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La paura e i suoi inganni Laura Occhini

Occhini  La paura e i suoi inganni


«L a paura è il segno di un’umile nascita», così recita un detto popola-

LA PAURA
re. E i motti, i proverbi, gli stereotipi del pensiero sono quasi sem-
pre gli schemi culturali semplificati con i quali proviamo a decodificare il
mondo che ci circonda. Se questo è vero, alla paura riserviamo una valu-

E I SUOI INGANNI
tazione indubbiamente negativa. È possibile vivere senza aver paura? A
cosa serve la paura? Ammesso che abbia una qualche funzione oltre ren-
derci incapaci di agire razionalmente. E se potessimo avere in dono l’op-
portunità di non aver più paura? È possibile non aver paura di avere pau-
ra? Non vergognarsi di tremare, di arrossire, di sudare o di aver voglia di
nascondersi? L’autrice risponde a queste e ad altre domande. Il suo per-
corso parte dalle paure dei bambini e dalle modalità con cui si apprende
la paura, passando per le manifestazioni verbali e non verbali, fino ad ar-
rivare a descrivere le “patologie” della paura e i loro effetti nella esisten-
za dell’uomo.

L aura Occhini, specialista in Psicologia clinica, è ricercatrice di Psicologia dello svi-


luppo presso l’Università degli Studi di Siena, dove insegna Psicologia dello sviluppo
e Psicologia del lavoro. Fra le sue pubblicazioni: L’individuo nelle organizzazioni; Il cor-
po e l’altro. Imparare la comunicazione non verbale (con R. Raffagnino); Psicologia dello
sport (con L. Terreni); Atteggiamenti e comunicazione (con G. Gocci).

In copertina ISBN 978-88-548-8888-8


Andrea Scartoni, Pura Essenza.
Aracne

xx,00 euro 9 788854 821217


Aracne editrice

www.aracneeditrice.it
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Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale

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I edizione: dicembre 


La bellezza del mondo ha due tagli, uno di
gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il
cuore.

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé


Indice

11 Nota dell’autore

13 Introduzione

17 Capitolo I
Le emozioni

1.1. Cosa sono le emozioni?, 17 – 1.2. Neuropsicologia delle emozioni, 29


– 1.3. Le emozioni fondamentali, 47

63 Capitolo II
La paura

2.1. Cos’è la paura?, 63 – 2.2. Le manifestazioni della paura, 76 – 2.2.1.


Laura Occhini e Antonio Pulerà: «Paura e paure: quali parole? Breve inda-
gine qualitativa», 85 – 2.3. Le paure da circuito primitivo, 92 – 2.4. Laura
Occhini e Antonio Pulerà: Le paure naturali: breve indagine qualitativa»,
97 – 2.5. Apprendere la paura, 108 – 2.5.1. Disturbi correlati a eventi trau-
matici e stressanti, 115 – 2.6. L’apprensione sociale: la paura dell’altro o
la paura sociale, 119.

129 Capitolo III


Ansia e fobie

3.1. I disturbi ansiosi: un tentativo di definizione, 129 – 3.2. La personalità


premorbosa, 132 – 3.3. I disturbi d’ansia, 138 – 3.4. Le fobie (fobia speci-
fica), 149.

171 Glossario

193 Ringraziamenti

195 Bibliografia

211 Indice analitico

9
Introduzione
Sedulo curavi humanas actiones non ridere,
non lugere, neque destestari, sed intelligere.
[B. Spinoza – Trattato politico]

Clinicamente parlando – ed escludendo l’apprensione sociale (


119), che può considerarsi un fenomeno estensibile a qualsiasi perso-
na, o la timidezza ( nota 23, 122) che è un semplice tratto caratteria-
le non patologico – i disagi da paura rientrano nei cosiddetti disturbi
d’ansia.
Chi soffre di questi disturbi ha grandi difficoltà a riconoscere il
proprio disagio e si limita ad attribuirlo a difficoltà generiche. È molto
comune, infatti, sentir affermare: «…sono solo timido»; «…sono solo
un po’ depresso»; «…mi manca solo un po’ più di stima in me stesso»
a quanti, in realtà, soffrono di un disturbo clinicamente inquadrabile.
Queste difficoltà creano in chi ne soffre stati accentuati di ansia e
interferiscono negativamente sulle attività sociali, lavorative e relazio-
nali dell’individuo che, non riconoscendo il suo disagio come malat-
tia(*), tende a mettere in atto soluzioni che in realtà aggravano il suo
stato e tendono a isolarlo dal contesto sociale in cui è inserito (ad
esempio: evitare le situazioni sociali ansiogene; il ritiro sociale; il ri-
fiutare posizioni lavorative che lo espongono al giudizio degli altri;
etc.).
Curiosamente poi, il disagio del soggetto non è neppure riconosciu-
to dalle persone che gli vivono accanto. Facile riconoscere o percepire
la depressione [(*) Depressivi (disturbi)]. di un collega, di un amico o
di un parente! Difficilissimo, invece, essere consapevoli della soffe-
renza di un soggetto timido o che patisce una ansia sociale ( 146) .
Come esempio basti sapere che è molto improbabile che un bambi-
no con fobia scolare ( 147) giunga all’osservazione di uno psicolo-
go. La fobia scolare è una particolare forma infantile o adolescenziale
di ansia sociale in cui il bambino (o l’adolescente) sviluppa una parti-
colarissima forma di avversione nei confronti dell’ambiente scolastico

13
14 Introduzione

ma non delle attività connesse alla scuola. Per cui il rendimento scola-
stico risulta nella norma per l’età e per le capacità cognitive del sog-
getto ma l’individuo che ne soffre è impossibilitato a frequentare in
maniera costante l’ambiente scolastico per l’eccessiva ansia che prova
nel momento in cui deve entrare in aula. Comunemente, purtroppo,
questo disturbo non è tempestivamente diagnosticato perché le fre-
quenti assenze, le fughe dall’aula, lo stato d’ansia del soggetto, ven-
gono interpretate dagli insegnanti come comportamenti da soggetti la-
vativi ( 148). I genitori, dal canto loro, si limitano a definire il pro-
prio figlio come «…uno che fa i capricci!». Un circolo vizioso che
acuisce il disagio e che produce, alla lunga, un’ansia quasi cronica
(con tutto quello che ciò comporta). L’ansia sociale dell’adulto, pari-
menti, viene percepita dal soggetto che ne soffre come una propria de-
bolezza caratteriale che gli impedisce di esporsi, di prendere la parola
in pubblico, di far valere le proprie ragioni, di esprimere la propria
opinione o, molto più banalmente, di mangiare in pubblico. La prima
reazione è quella di combattere tale disagio imputandolo a semplice
timidezza ma l’ansia che deriva da questo disturbo non è paragonabile
all’apprensione del timido e neanche così facilmente superabile. Al
contrario: ogni volta che l’individuo si espone a situazioni sociali, per
lui ansiogene, sperimenta una sempre crescente angoscia che sfocia, a
volte, in veri e propri attacchi di panico ( 143) fino a che, per il
soggetto, diventa difficile anche solo entrare in un ristorante o in un
bar. Tale aumento dell’ansia lo porta a mettere in atto una serie di
meccanismi comportamentali atti a evitare le situazioni ansiogene e a
rinchiudersi, sempre di più, in ambienti tranquillizzanti. Dall’esterno,
tale comportamento, è interpretato nella maggioranza dei casi come
“chiusura”, “rigidità”, “asocialità”.
Questi particolari disturbi sono profondamente legati alla sperimen-
tazione di specifiche emozioni. Sono, a grandi linee: la vergogna,
l’imbarazzo, il senso di colpa sperimentati da chi si trova nel disagio
della timidezza e dell’ansia sociale (emozioni da ritiro sociale). Ma
anche la derisione, il disprezzo o la pena di chi, invece, osserva e giu-
dica la persona in difficoltà (emozioni valutative).
Lo scopo di questo testo è quello di tentare un inquadramento or-
ganico dell’argomento inerente i disagi da paura dell’altro non per-
dendo mai di vista l’aspetto evolutivo dei fenomeni trattati. Nella pri-
ma parte, quindi, si tenta di fornire una breve ma, si spera esauriente,
Introduzione 15

descrizione delle emozioni (il meccanismo psicologico attivatore per


eccellenza) con un richiamo specifico alle emozioni fondamentali
emozioni ( capitolo 1). Sarà poi trattata la “paura” come emozione
fondamentale e come emozione di base di tutti i disagi (capitolo 2) e
di tutti i disturbi patologici che verranno poi analizzati nel terzo capi-
tolo ( capitolo 3). Solo dopo aver trattato le basi teoriche portanti ci
addentreremo nel nucleo vero e proprio del volume: l’apprensione so-
ciale e la timidezza che, per quanto fonte di profondo disagio, non si
connotano come tratti patologici. Nell’ultima parte inizieremo col de-
finire i tratti salienti delle strutture cognitive che caratterizzano le per-
sonalità premorbose e prenderemo in considerazione gli aspetti clinici
dei disturbi d’ansia che coinvolgono l’immagine sociale dell’indivi-
duo e che lo portano, gradualmente, al ritiro sociale.
A differenza di alcune tendenze generalizzate e largamente pubbli-
cizzate dai media, questo testo non conterrà alcuna indicazione di trat-
tamento per l’apprensione sociale e per la timidezza. Chi scrive non le
considera forme di disagio patologico e, di conseguenza, non ritiene
opportuno considerarle “curabili”. Non c’è niente da curare perché
non sussiste niente di patologico nel provare imbarazzo di fronte a
certe situazioni sociali così come, la timidezza, non ha supporti noso-
grafici [(*) Nosografia] per essere inquadrata come disagio mentale né,
di contro, esistono ancora studi che possano sostenere con assoluta
certezza che la timidezza sia un segno prodromico dell’ansia sociale o
del disturbo evitante di personalità. La timidezza, in nessuna epoca
storica, è stata considerata come malattia(*), solo oggi parliamo di pil-
lole antitimidezza. Oggi: dove l’apparire conta molto più del rispetto
verso l’essere!
Capitolo I

Le emozioni
Le emozioni provate nei primi anni di vita, e altre sen-
sazioni che hanno suscitato gioia o dolore, lasciano
tracce indelebili che condizioneranno le nostre azioni e
reazioni nell’intero corso dell’esistenza
[R. Levi Montalcini – Elogio dell’imperfezione]

1.1. Cosa sono le emozioni?

Cosa s’intende per emozione? A grandi linee potremmo affermare che


l’emozione è quella…
[…] complessa catena di eventi che incomincia con la percezione
di uno stimolo e finisce con una interazione fra l’organismo e lo
stimolo che ha dato avvio alla catena di eventi. Le maggiori com-
ponenti della catena sono una valutazione cognitiva dello stimolo,
una esperienza soggettiva o “sentimento”, un’eccitazione fisiologi-
ca, un impulso all’azione o comportamento manifesto. [Plutchik,
1983]
Ma in cosa consiste questa “catena di eventi” che riesce a interessa-
re e coinvolgere un gran numero ricercatori? Ecco: su questo
l’accordo è tutt’altro che definitivo! Per il semplice motivo che de-
scrivere ciò che avviene tra lo stimolo e il comportamento che segue
la sensazione emotiva, non è facile da categorizzate in maniera esplici-
ta e soprattutto univoca.
Non pochi sono stati gli Autori che hanno tentato di fornire una de-
finizione che potesse chiudere la questione teorica ma, a oggi, riman-
gono aperti molti spazi d’indefinitezza e di ambiguità. Fra gli studi più
completi e articolati – fatti per tentare di mettere ordine fra le molte-
plici definizioni dell’emozione – è d’obbligo citare il lavoro di Klen-
ginna e Klenginna [1981]. Gli Autori, raccogliendo le definizioni pre-
senti in letteratura fino al 1980, presentarono più di cento categorie

17
18 Capitolo I

definitorie, molto spesso tra loro contrastanti; nei successivi 30 anni,


nonostante la mole di produzione scientifica in argomento, il problema
della definitiva categorizzazione del fenomeno non si è molto modifi-
cato rispetto ai risultati della ricerca metanalitica dei due Autori citati.
In questo contesto possiamo però provare a fornire risposte descrit-
tive che – tendenzialmente – si rifanno a quattro fondamentali gruppi
epistemologici:
a) la teoria evoluzionista [Darwin, 1872; Diamond, 1991; Tomkins
1962;1963; Ekman, 1972;1973; Izard, 1977] in cui si afferma che
l’emozione costituisce un’efficace funzione adattiva: procura a li-
vello fisiologico delle reazioni inequivocabili che permettono
all’individuo di reagire all’ambiente in maniera adeguata così da
favorire la sua sopravvivenza, il raggiungimento di precisi scopi,
la comunicazione sociale del proprio stato e l’adattabilità al con-
testo [La Vergata, 1988]. Fra gli Autori citati, Ekman e Izard –
più di altri – hanno fornito interessanti spunti allo sviluppo di
questa prospettiva teorica con la tesi innatista della espressione
facciale delle emozioni che rafforza l’ipotesi dell’esistenza di
emozioni primarie (più avanti, in questo stesso paragrafo, le ana-
lizzeremo in dettaglio). Secondo questo principio teorico, le altre
emozioni sono da definirsi secondarie, complesse (perché frutto
della complessificazione delle emozioni di base) o derivate (per-
ché frutto della sovrapposizione di diverse emozioni primarie di-
screte – teoria tavolozza).
b) La teoria fisiologica [James, 1884; Lange, 1885; Cannon, 1927;
Bard, 1934a-b; Damasio, 1999]. James fu il primo a introdurre, con
la teoria periferica delle emozioni, l’ipotesi che, apparentemente
contro ogni senso comune, l’emozione non è altro che una reazio-
ne fisiologica specifica dell’organismo cui la mente tende ad adat-
tarsi e a fornire significato attraverso una interpretazione sogget-
tiva. Ossia: gli elementi cognitivi che sostengono una emozione
non precedono gli stati organici di attivazione ma, al contrario,
sono proprio le reazioni fisiologiche a determinare la percezione
cognitiva della emozione. Equivale a dire che non è vero che ci
s’irrigidisce, si trema e si suda perché si ha paura, ma che è
l’azione di tremare o sudare che ci fa concludere di avere paura.
Per quanto paradossale possa sembrare questa teoria – e per quan-
te critiche possa aver ricevuto – è utile sottolineare che essa ha ot-
Le emozioni 19

tenuto forti sostegni soprattutto da un punto di vista sperimentale.


Tra questi, i lavori di Schachter e Singer [1962]. Gli Autori pro-
posero un interessante esperimento in cui somministrarono adre-
nalina [(*) Catecolamine] a tre differenti gruppi di partecipanti. Il
primo gruppo fu informato dei reali effetti fisiologici del farmaco;
il secondo gruppo ottenne delle informazioni false mentre al terzo
gruppo non fu fornito alcun genere di informazioni. Nel corso
dell’esperimento ciascun gruppo fu sottoposto a sollecitazioni
emotive da parte dei complici dello sperimentatore. I risultati fi-
nali indicarono che sia coloro che non avevano ricevuto alcuna in-
formazione sul farmaco somministrato, sia chi era stato falsamen-
te informato circa i suoi possibili effetti, attribuì alla provocazione
emotiva lo stato fisiologico alterato: ossia, questo veniva interpre-
tato come uno stato emotivo coerente con la tipologia di provoca-
zione. Al contrario: gli appartenenti al primo gruppo (quelli cor-
rettamente informati sulle caratteristiche della adrenalina), attri-
buirono agli effetti della sostanza l’alterato stato fisiologico, senza
lasciarsi coinvolgere, a livello comportamentale, dalle sollecita-
zioni emotive degli sperimentatori. Questi Autori, nonostante le
critiche ricevute sulla metodologia sperimentale proposta [Frijda,
1986], sono riusciti a dimostrare quanto sostenuto ottant’anni
prima da James: che molto spesso è l’attivazione neurofisiologica
a produrre un feedback cognitivo e non il contrario [Ricci Bitti e
Caterina, 1996]. Alla teoria periferica di James e Lange si con-
trappone la ricerca scientifica di Cannon [1927] che, con la teoria
centrale, sostiene che le emozioni presentano tutte la stessa confi-
gurazione fisiologica delle reazioni di emergenza ( Arousal, 32)
e che solo successivamente vengono categorizzate a livello sen-
soriale e percettivo. Nonostante la loro apparente contrapposizio-
ne, la teoria centrale e quella periferica, possono considerarsi en-
trambe valide perché, entrambe, hanno colto aspetti fondamentali
del vissuto emotivo. Va però sottolineato che esse si limitato ad
analizzare le emozioni da un punto di vista esclusivamente biolo-
gico.
c) La teoria costruttivistica (culturalista) [Mead, 1928; Averill,
1982; Harrè, 1986] in cui le emozioni sono considerate parte del
ruolo sociale assunto da una persona all’interno di una cultura
specifica. In ogni cultura, quindi, a un’emozione è assegnato un
20 Capitolo I

carattere di specificità che è tipica solo di quel gruppo umano.


Perciò sia la loro tipologia, sia la loro modalità espressiva varia da
un gruppo sociale a un altro e da cultura a cultura rispetto al ruolo
ricoperto dall’individuo. In questo senso le emozioni sarebbero un
fenomeno utile a regolare le interazioni sociali e la socializzazio-
ne stessa [Armon-Jones, 1986a-b].
d) La teoria cognitivista [Scherer, 1984a, 1997b; Reda, 1986; Oatley
e Johnson-Laird, 1987; Leventhal e Scherer, 1987; Cionini, 1991]
in cui le emozioni sono interpretate come la conseguenza dei no-
stri meccanismi di pensiero riguardo alla situazione che ha scate-
nato la reazione emotiva. Ne consegue che l’emozione assume
l’aspetto di un processo squisitamente soggettivo e strettamente
dipendente alle esperienze pregresse dell’individuo e alle sue
aspettative riguardo l’evento in atto. L’esperienza emotiva, quin-
di, si costruisce a partire dalla valutazione cognitiva delle sensa-
zioni corporee e dalla percezione dell’attivazione neurofisiologica
che vengono valutate in maniera diversa secondo le influenze so-
cio-relazionali, socioesperenziali e motivazionali del soggetto
[Izard, Kagan e Zajonc, 1984].
Esiste, fra queste, una teoria valida in assoluto? Forse in ognuna di
esse è possibile rintracciare una forma di spiegazione al fenomeno
emotivo in sé. Dal punto di vista di chi scrive, la teoria cognitiva in-
sieme a quella psicoevoluzionista, sembra fungere da modello integra-
to (e allo stesso tempo euristico) capace di considerare contempora-
neamente tutte le posizioni precedenti che – pur valide in sé – rischia-
no di costituire un modello selettivo e parziale se assunte, singolar-
mente, a unica validità teorica [Liotti, 2005].
Resta ancora il problema di definire in cosa consiste la citata “cate-
na di eventi”. Innanzitutto la definizione sfugge proprio perché tradur-
re in forma linguistica il processo emotivo rischia di relegarlo a un pu-
ro fenomeno fisiologico e perché tentare di esplicitarlo all’inter-no di
un inquadramento teorico lo spoglia della sua complessità [Reda,
2005]. Non sarò certo io a tentare di dare al lettore una definizione
presuntuosamente conclusiva di un fenomeno che sfugge alle defini-
zioni per sua stessa natura, ma posso provare a fornire una descrizione
dell’evento emozionale attraverso l’esplicitazione di alcune sue carat-
teristiche general-umane e chiarendo che, per considerarlo nella sua
Le emozioni 21

completezza, dovremmo prendere in considerazione tutti i presupposti


teorici esposti sopra.
Le emozioni, infatti, richiedono di essere analizzate attraverso una
lente teorica multicomponenziale [Scherer, 1984b] e vanno conseguen-
temente considerate come un punto di scambio di sistemi di riferimen-
to tra l’organismo e l’ambiente circostante [Damasio, 1994]. Il punto
centrale di questa lettura del fenomeno è che, ogni esperienza emotiva,
viene incamerata come un’informazione in entrata che viene sottopo-
sta automaticamente a una serie di controlli nel momento in cui viene
esperita dall’individuo. Questo sistema di controllo è organizzato ge-
rarchicamente in modo tale che la valutazione degli stimoli prenda in
considerazione sia i livelli fisiologici di attivazione, sia i livelli onto-
geneticamente legati alla sopravvivenza e alla conservazione della
specie, sia i livelli cognitivamente più complessi legati agli aspetti in-
dividuali e sociali connessi allo stimolo emotigeno e al comportamen-
to successivo scatenato dell’emozione.
Leventhal e Scherer [1987] definirono questi controlli con la sigla
SEC (Stimulus Evaluation Check ) organizzandoli secondo cinque diffe-
renti criteri valutativi:
a) SEC «a» – la prima forma di controllo riguarda l’analisi cognitiva
dell’aspetto di novità dello stimolo emotigeno e cataloga la situa-
zione sulla base delle sue caratteristiche di prevedibilità/impreve-
dibilità. Genericamente, alla base di questo meccanismo di con-
trollo potremmo collocare l’emozione primaria della sorpresa, che
gli Autori fanno rientrare nella categoria definita emozioni startle
( tabella 1.5., 59) in cui i meccanismi neurofisiologici dell’or-
ganismo si attivano con estrema rapidità per verificare l’adat-
tabilità alla situazione e per valutare la possibilità di un rischio per
la sopravvivenza o il benessere dello stesso.
b) SEC «b» – la seconda forma di controllo riguarda l’analisi cogni-
tiva dello stimolo emotigeno nei suoi aspetti di piacevole-
za/spiacevolezza; praticamente un’analisi della qualità e del tono
edonico [(*) Edonia] dell’esperienza in atto.
Il SEC «b» permette all’individuo di operare una distinzione delle
emozioni in classi positive e negative ( tabella 1.5., 59). Se conside-
riamo l’emozione un costrutto con funzioni adattive ed evolutive,
dobbiamo ipotizzare che ogni tipologia emotiva porti con sé la capaci-
22 Capitolo I

tà cognitiva di distinguere ciò che è potenzialmente “cattivo” da ciò


che è “buono”, ciò che è “bello” da ciò che è “brutto” in termini di
esperienza estetica1 legata alla sopravvivenza. Di conseguenza, per-
metterebbe di individuare ciò che risulta funzionale all’adattamento da
ciò che mette a rischio il benessere e la sopravvivenza [Arnold, 1960;
1970; Damasio, 2003].
Partendo da questo principio di base, il tono edonico di una emo-
zione (quindi il suo grado di piacevolezza/spiacevolezza) è profonda-
mente connesso a un vissuto esperienziale che determina un moto
comportamentale finalizzato ad avvicinare la fonte dello stimolo emo-
tigeno (qualora questa sia categorizzata come buona/bella) o – al con-
trario – volto ad allontanarsi da questa (se, al contrario, è valutata co-
me cattiva/brutta).
Definiamo questa caratteristica tropismo emotivo [(*) Tropismo], un
termine che Bonesso [2008] ha preso a prestito dalla biologia per
estenderlo al comportamento emotivo e per indicare la tendenza com-
portale alla prossimità nei confronti di ciò che risulta gradevole, bello,
buono (tropismo positivo) o – al contrario – la tendenza ad allontanar-
si da tutto ciò che risulta spiacevole, sgradevole, brutto, cattivo (tropi-
smo negativo).
Il tropismo emotivo si caratterizza in base al “coefficiente” (ossia
rispetto ai singoli elementi che concorrono a definire l’evento emoti-
geno) e al “gradiente” (ossia la variazione di intensità con cui una
emozione viene sperimentata). Per semplificare il concetto: nella pau-
ra (tema di questo lavoro  capitolo 2), il coefficiente tropico negati-
vo aumenta tanto quanto si riduce la vicinanza con lo stimolo emoti-
geno fobico, tanto più questo risulta minaccioso, quante meno sono le
possibilità di fuggire o di neutralizzarlo. Il gradiente tropico negativo,
invece, si riferisce esplicitamente ai differenti gradi di intensità di una
emozione: l’apprensione ( 91) – pur appartenendo alla famiglia del-
le emozioni derivate dalla paura – ha un gradiente significativamente
1
L’esperienza estetica a cui si lega il concetto di bello e di brutto non si riferisce, in que-
sto contesto, alla mera esperienza visiva di piacevolezza o spiacevolezza. Si riferisce, tecni-
camente, alla funzione epistemica della buona forma di un oggetto/evento; alla funzione co-
gnitiva di classificare oggetti ed eventi in base alle loro principali caratteristiche (impulso tas-
sofilo – Morris, 1977) per poi orientarsi verso quelli ritenuti gratificanti, desiderabili, non pe-
ricolosi, tranquillizzanti e che tendono a soddisfare la naturale propensione all’omeostasi
dell’organismo e alla ricerca dell’equilibrio ideale [Argenton, 1993, 1997, 2009:. Arnheim,
1974, 1977, 1982, 1986].
Le emozioni 23

inferiore a quello del terrore ( 90) che, pur conspecifica, è una espe-
rienza emotiva molto più pervasiva e destabilizzante.

Fig. 1.1. – SEC «b», tono edonico e tropismi comportamentali

Osserva la figura 1.1.: ogni emozione produce nell’individuo un


tono edonico coerente e specifico con la classe emotiva a cui appartie-
ne (positiva/negativa).
Il tono edonico, poi, ha effetti diretti su tre aree del vissuto sogget-
tivo dell’individuo:
- quello personale, in cui l’esperienza emotiva è vissuta interior-
mente e in maniera totalmente tacita. Il tono edonico emotivo
negativo produce insoddisfazione, frustrazione, senso di perdita
e di ingiustizia mentre il tono edonico positivo innesca vissuti
legati alla gratificazione del sé. Da questo punto di partenza
l’organismo sperimenta la tendenza a muoversi a livello com-
portamentale (tropismo emotivo);
- sul piano relazionale (se l’emozione è provocata da una situa-
zione sociale che include l’interazione fra individui) il tropismo
positivo punta alla affiliazione, alla cooperazione, allo scambio
e all’attaccamento; di contro, il tropismo negativo si sostanzia
nel distacco affettivo, nell’ostilità e nell’inimicizia;
- sul piano comportamentale il tropismo emotivo negativo tende a
orientare il comportamento in modo da neutralizzare l’oggetto
24 Capitolo I

emotigeno (attacco) o i suoi effetti (fuga e mimetizzazione). Il


tropismo emotivo positivo tenderà, invece, a favorire la vicinan-
za della fonte dell’emozione e a facilitarne la ricerca attiva
c) SEC «c» – la terza forma di controllo riguarda la valutazione del-
lo stimolo emotigeno nei suoi aspetti di impedimento/facilitazione
o, più semplicemente, se l’evento in atto può impedire all’indivi-
duo di raggiungere degli scopi considerati prioritari.
d) SEC «d» – la quarta forma di controllo si riferisce alla valutazione
dello stimolo emotigeno in termini di controllabilità/incontrol-
labilità dell’evento rispetto alle conoscenze che l’individuo pos-
siede su di sé, sulle proprie capacità di far fronte sia allo stimolo
in quanto tale sia rispetto ai risultati di tutte le valutazioni prece-
denti e soprattutto sulla base delle eventuali conseguenze di un
comportamento di risposta. Sostanzialmente, potremmo immagi-
nare questo quarto SEC come la valutazione cognitiva sul proprio
potere di controllare l’evento che ha scatenato la reazione emotiva
(generalmente a valenza negativa), le proprie possibilità di fron-
teggiarne adeguatamente gli effetti e le proprie capacità nel gesti-
re l’intensità dell’emozione.
La “controllabilitá” si sostanzia in una positiva valutazione delle
proprie potenzialità di fronteggiare l’evento (strategie di coping [(*)
Coping]). Tecnicamente è una forma di coping attivo (o coping di
fronteggiamento), ossia una predisposizione e preparazione dell’orga-
nismo a entrare in azione. Può essere un coping attivo primario se
l’individuo ha (o presume di avere) le capacità necessarie per fronteg-
giare la situazione che ha scatenato l’emozione oppure può essere un
coping attivo secondario nel caso in cui, pur nell’impossibilità di af-
frontare o modificare la situazione emotigena, il soggetto è in grado di
sopportare e di affrontare l’intensità dell’emozione sperimentata [La-
zarus, 1966; 1975]. La controllabilità, inoltre, è una componente co-
gnitiva che può anche trasformare la percezione di una potenziale mi-
naccia in una vera e propria sfida. Può quindi dar luogo a una rivalu-
tazione costruttiva [Anolli e Ciceri, 1998] della situazione grazie alla
quale l’individuo, dimostratosi in grado di padroneggiare una espe-
rienza negativa, può acquisire degli elementi positivi sul proprio
schema del sé e aumentare il livello della propria autostima(*) [La-
zarus, 1982].
Le emozioni 25

Ma è pur vero che lo stimolo emotigeno considerato come minac-


cioso può essere percepito come controllabile anche attraverso una fu-
ga o una forma comportamentale di resistenza. In questi casi si parla
di coping passivo (o coping di evitamento): l’individuo valuta le sue
possibilità di allontanarsi dalla fonte emotigena, le probabilità di resi-
stere all’attacco o le sue potenzialità di attesa per poter studiare meglio
l’evento [Lazarus, 1968; 1975; 1991].

Fig. 1.2. – SEC «d» e strategie di coping

Esiste poi il coping alternativo (o coping intrapsichico) [Lazarus,


1999; Lazarus e Launier, 1978] ossia la percezione di poter controllare
l’evento percepito come pericoloso attraverso il distacco o lo sposta-
mento emotivo dall’evento e dalle sue conseguenze emotigene: ne so-
no un esempio le forme di umorismo, la battuta ironica, la sdramma-
tizzazione dell’evento o, in alcuni casi, l’assegnazione cognitiva di un
aspetto positivo a una situazione oggettivamente negativa.
Alla percezione di controllabilità, però, si contrappone la percezio-
ne reale o immaginata di incontrollabilità. Quando lo stimolo emoti-
geno, l’evento o la stessa emozione sono percepiti come incontrollabi-
li da parte del soggetto (quindi sussiste una valutazione negativa delle
proprie strategie di coping) l’individuo può esercitare un controllo se-
condario che consiste nel prendere atto dell’impossibilità di fronteg-
giare un evento e accettare, sia su un piano cognitivo che emotivo, il
limite imposto dalla situazione e dirigere, modificandoli, i propri desi-
26 Capitolo I

deri, le proprie aspettative o i propri interessi [Rothbaum, Weisz e


Snyder, 1983].
L’avvenuta sperimentazione di “incontrollabilità” può essere
all’origine del coping proattivo: data la presa di coscienza dell’indivi-
duo della personale incapacità o impossibilità di fronteggiare alcuni
eventi negativi (o l’intensità delle emozioni che da essi derivano) que-
sti innesca una forma di controllo attraverso cui tentare di prevedere
gli antecedenti di quella situazione per poterli evitare o per poter eli-
minare le condizioni che li precedono. Una fondamentale considera-
zione riguardo la incontrollabilità percepita è quella secondo cui la
sperimentazione di mancanza di controllo nei confronti di una condi-
zione situazionale o di una emozione negativa è alla base dell’im-
potenza appresa(*), della depressione reattiva(*) e di alcune forme di
ansia ( capitolo 3).
e) SEC «e» – la quinta forma di controllo consiste nel valutare lo
stimolo emotigeno sulla base della compatibilità/incompatibilità
delle reazioni che questo suscita se confrontato con le norme so-
ciali e con il concetto di sé che l’individuo possiede. Per spiegar-
mi meglio: ogni gruppo sociale fornisce all’individuo una scala
gerarchica di valori, di scopi e di interessi che, per quella società,
vengono ritenuti appropriati e desiderabili. Tali forme di acquisi-
zione normativa sono strettamente connessi alla sperimentazione
di specifiche emozioni che pertanto vengono ritenute appropriate
o, al contrario inadeguate, sulla base della loro accettabilità socia-
le. Appare ovvio che un comportamento, una caratteristica perso-
nale, il nostro stesso aspetto fisico, può essere valutato sulla base
di questi parametri e, se ritenuto incompatibile con le richieste so-
ciali, scatena emozioni negative o fortemente contrastanti. Nello
stesso modo, le emozioni vengono valutate in base alla loro mino-
re o maggiore possibilità di essere espresse nel gruppo sociale:
manifestare una emozione valutata socialmente in maniera piutto-
sto negativa (come la rabbia, ad esempio) può dar origine a forti
sensi di inadeguatezza e di colpa per la sua incompatibilità con le
normative sociali. Scopriremo insieme, quanto, queste forme di
comportamento emotivo appreso, costituiscano una base fonda-
mentale del nostro comportamento sociale e relazionale e quanto
esse determinino nel soggetto delle valutazioni cognitive atte a
sviluppare quella che è meglio nota come intelligenza relazionale:
Le emozioni 27

ossia la capacità del soggetto di tener conto dell’adeguatezza delle


proprie risposte emotive e delle proprie valutazioni cognitive ri-
spetto alle richieste relazionali [Nussbaum, 2001]. Praticamente
stiamo parlando dell’acquisizione adeguata del sistema di auto-
monitoraggio(*), del comportamento che favorisce l’autocontrollo
e la costante supervisione delle proprie condotte emotive.
André e Lelord [2001], hanno proposto un ulteriore criterio cogni-
tivo di valutazione dello stimolo emotigeno. Fondamentalmente po-
tremmo considerarlo un sesto SEC.
f) SEC «f» – l’ipotizzata sesta forma di controllo consiste nel va-
lutare lo stimolo emotigeno sulla base della causa che l’ha
scatenato. Potrebbe quindi essere causato da fattori ambientali
o causato da altri individui; il risultato della valutazione porta
l’individuo a considerare cognitivamente l’appropriatezza di
una risposta piuttosto che di un’altra. Per fare un esempio:
immaginate che durante una notte temporalesca il ramo di un
albero ha seriamente danneggiato la vostra auto. Siete arrab-
biati? Vi maledite per aver parcheggiato l’auto proprio in quel
punto? Sì, tutto normale. Adesso proviamo invece a pensare
che la vostra auto sia stata danneggiata con il ramo di un albe-
ro brandito dal vostro vicino di casa che non gradisce il punto
dove parcheggiate l’auto. Posso permettermi di credere che
l’intensità della vostra rabbia sia notevolmente superiore nella
seconda situazione? Sono proprio le valutazioni cognitive che
scaturiscono dall’analisi della situazione emotigena che per-
mettono all’individuo di catalogare e categorizzare esattamente
una emozione. Tentiamo un gioco che spiega efficacemente il
legame tra causa di una emozione (SEC “f”), il tono edonico
che gli viene attribuito (SEC “b”) e la sua controllabilità (SEC
“d”): prova a immaginare, per ognuna delle 6 combinazioni
qui sotto riportate, una situazione che hai vissuto, poi trascrivi
l’emozione che hai provato. Prova:
a) Imprevisto – gradevole – controllabile – causata da altri _______________
b) Imprevisto – sgradevole – controllabile – causata da altri_______________
c) Imprevisto – sgradevole – controllabile – causa ambientale_____________
d) Imprevisto – sgradevole – incontrollabile – causata da altri_____________
e) Previsto – gradevole – controllabile – causa interna o esterna____________
f) Previsto – sgradevole – controllabile – causa interna o esterna___________
28 Capitolo I

È possibile che tu abbia scoperto che il tono edonico è tanto più


negativo (sgradevole) quanto più l’evento è imprevisto e può essere
interpretato come volutamente provocato con l’intenzione di farti stare
male, che è tanto più negativo quando è prevedibile ma non controlla-
bile perché superiore alle tue forze.
In riferimento alle valutazioni cognitive, che sono influenzate da
caratteristiche squisitamente sociali, un contributo di non poco conto
lo offre l’emozionologia: una branca dello studio delle emozioni che si
occupa di definire, analizzare e categorizzare la valutazione sociale
fornita a ciascuna emozione, la posizione adeguata che ciascuna socie-
tà o ciascun gruppo umano attribuisce nei vari momenti storici alle va-
rie emozioni, la considerazione, l’appropriatezza e la modalità di
espressione (o mancata espressione) di specifiche emozioni e il giudi-
zio positivo o negativo che viene attribuito alla loro espressione o alla
loro mancata espressione in contesti definiti e codificati sia a livello
comunicativo che relazionale e contestuale [Stearns e Stearns, 1985;
Amend, 2001; Kotchemidova, 2005; Fineman, 2008].
Le emozioni, per questo particolarissimo ambito disciplinare, costi-
tuiscono elementi coscienti e imperativi del vissuto soggettivo anche
se, perlopiù, hanno carattere di involontarietà: ossia vengono speri-
mentate indipendentemente dalla disponibilità psicologica o fisica ad
accoglierle, indipendentemente dalla appropriatezza sociale e, soprat-
tutto, indipendentemente da qualsiasi scelta razionale. Ciò che invece
può dipendere dal controllo volontario dell’individuo è la loro espres-
sione comunicativa, la loro durata e il livello di intensità con il quale
vengono espresse.
Una caratteristica molto interessante è che un vissuto emotivo può
essere simulato volontariamente e con successo in vista di un vantag-
gio secondario(*); ciò avviene soprattutto per quelle emozioni che han-
no funzioni altamente adattive da un punto di vista squisitamente so-
ciale. Per comprendere meglio quest’affermazione, che ha il suono
dell’impopolarità, basti pensare a quante volte abbiamo simulato tri-
stezza o paura di fronte alla rabbia giustificata di qualcuno che ci stava
rimproverando o quanto spesso sia stato proficuo – su un piano pura-
mente sociorelazionale – manifestare gioia nel salutare calorosamente
qualcuno che in realtà preferivamo non incontrare. È una lista che po-
trebbe continuare all’infinito e, a maggior ragione, citando tutte quelle
Le emozioni 29

emozioni che per un motivo o per un altro vengono classificate, in chi


osserva, come segni di affiliazione o di sottomissione.
Ciò che sappiamo per certo, come analisti del comportamento
umano, è che le emozioni producono nell’organismo che le riceve una
serie di modificazioni repentine e che decisamente s’impongono alla
coscienza indipendentemente dalla nostra volontà e, ancora, che tali
modificazioni produ-
cono dei cambiamen-
ti visibili nel compor-
tamento. Sono tre le
aree in cui le modifi-
cazioni prodotte dalla
sperimentazione delle
emozioni hanno il lo-
ro maggior effetto:
l’area psicofisiologi-
ca che subisce cambiamenti sia su un piano di attivazione neurofisio-
logica ( paragrafo 1.2.) che su un piano ormonale. Il piano cogniti-
vo, invece, subisce delle modificazioni strettamente dipendenti alle
elaborazioni cognitive che il soggetto sviluppa nei confronti della
esperienza emotiva e la sfera del sistema comportamentale che subisce
delle spinte di allontanamento/avvicinamento allo stimolo che ha pro-
vocato l’emozione sulla base della sua connotazione e della sua valen-
za negativa/positiva.

1.2. Neuropsicologia delle emozioni

Nel paragrafo precedente abbiamo potuto constatare che, già a partire


dalla fine del 1800 (con James, Lange, Bard e Cannon,  18), le teo-
rie periferiche e centrali definirono le reazioni fisiologiche alle emo-
zioni come un correlato fondamentale per la loro descrizione, per la
loro comprensione e per la loro successiva definizione. Gran parte del-
le ricerche successive hanno tentato di evidenziare e differenziare i
vari sistemi che, oltre a quello fisiologico, entrano in gioco nel vissuto
emotivo comprendendo sia gli aspetti subliminali(*) che quelli sovra-
liminali(*) dell’esperienza emotiva [Zajonc,1994].
30 Capitolo I

Proviamo a essere più chiari con un esempio preso in prestito da


Balconi [2004]: quello della casa in fiamme. Immaginate per un mo-
mento di assistere allo spettacolo della vostra casa che brucia. Affin-
ché si sviluppi un’esperienza emotiva è necessario che siate consape-
voli e che riconosciate in quello specifico evento (l’incendio) un signi-
ficato rilevante che dà avvio a una esperienza emotiva cosciente (la
paura) che innesca a sua volta una serie di segnali fisiologici riflessi.
La corteccia cerebrale, quindi, elabora i segnali afferenti (provenienti
dall’ambiente circostante) e dirige le informazioni raccolte al fine di
provocare delle chiare indicazioni alle strutture periferiche (vasi san-
guigni, ghiandole sudoripare, muscoli) che convogliano segnali effe-
renti (provenienti dall’interno) al fine di provocare una risposta coe-
rente con lo stimolo: ad esempio tentare di ridurre il danno dell’incen-
dio (comportamento di attacco) oppure scappare (comportamento di
fuga). Il segnale di pericolo (la casa in fiamme) da origine, quindi, a
una valutazione cognitiva a carico della corteccia primaria (SEC 
1.1.) che, a sua volta, crea risposte riflesse a carico del sistema nervo-
so autonomo [(*) Vegetativo (sistema)].
Ma quali sono le principali strutture fisiologiche coinvolte nel
nell’esperienza emotiva? E soprattutto: cosa accade al nostro corpo e
alla nostra psiche nel momento in cui l’organismo viene perturbato da
una reazione emotiva? Se è vero che ciascuno di noi è perfettamente
in grado di ricordare le proprie sensazione corporee in risposta a una
intensa emozione, di narrare le
modificazioni fisiche con un cer-
to livello di precisione e di esat-
tezza sequenziale, più difficile è
comprendere l’utilità di queste
alterazioni e – soprattutto – a ca-
rico di quali funzioni cerebrali
farle risalire. A tal fine è neces-
sario cominciare a descrivere il
sistema limbico. Questo, è costi-
tuito da un gruppo di strutture
cellulari poste al centro del cer-
vello (vedi immagine a sinistra).
È collocato immediatamente sopra il tronco encefalico, la parte più an-
tica del cervello, evolutasi più di cinquecento milioni di anni fa e pri-
ma della comparsa dei mammiferi sulla terra. Il tronco encefalico ha la
Le emozioni 31

funzione fondamentale di sostegno alla vita in quanto è in grado di


controllare sia il ritmo e la frequenza respiratoria che il battito cardia-
co. All’interno del tronco encefalico, lungo tutta la sua lunghezza, si
trova un fascio di tessuto neuronale (la formazione reticolare) che ha
la funzione di attivare e mettere in allarme la corteccia cerebrale (ossia
l’area del cervello in grado di elaborare le informazioni) ogni volta
che viene segnalato l’arrivo di una informazione. Immediatamente so-
pra il tronco encefalico, quindi, è collocato il sistema limbico, illustra-
to in dettaglio qui sotto (nella figura a pagina precedente, è colorato in
nero per definire la sua posizione esatta nel cervello). Si suppone che
esso si sia sviluppato in un periodo fra duecento e trecento milioni di
anni fa. È conosciuto anche come cervello mammaliano perché parti-
colarmente sviluppato in tutti i mammiferi [Broca, 1878; Papez, 1937;
MacLean, 1949, 1952, 1973a-b, 1990].
Primariamente, il sistema limbico è implicato in tutti i meccanismi
omeostatici che regolano e mantengono stabile l’ambiente interno
dell’organismo: regolazione del ritmo cardiaco, dei livelli di zucchero
nel sangue, pressione arteriosa, temperatura corporea. È inoltre coin-
volto in tutte le reazioni emotive legate all’istinto di sopravvivenza, in
specifico la paura, le conseguenti reazioni di attacco e di fuga e la ri-
produzione sessuale.
La parte fondamentale del sistema limbico è costituita dall’ipo-
talamo, ossia la parte più complessa di tutto il cervello umano. Pur es-
sendo grande più o meno
quanto un pisello (il cui peso
oscilla fra i tre e i quattro
grammi), questa parte è in
grado di controllare e rego-
lare la fame, il sonno, la se-
te, la temperatura corporea,
gli equilibri chimico-ormo-
nali del nostro organismo e,
di conseguenza, anche il de-
siderio sessuale e le reazioni
emotive. L’ipotalamo, infat-
ti, è la parte che governa an-
che il funzionamento della ghiandola più importante dell’organismo:
l’ipofisi (o ghiandola pituitaria) la quale è la diretta responsabile della
presenza di ormoni nel nostro sangue.
32 Capitolo I

Altra struttura importante del sistema limbico è l’amigdala (lette-


ralmente: mandorla, per la sua particolare forma) la quale ha il compi-
to di controllare il costante flusso d’informazioni provenienti dall’am-
biente e, in particolare, sembra avere la funzione di memorizzare ri-
cordi semplici e abbozzati di situazioni, immagini o oggetti che pos-
sono costituire un pericolo o un motivo di sopravvivenza: semplici
odori, particolari suoni, particolari movimenti, particolari luoghi o
animali. Il sistema limbico, quindi, è la parte del cervello deputata alle
sensazioni, al raccogliere le informazioni in entrata e in uscita e a far
scattare, nella eventualità, un segnale di allarme. Ma i segnali veri e
propri, inviati dal sistema limbico, sono in forma piuttosto abbozzata e
grezza. È qui che entra in gioco il talamo (che non fa parte del sistema
limbico) la cui funzione principale è quella di smistare le informazioni
e renderle decodificabili per il resto del cervello e di permettere
all’individuo la valutazione oggettiva dell’emozione.
Ogni volta che, nel nostro campo percettivo o sensoriale, interviene
uno stimolo che attira la nostra attenzione e che, in virtù di ciò, per-
turba l’equilibrio omeostatico di quiete imponendo al nostro organi-
smo una risposta e – nei casi più estremi – uno stato di allarme, entra
in gioco l’attivazione neurofisiologica o arousal. Una reazione che si
attiva a partire dal sistema limbico e che impone uno stato di altera-
zione psicofisiologico che contraddistingue ogni reazione emotiva.
Ma cosa succede realmente al nostro corpo e alla nostra mente
quando queste risposte neurofisiologiche vengono attivate? Molto
semplicemente potremmo sostenere – in accordo con la teoria cogniti-
vista – che l’organismo umano tende a una sorta di equilibrio omeo-
statico che, una volta alterato, impone all’individuo una spinta verso
l’azione (comportamento) al fine di ristabilire e di riportare nell’or-
ganismo l’equilibrio venuto a mancare [Lazzeroni, 1985]; tale spinta
all’azione, a sua volta, viene supportata da alterazioni neurofisiologi-
che che preparano l’organismo tanto all’attenzione selettiva quanto al-
la prontezza della reazione. L’attivazione (o arousal) è quindi…
[…] la reazione fisiologica del sistema nervoso centrale come conse-
guenza di uno stimolo improvviso che entra nel campo percettivo
dell’organismo e che stimola la risposta delle funzioni del sistema ve-
getativo e prepara l’individuo a una risposta comportamentale. [Siri-
gatti, 1996]
Da un punto di vista squisitamente organico l’attivazione neurofi-
siologica si sostanzia in una serie di modificazioni a carico del sistema
Le emozioni 33

vegetativo [(*)Vegetativo (sistema)] che coinvolge tutte le attività vitali


dell’organismo umano. Negli stati lievi di attivazione queste modifi-
cazioni rimangono al di sotto del livello di coscienza dell’individuo
fino al momento in cui, aumentando il grado di attivazione, il soggetto
prende coscienza di alcune funzioni vitali proprio perché le percepisce
alterate rispetto alla norma: battito cardiaco accelerato, aumentata su-
dorazione, disturbi nella minzione o a carico dell’apparato gastrointe-
stinale, tremori, difficoltà nella respirazione. In questi casi si parla di
iperattività neurovegetativa(*).
La definizione di attivazione (o arousal) ha dato adito a moltissime
interpretazioni (soprattutto in ambito sportivo) ma resta comunque un
termine piuttosto controverso in cui l’accordo dei vari ricercatori sulla
sua caratterizzazione scientifica è piuttosto lontano.
C’è chi, come Martens [1987], la definisce come una semplice
energia psicologica individuale contraddistinta dalla vitalità e dalla in-
tensità con cui l’organismo si prepara a rispondere. Un altro Autore
[Magill, 1990] racchiude l’arousal in una sorta di sinonimia con il
termine motivazione(*) proprio perché, nella sua interpretazione, atti-
vare un organismo equivale a motivarlo all’azione. Più recentemente
Cox [1994] la identifica come uno stato di allerta dell’organismo che
permette una sorta di energizzazione finalizzata e finalistica.
Proprio la similitudine con lo stato di allerta ha imposto alcune in-
terpretazioni secondo le quali il concetto di attivazione viene associato
a quello di ansia. In realtà l’identificazione fra i due termini è piutto-
sto azzardata. Infatti, già Spielberger [1966; 1989; Spielberger, Gor-
such e Lushene, 1970], aveva definito l’ansia come uno stato che pre-
suppone l’aumento dei livelli di attivazione ma, a differenza della atti-
vazione vera e propria, è fortemente connotata da sentimenti e pensieri
sgradevoli e autosvalutanti. In realtà potremmo affermare, in accordo
con quanto già introdotto da Terreni e Occhini [1996] e riportato este-
samente da Terreni [manoscritto non pubblicato2], che anche l’ansia o
il panico rientrano nel processo di attivazione ma secondo una inten-
sità paradossale. Per chiarezza: l’aumento dei livelli psicofisiologici di

2
A causa della morte improvvisa di Luca Terreni, avvenuta nel 2003, il testo a cui l’Au-
tore stava lavorando e contenente le nuove teorizzazioni nell’ambito della psicopatologia
sportiva, non è mai stato pubblicato. Mi è stato possibile consultarlo, in forma di dattiloscritto,
grazie alla disponibilità di sua moglie (Michela Galli) che, in questo contesto, ringrazio per la
disinteressata collazione.
34 Capitolo I

attivazione, assume caratteristiche che, lungi dall’essere funzionali per


l’individuo, inducono a risposte e reazioni comportamentali che, per
paradosso, inibiscono la funzionalità stessa del comportamento di ri-
sposta proprio perché si innesca quella che, poco sopra, abbiamo defi-
nito iperattività neurovegetativa(*).
In questo lavoro, quindi, la definizione di arousal segue la prospet-
tiva teorica psicosportiva introdotta da Cei [1998], secondo il quale
l’attivazione neurofisiologica viene considerata come:
[…] un meccanismo psicofisiologico che induce un organismo a mo-
bilizzare le proprie risorse fisiche, cognitive e psicologiche verso uno
stimolo che interviene nel campo percettivo del soggetto e che richie-
de una risposta comportamentale.
Quando un individuo viene attivato, da un qualsiasi stimolo interno
od esterno all’organismo, quest’ultimo produce una risposta neurofi-
siologica immediata, ossia una sorta di energizzazione o prontezza ge-
neralizzata che lo rende capace di percepire, analizzare e rispondere
selettivamente e in maniera appropriata agli stimoli attivatori. Osser-
vate la figura 1.3.

Fig. 1.3. – Gradi di attivazione dell’organismo

Com’è possibile notare, l’arousal varia su di un continuum che va


dal sonno non-paradosso [(*) Sonno] alla veglia rilassata; dalla veglia
vigile e attenta fino allo stato di problem solving(*) e da questo all’atti-
vazione generale che permette delle risposte rapide e concrete rispetto
allo stimolo fino all’attivazione paradossale, e spesso inefficace, della
paura e del panico.
Le emozioni 35

L’esperienza più comune per indirizzare un organismo da uno stato


di veglia rilassata a uno stato di vigilanza è la semplice introduzione,
nel suo campo percettivo, di uno stimolo che induca l’individuo a di-
rigere l’attenzione nella sua direzione. L’organismo tende, in situazio-
ni normali, a rispondere orientando le sue capacità sensoriali verso lo
stimolo innescando quel processo di energizzazione e reattività che gli
permette di analizzare e rispondere selettivamente e prontamente alle
richieste ambientali.
L’individuo subirà quindi un’attivazione che gli consente di reagire
in accordo con il processo TOTE [Miller, Galanter e Pribram, 1960]
che si realizza in un percorso cognitivo-comportamentale di valuta-
zione, orientamento, attuazione di comportamenti e successiva valida-
zione di questi ultimi rispetto allo stimolo situazionale che ha innesca-
to le risposte. Questo processo consiste in quattro fasi distinte:
T (text) – valutazione della circostanza e scelta di un possibile com-
portamento funzionale alla ristrutturazione dell’alterazione
dell’equilibrio;
O (operation) – attuazione di un comportamento adattivo teso a ri-
strutturare l’equilibrio alterato;
T (text2) – valutazione dell’efficacia del comportamento attuato;
E (exit) – uscita dal programma comportamentale attuato, successiva
validazione dell’appropriatezza o inappropriatezza di
quest’ultimo rispetto alla situazione ambientale e rispetto al-
la ristrutturazione dell’equilibrio alterato).
Facciamo un esempio: ci troviamo completamente rilassati (ma
svegli) in una comoda poltrona. Improvvisamente avvertiamo un ru-
more nell’altra stanza; un rumore insolito. Nella fase text lo stato di
veglia rilassata viene sostituito da uno stato di veglia vigile in cui ope-
riamo in maniera rapidissima la valutazione della circostanza: siamo
portati a ricordare immediatamente se siamo soli in casa oppure se c’è
qualcuno della nostra famiglia nell’altra stanza; siamo prontissimi a
immaginare (per entrambe le situazioni) se è caduto un oggetto a cau-
sa della disattenzione di chi è in casa con noi oppure se il rumore di-
pende da qualcosa che si è rotto indipendentemente dalla presenza di
altri. In maniera quasi incosciente (stato di energizzazione) tentiamo
di ipotizzare il comportamento più adatto mentre prestiamo attenzione
all’ambiente e a eventuali altri rumori (veglia attenta). Secondo il pro-
cesso TOTE, a questo punto, potrebbe succedere questo:
36 Capitolo I

a) nell’altra stanza c’è mia madre – chiamo e chiedo cosa succede


[fase operation] – mia madre sta dicendo che va tutto bene (gli è
caduto un piatto) e quindi il mio richiamo è sufficiente a tranquil-
lizzarmi [fase text2] – posso tornare a rilassarmi [exit].
b) Nell’altra stanza c’è mia madre – chiamo per sapere cosa sta suc-
cedendo ma non ottengo risposta (a questo punto il livello di
arousal sale e avverto un senso d’inquietudine) – mi alzo dalla
poltrona [operation] e corro a vedere se mia madre sta bene e
scopro che è caduta ma è vigile (la mia arousal si trova nel livello
di problem solving; cerco quindi una maniera di rendermi utile) –
scoprendo che mia madre si è fatta male posso tentare di aiutarla e
valutare se è sufficiente il mio aiuto o se è necessario chiamare
un’ambulanza [text2] – nel secondo caso probabilmente il livello
di arousal si innalza fino alla attivazione vera e propria e, a se-
conda delle inclinazioni temperamentali, può arrivare al livello di
attivazione paradossale – a questo punto lo stato di energizzazione
tipico della attivazione perdura fino al momento in cui non ho ri-
solto il problema. Solo successivamente sarò in grado di valutare
quanto sia stato efficace il mio comportamento di aiuto nei con-
fronti di mia madre e se ho opportunamente messo in atto tutti i
comportamenti necessari per quella situazione [exit].
In qualsiasi caso l’organismo, per poter agire, subisce delle altera-
zioni fisiologiche che gli permettono la funzionalità immediata. Ciò
che però non va assolutamente dimenticato è che, indipendentemente
dalla reazione fisiologica naturale, ciascuno di noi ha differenti rea-
zioni sulla base della percezione cognitiva attribuita all’oggetto/sti-
molo e, soprattutto, le modalità di risposta e i livelli di attivazione so-
no totalmente soggettivi e variano con il variare degli stati transitori
individuali. Per conferma potreste provare a immaginare infinite pos-
sibilità legate all’evento “rumore” per confrontare come funziona
realmente la vostra attivazione neurofisiologica e per avere conferma
del fatto che, dato uno stimolo interveniente non considerato sopra, si
modifica radicalmente sia la reattività in quanto tale sia il tipo di com-
portamento di risposta attuato di volta in volta. A questo punto viene
spontaneo chiedersi in che misura il processo di attivazione influisca
sulla qualità delle prestazioni comportamentali dell’individuo. Non
pochi sono stati i tentativi di cercare una risposta a questo interrogati-
vo. Fra le più interessanti analisi degli effetti che l’arousal ha
Le emozioni 37

sull’efficacia del comportamento umano è d’obbligo citare la teoria


della U capovolta introdotta nel lontano 1908 da Yenkers e Dodson.
Osserva la figura a lato (adattata da Terreni e Occhini, 1997): Yen-
kers e Dodson ipotizzarono che i migliori livelli di prestazione com-
portamentale si hanno
nel momento in cui
l’individuo si trova in
uno stato ottimale di
attivazione (peack-
performance); al di
sopra o al di sotto di
tale livello di attiva-
zione la prestazione
tende a scadere o per
difetto o per eccesso.
Nei casi di bassa atti-
vazione neurofisiolo-
gica di fronte a uno
stimolo, l’individuo
tenderà ad avere reazioni di noia e di rilassamento che potrebbero non
essere adeguate alle richieste ambientali e andrebbero a invalidare una
eventuale prestazione. Prendiamo ad esempio il caso di uno sportivo
che si appresta a competere con un avversario ritenuto quasi certamen-
te battibile. È molto probabile che il nostro atleta tenderà a non pren-
dere troppo sul serio la gara e potrebbe non reagire in maniera adegua-
ta al momento della competizione. Mancando l’attivazione necessaria
alla competizione, potrebbe non gareggiare secondo i suoi livelli co-
muni di prestazione e perdere la gara [Martens, 1977].
Al contrario, l’attivazione eccessiva produce intense emozioni e al-
trettanto intese reazioni fisiologiche che distraggono l’individuo dallo
stimolo e disturbano notevolmente la prestazione. Prendiamo come
esempio l’ansia che viene sperimentata durante un esame universita-
rio. Un livello troppo alto di attivazione rispetto allo stimolo produce
delle intense sensazioni negative a livello organico (battito cardiaco
accelerato, disturbi gastrointestinali, intensa sudorazione, alterazione
della termoregolazione(*), etc.). Lo studente, coinvolto cognitivamente
ed emotivamente nel disagio che sta sperimentando, perde la possibili-
tà di concentrarsi sulla prova d’esame rischiando di fallirla. Mai suc-
cesso? Il livello ottimale di attivazione, al contrario, produce delle
38 Capitolo I

emozioni e delle sensazioni che aumentano la vigilanza e che permet-


tono di concentrare l’attenzione sul compito. Un decente livello di ap-
prensione, infatti, permette di sostenere l’esame in maniera efficace.
Ovviamente, per comprendere appieno la relazione esistente fra li-
vello di attivazione ed efficacia della prestazione è di fondamentale
importanza comprendere e saper riconoscere i segnali di attivazione
eccessiva e di attivazione ridotta. I segni caratteristici possono essere
elencati sulla
base di una
semplice sud-
divisione: se-
gni psicofisi-
logici, segni
psicologici e
segni com-
portamentali.
La tabella
1.1. (a pagina
successiva), elenca i segni caratteristici che più frequentemente si ri-
scontrano in caso di ridotta o eccessiva attivazione. Come potete os-
servare, ogni segno fisiologico citato richiama a una alterazione, in di-
fetto o in eccesso, dei processi a carico del sistema vegetativo citato
qualche pagina fa.
Nonostante il fatto che la teoria della U capovolta abbia ottenuto
numerose conferme, da parte di ricercatori e di operatori in ambito
sportivo, restava, comunque, un ampio margine di incomprensibilità
di alcuni fenomeni. Ad esempio: se è vero che crescendo il livello di
attivazione si ha un decadimento nella qualità della prestazione, la teo-
ria della U capovolta non spiega come mai un decremento dell’attiva-
zione (anche attraverso un rilassamento indotto) non riporti a livelli
ottimali una prestazione iniziata male [Hardy, 1990]; in alcuni casi,
addirittura, una diminuzione indotta dell’attivazione sembra determi-
nare un ulteriore scadimento della prestazione [Kerr, 1990]. Ancora: la
teoria della U capovolta non spiega per quale motivo molte persone,
nonostante gli alti livelli di attivazione, non dimostrino cali prestazio-
nali significativi; è un dato di fatto che anche in condizioni di attiva-
zione paradossale molti individui sono in grado di rispondere coeren-
temente e con efficacia anche ai compiti e alle prestazioni più compli-
Le emozioni 39

cate indipendentemente dai segni somatici che l’ansia induce nel loro
organismo.
Proprio per tentare di fornire una risposta a queste apparenti incon-
gruenze sono nate recentemente alcune teorie che, pur non disconfer-
mando la teoria della U capovolta, integrano le apparenti lacune di
quest’ultima.
Fra queste è d’obbligo citare la teoria della catastrofe la cui introdu-
zione nel mondo scientifico si deve a Zeeman [1976], un matematico
che la propose nell’ambito delle scienze naturali. Successivamente fu
ripresa da Fazey e Hardy [1988] all’interno delle discipline psico-
sportive per fornire una logica spiegazione ai dubbi e alle mancate ri-
sposte suscitate dalla teoria della U capovolta.
Gli Autori proposero un modello tridimensionale della teoria (vedi fi-
gura a pagina seguente – adattata da Fazey e Hardy, 1988) in cui, oltre
ai fattori prestazione e attivazione, introdussero l’ipotesi dell’esi-
stenza di un ulteriore elemento: l’ansia cognitiva.

Tab. 1.1. – I segni di attivazione alterata

ATTIVAZIONE RIDOTTA ATTIVAZIONE ECCESSIVA

Tachicardia(*) – difficoltà respiratorie


Bassi livelli di frequenza ca- [(*) Iperventilazione – Dispnea]
– aumento della
SEGNI rdiaca[(*) Bradicardia] – diminuita
PSICOFISIOLOGICI tensione muscolare – sovraffaticamen-
profondità e ritmo respirato-
to e aumento del senso di stanchezza –
rio[(*) Ipoventilazione] – ipoastenia(*).
iperidrosi (*) – disturbi gastrici.

Scarsa motivazione alla pre- Riduzione della motivazione – pen-


SEGNI stazione – difficoltà di concen- sieri concentrati sugli stati organici –
PSICOLOGICI trazione – sentimento lieve di pensieri irrazionali e negativi – dubbi
derealizzazione(*). sulle capacità – stile attentivo ristretto.

Stati di agitazione motoria generaliz-


zata con tendenze afinalistiche – Au-
mento o rallentamento della velocità
I movimenti sono rallentati – la
prestazionale – tendenza a reazioni ir-
SEGNI preparazione alla prestazione è
razionali (pianto, ira, aggressività) non
COMPORTAMENTALI trascurata, imprecisa e super-
coerenti con la situazione – riduzione
ficiale – facilità alla distrazione
del coordinamento del pensiero –
– tendenza alla sonnolenza.
evitamento emotivo del cibo(*) o
iperalimentazione compulsiva(*) – in-
sonnia o forme di parasonnie.
40 Capitolo I

Più semplicemente: se consideriamo l’attivazione neurofisiologica


come il “fattore normale” e la prestazione come il “fattore dipenden-
te”, possiamo osservare che, l’entrata in gioco di un fattore splittig (in
questo caso l’ansia cognitiva) nell’area della biforcazione, può deter-
minare o l’incremento della prestazione o il suo brusco decremento
(catastrofe). L’introduzione del concetto di ansia cognitiva, apparen-
temente scontato, si definisce in realtà come un elemento del tutto in-
novativo rispetto alla teoria della U capovolta [Hardy, 1990]. In que-
sta, si dava per scontato un effetto causale fra ansia somatica3 e de-
cremento della prestazione.

Fig. 1.4. – L’ansia e la teoria della catastrofe [adattata da Fazey e


Hardy,1988]

Questa causalità lineare impediva però di spiegare l’alta qualità di


alcune prestazioni soggettive in presenza di altissimi livelli di attiva-
zione. Introducendo il concetto di ansia cognitiva si definisce, infatti,
il carattere soggettivo e interpretativo del vissuto ansioso e si spiegano
3
Ansia somatica – si riferisce ad alterazioni fisiologiche che inducono una modificazione
delle funzioni del sistema vegetativo che diventano perfettamente percepibili dall’individuo
su un piano organico. Generalmente questi effetti fisici (tachicardia(*), iperidrosi(*), dispnea(*),
disturbi gastrointestinali) si associano, automaticamente, ad un aumento della tensione emoti-
va nella situazione in atto.
Le emozioni 41

le differenze individuali di risposta prestazionale [Hardy e Parfitt,


1991]. Se è indubbio che di fronte a un compito particolarmente diffi-
cile o particolarmente importante ciascuno di noi mostra dei livelli
piuttosto elevati di tensione e di ansia, è altrettanto vero che non tutti
interpretiamo allo stesso modo i segni somatici (ansia somatica) che
accompagnano lo stato tensivo. Alcuni possono valutarlo come un ef-
fetto assolutamente normale, alcuni considerarlo addirittura piacevole
(come vedremo parlando della reversal theory), altri ancora possono
interpretarlo come assolutamente intollerabile. Proprio quest’ultima
categoria d’individui tenderà ad associare alla naturale ansia somatica
una serie di pensieri negativi sulla situazione oggettiva e su se stessi
(ansia cognitiva) tanto da aumentare ancora di più il livello di arousal
e da diminuire drasticamente le possibilità di riuscita [Jones e Hardy,
1990].
Per facilitare il compito nella comprensione di questa teoria è utile
fornire un esempio. Ipotizziamo che stiate preparando un esame che
dovrete sostenere di qui a un mese. Probabilmente i vostri livelli di at-
tivazione non sono così elevati e le vostre capacità di concentrazione e
di apprendimento restano pressoché nella media delle vostre presta-
zioni tipiche. Mano a mano che il giorno dell’esame si avvicina il vo-
stro senso di tensione può crescere, ma non tanto da disturbare il vo-
stro rendimento nello studio. In questa fase il fattore normale (attiva-
zione neurofisiologica) può farvi percepire quella che gli Autori della
teoria definiscono ansia somatica; praticamente lievi disturbi del son-
no particolari momenti di tensione e di ansia in vista dell’esame, forse
qualche crisi di pianto, in alcuni di voi potrebbero presentarsi dei tran-
sitori disturbi dell’alimentazione con cause psicogene e/o ansiogene
(tipo iperfagia [(*) Iperalimentazione compulsiva] o evitamento emoti-
vo del cibo(*)), sintomi di stanchezza e di alterazione di alcune funzio-
ni del sistema vegetativo. Fino a qui tutto nella norma: il fattore di-
pendente (prestazione) non subisce alcuna modificazione. Supponia-
mo pure che il vostro stato psicofisiologico rimanga così fino al mo-
mento dell’esame… siete perfettamente in grado di superarlo nono-
stante qualche piccolo disagio dato dallo stato di tensione; la vostra
prestazione può considerarsi brillantemente eseguita!
Ipotizziamo ora, al contrario, che a pochi giorni di distanza dalla
prova (area della biforcazione), entri in gioco il fattore splittig ossia
l’ansia cognitiva: da questo momento in poi i vostri sforzi non saran-
no più mirati per prepararvi al meglio all’esame perché i vostri pensie-
42 Capitolo I

ri tenderanno a concentrarsi, piuttosto, sulle possibili catastrofi che


potrebbero inficiare la vostra prova. Potreste cominciare a mettere in
discussione voi stessi e la vostra preparazione, vi percepirete come as-
solutamente impreparati, andrete a ripescare in memoria tutte quelle
situazioni in cui vi siete dimostrati assolutamente non competenti e
comincerete a maledirvi per il fatto di non aver cominciato prima a
studiare per quell’esame; alcuni potrebbero anche cominciare a pensa-
re di non presentarsi il giorno dell’esame e di rimandare ad altra data
la prova; insomma un pensiero negativo dietro l’altro, un rincorrersi di
nere profezie che acuiscono anche i sintomi dell’ansia somatica e che,
quasi certamente, andranno a inficiare veramente la vostra prestazione
determinando quella che gli Autori chiamano la catastrofe.
Fondamentalmente la teoria di Fazey e Hardy, introducendo un fat-
tore soggettivo come l’ansia cognitiva, spiega efficacemente ciò che la
teoria della U capovolta lasciava in sospeso: non sempre un livello
elevato di attivazione o di ansia somatica produce uno scadimento o
un decremento dell’attivazione. Ciò che in realtà inibisce il compor-
tamento efficace verso il compito è la percezione cognitiva che il sog-
getto possiede della propria competenza nel risolvere efficacemente
quel compito. Più elementi negativi l’individuo possiede sulla difficol-
tà del compito, sulle sue probabilità di svolgerlo, sulle sue competenze
generali, sulla sua preparazione specifica, più l’ansia cognitiva tende a
crescere e a inibire i comportamenti prestazionali corretti [Hardy e
Fazey, 1990].
Quasi negli stessi anni in cui Fazey e Hardy formulavano la teoria
della catastrofe applicata alle prestazioni sportive, Apter [1982; 1984]
introduceva, nell’ambito della psicologia della personalità, uno studio
sulla relazione fra ansia e prestazione in rapporto all’orientamento mo-
tivazionale dell’esperienza emotiva individuale. Si andava cioè deli-
neando la teoria meglio nota con il nome di Reversal Theory.
La teoria di Apter tenta di spiegare come ciascun individuo, rispet-
to alle proprie esperienze emotive, sia motivato a dirigersi verso livelli
preferenziali di attivazione e automaticamente a fornire una interpre-
tazione cognitiva dell’attivazione stessa attribuendogli un tono emoti-
vo di piacevolezza o di spiacevolezza (tono edonico [(*) Edonia]). Ne
deriva che, in maniera totalmente soggettiva, gli individui tendono a
considerare alti livelli di attivazione in termini di eccitamento (tono
piacevole) o di ansia (tono spiacevole), mentre bassi livelli di attiva-
zione possono essere interpretati come rilassamento (tono piacevole)
Le emozioni 43

o come noia (tono spiacevole). Fondamentalmente, quello di Apter, ri-


sulta essere un aggiornamento dettagliato della teoria motivazionale
della sensation seeking (ricerca di sensazioni), introdotta da Zucker-
man [1971] per spiegare le varie differenze individuali al bisogno di
stimolazione.
Già in quegli anni, infatti, l’Autore sosteneva e ipotizzava
l’impossibilità di affermare che gli individui siano portati in generale
ad abbassare i livelli di attivazione. Piuttosto, egli sostenne l’esistenza
di oscillazioni temperamentali individuali grazie alle quali ogni perso-
na tende a prediligere quelle attività che mantengono il livello ottimale
di arousal tanto che questo si diriga verso alti livelli di attivazione tan-
to che si orienti verso attività a bassa stimolazione [Zuckerman, 1979;
1980; 1991]. Apter
[1982], estese que-
sto concetto. Osser-
vate la figura a lato:
l’Autore ipotizza la
esistenza di stati
metamotivazionali
che rivelano la mo-
dalità soggettiva
con cui un indivi-
duo tende a valutare
la propria motiva-
zione verso specifi-
ci livelli di attiva-
zione piuttosto che verso altri. Come potete vedere esistono due diffe-
renti stati metamotivazionali: lo stato telico e lo stato paratelico
ognuno dei quali è connotato da due poli opposti di piacevolez-
za/spiacevolezza. Gli individui che si posizionano nello stato telico
tendono a preferire attività orientate a uno scopo definito, a intrapren-
dere attività pianificate e a percepire alti livelli di attivazione asso-
ciandoli ad ansia spiacevole e bassi livelli di attivazione come situa-
zioni piacevoli di rilassamento. Gli individui le cui tendenze metamo-
tivazionali si situano nello stato paratelico, al contrario, tendono a
preferire attività vivaci, caratterizzate da imprevisti e da problemi da
risolvere, sono impulsivi e interpretano bassi livelli di attivazione in
termini di noia spiacevole mentre gli alti livelli di attivazione sono in-
44 Capitolo I

terpretati come stati piacevoli di eccitamento. Apter [1984] riconosce


inoltre la possibilità che in particolari situazioni ambientali, psicologi-
che o sociali possano avvenire, nello stesso individuo, dei capovolgi-
menti (reversal) da uno stato metamotivazionale a un altro. In partico-
lare, sottolinea che tali capovolgimenti possono insorgere o per situa-
zioni ambientali che richiedono un immediato passaggio di stato, o per
situazioni frustranti in cui l’individuo sente che lo stato motivazionale
attuale impedisce il soddisfacimento di un particolare bisogno o, ulti-
me, per situazioni di saturazione in cui la lunga permanenza
all’interno di uno stato metamotivazionale da parte di un individuo
impone un cambiamento radicale.
Le conclusioni di Apter trovano dei punti di sostegno teorico anche
nei precedenti risultati delle ricerche di Thomas e Chess [New York
Longitudinal Study, 1977; 1980; 1986]. Gli Autori del primo studio
longitudinale sul temperamento4 infatti, dimostrarono che il compor-
tamento umano si muove lungo 9 dimensioni temperamentali che ma-
nifestano un livello molto alto di attendibilità; tra queste dimensioni la
soglia di responsività ossia il grado di stimolazione necessaria per ot-
tenere una risposta dall’individuo, che, secondo le descrizioni scienti-
fiche, corrisponde praticamente al livello di attivazione necessaria a
stimolare l’organismo a una reazione. Dalle osservazioni cliniche i ri-
cercatori constatarono che i bambini “facili” tendono a rispondere in
maniera coerente al livello di stimolazione mentre nei bambini “diffi-
cili” la soglia di responsività può essere molto bassa (per cui sono ne-
cessarie intense stimolazioni per ottenere una risposta) o molta alta per
cui stimoli apparentemente neutri possono scatenare intense risposte
neurofisiologiche e importanti reazioni negative. Se ne deduce, quindi,
che nei bambini difficili i livelli di attivazione soggettivamente otti-
male varia con il variare della struttura temperamentale di base. Anco-
ra, la teoria di Apter trova dei punti di connessione con la teoria EAS
sui tratti temperamentali di Buss e Plomin [1984]. In particolare, si

4
A rigore di chiarezza è comunque opportuno specificare che la teoria sul livello ottimale
di attivazione, come fenomeno influenzato dalle soggettive differenze temperamentali e stret-
tamente collegato alla struttura nervosa individuale, fu introdotto da Pavlov già nel 1935
[1935b] nel corso degli approfondimenti della ricerca sui riflessi condizionati [1927; 1935a]. Il
fenomeno, poi, fu ulteriormente approfondito con gli studi di Luria sul funzionamento cere-
brale e sulla neuropsicologia [1973].
Le emozioni 45

potrebbe affermare che il II° fattore temperamentale individuato dagli


Autori, l’attività con le sue caratteristiche tipologiche, coincida quasi
totalmente con gli stati metamotivazionali individuati da Apter. Buss e
Plomin ipotizzano, infatti, che il tratto dell’attività sia caratterizzato
dalla forza e dalla velocità con cui si esprime l’attività comportamen-
tale generale e che tale tratto sia fortemente connesso al livello ottima-
le di arousal per l’organismo. In questo senso, gli individui con basso
livello ottimale preferiscono attività a bassi livelli di attivazione; a dif-
ferenza di coloro che, possedendo un alto livello ottimale, prediligono
attività che producono forti stimolazioni.
La Reversal Theory fu poi utilizzata da Kerr e Cox [1988; Kerr,
1990] per spiegare eventuali fluttuazioni di rendimento prestazionale
rispetto ai diversi livelli di attivazione neurofisiologica e per tentare di
spiegare proprio quelle lacune pratiche della teoria della U capovolta.
Gli Autori ipotizzarono così che la spiegazione più ovvia alla mancan-
za di decremento della prestazione in casi di alta attivazione o, al con-
trario, il calo prestazionale in caso di bassi livelli di attivazione poteva
essere spiegata attraverso la reversal theory. Individuarono quindi
quattro differenti modalità di relazione fra attivazione e prestazione:
a) elevata attivazione  emozione spiacevole (stato telico)  ansia (si in-
nesca un meccanismo di stress che inibisce seriamente la prestazione);
b) elevata attivazione  emozione piacevole (stato paratelico)  eccita-
mento (scarso livello di stress che aumenta la possibilità di migliorare
la prestazione);
c) bassa attivazione  emozione piacevole (stato telico)  rilassamento
(il livello di stress è inesistente ed è probabile un’ottima prestazione su
compiti con procedura appresa e radicata o su cui il soggetto ha buone
probabilità di riuscita; in caso di compiti nuovi o improvvisi è probabi-
le uno scadimento della prestazione);
d) bassa attivazione  emozione spiacevole (stato paratelico)  noia (au-
menta il livello di stress e la bassa attivazione inibisce i comportamenti
finalizzati al compito quindi la prestazione può risultare fallimentare
per la sensazione di disinteresse e di fastidio).
La Reversal Theory, quindi, fornisce un ulteriore e indispensabile
aggiornamento delle due teorie precedenti: se è vero che si riscontra
un calo prestazionale in soggetti che superano in eccesso i livelli di at-
tivazione ottimale (teoria della U capovolta), è altrettanto vero che non
obbligatoriamente i livelli di arousal elevati si concludono con un calo
prestazionale a meno che non intercorra un fattore splittig, come
46 Capitolo I

l’ansia cognitiva, che infici le capacità reattive dell’individuo rispetto


al compito (teoria della catastrofe). Ma è altrettanto plausibile che
l’ansia cognitiva si manifesti con maggior frequenza in quei soggetti
che – vuoi per la struttura di personalità che possiedono, vuoi per fat-
tori situazionali contingenti – interpretano le modificazioni fisiologi-
che tipiche dell’ansia somatica in maniera sgradevole. Coloro i quali,
al contrario, valutano l’attivazione in eccesso come un fattore eccitan-
te, tenderanno a considerare l’ansia somatica come un elemento stimo-
lante e non presenteranno sintomi di ansia cognitiva come fattori in-
tervenienti negativi (Reversal Theory e teoria EAS).
Concludendo, mi sembra opportuno affermare che ognuna delle
teorie sopra esposte, in sé, possa soddisfare alcune domande ma ne
imponga altre che presuppongono il tentativo di fornire delle risposte.
In realtà, e secondo il mio modesto parere, è molto difficile poter defi-
nire quanto un elevato stato di attivazione neurofisiologica sia in gra-
do di inibire una nostra potenziale risposta comportamentale o quanto,
piuttosto, ci faciliti nel fornire una prestazione efficace.
Credo, in accordo con Apter, che dipenda in gran parte dalle nostre
reali tendenze motivazionali nella scelta o nel rifiuto di alcune attività
anche se penso – in accordo con Fazey e Hardy – che molto spesso le
nostre aspettative, le nostre rappresentazioni cognitive, le nostre insi-
curezze, ci inducano a un’attivazione eccessiva che ci spinge a fallire
laddove potremmo invece aver successo ed è anche altrettanto vero
che molto spesso l’intensità di certe paure, la violenza con cui certe
emozioni inaspettate ci colgono impreparati ci rendono forse troppo
ansiosi e ci impediscono di funzionare correttamente.
Risulta estremamente difficile, quindi, stabilire se sia valida l’una o
l’altra posizione teorica. Probabilmente la strada giusta è quella di
considerare come valido un approccio che includa tutte e tre le posi-
zioni contemporaneamente.
Le emozioni 47

1.3. Le emozioni fondamentali

La paura – il tema centrale di questo lavoro – è considerata, dagli Au-


tori che approcciano lo studio delle emozioni secondo il filone delle
teorie differenziali (o discrete), una delle emozioni primarie (o anche
fondamentali o di base). Secondo questo modello teorico, le emozioni
di base si sono evolute nei mammiferi e si sono specializzate
nell’uomo per dotarlo di risposte comportamentali e motivazionali ef-
ficaci per la sopravvivenza e l’adattamento alle richieste ambientali.
Per questo, quindi, ogni emozione primaria è altamente definibile;
ognuna di esse si differenzia, sostanzialmente e qualitativamente, da
ogni altra emozione – primaria o no – proprio in virtù della sua fun-
zione adattiva specifica. Ed è proprio a partire dalle emozioni di base e
dalle funzioni elementari di partenza che – nel corso delle esperienze
di socializzazione e di apprendimento, si andranno a costruire le emo-
zioni complesse (o derivate)5. Fra i maggiori esponenti delle teorie
differenziali è d’obbligo citare Paul Ekman insieme a tutti i suoi col-
laboratori [1992a; 1992b], Tomkins [1962], Izard [1992] e, indubbia-
mente, il precursore delle tesi evolutive sulle emozioni Charles Dar-
win che nel 1872 – grazie alla pubblicazione del volume “L’espres-
sione delle emozioni nell’uomo e degli animali” – fornì un impianto
teorico di partenza a tutti i ricercatori che seguirono.
Perché definire fondamentali solo alcune emozioni umane? Una
prima risposta, te la possono fornire le foto della pagina seguente.
Prova a scrivere, accanto alla lettera corrispettiva, quale emozione sta
manifestando Elena attraverso l’espressione del volto.

5
Alle teorie differenziali delle emozioni si contrappongono scientificamente le teorie
componenziali e le teorie dimensionali. Nelle prime, derivanti dalla impalcatura epistemolo-
gica della psicologia cognitiva, si afferma che è impossibile risalire a emozioni innate (o di
base) mentre è auspicabile pensare alle emozioni (tutte) come elementi fisiologici e compor-
tamentali il cui aspetto psicologico è frutto della valutazione cognitiva (appraisal) del sogget-
to [Schachter e Singer, 1962; Mandler 1984; Ortony e Turner, 1990]. La teoria dimensionale
introduce l’ipotesi che le emozioni non possano strutturarsi su basi elementari ma intorno a
strutture organizzative dimensionali di risposta ad uno stimolo (piacevolezza/spiacevolezza;
tensione/rilassamento; attivazione/deattivazione; allontanamento/avvicinamento) che solo
successivamente, attraverso l’apprendimento e l’acquisizione delle competenze linguistiche,
si sostanziano in emozioni propriamente dette [Davidson, 1992; Kring et alii, 2003; Posner et
alii, 2005].
48 Capitolo I

a)__________

b)__________

c)__________

d)__________

e)__________

f)__________

Fig. 1.5. – Le emozioni di base e la loro espressione


Adesso confronta le tue risposte con l’elenco in nota6.
Sono quasi certa che le tue definizioni coincidono con lo schema.
Giusto? Hai appena avuto la dimostrazione del motivo principale per
il quale queste sei emozioni vengono definite emozioni di base (o
emozioni primarie, emozioni fondamentali o Big Six): la loro espres-
sione non verbale è inequivocabile e – come già Darwin aveva affer-
mato nel 1872 – è universale, ossia non varia da cultura a cultura ed è
presente nell’uomo fin dalla nascita (vedi figura 1.6) [Ekman e Frie-
sen, 1969a, 1989; Izard, 1971]. Di più: alcune di queste espressioni
emotive sono presenti in alcune specie di primati non umani. Queste
tre principali caratteristiche – universalità, presenza nelle espressioni
dei neonati e presenza nei primati – inducono i ricercatori a ipotizzare
per queste sei emozioni un’alta funzione adattiva [Ekman, 1972; 1973;
1984; Galati, 2001].
Le emozioni complesse [Johnson-Laird e Oatley, 1989] o emozioni
derivate [Bellelli, 2001] invece, derivano da quelle fondamentali ma

6
(ɐɹǝlloɔ-ɐɹı) ɐıqqɐɹ (ɟ - (ǝɹodnʇs) ɐsǝɹdɹos (ǝ - (ǝuoıslndǝɹ-oɟıɥɔs) oʇsnƃsıp (p - ɐɹnɐd (ɔ
- (oʇɹoɟuoɔs) ɐzzǝʇsıɹʇ (q - (,ɐʇıɔılǝɟ) ɐıoıƃ (ɐ
Le emozioni 49

sono influenzate dai processi di apprendimento, dalla cultura di appar-


tenenza e, soprattutto, dipendono dalle caratteristiche soggettive. Una
ulteriore suddivisione include le emozioni sociali, così definite perché
strettamente connesse all’autovalutazione(*) e al giudizio sociale [Cor-
sano e Cigala, 2004; Saarni et alii, 2006; Barone, 2007]. Per compren-
dere i motivi della differenziazione fra emozioni fondamentali ed
emozioni complesse è utile ricordare l’impalcatura epistemologica su
cui si basa. Darwin, introducendo la teoria evoluzionista delle emo-
zioni [1872], ipotizzò che esistesse un numero limitato di emozioni di-
screte e che ognuna di queste rispondesse a caratteristiche funzionali.
Il risultato del suo lavoro si organizzerà intorno a sette tesi di base che
non avranno molto seguito tra i suoi contemporanei ma che, un secolo
più tardi, costituiranno il punto di partenza di tutti gli studi psicologici
incentrati sulle emozioni:
1. innatismo dell’emozione – Le emozioni sono il risultato della evo-
luzione, parte del bagaglio adattivo dell’individuo (sono infatti pre-
senti nel neonato – vedi figura 1.6.).

Fig. 1.6. – Le emozioni di base nel neonato


50 Capitolo I

2. Continuità filogenetica – [Poli, 2001; Chiarelli e Marongiu, 2007].


Vi è continuità fra le emozioni espresse dall’uomo e le espressioni
emozionali dei primati non umani.
3. Categorie emozionali – Esiste un numero alquanto limitato di e-
mozioni discrete o innate. Darwin, inizialmente, individuò 8 cate-
gorie:
a) sofferenza e pianto,
b) abbattimento e dolore,
c) gioia e allegria,
d) malumore e riflessione,
e) odio e rabbia,
f) disprezzo e disgusto,
g) sorpresa, timore, orrore,
h) vergogna, timidezza, rossore.
Solo in un momento successivo le categorie a-b-d furono raccolte
in un’unica categoria (poi definita genericamente tristezza); fu eli-
minata la vergogna in quanto non presente nei neonati e la sor-
presa e il timore andarono a costituire due categorie separate. Si de-
linearono, così, le Big Six o, meglio, le sei emozioni di base (vedi
figura 1.5 e 1.6). Ognuna di queste emozioni è una risposta a speci-
fiche situazioni scatenanti.
4. Le espressioni facciali sono analizzabili – Il volto è dotato di un
gran numero di muscoli e ogni espressione emozionale può essere
classificata sulla base delle differenti unità muscolari attivate per
ognuna di esse. Paul Ekman (forse il più conosciuto e il più impor-
tante studioso contemporaneo delle emozioni) attraverso l’analisi
dei muscoli facciali e delle singole microespressioni giungerà a
formulare un sistema di decodifica emozionale (FACS –  nota
10, capitolo 1) che permetterà alla psicologia di arricchirsi di nuove
scoperte e di nuovi strumenti di analisi dell’esperienza emotiva
umana.
5. Comunicazione sociale dell’emozione – L’espressione del volto che
indica la sperimentazione di una emozione permette, a tutte le per-
sone vicine a quell’individuo, di essere informate sul suo stato e di
agire di conseguenza.
6. Universalità dell’espressione – L’origine innata delle emozioni
fondamentali rende la loro espressione osservabile identica o molto
simile in ogni forma di cultura umana.
Le emozioni 51

7. Impatto dell’espressione sull’esperienza soggettiva – Lo sforzo


muscolare prodotto nell’espressione dell’emozione produce un im-
patto sul cervello che porta a definire la propria esperienza sogget-
tiva. Sostanzialmente, secondo le sue parole, «...il semplice atto di
simulare una espressione porta a farla nascere nel nostro spirito».
Sembrerebbe un’affermazione ingenua ma pochi anni più tardi Ja-
mes [1884] e Lange [1885] ( 18) formuleranno la teoria fisiolo-
gica periferica delle emozioni che si basa proprio su questo assun-
to. Non solo, alcune sperimentazioni recenti, hanno dimostrato la
plausibilità di tale tesi. Un esempio illuminante è stato
l’esperimento di Laird [1974] sugli effetti della retroazione faccia-
le: si chiedeva ai partecipanti di muovere in un certo modo alcuni
muscoli facciali (movimenti che simulavano – ovviamente – speci-
fiche espressioni emotive) adducendo spiegazioni molto distanti
dalle vere intenzioni dello sperimentatore. Successivamente veniva
misurata la condizione affettiva dei soggetti attraverso la registra-
zione di reazioni emotive di fronte alla visione di fotografie. I risul-
tati misero in luce che i cambiamenti muscolari imponevano ai
soggetti dei cambiamenti affettivi proprio in direzione
dell’espressione muscolare simulata. Effetti simili sono poi stati ri-
levati nel cambiamento della postura corporea [Stepper e Strack,
1993].
Per poter essere definita fondamentale, quindi, un’emozione deve
rispondere a dei requisiti teorici piuttosto rigidi [Ekman, 1999b]:
- avere un’espressione facciale comune a tutti gli esseri umani (tesi
6 di Darwin – risponde ai requisiti di universalità). Le espressioni
del volto esplicative dello stato emotivo vengono denominate con
il termine affect display [Ekman e Friesen, 1975], ossia come in-
dicatori significativi dell’emozione che il soggetto sta sperimen-
tando indipendentemente dalla loro effettiva trasmissione verba-
le7. Il concetto di universalità delle espressioni non verbali delle

7
Gli Autori hanno ipotizzato che gli affect display sono segnali rilevabili soprattutto nella
espressione del volto e non riconoscono ai gesti delle mani o ai movimenti del corpo un ruolo
determinante nella rilevazione degli stati emotivi. Altri Autori [Argyle, 1975; Raffagnino e
Occhini, 2000; Matsumoto, 2001; Elfenbein e Ambady, 2002] sostengono, al contrario,
l’esistenza di gesti o di movimenti che assumono carattere di specificità e universalità
nell’interpretazione della comunicazione non verbale di una emozione.
52 Capitolo I

emozioni, come abbiamo potuto constatare, è un pilastro teorico


già introdotto da Darwin; è però a Ekman, ai suoi studi, alle sue
proficue ricerche e al suo quarantennale lavoro, che si deve la
formalizzazione scientifica del principio di universalità. La spinta
iniziale alla ricerca in questo campo, inizialmente, scaturì dal suo
scetticismo. Egli non credeva affatto che l’espressione delle emo-
zioni potesse essere universale e quindi riscontrabile in forma
uguale o simile in culture diverse e furono i risultati del lavoro di
Tomkins [1962; 1963] che lo spinsero a intraprendere una lunga
ricerca sul campo tra le popolazioni tribali della Nuova Guinea. I
risultati delle sue ricerche gli dimostrarono che il suo scetticismo
era mal riposto: Darwin aveva ragione8 [Ekman, 1972; 1973]. Le
conclusioni dell’Autore, circa l’universalità della espressione del
volto di alcune emozioni fornì uno straordinario impulso alla ri-
cerca psicologica: a partire dalla metà degli anni ‘70, ad esempio,
Ekman e Friesen iniziarono a sviluppare il FACS9, uno strumento
quantitativo per la codifica delle espressioni e delle microespres-
sioni del volto, attraverso il quale furono legittimate e comprovate
molte teorie concernenti, non solo l’universalità, ma anche la pre-
senza delle emozioni di base nei neonati e la conseguente specia-
lizzazione di queste durante lo sviluppo [Russel, 1994], la presen-
za delle medesime forme espressive nei bambini e negli individui
nati ciechi [Charlesworth e Kreutzer, 1973] e nei primati non
umani [Geen, 1992; Hauser, 1993]. Le ricerche più recenti, grazie
anche ai sistemi tecnologici significativamente più avanzati di
quelli della fine degli anni ‘70, hanno poi dimostrato che le
espressioni di alcune emozioni non fondamentali presentano le
stesse caratteristiche di universalità e ricevono un alto livello di
riconoscibilità in varie culture analizzate. Fra queste il disprezzo

8
Per una panoramica completa del lavoro di Ekman si veda Ekman [2003] e Matsumoto
[2004].
9
FACS (Facial Action Coding System) è un sistema anatomico per individuare e descri-
vere esaurientemente tutti i movimenti facciali. Ogni movimento facciale, definito AU (Ac-
tion Unit), può essere scomposto sulla base dei micromovimenti che lo costituiscono (AUs). Il
sistema definitivo, pubblicato nel 1978, [Ekman e Friesen, 1978] descrive, attraverso un ma-
nuale, i criteri per individuare la specifica emozione di un volto sulla base della combinazione
dei vari AUs. Per una esemplificazione del sistema vi consiglio di visitare il sito ufficiale di
Ekman (www.paulekman.com).
Le emozioni 53

[Matsumoto e Ekman, 2004], l’orgoglio10 [Ekman, 2003; Tracy e


Matsumoto, 2008; Tracy e Robins, 2004] e anche l’imbarazzo
[Haidt e Keltner, 1999]. Fin dai primi anni ‘80, Ekman [1982]
aveva proposto di alzare fino a 10 il numero delle emozioni fon-
damentali proprio per i criteri di universalità delle espressioni del
volto riscontrati nel senso di colpa, nella vergogna, nel disprezzo
e nell’orgoglio ma, a una analisi più attenta [Ekman e Keltner,
1997], queste quattro emozioni non hanno superato la prova di
tutti i criteri distintivi di una emozione fondamentale. In specifi-
co: non sono osservabili nei neonati o nei bambini molto piccoli
che, per sviluppare le emozioni autocoscienti, devono superare
delle specifiche tappe cognitive, non è stato possibile, poi, defini-
re differenze o costanti nelle reazioni psicofisiologiche ( tabella
1.3., 56).
- Per essere definita fondamentale una emozione deve essere pre-
sente nel neonato e comparire fin dalla prima infanzia (tesi 1 di
Darwin – innatismo dell’emozione). Per alcune emozioni fonda-
mentali come la sorpresa, il disgusto, lo sconforto e la gioia e la
loro manifestazione fin dalle prime settimane di vita. Per una
esemplificazione vedi figura 1.6.
- Deve essere osservabile nei primati (tesi 2 di Darwin – continuità
filogenetica).
- Deve essere provocata dall’esposizione a situazioni universali. Le
emozioni fondamentali si distinguono rispetto alle emozioni com-
plesse proprio perché rispondono a specifiche circostanze scate-
nanti che risultano essere costanti in ogni forma culturale [Ma-
tsumoto, 2004]. La tristezza, universalmente, è la risposta emotiva
a un evento percepito come “perdita”; la gioia, invece, a una cir-
costanza che procura piacere o gratificazione; la sorpresa si attiva
a partire dall’esposizione a uno stimolo inaspettato; la paura dalla
percezione di minaccia; la rabbia è una reazione alla presenza

10
L’orgoglio, secondo Galimberti [1994], è il sentimento derivante dalla consapevolezza
del proprio valore, della propria adeguatezza rispetto agli scopi e della propria competenza ri-
spetto a certi compiti. Quindi, un’emozione autocosciente che ci segnala che gli obiettivi che
ci eravamo proposti sono stati raggiunti o – in alternativa – che abbiamo superato brillante-
mente un limite prima di allora mai superato [Nathanson, 1992; Oliverio Ferraris, 1992a].
Fondamentalmente, quindi, l’emozione che scaturisce dopo un successo e che si manifesta a
livello comportamentale, cognitivo e fisiologico con tutte le caratteristiche tipiche della gioia.
54 Capitolo I

nell’ambiente di un elemento che ostacola il raggiungimento di


uno scopo e il disgusto è una risposta ad uno stimolo percepito
come sgradevole. Nell’ultimo decennio un grande filone teorico,
noto come teoria cognitivo-evoluzionista (facente riferimento per-
lopiù alle teorizzazioni darwiniane e introdotta dalle teorie psico-
biologiche di Panksepp) introduce l’ipotesi che le emozioni defi-
nite fondamentali hanno una distinta struttura e funzionalità, in-
dagabile attraverso gli strumenti dell’etologia comparata e delle
neuroscienze [Panksepp, 1998; 2008]. La teoria psicobiologica,
attraverso severi studi di conferma, dimostra che nelle varie spe-
cie di mammiferi (non solo nell’uomo) ogni emozione fondamen-
tale presenta specifiche caratteristiche:
a. possiede lo stesso substrato anatomico (sistema limbico
30);
b. viene mediata dagli stessi processi neurochimici (ossia la li-
berazione di specifici ormoni o particolari neurotrasmettito-
ri);
c. l’attivazione neurofisiologica è simile ( arousal 32) e si
esprime attraverso pattern comportamentali equiparabili.
Partendo da questo assunto, l’innesco dell’emozione fondamenta-
le sarebbe indipendente dallo sviluppo, dalla conoscenza di sé e
dall’apprendimento e sarebbe da far risalire a meccanismi neuro-
nali di risposta in cui le valutazioni cognitive hanno un ruolo rela-
tivo e solo per ciò che concerne la regolazione che, invece, può
essere altamente influenzata dai meccanismi culturali di apparte-
nenza ma solo dopo che è avvenuto l’innesco prodotto da condi-
zioni ambientali appropriate. Condizioni ambientali (o anteceden-
ti emotivi) che risponderebbero a dei criteri di universalità proprio
perché profondamente legati alla sopravvivenza dell’individuo e
della specie.
Tale formulazione interpretativa è all’origine del concetto di si-
stema motivazionale a base innata [(*) Sistemi motivazionali] (so-
stitutivo del vecchio concetto di istinto): sistemi cerebrali derivati
dai processi di evoluzione e deputati a regolare il comportamento
e le emozioni in vista di uno scopo da perseguire perché necessa-
rio alla sopravvivenza e all’adattamento di ogni specie di mammi-
fero. Nell’uomo, i sistemi motivazionali non sono esclusivamente
“non sociali” (omeostatici o epistemici che siano), ma a questi si
Le emozioni 55

Tab. 1.2. – Sistemi motivazionali interpersonali (SMI) [Adattata da Liotti, 2005]

Attivato da SISTEMA Disattivato da


MOTIVAZIONALE

Conseguimento della vicinanza


Fatica, dolore, solitudine, perce-
della figura che può soddisfare i
zione di vulnerabilità, impos-
sibilità di soddisfare bisogni di
Attaccamento bisogni o ridurre il disagio; im-
possibilità di conseguire la meta
vario genere.
(inibizione del sistema).

Segnali di richiesta di protezione Segnali di sollievo e sicurezza


provenienti da un membro del Accudimento provenienti dall’altro.
gruppo sociale.

Segnali di sfida provenienti Segnali di resa o raggiungimento


dall’esterno o percezione di una Competitivo della meta.
risorsa limitata.

Obiettivo comune non raggiun-


gibile singolarmente ma in col- Cooperativo Conseguimento dell’obiettivo
laborazione, segnali non ago- comune, tradimento.
nistici.

Segnali comportamentali sedut-


tivi provenienti da un conspe- Sessuale Orgasmo.
cifico.

aggiungono i sistemi motivazionali che regolano le interazioni so-


ciali (per questo definiti SMI – Sistemi Motivazionali Interperso-
nali) che, più di altre, garantiscono l’adattamento dell’individuo al
gruppo e la sopravvivenza dello stesso fino al raggiungimento
della autonomia [Liotti 2001; 2005; Liotti e Monticelli 2008]. I
cinque SMI vengono attivati o disattivati nell’uomo da specifiche
condizioni che sono illustrate nella tabella 1.2.
Se ogni SMI consegue uno scopo fondamentale alla propria so-
pravvivenza, come abbiamo illustrato poco sopra, ne consegue
che ognuno di essi è strettamente collegato a una sequenza emoti-
va che si innesca ogniqualvolta il perseguimento dello scopo è fa-
cilitato o ostacolato dalle contingenze ambientali. Se osservate la
tabella 1.3., potete constatare che a un ostacolo al conseguimento
della meta corrisponde una classe di emozioni negative ( tabella
1.5., 59) che tendono a segnalare all’individuo stesso il rischio per
56 Capitolo I

il proprio benessere e per la propria sopravvivenza. Di contro, si


evidenzia che, ogni risposta e motiva, comporta una sequenza
Tab. 1.3. – Emozioni tipiche di ogni SMI [Adattata da Liotti, 2005]

Meta ostacolata SISTEMA Meta raggiunta


MOTIVAZIONALE
Paura (da separazione) Conforto
Collera (protesta) Gioia
Attaccamento
Tristezza (da perdita) Sicurezza (fiducia)
Disperazione

Ansia (sollecitudine) Tenerezza


Compassione (simpatia) Accudimento Gioia
Colpa

Paura (da giudizio)


Collera (da sfida) Orgoglio
Vergogna - Umiliazione Competitivo Superiorità
Invidia Trionfo
Disprezzo
Tristezza (da sconfitta)

Colpa Empatia
Rimorso Reciprocità
Isolamento Cooperativo Lealtà
Sfiducia Fiducia
Odio Condivisione

Paura (del rifiuto) Desiderio erotico


Gelosia Sessuale Piacere erotico
Pudore Mutualità erotica

emozionale complementare in un altro individuo con il quale esi-


ste interazione e che costituisce o l’ostacolo al raggiungimento
della meta o, al contrario, uno strumento sociale che ne permette
il conseguimento.
Appare evidente, osservando attentamente la tabella, che ogni
emozione fondamentale, così interpretata, risponde pienamente al
requisito fondamentale che prevede che queste siano attivate dalla
esposizione a condizioni e situazioni universali.
- Per essere definita fondamentale una emozione deve essere im-
provvisa e avere una durata limitata nel tempo. L’emozione, in-
fatti, è una reazione improvvisa a uno stimolo valutato come atti-
vante e, fisiologicamente parlando, ha una durata limitata nel
tempo. Tale caratteristica distingue le emozioni fondamentali,
come la paura o la sorpresa, dalle emozioni sociali che, in alcuni
Le emozioni 57

casi specifici, hanno la caratteristica di perdurare anche per molto


tempo (la vergogna, ad esempio) e traccia una linea di differen-
ziazione tra l’emozione e il sentimento. Una nota a parte circa
questo argomento va dedicata ad almeno tre delle emozioni fon-
damentali, la tristezza, la gioia e la rabbia. La tristezza, la quale è
scatenata da una percezione cognitiva di perdita, può perdurare
anche per un tempo maggiore (almeno fino a quando il senso di
perdita non si risolve) e diventare un sottofondo che influenza il
tono dell’umore (umore disforico [(*) Umore]) connotandosi più
come stato d’animo malinconico che come stato emotivo. La
gioia, di contro, si innesca a partire da una percezione di realizza-
zione degli scopi o di gratificazione rispetto a un bisogno; se le
esperienze positive si ripresentano con una certa frequenza nella
vita di una persona o se a queste si attribuisce un valore fonda-
mentale per l’assegnazione di caratteristiche positive alla propria
qualità di vita la gioia può diventare un sottofondo stabile
dell’umore (umore euforico [(*) Umore]) e, anche qui, connotarsi
più come stato d’animo che come semplice emozione; può assu-
mere, inoltre, i tratti tipici della felicità. La stessa considerazione
vale per la rabbia che si innesca nel momento in cui nell’ambiente
viene percepito un ostacolo che si frappone fra l’individuo e lo
scopo che intende raggiungere. La forza o l’inamovibilità dell’o-
stacolo possono dare origine a un protrarsi del senso di frustrazio-
ne e, di conseguenza, la rabbia tende a stabilizzarsi nel tono del-
l’umore per un periodo di tempo più prolungato (umore irritabile
[(*) Umore]).
- Deve distinguersi da tutte le altre emozioni. Infatti: mentre po-
trebbe essere difficile saper definire se ci sentiamo colpevoli di
una azione commessa o se invece ci vergogniamo per averla
commessa, le emozioni fondamentali hanno caratteristiche non
fraintendibili: o sia ha paura o non se ne ha; se si è tristi difficil-
mente potremmo confondere le sensazioni che proviamo con la
rabbia;
- Ogni emozione fondamentale ha differenti riflessi nell’arousal.
Ogni emozione di base si connota per reazioni psicofisiologiche
diverse che la connotano e la distinguono da tutte le altre [Palom-
ba, 2001]: la rabbia o la paura, ad esempio producono un aumen-
to del battito cardiaco ma, mentre la rabbia fa aumentare la tem-
58 Capitolo I

peratura corporea periferica la paura le fa subire un brusco de-


cremento ( tabella 1.4.).
- Le emozioni fondamentali hanno funzioni altamente adattive
[Damasio, 1999] per l’individuo e, per esteso, anche per il gruppo
sociale all’interno del quale questi è inserito.

Tab. 1.4. – Emozioni di base: caratteristiche e funzioni adattive


-

Emozione Espressione facciale Reazione psicofisiologica Funzione adattiva

Occhi/bocca spalancati; so- Battito cardiaco rallentato [(*) Prendere tempo per elaborare le
pracciglia sollevate; sguardo Bradicardia]; momentanea informazioni fornite da una si-
Sorpresa apnea(*); diminuzione del tono
orientato verso lo stimolo. tuazione sconosciuta
muscolare.

Fonte aggrottata; naso arric- Rallentamento del battito car- Evitare l’oggetto che procura re-
Disgusto ciato; guance e labbra supe- diaco; reazioni vasovagali[(*) pulsione; difendersi da eventuali
Nervo vago]
riori sollevate. significative e intense. rischi.

Sollevamento degli angoli Aumento lieve della frequenza


della bocca verso l’alto e Segnala l’assenza di stimoli mi-
cardiaca [(*) Tachicardia]; ele-
Gioia apertura della bocca; sol- nacciosi; predispone a relazioni
vato GSR11; respirazione irre- amichevoli e soddisfacenti
levamento degli zigomi; cor-
golare; diminuzione tono mu-
rugamento della fronte. scolare;

Angoli della bocca rivolti Battito cardiaco rallentato; bas-


verso il basso; avvicina- so GSR; diminuzione del ritmo Segnalare all’esterno la propria
mento delle estremità e- e della frequenza respiratoria; condizione di vulnerabilità
Tristezza sterne delle sopracciglia; diminuzione della temperatura
lieve protrusione del labbro periferica12.
inferiore verso l’esterno.

Battito cardiaco accelerato [(*)


Fronte aggrottata; occhi soc-
Tachicardia]; aumento della Fronteggiare un ostacolo per
chiusi; bocca stretta o squa-
Rabbia temperatura periferica; elevato raggiungere un obiettivo
drata; sguardo orientato ver-
GSR; dilatazione vasi sangui-
so l’oggetto.
gni (rossore del volto).

Occhi spalancati e fissi sul- Battito cardiaco accelerato;


lo stimolo; fronte distesa; diminuzione della temperatura Segnala la presenza di una mi-
Paura estremità interne delle so- periferica; aumento del ritmo naccia nell’ambiente e predispo-
pracciglia sollevate; bocca respiratorio [(*) Dispnea]; au- ne alla propria difesa
spalancata ( 84) mento tono muscolare.

11
GSR (Galvanic Skin Responses – Riflesso Galvanico della pelle o Riflesso psicogalva-
nico) – Conduttanza elettrodermica(*).
12
Per quanto riguarda la stretta correlazione fra espressione delle emozioni e modulazione
della temperatura periferica consiglio l’articolo di Zajonc «Emotional expression and tempe-
rature modulation» del 1994.
Le emozioni 59

Tutte le emozioni poi, si suddividono sulla base della loro valenza


in classi e, tali classi, racchiudono a loro volta famiglie di emozioni
che includono le diverse valutazioni cognitive della situazione. Posso-
no quindi orientarsi verso una valenza positiva o connotarsi in senso
negativo ( tabella 1.5., 59).
Alla classe delle emozioni startle appartengono quelle emozioni
che, come abbiamo già visto, si contraddistinguono per la indefinitez-
za della loro valenza: allo stimolo che attiva l’organismo a livello fi-
siologico non corrisponde la valutazione cognitiva da parte
dell’individuo.
Alla classe delle emozioni positive appartengono tutte quelle emo-
zioni che, a una valutazione cognitiva, risultano congruenti con gli
scopi che l’individuo si propone. Scaturiscono quindi nel momento in
cui l’organismo percepisce che non esistono ostacoli verso il raggiun-
gimento di una meta o ai fini del soddisfacimento di un bisogno
[Wallbott e Scherer, 1986]. A questa classe di emozioni appartiene la
famiglia della felicità, intesa come realizzazione del sé e come capaci-
tà di ottenere il raggiungimento dei propri obiettivi personali [Legren-
zi, 1998].

Tab. 1.5. – Classi e Famiglie delle emozioni fondamentali


Emozioni Emozioni derivate
Classe Famiglia
fondamentali (o complesse)

SORPRESA Startle Indefinita Dubbio – Perplessità – Indecisione

Contentezza – Serenità – Allegria –


GIOIA Positiva Felicità
Orgoglio

RABBIA Ira – Furore – Stizza – Indignazione


Negativa Protesta
DISGUSTO Irritazione – Disprezzo

Lutto – Malinconia – Disforia [(*)


TRISTEZZA Negativa Perdita
Umore]; Noia – Dolore – Nostalgia

Timore ( 89) – Apprensione (


PAURA Negativa Paura 91) Spavento – Terrore ( 90) – In-
quietudine ( 89) – Orrore ( 90)

La felicità, comunque, non va mai interpretata solo ed esclusiva-


mente con la sua sperimentazione casuale. Infatti, questa emozione
60 Capitolo I

coesiste con le strategie e con la pianificazione progettuale che l’uomo


attua per poter raggiungere, attraverso l’applicazione e lo sviluppo
delle proprie potenzialità, la condizione di felicità [D’Urso e Trentin,
2009a], come a sostenere che l’ottenimento di uno stato emotivo posi-
tivo si sostanzia, anche e soprattutto, nel comportamento che lo prece-
de e che è progettato ai fini di risultare efficace e gratificante in una
fase successiva [Natoli, 1994].
Alla classe delle emozioni negative appartengono quelle emozioni
che risultano dissonanti, a una valutazione cognitiva, con gli scopi che
l’organismo si propone e che insorgono nel momento in cui l’indi-
viduo percepisce una discrepanza tra quelli che sono i propri biso-
gni/scopi e la possibilità di soddisfarli [Lazarus, 1991]. Com’è facile
dedurre, anche dalla tabella a pagina precedente, il numero delle emo-
zioni negative è di gran lunga più elevato di quello delle emozioni po-
sitive. Le emozioni negative, infatti, si suddividono ulteriormente in
tre grandi famiglie: quelle della perdita, della protesta e della paura.
La spiegazione adattiva, alla netta distinzione tra emozioni positive
e negative, sembra fare riferimento al semplice meccanismo evolutivo
legato al sistema comportamentale di attaccamento. Se è vero, infatti,
che l’attivazione del sistema comportamentale di attaccamento regola
l’attività dell’organismo verso il conseguimento della vicinanza con la
figura che può soddisfare i bisogni o evitare le minacce ambientali, è
altrettanto plausibile che a questo meccanismo sia legata la sperimen-
tazione di intense reazioni emotive [Liotti, 1996, 2001] ( tabella
1.2., e tabella 1.3., 56). Per cui, alla presenza del caregiver(*) e alla sua
vicinanza, sono connesse tutte le emozioni positive appartenenti alla
famiglia della felicità [Bowlby, 1969]. Alla classe delle emozioni ne-
gative appartengono tutte quelle reazioni emotive che scaturiscono nel
momento in cui la figura di attaccamento non corrisponde alle richie-
ste dell’organismo.
La famiglia della protesta genera la rabbia che l’organismo speri-
menta nel momento in cui la figura di attaccamento si dimostra non
accogliente o non immediatamente disponibile alle richieste del bam-
bino. La famiglia della perdita, invece, sembra raccogliere la tristezza
e il dolore psicologico provocato dalla separazione con l’oggetto di at-
taccamento e dall’accentuazione della percezione della propria vulne-
rabilità [Bowlby, 1973a]. La famiglia della paura, in ultimo, raccoglie
tutte quelle esperienze emotive connesse alla minaccia verso la propria
sopravvivenza e il proprio benessere e sono legate all’allontanamento
Le emozioni 61

della figura di attaccamento o alla sua impossibilità di intervenire in


caso di reale bisogno [Bowlby, 1980].
Resta da chiarire un ultimo punto: nonostante il fatto che le emo-
zioni negative debbano essere considerate condizioni psicologiche
stressogene, va preso seriamente in considerazione il loro alto valore
adattivo. Se ci limitiamo a valutarle solo ed esclusivamente come
emozioni da evitare, potremmo essere indotti a eliminare dall’am-
biente dei nostri figli qualsiasi elemento che produca in loro una sen-
sazione di vulnerabilità e di impotenza. Nonostante l’apparente fun-
zionalità di questa tentazione essa, applicata al comportamento educa-
tivo, risulterebbe alla lunga estremamente deleteria per l’equilibrio
psicoemotivo del bambino [Gerhardt, 2004]. Sperimentare una emo-
zione negativa insegna all’individuo come evitarla, lo abitua a pianifi-
care delle strategie per affrontare gli eventi stressanti e insegna a tolle-
rare la frustrazione che naturalmente ciascuno di noi è costretto a spe-
rimentare nella relazione con l’ambiente e con gli altri. Educare
l’individuo a sopportare il carico delle emozioni negative e a farvi
fronte attraverso i giusti comportamenti, lo garantisce dalla dipenden-
za emotiva13 a figure che si limitano a gratificarlo ma, soprattutto, lo
rendono in grado di sviluppare quell’autonomia individuale necessaria
a sopperire alla separazione e alla perdita inevitabile della principale
figura di attaccamento.

13
La dipendenza emotiva è considerata il risvolto negativo della gioia e l’estremo disfun-
zionale del bisogno emotivo [Oliverio Ferraris, 1992a]. Infatti, mentre in un individuo con un
sano equilibrio il bisogno emotivo di sperimentare un’emozione piacevole è la motivazione
principale dei comportamenti che tendono a gratificare se stessi in maniera autonoma, la di-
pendenza emotiva si realizza quando il soddisfacimento del bisogno viene legato cognitiva-
mente ad un unico oggetto, ad una persona che è ritenuta, erroneamente, l’unica in grado di
creare le condizioni favorevoli per il proprio benessere o di eliminare dall’ambiente le situa-
zioni dolorose. Il funzionamento emotivo dell’individuo, quindi, lungi dall’acquisire una
qualche forma di autonomia, viene dominato dalla presenza/assenza della persona o dell’og-
getto deputato alla sua felicità con i quali, essendo questi reputati come gli unici responsabili
del suo benessere psicofisico, si stabilisce un legame relazionale di dipendenza che tenderà a
essere riprodotto in qualsiasi relazione successiva.
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