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ESTETICA e SEMIOTICA in UMBERTO ECO: 1955-2002

Premessa Questo saggio vuole dimostrare alcune affermazioni che mi pare opportuno

esplicitare subito.

I L'estetica - pur non essendo l'ambito disciplinare istituzionale di Umberto Eco (come è noto

egli insegna Semiotica all'Università di Bologna da più di un quarto di secolo) - è stata non

solo lo stimolo iniziale della sua ricerca (la sua base di partenza) ma un suo costante oggetto

d'interesse per più di quarant'anni di studi, per l'esattezza dal 1955 al 1999. Scrive

significativamente lo stesso Eco nel 1963: "burocraticamente parlando, appartengo al genus

dei filosofi e mi occupo di estetica. In particolare sono interessato alla storia delle poetiche"

(cfr. Eco 1968a, p. 288) e nel 1990, a quindici anni dal Trattato di semiotica generale, precisa:

"chi conosce la mia bibliografia sa che altrove - scilicet dal Trattato - ho fatto estetica senza

infingimenti" (Eco 1990, p. 129). Ed infatti, per essere convinti di ciò, basta ricordare che di

estetica si occupano non solo opere degli anni Sessanta divenute leggendarie e proverbiali

quali Opera aperta, Apocalittici e integrati, Il superuomo di massa, ma anche opere recenti

quali Lector in fabula, o recentissime quali Kant e l'ornitorinco. Ne segue dunque

l'opportunità, oltre che la legittimità, di una puntuale analisi della teoria estetica di Eco.

II Fermo ciò - ossia che, in Eco, a fianco della riflessione semiotica vi è un altrettanto

rilevante pensiero estetico - è bene precisare che la sua estetica deve essere divisa e analizzata

in due distinte stagioni: quella presemiotica (dal 1955 fino a circa il 1968), quella ad impianto

semiotico (da quella data in avanti).

III Nondimeno, l'estetica e la semiotica di Eco non sono due "stagioni" genericamente

complementari, ma due ambiti della sua riflessione specificatamente coerenti. L'una dunque

sostiene, completa, dimostra l'altra e viceversa.

1 Contro Croce: Eco dagli esordi ad oggi

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1 Per verificare sinteticamente la validità del primo di questi assunti può essere utile iniziare

col ricordare il violentissimo attacco a Croce e alla sua estetica con cui termina l'ultimo libro

di Eco, Kant e l'ornitorinco; in queste pagine Eco afferma che Croce fu "grande maestro di

oratoria" e che le sue opere di estetica sono caratterizzate da "poche idee astrattissime"

dominate "dal modello verbocentrico" e da poche "adamantine certezze che paiono nascere da

scarsissima dimestichezza con le arti" e che in conclusione la sua estetica può essere

giustamente definita il "regesto di numerose battaglie perdute".

Se uno non conoscesse l'opera precedente di Eco, questa violentissima "coda estetica" a un

libro di cinquecento pagine di semiotica potrebbe stupire, ma invece è l'esito logico di una

polemica lunga e coerente, che di libro in libro caratterizza l'intera ricerca estetica di Eco: sarà

dunque la ricostruzione sommaria di alcuni passaggi di questa polemica la prima rapida

specula del nostro saggio (per inciso, e lo vedremo diffusamente nel corso di questo scritto, la

polemica contro Croce costituisce l'ambito in cui si viene formando il pensiero estetico del

giovane Eco).

Così, con assoluta circolarità logica, nel primo "vero" libro di Eco, Opera aperta, si dice che la

riflessione di Croce "fa della meditazione estetica una operazione di suggestivo nominalismo,

fornendo cioè affascinanti tautologie per indicare fenomeni che però non vengono spiegati"

(cfr. Eco 1962-1976, p. 67).

In La definizione dell'arte, del 1968, e un'altra volta sono le pagine conclusive, Eco afferma

che "si rimprovera a Croce" - e l'elenco ha qualcosa di giudiziario, quasi si elencassero i capi

di imputazione di un processo al tribunale della storia: "1) di aver trascurato le differenze

storiche ed empiriche tra i vari 'generi' artistici, le loro 'retoriche' specifiche, la loro

destinazione pratica e sociale; 2) di non considerare quindi i problemi delle tecniche artistiche

(il momento della costruzione concreta dell'opera, per Croce, non aggiungeva nulla alla

completezza dell'intuizione lirica); 3) di avere quindi accentuato il ruolo dell'intuizione

immaginativa e dell'emozione trascurando gli elementi di calcolo, di intelligenza, di

conoscenza tecnica che sono presenti nell'operazione dell'artista e devono esser presenti nella

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valutazione critica; 4) infine, proprio per questi motivi, di avere ristretto la metodologia critica

a una distinzione di poesia e non poesia, definendo il resto come 'struttura' non essenziale".

Se non bastasse questa requisitoria, in La struttura assente del 1968, sinteticamente Eco

definisce la dottrina crociana "vaga e insoddisfacente... un immaginoso gioco di metafore", e

in Sugli specchi e altri saggi del 1985 (una raccolta di "saggi che vanno dalla semiotica

all'estetica"), con forte sense of humour si precisa che "Croce era un maestro nel liquidare i

problemi definendoli pseudo-problemi" perché "questo gli permetteva di porre solo dei

problemi a cui avesse già trovato la risposta" (Eco 1968b, p. 61 e Eco 1985, p. 261).

Dunque possiamo dire che la polemica con Croce è, con assoluta evidenza testuale, una

costante delle opere di Eco; nondimeno, tra le tante pagine, è importante ricordarne una del

Trattato di semiotica generale dove la distanza della riflessione estetica di Eco dall'estetica di

Croce viene marcata in termini semiotici: "L'estetica dell'intuizione raggiunge il suo punto

massimo nella dottrina crociana della cosmicità dell'arte (...) Una simile definizione sembra

quanto vi sia di più lontano dal presente approccio semiotico" (Eco 1975, p. 329).

Questa ultima citazione ci permette però non solo di abbandonare Croce - lo "ripescheremo"

comunque in sede di chiusura - ma di passare ad analizzare i vari passaggi che portano Eco a

legare la sua estetica e le sue principali scoperte critico-letterarie non tanto ad una generica

polemica anti crociana, quanto e piuttosto ad un ineludibile fondamento semiotico.

Per arrivare a comprendere compiutamente la odierna teoria estetica di Eco e il suo impianto

semiotico è preliminare però analizzare l'estetica del periodo che Eco stesso, con sicura

padronanza storica della propria vicenda intellettuale, definisce "presemiotico" (cfr. Eco:

1962-1976, p. VIII; Eco 1990, pp. 5 e 8).

2 L'estetica del periodo "presemiotico": 1955-1968

Tralasciando dunque i primi, pur rilevanti, volumi di Eco dedicati alla storia dell'estetica

medioevale (Eco 1956 e Eco 1959) - i libri dai quali partire per comprendere la sua estetica

nel periodo "presemiotico" sono certamente Opera aperta del 1962 (seconda edizione 1965;

edizione definitiva 1971: faremo riferimento a questa, terzultima, edizione nella ristampa

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definitiva del 1976) e La definizione dell'arte, una miscellanea coerente di saggi pubblicati in

rivista tra il 1955 e il 1965 ma raccolti in volume solo nel 1968.

Intanto, e preliminarmente, che cosa intende Eco con "opera aperta"?

Secondo Eco ogni opera d'arte ha una duplice caratteristica, ossia di essere un oggetto

definito e al tempo stesso di essere "aperta" a una serie di interpretazioni coerenti: dunque, per

usare le parole di Eco, "un'opera d'arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di

organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille

modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così

una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l'opera rivive in una

prospettiva originale" (Eco, 1962-1976, p. 34 e cfr. Eco 1997, p. 378).

Importante notare che Eco chiama "dialogica" questa relazione affermando che "l'autore offre

al fruitore un'opera da finire: non sa esattamente in quale modo l'opera potrà essere portata a

termine, ma sa che l'opera portata a termine sarà pur sempre la sua opera, non un'altra, e che

alla fine del dialogo interpretativo si sarà concretata una forma che è la sua forma, anche se

organizzata da un altro in un modo che egli non poteva completamente prevedere: poiché egli

in sostanza aveva proposto delle possibilità già razionalmente organizzate, orientate e dotate

di esigenze organiche di sviluppo" (cfr. Eco, 1962-1976, pp. 58-59: cfr anche Hegel per il

quale l’opera d’arte è si “un mondo in sé concordante e conchiuso” ma anche capace di

“dialogo con chiunque le sia dinanzi” in Estetica, 1836, p 347).

Fermo ciò, è necessario ora comprendere perché il titolo originario di Opera aperta sarebbe

dovuto essere Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee e perché nella edizione

definitiva ne sia divenuto il sottotitolo: è da rilevare in realtà che nelle poetiche

contemporanee tale "apertura" - caratteristica propria di ogni opera d'arte - è ricercata e

voluta dagli autori "come una delle finalità esplicite dell'opera" (cfr. Eco, 1962-1976, p. VI e

p. 16).

Afferma Eco, in un testo degli stessi anni, significativamente intitolato "Un consuntivo

metodologico" che "la mia ultima ricerca sulle poetiche contemporanee, infatti, altro non è che

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il tentativo di elaborare dei modelli di poetiche che dimostrano come oggi sia in atto una

profonda mutazione del concetto di arte. L'opera d'arte sta diventando sempre più, da Joyce

alla musica seriale, dalla pittura informale ai film di Antonioni, un'opera aperta" (Eco 1968a, p.

293, sottolineature mie e cfr. anche Eco 1966).

Un altro concetto fondamentale per la comprensione di Opera aperta ne segue che sia il

concetto di "poetica", concetto non prettamente originale ma di grande importanza anche nel

successivo sviluppo della teoria estetica di Eco. Afferma Eco: "Noi intendiamo 'poetica'... non

come un sistema di regole costrittive... ma come il programma operativo che volta a volta

l'artista si propone... Esplicitamente o implicitamente: infatti una ricerca sulle poetiche (e una

storia delle poetiche; e quindi una storia della cultura dal punto di vista delle poetiche) si basa

sia sulle dichiarazione espresse dagli artisti... sia su una analisi delle struttura dell'opera, in

modo che, dal modo in cui l'opera è fatta, si possa dedurre come voleva essere fatta" (Eco

1962-1976, p. 18).

Insomma poetica viene ad indicare principalmente l'analisi dell'opera, lo studio delle strutture

immanenti all'opera, pur senza che questo implichi da parte di Eco alcun avvicinamento allo

strutturalismo; tutt'al più poetica va intesa "nel senso praghese: analisi e descrizione di

strutture" (Eco 1990, p. 135).

Importante per tutto questo nodo di problemi un'altra affermazione di Eco: "il modello di

un'opera aperta non riproduce una presunta struttura oggettiva delle opere, ma la struttura di

un rapporto fruitivo: una forma è descrivibile solo in quanto genera l'ordine delle proprie

interpretazioni, ed è abbastanza chiaro come, così facendo, il nostro procedimento si discosta

dall'apparente rigore oggettivistico di certo strutturalismo ortodosso... Se lo strutturalismo

avanza la pretesa di poter analizzare e descrivere l'opera d'arte come un 'cristallo', pura

struttura significante... allora... la nostra ricerca non ha nulla a che vedere con lo

strutturalismo" (Eco 1962-1976, p. 22).

In realtà Eco, proprio per quel che riguarda il termine chiave di "interpretazione", non era solo

genericamente lontano dallo strutturalismo, bensì più precisamente vicino al filosofo Pareyson,

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suo maestro e docente di estetica l'Università di Torino. E' in coerenza a ciò, che

l'Introduzione a Opera aperta si chiude con questa frase: "Infine dalle citazioni e dai riferimenti

indiretti, il lettore si renderà conto del debito che ho contratto con la teoria della formatività di

Luigi Pareyson; e non sarei arrivato al concetto di 'opera aperta' senza l'analisi che egli ha

condotto del concetto di interpretazione", anche se Eco ha subito modo di precisare che "il

quadro filosofico in cui ho poi inserito questi apporti coinvolge soltanto la mia responsabilità"

(per Pareyson cfr. anche Eco 1997, pp. 379, 389-90, 396).

Che cos'era dunque l'estetica per Pareyson? "Universalità della verità e personalità

dell'interpretazione, ossia l'idea che l'interpretare personalmente il vero non significa ridurlo a

relativismo. La verità si riesce a conoscerla mobilitando ciò che ciascuna epoca o individuo

hanno di più proprio... In più in lui c'era l'idea di una vocazione personalizzata alla verità" (cfr.

Vattimo, la Repubblica, 10 agosto 1997).

Dunque, e sinteticamente, credo sia esatto dire che negli anni Sessanta Eco applica una teoria

estetica mutuata dal suo maestro Pareyson (una versione che egli stesso definisce -

nell'Introduzione a I limiti dell'interpretazione - laicizzata, "secolarizzata") sia alle avanguardie

artistiche sia alla comunicazione di massa e alla cultura popolare (cfr. Opera aperta, 1962;

Apocalittici e integrati, 1964; Le poetiche di Joyce, 1966; La definizione dell'arte, 1968)

Se di Opera aperta (che nella prima edizione comprendeva anche Le poetiche di Joyce poi

divenuto libro autonomo) si è già parlato, e di Apocalittici e integrati, si parlerà più avanti, è

necessario ora soffermarci invece su alcune pagine del volume di saggi (1955-1968) intitolato

La definizione dell'arte.

Per comprendere l'importanza di questo volume può bastare ricordare che - nel saggio

significativamente intitolato "Il problema della definizione generale dell'arte" - inizia il dialogo

fecondo tra Eco e Dino Formaggio, oggi decano dell'estetica italiana, allora giovane esponente

di una fronda violentemente anticrociana", con queste parole: "Ora Formaggio ci dice, ne

L'idea di artisticità, del 1962, che l'idea dell'arte, che le poetiche moderne avevano proposto

come unica e assoluta, sta maturando ai giorni nostri una crisi secolare, tanto che si può

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legittimamente parlare di 'morte dell'arte', e di avvento di nuove forme che attendono una loro

adeguata descrizione filosofica. (...) Di fronte a una prospettiva del genere, chi scrive non

prova alcuna preoccupazione, perché di Formaggio condivide la radicale disponibilità verso il

divenire e il trasformarsi delle nostre concezioni intorno al Bello e alla Forma. (...) L'idea

dell'arte continuamente muta a seconda delle epoche e dei popoli, e ciò che per una data

tradizione culturale era arte, pare dissolversi di fronte a questi nuovi modi di operare e fruire"

(Eco 1968a, pp. 137-143).

E' bene anche ricordare, per comprendere tutto il valore euristico e fenomenologico di questa

citazione e quindi del riferimento a Formaggio, che tale attenzione troverà uno dei suoi vertici

dialogici trent'anni dopo nell'esplicito richiamo da parte di Eco "alla splendida dichiarazione

introduttiva con cui Dino Formaggio iniziava il suo volumetto Arte: 'Arte è tutto ciò che gli

uomini hanno chiamato arte''' (Eco 1985, p. 115 e Formaggio 1973-1981: cfr. poi Eco 1990,

p. 130).

Fermo ciò, è da rilevare che la concezione estetica di Eco non è solo, come appena detto,

fortemente antidogmatica e antinormativa, ma è anche caratterizzata, contro Croce, da una

precipua attenzione fenomenologico-descrittivo all'impianto materiale dell'opera d'arte, e che

in questo senso agiscono ancora le simmetriche sollecitazioni anticrociane di Pareyson e

Formaggio (cfr. anche Eco 1997, p. 385).

Scrive dunque Eco che se "l'estetica idealistica - scilicet di Croce - ci aveva... insegnato che la

vera invenzione artistica si sviluppa in quell'attimo dell'intuizione-espressione che si consuma

tutto nell'interiorità dello spirito creatore" e che "l'estrinsecazione tecnica, la traduzione del

fantasma poetico in suoni, colori, parole o pietra, costituiva solo un fatto accessorio, che non

aggiungeva nulla alla pienezza e definitezza dell'opera", al contrario l'estetica contemporanea

"proprio reagendo a questa persuasione... ha vigorosamente rivalutato la materia... per

comprendere che non c'è valore culturale che non nasca da una vicenda storica, terrestre, che

non c'è spiritualità che non si attui attraverso situazioni corporali concrete".

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Precisa ancora in questo senso Eco che "noi non pensiamo nonostante il corpo ma con il

corpo. La Bellezza non è un pallido riflesso di un universo celeste che noi intravediamo a

fatica e realizziamo imperfettamente nelle nostre opere: la Bellezza è quel tanto di

organizzazione formale che noi sappiamo trarre dalle realtà che esprimiamo giorno per

giorno" (Eco 1968a, p. 212: sottolineature mie: per l'importanza di questa definizione, sia in

termini estetici che di semiotica generale, si veda l'ultimo paragrafo del presente saggio).

E' da notare però che tutta questa costruzione estetica, capace di un'attenta comprensione

delle ragioni storiche dell'arte antica, medioevale e contemporanea, mancava di un preciso

quadro di riferimento, di "un quadro teorico unificante" (cfr. Eco 1962-1976, p. VIII; Eco

1964-1977, p. XV).

Si comprende dunque la successiva recisa affermazione di Eco: "Rivedendo a distanza il

lavoro compiuto negli anni successivi a Opera aperta, da Apocalittici e integrati alla Struttura

assente e di lì attraverso Le forme del contenuto al Trattato di semiotica mi rendo conto che...

tutti gli studi che ho condotto dal 1963 al 1975 miravano (se non unicamente almeno in buona

parte) a cercare i fondamenti semiotici di quella esperienza di 'apertura' di cui avevo

raccontato, ma di cui non avevo dato le regole, in Opera aperta" (Eco 1979, p. 8). A questa

ricerca dei fondamenti semiotici dell'estetica è dunque dedicato il prossimo paragrafo.

3 Estetica e semiotica: una ricostruzione diacronica

Per ricostruire questo passaggio e questo incontro è opportuno, seguendo le parole di Eco,

"andare con ordine". In realtà gli anni che vanno da Opera aperta al Trattato di semiotica sono

anni estremamente ricchi di scoperte intellettuali. Infatti a quanto finora palesato si aggiunge

con straordinaria velocità - a partire dal 1963 ed entro il 1965 - l'incontro di Eco con

Jakobson, i formalisti russi, Barthes, e lo strutturalismo francese (cfr. Eco 1990, p. 20). Non

solo, ma bisogna ricordare che la "nascita" della semiologia - l'attuale semiotica - è proprio di

quegli anni. Significativamente, dunque, Eco - alla domanda sul perché egli dica che la

semiotica ha ventotto anni o ne ha duemila - risponde che la semiotica ha "ventotto anni... se

si ricorda la discussione... cominciata dopo la pubblicazione in rivista degli Elementi di

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semiologia di Barthes nel 1964... Duemila perché la discussione sul segno comincia nel mondo

greco, con Platone e Aristotele" (la Repubblica, 31 marzo 1992 e cfr. Eco 1975, passim).

Per comprendere il quadro storico in cui si muove Eco, si possono leggere le pagine dedicate

ad Eco da uno dei maestri e dei protagonisti della "nuova" scienza semiotica, Cesare Segre.

Dice Segre, e siamo nel 1969, "Mentre Barthes e Buyssens hanno dato, ognuno a suo modo,

delle serrate sintesi teoriche o dei Grundzuge della semiologia, Eco ha invece voluto fornire

alla nuova disciplina un ampio sfondo culturale e filosofico, facendo convergere verso di essa

temi e problemi a prima vista eterogenei. Eco è infatti partito da un assioma dell'antropologia

culturale oggi molto diffuso: tutta la vita sociale può essere considerata come un fenomeno di

comunicazione, e perciò rientrare sotto il dominio della semiologia, dato che la comunicazione

non può che avvenire attraverso i segni. (...) Con... La struttura assente. Introduzione alla

ricerca semiologica, Eco ha dunque colto, con prontezza, una delle tendenze più stimolanti del

pensiero moderno; soprattutto egli ha avvertito che una prospettiva semiologica gli

permetteva di ordinare una serie di suoi interessi di ricerca che prima potevano sembrare

accostati più che relazionati" (Segre 1969, p. 48 e passim).

Fermo ciò, è bene poi precisare che la Struttura assente è sì il primo risultato "semiotico" di

Eco, ma frutto di una semiotica che egli definisce ancora "ansimante" (Eco 1968b, p. IV).

Che il vocabolo sia ben scelto lo dimostra la rapidità con la quale il giovane Eco teorico

dell'estetica da un ambito italiano e non ancora interamente post-crociano si è inserito in un

contesto euroamericano e semiotico. Non solo, ma palesa anche l'estrema rapidità con cui,

proprio tra il 1962 e il 1965, Eco trasforma il suo approccio ai problemi della comunicazione;

se Eco infatti era inizialmente debitore alla teoria dell'informazione e alle semantiche

anglosassoni, ora invece si apre alla linguistica strutturale e del formalismo russo. Con una

precisazione, ancora di Segre, che "in Italia lo strutturalismo è nato come post-strutturalismo"

(Segre 1996, p. 5). Con La struttura assente, ripetiamo del 1968, Eco raccoglieva infatti, con

assoluto tempismo, la distinzione fondamentale tra semiotica e strutturalismo: "A quei tempi,

1967-1968, - afferma Eco - non si capiva bene cosa distinguesse la semiologia dallo

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strutturalismo. Non era ancora chiaro che la prima, se non era una scienza, o una disciplina

omogenea, in ogni caso era l'approccio a un oggetto, dato o posto che fosse. Mentre il

secondo era un metodo per studiare quello, e altri, oggetti. (...) Certo... il rilancio di una

scienza dei segni veniva fatto allora, specie in Francia, nell'ambito della linguistica

strutturalista. Ma bastava questo elemento contingente, diciamo pure, di moda culturale, a

tener fermo l'equivoco quando si vedeva per esempio nell'opera di Jakobson una maggiore

flessibilità nell'introdurre nel discorso semiotico anche teorie e pratiche non strutturaliste,

come ad esempio quella di Peirce?" (cfr. Eco 1968b, p. IV).

Il nome di Peirce ci permette di evidenziare un'ulteriore caratteristica dell'estetica ad impianto

semiotico di Eco, ossia la sicura e precoce constatazione da parte di Eco della costante

tensione abduttiva e interpretativa richiesta dal testo estetico (cfr. Eco 1975, p. 341; per il

concetto di "abduzione", centrale in Peirce, vedi almeno, oltre Eco 1975 e Eco 1997, Proni

1990).

E' bene però precisare che "l'importanza dell'interpretazione in estetica e in semiotica non è...

una novità per Eco quando, attraverso Jakobson e Morris, inizia a leggere Peirce". In realtà,

se è vero che in Peirce Eco trova una conferma di qualcosa che aveva già affermato Pareyson,

è vero anche che egli recepisce dal filosofo americano proprio "una trattazione semiotica, ciò

filosoficamente più rigorosa e formale del processo interpretativo" (cfr. Proni in AA.VV. 1992,

p. 89).

Possiamo dunque dire che la definizione di estetica che verrà data da Eco nel suo periodo

semiotico risente tanto di Jakobson quanto di Peirce, ma non resta estranea a una tensione

etica di ascendenza pareysoniana.

Ecco un brano in cui si palesano, si combinano e si superano queste diverse tradizioni nelle

quali è cresciuto il pensiero estetico di Eco: "La comprensione del testo è basata su una

dialettica di accettazione e ripudio dei codici dell'emittente, e di proposta e controllo dei

codici del destinatario. Se la forma più usuale di abduzione consiste nel proporre codici

ipotetici per disambiguare situazioni non sufficientemente codificate, allora l'abduzione

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estetica rappresenta la proposta di codici che rendano il testo comprensibile. Il destinatario

non sa quale fosse la regola del mittente e tenta di estrapolarla da dati sconnessi

dall'esperienza estetica che sta facendo... Ma, anche così facendo, non tradisce mai

completamente le intenzioni dell'autore, e stabilisce una dialettica tra fedeltà e libertà. Da un

lato è sfidato dall'ambiguità dell'oggetto, dall'altro è regolato dalla sua organizzazione

contestuale. (...) Così una definizione semiotica dell'opera d'arte spiega perché nel corso della

comunicazione estetica abbia luogo una esperienza che non può essere né prevista né

completamente determinata, e perché questa esperienza 'aperta' venga resa possibile da

qualcosa che deve essere strutturato a ciascuno dei suoi livelli" (Eco, 1975, pp. 341-343).

Fermo dunque il forte inveramento dell'estetica di Eco nella sua semiotica, va però rilevato

che "più che di una conversione alla semiotica si tratta... di una vera e propria parallasse... il

testo estetico ha sempre costituito per Eco un modello di laboratorio" (Fabbri in AA.VV.

1992, p. 178). Alla luce di questo l'estetica è innanzitutto una branca della teoria della

produzione semiotica e della sua interpretazione e a questi due nessi problematici saranno

dedicati i prossimi due paragrafi.

4 Estetica e semiotica: una definizione teorica

Credo sia imprescindibile - per comprendere come Eco abbia raggiunto l'obbiettivo della

postulazione teorica di un'estetica "sub specie semiotica" - rifarsi ancora ad alcune pagine del

Trattato di semiotica generale che diventeranno inoltre la fonte esplicita o implicita di tutte le

sue successive posizioni.

Afferma Eco - con assoluta limpidezza estetica e semiotica e nel paragrafo dal titolo

significativo "Rilievo semiotico del testo estetico"- che un testo estetico possiede delle

caratteristiche semiotiche particolari e precisamente:

"i) un testo estetico implica un lavoro particolare vale a dire una manipolazione

dell'espressione;

ii) questa manipolazione provoca (ed è provocata da) un riassestamento del contenuto;

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iii) questa doppia operazione, producendo un genere di funzione segnica altamente

idiosincratica e originale, viene in certo qual modo a riflettersi sui codici che servono di base

all'operazione estetica, provocando un processo di mutamento di codice;

iv) l'intera operazione, anche se mira alla natura dei codici, produce di frequente un nuovo

tipo di visione del mondo;

v) in quanto mira a stimolare un complesso lavoro interpretativo nel destinatario, il mittente di

un testo estetico focalizza la propria attenzione sulle sue possibili reazioni, così che tale testo

rappresenta un reticolo di atti locutivi o comunicativi, che mirano a sollecitare risposte

originali".

Dunque l'esperienza estetica "tocca da vicino il semiotico"; ma vi sono, precisa Eco, anche

altre ragioni e vantaggi per i quali estetica e semiotica debbono avere reciproca attenzione.

Questa collaborazione infatti, può portare a "correggere molte delle posizioni dell'estetica

tradizionale: prima tra tutte quella presupposizione di 'ineffabilità' che per tanto tempo ha

guidato la definizione dell'opera d'arte".

Da notare che la pagina ora ricordata prosegue con una frase, citata alla fine del primo

paragrafo del nostro saggio, dove si palesa in Croce e nella sua estetica dell'intuizione il

massimo avversario italiano di un'estetica a impianto semiologico. Diversamente "la

definizione operativa più utile che sia stata formulata del testo estetico - prosegue Eco - è

quella fornita da Jakobson quando, sulla base della ben nota suddivisione delle funzioni

linguistiche, ha definito il messaggio a funzione poetica come AMBIGUO e

AUTORIFLESSIVO" (per le ultime citazioni cfr. Eco 1975, pp. 328-329, con tagli e lievi

modifiche).

Jakobson sarà dunque il nume tutelare della successiva teorizzazione estetica di Eco e il

richiamo alle sue posizioni codificate nei Saggi di linguistica generale del 1963 rimarrà

costante (cfr. Eco 1968b, pp. 60-83; Eco 1975, p. 329 e par. 3.7; Eco 1979, p. 217; Eco

1985, p. 74; Eco 1990, p. 159; ecc.; su Jakobson e la semiotica Eco 1978).

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Allora quali sono, sinteticamente e con una formulazione più discorsiva, le caratteristiche

dell'opera d'arte, caratteristiche di forte derivazione jakobsoniana ma di altrettanto forte

integrazione echiana:

1) ambiguità, intesa come "violazione delle regole del codice" (più precisamente Eco afferma

che "si ha ambiguità estetica quando a una deviazione sul piano dell'espressione corrisponde

una qualche alterazione sul piano del contenuto");

2) autoriflessività, intesa come la capacità del messaggio estetico, presentandosi come

semanticamente ambiguo, di imporre al destinatario una particolare attenzione interpretativa

proprio all'artificio semantico, cioè alla propria forma;

3) capacità di mettere in discussione "la verità". Eco afferma cioè, contro ogni forma di

irrazionalismo e intuizionismo estetico, che "il testo estetico, lungi dal suscitare soltanto

'intuizioni', provvede invece un incremento di conoscenza concettuale... e quindi contribuisce

a cambiare il modo in cui una data cultura 'vede' il mondo... Il che non equivale a dire che

l'opera d'arte 'dica la Verità'. Essa semplicemente mette in questione le verità acquisite" (cfr.

Eco 1975, pp. 329-343).

Se sulle due prime caratteristiche abbiamo già molto insistito, è da notare che la terza porta

già l'estetica a farsi carico di un atteggiamento etico, di un atteggiamento di responsabilità: su

questo torneremo specificatamente nel paragrafo conclusivo, ma è doveroso rimandare

almeno a Eco 1997 (cfr. pp. 19, 32, 390, 391, 397, 398).

Qui invece è importante ricordare come Eco riprenda e approfondisca la stessa definizione

d'arte, circa dieci anni dopo, con altre, più semplici ed incisive parole: "Noi siamo abituati a

ritenere opere d'arte quegli oggetti che a) da un lato ci obbligano a considerare il modo in cui

sono fatti e b) dall'altro, in qualche misura, ci lasciano inquieti perché non è cosi pacifico che

vogliano dire quello che apparentemente sembrano dire. In tale senso la 'ambiguità' non è

necessariamente riducibile alla deformazione, all'innovazione stilistica, alla rottura delle

aspettative; può essere anche questo (e spesso nell'arte contemporanea lo è o lo era) ma

soprattutto vuol dire 'sovrappiù di senso' o 'polisemia' che dir si voglia ( o vogliamo dire

13
"apertura"?). L'opera è lì, quadro, poesia, romanzo, sembra che ci racconti che esiste da

qualche parte una donna, un fiore, una collina... un poeta... eppure ci accorgiamo che non dice

solo quello, ma che ci suggerisce qualcosa di più (e talora proprio il contrario di quello che

sembra dire)" (Eco 1985, p. 74).

Data questa definizione di estetica e dei suoi rapporti con la semiotica, ed accennato ad al suo

rapporto con l'etica, è ora necessario approfondire un problema centrale in Eco, il problema

dell'interpretazione in campo semiotico ma anche estetico.

5 Il problema dell'interpretazione

Il problema dell'interpretazione in Eco è il problema del suo confronto con Heidegger e con i

suoi epigoni, in filosofia, in estetica, in semiotica.

Importante iniziare con il ricordare una pagina di un libro del 1971 - Segno - dove si palesa

ulteriormente contro chi Eco sia venuto costruendo la propria estetica e come tale estetica si

venga precisando proprio all'interno di una riflessione sulla semiotica e sul segno.

Afferma Eco che "vi è tutto un filone filosofico" che vede "il linguaggio come grande istintiva

metafora" ed è quindi portato "ad asserire che il linguaggio metaforico (e dunque poetico) è

l'unico strumento di vera conoscenza e di sostanziale comunicazione". Ne segue dunque che

"dai romantici a Heidegger... un intero capitolo della storia della estetica si fonde con la

filosofia del linguaggio... non l'uomo foggia il linguaggio per dominare le cose, ma le cose, la

natura o l'Essere si manifestano attraverso il linguaggio, il linguaggio è la voce dell'Essere, la

Verità altro non è che il disvelarsi dell'Essere attraverso il linguaggio (...) E' chiaro che se

questo libro - Segno- esiste è perché non accetta tale ipotesi " (cfr. Eco 1971, p. 97 ma vedi

anche Eco 1968b, pp. XIV- XVIII e pp. 339-360).

Eco dichiara così l'opposizione genetica e radicale della sua semiotica rispetto a questa

impostazione filosofica, ma non mi pare estensione scorretta affermare che nemmeno l'estetica

di Eco accetti tale impostazione (cfr. Eco 1997, p. 23 e tutto il saggio "Sull'essere" con il

fondamentale paragrafo "L'interrogazione dei poeti", una vera resa dei conti con l'estetica di

Heidegger). Di Heidegger è importante pertanto ricordare alcuni noti passi di dove si afferma

14
che il poeta esprime il mistero, che nel linguaggio poetico noi troviamo l'orma della verità che

si nasconde alla filosofia e dunque che, se l'esistenza è un esilio, la poesia ci riporta alla

"patria", nel "regno dell'essere" (cfr. Heidegger 1927, 1929, 1935, 1936, 1946, passim). Nasce

da questi concetti infatti l'opposizione tra le ermeneutiche di derivazione heideggeriana e la

teoria dell'interpretazione, anche in campo estetico, di Eco: la prima porta a una concezione

per la quale il testo non ha punto di arrivo, il testo è infinitamente decostruibile perché

connaturato al mistero, l'altra a porre dei limiti all'interpretazione e ad affermare, come si

vedrà nell'ultimo paragrafo, ben altra nascita del fatto artistico.

Non stupisce quindi che la questione dei limiti dell'interpretazione, sottesa a tutta la riflessione

estetica di Eco, diventi il tema principale e il titolo del libro del 1990. L'estetica e la semiotica

letteraria di Eco contrastano infatti due "fanatismi epistemologici", ossia "quello del 'realismo

metafisico' che predica la natura oggettiva del testo, come lo strutturalismo più rigido, e

quello delle infinite interpretazioni, che caratterizzerebbero invece la semiosi ermetica, il

decostruzionismo più radicale, e l'empirismo sociologico". In realtà Eco non pare oggi "affatto

preoccupato dal primo fanatismo liquidato nella Struttura assente. Il suo problema è tutto

interno al secondo corno del dilemma, cioè alla regolamentazione di una flessibilità

interpretativa che va comunque salvaguardata" (cfr. Pozzato in AA.VV. 1992, pp. 244 e 245).

Per essere ancora più espliciti è contro Derrida - o meglio contro gli eccessi del

decostruzionismo e dell'epigonismo heideggeriano - che vanno posti dei limiti: la loro

ermeneutica infatti sostituisce alla centralità del testo quella del lettore ed è divenuta, con la

duplice crisi dello storicismo e dello strutturalismo, una prospettiva egemonizzante,

sintomatica inoltre di una grave crisi non solo metodologica quanto, e più precisamente, etica.

Al contrario Eco - attraverso la distinzione tra uso e interpretazione come teoria che segna un

"limite" all'interpretazione - propone all'interno della pratica interpretativa una dimensione di

scelta metodologica e di controllo etico: "in termini testuali stabilire di che cosa parla un testo

significa prendere una decisione... In ogni modo, dal momento in cui la comunità è indotta a

concordare su una data interpretazione si crea un significato che se non è oggettivo, è almeno

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intersoggettivo... Difficile decidere se una data interpretazione è buona, più facile riconoscere

quelle cattive. Così il mio scopo non era tanto quello di dire che cos'è la semiosi illimitata, ma

almeno cosa non è e non può essere" (Eco 1990, pp. 336-338).

Nessuna lettura e nessuna interpretazione è dunque l'ultima e definitiva, ma ogni lettura e ogni

interpretazione può essere buona o "cattiva", corretta o scorretta da un punto di vista

metodologico ed etico. E' così che Eco giunge a teorizzare un'estetica "sub specie semiotica",

di un'estetica che trova una sua distinta legittimità in un dialettico rapporto di cooperazione

con la semiotica come teoria della falsificazione e della verifica etico-scientifica (cfr. Eco

1990, p. 130, e, per la concezione della semiotica come "teoria della menzogna", Eco 1975, p.

17 e passim).

Dunque, se è esatto affermare, come fa Eco, che "il problema dell'interpretazione, delle sua

libertà e delle sue aberrazioni, ha sempre attraversato il mio discorso" è però anche necessario

ricordare questa sua precisazione: "Parrebbe.. che, mentre allora - scilicet negli anni Sessanta -

celebravo un'interpretazione 'aperta' delle opere d'arte, ammesso che quella fosse una

provocazione 'rivoluzionaria', oggi mi arrocchi su posizioni conservatrici. Non mi pare che sia

così. Trent'anni fa, partendo anche dalla teoria dell'interpretazione di Luigi Pareyson, mi

preoccupavo di definire una sorta di oscillazione, o di instabile equilibrio, tra iniziativa

dell'interprete e fedeltà all'opera. Nel corso di questi trent'anni qualcuno si è sbilanciato troppo

sul versante dell'iniziativa dell'interprete. Il problema ora non è di sbilanciarsi in senso

opposto, bensì di sottolineare ancora una volta l'ineliminabilità dell'oscillazione. Insomma, dire

che un testo è potenzialmente senza fine non significa che ogni atto di interpretazione possa

avere buon fine. Persino il decostruzionista più radicale accetta che ci siano delle

interpretazioni che sono radicalmente inaccettabili. Questo significa che il testo interpretato

impone delle restrizioni ai suoi interpreti. I limiti dell'interpretazione coincidono con i diritti

del testo" (cfr. Eco 1979, p. 8 e Eco 1990, pp. 13-14).

E' da rimarcare qui un importante ed ulteriore passaggio logico: la distinzione tra uso e

interpretazione ci ha portato ad affermare, se non la prescrittività, per certo la imprescindibilità

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di un'impostazione semiotica per l'estetica. Ritengo infatti sia evidente che Eco respinge in

linea di principio un'estetica che non sia ad impianto semiotico, un'estetica che cioè non sia

capace di riflettere sulle caratteristiche testuali, e di strategia testuale, dell'oggetto estetico.

Afferma Eco: "Apparentemente la nostra indagine non si è preoccupata di discernere i valori

estetici. Ma l'aver mostrato come un testo funziona, e in virtù di quali strategie funzioni così

bene (nelle sue volute disfunzioni) da obbligarci a considerarne la struttura ai suoi vari livelli,

dalla superficie lessematica ai livelli più profondi, ci dice ancora una volta che il messaggio

estetico possiede la duplice qualità dell'ambiguità e dell'autoriflessività, e che nel lavorare a

livello dell'espressione produce alterazioni nell'ordine del contenuto e ci impone di rivedere

l'intero universo dell'enciclopedia che mette in crisi".

Dunque "dopo aver attualizzato semanticamente il testo, si procede a valutarlo, a criticarlo, e

la critica può puntare alla valutazione del suo successo 'estetico'. (...) Il critico in questo caso

è un lettore cooperante che, dopo aver attualizzato il testo, racconta i propri passi cooperativi,

e rende evidente il modo in cui l'autore, attraverso la propria strategia testuale, lo ha portato a

cooperare in quel modo. O ancora, valuta in termini di riuscita estetica (comunque

teoricamente la definisca) le modalità della strategia testuale. I modi della critica sono vari, lo

sappiamo... la differenza che ci interessa... passa... tra critica che racconta e mette a frutto le

modalità di cooperazione testuale e critica che usa il testo... per altri fini" (Eco 1979, p. 217 e

pp. 179-183: qui e nelle ultime tre citazioni sottolineature mie).

Ribadita l'importanza di tutto questo, va poi rilevato che la teoria estetica e letteraria di Eco -

proprio perché così attenta ad affiancare alla teoria della produzione segnica in campo estetico

una teoria della interpretazione e della ricezione - si è mostrata in realtà anche sempre aperta

ed interessata non solo ad una corretta valutazione e comprensione dell'universo

massmediologico, ma anche dei problemi inerenti alla sua produzione e alla sua recezione.

Approfondiremo dunque questi concetti nei prossimi due paragrafi dedicati in particolare ai

rapporti della riflessione estetica di Eco con i mezzi di comunicazione di massa, poi con la

letterarietà e la narratologia.

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6 Semiotica, estetica, mezzi di comunicazione di massa

"La Pavone e Superman a braccetto con Kant" così si intitolava una recensione a Apocalittici

e integrati. Comunicazione di massa e teorie delle comunicazioni di massa, del 1964.

Effettivamente nella prima "incursione" massmediologica di Eco venivano analizzati - con

assoluta acribia ma in un contesto ancora presemiotico - sì i "fumetti", ma anche i problemi

della televisione, della letteratura piccolo borghese, della musica registrata, del romanzo

popolare, ossia i temi di quella che spiritosamente, l'autore stesso definiva "Estetica dei parenti

poveri" (cfr. Eco 1963).

Fin dal titolo Apocalittici e integrati evidenziava in realtà chi fossero i "parenti ricchi", gli

"apocalittici fiammeggianti", domiciliati, come avrebbe detto da lì a poco Fortini, all'Hotel

Abisso.

Se primo obiettivo polemico del libro era così Elémire Zolla e il suo sdegnato, "apocalittico"

rifiuto della contemporaneità, più in generale l'introduzione e il saggio conclusivo delineavano,

come poi le introduzioni alle successive ristampe, una sociologia e una fenomenologia del ceto

intellettuale italiano del dopoguerra di fronte alla nuova società di massa e ai suoi mezzi di

comunicazione.

Ne seguiva quindi che il secondo obbiettivo polemico fossero gli "integrati", tra le cui schiere

compare, per la prima volta in un testo di estetica, un uomo-massa quale Mike Bongiorno

presentato in un esilarante confronto-contrasto con uno dei più assidui frequentatori

dell'altrove assoluto, John Cage.

Rilevata la freschezza e la valenza quasi fondativa di questi saggi per una realtà quale quella

italiana del tempo, va poi rilevato che "quadro teorico unificante" di questo libro resta

implicito e si paleserà solo qualche anno dopo nel già citato Struttura assente, un volume la

cui affermazione centrale era che "la semiologia... studia tutti i fenomeni culturali come se

fossero sistemi di segni - basandosi sull'ipotesi che tutti i fenomeni di cultura siano sistemi di

segni e cioè che la cultura sia essenzialmente comunicazione" (Eco 1968b, pp. XV e p. 191).

18
Dietro questa affermazione è facile riconoscere la presenza di Barthes e in particolare dei suoi

Elementi di Semiologia del 1964. Se all'importanza di Jakobson abbiamo già fatto cenno

("Non è neppur necessario citare quel che Jakobson aveva scritto... sulle funzioni del

linguaggio per ricordare come... categorie quali Emittente, Destinatario e Contesto fossero

indispensabili per trattare il problema della comunicazione, anche estetica": Eco 1990, p. 6),

per quel che riguarda l'importanza di Barthes si deve in primo luogo aver presente che nella

sua opera troviamo saggi dedicati alla moda, all'alimentazione, all'automobile, alla fotografia,

alla pubblicità, al cinema.

Inoltre va osservato che la semiologia nasce in Barthes proprio "dall'esigenza epistemologica

di prendere le distanze dalla sociologia, dalla necessità cioè di rendere conto di quel nuovo

oggetto di sapere (la significazione) a cui la società di massa fa sempre più ricorso, e che il

tradizionale metodo delle scienze sociali non sa ricostruire nelle sue complesse forme e

innumerevoli funzioni" (G. Marrone, Lexia, dic. 1994 e vedi anche Eco 1994 e Eco 1978).

Scriverà pertanto Eco nell'introduzione 1974 alla ristampa di Apocalittici e integrati : "Ma in

fondo se questo libro mi interessa ancora è per altre ragioni: è che mi ha aperto

definitivamente la strada agli studi semiotici. Con Opera aperta avevo studiato il linguaggio

delle avanguardie, con Apocalittici e integrati studiavo il linguaggio del loro opposto (o, come

altri diranno, del loro fatale complemento). Ma di fronte a due fenomeni così apparentemente

divaricati, in cui i linguaggi venivano utilizzati in modo così diversi, avevo bisogno di un

quadro teorico unificante. E questo quadro mi si fa chiaro proprio mentre lavoro sul saggio

sul Kitsch, dove inizio ad utilizzare la linguistica jakobsoniana. E in questa prospettiva i saggi

che sarei pronto a ricuperare senza troppe correzioni sono quello su Steve Canyon... quello

sul Kitsch, quello sull'uso pratico del personaggio e quello su Superman". Dunque, precisa

Eco, in questi saggi - che mi pare corretto definire inerenti ad un'estetica dei mezzi di

comunicazione di massa - "si sono fatti strada gli strumenti semiotici... che poi ho applicato

nei miei studi sul messaggio televisivo, sulle strutture narrative nei romanzi di Fleming, sui

rapporti tra retorica e ideologia ne I misteri di Parigi di Sue, sulla stampa quotidiana, nelle

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analisi della pubblicità apparse ne La struttura assente e Le forme del contenuto" (cfr. Eco

1964-1977, pp. XIII e XV).

Imprescindibile quindi, alla luce di tutto questo e per tutto l'insieme dei problemi qui

accennati, ossia lo statuto della semiotica, dell'estetica, della teoria delle comunicazioni di

massa, analizzare il saggio, contenuto in Apocalittici e integrati, sul Kitsch, un problema che

chiede, per una sua adeguata comprensione, l'utilizzo di tutte e tre le competenze sopra citate;

"il cattivo gusto soffre infatti - esordisce Eco - della stessa sorte che Croce riconosceva come

tipica dell'arte: tutti sanno benissimo cosa sia e non temono di individuarlo e predicarlo, salvo

trovarsi imbarazzati nel definirlo".

La sfida a Croce mostra qui tutta la genialità "combinatoria" di Eco, la sua capacità di

"bricoleur", di manovrare enciclopedie culturali vastissime.

Il vero punto di genio è nell'accogliere la definizione d'arte di Jakobson e di comprendere che

il Kitsch ne è "semplicemente" non la negazione ma il ribaltamento.

Sappiamo, con Jakobson, che il messaggio estetico, per il suo essere ambiguo e autoriflessivo,

è "una struttura complessa capace di stimolare una decodificazione assai varia", di costituire

"un imprevedibile territorio di indagine", di svolgere "una funzione di scoperta e

provocazione" e di "essere sempre rivissuto in questa dimensione di novità".

Al contrario il Kitsch è una forma morta, una forma consumata, che "finge la scoperta e la

novità": è cioè un messaggio "ridondante" in cui il surplus informativo non è giustificato dalla

funzione referenziale, ma dalla sua necessità ontologica e strutturale di esibire "una

menzogna" e "una vita ridotta a menzogna", stimolo a "evasioni acritiche", "illusione

commerciabile". Il fruitore crede "di aver consumato arte e di aver visto nel volto, attraverso

la Bellezza, la Verità"; in realtà l'esperienza che ha vissuto travestita da "esperienza estetica ne

riconferma la sostanziale falsità".

"E' Kitsch - prosegue Eco esemplificando - la figura alta sul radiatore della Rolls Royce,

elemento grecizzante inserito a fini di ostentato prestigio su un oggetto che dovrebbe a più

onesti criteri aereodinamici ed utilitari; ma, a un livello sociale inferiore, è Kitsch la seicento

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mascherata da macchina da corsa, percorsa da strisce orizzontali rosse e dotata non già da

paraurti normali, ma da due piccoli rostri, a imitazione di certe macchine da circuito

agonistico... ed è Kitsch il divano in stoffa stampata che riproduce le donnine di Campigli, non

perché lo stile di Campigli appaia consumato o 'massificato', ma perché quelle figure sono rese

volgari dall'essere fuori di luogo, inserite in un contesto che non le richiede; come il quadro

astratto riprodotto sulla ceramica, l'arredamento di un bar che rifà Kandinskij o Soldati o

Reggiani".

Insomma "Kitsch è l'opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si

pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve" (sul "grave

problema del Kitsch" cfr. anche Formaggio 1973, p. 135 e passim).

Definito così, sul piano di una teoria ad un tempo semiotica ed estetica, arte e Kitsch resta da

definire il messaggio massmediologico "artigianalmente corretto", quello cioè che "tende a una

funzione di onesto consumo", volto dunque a "stimolare esperienze di vario tipo, non

disgiunte da una serie di emozioni estetiche, e che a questo scopo mutua dall'arte (...) modi e

stilemi, senza peraltro banalizzare ciò che ha mutuato, ma inserendolo in un contesto misto,

tendente sia a stimolare effetti evasivo-consolatori, che a promuovere esperienze interpretative

di una certa dignità".

Quando, ad esempio, un compositore è naturalmente dotato "può nascere un prodotto... tale

da sfuggire al Kitsch per diventare un corretto prodotto medio, una gradevole divulgazione".

Insomma tra il Kitsch "gastronomico" e L'Arte, la società di massa presenta una vastissima

galassia di messaggi che chiedono attenzione critica: "Si tratta naturalmente di casi da

indagare criticamente situazione per situazione: ancora una volta la riflessione estetica

stabilisce le condizioni ottime di un'esperienza comunicativa, non dà indicazioni per il giudizio

sui casi singoli". Si tratta cioè di "porre l'accento sulla serie di gradazioni, che, all'interno di un

circuito di consumo culturale, si creano tra opere di scoperta, opere di mediazione, opere di

consumo utilitario e immediato, e opere falsamente aspiranti alla dignità dell'arte. E dunque

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ancora una volta tra cultura d'avanguardia, cultura di massa, cultura media e Kitsch" (Eco

1964-1977, pp. 112-116).

Fermo ciò, vorrei osservare come l'estetica a impianto semiotico di Eco sia non solo in grado

di fondare un'estetica dei mezzi di comunicazione di massa (cfr. Jachia 1998) ma anche una

delle poche capaci di legarsi intrinsecamente ad una prospettiva etica: "il Kitsch non riguarda

tanto l'arte, quanto un comportamento di vita poiché il Kitsch non potrebbe prosperare se non

ci fosse un Kitsch-Mensch che ha bisogno di una tale forma di menzogna per riconoscervisi.

Allora il consumo di Kitsch apparirebbe in tutta la sua forza negativa, come una continua

mistificazione, una fuga dalle responsabilità che l'esperienza dell'arte invece impone" (Eco

1964-1977, p. 72 e passim).

Uno dei vertici teorici successivi di questi studi - tralasciando quelli di teoria letteraria che

saranno analizzati nel prossimo paragrafo - che costituiscono una summa e un rilancio dello

studio massmediologico ed estetico in un quadro ormai saldamente semiotico sarà la sezione

intitolata tra "Esperimento e consumo" nel volume Sugli specchi. In particolare nei due saggi

tra loro connessi "L'innovazione nel seriale" e "Il testo, il piacere, il consumo" si affronta un

tema di assoluta rilevanza per quanto finora detto, ossia la tendenza sempre più diffusa nelle

opere d'arte massmediologiche a collocare il piacere della fruizione estetica più nel ritrovare il

già noto che nel cogliere l'imprevisto: "nella serie l'utente crede di godere della novità della

storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto

dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di

risolvere i problemi... La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo

morboso, di riudire sempre la stessa storia, di ritrovarsi consolati dal ritorno dell'identico,

superficialmente mascherato" (Eco 1985, p. 129).

Occorre però "fondere la visione estetica con quella antropologico-culturale" e farsi una serie

di domande improntate sì al relativismo, ma un relativismo che Eco stesso definisce come

"alto": "Sono ancora validi certi apparati categoriali che una sociologia della letteratura

(apparentemente 'democratica') ha mutuato dalle estetiche più aristocratiche, nate dal

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connubio tra romanticismo e avanguardie storiche? Possiamo ancora identificare il piacevole

con il non-artistico? Possiamo ancora identificare il consolatorio con ciò che soddisfa

l'orizzonte d'attese del fruitore e che pertanto non innova e non provoca? O addirittura

possiamo ancora porre da un lato, il consolatorio, il non innovativo, l'atteso e dall'altro

l'inatteso, l'informativo, il provocatorio, ciò che insomma produrrebbe un piacere d'ordine

superiore e non banale? E che cosa significa soddisfare o provocare un orizzonte d'attese?".

Per concludere che se le teorie di un tempo non ci bastano più (ed è necessario postulare un

nuovo modello d'analisi non rigidamente "semiotico, né estetico, né sociologico per discutere

dei rapporti tra consumo e innovazione") è perché "la crescita dei fenomeni, le interrelazioni di

produzione e fruizione nel campo dell'arte, la consapevolezza sempre maggiore che stiamo

acquistando su questi fatti, ci obbliga a procedere con maggior prudenza" e a non dimenticare

che è sempre "la nostra ricerca che stipula via via la fisionomia dell'oggetto" (cfr. Eco 1985,

pp. 108 e 114).

Analizzato, sia pur sinteticamente, il rapporto tra estetica, semiotica e i mezzi di

comunicazione di massa, una della costanti della riflessione pluridecennale di Eco, ed affidata

anche, in buona parte, alla sua importante attività giornalistica, possiamo ora passare ad

analizzare i rapporti dell'estetica di Eco con la letterarietà e la narratologia.

7 Dallo studio del romanzo alla teoria della letteratura e della narratologia

Eco è uno dei più attenti e innovativi critici della letterarietà e della narratologia, e non

stupisce che questa sua acribia sia stata la premessa al successo mondiale dei suoi romanzi. Fin

dagli anni Sessanta, infatti, e dalle Poetiche di Joyce, Eco mostrava non solo di sapersi

confrontare con i testi più alti e più ardui della ricerca letteraria novecentesca, ma anche di

conoscere e frequentare criticamente i più importanti testi di teoria narratologica, da Propp ai

Formalisti russi a Barthes e Greimas.

In effetti Eco è stato fra i primi ad utilizzare, già verso la metà degli anni Sessanta, l'analisi del

racconto e della narrativa di origine funzionale (Propp), applicandolo con ironica intelligenza

all'immaginario di massa tanto dei fumetti e della canzone leggera - nel già citato Apocalittici e

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integrati - quanto dei romanzi d'appendice e polizieschi, nel libro Il superuomo di massa.

Retorica e ideologia nel romanzo popolare che qui analizzeremo brevemente.

Sinteticamente questi studi partono, come ricordato da Eco stesso nell'Introduzione, da un

pensiero di Gramsci il quale nei suoi Quaderni del carcere scriveva: "Mi pare che si possa

affermare che molta sedicente 'superumanità' niciana ha solo come origine e modello dottrinale

non Zarathustra, ma il conte di Montecristo di A. Dumas". Il libro è dunque dedicato a una

rapida analisi non sistematica dell'ascesa e trionfo del superuomo di massa nel romanzo

d'appendice ottocentesco e nelle sue successive incarnazioni novecentesche. Sviluppare

l'ipotesi gramsciana significava infatti, prosegue Eco "andare alla ricerca degli avatars del

superuomo di massa... da Sue sino a Salgari... per finire ai tempi nostri con un superuomo

raccontato in termini di spy thriller - ed è James Bond", ma senza dimenticare che "le vie del

superuomo sono infinite".

Può essere importante per comprendere questo volume riportare estesamente proprio la

pagina conclusiva dello studio dedicato alle "Strutture narrative di Fleming" autore di James

Bond, non solo come esempio di semiotica della narratività, ma anche per dimostrare la ricca

complessità dell'analisi stilistico-strutturale-ideologica di Eco: "Poiché in questa sede non

siamo avviati a condurre una interpretazione psicologica dell'uomo Fleming, ma una analisi

della struttura dei suoi testi, la contaminatio tra residuo letterario e cronaca brutale, tra

ottocento e fantascienza, tra eccitazione avventurosa e ipnosi cosale, ci appaiono come gli

elementi instabili di una costruzione a tratti affascinante; che spesso vive proprio in grazie di

questo bricolage ipocrita, e che talora maschera questa sua natura di ready made per offrirsi

come invenzione letteraria. Nella misura in cui consente una lettura complice... l'opera di

Fleming rappresenta una riuscita macchina evasiva, effetto di alto artigianato narrativo; nella

misura in cui fa provare a taluni il brivido dell'emozione poetica privilegiata, è un'ennesima

manifestazione di Kitsch; nella misura in cui scatena... meccanismi psicologici elementari, da

cui si assente il distacco ironico, è solo una più sottile ma non meno mistificante operazione di

industria dell'evasione. Ancora una volta un messaggio non si conclude veramente se non in

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una ricezione concreta e situazionata che lo qualifichi. Quando un atto di comunicazione

scatena un fatto di costume, le verifiche definitive andranno fatte non nell'ambito del libro, ma

della società che lo legge".

Dunque credo si possa dire che in questi saggi l'ipotesi gramsciana viene verificata attraverso

metodi narratologici e semiotici e che gli studi, nel loro complesso, oscillano e si incardinano

tra una semiotica stilistico-testuale e uno studio delle ideologie, senza però rinunciare ad un

forte appello etico tanto al lettore diretto della pagina di Eco quanto al fruitore del vasto

mondo del superuomo di massa.

Delineate così alcune delle caratteristiche dei suoi studi sul romanzo d'appendice, sul

superuomo ottocentesco e su quello di massa (James Bond) e ricordati anche un suo

contributo al volume collettivo sulla letteratura rosa italiana (Eco 1979b), e un ulteriore

intervento sul Montecristo (Eco 1985), possiamo ora analizzare alcuni contributi più

squisitamente teorici, ricordando però sempre che una delle principali caratteristiche di Eco è

quella di non disgiungere mai teoria e prassi.

Particolare rilevanza credo abbia il concetto di Lettore Modello, un termine con il quale Eco

afferma che il testo prevede in partenza il ruolo e l'apporto partecipativo di un fruitore ideale.

Di conseguenza dire che il testo prevede un certo tipo di Lettore Modello significa dire che il

testo organizza un certo tipo di strategia testuale, "un insieme di condizioni di felicità

testualmente definite, che devono essere soddisfatte perché un testo sia pienamente

attualizzato nel suo contenuto potenziale"

Così, se "un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio

meccanismo generativo", ne segue che l'interpretazione di un testo (quella che Eco chiama la

'cooperazione interpretativa') consista nel "mettersi nei panni del Lettore Modello,

nell'accettare di giocare il gioco predisposto dal testo" (cfr. Eco 1979, pp. 54 e 62).

E' il testo dunque che prevede e costruisce il suo Lettore Modello a salvaguardia degli usi

aberranti. Questo concetto di Lettore Modello risponde infatti esaurientemente alla domanda

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se esistono criteri regolativi, inerenti al testo, passibili di controllo intersoggettivo, che

permettano di delimitare qualcosa che è interpretazione e qualcosa che non lo è.

La risposta è che per Eco questi criteri esistono e "sono riassumibili nel criterio di coerenza

(individuazione del topic o tema comune che permetta di stabilire isotipie pertinenti) e nel

criterio di economia (non eccedere in stupore e meraviglia inseguendo dettagli che non fanno

sistema). (...) Non si tratta tuttavia di criteri forti, vale a dire che essi non ci danno indicazione

in positivo su quale sia la buona interpretazione, quanto ci permettono solamente, sulla base

del criterio di falsificazione di Popper, e dunque in negativo, di selezionare le cattive

interpretazioni per scartarle" (cfr. Cavicchioli 1994, pp. 186-187 e 199).

Eco dunque - attraverso il concetto di Lettore Modello come teoria che segna un "limite"

all'interpretazione testuale e narratologica - pone, come già detto, all'interno della pratica

interpretativa una dimensione di scelta e di controllo etico (cfr. supra paragrafo 5). Per

esplicitare cosa Eco intenda per etica - dei rapporti tra etica e l'estetica parleremo nel

prossimo paragrafo - possiamo sinteticamente ricordare le prime righe dell'Introduzione ai

suoi recenti Cinque scritti morali: l'etica riguarda "quello che sarebbe bene fare, quello che non

si dovrebbe fare, o quello che non si dovrebbe fare a nessun costo". Ancora una volta l'opera

d'arte e una sua corretta fruizione diventano così non solo metafore epistemologiche ma anche

paradigmi comportamentali.

8 Etica e estetica: da Croce all'elogio del "guazzabuglio"

Si potrebbe restare stupiti "alla notizia - scrive un attento recensore quale Armando

Masserenti - della pubblicazione di una raccolta di 'scritti morali' di Eco... la mia prima

reazione è stata di perplessità... Non ricordavo (ad eccezione del dialogo con il cardinale

Martini su etica laica e etica cattolica) quando e come Eco avesse scritto esplicitamente di

morale. La mia impressione (ed era questo il vero motivo di perplessità) che Eco quando

scrive sia sempre animato da un intento morale, che questa sia la sua vera vocazione... e che il

suo pregio maggiore sia sempre stato quello di tenerla nascosta. Il che significa, in una parola,

che a Eco raramente capita di cadere nel moralismo" (Sole 24 ore, 26 novembre 1995).

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Se trovo correttissima in linea di principio l'affermazione di Masserenti, è vero però che spie di

questa dimensione etica di Eco ve ne sono molte, sparse in tutte le sue opere e

significativamente nei suoi testi di estetica (alcune sono state segnalate in questo saggio, altre

sono reperibili ad apertura di libro). La dialettica di fedeltà e libertà che caratterizza il modello

di rapporto tra opera d'arte e fruitore diventa infatti, se volessimo tracciare una linea sintetica

dei rapporti tra estetica ed etica in Eco, da paradigma estetico un paradigma etico, di un'etica

non normativa ma di libera ispirazione kantiana: "agisci come se ogni tua azione dovesse

divenire legge universale"; e in modo tale da "trattare l'umanità, nella tua persona o in quella

altrui, sempre come un fine e mai come solo mezzo" (cfr. Kant 1797).

La rivendicazione da parte di Eco della propria appartenenza ad una sorta di ludico e

autoironico "illuminismo padano" (Eco 1985) non pare dunque assolutamente fuor di luogo e

corrisponde ancora una volta al gusto di Eco di dire cose molto serie in forma tal volta

paradossale. Questo dunque mi pare il giusto contesto per ricordare l'ultimo straordinario

incontro presentatoci dalla teoria fabulatoria di Eco, quello tra Kant e l'ornitorinco. Infatti, la

molla forte del grosso volume di semiotica (ed estetica!) Kant e l'ornitorinco è in una piccola

nota dove si richiama un saggio contenuto in Cinque scritti morali - già fondamentale ed

illuminante fin dal titolo "Quando entra in scena l'altro nasce l'etica" - dove si afferma che

"sugli stessi principi ho tentato di basare un'etica elementare" (cfr. Eco 1999, pp. 397-398 e

Eco 1997b).

E' in presenza di questi testimoni - l'ornitorinco è in modo paradigmatico la massima alterità

possibile per un onesto filosofo illuminista tedesco o "padano" - che si gioca l'ultimo atto della

polemica tra un Eco non più giovinetto e un sempre più decrepito Croce. Il saggio "Croce,

l'intuizione e il guazzabuglio" ("Appendice 2" a Kant e l'ornitorinco) costituisce infatti solo

apparentemente una battaglia di retroguardia: Croce, definitivamente sconfitto, è salutato

come De Sanctis salutava Settembrini, definendolo non un critico e un teorico dell'estetica ma

un artista e "uno scrittore travolgente". In realtà questo breve scritto è una vera e propria

apologia del "guazzabuglio", e dunque di una estetica che sappia affrontare questa realtà come

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la sua propria realtà genetica: "il mondo del guazzabuglio è il territorio in cui viviamo, quello

in cui procediamo per assaggi, prove ed errori, congetture" (Eco 1997, p. 379; si vedano poi,

naturalmente, I promessi sposi di Manzoni dove si dice "così è fatto questo guazzabuglio del

cuore umano": e su Manzoni, di Eco, il recentissimo Tra menzogna e ironia : per un discorso

più lato cfr. Sulla letteratura).

Di questo mondo "sgangherato" e "sgangherabile" - contro Croce e contro l'estetica

dell'ineffabile, ma anche contro l'estetica della decostruzione e della deresponsabilizzazione -

fa parte anche l'arte e credo che l'estetica di Eco possa essere un buon modo per comprendere

l'arte che nasce, senza scordarsene, da questo guazzabuglio umano (cfr. Eco 1977, p. 139;

Eco 1994 p. 16 e Eco 1997, passim).

Data questa linea generale, e venendo più precisamente al campo estetico e letterario Eco

afferma, ad esempio, che "leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara

a dare senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo

reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all'angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire

qualcosa di vero sul mondo reale. Questa la funzione terapeutica della narrativa e la ragione

per cui gli uomini, dagli inizi dell'umanità, raccontano storie. Che è poi la funzione dei miti:

dar forma al disordine dell'esperienza" (Eco 1994, p. 107).

O, in altre parole, "la sostanziale polivocità dell'essere ci impone di solito uno sforzo per dar

forma all'informe. Il poeta emula l'essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostruire

l'informe originario, per indurci a rifare i conti con l'essere" (Eco 1997, p. 22 e cfr. Eco 1962-

1976, p. 3; Eco 1968a, p. 212; ecc.).

In conclusione credo si possa dire che lo sforzo etico "di dar forma al disordine

dell'esperienza", "lo sforzo per dar forma all'informe", sia anche l'origine ultima non solo della

ricerca filosofica e letteraria di Eco, ma più precisamente della sua teoria estetica che credo di

aver ricostruito nelle sue principali pagine teoriche e in alcune delle sue ricostruzioni storiche.

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BIBLIOGRAFIA

a) SCRITTI di UMBERTO ECO ANALIZZATI:

Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, (1956), 2 ed. rivista, Bombiani 1970

Arte e bellezza nell'estetica medioevale, (1959), 2 ed. rivista, Bombiani 1987

Opera aperta Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee (1962), 3 ed. rivista,
Bompiani 1976

Diario minimo (1963), 2 ed. rivista Bompiani 1992

Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie delle comunicazioni di massa,


(1964), 2 ed. rivista Bompiani 1977

Le poetiche di Joyce, Bompiani 1966

La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica (1968), ultima ed. rivista Bompiani
1980

La definizione dell'arte, (saggi 1955-1965), Mursia 1968

"Lezioni e contraddizioni della semiotica sovietica" in AA. VV., I sistemi di segni e lo


strutturalismo sovietico, Bompiani 1969

"La critica semiologica" in C. Segre e M. Corti, I metodi della critica in Italia, ERI, 1970

Segno, (1 ed 1971), Mondadori 1980

Trattato di semiotica generale, Bompiani 1975

Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, (1976), Bompiani 1978

Dalla periferia dell'impero, Bompiani 1977

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"Il pensiero semiotico in Italia" in R. Jakobson, Lo sviluppo della semiotica, Bompiani 1977

Lector in fabula, Bompiani 1979

"Tre donne... per le donne" in AA.VV., Invernizio, Serao, Liala, Nuova Italia 1979b

"Intervista", in M. Mincu, La semiotica letteraria in Italia, Feltrinelli 1982

Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi 1984

Sugli specchi e altri saggi, Bompiani 1985

I limiti dell'interpretazione, Bompiani 1990

"Intervista", la Repubblica, 31 marzo 1992

"La maestria di Barthes" (1984), in R. Barthes, Miti d'oggi, Einaudi 1994

Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani 1994

Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani 1995

Kant e l'ornitorinco, Bompiani 1997

Cinque scritti morali, Bompiani 1997b

Tra menzogna e ironia, Bompiani 1998

Sulla letteratura, 2002

b) BIBLIOGRAFIA CRITICA (IN FASE DI SCRITTURA E DEFINIZIONE)

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