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Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, sezione II, riassunto

Concetto di moralità che si indaga non è mai stato messo in discussione, per la necessità di quest’ultimo
nella realtà: piuttosto, i filosofi hanno fatto derivare la moralità da altri presupposti, errando, rendendo
la moralità prospettiva (in senso nietzschiano), circoscritta ad un’angolazione, un punto di vista soggettivo
di questa. Tentare empiricamente di stabilire la purezza della morale è non solo difficile a livello
casistico, ma addirittura impossibile. L’attuabilità della morale pura kantiana è potenzialmente possibile,
poiché bisogna tenere in conto, nell’agire umano, le inclinazioni e gli interessi personali (rappresentati
dagli imperativi ipotetici). L’analisi kantiana della moralità esula da qualsiasi dato contingente, anche
perché nessun esempio pragmatico potrebbe mai fondare il concetto astratto di moralità. La volontà
dell’agire morale, infatti, se si fondasse solo sulla sua derivazione empirica, non produrrebbe alcuna
massima universalizzabile. Tutte le pseudomorali popolari non conformi alla teoria kantiana della ragion
pratica sono tali in quanto prive di fondamenti autentici (tutto ciò che è empirico non è solo inutile per la
purezza della morale kantiana, ma anche dannoso). La purezza della morale kantiana risiede nel suo
trattarsi di un’analisi assolutamente teoretica, a priori, ma volta alla sua attuazione pratica. I concetti
morali hanno la loro origine unicamente a priori nella ragione, la loro purezza è fonte della loro stessa
dignità. L’essere razionale ha la facoltà di agire secondo la rappresentazione delle leggi. Se la volontà è
conforme alla ragione, la massima è universalizzabile; se la volontà è difforme, ciò che sarà
oggettivamente necessario diverrà soggettivamente contingente, rendendo l’effetto della costrizione. La
rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto costrittivo per la volontà, è definito comando
(della ragione) e la formula del comando è l’imperativo. Tutti gli imperativi esprimono un Sollen, un
dover essere, che varia a seconda del rapporto della legge oggettiva con l’autonomia della volontà, che,
per costituzione soggettiva, non comporta esiti causalistici/deterministici. La volontà umana non è
perfetta: se tale fossa, potrebbe determinarsi da sé la rappresentazione del bene in senso morale, non
sarebbe costretta. Gli imperativi dunque possono comandare ipoteticamente o categoricamente. Gli
imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per giungere ad
un dato fine. Gli imperativi categorici rappresentano un’azione come in se stessa oggettivamente
necessaria. L’imperativo è ipotetico se l’azione è buona semplicemente come mezzo per qualcos’altro, è
categorico se l’azione è rappresentata come buona in sé, necessaria per una volontà conforme a ragione.
L’ipotetico dice soltanto se l’azione sarebbe buona per uno scopo possibile (principio problematicamente
pratico) o per uno scopo reale (principio assertoriamente pratico). Il categorico, definendo l’azione
come per sé oggettivamente necessaria, senza relazione ad alcuno scopo, vale come principio
apoditticamente pratico.
 Gli imperativi (regole) in vista di uno scopo possibile sono detti imperativi dell’abilità/tecnici
(ipotetico-problematici), in cui l’azione è necessaria per raggiungere uno scopo, una finalità
conseguibile. Kant non esamina la qualità del fine (se sia razionale e buono), ma il modo per
conseguirlo: infatti, ritiene sullo stesso piano per l’aspetto procedurale i precetti del medico per
guarire e quelli dell’avvelenatore per uccidere (stesso valore, entrambi attuano perfettamente il
loro scopo)
 Gli imperativi (consigli) in vista di uno scopo reale (felicità come scopo inerente alla struttura
ontoesistenziale umana) sono detti imperativi della prudenza/pragmatici (ipotetico-assertori): lo
scopo non è incerto o solo possibile, è reale in quanto si può presupporre con certezza e a priori in
ogni uomo per la sua stessa essenza. L’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo
benessere è definita prudenza (in senso duplice, di influenza su altri per raggiungere i propri scopi
e di unificazione degli scopi per un proprio durevole vantaggio). Ma, siccome azione non viene
comandata in modo assoluto, bensì solo come mezzo per un altro scopo, è sempre un imperativo
ipotetico.
 Gli imperativi (comandi) che comanda un comportamento senza alcun altro scopo sono detti
imperativi della moralità/morali (categorici).

Come sono possibili questi tre tipi di imperativi?


 Imperativi tecnici: caso dell’arte, chi vuole il fine, vuole anche il mezzo a ciò inderogabilmente
necessario che è in suo potere. E’ una proposizione analitica: nel volere un oggetto come da me
prodotto viene pensata già la mia causalità come causa agente, ossia l’uso dei mezzi (imperativo
trae il concetto di azioni necessarie per un dato fine già dal concetto del volere questo fine)
 Imperativi pragmatici: se fosse possibilità di stabilire esattamente cosa sia la felicità sarebbero
analitici come gli imperativi tecnici. Chi vuole il fine vuole anche i mezzi mediante cui ottenerlo.
Ma a ciò si oppone la completa indeterminatezza del concetto di felicità (tensione leopardiana).
Qui vi è una tensione tra mezzi empirici per il raggiungimento della felicità e assolutezza teorica
dello stesso concetto, come massimo bene nel presente e nel futuro con la massima e duratura
persistenza assoluta. Perciò si qualificano come consigli empirici per la felicità.
 Imperativi morali: il vero problema, poiché di matrica interamente teorica, sta qui. Non si può
stabilire l’imperativo categorico per mezzo di alcun esempio, ovvero empiricamente, piuttosto un
buon punto di partenza sta nell’essere cauti, ponendo sotto analisi tutti gli imperativi che
appaiono categorici ma sono nascostamente ipotetici. L’imperativo categorico è l’unica legge
della volontà, tutti gli altri sono principi della volontà. E’ una proposizione sintetico-pratica a
priori.
Nel caso degli imperativi ipotetici, possiamo essere sciolti dalla prescrizione se abbandoniamo lo scopo, in
quelli categorici il comando incondizionato non permette alla volontà alcuna preferenza per il suo
contrario = è il solo che comporta la necessità che noi esigiamo dalla legge.
Se penso ad un imperativo categorico so immediatamente cosa contiene, ovvero solo la necessità che la
massima sia conforme a legge, ma la legge non contiene alcuna condizione a cui essa sia limitata = resta
universalità di una legge in generale a cui la massima si deve conformare = conformità dell’imperativo
come necessaria.
1° postulato: Agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere
che essa divenga una legge universale (per mezzo della tua volontà può diventare una legge
universale della natura).
Da ciò si deduce che non possono essere universalizzabili quelle massime che non si può volere che lo
siano. Universalità della legge costituisce la natura, ovvero l’esistenza delle cose in quanto rispondenti a
leggi universali. Da qui la distinzione, subordinata a quella tra doveri verso sé stessi e doveri verso gli
altri, tra doveri perfetti (promessa, lealtà nei patti tra gli Stati, suicidio, promozione del talento, aiuto),
ovvero che non concedono alcuna eccezione a vantaggio dell’inclinazione, e doveri imperfetti.
 Promessa: se chiedo dei soldi sapendo di non restituirli, questa non potrebbe diventare una
massima conforme alla rappresentazione della legge, perché ciò renderebbe impossibile il
promettere stesso (condizione funzionale di validità praxeologica)
 Suicidio: una natura la cui legge fosse quella di distruggere sé stessa per mezzo dello stesso
sentire con cui essa è spinta al suo promovimento, contraddice sé stessa e non sussisterebbe come
natura
 Promozione del talento: un tale, vedendosi in condizioni agiate, non si sforza nell’ampliamento e
miglioramento delle sue disposizioni naturali, delle sua capacità. Al di fuori di questo caso, la
massima è universalizzabile? No, perché è impossibile volere che questa diventi legge universale
della natura, o sorga dall’istinto naturale. In quanto essere razionale, egli vuole necessariamente
che tutte le facoltà in lui vengano sviluppate.
 Aiuto: ad un soggetto tutto va bene, mentre gli altri devono lottare contro grandi disagi. Che gli
importa (pensa)? Se un tale modo di pensare diventasse legge universale (è possibile), sarebbe
comunque impossibile volere che questa massima diventi legge universale, in quanto la data
volontà potrebbe aver bisogno potenzialmente della compartecipazione di altri al suo divenire.
Quindi esistono due tipi di massime: quelle che potrebbero essere leggi universali ma è impossibile volere
necessariamente che lo siano (contraria al dovere meritorio, vd. Condizioni praxenomiche di validità),
quelle che è non potrebbero mai essere leggi universali e, ancor meno, volere che lo siano (contraria al
dovere inderogabile, vd. Condizioni praxeologiche di validità).
Poiché l’uomo è un essere razionale, è tendenzialmente portato a confrontare le proprie azioni con le
massime universalizzabili, in base all’autonomia della volontà. Non si tratta di indagare ciò che accade,
ma ciò che deve accadere.
Ora, la volontà sussiste in vista del fine, che, se dato dalla ragione, deve essere necessariamente valido
per tutti gli esseri razionali. Ciò che invece contiene solo il fondamento della possibilità del fine il cui
effetto è il fine, è il mezzo. Il fondamento soggettivo del desiderare è il movente, il fondamento
oggettivo della volontà è il motivo. Fini soggettivi riguardano i moventi, principi pratici materiali, fini
oggettivi i motivi, principi pratici formali. I fini relativo appartengono alla sfera degli imperativi ipotetici.
Il fondamento dell’imperativo categorico deve essere qualcosa la cui esistenza in se stessa abbia valore
assoluto, qualcosa che, in quanto fine in se stesso, possa assurgere al ruolo di fondamento di determinate
leggi morali. L’essere razionale sussiste come fine in se stesso, non semplicemente come mezzo da
usarsi alla stregua di alcune volontà determinate, deve essere considerato non semplicemente come
mezzo, ma soprattutto insieme come fine. Con ciò si eliminano gli imperativi ipotetico come
fondamento dell’agire morale, dati dall’influenza delle inclinazioni, degli interessi circoscritti, dei
bisogni. Gli esseri privi di ragione sono meramente mezzi, l’uomo razionale è soprattutto il fine. L’uomo
come fine in se stesso è il principio oggettivo su cui si fonda l’agire morale.
2° postulato: Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua persona come nella persona di
ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo.
Esempi: con il suicidio l’uomo si riduce a mero mezzo, utilizzato per un fine altro, con la promessa ma con
la condizione di non poter estinguere obbligazione il promittente usa il promissario come mezzo, chi viola
i diritti umani usa l’altro come mezzo, così come il non perseguire la potenziale perfezione umana delle
capacità preserva la conservazione della società, non il suo promovimento. In questo ambito, l’umanità
diventa fine oggettivo, quindi sorge dalla ragion pura (promuovimento del fine altrui come fine in se
stesso per la felicità dell’umanità). Perciò:
3° postulato: Agisci in modo che la tua volontà, attraverso la propria massima, possa insieme
considerare se stessa come universalmente legislatrice (riassume 1° e 2° postulato).
Essa, essendo universalmente legislatrice, non dipende da alcun interesse, si fonda solo un imperativi
incondizionati. Si rende necessaria la conformità tra la propria potestà legislativa morale e la potestà
legislativa universale. Il dovere è necessitato da qualcos’altro. A ciò si aggiunge l’autonomia della
volontà, l’auto-normatività della ragion pratica, la capacità di autodeterminarsi in conformità di una
legge propria e universale.
Il concetto per cui ogni essere razionale è in se legislatore e suddito della legge morale conduce al regno
ideale dei fini.
La costrizione pratica intesa come dovere è quel principio, epurato da impulsi e inclinazioni soggettive,
fondante del rapporto reciproco tra esseri razionali, rapporto in cui la volontà deve essere sempre
considerata (leggi: agire) come legislatrice, perché altrimenti non si potrebbero pensare quegli esseri
razionali come fini in se stessi. La dignità dell’essere razionale sta nel suo percepire come dovere solo
la legge che egli si dà.
Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con
qualcosa di equivalente, ciò che ha una dignità non ammette alcun equivalente.
 Il prezzo di mercato si riferisce ai bisogni e alle inclinazioni (es fedeltà nel lavoro)
 Il prezzo di affezione appartiene a ciò che, senza presupporre un bisogno, è conforme ad un certo
gusto/compiacenza per il puro gioco senza scopo delle forze del nostro animo (es immaginazione
vivace e brillante)
 La dignità costituisce la condizione sotto la quale un qualcosa può essere fine in se stesso:
dunque solo la moralità attribuisce all’uomo una dignità. (es rispetto delle promesse e
benevolenza seconda principi – non per istinto)
L’uomo è potenzialmente membro di un possibile regno dei fini, sulla base della sua partecipazione alla
legislazione universale, di cui è fautore e suddito al contempo. La dignità umana si fonda sull’autonomia
della volontà, responsabile della formulazione di massime aventi:
 Una forma, consistente nell’universalità (1° postulato)
 Una materia, consistente nel fine (2° postulato)
 Una completa determinazione di tutte le massime (3° postulato): tutte le massime provenienti
dalla legislazione propria devono accordarsi con un possibile regno dei fini, come se fosse un
regno della natura.
Kant nella tripartizione dell’agire morale individua i tre momenti dell’unità, della molteplicità, della
totalità.
Se si vuole procurare accessibilità all’agire morale conviene far transitare un’azione attraverso i tre
momenti, e così facendo accostarla alla dimensione dell’intuizione.
Quindi, nell’agire morale, la volontà assolutamente buona è quella che non può necessariamente cadere
in contraddizione con sé stessa, fondata su una massima che può e può voler essere universalizzabile.
La legge universale è la stessa sia per l’ipotetico regno dei fini (legge universale della volontà per azioni
possibili) e per il regno della natura (leggi universale per l’esistenza della natura), perciò si potrebbe
anche sostenere che si debba agire secondo massime che possono insieme avere ad oggetto se stesse in
quanto leggi universali della natura (apertura al positivismo giuridico). E’ necessario astrarre qualunque
fine da attuarsi per porre come fine il fine in se stesso, ovvero il soggetto stesso di ogni possibile volontà
assolutamente buona. Il soggetto dunque si erge a suprema condizione limitativa nell’uso di tutti i mezzi,
per diventare il fine in se; un soggetto che assume la sua massima universalizzabile dal suo punto di vista
e dal punto di vista di tutti gli altri soggetti (autolegislazione e legislazione universale coincidono).
PROBLEMA: se “bisogna agire secondo massime di un membro universalmente legislatore di un regno dei
fini semplicemente possibile” è valida, tale legge resta nella sua piena forza categorica. Ma qui sorge il
paradosso tra la semplice dignità di ogni essere razionale e il suo fungere da inderogabile prescrizione
per la volontà.

Autonomia della volontà: il principio è “non scegliere se non in modo che le massime della propria scelta
siano concepite nello stesso atto del volere, insieme, come leggi universali”. E’ una proposizione sintetica
a priori, conoscibile a priori, comandata necessariamente dall’imperativo categorico.

Eteronomia della volontà: quando la volontà non cerca la conformità delle massime alle leggi universali
per determinare la legge, ma pretende di fondare questa su altri oggetti, ne risulta l’eteronomia. A
fornire la legge alla volontà non è la volontà stessa, ma l’oggetto. Il rapporto volontà-oggetto rende
possibile solo l’azione di imperativi ipotetici: devo fare qualcosa, perché voglio qualcos’altro. (nel
categorico, deve fare qualcosa senza volere qualcos’altro).
L’influsso di un oggetto esterno alla volontà comporta la determinante entrata in gioco
dell’interesse estraneo al puro agire morale. Ad esempio, devo promuovere la felicità altrui non
perché sia interessato in qualche modo alla sua esistenza, ma perché la massima che esclude
quella felicità non può essere concepita e voluta come legge universale (perché la sua negazione è
impossibile).

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