Non so bene perché, ma avevo deciso di portarmi al
locale, tutte le sere, uno dei miei technics, che tenevo disposto su una scaffalatura nera posizionata strategicamente vicino all’ingresso dei bagni: forse per far colpo sui resident, sui giovani folignati più in vista, sugli aficionados di passaggio. Forse per scimmiottare un po’ gli ospiti e i dj, nella vaga speranza di migliorare la mia tecnica. A un certo punto scopro, una sera, che il giradischi non c’è più. Mi sembrava di averlo portato un po’ prima rispetto alle altre volte, quindi forse c’è una ragione ben precisa per cui è stato portato via. Cerco in giro, chiedo informazioni, ma nessuno mi dà retta, forse per via della musica a tutto volume. Alla fine riesco a fermare un ragazzo dall’aria annoiata, e mi dice che, se non trovo il mio giradischi, è perché probabilmente è stato portato via da una compagnia di pulizie nota come “Trump 50”. Gli addetti devono averlo scambiato per uno degli oggetti appartenenti all’ospite. Il ragazzo mi tratta in modo quasi irrisorio, sembra stupito che non sappia di questa compagnia, molto famosa. Mi dileguo e mi precipito dentro i bagni, ritrovandomi in una serie di corridoi metallici che si intersecano e si sovrappongono tra loro, alcuni dei quali affiancati da dei lunghi tapis roulant, come quelli degli aeroporti. Sono sicuro di poter trovare il mio giradischi da qualche parte. Fermo diversi personaggi, tutti aventi dei tratti in comune e accomunabili in due categorie: la prima è composta da giovani uomini e donne più o meno miei coetanei, vestiti in modo puntiglioso secondo i dettami della moda indie e underground. La seconda, invece, racchiude una sfilza di omaccioni con tratti somatici tipicamente umbri (vagamente villosi, con un po’ di pancia, nasi a patata e calvizie o chierica). Nella disperata ricerca del mio apparecchio, ricevo sempre lo stesso trattamento: il primo gruppo di individui si comporta con me in modo seccato, snob, ostentando platealmente il disturbo che la mia presenza provoca in loro. Il secondo è più loquace, ma non meno irrispettoso: spesso mi rispondono con risate e battute, e quando chiedono ulteriori chiarimenti lo fanno solo per deridermi ulteriormente e ridicolizzare il problema. Sono convinto che cercano di farmi sentire un po’ colpevole per aver abbandonato un giradischi di marca in quel modo, così improvvidamente. Giungo a un gruppo di scrivanie, simili a quelle dei coworking. Davanti ai computer, stanno seduti ragazzi e ragazze della prima risma, possibilmente ancora più apatici. Navigano su Internet, perlopiù su Facebook, scorrono qualche articolo di musica, un paio di immagini, chattano, ma senza alcun segno di luce nei loro occhi, solo un profondo senso di disgusto. Noto che uno dei ragazzi sta giocherellando con un apparecchio d’acciaio: si tratta di tre stanghe metalliche incastrate tra di loro, che realizzano la forma di una H dall’aria sghemba e avveniristica. Somiglia molto a un vecchio logo di Mu-Ziq. Quando gli chiedo che cos’è quell’oggetto dall’aspetto di un artefatto alieno il tizio, con poche parole, lo rimonta, rivelando le sue reali sembianze: quelle di un vecchio mouse, dai pulsanti piccoli e il bordo prolungato, con un grande bottone centrale grigio al posto della rotella, simile a quelli dei primi anni 2000. In effetti mi ricorda molto l’attrezzatura informatica che avevamo alla Dante Alighieri. Sono sorpreso, ma in parte un po’ deluso: un vecchio mouse che può essere scomposto e rimontato in delle forme astratte? Non ne colgo l’utilità. “È un oggetto molto costoso.” dice il tipo con aria di rimprovero. Devo averlo colto in un punto sensibile e mi guarda con una certa rabbia acida dipinta sul volto. Anche i suoi colleghi mi osservano come se avessi detto chissà quale eresia. Sempre più a disagio, me ne vado. Mi avvicino a un omaccione dai tratti umbri, che va in giro con una cartellina: forse lui sa che fine ha fatto il mio giradischi. Ormai temo che sia troppo tardi, è questione di minuti prima che il mio piatto venga impacchettato e spedito chissà dove. Gli spiego la situazione, e lui mi risponde a tratti, dando l’impressione di sapere qualcosa, ma di non volermela dire. Tra una frase e l’altra, ride sottecchi e mi guarda con due occhietti divertiti. Intanto si è formato un nugolo di persone attorno a me, composto eterogeneamente da hipster e umbri. Ormai non ne posso più di loro: mi sento umiliato e offeso dal modo in cui mi trattano. Tiro pugni e schiaffi a destra e sinistra, ma le loro facce sono come di gomma. Assorbono i miei colpi senza batter ciglio, quasi come avessero gli stessi poteri di Gommaflex, l’arci nemico di Alan Ford e del Gruppo TNT. Notando che i miei tentativi di venire alle mani sono inutili, cesso e di rimando i miei aguzzini si fanno più allegri e strafottenti. Mettono mano ai loro smartphone e postano su Facebook quanto avvenuto, con abbondante uso di meme e immagini umoristiche. Una delle più graffianti è un ritratto in versione cartoon di tutti gli astanti, con dei bersagli da tirassegno del Luna Park al posto delle facce, e una serie di numeri a indicare il punteggio di ciascuno. Intuisco che sia un modo per prendersi gioco del mio forsennato picchiare senza alcun risultato. Rassegnato e incupito, accedo a Facebook dal mio smartphone e metto un like a ciascuno di quei post, sancendo così, in modo definitivo, la mia irrevocabile sottomissione.