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Concetto di moralità che si indaga non è mai stato messo in discussione, per la necessità di quest’ultimo
nella realtà: piuttosto, i filosofi hanno fatto derivare la moralità da altri presupposti, errando, rendendo
la moralità prospettiva (in senso nietzschiano), circoscritta ad un’angolazione, un punto di vista soggettivo
di questa. Tentare empiricamente di stabilire la purezza della morale è non solo difficile a livello
casistico, ma addirittura impossibile. L’attuabilità della morale pura kantiana è potenzialmente possibile,
poiché bisogna tenere in conto, nell’agire umano, le inclinazioni e gli interessi personali (rappresentati
dagli imperativi ipotetici). L’analisi kantiana della moralità esula da qualsiasi dato contingente, anche
perché nessun esempio pragmatico potrebbe mai fondare il concetto astratto di moralità. La volontà
dell’agire morale, infatti, se si fondasse solo sulla sua derivazione empirica, non produrrebbe alcuna
massima universalizzabile. Tutte le pseudomorali popolari non conformi alla teoria kantiana della ragion
pratica sono tali in quanto prive di fondamenti autentici (tutto ciò che è empirico non è solo inutile per la
purezza della morale kantiana, ma anche dannoso). La purezza della morale kantiana risiede nel suo
trattarsi di un’analisi assolutamente teoretica, a priori, ma volta alla sua attuazione pratica. I concetti
morali hanno la loro origine unicamente a priori nella ragione, la loro purezza è fonte della loro stessa
dignità. L’essere razionale ha la facoltà di agire secondo la rappresentazione delle leggi. Se la volontà è
conforme alla ragione, la massima è universalizzabile; se la volontà è difforme, ciò che sarà
oggettivamente necessario diverrà soggettivamente contingente, rendendo l’effetto della costrizione. La
rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto costrittivo per la volontà, è definito comando
(della ragione) e la formula del comando è l’imperativo. Tutti gli imperativi esprimono un Sollen, un
dover essere, che varia a seconda del rapporto della legge oggettiva con l’autonomia della volontà, che,
per costituzione soggettiva, non comporta esiti causalistici/deterministici. La volontà umana non è
perfetta: se tale fossa, potrebbe determinarsi da sé la rappresentazione del bene in senso morale, non
sarebbe costretta. Gli imperativi dunque possono comandare ipoteticamente o categoricamente. Gli
imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per giungere ad
un dato fine. Gli imperativi categorici rappresentano un’azione come in se stessa oggettivamente
necessaria. L’imperativo è ipotetico se l’azione è buona semplicemente come mezzo per qualcos’altro, è
categorico se l’azione è rappresentata come buona in sé, necessaria per una volontà conforme a ragione.
L’ipotetico dice soltanto se l’azione sarebbe buona per uno scopo possibile (principio problematicamente
pratico) o per uno scopo reale (principio assertoriamente pratico). Il categorico, definendo l’azione
come per sé oggettivamente necessaria, senza relazione ad alcuno scopo, vale come principio
apoditticamente pratico.
Gli imperativi (regole) in vista di uno scopo possibile sono detti imperativi dell’abilità/tecnici
(ipotetico-problematici), in cui l’azione è necessaria per raggiungere uno scopo, una finalità
conseguibile. Kant non esamina la qualità del fine (se sia razionale e buono), ma il modo per
conseguirlo: infatti, ritiene sullo stesso piano per l’aspetto procedurale i precetti del medico per
guarire e quelli dell’avvelenatore per uccidere (stesso valore, entrambi attuano perfettamente il
loro scopo)
Gli imperativi (consigli) in vista di uno scopo reale (felicità come scopo inerente alla struttura
ontoesistenziale umana) sono detti imperativi della prudenza/pragmatici (ipotetico-assertori): lo
scopo non è incerto o solo possibile, è reale in quanto si può presupporre con certezza e a priori in
ogni uomo per la sua stessa essenza. L’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo
benessere è definita prudenza (in senso duplice, di influenza su altri per raggiungere i propri scopi
e di unificazione degli scopi per un proprio durevole vantaggio). Ma, siccome azione non viene
comandata in modo assoluto, bensì solo come mezzo per un altro scopo, è sempre un imperativo
ipotetico.
Gli imperativi (comandi) che comanda un comportamento senza alcun altro scopo sono detti
imperativi della moralità/morali (categorici).
Autonomia della volontà: il principio è “non scegliere se non in modo che le massime della propria scelta
siano concepite nello stesso atto del volere, insieme, come leggi universali”. E’ una proposizione sintetica
a priori, conoscibile a priori, comandata necessariamente dall’imperativo categorico.
Eteronomia della volontà: quando la volontà non cerca la conformità delle massime alle leggi universali
per determinare la legge, ma pretende di fondare questa su altri oggetti, ne risulta l’eteronomia. A
fornire la legge alla volontà non è la volontà stessa, ma l’oggetto. Il rapporto volontà-oggetto rende
possibile solo l’azione di imperativi ipotetici: devo fare qualcosa, perché voglio qualcos’altro. (nel
categorico, deve fare qualcosa senza volere qualcos’altro).
L’influsso di un oggetto esterno alla volontà comporta la determinante entrata in gioco
dell’interesse estraneo al puro agire morale. Ad esempio, devo promuovere la felicità altrui non
perché sia interessato in qualche modo alla sua esistenza, ma perché la massima che esclude
quella felicità non può essere concepita e voluta come legge universale (perché la sua negazione è
impossibile).