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La serva disse che ci aveva pensato, ma che la padrona era uscita con le chiavi, ed ella
non aveva altro caffè. Allora il povero uomo, avvezzo da cinquant'anni a quel caffè
pomeridiano, lo offerse con un gesto a Marcòn, che ringraziò e allungò sorridendo le
mani al vassoio, malgrado gli occhiacci della serva.
— Comanda che ne pigli un altro al botteghino? — chiese costei al suo padrone. —
Devo anche uscire, adesso.
— No, Tonina, no — sospirò Vasco, dolcemente. — Piuttosto fate un po' di fuoco qui.
La serva si mise all'opera, ma forse pensando ad altro, per cui Marcòn, dopo due o tre
occhiate oblique, dopo due o tre sordi brontolii gutturali le disse:
— Cara lei, si sbrighi.
In quel punto la fiamma brillò e la [176]donna si alzò dal caminetto, prese il vassoio
dispettosamente e se ne andò sbattendo l'uscio con un colpo tale che Marcòn fece
«ohe!».
— Senta — diss'egli poi. — Faccio, naturalmente, il mio interesse, ma son di carne
anch'io, ho cuore e mi ripugna di venire a certi passi con una degna persona come Lei.
Guardi se non ci potessimo accordare amichevolmente. Ella ha forse qualche oggetto
prezioso, qualche gioiello di famiglia, non so, delle argenterie...
Vasco lo considerò un poco, cacciò la destra nello sparato della camicia, e dopo avervi
frugato alquanto, ne la trasse con una medaglina d'argento che fece vedere al Marcòn,
quindi alzò ed allargò le braccia; tutto questo in silenzio.
— E quadri? — chiese Marcòn.
— Oh Dio, quadri! Il ritratto di mia [177]moglie. Buono, per questo, buono. Le dirò. Ma
è della Carlotta.
— Niente niente, per amor di Dio! — esclamò Marcòn inorridito. — Lasciamo stare...
Ma, La senta — riprese dopo una pausa. M'inganno, o aveva Lei dei libri antichi di un
certo pregio?
— Sissignore — rispose Vasco masticando la parola, dimenandosi e guardando
dappertutto fuorchè in faccia al suo interlocutore. — Sissignore, ma... cosa vuole?..
Andati... venduti... divorati...
— Allora... — disse Marcòn, alzandosi. Guardò in giro come per vedere dove avesse
posata la mazza, fermò gli occhi sullo scrittoio.
— Cosa studia di bello? — diss'egli sorridendo.
— Oh, niente — balbettò Vasco, inquietissimo. — Niente. Cerca il Suo bastone?
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Il suo testone oscillava convulso, negli occhietti brillavano, sotto il battere delle
palpebre, due lagrime.
— Le dico la verità, avvocato — disse tranquillamente Marcòn — avevo sempre
pensato ch'Ella fosse un galantuomo.
— E non lo sono? — esclamò Vasco.
— Ecco — rispose il notaio — non so se un galantuomo cercherebbe, come Lei, di
frodare i creditori.
L'avvocato guardò il suo avversario con orrore e terrore, cadde sulla sedia. Due o tre
singhiozzi lo scossero tutto.
— Non volevo frodar nessuno — diss'egli a bassa voce e senza guardare Marcòn. —
Volevo che quel libro restasse qui sino alla mia morte. Pensavo che, morto io e
conosciuta quella carta, un poco per il merito del libro, un poco per la memoria di
questo povero vecchio, o il Municipio, o i cittadini, o cittadini [181]e Municipio insieme
avrebbero riscattato il libro dai creditori, e resterebbe nel mio paese un ricordo del
mio nome, di quei pochi studi che ho potuto fare. Ma se Lei mi crede capace di voler
frodare i creditori, eccolo là il libro, se lo prenda se lo porti via.
— Ma non intende, caro avvocato, — esclamò Marcòn — che Lei mi deve
ringraziare? Di un libro in quello stato prendere duemilacinquecento lire?
Ciò detto Marcòn prese l'Ariosto.
— Avvocato, servitor suo — diss'egli.