fatto il nome di Zabugu. Strano, non è vero?»
Bomilcare fissò Germiskar. Il suffeta non batté ciglio né disse nulla, si limitò a fissarlo
impassibile.
«E poi il giudice sottrae il criminale Zabugu al capo delle guardie. Forse ha paura che
Zabugu possa dire qualcosa? Vuole farlo giustiziare in fretta… Soltanto perché l’assassino non deve
sopravvivere al giorno delle esequie del nobile Abdosir, o anche per altre ragioni?»
Mentre scoppiava di nuovo il frastuono, Bomilcare cercò Duush; quando incontrò il suo
sguardo, ammiccò.
«Adherbal» disse poi a voce molto alta «dicci un po’, siete stati trattati male durante la
vostra prigionia?»
L’uomo con il collo secco e l’enorme pomo di Adamo assunse un’aria sorpresa, scambiò
un’occhiata con il suo capo Bodbal e poi disse: «Non è stato piacevole, ma siamo sopravvissuti.
Così come sopravviveremo anche a questa tua squallida commedia».
Duush annuì in modo lento e deciso.
«E tu, nobile Bodbal, tu vuoi essere eletto in Consiglio, perfino se il tuo servizio per la città
dovesse pretendere altri sacrifici come quello di oggi?»
s Bodbal scosse il capo e disse, con voce tagliente e scandendo bene le parole: «Dove vuoi
arrivare, capo degli sbirri?
Ho già detto una volta, riferendomi a te, che certe persone andrebbero frustate tutti i giorni
affinché non dimentichino qual è il loro posto nell’ordine delle cose».
Alcuni dei presenti si mostrarono confusi o meravigliati, ma non dissero nulla; sembravano
attendere che Bomilcare riprendesse a parlare.
«Adherbal» disse Bomilcare «proviene da una stirpe antica e nobile. Un po’… bè, sì,
impoverita, ma nobile. È al servizio di Bodbal e, dal momento che la sua famiglia ha ricoperto così
a lungo le cerchie più importanti, sa che, se uno vuole essere eletto, deve compiere qualcosa di
importante. Per esempio, salvare la città.»
«Tu però non verrai mai eletto» disse qualcuno.
«Del resto non sono neppure un cittadino. Anche altri non lo erano, ma lo sono diventati.
Bodbal, per esempio, è originario di Sikka, una città che ha subito terribili devastazioni durante la
guerra libica. A proposito, anche il nobile giudice Tybon è originario di lì. E, dal momento che la
città è stata in gran parte distrutta, laggiù non esistono più neppure i documenti. E probabilmente
neppure qualcuno che si ricordi di Bodbal e di Tybon.»
«Questa è un’insolenza!» disse Bodbal. «Insisto affinché tu fornisca le prove, oppure venga
cacciato via dal servizio.»
Bomilcare annuì. «Hai ragione, nobiluomo. Vedremo come andrà a finire. Ma permettimi di
esaminare un’altra questione. Per vincere un’elezione bisogna fare qualcosa.
Salvare la città. Per esempio, facendo rubare la spada di Qart Hadasht per poi recuperarla.
Uno dei Trenta venerabili perde la vita per questo, peccato, ma così si libererà un posto e, grazie
all’ascesa di chi l’occuperà, un altro ancora in Consiglio. Si fanno realizzare tre spade che
assomigliano a un’altra, quella preziosa. Nello stesso tempo si escogita un piano parallelo: tutte le
spie straniere vengono fatte controllare da un certo gruppo di uomini, di cui si fa parte. Si fa in
modo di provocare disordini. Così gli sbirri saranno distratti, affinché non interferiscano nella
faccenda della spada…»
«Lo puoi dimostrare? Dimostralo!» gridò Bodbal.
«Più tardi, nobile signore. Prima si fomenta una congiura numida e poi si salva la città. Ma
forse non tutto si svolge secondo i piani. Forse la congiura di cui ci si ritrova a capo…
riesce. In entrambi i casi si vince.»
«Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile, per tutti gli dèi?» disse il suffeta Himilko con
un tono quasi disperato, ma forse soltanto incredulo.
«Perché odia la città. Perché» rispose Bomilcare ormai costretto a gridare per sovrastare il
frastuono «è un numida, non un punico. Neppure un libifenicio. E perché nella guerra mercenaria ha
combattuto contro Qart Hadasht.»
In mezzo al frastuono e alla confusione, Bomilcare cercò Nampamo. Con sua sorpresa, il
vecchio scosse il capo.
«Tybon» disse quando fu ritornata la calma «dimmi che cosa pensi delle mie dichiarazioni.»
Il giudice sbuffò. «Di rado ho sentito tante storie menzognere, ma soprattutto mai una così
brutta.»
Nampamo strinse gli occhi; sulla sua fronte si disegnò una ruga profonda.
«Sette anni fa» disse Bomilcare «Bodbal venne in città.
Aveva denaro, acquistò una casa, cominciò a commerciare, soprattutto con i numidi, ottenne
il diritto di cittadinanza.
Sette anni fa alcuni schiavi e un vecchio cieco trovarono l’argento nella Valle della Sega.
Molto, anche se non abbastanza.
Lavoravano per un uomo dalla pronuncia particolarmente limpida e netta. Che ha adottato
per mascherare la sua origine.»
«Sciocchezze» gridò Bodbal. «Tutte sciocchezze! Ma perché lo state a sentire?»
«Il vecchio cieco si ricorda di quella voce» disse Bomilcare.
Non ebbe esitazione a mentire su quel particolare, perché ormai era sicuro del fatto suo. «È
debole e ha paura dell’uomo di Sikka che laggiù l’ha raccolto sul ciglio della strada. Vecchio,
pavido e cieco, sì, ma conosce quella voce. Si trova in un luogo sicuro fuori città; andrò a prenderlo
domani. Che cosa ne dici, Bodbal di Sikka? Tra i numidi noto anche come Bodashtart il Verde?»
Bodbal rimase in silenzio, fissando Bomilcare con gli occhi spalancati.
«Adherbal… ad Alessandria mi hanno detto che il punico che aveva trattato per i rivoltosi
aveva il collo scarno e un enorme pomo d’Adamo.»
«Immagino che ce ne siano mille così, o anche di più»
disse l’uomo di fiducia di Bodbal. «Dove vuoi arrivare? È tutto assurdo.»
«Duush, vieni avanti. Sei stato preso prigioniero e torturato, e nella stanza accanto hai
sentito qualcuno che discuteva della spada e della traversata fino ad Alessandria.»
Il numida si alzò in piedi e si diresse lentamente verso il centro del cortile interno.
«E così, capo.»
«Riconosci qualcuno qui? Un volto? Una voce?»
Duush annuì e disse con espressione rabbiosa: «Quello è Dabar, signore delle api e della
canapa, sacerdote del dio Godogma, è lui che mi ha torturato». Indicò uno dei numidi, che
continuavano a essere trattenuti dai soldati. «E quello è l’uomo di cui ho sentito la voce nella stanza
accanto.» Si avvicinò ad Adherbal e lo sfiorò con il dito indice.
Nampamo si alzò e si diresse verso Duush; si fermò al centro del cortile e guardò Bomilcare.
«Calma! Non abbiamo ancora finito!» Quando fu ritornato il silenzio, Bomilcare disse:
«Alcuni di voi conosceranno già Nampamo. Vive sulla Lingua e prepara i migliori granchi che si
possano mangiare a Qart Hadasht e dintorni. Durante la guerra libica i predoni l’hanno torturato,
hanno massacrato i suoi figli, violentato e ucciso sua moglie. Ha visto qualcosa che vorrebbe
dimenticare, ma non ci riesce. Adesso se ne vuole accertare con il coltello. Tenetelo fermo!».
L’ordine di Bomilcare era rivolto a due guardie e non si riferiva a Nampamo, ma a Tybon. Il
giudice gridò e si dimenò, ma gli sbirri l’afferrarono e lo costrinsero a stare tranquillo.
«Quando giaceva sopra mia moglie» disse Nampamo «ho visto una cicatrice sulle sue
natiche. Una cicatrice a forma di saetta.»
Tagliò con il coltello la cintura del giudice e gli tirò giù il perizoma. Dal momento che ormai
era buio, ovunque ardevano lampade a olio, ma la loro luce non era più sufficiente.
Una delle guardie avvicinò una fiaccola. Sul fondoschiena del giudice si disegnava una
cicatrice lunga e seghettata.
Il suffeta Himilko attese che fosse ritornata la calma. Poi si avvicinò a Bomilcare, gli mise
una mano sulla spalla e si rivolse ai convenuti.
«Tutti noi» disse ad alta voce «dobbiamo la massima riconoscenza a Bomilcare. Credo
tuttavia che non abbia molto senso continuare a discutere ancora in questo cortile così affollato. Il
Consiglio e i tribunali si occuperanno di tutto il resto.
Comprese certe cose che ho sentito quando ero prigioniero e che confermano tutto quello
che Bomilcare ci ha esposto. Nei prossimi giorni spero che potremmo rispondere a tutte le domande
ancora aperte. I prigionieri devono essere portati via…
Sì, anche Tybon e Bodbal, il cui nome è Bodashtart. Voi altri andate a casa e dite a tutti che
Qart Hadasht non ha subito alcun danno.»
Quando i presenti cominciarono a muoversi, Bomilcare si parò davanti ad Annone. «Una
parola, signore» disse.
Annone lo fissò in silenzio. Bomilcare pensò di nuovo agli occhi da serpente, ma questa
volta non rabbrividì.
«Qualcuno deve aver consigliato agli altri tre membri del Consiglio di non muoversi, se
Abdosir fosse morto» disse a mezza voce. «Qualcuno che forse ha dato agli altri informazioni su
un’antica spada.»
Annone alzò le spalle. «Verrà ritrovata, questa spada sacra» disse. «Probabilmente è in
qualche altro tempio. Devo forse cercarla personalmente?»
«Non sarà necessario, signore. Tu dici che verrà ritrovata; sono sicuro che ti obbedirà. Ma
che cosa portava davvero Abdosir, mi domando io? Che cosa gli ha strappato di mano Zabugu?»
«Non c’è niente al mondo che mi interessi di meno.»
Annone fece per spingerlo da una parte, ma poi lasciò cadere il braccio che aveva sollevato e
con un cenno d’intesa chiamò uno degli uomini della sua scorta.
Bomilcare gli fece segno con la mano di allontanarsi. «Non abbiamo ancora finito, signore.
Ti ricordi di quello che ti ho raccontato sulla baia di Mastia?»
«Malvolentieri.»
«Per smascherare i nemici era necessaria un’esca.
Qualcuno che osservasse l’esca. E qualcuno che osservasse quello che l’osservava. E stata
una trovata di Asdrubale. Allora mi sono accorto che Asdrubale ha imparato molto da Amilcare, e
che Amilcare ha avuto un solo avversario degno di lui. Annone il Grande.»
«Degno di lui?» Annone sputò fuori quelle parole. «Che cosa vuoi… sbirro?»
«La spada viene rubata. Per sviare gli sbirri, il Consiglio decide - a proposito, su iniziativa di
chi? - che determinati uomini devono controllare le spie che si dice siano appena arrivate in città.
Ovviamente gli sbirri sorvegliano questi uomini. E possibile che, in realtà, in questo modo qualcuno
volesse scoprire chi fornisce le informazioni ad Amilcare e Asdrubale? Che le spie di Roma e
dell’Egitto vengano sorvegliate per scoprire i canali di comunicazione dei Barcidi?»
«Levati di mezzo» disse Annone. «Ti ho sopportato per due volte, non ce ne sarà una terza.»
Bomilcare si fece da parte. Annone il Grande si allontanò senza rivolgergli più lo sguardo.
Bomilcare sapeva che c’erano anche altre cose. Che non avrebbe mai potuto dimostrare. Che
Annone aveva perso in quella che per lui, nella peggiore delle ipotesi, era una scaramuccia
insignificante. Annone sempre e comunque il Grande.
Bomilcare digrignò i denti. Poi sputò.
Il lungo viaggio iniziò dall’agorà, verso la mezzanotte.
Musici, sacerdoti e gente comune, tra cui molti vecchi soldati, circondavano la cassa con le
fiaccole. Era una cassa di legno nero, con l’intelaiatura d’argento. Qualcuno la portava per dieci,
venti passi, poi la cedeva a un altro. A volte la trasportavano diverse persone insieme, sistemata
dentro una portantina, prima che altre la portassero di nuovo in mano, o sulle braccia protese, o
sopra la testa.
Alcuni piangevano, altri cantavano; i poeti recitavano versi sulla vita e le imprese del più
grande di tutti i punici, il salvatore della città. Si bruciava incenso e si invocavano tutti gli dèi.
Trasportarono la cassa dall’agorà attraverso i vecchi vicoli della città, nel Labirinto, dove i
signori dei bassifondi s’inginocchiarono, e sulla collina della Birsa dove, dai palazzi dei ricchi, i
nobili e gli schiavi si affacciarono con le fiaccole.
Verso nord, oltre il muro esterno della Birsa, nella Megara, sotto la luce fredda delle stelle,
per strade che scomparivano dietro le curve, si infilavano tra i poderi e si perdevano in mezzo ai
campi. Ancora canti, ancora preghiere, ancora lodi.
Alle prime luci dell’alba gli ultimi portatori raggiunsero la casa, la tenuta di Amilcare Barca.
Qui c’era sua figlia Salambua, bgiunta dalla Numidia, che prese in consegna la cassa e pregò la
gente di Qart Hadasht di conservare la memoria del grande estinto. Lungo la strada e sui prati della
tenuta erano stati preparati tavoli e panche, con vino e succo di frutta, pane e frutta. Tutti
mangiarono e bevvero e, quando il sole si levò, fu come se strappasse la coperta di nera tristezza
che si era distesa ovunque. Le persone alzarono la voce, risero, fecero ritorno in città.
Nel giardino in cui da molti anni riposavano le ceneri della madre dei Leoni, l’incomparabile
Kshyqti, sposa di Amilcare e madre di Salambua, Sapanibale, Annibale, Asdrubale e Magone,
Salambua rivolse una breve preghiera a Tanit, la dispensatrice di vita. «Ha ritirato i suoi remi;
prendilo nella tua nave eterna, madre e signora.»
La sorella di Salambua era morta, i suoi fratelli combattevano in Iberia insieme al suo sposo,
il principe numida Naravas. C’era un cugino di Amilcare, gli uomini più importanti del partito dei
Barcidi, il suffeta Himilko, il membro del Consiglio Mastanabal, Balhanno, il capo dei Cinque
responsabili per la legge e l’ordine… ma Salambua aprì la cassa, ne estrasse l’anfora d’argento
contenente le ceneri di Amilcare e non la porse a nessuno dei parenti, a nessuno dei nobili, bensì al
più vecchio amico di Amilcare, al meteco elleno nato a Qart Hadasht, al signore del Banco della
Sabbia Antigonos.
L’ebreo Daniel, amministratore di Amilcare, sollevò la pietra che chiudeva la cavità in cui si
trovavano le ceneri di Kshyqti, e Antigonos vi infilò l’anfora.
Aspasia teneva la mano di Bomilcare e piangeva in silenzio.
All’ombra degli alberi bevvero acqua con un po‘“di vino, mangiarono datteri e arrosto
freddo e parlarono. Bomilcare vide il suffeta e Balhanno che discutevano tra loro in modo
decisamente concitato, o forse addirittura litigavano. Bostar si avvicinò e prese Aspasia per un
braccio.
«Una parola sui gioielli, o donna dalle dita delicate?» le disse.
Bomilcare si voltò verso Antigonos, che l’aveva raggiunto.
«Di che cosa vuoi discutere con me, signore del Banco della Sabbia, senza che Aspasia ci
senta?»
L’elleno sorrise. «Di alcune cose, ma non ci vorrà molto tempo. Ti devo portare i saluti di
Asdrubale. Era molto contento di te e, dopo la notte scorsa, lo sarà ancora di più.»
Bomilcare chinò il capo. «Molte grazie.»
«Gli abitanti di Mastia» disse Antigonos «si erano affezionati a un uomo molto alto e
robusto. Hanno pianto la morte di Mandarax…»
«Spero in modo appropriato, con montagne di carne, fiumi di vino e accoppiamenti
sfrenati.»
«Stai pur certo che hanno fatto tutto a dovere. E hanno pregato il principe Mandunis di
approvare un cambiamento di nome.»
«Ah. E quale?»
«La parte occidentale della baia, dove è morto il gallo, in futuro si chiamerà “Mare di
Mandarax”.»
«E giusto. Spero di potermici recare di nuovo, prossimamente, e di offrirgli una libagione.»
Antigonos sorrise, ma poi ritornò subito serio. «Adesso veniamo a questa… storia. Bostar
mi ha riferito quello che non sapevo ancora. Probabilmente alcuni dettagli non li conosci neppure
tu.»
Bomilcare annuì. «È vero, signore, alcuni dettagli non li conosco. Ma li immagino.»
«Non immaginare a voce troppo alta. Alcuni sono stati ammazzati per aver immaginato ad
alta voce.»
«Annone mi ha detto che mi ha sopportato per due volte e che non ce ne sarebbe stata una
terza.»
Antigonos storse il naso. «Sì. È anche in grado di convincere gli Anziani e i sommi sacerdoti
a non vedere o a non dire certe cose. Forse è venuto a sapere di questa storia della spada e ha deciso
di approfittarne. Ma forse invece ha escogitato tutto lui. Ha fatto costruire le spade per poter dire ai
poveri congiurati, in caso di pericolo, che non avevano affatto la spada vera. E, se la città fosse stata
in difficoltà, mostrare l’unica, vera spada e apparire come il salvatore. Ha mandato due spade in
Iberia, affinché i Barcidi facessero qualcosa mentre lui li osservava. I congiurati numidi non lo
sapevano, per questo vi hanno aggrediti a Mastia, supponendo che esistesse una spada sola. Il
vecchio Abdosir aveva probabimente in mano un pezzo di legno e Zabugu l’ha gettato in mezzo agli
arbusti.»
«Ma a che scopo tutto questo?»
«Tu che cosa ne pensi?» Antigonos gli rivolse uno sguardo penetrante.
«Per accrescere il proprio potere. I suoi nemici sono i Barcidi. Naturalmente sapeva che io
raccolgo informazioni per Amilcare e Asdrubale. Ma voleva sapere chi altri lo faceva.
Immagino che non potesse credere che, oltre al piccolo capo degli sbirri, non se ne
occupasse nessun altro. Qualcuno ha diretto tutto. I numidi con la spada distolgono l’attenzione
delle spie romane; queste distolgono l’attenzione di coloro che raccolgono le informazioni per i
Barcidi. E lui, una volta che li ha scoperti e li tiene in pugno, può danneggiare Asdrubale in
qualunque momento. Fornendogli notizie false.»
Antigonos sospirò piano. «Il nemico è sempre Annone.
Bostar, nel caso in cui venga eletto, e io con il denaro della banca, ti possiamo… proteggere
un po‘“in Consiglio e in città. Ma dovresti stare attento alle minacce di Annone.»
Più tardi, mentre ritornavano in città insieme a Letilio, Bomilcare disse: «Ehi romano,
quando riparti?». , Letilio guardò verso il cielo. «Se acceleriamo un po‘“il passo, oggi pomeriggio.
Mi attende un’imbarcazione proveniente da Neapolis.»
«Ah» disse Aspasia. «Tito, sei un codardo.»
«Per quale motivo?»
«Vuoi sparire in fretta, prima che qualcuno ti ponga domande insistenti, non è vero?»
«Come sei perspicace… ma che cosa ti potrei mai nascondere?»
«Il fabbro che ha forgiato le spade, per esempio» disse Bomilcare.
«Ah, non te l’ho detto?» Letilio sorrise, ma la sua voce sembrava turbata, quasi dispiaciuta.
«Stamattina presto è salito a bordo di una nave che lo condurrà a Ostia. Ha portato con sé la terza
spada, per ripararla.»
«Porco schifoso» disse Bomilcare. «E Annone? Mi ha lasciato parlare perché tu gli hai detto
il nome del fabbro che lui aveva assoldato?»
«Ehi.» Letilio si fermò e guardò Bomilcare aggrottando la fronte. «Come ti è venuta in
mente questa idea?»
«Perché» disse Bomilcare a voce molto bassa «perché non mi consegni quel porco?»
«Annone il Grande è un personaggio importante. Non sarebbe nell’interesse di Roma
vedere… il suo potere tramontare.»
L’accompagnarono al porto. Dopo aver caricato il suo bagaglio a bordo del veliero pronto
per salpare, Letilio ridiscese sul molo.
«Oh più bella tra tutte le ellene puniche» disse prendendo le mani di Aspasia. «L’ho protetto
perché tu lo desideravi e rimpiangerò per sempre che quel letto a tre piazze che hai evocato mi sia
rimasto precluso. Anche se l’avrei preferito senza di lui, solo con te.»
Aspasia rise. Poi si asciugò qualche lacrima, baciò Letilio sulla bocca e disse: «Sparisci. E
torna di nuovo».
«Forse.» Letilio lasciò le sue mani e si voltò verso Bomilcare. «Veramente toccherebbe a te.
Venire a Roma. Ma meglio qui che niente.»
Bomilcare appoggiò la guancia a quella del romano.
«Indagherò sul misterioso assassinio di un romano» disse «forse così manderanno di nuovo
te. Addio.»
Sulla via del ritorno verso l’abitazione di Aspasia non fecero altro che sbadigliare. Quando
furono giunti al cortile interno, la donna disse: «Che cos’altro devi fare oggi?».
«I rapporti possono aspettare. Così come Barako, che merita una promozione. E pure le
domande ai principi numidi, per sapere se da qualche parte sia spuntato qualcuno di nome Nislakh.»
Bomilcare sbadigliò di nuovo. «Ma questa sera dobbiamo festeggiare, con Tigalit e Bostar,
Antigonos e Daniel.»
«Allora dovremmo farci una bella dormita» disse Aspasia a bassa voce. «A meno che…»
«Che cosa, bellissima?»
Aspasia ridacchiò. «È ancora abile al combattimento?»
«Si potrebbe provare… se ti riferisci a quello che temo.»
«La spada di Qart Hadasht.»
Appendice
La vicenda è ambientata nel 229 a. C., undici anni dopo la prima guerra punica (264-241 a.
C.) e otto anni dopo la guerra contro i mercenari (241-237 a. C): chi volesse saperne di più, può
consultare le opere che si riferiscono a questo periodo storico. La spada di Cartagine è per certi
aspetti il seguito del Mercante di Cartagine. Alcuni dei suoi personaggi, sia storici sia immaginari,
si trovano anche nel romanzo Annibale.
Glossario
Adane: in arabo “porto”, Aden Baits: lat. Baetis, il Guadalquivir Birsa: la collina della città
di Cartagine Byssatis: provincia di Cartagine, lungo la costa orientale della Tunisia Camelopardo:
giraffa
Colonne di Melqart: “Colonne d’Eracle”, lo Stretto di Gibilterra Ebusos: Ibiza
Ecumene: l’insieme del mondo conosciuto e abitato Hadrymes: lat. Hadrumetum, oggi Susa
(Tunisia) ‘
Hipu: lat. Hippo, due porti importanti, oggi Biserta (Tunisia) e BònelAnnaba (Algeria); nel
libro si fa riferimento a quest’ultimo Iberos: l’Ebro
Ityke: lat. Utica, città a nordovest di Cartagine Kane: antico porto commerciale dell’Arabia
meridionale Kitun: greco chiton, lat. tunica, veste Libia: denominazione generica dell’Africa
settentrionale (escluso l’Egitto) Massalia: città greca della Gallia, lat. Massilia, Marsiglia Melite:
Malta Meteco: straniero residente, privo di diritti di cittadinanzi Monti Neri: Sierra Morena
(Spagna) Oceano: l’oceano Atlantico
Pentere: nave da guerra a cinque ordini di remi Qart Hadasht: “città nuova”, greco
Karchedon, lat.
Carthago, Cartagine
Qart Iuba / Karduba: nome immaginario per Cordoba Shekel: cfr. talento Sikka: attuale El
Kef (Tunisia) Stratega: utilizzato nel senso di “generale”; “stratega di Libia (Africa) e d’Iberia
(Spagna)”: titolo di Amilcare e poi di Asdrubale, in qualità di comandanti in capo di tutte le truppe
puniche Suffeta: uno dei due massimi funzionari esecutivi di Cartagine, eletti ogni anno;
corrisponde per molti aspetti al console romano Suro: Tiro
Tagus: Tagos, Taggo, il fiume spagnolo Tago Talento: ca. 27 kg, antica unità di misura della
massa, formata da 60 mine. Una mina è formata a sua volta da 60 shekel o 100 dracme. Shekel
(greco siglos, fen. shiqlu): siclo, moneta d’argento cartaginese (ca. 7-7,5 gr) Tofet: luogo di sacrifici
e di sepolture Tolomei: i discendenti di Tolomeo, generale di Alessandro, dinastia che governò
l’Egitto dal 305 a. C. al 30 a. C.
Trireme: nave da guerra con tre file di rematori sovrapposte Sul governo e le istituzioni di
Cartagine esistono testimonianze contradittorie. Nelle fonti si parla di trecento membri del
Consiglio e di trenta Anziani (appartenenti alla gherousia). Non è possibile stabilire se questi ultimi
costituissero una sorta di sezione all’interno dei Trecento (suddivisi quindi in duecentosettanta
membri del Consiglio e trenta Anziani) o una specie di Camera Alta aggiuntiva e distinta dal
Consiglio.
Un problema simile si pone con il numero dei giudici nominati a vita dal Consiglio. Le fonti
parlano di cento oppure di centoquattro cariche: cifre diverse per uno stesso corpo o riferite a due
organi distinti? I suffeti erano eletti ogni anno come i consoli romani; non è certo che questo valesse
anche per il Consiglio. I numeri e le procedure citati in questo romanzo sono soltanto una
supposizione che spero plausibile.

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