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Utilizzo del teatro nella formazione per la sicurezza

La legge, come abbiamo appena finito di vedere, dà indicazioni precise sull’obbligo di


formazione nell'ambito della sicurezza; se la cornice normativa è fondamentale, la criticità
consiste nel trovare il modo di progettare ed erogare un tipo di formazione che realmente
possa modificare gli atteggiamenti ed i comportamenti disfunzionali.

Acquisire una nuova conoscenza, persino riconoscere che sia veritiera, si rivela
<<insufficiente nel promuovere modifiche ai comportamenti di persone legate a vincoli
organizzativi spesso in contrasto con le esigenze della prevenzione1>>: sapere, per
esempio che le maschere difendono dalle polveri, saper cosa fare (la maschera si usa in
questo modo, in queste circostanze…) non vuol dire che i lavoratori automaticamente
useranno il prescritto Dispositivo di Protezione individuale. Questo naturalmente
nell'ipotesi migliore e cioè che gli stessi siano presenti, infatti non è detto che il datore di
lavoro a sua volta, pur avendo acquisito informazioni atte a dimostrargli che, conti alla
mano, è suo interesse investire in sicurezza, si deciderà ad agire in questa direzione.

Inoltre, atteggiamenti e comportamenti dipendono spesso da qualcosa di profondamente


diverso dal sapere e dal saper fare. Qui il formatore cita invariabilmente il “saper essere”,
concetto un po’ nebuloso, che insiste sull’area grigia del trasferimento dei primi due saperi
non solo in azioni concrete ma in competenze, atteggiamenti ed in relazioni; in altre parole
in cultura. Diviene quindi necessario focalizzare la necessità della creazione di una cultura
della sicurezza che si ponga sullo sfondo degli atteggiamenti e dei comportamenti
individuali.
Proprio quando si tratta di “saper essere” e di cultura della sicurezza entrano in ballo una
serie di complicazioni.

Prima tra tutte la cultura che le persone già hanno e che possiede una sua inerzia, una
sua resistenza ad essere cambiata. Per tutti è difficile cambiare idee, abitudini, opinioni. In
particolare per quanto concerne la sicurezza questi fattori si incernierano sull’immagine di
sé che le persone si sono costruite nel tempo e a valori socialmente radicati.
Per esempio è possibile, soprattutto in alcuni contesti, aver introiettato fin da ragazzi,
(quando ancora in ciò rientrava un misto di controdipendenza, di delirio di onnipotenza e di
incoscienza), che sfidare il rischio, anche temerariamente, equivale ad aver coraggio.
E il coraggio, si sa, ha buona parte nella cultura di molti paesi, a partire dai racconti epici
passando per le sfide estreme degli eroi cinematografici. Riscontriamo il fenomeno
radicato soprattutto nella cultura maschile, che è pur sempre quella dominante e che
spesso finisce, tramite una sorta di effetto alone, per contaminare anche quella femminile.
A scavare bene, d’altra parte, il coraggio è stato nel corso dei secoli una qualità
necessaria per gli uomini cui capitava con un’allarmante frequenza di essere chiamati a
partire per una qualche guerra.
Così si è creato il mito del coraggio come virtù virile e le donne sono state abilmente
programmate ad apprezzarlo e a ricercarlo. In modo che se ne restassero belle quiete a
casa ad aspettare il ritorno dell’eroe e non si perdessero col primo imboscato di turno.
Di conseguenza a volte si fa confusione e si finisce per scambiare per coraggio quello che
coraggio non è, ad apprezzarne le dimostrazioni persino nei casi in cui la differenza tra
coraggio e temerarietà e tra temerarietà e stupidità sia molto sottile. Il potente stimolo
dell’approvazione femminile e, ancor più, dell’ammirazione dei pari ha così rinforzato la
ricerca di comportamenti limite.

Il modello che la cultura della prevenzione e della protezione deve contrastare può essere
1
Frey M, in – formazione, pag. 4
quindi profondamente radicato: se il modello accettato è quello della temerarietà, una
formazione tradizionale ha poche possibilità di incidere. Occorre sostituire un modello
prevalente con un altro modello che deve risultare più attrattivo oppure attaccare o
almeno indebolire il modello dominante. Naturalmente si tratta di contrastare un modello
che è stato costruito e viene rinforzato usando mezzi particolarmente incisivi sul piano
emotivo e spesso proposto con una grande attenzione anche estetica. A poco servono
quindi proclami che nella migliore delle ipotesi ribadiscono solo conoscenze già possedute
a livello razionale, nella peggiore invece vengono percepiti come pedanti e paternalistici e
risvegliano quella voglia adolescenziale di ribellione che porta a fare esattamente il
contrario di quello che scienza e coscienza proporrebbero.

L’impatto di una rappresentazione è molto più forte di quello di una lezione, ha molta più
possibilità di fare presa. In primo luogo perché la rappresentazione teatrale si avvale di
una leva preziosa perché le persone si interessino a qualcosa: dà un contesto ai concetti
che si vogliono veicolare.
Insomma la sfida con le fonti di informazione che propongono la temerarietà come modello
viene giocata sullo stesso terreno, sul piano estetico, su quello della pregnanza emotiva e
su quello dell'incisività.
Infatti è molto più facile individuare nella rappresentazione di un evento qualcosa che già
si conosce e quindi trovare un terreno cui “agganciare” le nuove informazioni per collocarle
stabilmente nella memoria.
<<La memoria non è costituita da un singolo schedario d’archivio, ma è qualcosa di più
simile al velcro. Se osservate due lati di un pezzetto di velcro, vedrete che uno di essi è
ricoperto di migliaia di minuscoli ganci mentre l’altro è ricoperto di migliaia di minuscoli
anelli. Quando premete l’una sull’altra le due superfici facendole aderire, un grandissimo
numero di ganci si agganciano agli anelli…il cervello ospita un numero di anelli davvero
sbalorditivo. Quanti più ganci possiede un’idea, tanto meglio rimarrà impressa nella
memoria2>>

A questo si aggiunge il fatto che il teatro permette di caricare emotivamente le


informazioni.
Da un lato perché crea piccoli corti circuiti cognitivi dati dalla creazione di uno scenario e
dalla sua improvvisa rottura, dall'altro per la possibilità di utilizzare strumenti e registri più
ampi di quelli concessi in una formazione tradizionale.
Oltre a favorire il ricordo, l’emozione fa sì che le persone partecipino attivamente all’idea
che si vuole trasmettere. Per questo le enunciazioni e le statistiche, pur pertinenti, hanno
poca presa. Le persone sono programmate per reagire le une alle altre, non verso entità
astratte. Il teatro mette in scena situazioni, persone con una storia ed un contesto e per
questo risulta facile immedesimarsi e com-prendere. Quando si assiste a uno spettacolo
non si è di fronte a un problema astratto e nemmeno ad una massa indifferenziata con cui
è difficile identificarsi, ma a un personaggio, a “quello specifico” lavoratore con quello
specifico problema e quindi l’empatia è favorita.

Non è difficile accettare che sono le esperienze, unite alla possibilità di comprenderle, che
ci fanno cambiare ed in definitiva crescere.
Assistere ad una rappresentazione amplia le esperienze, aiuta a immagazzinare nella
propria mente un catalogo di situazioni critiche più variegato e più completo di quanto non
permetta di fare la propria esperienza personale, inoltre stimola a scegliere modelli
adeguati, si sperimenta quindi non solo la criticità ma anche le modalità con cui la stessa
può essere affrontata.
Ancora una volta diventa essenziale introdurre nella rappresentazione qualcosa di
2
Heath C e Heath D.,(2007), pag.88
inaspettato, un elemento di discontinuità con quanto gli spettatori, intuitivamente, si
aspettano. La discontinuità, lo stupore, il senso della scoperta, sono le basi
dell'apprendimento, del cambiamento di atteggiamenti ed abitudini e sono l'essenza
stessa del teatro. Naturalmente il contenuto deve essere credibile, anche attraverso
l’introduzione di dettagli convincenti e di riferimenti che permettano ai partecipanti, in modo
diretto o indiretto di sentire che quanto viene rappresentato li riguarda, parla di loro.

Un'ultimo aspetto che vale la pena di prendere in considerazione è il fatto che il teatro
permette di aggirare le difese che potrebbero essere suscitate da un intervento
tradizionale. Quando qualcuno sale in cattedra per dirti che quello che stai facendo da
anni è sbagliato, presenta rischi inaccettabili, può portare a conseguenze gravi, pone
inevitabilmente chi riceve il messaggio nella condizione di difendersi.
La difesa può innescarsi in modi diversi tra cui possiamo citare: la squalifica del relatore
(chi sei tu per dirmi queste cose, che cosa sai tu del mio lavoro), la negazione del rischio
(non è vero, stai dicendo cose sbagliate), la reattività (adesso ti faccio vedere che stai
dicendo delle cose non vere), il fatalismo (a me non capiterà, tanto se deve capitare
capita), la razionalizzazione basata su presupposti parziali (nella nostra azienda non ci
sono mai stati incidenti gravi).
A questo si aggiunge che alcuni interventi sono lenti, noiosi, ripetitivi, banali al limite
dell'offensivo e tutto questo attiva quella che in fondo è la modalità di difesa primaria:
semplicemente non ti ascolto.

Il teatro costituisce un ambito diverso, protetto, ludico, ironico ed autoironico. E' il territorio
nel quale si possono dire le cose che in altri ambiti sono proibite. Non mi sento in
condizione di difendermi quando qualcosa mi viene detto in ambito teatrale.
Accetto che i miei comportamenti vengano stigmatizzati ed eventualmente ridicolizzati.
Nello stesso tempo sono portato ad ascoltare perché vengo preso dalla narrazione,
perché mi sto sorprendendo, perché viene stimolata la mia curiosità. Nessuno mi sta
dicendo che ho sbagliato finora però rivedo dei comportamenti e degli atteggiamenti e
finisco per rifletterci sopra.

Con questo non stiamo dicendo che il teatro sia la soluzione ottimale a tutte le situazioni in
cui si intende introdurre la cultura della sicurezza ma che si tratta di uno strumento
estremamente flessibile che può affiancare e rinforzare sia percorsi formativi tradizionali
che campagne di sensibilizzazione. Uno strumento le cui potenzialità probabilmente non
sono ancora state pienamente esplorate. Ci auguriamo che questo libro possa
rappresentare un contributo per allargare il dibattito e la sperimentazione sul tema.

tratto da La Pasta Madre di Renata Borgato, Samantha Gamberini e Paolo Vergnani


in corso di pubblicazione presso Franco Angeli

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