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FANTASMA

Traduzione di Roberta Boccia


A volte torna per spaventarmi, quando meno me lo aspetto, nel mezzo di un viaggio notturno
con la macchina in autostrada, o nel mezzo di una frase in cui improvvisamente mi assento,
incerto di chi sarà l’autore delle ultime parole. Il ricordo mi attanaglia ed io arretro, all’erta,
preparandomi per l’ondata di colpa e di vergogna. Mi vedo seduto in un posto scuro, con un
tetto basso, in un cerchio di bambini. Hanno i maglioni bagnati dalla pioggia e gli stivali
sporchi di fango ed erba. L’odore è quello della cospirazione per fare del male. Al centro,
steso sul pavimento di cemento, un ragazzino nudo. È ciò che vedo adesso e mi tortura.
L’apparizione è un treno in un tunnel, che grida mentre s’approssima, che decresce verso
l’oscurità con un sorriso cattivo – annientando tutto nel corso del suo passaggio. Anni interi
senza che accada. Poi, in un giorno in cui mi sento felice senza nessun motivo, ed ascolto
spensierato la radio in macchina, il fantasma appare nello specchietto retrovisore, un’assenza
molto densa seduta sul sedile di dietro, e si impone. Vedo che il bambino giace immobile a
terra e non posso fare nulla.
Un giorno, reagisco. Ricordo esattamente che attraversavo il parco con Luciano per la
mano, e il ragazzino rientrava pensieroso da una festa di compleanno in casa di un amico. Già
avevo desistito dal fargli domande. Cercavo di distrarlo con i nomi degli animali ed i versi
che fanno e mi concentrai sui paperi del lago insignificante e pieno di foglie alla ricerca di un
particolare con cui potessi conquistare mio figlio. La mano del lago mi attorniò quindi la
nuca, mi trascinò il viso verso la superficie dove galleggiavano alcuni boccioli di ninfee, e mi
obbligò a guardare. Non si aspettava, ovviamente, la resistenza che gli opposi. Spinsi la testa
all’indietro, ma serenamente, per non spaventare Luciano e nella lotta che si ingaggiò
dall’immagine che prima era nebulosa e generale, non più che un’impressione, vidi infine
delinearsi una figura, come in un ritratto ad olio, con il rispettivo sfondo lavorato a terra
bruciata, verde e ocra ed effetti che danno rilievo e adombrano.
Riconobbi il personaggio di quel ritratto. Lo cercai dopo in casa nelle fotografie di quel
tempo e non ebbi dubbi che fosse il leggendario Emílio, il vandalo, il ferito, il macerato, il
suturato e cicatrizzato Emílio che saliva sui muri indifferente ai cocci delle bottiglie, che
camminava scalzo sui fuochi, che bolliva serpenti ed impalava galline, rubava frutta verde e
scappava di casa dei suoi genitori, e dormiva sempre seduto – si diceva – in permanente stato
di allarme e allerta, irraggiungibile, non impressionabile, fisso in un unico obiettivo
invisibile, e con nessuno che riuscisse a respirare con lui vicino.
Mi convinco che fu Emílio a incitare la tortura. Emílio che per primo, subito prima che ciò
avvenisse, ci aveva portato la notizia dell’imperfezione di quel ragazzo. Fu lui che ci fece
capire cosa volevamo vedere, cosa volevamo che ci mostrasse di tale imperfezione.
Decido di vederlo. Emílio mi accoglie adesso alla porta in ciabatte, circondato dai cinque
figli che sembrano tutti uguali e guardano lo sconosciuto fiduciosi, ricevendomi in una forma
così calorosa che mi vedo costretto ad allontanarli bonariamente, come chi stacca lumache
dalle braccia con movimenti impastati. Emílio sembra felice e sollevato nel vedermi, la
moglie era appena uscita per andare al supermercato e lo aveva lasciato con i bambini, che lui
intratteneva come poteva per mezzo di videogiochi e dvd. Mentre mi porge il bicchiere di
birra, faccio caso a una vaga asimmetria nel viso, un occhio più vivo dell’altro, le pieghe
della bocca più marcate dal lato dell’occhio semimorto – vittima di un razzo di fine festa – ,
come se avesse cominciato a marcire da dentro; ma non è questo quello che più mi
incuriosisce di lui.
Non ci vedevamo da più di trent’anni. Adesso mi sembra a posto, senza sintomi,
equilibrato e assente in una vita che immagino pacatamente tribolata e tinta di un’infelicità
interamente normale. Quel remoto ragazzo feroce adesso sta prostrato e seduto. Parla
serenamente dei figli, con movimenti brevi della testa nella direzione del divano su cui si
accalcano. Insiste a chiamarli tutti con i loro nomi propri – Joselito, Joel, Jonas, Jasão e Joly
– e tesse loro le lodi abituali e le recriminazioni generali di chi perfettamente non li conosce.
Senza modo di dissimulare la mancanza di ansia, si alza negli intervalli del discorso, alla
ricerca dei sottofondi per i bicchieri, nei cassetti e negli angoli, così da non rovinare il tavolo
alla moglie. Pone domande, con parsimonia. Ma io, il più delle volte, non ho il coraggio di
rispondere. Non voglio che Emílio sappia nulla. Non voglio confronti su successi e
fallimenti, quantità e qualità di figli, capacità di resistenza al tempo, al matrimonio, volumi di
vitalità, numero approssimativo di delusioni e profondità della tristezza nella maggior parte
dei giorni. Ho la missione di conoscere, ma non ho il coraggio di domandare. Poiché sono
perso nel cammino, e mi vedo perseguitato dai ricordi di fatti di cui non ho formalmente
colpa, vado d’immediato, come è mia abitudine, alle conclusioni. Mi inquieto ancora di più
quando ho il presentimento che i figli di Emílio tacciano non per vedere la televisione, ma per
ascoltare quello che noi diciamo. La cosa m’imbarazza, e ascolto timidamente la descrizione
molto dettagliata di Emílio sulle differenze tra i vari tipi di cuscini ortopedici di fabbricazione
tedesca e di cui lui è il rappresentante. Voglio uscire velocemente da lì. Emílio non lo trova
strano e non sollecita una scusa. Mi abbraccia, mi bacia sul viso e mantiene la mano sulla mia
spalla mentre mi dice di farmi vedere ogni volta che voglio e mi accompagna alla porta.
Quando esco, i figli già non sono più nella stanza.
Esce con un sentimento confuso che subito si trasforma in una tristezza bombata, che
abbraccia tutta la sua vita – e include il suo stesso figlio, che preferisce a tutto, per cui
rinuncia a tutto, che culla, e che porta a passeggio, e per cui aspetta, e soffre, e sta in ansia, e
per cui si sente solo e troppo incapace, al di qua di ciò che è necessario, vergognoso di quello
sguardo rigoroso del bambino che lo trafigge e si sa insostituibilmente adorato e ricercato.
Sul marciapiede, dove già si era fatta notte, desidera come mai la chiarezza della visione – e
non ancora il coraggio dell’azione – che gli permetta una volta per tutte di allocare il
fantasma, darlo al proprietario e disfarsi di lui. Quasi decide di tornare al lago, sottomettersi
alle grinfie che gli tirano la nuca, per poter vedere di nuovo con chiarezza – e tornare a partire
investigando in un’altra direzione. Ciò che più lo aveva intrigato in Emílio era stato proprio
quello stare tutto intero e sicuro nella sua stanza, con la sua lista di crimini ignoti e vittime
dell’oscurità e più di cinque bambini che amava e innocentemente ignorava, su cui non aveva
dubbi, né esitazioni, né sogni dorati, né svenimenti di anticipazione, né volontà di trionfo, né
sentimento di trofeo, né aspettative deluse, né vendetta, né risentimento. C’era un amore che
accettava, non emozionato, quegli esseri come fenomeni naturali che avrebbero seguito il
loro corso senza intervento.
La visita a Emílio non fu, per questo, curativa. Il fantasma, impazzito per gelosia, un
broncio decrepito, diventava assiduo, quasi violento. Gli apparve in modo sconveniente nella
doccia, gli faceva cenni dall’altro tavolo nel bar, si intrometteva, quasi istrionico, quando lui
parlava con qualche persona che conosceva. Ma l’urgenza di liberarsi dell’intruso viene solo
dall’immaginare che la bestia ronza già attorno a Luciano, e questo gli impedisce di dormire.
Decide di visitare il luogo di nascita del fantasma – forse toccando le pareti sporche della
legnaia, dove accadde il fatto, avrebbe trovato qualche segnale che gli avrebbe aperto tutta
l’immagine facendogli ricordare e comprendere. Scelse un giorno di primavera, caldo e
dolce, per trovare ciò che cercava; camminò a piedi lungo il villaggio deserto, passò per la
foresta di eucalipti, salutò i due pini testimoni del suo primo – e quasi unico – accesso di furia
infantile. Riconobbe da lontano la legnaia e i grandi giardini un po’ aridi, si spogliò, fece il
bagno nella vasca e gli odori erano ancora gli stessi, così come era immutabile il crepitare
delle foglie sotto i piedi e, mentre osservava, diceva a se stesso che era stata sua
quell’infanzia di pigne e pinoli, ronzii di molte mosche, tiglio imponente e baccelli, ginestre e
pergole di buganvillee al centro della pianura aperta che faceva da protezione; e anche
un’infanzia della cucina a petrolio in cui il bottiglione si collocava sottosopra. E si rompeva
con sconcertante facilità.
«Ebbi un grillo in una gabbia – disse a Luciano – quando avevo la tua età».
Voleva liberare ancora una volta Luciano dal malessere di stare solo, ma il piccolo
guardava la televisione e il padre non capitava a proposito. Si ricordò, quindi, esattamente chi
era stato dentro la legnaia. Emílio aveva un assistente che eseguiva gli ordini. Nessuno
parlava. Tutti fissi sulla vittima, uniti come sotto una campana di vetro, sudando di paura ed
eccitazione. Si ricordò del nome di chi stava alla porta: un ragazzino vivace e pieno di
iniziativa che gli fece prendere uno o due spaventi, prima di essere coinvolto in tal modo
nella cerimonia, che dimenticò il ruolo di vigilante e finì per prendere il suo posto nel
cerchio. Proprio lui, Cristóvão, era stato accerchiato contro la parete e sentiva al suo lato, un
po’ più indietro, appoggiata alla catasta di legna, la sua sorellina, che non alzava gli occhi dal
pavimento. Si ricorda che stava seduto con le gambe incrociate, appoggiato alla parete in
fondo, proprio di fronte alla porticina bassa, che per precauzione ed esperienza avevano
lasciato aperta, per non destare sospetti. E man mano che l’umiliazione del bambino cresceva
e si incamminava, inesorabile, verso la tortura, lui non aveva resistito, incapace di opporsi, e
si era sottomesso al piacere e all’agonia. Attuava in pieno l’immaginazione di Emílio,
trovando terreno fertile nel silenzio e nell’aspettativa. Cristóvão si era appena alzato con
impeto (ma troppo tardi! per il resto della sua vita, troppo tardi!) ed era uscito fuori dalla
legnaia a testa bassa, ancora in una confusa intenzione di scappare e vendicarsi; si trovò a
correre nel giardino in direzione della casa grande dove la madre passava i pomeriggi con le
amiche.
Entrò nel salone disperato. Fermo sulla porta, cercò la madre con urgenza nel cerchio di
donne che conversavano e lavoravano a maglia, fumando, bevendo caffè, nell’ozio delle
preoccupazioni di nascite e crescite. Si distrasse senza volere a osservare il modo con cui
maneggiavano le sigarette, lavorando ai maglioni senza staccarsi da loro, chiudendo un
occhio o piegandosi all’improvviso per cacciare fumate lunghe come congedi, mentre l’ago,
inquieto, tremava nella loro mano. E vide che il fumo non le avvolgeva, per qualche motivo
dell’arieggiamento saliva eretto nell’aria, era filtrato dalla luce di una finestra immensa di
vetro opaco, ruotava nei suoi arabeschi e scompariva in qualche luogo prima del soffitto alto.
Era una macchina composta di donne. Ma c’era chiarezza in quel fumo. Quando lui arrivò
alla porta e si appoggiò, ferito, alla parete nuda, la madre rideva nella sua risata fadista. Stava
al centro delle amiche, il braccio messo di traverso sul petto, la mano appoggiata sulla spalla,
la testa inclinata all’indietro nel resto di un sorriso. Aveva finito di ascoltare qualche storia,
qualche detto divertente, e lui immaginò che era sul punto di cantare. Ebbe ancora una volta
la sensazione che era arrivato tardi nella sua vita, che si sarebbe trovato sempre dove non
doveva.
La bellezza della madre lo fulminò. Restò lì fermo sulla soglia della porta. Non ebbe il
coraggio di sporcarla. Cercando con lo sguardo qualche salvezza, incontrò la bovina madre di
Emílio, la placida Aurélia, nei suoi immutabili vestiti con grandi fantasie floreali, il piede
grasso gonfio prima e dopo del passante della scarpa da bambina. I grandi occhi di cosa
inerte, che includevano donne, sedie, caffè, bambini, arabeschi, scambi di parole, tutto nello
stesso paesaggio umido, si posarono su di lui. Gli fece un cenno da lontano, sorridendo,
complice, per congedarlo.
Cominciò a sentire grida laceranti nel giardino. Pensò che venissero a denunciare la sua
mancanza di integrità e che lui deludesse ancora una volta – e definitivamente – sua madre.
Gli tremarono le gambe, il pavimento gli sfuggiva, animato come un abisso. Gli costarono
molto quei pochi passi tra la porta a vetri della stanza e la tettoia, dove cominciava la scala
che scendeva fino al giardino. Ma man mano che avanzava, quelle grida che sentiva laceranti
perdevano acutezza, diventavano mero vocio di bambini in ricreazione. E quando infine spiò
dall’angolo, ancora incerto dei passi successivi, vide vittima e carnefici correre nel giardino
intorno alla casa come pazzi, tentando di prendere Emílio che fuggiva vittorioso, innalzando
in mano il suo frisbee.
Seduto nel parco, con Luciano mano nella mano, mi domando un’altra volta: se mi fossi
alzato subito? Se avessi tentato di impedire l’umiliazione del bambino? Se fossi corso a
chiamare qualcuno, se fossi riuscito a vincere la mia propria paura, la mia curiosità? Il
fantasma di questo ricordo ancora ritorna ogni tanto, si siede accanto un po’ abbandonato. È
uno di quei fantasmi senza riparo, ed io lo accolgo e lo lascio rimanere qui, a patto che si
comporti bene, e non interferisca nella vita di ogni giorno.

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