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ISTITUTO UNIVERSITARIO ORIENTALE

DIPARTIMENTO DI STUDI DEL MONDO CLASSICO


E DEL MEDITERRANEO ANTICO

QUADERNI DI AIWN
NUOVA SERIE - 5

F RANCO C REVATIN

L’ETIMOLOGIA
COME PROCESSO
DI INDAGINE CULTURALE

COLLANA DI STUDI
DIRETTA DA
D OMENICO S ILVESTRI

NAPOLI
2002
Indice

Premessa 7

Incipit 9

La ricerca del vero: la riflessione sulla lingua 29

L’etimologia come processo di indagine culturale 53

I pericoli del passato 67

Uno, nessuno, cento mila 85

Etimologia e cultura materiale 91

Il contributo dell’antropologia 101

Etimologia e ricostruzione 113

Etimologia e sostrato linguistico 129

Storie di frontiera 153

Questioni particolari e note bibliografiche 179


PREMESSA

Questo libro è nato da un corso universitario, e ciò spiega perché


spesso si sono fornite spiegazioni che lo specialista giudicherà inutili e
si è mantenuto un tono discorsivo ed amicale nei confronti del Lettore.
Ritengo tuttavia che chi non è specialista delle lingue qui utilizzate
come materia etymologica potrà trovare qualche utilite spunto di ri-
flessione e lo specialista apprezzerà, se lo riterrà opportuno, le novità
etimologiche qui presentate.
Il titolo di questo libro riassume il convincimento di fondo del suo
autore, ossia che l’etimologia è un processo di indagine culturale basa-
to su una tecnica linguistica. Alla tecnica non si è prestata qui atten-
zione, e non certo per un atteggiamento riduttivo, quanto perché essa
avrebbe richiesto da sola un volume a parte. È sin troppo vero che molti
tentativi etimologici nascono morti proprio perché chi li ha proposti ha
sottovalutato le tecniche etimologiche formali. E purtuttavia è altret-
tanto vero che che un etimo basato esclusivamente su una tecnica cor-
retta è un etimo muto se esso non ha un decisivo sostegno culturale.
Il vero etimologo dev’essere, come Odisseo, poluv m hti".
Lunghi e piacevolissimi anni di collaborazione al Lessico Etimolo-
gico Italiano, diretto dall’Amico Max Pfister (Saarbrücken), mi hanno
insegnato – spero - che tra le doti dell’etimologo vanno annoverate la
pazienza ed il senso della misura. Le migliaia di etimi dialettali italiani
rivisti, corretti, proposti, discussi, con una manciata di altri Amici e
Colleghi sono state allo stesso tempo palestra e cenobio.

Nel momento stesso stesso in cui scrivo queste righe, il libro cessa
di essere solo mio ed avrà un destino suo proprio. Non posso staccar-
mene, tuttavia, senza ricordare con gratitudine gli Amici che in vario
modo mi hanno aiutato: Giorgio Banti, Yaqob Beyene, Paola e Filippo
Càssola, Sergio Daris, Stefano De Martino, Felice Israel, Elie Kallas,
Tiziana Lippiello, Ugo Marazzi, Giovanni Pettinato, Luciano Rocchi,
Gennaro Tedeschi. Ad essi associo doverosamente coloro che hanno let-
to la prima stesura di questo lavoro. Un grazie tutto particolare va
8 Franco Crevatin

all’Amico Domenico Silvestri, per aver impavidamente accettato il ri-


schio di ospitarmi nella sua prestigiosa collana.

Questo libro è dedicato, con immutato affetto, alla memoria dei miei
Maestri Vittore Pisani e Marcello Durante.
F.C.
L’etimologia come processo di indagine culturale 9

INCIPIT

Etimologia è, per definizione, ricerca del vero, della reale ori-


gine di una parola o di un’espressione (e[ t umon). Essa è dunque
attività umana per eccellenza, prima ancora che scientifica: ricer-
ca di ciò che è vero, non mera apparenza, che ci si sforza di
riconoscere attraverso le deformazioni apportate dal succedersi
degli eventi umani e dal procedere della Storia. Errava il gover-
natore Ponzio Pilato, quando con l’amaro e sbrigativo cinismo di
chi crede di aver cose piú importanti da fare che discutere con
un fastidioso Nazareno, sbottò in «Quid est verum?» (Joh. 18, 38).
Aveva torto (e si pentí, se vogliamo credere al M. Bulgakov del
Maestro e Margherita), poiché l’Uomo ha sempre, in ogni caso
bisogno del vero: può talora rassegnarsi ad ignorare, ma disprez-
za l’ignoranza. «Ignorante» è un insulto sanguinoso, e non solo
nelle nostre culture: gli Egiziani che si ribellarono contro Tolomeo
IV Philopator ed occuparono una parte dell’Alto Egitto, inter-
rompendo i lavori di costruzione del grande tempio di Horus ad
Edfu, vennero definiti «ignoranti», jxmw, dalla reazione lealista
(Edfu 7, 6, 7), una condanna senza appello.
L’etimologia è dunque uno strumento della ricerca storica; di
piú, nel momento stesso in cui la linguistica vuole essere filologia
storico comparativa, essa non può fare a meno dell’etimologia.
Ci si potrebbe dunque attendere non solo che l’etimologia sia
praticata in misura ragionevolmente estesa, ma altresí che su di
essa si sia ampiamente riflettuto. Ora, non sarebbe corretto dire
che tutto ciò non sia avvenuto, tuttavia non pare dubbio che
l’arte dell’etimologia abbia oggi perduto molti cultori. Molte imprese
etimologiche di base, quanto meno nell’ambito delle lingue indoeuro-
pee, sono state largamente compiute e spesso si mormora che gli
etimi ‘buoni’ ormai sono già stati trovati, per cui l’etimologia
passa talora per un arguto passatempo da pomeriggi piovosi. Per
un lungo periodo le cose non sono andate cosí. Sino alla metà di
questo secolo la linguistica storica e comparata è stata, bene o
male, la linguistica kat∆ej x ochv n ed ha costituito un modello di
10 Franco Crevatin

affidabilità e rigore disciplinari. Nuove idee ed attenzioni si sono


gradualmente imposte, talora in maniera non indolore; d’altra
parte era quanto ci si doveva attendere, poiché tutto ciò che è
realmente vivo evolve (e la linguistica non fa eccezione) tramite
il mutamento e l’arricchimento dei paradigmi scientifici. Se dun-
que si prescinde da periodiche rivelazioni messianiche e da san-
guinose – ma al fondo ridicole – guerre accademiche, si può dire
che l’evoluzione disciplinare ha portato molti frutti anche alla
stessa arte etimologica. Ma, appunto, sulle nuove dimensioni
dell’etimologia si è poco riflettuto.

Inizieremo dunque impostando, dall’interno dell’etimologia stessa,


i problemi di base; partiremo da alcuni esempi semplici.

Vicino a Dignano, in Istria, c’è una località campestre detta


Piúdiga. Essendo un toponimo neolatino, è possibile risalire sulla
base delle leggi fonistoriche delle parlate della zona ad un agget-
tivo latino püblïca. L’Istria meridionale romana fu largamente sfruttata
dal punto di vista agricolo: gli agri dei centri romani maggiori
vennero divisi in parcelle (praedia) che ancor oggi conservano il
nome del loro primo proprietario e la risultante centuriazione
venne delimitata da confini interni ed esterni basati su strade e
viottoli. Una traccia resta nel significato della voce dignanese
lèjmido «sentiero», che risale a lîmïtem «limite, confine», e nel nostro
toponimo, che evidentemente segnalava una (parte del percorso
di una) via pubblica.
Sempre nell’Istria, è attestato sin dall’epoca romana il nome
di un borgo collinare, Piquentum. Il nome, però, non è latino ed
evidentemente è stato attribuito dagli Istri, la popolazione origi-
naria della penisola, ad una delle loro tante rocche fortificate
oggidí definite “castellieri”. Stante il fatto che gli Istri parlavano
una lingua, appartenente alla famiglia indoeuropea, affine al venetico,
è possibile analizzare il nome secondo le regole formative ed i
lessemi propri, appunto, di tale famiglia. Possiamo dunque rico-
noscere un suffisso derivazionale *-wento-, che si aggiungeva
L’etimologia come processo di indagine culturale 11

generalmente a basi nominali per indicare una relazione di ap-


partenenza o una qualità 1 . Il lessema di partenza è identificabile
in un *puko- col significato di «pino», confrontabile col greco peuv k h,
col lituano pu πìs ed altre parole ancora. Sulla base di questa com-
parazione ci si rende conto che il toponimo istro doveva suonare
originariamente *puk(o)wentom, forma andata soggetta a dissimila-
zione (*Puquentum > Piquentum). Il significato originario del nome
era dunque «(colle) dei pini», il che è congruente con le caratte-
ristiche geografiche della zona.
Se seguiamo la storia medievale di questo toponimo ci attendono
altre istruttive sorprese. Le genti slave cominciarono ad insediarsi
in Istria a partire dall’VIII sec. d.C. e recepirono di conseguenza
molti nomi locali dalle genti neolatine: uno di questi fu appunto
il nome che abbiamo indagato, che compare sia in sloveno che in
croato nella forma Buzet. Per quanto sconcertante possa apparire,
esso è la resa slava di un *Bilgent(o) che null’altro è se non una
forma dialettale neolatina, evolutasi secondo la seguente trafila
Piquento- > *Bigento > *Bingento > *Bilgento. Se guardiamo all’usua-
le forma neolatina del toponimo, ossia Pinguente, ci rendiamo conto
che alcuni dei fenomeni ora visti non sono condivisi, e lo stesso
vale per la forma d’archivio (XI sec.) Puviendo, falsa restituzione
scritta di un parlato *Puviènt. Che dire? Innanzi tutto che abbiamo
diverse forme derivate dalla forma latina, ossia *Pinguent2 , *Puvient
e *Bilgent(o), tutte forme caratterizzate da fenomeni fonetici ben
documentati nei dialetti neolatini istriani: esse mostrano inequi-
vocamente che la divisione dialettale neolatina dell’Istria è inizia-
ta molto per tempo. In un’area geografica piccola e non densa-
mente popolata la differenziazione delle parlate neolatine è dun-
que iniziata molto presto, e questa non è informazione da poco
per lo studioso dei processi sociali e culturali alto medioevali.

1
Un confronto tra i tanti è costituito dalla celebre espressione formulare della
poesia orale a noi giunta sotto il nome di Omero e[ p ea pterov ( Û)enta, le “alate
parole”, le parole che vanno diritte al bersaglio come frecce guidate dalle piume
poste vicino alla cocca.
2
Alla base della forma neolatina odierna.
12 Franco Crevatin

I casi sopra discussi presuppongono il rispetto di regole evolutive


precise di carattere fonetico; presuppongono, a titolo diverso, con-
tinuità linguistica ininterrotta dall’età preromana e romana sino
ai giorni nostri; presuppongono un sapere extra-linguistico che
adeguatamente conforta in re gli etimi individuati.
Nel caso dei toponimi spesso siamo di fronte all’incommensu-
rabilità dell’ipotesi emessa, perché il nome di luogo in quanto tale
non ha significato e frequentemente la sua motivazione linguistica
sincronica è inaccessibile: insomma, un nome come Montebello è
trasparente, Sorísole (prov. Bergamo) non lo è3 . Non mancano però
casi nei quali la motivazione ci è resa nota, ed in tal caso, pur con
la dovuta prudenza, l’esegesi etimologica viene resa possibile. Plinio,
il grande studioso latino morto per studiare piú dappresso la ter-
ribile eruzione del Vesuvio che seppellí Ercolano e Pompei, raccol-
se nella sua Naturalis Historia una copiosissima messe di notizie
derivanti dall’insieme dell’erudizione antica. Tra le tante informa-
zioni topografiche riguardanti le regioni e le genti dell’India, egli
ci parla di una catena di contrafforti montuosi il cui nome sarebbe
stato Imaus, del quale ci viene detto che incolarum lingua nivosum
significante (N.H. 6, 64), ossia che nella lingua del posto significava
‘nevoso’. Nel citare le fonti del suo sesto libro, Plinio ricorda il
geografo greco Megasthenes ed Alessandro Magno, intendendo
con quest’ultimo le relazioni etno-geografiche fatte dagli studiosi
al sèguito della vittoriosa marcia del Macedone. Il nome è attesta-
to anche in Arriano (2, 3, 2; 6, 4, 2), in Strabone (2, 5, 31; 11, 8, 1,
etc.) ed altri, nella forma “Ima(i)o", dalla quale proviene con tutta
evidenza la forma latina. Deve dunque trattarsi di parola indiana:
se si tiene conto del significato che la fonte attribuisce al nome, è
facile concludere che si tratta di un derivato di hima, m., «neve,
ghiaccio, freddo», come il sanscrito himya- «nevoso»; nel nostro
caso, la spirante glottale iniziale non è stata recepita dai parlanti
greci oppure si è perduta nella tradizione manoscritta.

3
Per chi avesse tale curiosità, preciseremo che il nome è un derivato dall’agget-
tivo latino síl•ceus «siliceo», per la natura rocciosa della zona.
L’etimologia come processo di indagine culturale 13

Un altro caso, ancora piú chiaro. Lo stesso Plinio (N.H. 6, 158,


8) ci tramanda un toponimo dell’Arabia che nella tradizione te-
stuale compare nella forma Aenuscabales: esso significherebbe «la
fonte dei cammelli». È facilissimo riconoscere i lessemi aain «oc-
chio; fonte» e gamal «cammello» 4 . La b- interna trova giustifica-
zione nel fatto che in molte lingue semitiche esisteva – ed è un
fatto fonetico molto comune – un’oscillazione b / w / m. Un pic-
colo problema è, semmai, il fatto che ci si attenderebbe un plu-
rale (cammelli), plurale che in arabo avrebbe dovuto avere una
forma completamene diversa (nell’arabo classico si trova jim†l ed
ajm†l), ma la soluzione è semplice: Plinio ha preso il toponimo
da una fonte, scritta od orale, greca, nella quale il nome di luogo
era stato grammaticalizzato secondo le regole della lingua greca,
ossia *”Ai> n o" Kamhv l wn o sim.

Abbiamo toccato indirettamente un punto molto delicato, os-


sia la questione delle fonti, e di fatto esistono fonti di affidabilità
molto diversa.
Anche quando si raccolga materiale da lingue viventi, ciò che
ci viene detto può essere oggetto di dubbio, perché l’informatore
è tutt’altro che neutro e le risposte alle nostre domande ricadono
nella pragmatica linguistica dei rapporti tra intervistatore ed intervi-
stato. Chi risponde può esser tentato di ricorrere ad un registro
espressivo colto, meno locale; può temere di sembrare poco in-
formato, per cui abborraccia le risposte; può risentire di influssi
derivanti dalla sua storia personale, utilizzare forme specifiche
della sua classe d’età o del suo sesso; può infine essere o no
specialista o buon conoscitore di uno ma non di altri ambiti spe-
cifici. Resta però il fatto che la sua risposta, l’informazione che
essa ci fornisce, può essere l’unico elemento esistente in nostro

4
La j- iniziale dell’arabo classico è un’innovazione, peraltro non condivisa, nep-
pure anticamente, da tutte le varietà dialettali; la velare iniziale compare in tutte
le lingue semitiche e nei prestiti da esse irradiati (cfr. la glossa esichiana gamav l :
hJ kav m hlo" paraŸ Caldai~ o "), come ad es. il latino camelus o l’egiz. (demotico)
gmwl, copto *kam oul, qamoul.
14 Franco Crevatin

possesso. Si tratta di cose note ma spesso dimenticate e ne forni-


sco un esempio personale.
Il p. V. Guerry è un benedettino che per lungo tempo è stato
in Costa d’Avorio a contatto con la lingua e la cultura bawlé.
Durante il suo apostolato raccolse uno splendido frasario france-
se-bawlé basato sulle tante conversazioni da lui avute nei villag-
gi vicino a Bouaké. Nel suo frasario manoscritto egli si è sforzato
di fornire l’equivalente bawlé di molte espressioni emotive, psi-
cologiche, situazionali tipiche della cultura linguistica francese,
che egli ben sapeva erano difficili da tradurre in una lingua ed
una cultura tanto diverse. Tra le tante una mi rimase a lungo
incomprensibile: O ti klã N glã nu «è un fatto mistico», letter. ‘è nel
k.’. Potrà sembrare cosa ovvia, ma bisogna riflettere sul fatto che
per un religioso (e per dei catechisti) l’aggettivo ‘mistico’ ha notevole
rilevanza teorica e pratica. Quando stavo ormai per rinunciare
ad ogni esegesi (e dunque stavo per per avallare la scelta di p.
Guerry), trovai quasi casualmente la soluzione dell’enigma. I Bawlé
credono nell’esistenza di stregoni ( baefwE ) che nottetempo fanno
uscire l’anima dal corpo e si incontrano tra di loro per decidere
quale anima ( wawE⁄ ) divorare. La dimensione misteriosa, non
percepibile dai comuni mortali ma riconoscibile facilmente dai
veggenti, nella quale si muovono ed agiscono gli stregoni in for-
ma di anime disincarnate è appunto detta klã N glã. A questo pun-
to diventa facile capire come l’equivoco, nell’informazione o nella
traduzione, possa essere insorto. Se tanto può capitare a specia-
listi, a maggior ragione si può sospettare che capiti a dei non
specialisti.
Ciò che vale per la fonte orale vale a maggior ragione per la
fonte scritta, che oltre tutto non possiamo interrogare. La tipologia
dei problemi che le fonti suscitano è sterminata; possiamo limi-
tarci per ora a rilevare che qualunque testo scritto ha, per defi-
nizione, un suo fine ed una coerente funzione, è in rapporto con
altri testi ed è stato progettato e redatto per i suoi potenziali
fruitori. È dunque chiaro – e questo, purtroppo, lo sappiamo bene
– che può essere stato scritto per ingannare, o essere inadeguato
L’etimologia come processo di indagine culturale 15

al proprio fine, oppure ancora disuguale nell’informazione, fatto


questo comunissimo. E tutto ciò va visto sulla trama della tradi-
zione scrittoria del testo stesso, tradizione che può vantare secoli
di storia, di errori e di fraintendimenti.
Vediamo un caso curioso. La seconda metà del XIX secolo ed
i primi decenni del XX sono stati una grandissima stagione per
la lessicografia dialettale italiana. Grandi vocabolari come quello
di Cherubini per il milanese, di Di Sant’Albino per il piemontese
e tanti altri ci hanno lasciato in eredità un patrimonio di fatti
ormai scomparsi dalla memoria. Tra queste grandi opere ce n’è
tuttavia una curiosa, il Vocabolario vernacolo-italiano pei distretti
roveretano e trentino di G.B. Azzolini: redatta prima del 1853, l’opera
fu compendiata (!) e curata per la stampa da G. Bertanza (Vene-
zia 1856). Cos’ha di curioso tale vocabolario? Il fatto che spesso
solo a fatica si capisce il senso delle parole trentine, poiché l’au-
tore nell’esporne il significato toscaneggia in maniera caricaturale,
quasi il suo fosse un esercizio di come si possano dire meglio le
cose in fiorentino illustre di quanto si possano dire nel vernacolo,
il che è francamente buffo se pensiamo di avere tra le mani sem-
plicemente un vocabolario dialettale. Se noi leggiamo il Vocabo-
lario come un documento del dialetto e sul dialetto non possiamo
che rimanerne delusi, ma il fatto è che l’intera stagione vocabolaristica
dialettale italiana è stata consapevolmente mirata a colmare il
divario tra i dialetti e l’italiano, la lingua di una nazione e di uno
stato che si stavano costituendo. Al di là dell’amore per il natio
loco, pur percepibile nelle opere migliori, lo scopo di fondo dei
vocabolari era didattico, non tanto quello di illustrare il dialetto
a chi non lo sapeva o ai linguisti (!) – basti dire che sino alla metà
del XX secolo i dialettofoni in italia sono stati larghissima mag-
gioranza – bensí insegnare l’italiano a partire dal dialetto. Era
dunque logico, per l’Azzolini, toscaneggiare.

Capire una fonte significa capire le motivazioni che le stan-


no alla base. Buon criterio filologico, almeno per quanto riguar-
da le fonti antiche, è dar fiducia a quanto ci viene detto: l’infor-
16 Franco Crevatin

mazione può di fatto essere imprecisa o sbagliata, ma anche in


tal caso è utile sforzarsi di capirla. Un buon esempio ci viene
offerto da alcune delle informazioni che Macrobio, un letterato
latino della seconda metà del IV sec. d.C., ci fornisce, quasi
occasionalmente 5 , sull’Egitto antico. Il Nostro non conosceva
direttamente l’Egitto, per cui si è servito di piú antiche fonti
qualificate: quando egli ci parla (7, 13) delle teorie fisiologiche
egiziane sul dito anulare (sulle quali ritorneremo) o del fatto
che il geroglifico della vacca indicava la terra (1, 19), egli di-
pende dagli studi rispettivamente di Apione e del sacerdote-
filosofo Chairemone, ed ambedue le notizie sono di buona qua-
lità. Non sappiamo da chi dipenda la notizia delle immagini
alate del sole (solis simulacra pennata; 1, 19), che evidentemente
si riferisce al comune emblema decorativo e scrittorio , né la
descrizione del dio adorato ad Eliopoli (1, 23). Secondo Macrobio,
si tratterebbe di Giove in quanto sole, ma noi sappiamo che non
è cosí: un dio in posizione eretta, con la mano destra alzata che
stringe una frusta («come un auriga»), non può essere che il dio
Min. Stranamente è scomparso il particolare dell’itifallia, e per
contro si dice che nella mano sinistra il dio stringe delle spighe
di grano ed il fulmine: questi particolari non hanno nulla di
iconografico, per quanto noi ne sappiamo, tuttavia possiamo
facilmente supporre che ci sia stato un fraintendimento proprio

ß
nella fonte di Macrobio. Le spighe di grano hanno infatti gran-
de importanza nella festività del dio ed inoltre il geroglifico
con il quale si scriveva il nome di Min, , era casualmente
identico alle forme convenzionali che il fulmine assumeva
nell’iconografia greca e romana. Il fraintendimento piú curioso
è quello riferito in 1, 21: Macrobio dice che gli Egiziani raffigu-
ravano le immagini del sole col capo rasato solo a sinistra, perché
a destra la chioma restava intatta. Non è cosí: o meglio, il rife-
rimento è alla ciocca di capelli
¡
che veniva lasciata intatta

5
La sua opera maggiore, i Saturnali, è dedicata prevalentemente a problemi let-
terari.
L’etimologia come processo di indagine culturale 17

sullla testa rasata dei bambini: e bambino veniva raffigurato il


Sole che emergeva dal fiore di loto sbocciato nell’Abisso pri-
mordiale.
Se questo accade con le tradizioni culturali, è facile immagi-
nare quanti problemi possano confrontarci quando delle fonti
antiche ci tramandano parole in lingue esotiche o comunque
sconosciute al redattore del testo: agli errori suoi, ahimé sem-
pre possibili 6 , si assommano gli errori della tradizione mano-
scritta, dovuti ai copisti.
Come è facile intuire, gli esempi adducibili sono numerosissimi.
Qui ne riporterò qualcuno, avendo scelto casi di facile o co-
munque di ragionevole leggibilità etimologica. Esichio (v.
sotto) attribuisce ai Persiani7 la parola a[ r xifo" «aquila», parola
che corrisponde all’avestico ´ r ´ zifya-: è però difficile che i
Greci abbiano reso con la -ks- la -z- iranica, per cui è possi-
bile che la forma indizi piuttosto una voce dialettale orien-
tale piú vicina al corrispondente sanscrito pjipya-: altrettanto
possibile però è una confusione del copista greco tardo tra x
e z. Sempre in Esichio troviamo un interessante ∆Areimav n h"
glossato ”Aidh" «aldilà»: è voce che dipende dall’ideologia
religiosa zarathustriana,: è il nome dello spirito supremo del
male, a Nrø mayniu ¡ (Arimane), evidentemente pensato come
signore del mondo dei morti dannati 8 . Per contro, la voce
di~ a n «cielo» difficilmente è di àmbito zarathustriano, per-
siana, sogdiana o meda, perché in queste lingue il nome del
cielo è asman- ed ha sostituito i derivati, piú antichi, della
radice indoeuropea *dei- «brillare». Dobbiamo dunque con-
cludere che sotto l’etichetta ‘Persiani’, la fonte di Esichio
abbia inteso far riferimento ad una gente sottomessa all’im-
pero persiano e probabilmente di lingua iranica, ma di tipo

6
Sino a non troppo tempo fa non esistevano strumenti per trascrivere, se non
impressionisticamente, le lingue altre dalla propria.
7
Desumendole da opere, a noi non pervenute e di data non precisabile, di autori
Greci sull’Impero persiano.
8
La precisazione è indispensabile, perché nello zarathustrismo l’aldilà non è un
concetto negativo: i giusti (si veda la stessa glossa di Esichio aj r tai~ o i «eroi», un
derivato dal nome dell’Ordine e Giustizia cosmici, pta-, avestico a πa-) possono
legittimamente aspirare ad un destino di felicità.
18 Franco Crevatin

culturale e linguistico molto conservatore 9 . Sempre in Esichio


troviamo qualche parola indiana: talora essa è trasparente,
come mai? «grande» = mah¢ æ (femm.!), talaltra pone problemi
irritanti; esempi di quest’ultima categoria sono baishv n h" «ac-
campamento militare», composto il cui secondo termine è
quasi certamente sen† «esercito» ma il primo è ignoto, e Gavndaro"
«dalle corna di toro», che pare indubitabilmente rinvenire a
Gandharva-, nome di una categoria di esseri divini pensati sí
con fattezze animali (precisamente, di cavallo: induismo vedico
e classico) ma non taurine.
Citiamo ora un caso che esemplifica bene un’altro dei pericoli
sempre sottesi alla pratica etimologica, ossia l’assonanza.
Nel VI sec. d.C. un professore greco di grammatica di Ales-
sandria d’Egitto di nome Esichio, del quale null’altro sappiamo,
redasse un’imponente raccolta alfabetica di parole difficili o rare,
significative per la loro coloritura dialettale, semantica o per l’ambito
letterario d’origine: è la celebre Sunagwghv («Raccolta»), giuntaci
in un solo codice. Il materiale che essa contiene è molto impor-
tante, poiché l’autore ha spogliato e rifuso una quantità di lessici
specialistici della filologia alessandrina, per cui ogni sua affer-

9
Ritengo che il tipo asman- «cielo» sia un’innovazione lessicale in parte almeno
imputabile allo zoroastrismo: lo zoroastrismo infatti aveva posto in assoluto primo
piano la figura di Ahura Mazda, il «Signore Saggezza», con la conseguenza che
gli asura nel loro complesso erano considerati dei beneficenti, mentre i daeva
erano diventati i demoni. Insomma, quasi una posizione opposta a quella del
vedismo, dove deva è il dio positivo ed asura il dio ambiguo e spesso negativo.
La situazione originaria della religione indo-iranica prevedeva degli dei ‘della
Prima Volta’, per cosí dire, ossia deità legate al mondo primigenio (gli asura), e
le divinità creatrici, della Storia (i *daiva-). In India il massimo dio degli asura era
Varuˆa, il dio delle Acque Primordiali che risiedeva nella rocciosa Montagna Cosmica.
Cosmologicamente tale montagna, nella quale scendeva il sole dopo il tramonto,
equivaleva al cielo notturno, immaginato in posizione speculare sopra la terra,
dimodoché c’era un’equivalenza culturale e cosmologica tra il cielo (notturno) e la
roccia. Orbene, Ahura Mazda è fondamentalmente una rielaborazione di Varuˆa
ed etimologicamente asman- «cielo» vale ‘roccia’. Come si vede, i conti sembrano
tornare. È probabile che Zarathustra abbia spinto semplicemente alle estreme
conseguenze una distinzione religiosa che comunque già esisteva tra le genti
iraniche ed indiane, distinzione che però non era binaria: in alcune lingue scitiche
(ad esempio nell’osseto moderno, che continua una di tali lingue), l’antico *daiva-
conserva valori positivi.
L’etimologia come processo di indagine culturale 19

mazione va presa sul serio. È vero, molte glosse suscitano pro-


blemi che spesso non siamo in grado di risolvere, talora possono
essere revocate in dubbio per la forma in cui ci sono giunte, ma
non possono essere sottovalutate a priori. Una glossa è di primo
acchito davvero sorprendente: essa recita ÔRamav " : oJ u{ y isto"
qeov " «Ramas: il sommo dio». Balza immediata alla coscienza la
connessione con l’indiano Råma, eroe del Råmåyaˆa (il poema epico
attribuito a Vålm¥ki), considerato un’incarnazione del sommo dio
Vi∑ˆu. In se stessa la cosa sarebbe tutt’altro che impossibile, poi-
ché la conquista di Alessandro Magno aprí contatti diretti tra
India e Mediterraneo. Già il grande Macedone si fece accompa-
gnare nella sua spedizione da una pattuglia di studiosi e dopo di
lui parecchi storici ed etnografi, nutriti di tante informazioni fornite
da mercanti e marinai, scrissero sull’India e sulle sue genti: era
ad esempio noto che sacerdoti ed asceti indiani venivano detti
bracma~ n e" «brahmani» (voce presente anche in Esichio) e, proba-
bilmente tramite Megasthenes, Plinio (N.H. 7, 22) riferisce, pur
senza comprenderle, le loro pratiche yoga. Palladio (de gentibus
Indiae 2, 39) mostra di conoscere il teonimo Brahma (nella forma
Bracmav n ) ed era in generale nota, anche se spesso fraintesa, la
divisione castale. Se volessimo poi citare fatti culturali piú gene-
rali il nostro elenco si farebbe molto lungo 10 . Dunque, che ci
sarebbe di strano nel trovare citato anche il teonimo Råma?
Nonostante l’equivalenza fonica, il significato congruente e la
credibilità del quadro d’insieme, l’interpretazione ‘indiana’ sa-
rebbe clamorosamente errata.
Teniamo conto che l’opera di Esichio ci è giunta, come si è det-
to, in un unico esemplare manoscritto e dunque è sempre bene
accertare, nel limite del possibile, se la glossa sia o no corrotta. Il
modo di lavorare di Esichio consisteva nell’estrarre il lemma, con
lavoro proprio o basandosi su altri lessicografi, da un locus classicus,
ossia un passo tratto da un testo specifico. Nella raccolta troviamo
anche la glossa rJ a mav : uJ y hlhv («ramá: l’elevata») che presenta trop-

10
Oltre parleremo del celebre Periplo del Mar Rosso.
20 Franco Crevatin

pe analogie con la nostra perché il rapporto tra di esse sia casuale,


anche se non si fa alcuna menzione di un dio. Abbiamo dunque
motivi di ritenere che il locus classicus possa essere individuato nel
grammatico Stefano di Bisanzio, il quale (Ethnika 411, 7) ci racconta
una storia che fa andare a posto tutti gli elementi: la città siriana
di Laodicea era chiamata anche rJ a mav n qa" perché colà un pastore,
sfiorato da un fulmine, aveva detto ramànthas, ossia – Stefano si
premura di aggiungere – «il dio dall’alto», poiché nella lingua lo-
cale ramas vuol dire l’altezza ed athas il dio. In effetti in aramaico
råmâ (< √*rwm) vuol dire «alto», ma la situazione è abbastanza
complessa. In primo luogo la divinità alla quale ci si riferisce è il
dio Hadad, dio del fulmine e della tempesta, il cui nome locale era
Ramm†n: nell’espressione del pastore va dunque riconosciuta un’e-
spressione del tipo Ramm†n + ath, ossia «Tu sei Ramman!», espres-
sione congruente con l’epifania del dio stesso. L’athas «signore» di
Stefano di Bisanzio non è dunque una voce autonomamente esi-
stente, ma una reinterpretazione del pronome personale aramaico
e la connessione semantica con l’altezza è certo secondaria.
È chiaro adesso che la glossa dalla quale siamo partiti si è
costituita per conflazione e sovrapposizione di informazioni e
non è affatto escluso che il responsabile dell’errore sia stato il
frettoloso copista del testo. Svanisce comunque il miraggio in-
diano e si profila il Vicino Oriente.

L’etimo ha carattere fattuale. Esso è altrettanto concreto quan-


to un reperto archeologico o un documento d’archivio: sottova-
lutarlo, per disistima nella linguistica o nei linguisti, per i quali
notoriamente le vocali non contano nulla e le consonanti molto
poco, è operazione ingenua e pericolosa. Riconoscere all’origine
del latino marra «tipo di zappa a lama larga» 11 una voce vicino-
orientale antica 12 significa ammettere, vista la povertà tecnologi-

11
Continuatosi in alcune varietà romanze, REW 5370: la voce è forse passata al
greco marrov n Esichio.
12
Sir., arab. marr(†), accadico marru(m), egiziano mr (P. Tanis 14, 4 come signifi-
cato dell’ideogramma
M «zappa»), tutti dal sumerico mar con lo stesso senso.
L’etimologia come processo di indagine culturale 21

ca dell’artefatto, un’antichissimo prestito legato all’espansione


dell’agricoltura. Naturalmente, le cose non si presentano sempre
con tale evidenza o incidenza storica. Un ulteriore esempio aiu-
terà a capire meglio ciò che qui intendiamo.
In moltissime lingue indoeuropee si trovano designazioni del
cavallo che presumono un’identica parola originaria, ossia *ek’wos:
il sanscrito aßva˙, il latino equus, il greco i{ p po" (ma i{ k kÛo" in
età micenea), irlandese ant. ech, tocario B yakwe, ecc. Ciò mostra
che molte genti di lingua indoeuropea già nella loro preistoria
hanno conosciuto l’animale in questione. Conosciuto, certo; ma
utilizzato per che cosa? L’etimo in se stesso non lo può chiarire.
Due designazioni slave ci forniscono materiale istruttivo per
la riflessione, da una parte lo slavo ecclesiastico antico velï bo ¶ dü
«cammello», prestito dal gotico ulbandus, a sua volta dal greco
ej l ev f a" «elefante», e dall’altra lo slavo comune slon( ü ) «elefan-
te». Esse ci mostrano che i nomi di animali possono esser oggetto
di prestito ed adattamento e che anche concordanze vaste come
quella relativa a slon( ü ) possono essere ingannevoli, poiché – ov-
viamente – gli Slavi non hanno mai conosciuto nel loro ambiente
geografico l’elefante (e non a caso pare che la voce sia di origine
turca ed indicasse originariamente il leone asiatico). Per tornare
al cavallo, potremmo dire che la sua presenza e rilevanza nel
mondo indoeuropeo antico ci è garantita dall’etimo, ma ci potrà
esser davvero precisata solo dalle tradizioni storiche e soprattut-
to religiose delle genti in questione 13 .

Un altro caso istruttivo è fornito dalla terminologia tardo la-


tina ed alto medievale dell’aratro. L’agricoltura romana della
repubblica e del primo impero era sí intensiva, ma il suo appa-

13
Non possiamo seguire qui questa complessa vicenda in tutti i suoi dettagli.
Limitiamoci a ricordare che il cavallo era animale prezioso, non destinato al la-
voro. La sua posizione eccezionale (spesso lo si riteneva di discendenza divina),
lo rendeva adatto per sacrifici particolarmente importanti. Non veniva cavalcato,
almeno di norma, ma dall’età del bronzo in poi veniva utilizzato per il cocchio
da guerra.
22 Franco Crevatin

rato strumentale non era – né forse poteva essere – troppo avan-


zato. L’aratro era lo strumento principale, era di tipo leggero e
scassava il suolo quasi solo in superficie: gli aratri tradizionali
della Sardegna interna dei primi decenni del secolo mostrano
chiaramente l’estrema primitività dello strumento: un solo pezzo
di legno, con lungo timone ed una punta ricurva, talora rinfor-
zata da un puntale metallico. Il tipo linguistico aratrum è rimasto
solido nel mondo romanzo, sostituito talora da termini che de-
nunciano l’importanza che l’aratro aveva agli occhi del contadi-
no (*organium in Istria, *org ï na in Friuli: l’attrezzo per eccellenza;
*apparamentum nel latino regionale documentato dall’albanese
parmëndë). Talora l’aratro prende nome metonimicamente da una
delle sue parti costitutive, versôrium (ad es. nel ven. versór) dal
nome del vomere che riversa le zolle, quadriga (in parte delle
cosiddette aree ladine) o carrus per la parte anteriore, talora con
ruote, dello strumento. In alcune aree dell’Italia settentrionale
entrò invece un tipo concorrente di origine langobarda, latinizzato
nella forma plovum (e dunque affine al ted. Pflug e sim.), tipo che
ebbe fortuna anche in una parte del mondo slavo meridionale.
Perché ciò sia avvenuto è presto detto: le genti germaniche intro-
dussero nel mondo dell’ex Impero Romano d’occidente non solo
il collare per cavallo – fondamentale miglioria per l’aggiogatura
del cavallo da lavoro 14 – ma altresí l’aratro pesante, che scassava
in profondità il terreno, uno strumento adatto ai duri e spesso
gelati terreni settentrionali ma che si rivelava estremamente vantag-
gioso anche in quelli dell’Europa meridionale.
Credo che non occorra insistere oltre sulla fattualità dell’etimo.

Da piú di un punto di vista l’etimologia rassomiglia alla divi-


nazione. Anche nella divinazione, che, come è noto, riguarda tra-
dizionalmente molto piú spesso il presente ignoto ed il passato

14
I Romani aggiogavano il cavallo alla maniera dei buoi, il che affatica notevol-
mente l’animale. [recentissime ricerche sembrano tuttavia far ritenere che i Ro-
mani, pur senza conoscere il collare, conoscessero e praticassero un'aggiogatura
equina appropriata].
L’etimologia come processo di indagine culturale 23

piuttosto che il futuro, c’è uno specialista che non può mancare
di una certa capacità intuitiva. Essa non è una qualità misteriosa,
poiché l’indovino conosce la società nella quale vive ed opera,
conosce i problemi che piú comunemente si incontrano ed il quadro
in cui si collocano. Lo stesso fa l’etimologo, il quale riconosce
per consolidato mestiere la tipologia dei problemi che incontra:
come l’indovino, egli prima ancora di porsi un problema etimologico
analizza il contesto nel quale si colloca l’oggetto della sua ri-
cerca. Qui, quasi casualmente, tocchiamo un fattore delicato, quello
dell’incommensurabilità. Ebbene, un etimo, preso isolatamente, è
talora difficilmente giudicabile in termini di accettabilità, ma è
per contro facilmente valutabile per le procedure ed i contesti
sulla base dei quali è stato proposto. Nel greco moderno esiste
una voce, fav r a, che significa «discendenza, stirpe, razza; corpo-
razione». Orbene, se noi dovessimo giudicare quale sia l’etimo
corretto, se il langobardo fara «discendenza, lignaggio; gruppo
familiare in spedizione» oppure l’albanese farë «seme, progenie,
gruppo, razza», non potremmo decidere sulla base dei soli dati
linguistici, perché ambedue gli etimi sono formalmente possibili.
Di fatto essi non sono altrettanto accettabili, poiché mentre sap-
piamo che in Grecia sin dal Medio Evo è esistita una notevole
presenza albanese e possiamo documentare numerose parole passa-
te dall’albanese ai dialetti greci, l’unico punto di incontro tra grecità
ed ambiente langobardo è stata l’Italia meridionale durante l’epoca
del ducato di Benevento e non abbiamo ragioni documentarie per
credere che in quel breve lasso di tempo una siffatta, isolata voce
germanica abbia potuto prender stabilmente dimora nel lessico bi-
zantino. Dunque la prima ipotesi è piú economica della seconda.
Analogamente agisce l’indovino: se un uomo è attaccato da
qualche sconosciuto con mezzi di stregoneria, può ben essere che
il colpevole sia il tal dei tali con il quale il paziente a suo tempo
ha litigato, ma è piú economico pensare che l’aggressore sia una
persona della stessa famiglia dell’aggredito: fin troppe possono
essere le ragioni d’interesse e troppo potenzialmente pericolosa
la quotidianità per essere sottovalutate.
24 Franco Crevatin

Anche l’indovino ha delle regole precise dalle quali non può


prescindere, cosí come l’etimologo deve fare i conti con le leggi
fonistoriche. Sulla base di tali procedure si giunge al responso ed
all’etimo. Ma quali possono essere le caratteristiche di tale punto
d’arrivo? In genere l’indovino ha ben chiaro che il responso al
quale giunge, per inequivoco che possa a tutta prima parere, può
esser compreso appieno solo dal consultante: anzi, la consulta-
zione è governata da una lunga interazione tra specialista e cliente
ed il responso è determinato dall’interazione stessa. Ciò accade
anche per tecniche divinatorie che a tutta prima sembrerebbero
basate su regole ineludibili e per cosí dire oggettive. Il geomante
somalo (faaliye), la cui scienza è di origine araba pur se in parte
riformulata, traccia sulla sabbia, con procedure tali da rispettare
il caso, quattro figure (“case”) delle 16 possibili: ognuna di esse
è costituita dalla successione di quattro piani verticali nei quali
compaiono uno o due trattini / punti (“versetti”), ha un nome ed
una serie di possibili significati. Ad es.
° °
° °
°
° °

è la “casa” di nome bayaad < arabo bay†Æ «bianco» e può in-


dicare, oltre al colore che essa denota, un fatto negativo in caso
di malattia (bianco è il colore della morte) o di animali perduti,
ma un fatto positivo quando la consultazione avvenga a propo-
sito di donne o ragazze. Tracciate le 4 figure, il geomante le legge
in orizzontale da destra a sinistra, disponendo i segni dall’alto
verso il basso ed ottenendo cosí quattro nuove figure. A questo
punto le due di destra indicano il passato del fatto indagato e
quelle di sinistra il proseguimento temporale del fatto stesso.
Ulteriori trasformazioni sono possibili e le possibilità esegetiche
si ampliano considerevolmente (ad es. la riduzione 4 > 2 > 1, la
somma totale dei trattini ed altro ancora), per cui il faaliye ha
molti possibili responsi tra i quali teoricamente scegliere. Di fat-
L’etimologia come processo di indagine culturale 25

to, egli sceglie assieme al consultante e si potrebbe tranquillamen-


te dire che l’indovino è uno strumento che per agire abbisogna
dell’indirizzo e delle scelte di chi lo usa. Basti dire che se alla
fine delle trasformazioni egli dovessere ottenere il segno jamaac
(formato da due ‘versi’ su ciascuno dei quattro piani) il responso
sarebbe, coerentemente con il nome di palese origine araba, «una
riunione di persone», senza che per questo si possa sapere se si
tratta di una riunione festiva (ad es. un matrimonio), luttuosa
(un funerale), un’assemblea religiosa o una battaglia. Insomma,
è quanto diceva già Seneca il Giovane a proposito dei portenti
divinatori rivelati, secondo la disciplina etrusca, dai fulmini (Natur.
Quaest. 2, 32, 6: Auspicium observantis est «un auspicio è tale per
coloro che lo colgono»).
Ci sono problemi etimologici che l’etimologo può risolvere
senza mediazioni, ossia con gli strumenti che gli sono professio-
nalmente propri, e responsi che l’indovino può ricavare senza
interventi esegetici speciali. Una volta che l’etimologo abbia ben
chiare le regole fonistoriche dei dialetti istriani meridionali e sappia
altresí che in tali dialetti (e non solo in essi) il suffisso diminuitivo
latino -ë llu(s) spesso si presenta ampliato nella forma - ë llione(m)
può agevolmente comprendere che il rovignese sión «uccell(in)o»
risale al latino aucellus tramite *aucélliøne- . Analogamente qua-
lunque Guro (gente della Costa d’Avorio centrale) può consulta-
re con successo l’oracolo del topo.
Sul fondo di un orcio si dispone ordinatamente una barretta
orizzontale di legno alla quale sono fissati dieci bastoncini
mobili, ognuno dei quali identifica un referente particolare
secondo questo schema:
A B
persona viva persona morta o essere della boscaglia
1A 2A 3A 4A 5A 1B 2B 3B 4B 5B
1A «bambino o bambina» 1B «vecchio»
2A «adulto» 2B «vecchia»
3A «ragazza non sposata» 3B «portatore di sventura»
4A «donna con molti figli» 4B «sacrificio»
5A «vecchio» 5B «stregoneria, pericolo»
26 Franco Crevatin

Sopra ed attorno a tale congegno si sistema del cibo, si libera


un topolino vivo e poi si copre il recipiente. Dopo un giorno
si accerta quali bastoncini si siano sovrapposti vicendevol-
mente a causa dei movimenti del topo e si legge il responso.
Ad esempio se 5A e 1B sono sopra 5B vuol dire che un vec-
chio vivo (5A) viene portato nel mondo dei morti (B) da un
vecchio antenato (1B) e quindi è in pericolo di morte (5B).
Situazioni di questo genere, passabilmente meccaniche, sono
molto meno frequenti di quanto saremmo disposti a credere, sia
nella divinazione che nell’etimologia. Partiamo pure da un etimo
molto banale, quello dell’italiano settentrionale ‘ca(d)rega’ «se-
dia». Non c’è chi non veda che l’etimo è il latino cath ë dra passato
già nel latino parlato d’età imperiale a cath Ë dra (> cadre(d)a e
sim.). L’aspetto formale non esaurisce l’etimo nella sua storia,
perché la ‘sedia’ non è una ‘cattedra’. Il fatto è che la ‘cattedra’
non era un arredo domestico né in età tardo antica né in età alto-
medievale, quando per sedersi ci si serviva di semplici sgabelli.
Sopravvissuta in ambiente ecclesiastico, la ‘cattedra’ si è connotata
fattualmente per la presenza dello schienale e solo in un secondo
momento, in questa nuova veste, è stata accolta nella dimensione
privata. Potremmo dire che l’etimologo si può trovare di fronte
ad imbarazzanti problemi ogniqualvolta egli si trova ad indagare
su una parola che abbia una qualche dimensione culturale. Ecco,
dunque, il fatto nel quale l’analogia tra divinazione ed etimologia
è piú precisa, ossia l’etimologo, come l’indovino, ha bisogno di
poter contare su un sapere che esubera quello a lui proprio come
specialista, un sapere che dà misura e concretezza alla sua ipo-
tesi semantica. Vedremo in sèguito quali possano essere i saperi
ai quali conviene far ricorso; per ora limitiamoci a rilevare che è
ben difficile stabilire a priori quale parte del lessico di una lingua
possa essere culturalmente connotata: se si indaga etimologica-
mente la storia linguistica di una cultura ben conosciuta, come
ad esempio la sequenza latino > tardo latino > lingue romanze
medievali, ci si può attendere di incontrare problemi forse diffi-
cili ma almeno commisurabili su conoscenze comprovabili. Se
indaghiamo invece storie di parlanti culturalmente poco noti o
L’etimologia come processo di indagine culturale 27

molto antichi oppure pratichiamo l’etimologia su vasta scala compa-


rativa (l’insieme della famiglia indoeuropea, poniamo) i proble-
mi assumono caratteri molto complessi.
* * *
Da quanto sin qui detto possiamo trarre una conclusione pre-
liminare che ci servirà oltre come prospettiva di metodo. L’eti-
mologia è un importante strumento della ricerca storica lingui-
stica e culturale: essa si configura come un dominio complesso
che, pur basandosi sulla linguistica come disciplina fondante, implica
a pieno titolo l’interazione di altri àmbiti disciplinari, primi tra i
quali l’antropologia come scienza della cultura e lo studio della
cognizione.
Dobbiamo ora indagare piú da vicino i temi sopra accennati.
28 Franco Crevatin
L’etimologia come processo di indagine culturale 29

LA RICERCA DEL VERO: LA RIFLESSIONE SULLA LINGUA

Abbiamo detto che è proprio degli esseri umani ricercare il


vero: possono, purtroppo, essere occasionalmente economi nei
confronti della verità, possono oltraggiarla, disconoscerla, ma non
possono ignorarla. Conosciamo tutti, purtroppo, l’esistenza di “verità”
ufficiali, ideologicamente costruite, o di verità per cosí dire individuali
(quante volte ci siamo sentiti dire «Ti dico la verità,...» il che
significa semplicemente «Ti dico chiaramente quanto penso», e
nelle quali il vero in quanto tale è o può essere un misero acces-
sorio), ma di ciò non ci occupiamo qui.
Una delle culture che piú chiaramente ha sottolineato il ruolo
della Verità è stata quella egiziana antica. In essa la verità coin-
cideva con la giustizia e con l’ordine cosmico ed era personifica-
ta in una figura divina, mAat (copto sah. me, boh. mhi). La dea
Maat, rappresentata con una piuma di struzzo sul capo e talora
sostituita dal simbolo (parav s hmon, BGU 5, 1, 9, 195 ed Horapoll.
î
2, 118) della sola piuma , era l’elemento fondante della realtà e
l’offerta di una sua immagine agli dei demiurghi era un atto
rituale essenziale nella liturgia templare. (Negli inventari templari
di età tolemaica viene definita, correttamente, Dikaiosuv n h «Giu-
stizia»; P. David 1 r. 1,1,1,2,11). Il suo contrario, jsft, era la falsità,
il disordine, l’ingiustizia, un fatto non solo esiziale per l’indivi-
duo bensí per l’intero cosmo. E potremmo facilmente moltiplica-
re gli esempi: nella lingua bororo (Brasile) r¸⁄ k Üi è non solo la
verità ma anche l’eccellenza; nella lingua dogon naŸ n a è sia il
vero che il giusto; nel somalo run (f.) è la verità e la realtà; nella
lingua ndogo (Sudan) du⁄ significa vero, reale e giusto; e cosí via.
La ricerca e la scelta del vero è costitutiva dell’ordine sociale e –
talora – dell’intero equilibrio cosmico: opinioni tipologicamente
simili a quelle egiziane erano alla base del mondo spirituale delle
genti Arie, le antiche genti della Persia e dell’India. Ùta – e mi
limito alla cultura vedica – è l’ordine del cosmo, il valore essen-
ziale su cui esso si fonda, ed è valore morale perché la voce
indica altresí ciò che è vero e giusto: Varuˆa, il sommo iddio, era
30 Franco Crevatin

il «pastore di Ùta» (RΩt asya gop†), l’inflessibile custode della sacertà


del giuramento e delle Acque primordiali.
Perché la ricerca del vero possa essere trasferita a livello del
linguaggio umano – in se stessa la procedura non sarebbe affatto
obbligata – devono sussistere alcune premesse interrelate, ossia
che nella cultura data ci sia interesse per la lingua come fenome-
no del reale e che su di essa si sia in qualche modo formata una
teoria, esplicita od implicita.
L’essere umano è un animale sociale neurologicamente e psi-
cologicamente capace, vorremmo dire costretto, a costruire for-
me potenzialmente sempre nuove di cultura: per antichissima
norma imposta dalla realtà è altresí un soggetto, sia come in-
dividuo che come gruppo, plurilingue. Egli dunque sa bene che
esistono, anche a pochi passi da sé, da quello che considera il
centro del (suo) mondo, gruppi che non condividono il suo lin-
guaggio e con i quali la comunicazione è difficoltosa oppure
addirittura impossibile. È stata l’ideologia filosofica romantica e
conseguente pratica politica e sociale che ci hanno portato a cre-
dere alla ‘naturalezza’ delle Nazioni (e del supposto loro Spirito)
e degli stati nazionali.
Anche quando, con pressoché inevitabile etnocentrismo lingui-
stico e culturale, le genti hanno attribuito al proprio uso valore di
normalità umana assoluta, di norma sulla quale misurare la devianza
altrui, essi sapevano bene che gli altri, i barbari, vivevano in un
universo altrettanto comunicante. Anche se ciò non ha portato sempre
e dovunque ad interesse o curiosità per le lingue degli altri, ha
indubbiamente stimolato a riflettere sulla propria stessa lingua.
Ambedue questi fatti costituiscono i presupposti per il sorge-
re dell’etimologia e dovremo adesso considerarli piú da vicino.

La curiosità per le altre lingue nasce dal bisogno; quanto meno


tanto ci spingono a credere i documenti piú antichi e non pare un
caso che la lessicografia sia nata in ambiente accadico sin dagli
inizi del III millennio. Le genti semitiche della Mesopotamia, ed in
seguito della Siria, non solo vivevano in un ambiente dove molte
L’etimologia come processo di indagine culturale 31

erano le lingue in uso, ma dipesero largamente dalla precedente


cultura sumerica, linguisticamente non semitica. Opportunamente
la situazione è stata definita di bilinguismo culturale. I Sumeri,
che probabilmente non erano neppure autoctoni della regione e la
cui lingua è – o tale sembra a noi – completamente isolata ge-
neticamente, imposero i propri modelli non solo sulle genti semi-
tiche della Mesopotamia e della Siria, ma altresí su tutte le genti
vicine. L’influenza fu cosí forte che gli Accadi, pur parlando una
lingua profondamente dissimile da quella sumerica, non esitavano
a ritenere che la loro lingua fosse tamπ¢lu «immagine» dell’ammirato
modello, cioè perfettamente corrispondente. Eppure non mancaro-
no mai di guardare alle lingue delle genti che ritenevano cultural-
mente piú povere con stupore malamente velato di disprezzo: lin-
gue di cani, basate su espressioni non solo incomprensibili ma
addirittura non trascrivibili. Nabû, il dio che tra l’altro presiedeva
alla scrittura, era detto s†niq mitxurti «il controllore dell’equivalenza»,
della traduzione, ma l’equivalenza era valida solo per le lingue di
cultura. Si è talora sostenuto che gli Accadi sembrano aver co-
nosciuto il mito di un’origine comune delle lingue umane, che
solo nel tempo si sarebbero differenziate e degradate, ma gli Accadi,
piú che insistere su un’origine linguistica, paiono essersi riferiti
ad un’originaria comunanza culturale. Comunque sia, il bilinguismo
culturale e l’assunzione del complesso sistema grafico sumerico
pose rapidamente il problema della formazione degli scribi: per
comprendere correttamente e ritrasmettere il ricco sapere, anche
religioso, sumerico bisognava saper leggere e scrivere i documenti.
Questa esigenza si reificò in una forma testuale specifica, la lista
di parole: fosse essa mono- o bilingue (sumerico, sumerico-accadico)
essa raccoglieva, spesso con un’ordine acrografico (ossia basato
sul primo segno della parola) voci complesse, rare, comunque im-
portanti di un determinato àmbito del sapere. Esistevano liste diverse,
largamente standardizzate, che venivano utilizzate in tutte le scuole
templari scribali del Vicino Oriente. Ad Ebla, dove probabilmente
almeno una parte dei maestri pare essere stata accadica, situazio-
ne che doveva essere alquanto diffusa in tutto il Vicino Oriente
32 Franco Crevatin

antico, abbiamo liste nelle quali la lingua d’arrivo era il dialetto


semitico locale e talora in esse è stata registrata la pronuncia della
parola sumerica. Il titolo di una delle piú importanti liste, ©è-bar
unken «lista della riunione» dove per ‘riunione’ par di dover in-
tendere l’insieme che aspira ad essere totalità, è significativo dello
spirito nel quale le liste in quanto onomastika sono state concepite:
il mondo è descrivibile con una serie di etichette linguistiche. Non
è un fatto isolato, poiché la stessa idea soggiace agli onomastika
egiziani antichi ed è un atteggiamento che può esser riassunto
nell’affermazione “la lingua è una nomenclatura”. Alla fin fine,
non è quanto implicitamente affermano molti miti di creazione
basati sulla Parola del Demiurgo? Piú sottile, invero, il discorso
biblico: Dio nomina, ma anche l’Uomo – su mandato di Dio –
nomina ed i nomi che impone sono destinati a durare. Tuttavia,
alla fin fine, anche il dettato biblico presuppone la nomenclatura.
Vedremo nel corso di questo libro che un’ipotesi teoretica di que-
sto genere è pericolosa e scientificamente infondata. Non si tratta,
infatti, di etichettare semplicemente oggetti del reale, bensí pro-
dotti culturali che, in quanto tali, sono sempre determinati; e tutto
ciò ha un riflesso sulla pratica etimologica. Per ora basti un solo
esempio. Nell’egiziano antico la parola Hm valeva in genere «ser-
vo; schiavo», ad es. Hm-nTr «servo del dio», ossia «sacerdote» (profhvth"
nella traduzione della cancelleria tolemaica), copto xont. Tutta-
via tale parola, accompagnata dal pronome poss. suffisso di 3 pers.
sing., poteva essere applicata alla sacra persona del Faraone: sia-
mo usi tradurre l’espressione con «la Maestà Sua». Se prendiamo
atto che nella lingua classica, quando ci si riferiva al Faraone, si
utilizzava di norma l’impersonale («Si era a Memfi…»), un modo
evidente per segnalare la distanza che separava il Faraone dai
comuni mortali, e che era impensabile applicare al re una parola
che avesse la benché minima connotazione negativa, dobbiamo
concludere che Hm indicava l’individualità non marcata: valesse
‘persona’ o qualcosa di simile a ‘corpo’, come è stato proposto,
resta il fatto che nelle nostre lingue non abbiamo equivalenti semantici
per tale concetto.
L’etimologia come processo di indagine culturale 33

Ma ritorniamo alle liste. Quanto abbiamo detto per la situa-


zione accadica ed eblaita vale anche per Ugarit, la città mercan-
tile siriana crocevia di importanti influssi e presenze culturali.
Qui, nel pieno secondo millennio accanto al venerando sumerico
ed all’internazionale accadico, era stata inserita la lingua semiti-
ca locale e talora il hurrico, lingua che per un discreto lasso di
tempo aveva avuto diffusione politica e culturale nella regione.
Sarebbe stato breve il passo tra la lista bi- / plurilingue di
tradizione accadica ed il vocabolario cosí come noi lo intendia-
mo: possiamo dirci moralmente certi che esso sia stato fatto, tuttavia
i documenti di questo tipo a noi giunti sono davvero pochissimi.
Uno di questi è (il frammento di) un vocabolario egiziano accadico,
che trovava la sua ragion d’essere nel fatto che la cancelleria dei
Faraoni della fine della XVIII dinastia corrispondeva con le po-
tenze regionali dell’epoca in accadico. Durante la fine della XVIII
dinastia la cancelleria faraonica pare esser stata in grado di com-
prendere anche il hurrico, il che in se stesso è naturale, visto che
Amenofi III aveva preso come sposa secondaria una delle figlie
del re di Mitanni (e certo nel suo ricco corteo di accopagnamento
accanto a serve personali e dame di compagnia [le fonti egiziane
parlano di un totale di 317 donne] c’erano anche scribi e persone
colte) e persino la lingua degli Ittiti, con la cui potenza militare
l’Egitto doveva cominciare a fare i conti. Due lettere al re di
Arzawa (EA 31-32), regno collocabile grosso modo nella Cilicia, ci
mostrano una situazione interessante. Il re di Arzawa pone alla
fine della propria lettera un poscritto, nel quale dopo aver invo-
cato le benedizioni del dio Nabû sullo scriba egiziano addetto al
protocollo della corrispondenza, aggiunge : «Tu, scriba, scrivimi
bene e metti inoltre per iscritto il tuo nome. Le tavolette che
vengono portate qui [cioè alla cancelleria regale di Arzawa] scrivi(le)
sempre in ittito!». Il poscritto potrebbe esser giustificato con la
constatazione che la lettera alla quale rispondeva era stata scritta
in un ittito alquanto incerto. I rapporti con gli Ittiti durarono
abbastanza a lungo e sotto il regno di Ramesse II, dopo duri
confronti militari, si trovò un modus vivendi siglato anche da
34 Franco Crevatin

matrimoni tra le case regnanti, furono stipulati trattati di pace


identici nei contenuti ma ciascuno nella lingua nazionale e si
intrattenne una considerevole corrispondenza, prevalentemente
in accadico ed anche in ittito. Ciò ci fa capire che la cancelleria
egiziana doveva aver avuto a disposizione liste lessicali, ‘voca-
bolari’ su base accadica – e liste sumero-accadiche-ittite ci sono
state conservate – per estendere le proprie competenze.
Comunque la lista o le liste, per numerose e ricche che fossero
– e sulla base dei documenti a noi giunti possiamo davvero dire
che erano davvero numerose e ricche –, non spinsero oltre la
nomenclatura l’interesse per la lingua.

Dobbiamo soffermarci ora sull’aspetto della creazione ‘verba-


le’ del Demiurgo, poiché essa spesso presuppone un’idea teoretica
gravida di conseguenze. In sintesi: se dare nome e creare sono
due aspetti del medesimo atto, ciò significa che tra il segno lin-
guistico e la realtà designata intercorre un legame profondo, di
«essenza». Insomma non è né un fatto neutro né un accadimento
casuale che la TERRA si chiami ‘terra’ o che il Tal dei Tali si chiami
nel modo dato. Nella cultura egiziana antica tali idee hanno
importanza sistematica.
Il Demiurgo non ha creato il mondo dal nulla, bensí rendendo
differenziato e attuale tutto ciò che esisteva nell’Abisso Cosmico
originario confuso ed in potenza. Secondo il testo della cosiddet-
ta Teologia Memfita, il Creatore agí tramite il cuore e la lingua,
ossia tramite l’ideazione estrinsecata in parole. Per quanto se-
condo altre scuole teologiche il processo fosse stato parzialmente
diverso, tutte condividevano l’opinione sull’importanza della parola.
Nella teologia latopolitana, conservataci dai testi templari di Esna,
gli dei sono stati creati non solo dall’articolazione consapevole
del loro nome da parte della dea Neith, ma forme divine indivi-
duali scaturirono da frasi da essa stessa proferite (DAjsw). La parola
autorevole, insomma, ha una forza che può agire anche senza
l’esplicita volontà divina. C’è un testo del Nuovo Regno, il libro
della Vacca del Cielo, nel quale il sommo dio del sole, Ra, crea
L’etimologia come processo di indagine culturale 35

una quantità di elementi del reale tramite quelli che noi defini-
remmo volentieri giochi di parole, ma che giochi non erano affat-
to per gli Egiziani, bensí dimostrazioni inequivoche del potere
della parola. E c’è di piú. Quando si sostiene, ad esempio, che gli
esseri umani (rmT, copto rwme) sono nati dalle lacrime del Cre-
atore (rmj «piangere», copto rime) si ammette un’identità essen-
ziale (oj m oiousiv a ) che include la paretimologia senza bisogno di
articolazioni linguistiche specifiche.
Gli Egiziani spinsero ancora piú in avanti la loro ricerca, giun-
gendo alla conclusione che la loro scrittura geroglifica – che non
a caso definivano mdw nTr «parola di dio» – fosse un altro modo
di identificare l’essenza della realtà. Per brevità faccio qui un
solo esempio. Alcune scuole teologiche ritenevano che il Demiurgo
fosse stato androgino, parte maschile e parte femminile e ritene-
vano che ciò ricevesse una conferma dal fatto che il nome della
dea Neith – creatore nella teologia latopolitana – potesse esser
scritto con i due segni
Ø d
e che potevano esser impiegati
per scrivere le parole “padre” e “madre” 15 .
Prescindendo dall’aspetto demiurgico, che resta un caso spe-
cifico pur se diffuso, il fenomeno generale è noto e studiato. Idee
e pratiche molto comuni come la magia aggressiva esercitata sul
nome proprio, l’esistenza di nomi segreti, la ricerca dei ‘nomi di
Dio’ e tabu articolatori connessi, il potere della parola nel rito e
quanto altro ancora sono tutte manifestazioni della supposta ojmoiousiva
tra segno linguistico ed elemento del reale. Sono davvero poche
le culture antiche o ‘primitive’ che si siano sottratte a tale reali-
smo concettuale (per usare la terminologia di J. Piaget) e che
quindi non abbiano praticato, anche solo occasionalmente, la
(par)etimologia per fini euristici o interpretativi. Sono giustamente
note, per limitarci ad una citazione, le complesse costruzioni teoriche
sviluppate dai Dogon e dai Bambara dell’Africa occidentale sulla
lingua e sul suo uso, e potremmo facilmente moltiplicare gli esempi.

15
In realtà i due segni erano innanzi tutto motivati dal fatto che nella grafia
geroglifica tarda essi notavano le consonanti n e t.
36 Franco Crevatin

I Bawlé della Costa d’Avorio, che pure non hanno una teoria
linguistica esplicita, hanno usato la paretimologia come impor-
tante strumento per l’autodefinizione. Popolazione costituitasi in
un’epoca piuttosto recente (prima metà del XVIII sec.) grazie
all’assimilazione di gruppi di lingua e cultura prevalentemente
Guro da parte di piccole minoranze Asante provenienti dal Ghana,
i Bawlé hanno basato la propria identità su un mito di fondazio-
ne, quello della regina Abla Poku che con un piccolo seguito
avrebbe condotto da Kumasi tutte le genti akan che oggi si tro-
vano in Costa d’Avorio (sic!). L’assunzione del nome etnico Bawlé,
un nome che ci è attestato prima del XVIII secolo sulle carte ge-
ografiche europee e che è verosimilmente un nome geografico
(verosimilmente un idronimo), è stato rideterminato dalla paretimolo-
gia: il nome significherebbe ba wuli «il bambino è morto» e si
riferirebbe al momento in cui la regina, davanti ai propri segua-
ci, avrebbe dovuto sacrificare il figlioletto alla divinità del fiume
Comoé per poterlo guadare e cosí mettersi in salvo dagli insegui-
tori. Sulle stesse basi ideologiche sono stati reinterpretati i nomi
delle sezioni locali bawlé: gli Aali sarebbero coloro che sarebbero
rimasti indietro ( O wali), gli Aïtu coloro che disboscavano (o spen-
navano i polli; tu) per conto della regina e cosí via.

Fu la cultura filosofica greca ad affermare che i segni lingui-


stici si collegano al referente per convenzione sociale e non per
natura, ma la presa di posizione impiegò molto tempo per domi-
nare il campo della riflessione: essa comunque costituí la base
cognitiva dell’etimologia cosí come oggi la intendiamo perché
rese il segno linguistico un ‘oggetto’ manipolabile senza dover
far ricorso ad ideologie soggiacenti di carattere religioso ed estranee
al segno stesso. Certo, il bisogno di recuperare trasparenza e mo-
tivazione non ha mai – neppure oggi – annullato la pressione al
ricorso esegetico paretimologico, ma gradualmente lo ha staccato
dalla tev c nh linguistica proprie dicta.
Il piú antico e coerente testo a noi giunto sulla natura del
segno linguistico è il Kratylos di Platone, un dialogo che si imma-
L’etimologia come processo di indagine culturale 37

gina avvenuto sul tema in questione tra Cratilo, Ermogene e Socrate.


Di primo acchito il dialogo sconcerta, perché, come spesso avvie-
ne, Socrate insiste, domanda, corregge, definisce, tormenta con la
sua dialettica gli interlocutori, ma non conclude, non dà alla fine
una risposta chiara e definitiva agli interrogativi suscitati: tutto
viene rimandato ad un’altra occasione ed a Cratilo non resta che
augurarsi che Socrate continui a riflettere su questi temi. La
strutturazione è, come si è detto, comune nei dialoghi socratici e
vien fatto di sospettare che tali opere servissero sí ad esporre il
metodo di indagine di Socrate e del suo allievo Platone, ma aves-
sero anche una funzione per cosí dire di propaganda culturale.
Platone, ormai riconosciuto e venerato caposcuola, mostrava ai
filosofi potenzialmente interessati temi e metodi, riservandosi di
fornire solo agli iscritti ai corsi le soluzioni, pur se in itinere, ai
problemi posti.
Il Kratylos ha caratteri in sé particolari: Socrate sembra prende-
re terribilmente sul serio il legame di necessità intercorrente tra
segno linguistico e referente, lo argomenta con apparenti serietà e
dottrina, fornendo decine di esempi etimologici, alcuni dei quali
palesemente assurdi, per poi arrestarsi bruscamente e fare una
conversione decisiva. Insomma, pare palese, anche dall’inusuale e
ripetuta affermazione della propria dottrina e da talune espressio-
ni, che Socrate / Platone sta facendo dell’ironia: ad un certo punto
della discussione Socrate si spinge a dire, circa un’idea che affer-
ma essergli appena balzata in capo e che propone agli amici, dokw~
gev moi ouj kakw` " manteuv e sqai«credo proprio di non vaticinare
male», con ciò stesso tradendo, con un’espressione che contraddi-
ce clamorosamente tutta la maieutica socratica (e le idiosincrasie
di Socrate, che notoriamente non tollerava la mantica), l’atroce
presa in giro.
Ma chi e che cosa Socrate sta deridendo? È difficile fare nomi,
ormai per noi sepolti nella storia culturale della Grecia, ma pos-
siamo precisare le idee che egli criticava e che evidentemente
avevano largo corso nelle scuole filosofiche del V sec. Per capirlo
forniamo una sintesi dei problemi posti nel dialogo. Socrate di-
38 Franco Crevatin

scute dunque con Ermogene, seguace delle teorie di Parmenide,


e con Cratilo, seguace di Eraclito. Ci attendiamo dunque che i
due allievi non pensassero su questi temi in modo troppo dissi-
mile da quello dei loro capi-scuola, anche se ben poco possiamo
dire su quali fossero state le opinioni sul linguaggio dei due grandi
filosofi. Verosimilmente Parmenide, il cui pensiero era centrato
fermamente sull’Essere, il quale solo è vero ma allo stesso tempo
non afferrabile e dunque opposto drasticamente alla dov x a (opi-
nione, ed ingannevole apparenza) degli uomini, ben poco si sarà
curato delle etimologie: anche ammesso che esse fossero state
vere, le verità da esse trasmesse sarebbero state comunque inaf-
ferrabili ed indimostrabili per gli uomini. In effetti Ermogene nel
dialogo platonico parte da una posizione molto decisa: tutto è
convenzione, dunque uno che, poniamo, chiami ‘cavallo’ l’uomo e
viceversa non sbaglia, o quanto meno è legittimato a farlo. Nep-
pure Eraclito pare aver dedicato molto spazio alla riflessione sul
linguaggio, a differenza di Democrito (fr. B 26 Diehls) prima e dei
sofisti poi. In effetti se diamo credito ad una sintetica annotazione
di Proclo nel suo commento al Kratylos (16 p. 5, 25) la posizione di
Cratilo era quella di Pitagora ed Epicuro, mentre Democrito ed
Aristotele (ossia la scuola platonica) erano schierati sulle tesi di
Ermogene. L’informazione avrebbe il pregio di confermarci che i
convincimenti reali di Socrate erano ben altri rispetto all’alluvione
etimologica che egli ammannisce ai suoi interlocutori nel dialogo.
In effetti la temperie culturale ateniese del V secolo favoriva, se
non determinava, anche le opinioni filosofiche sul linguaggio: il
tema centrale era l’opposizione tra nov m o" e fuv s i", tra “legge” e
“natura”, ossia tra quanto l’Uomo afferma, definisce, produce e
tra la realtà e rispettiva essenza. Il tema ebbe implicazioni, anche
letterarie, molto ampie, non solo in quanto opponeva apparenza a
realtà, ma anche perché veniva a saldarsi con la riflessione sofisti-
ca sul contratto sociale: esso, come la lingua, era il risultato neces-
sario della convenzione (sunqhv k h) e dell’accordo (oJ m ologiv a ) ed
era, appunto, un prodotto, non un prius insondabile o un riflesso
sostanziale della natura.
L’etimologia come processo di indagine culturale 39

Torniamo al Kratylos. Alla secca presa di posizione di Ermogene


Socrate fa notare, dopo una serie di osservazioni preliminari che
non a caso riguardano l’antinomia essenza vs. apparenza o con-
venzione, che le parole non possono esser state create a caso,
irriflessivamente, bensí che devono esser state create da un
onomaturgo, un «facitore di parole» che si configura come nomoqevth",
un legislatore, davvero il piú raro degli artigiani che lavorano
per la comunità. Si noterà che il confronto implica ancora una
volta il concetto di «legge», nov m o", che è per l’appunto l’equiva-
lente di dov x a e che si oppone all’essenza, fuv s i". La conclusione è
inevitabile (390 D-E): «E’ cosa rischiosa, Ermogene, e non dappoco
– come tu pensi – l’attribuzione (qev s i") di un nome, non cosa di
persone inesperte né di chi capita capita. E Cratilo dice il vero
quando afferma che i nomi sono adatti per natura (fuv s ei) alle
cose e che non ciascuno può essere artefice di nomi ma solo quello
che tiene ben in vista il nome che appartiene per natura a ciascu-
na cosa e che è capace di porre la sua forma in lettere e sillabe».
Ermogene si dichiara battuto ma non vinto né convinto: gli di-
mostri dunque Socrate quale debba essere la «naturale corret-
tezza» (thŸ n fuv s ei oj r qov t hta) dei nomi. Socrate prima si schermisce,
affermando che i sofisti insegnano a pagamento tali cose, e dun-
que ci si può rivolgere a loro per gli opportuni chiarimenti, e poi
rinvia Ermogene all’insegnamento dei grandi poeti del passato,
in primis ad Omero. Socrate fa notare all’interlocutore che indiret-
tamente Omero prende posizione sulla correttezza dei nomi e porta
come esempio il nome del figlioletto di Ettore, Astianatte: non è
forse corretto che il figlio di Ettore, il principe in cui Troia confida,
principe il cui nome significa “colui che detiene, possiede” (e{ k twr),
valga “signore (a[ n ax) della città (a[ s tu)”? Da questo caso Socrate
prende le mosse per discutere un certo numero di antroponimi
dell’epica e da questi passa ai teonimi. Qui tocchiamo il primo
approdo sicuro, poiché sappiamo per certo che i primi ad occu-
parsi di esegesi (par)etimologica dei nomi propri furono proprio
i rapsodi (ed il caso piú noto è il nome di Odisseo, accostato al
verbo oj d uv s somai «sono odiato») ed i poeti antichi: nel VI sec.
40 Franco Crevatin

a.C. molte voci dell’epica erano desuete ed incomprensibili ed è


molto probabile che poeti e prosatori abbiano tentato di riflettere
sui significati, tentando accostamenti basati su somiglianze fone-
tiche piú o meno marcate della dizione epica. Sappiamo ad esem-
pio che Ferecide derivò il nome del dio Kronos da quello del
“tempo” (crov n o") e che Ecateo di Mileto (ad es. in Athen. II 35
AB) utilizzò il riferimento (par)etimologico di nomi propri nelle
sue Genealogie per riscoprire o per inverare rapporti storici. Il
fenomeno in se stesso è tutt’altro che raro: in culture dove si
riconosce il valore paideutico, formativo, di riferimento sociale
etico o religioso a testi orali tradizionali, nel momento in cui la
dizione epica (o religiosa o altro) perde la sua completa traspa-
renza comunicativa, sono proprio coloro che esercitano da epi-
goni o ripetitori l’arte del dire che diventano i primi esegeti.

Mi pare utile fare qui una digressione che consentirà di com-


prendere meglio lo sviluppo del pensiero linguistico greco. La
cultura indiana d’età vedica aveva parecchi specialisti ai quali la
società riconosceva il compito, sommamente importante, di pro-
duttori di testi: i testi di maggior valore nell’ideologia religiosa
erano gli inni rivolti agli dei. Gli Indiani vedici, come peraltro le
genti iraniche antiche, ritenevano che la sessione sacrificale fosse
sostanzialmente un banchetto al quale partecipava la divinità: ad
essa si riservava un posto con un cuscino di erba morbida ed il
canto innico aveva il compito di intrattenere l’ospite sovrumano
con la celebrazione della di lui grandezza e potenza. È facile
vedere che tale rito era modellato su celebrazioni umane, il ban-
chetto come occasione sociale di misura, conferma e celebrazione
dello status sociale del o degli ospiti, reificata dalla distribuzione
di beni, dalla disuguaglianza delle parti del cibo offerto e dal
canto encomiastico. È dunque conseguente che i poeti religiosi
fossero originariamente scelti in gruppi di discendenza che ap-
punto erano specialisti dell’arte del dire e che il poeta (e la sua
famiglia) fosse proprietaria del canto prodotto. La dizione innica
vedica era elaborata e complessa, caratterizzata da metrica e da
L’etimologia come processo di indagine culturale 41

melismi, spesso resa oscura da espressioni inusuali e da ardite


quanto profonde immagini speculative: insomma, è quanto av-
viene dovunque ci sia una classe di specialisti del dire, come ad
esempio nel ricchissimo mondo culturale dei griot dell’Africa occiden-
tale.
Se c’è elaborazione e complessità, è facile attendersi che solo
una parte dell’uditorio sia capace di cogliere completamente il
messaggio del cantore, una parte destinata con il passar del tem-
po a ridursi sempre di piú; nel caso che i testi in questione, tràditi
per lungo tempo oralmente, siano visti come ‘testo di cultura’,
ossia come paradigmatici, essenziali strumenti dell’autoidentificazio-
ne culturale, portatori di valori non transeunti, diventa molto
importante assicurare la loro tutela e comprensione. Le ‘scuole
teologiche’ brahmaniche si trovarono contemporaneamente di fronte
a due problemi: il primo era quello di riconoscere esattamente le
singole parole che componevano il verso innico; il secondo era
legato all’attribuzione di un significato morfologico o lessicale
alle parole riconosciute. Il primo problema non era da poco e
basta pensare a quanto possa esser ancor oggi difficile l’autoanalisi
linguistica del parlato per persone di bassa scolarizzazione o il-
letterate: non è ‘ovvio’ riconoscere in [çaps] il tedesco Ich habe es
– e potrei facilmente moltiplicare gli esempi. Il primo passo fu
dunque quello di riconoscere che, una volta astrattamente annul-
late le regole di incontro tra le parole (saµ dhi) il verso
órv apr† ámarty† niváto devy Ωudváta"
La dea immortale ha compenetrato l’ampio spazio, gli
abissi e le sommità
va inteso
≤ urú aprå˙ ámartyå ni-váta˙ dev« ut-váta˙
Tale versione, detta p † dap†6ha, costituí la base, pur con incoe-
renze ed errori, sulla quale le diverse scuole costituirono ulterio-
ri opere, i pr † tisæ † khya, dedicate alle norme del saµ dhi, alla lun-
ghezza vocalica, agli accenti e a poche questioni grammaticali.
L’assenza di interessi semantici non è affatto segno che questi
42 Franco Crevatin

primi filologi comprendevano appieno il testo tràdito, bensí di


una specializzazione finalizzata: al lessico ed alla semantica era-
no riservati dei glossari (nigha>6u), a mio parere scritti e destinati
alla formazione orale. In essi gruppi di parole venivano riuniti in
sezioni distinte che pretendevano di essere semanticamente coese:
di fatto il nigha>6u a noi giunto e commentato da Yaska (v. oltre)
è pieno di fraintendimenti ed errori ed è semmai un documento
di estremo interesse per quella che all’epoca della redazione era
l’interpretazione, molto impoverita nella reale comprensione ma
per contro molto ideologica, del testo vedico.
Il Nighaˆ†u è stato commentato da Yaska, un grammatico che
usualmente – ma la cronologia letteraria indiana antica è piú
questione di gusti personali e di buon senso che prodotto di
fatti inequivoci – si data al 500 a.C.: il titolo della sua prezio-
sa opera è Nirukta, ossia «spiegazione». In essa egli prepone
all’etimologia (nirvacanam «esposizione, spiegazione») alcune
posizioni di principio argomentate, ossia l’etimologia è una
scienza a se stante, pur essendo parte dello studio grammati-
cale: ha una funzione pratica, essendo lo strumento piú affi-
dabile per ricostruire un’affidabile versione p†dap†6ha del te-
sto vedico, ed una funzione ermeneutica, consentendo una
reale comprensione degli inni sacri ormai semanticamente opachi
e dunque portando all’individuazione sicura delle singole divinità
onorate negli inni e non citate per nome. Di per se stesse tali
posizioni potrebbero apparire poco appariscenti, ma se si
guardano alla luce del riconoscimento da parte dell’autore
del concetto di ‘radice’ (per lo piú verbale, ma non solo) dalla
quale far discendere famiglie di parole, allora esse acquistano
spessore e solidità ignote, per fare un esempio, alla cultura
linguistica greca anteriore all’età imperiale romana. Natural-
mente Yaska commette errori e spesso pone sullo stesso piano
ipotesi credibili ed ipotesi che noi sappiamo essere errate, ma
dobbiamo riconoscere che il Nostro era spesso profondamente
condizionato nelle sue scelte dalla cultura religiosa della sua
epoca, la quale, ormai distante da quella che aveva prodotto
gli inni, non comprendeva piú allusioni ai desueti sistemi mitici
e cosmologici. Un solo esempio basterà a far capire la situa-
zione. Nella cultura vedica piú antica il dio Indra aveva dato
inizio alla storia ed alla vita del mondo, pur senza esserne il
L’etimologia come processo di indagine culturale 43

demiurgo, compiendo due imprese cosmogoniche, da un lato


uccidendo il dragone V¤tra che teneva imprigionate le acque
all’interno della rocciosa montagna cosmica, intesa come axis
mundi, e dall’altro spezzando con la sua possente arma (il
cuneo del fulmine, vajra") le acque, le vacche e le aurore (spesso
definite esse stesse «vacche») imprigionate nel recinto roccio-
so, vala", della montagna; è verosimile che i due miti siano in
realtà due aspetti del medesimo pensiero religioso: Indra ha
liberato con la sua forza immensa i beni che rendono possibi-
le la vita e che erano racchiusi al centro del mondo non an-
cora costituitosi come storia, come quella realtà che conoscia-
mo. Già il Nighaˆ†u nell’enumerare i sinonimi vedici per il
concetto di nuvola mostra che gli antichi miti erano stati per
cosí dire evemerizzati: la montagna cosmica, la roccia o il
nascosto recinto delle vacche non sono piú intesi come tali,
bensí come immagini della nube; Indra con il suo fulmine
avrebbe appunto squarciato le nubi, fatto scendere la pioggia
ed alla fine avrebbe fatto risplendere il sole. Quando dunque
Yaska commenta la sezione in questione del Nighaˆ†u (2, 17) e
si trova davanti al termine ahi", da una parte non può ignorare
il comune significato del termine, ossia «serpente» (ed in for-
ma di dragone era pensato V¤tra, il potere di Resistenza che
tratteneva le Acque), ma dall’altra deve accogliere il senso
ermeneutico di nuvola, per cui ne consegue che Yaska propone
due etimi diversi, il primo secondo la radice hi- muoversi (per-
ché la nube si muove nell’atmosfera) e l’altro secondo la radice
han- attaccare, perché il serpente attacca16 . E altrettanto Yaska
fa con il nome del dragone V¤tra˙, che, come abbiamo detto, è
personificazione della resistenza (vptram) che si oppone alla
libera fuoriuscita delle acque, e che Yaska deriva ragionevol-
mente dalla radice che vale «coprire» posta in alternativa tut-
tavia alle radici per indicare la crescita e l’arrotolarsi.
Yaska non era il primo ad occuparsi di etimologia, tant’è che
spesso cita autorità precedenti. Tra questi vale la pena di
ricordare almeno Kautsa, del quale purtroppo sappiamo molto
poco. Doveva trattarsi di un ingegno brillante, che negava
autorevolezza al Veda (o piuttosto all’ermeneutica dell’epoca
sua?) e che rilevava nel dettato degli inni contraddizioni,

16
L’etimo reale del vedico ahi" «serpente» è lo stesso del latino anguis, dell’antico
prussiano angis e di altre voci indoeuropee.
44 Franco Crevatin

storture tali da fargli ammettere che il Veda “non aveva sen-


so”.
Accanto ad eccellenti intuizioni dovute al fermo riconosci-
mento di una “radice” e di una (peraltro non altrettanto siste-
matica) visione morfologica, dunque, Yaska persegue un’arte
etimologica spesso migliore o quanto meno non dissimile a
quella che sarà l’etimologia greca stoica e ciò senza compro-
mettersi con ragionamenti filosofici sull’«essenza» dei nomi
dati alle cose.
Come si vede, è naturale che i tardi rapsodi greci siano stati
i primi esegeti e filologi della dizione epica, e Socrate li sferza
sarcasticamente per la loro pretesa esegesi etimologica dei nomi
propri. Ma dopo aver sondato i nomi propri, Socrate propone
una serie di etimi di parole comuni, per la maggior parte delle
quali propone una motivazione. Ad esempio frov n hsi", la capa-
cità di riflettere saggiamente, è detta cosí perché è la percezione
intellettuale (nov h si") o il beneficio (o[ n hsi") del movimento (fora~ " )
e dello scorrere (rJ o u~ ) . In questo processo l’etimologia è ricerca
della motivazione sostanziale, cosí come per Ecateo di Mileto (v.
sopra) poteva essere strumento per il recupero di conoscenze storiche.
Su chi ironizzi Socrate quando produce queste ispirate etimolo-
gie è difficile dire: nel Kratylos si ricorda esplicitamente che il
sofista Prodico teneva costosi corsi su questo argomento (384 B),
ma è molto probabile che altri sofisti facessero altrettanto: chi
come Protagora e Prodico era interessato alla corretta scelta delle
parole (oj r qoepiv a ) o all’origine del linguaggio (come lo stesso
Protagora) poteva facilmente passare, anche occasionalmente, al-
l’etimologia. E, a ben vedere, l’intera discussione socratica nel
Kratylos sottintende il discorso sulle origini perché l’etimologia
secondo natura (fuv s ei) parte appunto dall’idea che chi ha dato
il nome avesse ben chiara la motivazione essenziale che si con-
faceva al referente. Tuttavia – e qui finalmente Socrate compie la
piroetta decisiva – chi e cosa ci garantisce che il nomoqev t h" sa-
pesse davvero bene quel che faceva? E dopo una serie di stringa-
ti ragionamenti si conclude che sarebbe insensato affidarsi alla
guida etimologica delle parole per capire il mondo.
L’etimologia come processo di indagine culturale 45

Il grande allievo di Platone, Aristotele, fu ancor piú deciso e


sposò appieno la tesi di Ermogene, pur senza trascurare affatto
la ricerca glossografica relativa all’epos (Poet. 1459 A 9); in parte
almeno era inevitabile, perché la corrente che unisce Socrate a
Platone ed ad Aristotele in definitiva ammette francamente che
gli strumenti per affrontare lo studio della lingua erano insuffi-
cienti: la loro creazione fu opera congiunta di una nuova corren-
te filosofica, lo stoicismo, e della costituzione della filologia nel
regno tolemaico d’Egitto.
Tolomeo I, ottenuta la sovranità del paese, si ripropose di fare
di Alessandria una delle piú avanzate città greche del Mediterra-
neo sia da un punto di vista economico che culturale. La fonda-
zione della Biblioteca ed il suo progressivo arricchimento, talvol-
ta portato avanti con mezzi che assomigliavano preoccupantemente
alla pirateria, era uno dei pilastri di tale politica: raccogliere in
un solo punto tutti i testi della cultura, non solo letteraria, greca,
renderli accessibili allo studio ed alla comparazione, trasformarli
in basi per sempre nuove imprese di approfondimento scientifico
e culturale. Ma avere i testi non era in se stesso bastevole: le
copie della singola opera potevano differire nella loro qualità
testuale, potevano esser interpolate o corrotte, disseminate di errori
anche banali di scrittura, per cui bisognava operare un confronto
accurato tra le copie possedute e sforzarsi di sanare il testo, ri-
portandolo cosí il piú vicino possibile all’originale scritto dal-
l’autore. Parecchi filologi, talora essi stessi poeti, si successero
alla guida della Biblioteca e del Museo, Filita, Zenodoto, Callimaco,
Apollonio, Eratostene, per giungere al grande Aristofane di Bisanzio
(II sec. a.C.) ed i risultati, invero altissimi, non mancarono. I
poemi omerici furono i testi studiati per primi e piú frequente-
mente e di conseguenza vennero prodotti molti lavori lessicogra-
fici che raccoglievano il sapere sulle voci rare e desuete dell’epos;
contemporaneamente era però necessario approfondire lo studio
della lingua greca e dei suoi dialetti letterari, approntare cioè
strumenti generali di analisi per descrivere i fatti linguistici a
prescindere dai valori letterari.
46 Franco Crevatin

Se Alessandria ha fatto nascere la filologia intesa in senso mo-


derno e quel tanto di linguistica che era ad essa funzionale, furono
gli Stoici a dedicare molti loro sforzi intellettuali alla linguistica in
quanto tale. Delle loro opere in definitiva conosciamo poco e per di
piú esse ci sono note per tradizione indiretta. Possiamo qui pre-
scindere dai loro importanti progressi nella descrizione grammati-
cale, non senza peraltro rilevare che ad essi si deve l’impostazione
di quella che fu la grammatica nel periodo ellenistico e romano, e
concentrarci invece sulla loro ricerca etimologica. Per gli Stoici il
rapporto tra parola e cosa era un rapporto di natura e come tale
andava indagato per raggiungere la vera essenza ed il reale signi-
ficato di una parola. Tutto sommato, la migliore illustrazione del
loro metodo sono i libri sopravvissuti sino a noi dell’opera De Lin-
gua Latina di Marco Terenzio Varrone. Varrone era un uomo poli-
tico ed uno studioso: nato nel 116 a.C. a Rieti, in territorio sabino,
si schierò nella guerra civile dalla parte di Pompeo, ma ottenne in
sèguito il perdono da Cesare e fu fatto bibliotecario della grande
raccolta libraria che il Dittatore stava promovendo. Proscritto da
Antonio, fu riabilitato da Ottaviano e passò il resto della sua vita
scrivendo in tutta tranquillità, morendo nel 27 a.C. Uomo di grandi
letture e notevole erudito, scrisse di antichità romane religiose e
profane, essendo stato allievo di filosofi e grammatici di impronta
stoica. In quell’epoca il mondo degli studiosi si divideva, con varie
sfumature, tra due tendenze: da una parte, gli Stoici, che sostene-
vano l’azione fondamentale dell’anomalia nei fatti di lingua e dall’altra
gli Alessandrini, sostenitori dell’analogia. È difficile riassumere in
breve tutto quello che tali concetti implicano: potremmo dire, ap-
prossimando, che si voleva decidere se avesse maggiore incidenza
l’uso che della lingua si fa o la regola che in essa si riconosce
operante. Posta in questi termini, tuttavia, la questione sembra sin
troppo banale, poiché è chiaro – e ciò non sfuggí a moltissimi filo-
logi e filosofi – che l’anomalia presume l’analogia e viceversa, anche
se le cose si complicano quando si passi dall’esame del linguaggio
quotidiano all’analisi della lingua letteraria e si debbano prendere
decisioni filologiche (ad esempio la correzione di un testo tràdito).
L’etimologia come processo di indagine culturale 47

Ne conseguí che in molti ritennero di dover smussare le spigolosità


dell’una e dell’altra tesi cercando una ragionevole via di mezzo; ed
è quanto appunto tentò Varrone. Ma, come si diceva, le tesi
anomalistiche erano piú complesse. Il filosofo stoico Zenone aveva
posto all’interno della dialettica una distinzione fondamentale, quella
tra «significanti» (shmaiv n onta), ossia l’insieme di meri suoni che
costituiscono, poniamo, la parola ‘cane’, e «significati», quanto cioè
è ‘significato’ (shmainov m ena) da ‘cane’, e ciò senza prendere in
considerazione il cane in quanto tale che, come oggetto del mondo,
non può far parte della dialettica. I shmainov m ena non hanno alcu-
na consistenza reale, sono qualcosa che vien detto (lektov n ) e dun-
que è nella lingua che essi hanno ragion d’essere. D’altra parte,
quanto è lingua proviene dalla voce (fwnhv , nel senso sia letterale
che di espressione fonica) ed in prima istanza dal pensiero, dal
lov g o", e dunque la lingua struttura ed articola i diversi modi del
pensiero in base ad una precisa conoscenza: i nomi delle cose sono
stati imposti dagli uomini consapevolmente, guidati dal lov g o" e
dall’essenza naturale (fuv s i") dello stesso essere. Questa è la ragio-
ne che rende tanto importante l’etimologia: quest’ultima altro non
è, quando è praticata con dottrina, che riscoperta del pensiero e
dell’essenza. Ciononpertanto – e ritorniamo all’anomalia – non pa-
reva dubbio agli Stoici che la coerenza e l’originale purezza razio-
nale del linguaggio fossero spesso andate perdute nel passare delle
generazioni e che molte parole fossero ormai ambigue o non piú
trasparenti. Essi avevano notato la naturale tendenza della lingua
greca a ripartire il sesso e la capacità di azione secondo il genere
grammaticale 17 : l’uomo è di sesso e genere maschile, mentre la
donna è femminile, il cielo che attivamente feconda la terra con la
pioggia è maschile mentre la terra che passivamente viene fecon-
data è femminile, e cosí via. Eppure, notavano gli Stoici, il ragaz-
zetto, paidiv o n, pur essendo di sesso maschile era connotato dal
genere neutro.

17
Si ricordi che il greco antico aveva, come parecchie altre lingue indoeuropee,
tre generi, maschile, femminile e neutro.
48 Franco Crevatin

Gli Stoici non avevano strumenti per risolvere problemi di


questo tipo. Il fatto fondamentale è che il genere è uno stru-
mento grammaticale che può, ma non di necessità deve con
coerenza, acquistare valore semantico e dunque segnalare il
sesso. Il caso che aveva suscitato l’attenzione degli Stoici è
abbastanza diffuso: nel tedesco Kind «ragazzetto» è, come Mädchen
«ragazza», di genere neutro; il bambino in tenera età, baby,
implica in inglese una referenza pronominale neutra; nel Logbara
(Uganda), lingua peraltro nella quale non esiste un genere
grammaticale, esistono nomi per gli esseri umani che hanno
intrinseca una marca di sesso, marca assente nei nomi del
«bambino / bambina» (OŸ d E⁄ k olE⁄ ) e dell’infante (mva⁄ ) ; ecc. Esso
potrebbe effettivamente avere una ragione semantica, ossia il
ragazzo e la ragazza sessualmente immaturi sono socialmente
neutri. Anche l’opposizione maschile = attivo, forte, valido /
femminile = passivo, debole è tipologicamente nota ad esem-
pio nella lingua Maasai. In altre lingue l’opposizione di gene-
re può essere usata per opporre dimensioni diverse (maschile
= grande / femminile = piccolo) come nell’italiano donna /
donnone o nell’egiziano antico HfA «serpente» / HfA.t «verme»;
in molte lingue cuscitiche (Africa orientale) il cambiamento
di genere, con o senza suffissi particolari, contribuisce ad opporre
singolare a plurale. Come si vede, il quadro tipologico è no-
tevolmente ricco e vario.
Varrone scrisse il suo De lingua latina in 25 libri, dei quali ci
restano solo i libri 5-10, in condizioni testuali spesso infelici. L’opera
non è unitaria, per cui non si può parlare di una metodologia
etimologica “varroniana” se non a certe condizioni: allievo del
celebre grammatico L. Elio Stilone, Varrone si forza di praticare
l’etimologia da grammatico che vuole collocarsi in posizione
intermedia tra anomalisti ed analogisti. Recepisce, com’è ovvio18 ,
l’impronta stoica, ma non sembra condividere le preoccupazioni
di ricerca mirate al rapporto tra essenza, logos ed etimologia. Se
da una parte nelle sue etimologie si possono rilevare diversità di
fonti di ispirazione, dall’altra Varrone è l’erede naturale della
tradizione grammaticale romana, generosamente protesa a dare a
18
Non solo il suo maestro era stato molto esposto allo stoicismo, ma tutta la
grammatica romana antica dipende direttamente o indirettamente dalla Stoà.
L’etimologia come processo di indagine culturale 49

Roma strumenti e mezzi che permettessero di valorizzare la tra-


dizione letteraria locale. Per Varrone l’etimologia è il mezzo piú
opportuno per riscoprire e riutilizzare correttamente parole anti-
che, per ricordare ai propri concittadini la ricchezza delle tradi-
zioni avite e per incoraggiare la fierezza del parlare latino. È
quel che diceva nello stesso periodo Cicerone, sostenendo che
ormai (de nat. deorum 1, 4) era possibile fare filosofia in latino,
confrontandosi alla pari con i grandi pensatori greci: quo in gene-
re tantum profecisse videmur ut a Graecis ne verborum quidem copia
vinceremur.
Varrone, che dichiara di aver studiato alla luce sia della lan-
terna di Aristofane di Bisanzio (v. sopra) che di quella di Cleante
(allievo e successore dello stoico Zenone), chiarisce quelli che a
suo parere sono i quattro gradi di interpretazione etimologica di
una parola (5, 7-8). Il primo è quello proprio di qualunque par-
lante nativo il quale è in grado di riconoscere facilmente gli ele-
menti formativi di una parola. Il secondo è quello dei gramma-
tici che studiano la lingua dei poeti e quindi analizzano le loro
creazioni linguistiche. Il terzo è di impronta filosofica e si ripropone
di studiare l’origine “essenziale” delle parole, anche di quelle
piú comuni (tale gradus è un omaggio alla scuola stoica). Il quar-
to è quello piú complesso ed anche la formulazione di esso è
asciutta e riassuntiva: Quartus, ubi est adytum et initia regis. In
questi termini il testo sembrerebbe affermare che il quarto grado
coincide con il sacello piú sacro, non avvicinabile dai profani, e
con i misteri iniziatici del re. Ma che vorrebbe dire tutto questo?
In realtà pare che si debba emendare il testo in …aditum ad…, il
che significa che il quarto grado è quello in cui è consentito l’ac-
cesso (aditum) a quelli che furono i periodi iniziali (initia) della
storia romana piú antica, quella dei re: nella tradizione romana
si sosteneva che proprio durante il periodo dei 7 re si erano costituite
le realtà caratterizzanti di Roma ed ad esse i re avevano dato
nome. Varrone ribadisce dunque quello che per lui è il massimo
dei risultati possibili, riconoscere nella storia l’identità culturale,
e dunque anche linguistica, romana.
50 Franco Crevatin

Non è necessario soffermarsi troppo a lungo sugli etimi varroniani;


oltretutto una rassegna anche cursoria rischierebbe di essere fuor-
viante: il dover correggere i tanti etimi errati ci farebbe fatalmen-
te sottovalutare il frequente buon senso dispiegato e gli etimi
esatti proposti. Qualche esempio sarà comunque utile.
Cosí egli tratta la voce cilliba (5, 118). «Chiamavano cilliba la
tavola sulla quale si mangia; era quadrata come a tutt’oggi è
negli accampamenti militari. Cilliba viene cosí detta dal cibus («cibo»).
In sèguito fu resa rotonda e per il fatto che per noi è in mezzo
(media) e per i Greci mev s a («mediana») può essere detta mensa,
ammenoché non sia per il fatto che vi si ponevano cose, tra le
vivande, che erano misurate (mensa)». La seconda parte del ra-
gionamento presuppone il fatto fonetico della debolezza di -n-
davanti a sibilante e la frequente affricazione avanti vocale del
gruppo -dj-, per cui effettivamente le tre parole avevano una pro-
nuncia molto simile. Varrone non si accorge che il latino cilliba è
semplicemente un prestito dal greco killivba" «tavolino a tre gambe»,
il che è alquanto strano non solo perché il greco lui lo conosceva
ma altresí perché lo utilizzava come fonte etimologica di prestiti
a proposito ed a sproposito, come ad es. nelle Ant.Hum. 3.1.1
dove il nome dei Sabini viene derivato dal verbo greco sev b omai
«venerare» perché – secondo lui, Sabino di stirpe – erano una
gente molto devota. In 5, 121 però cil<l>iba, definita una tavola
rotonda per appoggiarvi i recipienti di vino, viene tratta dal greco
kulikei~ o n con significato equivalente. Ma quello che piú stupisce
in un antiquario come Varrone è che egli abbia trascurato il fatto
che la mênsa era anticamente una focaccia quadripartita offerta
agli dei, come si può desumere dal celebre episodio delle profe-
zia di Celeno nell’Eneide (3, 255 ss.) e da vari glossatori e scoliasti
(ad es. CGL 5, 222, 20).
Per contro Varrone è molto onestamente informato sull’uso
antico: citando un verso del poeta Ennio, egli precisa che la voce
perduelles vale hostes, cioè nemici, ma sa altresí che il significato
antico di quest’ultima voce era originariamente quello di peregrinum
qui suis legibus uteretur «uno straniero che si serva di leggi pro-
L’etimologia come processo di indagine culturale 51

prie», diverse cioè da quelle dei Romani: la voce è infatti etimo-


logicamente identica al tedesco Gast «ospite».
I meriti di Varrone sono dunque notevolissimi; ad essi ne ag-
giungiamo un ultimo: egli è uno degli studiosi antichi di etimo-
logia piú fermi nel considerare che la vetustas, l’antichità delle
parole non è solo un elemento che complica la ricerca – cosa
infatti si sottrae al trascorrere del tempo? –, ma, una volta in
possesso di documentazione affidabile, essa aiuta a capire la sto-
ria di una parola ed a coglierne il mutamento di significato. Varrone
fa nascere con decisione la dimensione della storia linguistica e
culturale finalizzate all’etimologia.
Circa un secolo dopo, Varrone fu duramente criticato da
Quintiliano (Instit. Horat. 1, 6, 28 ss.) e preso come paradigma
della pretesa scienza etimologica: gli etimologi, egli dice, ripor-
tano ad veritatem le parole che a loro avviso si sono mutate nel
corso del tempo e lo fanno aut adiectis aut detractis, aut permutatis
litteris syllabisve. Inde pravis ingeniis ad foedissima usque ludibria
labuntur «aggiungendo, togliendo, o cambiando suoni e sillabe:
di qui vengono spinti dalla loro fantasia malata alle piú ripu-
gnanti ridicolaggini». Possiamo capire, anche se non condivide-
re.

La ricerca del vero, dicevamo, spesso ispirata dalla convinzio-


ne della centralità della lingua stessa nell’esperienza umana: nella
nostra lingua sarebbero riposti molti dei segreti di noi stessi e
del mondo. Quintiliano non ci credeva, e noi neppure. E tuttavia
nessuno di noi dubiterebbe che nella lingua che usiamo ogni giorno
ci sono tante cicatrici prodotte dalla nostra storia culturale: è
questo ‘vero’, talora piú umile, che l’etimologia si sforza di affer-
rare. Una metodologia linguistica per studiare la cultura.
52 Franco Crevatin
L’etimologia come processo di indagine culturale 53

L’ETIMOLOGIA COME PROCESSO DI INDAGINE CULTURALE

Sin qui abbiamo visto come l’interesse per la lingua, visto


come fatto tipicamente umano, si sia sviluppato a partire dal-
l’analisi della propria tradizione linguistica e letteraria. Sarà il
Romanticismo tedesco ad aprire nuovi e sterminati orizzonti alla
linguistica ed all’etimologia: come è ben noto, tutto ebbe origine
da un opuscolo di F. von Schlegel, Über die Sprache und Weisheit
der Inder, datato al 1809. In una temperie che non guardava piú
alla classicità bensí al Medioevo come fonte di ispirazione poeti-
ca, alla cultura popolare ed all’Oriente, il libretto attirò l’atten-
zione di tutti sulle straordinarie somiglianze tra il sanscrito, l’an-
tica lingua dell’India, e le lingue europee. Schlegel era stato pre-
ceduto di parecchi secoli in questa constatazione da altri viaggia-
tori ed eruditi, ma solo l’entusiasmo romantico poteva fornire
l’humus per attenzioni e prospettive culturali che avevano il sa-
pore della assoluta novità ed il fascino del mistero. Come anda-
rono poi le cose è fatto noto, da altri illustrato meglio di quanto
potrei fare qui. In sostanza si riconobbe che esisteva una paren-
tela genetica tra un gruppo di lingue documentate dall’antichità
ai giorni nostri, per cui, cosí come si sapeva che le lingue roman-
ze derivano tutte dal latino, si suppose l’esistenza di una lingua
madre (l’Indoeuropeo), parlata da un popolo nella remota prei-
storia, dalla quale erano discese le varie lingue figlie. Si lavorò
duramente per recuperare tradizioni linguistiche perdute o estin-
te, per riscoprire leggi fonetiche che permettessero di giustificare
i mutamenti dallo stato piú antico alle fasi linguistiche piú recen-
ti e consentissero altresí di comparare tra di loro le diverse lin-
gue figlie; si volle ricostruire la cultura di quell’antichissimo insieme
di genti e la loro collocazione nello spazio; si tentò di chiarire i
rapporti che l’indoeuropeo in quanto tale intratteneva con altre
famiglie linguistiche, quella semitica, alcune famiglie caucasiche
ed altre ancora.
Per quanto oggi si tenda a dimenticarlo, la filologia indoeuropea
fondò la linguistica storica e comparata ed essa fu per lungo
54 Franco Crevatin

tempo la linguistica kat’ej x ochv n . Tutto ciò, bene o male, si fon-


dava sull’etimologia.

Il cammino che qui ci accingiamo a fare verso i grandi proble-


mi della comparazione e della ricostruzione linguistica è alquan-
to lungo e tormentato. In questo capitolo discorreremo della
percezione dell’etimo come fatto intrinsecamente culturale.
Uno specialista in genere si accorge prontamente della bontà
di una proposta etimologica: ma da cosa è data la bontà di un
etimo, una volta fatta salva la correttezza del riconoscimento
dell’evoluzione fonetica? Già, perché questo è il punto: anche
quando si sia individuato un etimo formale (ad esempio, il fatto
che il greco iJ p po", il latino equus, il sanscrito asæ v a " derivano da
una forma indoeuropea ricostruibile come *ek’wos «cavallo») non
si è per ciò stesso capito ciò che l’etimo stesso implica (come si
è detto, qual’è il ruolo di tale animale nell’economia e nella società?).
Questo vale spesso anche per derivati romanzi di parole latine,
ossia nel caso di trafile formali nelle quali il punto di partenza è
attestato e noto: potremmo limitarci a dire che l’italiano famiglia
deriva dal latino familia senza prendere in considerazione l’enor-
me evoluzione che il concetto ha subito?
Il primo elemento, dunque, che garantisce la bontà di un etimo
è la congruenza culturale con quanto sappiamo o possiamo ragio-
nevolmente presumere. Un esempio chiarirà meglio quanto intendo.
Plinio (N.H. 7, 2, 19) ci riferisce quanto segue: «Non lontano
dalla città di Roma, nel territorio dei Falisci vive un ridotto numero
di gruppi familiari di nome Hirpi. Costoro, nell’annuale sacrifi-
cio ad Apollo che ha luogo presso il monte Soratte, camminano
sopra un mucchio di legna ridotta a brace e non si bruciano;
appunto per questo motivo hanno ottenuto, sulla base di un decreto
perpetuo del senato, l’esenzione dal servizio militare e da tutti
gli altri inerenti doveri» 19 . Credo che tutti conoscano identiche,

19
La notizia è di fonte varroniana (Ant.Hum. I, cfr. Serv. A. 1, 787, 1, 5). L’etnico
è Hirpini.
L’etimologia come processo di indagine culturale 55

a noi contemporanee, esibizioni dello stesso tipo, ma, in assenza


di ulteriori elementi, l’identità non basta a supporre rapporti di
dipendenza storica: si tratta dunque di identità solo tipologica.
Poco prima (7, 2, 15) Plinio aveva parlato di varie popolazioni
(nell’Ellesponto ed in Libia) immuni dal veleno dei serpenti e
capaci di guarire chi fosse stato morso; aveva anche aggiunto che
una stirpe con lo stesso potere si trovava in Italia ed era quella
dei Marsi 20 . Anche in questo caso siamo di fronte ad una tipologia
ben diffusa, nota anche etnograficamente, ma c’è un particolare
a noi contemporaneo che richiama l’attenzione, ossia la festa dei
serpari in onore di San Domenico nel paesino di Cucullo nella
Marsica (Abruzzo). I serpari sono appunto persone di quella spe-
cifica regione che sanno trattare i serpenti velenosi, al cui morso
sarebbero immuni: credo sia abbastanza nota l’immagine della
statua del patrono sulla quale sono avvinte decine di serpi. Con-
tinuità geografica e fattuale di referenza di una tradizione
cristianizzata, ma che all’origine Cristiana non è, inducono il forte
sospetto di trovarsi di fronte ad una sopravvivenza antica.

La congruenza può essere accompagnata da qualcosa di molto


importante, ossia, sulla base di quanto sappiamo, l’etimo ci rive-
la dimensioni nuove ed inaspettate, ci apporta nuove conoscen-
ze. Come prima abbiamo detto, l’etimo ha sempre un valore fattuale.
Ci si potrebbe obbiettare che posizioni di questo tipo privile-
giano di fatto solo alcune categorie di etimi, quelle appunto che
hanno una dimensione culturale intrinseca ed evidente, tralasciando
i tanti casi – che pure fanno parte del lavoro quotidiano dell’etimologo
– nei quali la riscoperta linguistica parrebbe bastare a se stessa.
In tre lingue della Costa d’Avorio meridionale (Eotile, Mbatto,
Nzema) l’«ago» viene detto rispettivamente aŸ g bu⁄ j aŸ , aŸ g u⁄ j aŸ e aŸ g bu⁄ j aŸ
ed è facile vedere che si tratta di prestiti dal portoghese agulha:
i Portoghesi infatti sono stati i primi europei che hanno aperto
sedi mercantili su quella costa: ci sono nelle lingue locali altri

20
È lecito sospettare che anche in questo caso la fonte sia Varrone.
56 Franco Crevatin

prestiti dalla medesima lingua (ad es. Bawlé kpau) «pane» 21 ). L’ago
è il prodotto di una tecnica metallurgica avanzata e ricordiamo
che anche nella lingua dei Tuaregh il nome dell’ago (per tappeti)
è un prestito, in questo caso dal latino, ta-sugla, ta-subla22 < s ûbü la.
Ma che ci sarebbe di culturale nel fatto che l’italiano sasso deriva
dal latino saxum?
L’obbiezione sarebbe mal posta, poiché se è vero che ogni
problema può essere tecnicamente affrontato per se stesso, è al-
trettanto vero che non esiste parola che nel lessico non sia parte
di classificazioni o di campi lessico-semantici per definizione culturali:
essa è isolabile solo per fini operatori (nostri!) contingenti. Per
tornare all’esempio ora citato, il latino saxum indica un macigno,
una rupe, e dunque va visto nei suoi rapporti con petra e lapis e
dunque ha una collocazione lessicale diversa da quella che il
derivato ha in italiano. Ora mostreremo che quando si dice che
l’italiano ‘rosso’ deriva dal latino r üssus si racconta solo una parte
di una storia complessa.

Tutti gli esseri umani hanno un’identica percezione del colore,


ma hanno una diversa cognizione del colore stesso: le culture
delimitano in maniera diversa lo spettro della luce e applicano
quindi etichette linguistiche che possono sembrare, ma non sono,
uguali o simili. Il ‘bianco’ ed il ‘nero’ latini, ad esempio, erano
diversi dai nostri: per i Romani infatti un fattore distintivo era la
luminosità per cui si distingueva il bianco luminoso (candidus)
da quello non luminoso (albus), il nero che riflette la luce (niger)
da quello che non la riflette (ater). Viridis era sí il color verde,
quello della vegetazione fresca, ma ricopriva anche una fascia
del giallo pallido – come del resto il greco clorov " . Sulle varie
sfumature del rosso ci informa una pagina di Aulo Gellio (Noctes
Att. 2, 26) che conviene citare nella sua interezza.

21
Il pane non esiste nell’alimentazione tradizionale dell’area.
22
Ta- è il formante del femminile.
L’etimologia come processo di indagine culturale 57

«Ci sono piú distinzioni nel senso della vista che distinzioni
di parole o termini. In effetti, pur lasciando da parte le altre
incoerenze, questi semplici colori del rosso (rufus) e del verde
(viridis) hanno appunto queste semplici denominazioni, ma
sono (essi stessi) di molte specie differenti. E tale povertà lessicale
la trovo piuttosto nella lingua latina che in quella greca. Poi-
ché il color ‘rosso’ (rufus) viene cosí detto dal suo esser rosso
(a rubore), tuttavia altro è il modo di esser rosso (rubere) del
fuoco, altro quello del sangue o della porpora, del fiore del
croco, dell’oro, e la lingua latina non identifica con singoli
vocaboli appropriati queste specifiche varietà di rosso, bensí
le definisce con l’unica designazione di ‘rossezza’ (rubor), tranne
nei casi in cui mutua i termini di colore dalle stesse cose designate
e dice che qualcosa è igneus (proprio del fuoco), flammeus (proprio
della fiamma), sanguigno, del colore del croco, purpureo ed
aureo. I termini per indicare il rosso, russus e ruber, sono derivati
da rufus 23 e non precisano tutte le proprietà ad esso pertinen-
ti.; invece xanqov " (giallo carico, biondo), ej r uqrov " (rosso), purrov "
(rosso fuoco 24 ), kirrov " (arancio, color cuoio), foi~ n ix paiono
comprendere alcune distinzioni nel color rosso, rendendolo
piú o meno intenso o segnalandone la sua mistura (con altre
tonalità). Allora Frontone rispose a Favorino 25 : “Non nego che
la lingua greca, che mi pare tu abbia scelto, sia piú ricca e
dettagliata della nostra, tuttavia nel denominare i colori che
hai ora citato non siamo tanto poveri come a te sembriamo.
Per indicare il color rosso (rufus) non ci sono solo le parole da
te ricordate, russus e ruber, ma ne abbiamo altre e piú nume-
rose di quelle greche da te dette. E infatti fulvus, flavus, rubidus,
poeniceus, rutilus, luteus, spadix sono designazioni del color
rosso e che lo rendono o piú vivo, quasi incendiandolo, o lo
scuriscono mescolandolo col verde o col nero, o lo rendono
luminoso con una aggiunta di bianco splendente. Infatti poeniceus
è la nostra designazione per il foiv n ika che hai detto in greco

23
Effettivamente ruber e rufus sono corradicali, ma non russus.
24
Tale è l’opinione corrente dei moderni, ma si potrebbe legittimamente dubitare
sia del tratto semantico della luminosità (< pu~ r «fuoco», come vorrebbe la vulgata
etimologica), poiché la voce è presente come prestito popolare nel latino, burrus,
dove pare aver avuto il significato di rufus (P.-Festo 28, 9), ma la forma col-
laterale birrus come nome di mantello pare indicare un color bruno (cfr. anche
ital. birro e il tipo *bûrius dal quale viene l’ital. buio).
25
Il filosofo che ha appena parlato.
58 Franco Crevatin

e rutilus e spadix (sinonimo di poeniceus che abbiamo preso


dal greco) indicano la ricchezza26 e la luminosità del rossore
quali sono i frutti della palma non ancora fatti maturare dal
sole, dal quale fatto prendono il nome di spadix e di poeniceus:
nel dialetto dorico si dice spav d ika un ramo di palma levato
dall’albero assieme al suo frutto. Fulvus sembra essere invece
una mistura di rosso e di verde, in alcuni casi con piú verde
in altri con piú rosso. E cosí il poeta (i.e. Virgilio) che è stato
il piú attento nella scelta delle parole ha detto fulva dell’aqui-
la, del diaspro, ha detto fulvi i berretti di pelo, l’oro, la sabbia
ed il leone, cosí come Ennio negli Annales aveva detto fulva
l’aria. Per contro flavus sembra essere composto da rosso, verde
e bianco 27 ; cosí “le chiome bionde” (flaventes) e, cosa che vedo
stupire taluno, flavae vengono dette da Virgilio le fronde del-
l’olivo, cosí come molto tempo prima Pacuvio aveva detto
flava l’acqua e fulva la polvere. Voglio ricordare i suoi versi
perché sono piacevolissimi
Porgimi il piede, affinché con flavae acque la polvere fulva
io lavi via con queste mani,
con le quali spesso ho massaggiato Ulisse,
perché con la morbidezza delle mani
diminuisca la stanchezza (tua).
Rubidus inoltre è un rosso (rufus) piú scuro (e non luminoso,
ater) e scurito da una maggiore nerezza; luteus per contro è un
rosso (rufus) meno saturo (dilutior) e pare proprio che prenda
il suo nome dal suo esser diluito.”
Come si vede, anche preso atto che la discussione è in parte
falsata dalla disuguaglianza del registro linguistico esaminato, è
evidente che nella terminologia latina il tratto della luminosità
era distintivo e che dunque l’intera strutturazione del campo
semantico era diversa dalla nostra.
Probabilmente il carattere culturale della ricerca etimologica
si rivela con immediatezza quando l’etimo raggiungibile è un
prestito, sia esso un prestito di necessità (la nuova parola nella
lingua ricevente identifica una realtà prima ignota) o si riveli
legato a modelli (e mode) sociali.

26
Exuberantia; probabilmente indica qui i diversi gradi di saturazione cromatica.
27
Evidentemente ci si riferisce alla luminosità.
L’etimologia come processo di indagine culturale 59

Nelle iscrizioni egiziane della XXII dinastia compare un titolo


proprio delle comunità libiche residenti in Egitto, ms, il quale
palesemente identifica un capo, verosimilmente militare. La pa-
rola è certamente berbera, perché ricompare in molte varietà nella
forma mass «capo» (tuaregh mess «padrone»), ed è il segno della
reiterata pressione libica sull’Egitto occidentale. Ma se nella val-
le del Nilo le genti berbere trovavano uno stato organizzato pronto
a bloccarli (e che peraltro non sempre riuscí a farlo), in altre
regioni dell’Africa settentrionale le genti berbere riuscirono ad
espandersi grazie al controllo delle vie carovaniere. In età
protostorica li troviamo insediati nella Nubia settentrionale, dove
hanno lasciato inequivocabili tracce della loro lingua, e sin
dall’epoca preromana le vie trans-sahariane erano saldamente
nelle loro mani: su di esse viaggiava verso sud il prezioso sale
ed i prodotti delle culture mediterranee in cambio di oro. Non
stupisce dunque ritrovare nelle lingue mande dell’Africa occi-
dentale la parola mãsa(-ke) nel senso di «re», che ci mostra che
i punti d’arrivo carovanieri (Timbuctu tra questi) irradiavano
non solo ricchezza ma anche modelli politici e culturali. Anche
nello yulu, lingua del Sudan meridionale, è attestata la voce
mass «capo, re» che, se non si tratta di una coincidenza, potreb-
be essere un relitto dovuto alle vie carovaniere sahariane tra-
sversali verso il Dar Fur e la Nubia.

Come si è detto, i Portoghesi furono i primi europei ad aprire


scali commerciali nella parte settentrionale del golfo di Guinea,
seguiti in un secondo tempo dagli Inglesi e poi dai Francesi:
oltre ai prestiti ricordati (ed avremmo potuto ricordare anche dei
toponimi, ad es. Sassandra [Costa d’Avorio) < S. Andrea) ne cito
due che mi sembrano molto significativi. Nella lingua bawlé il
piccolo gruzzolo d’oro che si passa in eredità e che di norma non
viene toccato si dice d¸Ÿ n aŸ u ⁄ : esso viene comunemente interpretato
dai parlanti come un monito «lo usi ed allora muori», che
corrisponderebbe ad un aŸ d¸⁄ na) ⁄ a¤ wu⁄ , una bella reinterpretazione
di una voce del tipo dineru o sim. Inglese è invece l’origine del
60 Franco Crevatin

bawlé pO⁄ n uŸ , nome dell’elemento base del valore, a base quinaria,


del computo tradizionale del denaro, < pound.
Non occorre insistere oltre: senza scambio culturale non pos-
sono esistere prestiti.
Ma ritorniamo alla culturalità del recupero etimologico ed alle
obbiezioni che esso potrebbe suscitare. L’esempio sopra ricorda-
to circa la terminologia del colore in latino parte da un’accezione
larga dell’immediatezza della rilevanza culturale: la lingua è per
definizione attributo ed istituzione culturale. Tuttavia, sarebbe
esagerato voler mettere sullo stesso piano i problemi che pone
l’interpretazione di referenti naturali – la geomorfologia, ad esempio,
o la partonimia del corpo umano – e quella relativa a prodotti
della cultura materiale o spirituale. Insomma, possiamo ammet-
tere che di massima i problemi sono diversi se si affronta l’etimo
di una parola che ha come referente ‘montagna’ o quello di ‘a-
nima’ o ‘principe’.
Sia pure, dunque. Ma la distinzione tra referente naturale e
prodotto culturale è tutt’altro che semplice ed ovvia: se fosse
tale, si dovrebbe ammettere che la “naturalezza” esista come fatto
oggettivo, sempre uguale a se stesso, da tutti e sempre percepita
e (ri)conosciuta. Le cose però non stanno davvero cosí. Esistono
tendenze universali e tratti che paiono essere veri e propri primordial
characters che la cultura e la singola lingua possono rispettare
come trasgredire; per quanto oggi sappiamo, il modo in cui le
lingue e le culture organizzano i dati naturali non è facilmente
prevedibile e ciò che è davvero prevedibile (che so, nessuna lin-
gua distingue con etichette lessicali diverse l’occhio destro da
quello sinistro) non ci è utile. Un esempio chiarirà meglio la questione.
Le dita della mano sono distinte da caratteristiche intrinseche:
il pollice è il dito piú grosso, il mignolo quello piú piccolo, il
medio quello piú lungo, l’indice quello piú usato per toccare,
grattare, esperire, mostrare. In questa classificazione elementare,
il dito anulare è fuori sistema, per cui in parecchie lingue non ha
un’etichettatura linguistica: curiosamente (ma coerentemente!) nel
bawlé il suo nome è be-si-a-dumã «non se ne sa il nome». Noi
L’etimologia come processo di indagine culturale 61

invece, per tradizione dotta latina fatta propria anche dalla Chie-
sa, lo chiamiamo «dito dell’anello» (anularis). Il perché ci viene
spiegato da Aulo Gellio (Noct. Att. 10, 10): gli Egiziani avevano
scoperto anatomicamente che un nervo sottilissimo collegava tale
dito al cuore, per cui era piú che sensato collocarvi un anello
(propterea non inscitum uisum esse eum potissimum digitum tali honore
decorandum, qui continens et quasi conexus esse cum principatu cordis
uideretur.), fosse esso simbolo di posizione sociale o di fatto reli-
gioso – e si pensi alla fede matrimoniale. Effettivamente la noti-
zia, che Gellio ricava dallo scrittore egiziano Apione, è di buona
qualità, anche se anatomicamente assurda: gli Egiziani antichi
credevano in effetti che ciascuna delle dita della mano fosse col-
legata ad una viscera diversa.
Insomma, non si può a priori decidere quanto sia ‘naturale’ e
quanto, pur non essendo un artefatto materiale o spirituale uma-
no, sia culturalmente determinato. Credo che la conclusione non
possa stupire: qualunque designazione può essere determinata
non dalle caratteristiche fisiche del referente naturale bensí da
fatti culturali, cosa questa molto comune nei nomi di piante. Nei
dialetti sloveni è diffusa la designazione netrêsk per il Semper-
vivum tectorum, una crassulacea simile al carciofo. L’etimo è tra-
sparente, ossia la pianta che protegge dal colpo del fulmine (trêsk)
e la designazione è dovuta alla tradizione molto diffusa nell’Eu-
ropa medievale che la pianta proteggesse, appunto, dal fulmine:
Carlo Magno nel suo Capitulare de villis aveva prescritto che essa
dovesse essere largamente piantata nei villaggi per le sue capa-
cità protettive. E, a dire il vero, l’origine ultima della credenza
va cercata nel mondo romano, dove la pianta veniva detta, ap-
punto per questo motivo, oculus Jovis (nell’alto Medioevo compa-
re il tipo barba Jovis) ed era creduta efficace anche per allontanare
dalle case, sul tetto delle quali veniva piantata, il male derivato
dall’odio: era pianta, insomma, che proteggeva e che induceva
all’amore (Ps.-Apul. CXXIV e Diosc. IV, 88).
Ulteriori esempi ci sono forniti dalle etichettature delle tassonomie
animali. Il nome della tartaruga in diverse parlate romanze pre-
62 Franco Crevatin

suppone un tartar û ca, derivato dal greco Tartarou~ c o" «inferna-


le». Non vi è nulla nella tradizione culturale greca e latina in
senso proprio che giustifichi tale infamante designazione né la
parola è nota in questo significato nelle fonti a nostra disposizio-
ne. La tartaruga ha evidentemente assunto tale (dis)valore cultu-
rale nella lingua e nella pratica della magia e dell’esorcismo, quando
nei primi secoli dopo Cristo in quel particolare sapere specialisti-
co greco confluirono correnti culturali vicino orientali: nella cul-
tura religiosa egiziana, che tanto ha contribuito alla magia greco
romana, la tartaruga è uno dei simboli delle forze delle tenebre
e del male contro le quali combatte il dio del Sole («Che viva Ra
e muoia la tartaruga!» recita apoditticamente il Libro dei Morti al
capitolo 161). In questa prospettiva è significativo che nei musaici
cristiani aquileiesi di età teodosiana compaiano due scene di lotta
tra il gallo, simbolo della luce e del risveglio alla fede, e la tar-
taruga, soprattutto se si tiene conto della tradizione che lega la
fondazione della chiesa aquileiese ad Alessandria d’Egitto.

L’impronta culturale può dunque essere determinante in ogni


settore del lessico per una ragione profonda: l’Uomo non è sem-
plicemente un animale sociale, condizionato neuro-fisiologicamente
a vivere in società ed a produrre comunicazione sociale, bensí
programmato nell’evoluzione a creare cultura socialmente distri-
buita via comunicazione orale. Molti mammiferi sono ‘animali
sociali’, ma non per questo producono cultura ed alcuni mammi-
feri superiori possono produrre limitate varietà culturali senza
però comunicazione orale. Insomma, l’uso linguistico in quanto
tale è presupposto dalla continua creazione, innovazione,
risistrutturazione culturale. Nella Storia, come è ovvio che sia, il
processo non parte mai dal livello zero, per cui l’innovazione o
l’adattamento possono essere espressi con segni linguistici che di
fatto erano adeguati alla situazione precedente (io scrivo con la
penna, che però non è la «penna (d’oca)»), per cui tra passato –
linguistico e culturale – e presente, tra tradizione ed innovazione,
c’è una costante dialettica: l’equilibrio raggiunto è sempre preca-
L’etimologia come processo di indagine culturale 63

rio, è l’equilibrio di chi cammina e non di chi sta fermo, perché


l’innovazione non può superare la soglia che renderebbe disage-
vole la comunicazione sociale e la conservazione non può occul-
tare il cambiamento pena l’ambiguità.
Dobbiamo fare alcune altre osservazioni. La prima riguarda
l’etimologia come aspetto specifico della storia globale di una
lingua: il recupero di un etimo coincide con il recupero, il piú
possibile su base documentaria e / o fondandosi su regole (fone-
tica e morfologia storica), dell’ultimo stadio evolutivo nel quale
la parola è analizzabile. Ciò significa che l’analisi riguarda sia la
storia della lingua data che la storia della stessa in quanto parte
di una famiglia linguistica; e non si tratta di mere ovvietà. Ri-
salire nel tempo con forme analizzabili significa ammettere che
oltre l’analisi non esiste semplicemente l’incertezza, bensí
l’incommensurabilità. Il che non implica a priori la falsità dell’etimo,
ma solo, nel caso migliore, la nostra incapacità di coglierlo in
tutte le sue dimensioni significative. Un esempio, tra i tanti pos-
sibili: molte forme dialettali italiane settentrionali (prevalente-
mente piemontesi e lombarde) ci portano a ricostruire un *toma
«(tipo di) formaggio». È facile prendere atto che non si tratta di
voce latina né di voce del superstrato germanico, per cui dobbia-
mo concludere che si tratta di una voce appartenente al vocabo-
lario dell’economia alpina preromana. Di fatto essa è sopravvis-
suta perché è stata recepita dalle parlate latine provinciali del-
l’Italia settentrionale, altrimenti mai sarebbe giunta sino a noi,
ma una volta ammesse origine e trafila siamo impotenti ad anda-
re oltre. Discuteremo oltre i problemi posti dalle voci definibili
di «sostrato», per ora basti rilevare che la situazione di impoten-
za dovuta a carenza documentaria – linguistica e culturale – è
molto piú frequente di quanto non vorremmo. D’altronde si trat-
ta di una situazione comprensibile, perché molti dei documenti
essenziali dei quali facciamo uso ci sono stati selezionati dal caso:
gli insetti non hanno mangiato quel papiro, quel documento d’ar-
chivio non è andato disperso, quell’epigrafe non è stata riutilizzata
come blocco da costruzione, e cosí via. Ed anche nella storia
64 Franco Crevatin

documentaria comparativamente piú ricca ci sono dolorose la-


cune.
Sto sostenendo, come conseguenza a mio parere inevitabile,
che il nostro sapere culturale (ovvero il nostro non sapere) con-
dizionano la nostra pratica etimologica ed i risultati ai quali ten-
diamo. In àmbito veneto ed istriano è documentato il nome zenso
«persona omonima», evidentemente da un *gentius, forma non
attestata, ma possibile e corretta, che deriva da gens. Nel latino
repubblicano gens aveva due significati, quello di ‘clan’, ossia
gruppo di persone che si supponevano discendenti da un unico
antenato, talora mitico, ma che non erano in grado di ricostruire
rapporti di parentela al loro interno, e quello di ‘gruppo umano,
popolo’. Questo secondo significato si è continuato durante tutta
la latinità, pur se con la concorrenza di populus. Il riferimento al
clan era fondamentale nel sistema romano classico del nome di
persona: il sistema prevedeva l’uso del prenome, che era antica-
mente il nome individuale, del gentilizio (nome condiviso da tutti
gli appartenenti ad una gens), la filiazione (citazione del prenome
del padre), l’appartenenza ad una tribus, ed il cognomen, ossia
quello che potremmo definire il soprannome dell’individuo. Un
esempio: Lucius + Furius + Luci filius + Oufentin â trib û + Crassipes.
Tale sistema cominciò ad entrare in crisi già durante il primo
impero ed a livello popolare era ampiamente dissolto nel IV sec.
Ne consegue che *gentius è di formazione anteriore a questa data.
La ricchezza e la specificità dell’etimo deriva dal sapere epigrafico
ed istituzionale già acquisito e nel quale esso si colloca.
Certo, la storia non si fa con i ‘se’, e non possiamo fingere, per
amor d’argomentazione, di immaginare quella che sarebbe stata la
nostra ricostruzione se non avessimo avuta piena consapevolezza
del sistema onomastico romano: mi basti dire che il nostro sapere
non è frequentemente di questo livello e che piú povero esso è,
tanto piú povero di articolazioni sarà l’etimo che proporremo.

Guardando indietro, possiamo dire che sono stati fissati alcu-


ni fatti molto importanti – la fattualità dell’etimo, la sua intrin-
L’etimologia come processo di indagine culturale 65

seca dimensione culturale, la sua correlazione a saperi extra-lin-


guistici. Le difficoltà presentate dall’etimologia, oltre a quelle
specificamente linguistiche, sono quelle presenti in qualsiasi ri-
cerca di carattere storico – problemi di fonti, di commensurabilità
dell’ipotesi emessa, di economia interpretativa. Possiamo conclu-
dere con un’ultima esemplificazione.
In qualche singola località istriana (Buie d’Istria) l’agionimo
(Eu)fèmia si presenta nella forma Fomía, con un accento sorpren-
dente. Da un punto di vista strettamente linguistico si può dire
che tale accento non è giustificato dall’evoluzione neolatina, men-
tre è perfettamente accettabile se supponiamo che esso, beninteso
assieme al nome, sia un prestito dal greco bizantino. In sede sto-
rica siamo confortati dal fatto che l’Istria, da prima della caduta
dell’Impero romano d’Occidente sino almeno all’VIII secolo, è sta-
ta politicamente e militarmente dipendente da Bisanzio, anche se
talora la dipendenza era poco piú che nominale. Diventa dunque
legittimo chiedersi se nei dialetti istriani siano reperibili altri
bizantinismi; nonostante le ovvie difficoltà della questione28 , esi-
ste qualche voce sospettabile di tale origine. Vediamole. Nel dia-
letto di Cittanova del XV secolo esisteva il tipo dòmanda «settima-
na» = greco eJ b dov m ada (accusativo), ma bisogna riconoscere che la
voce greca, nella forma hébdómáda, era entrata in alcune varietà
del latino parlato (REW 4090) ed è documentabile anche in aree
italiane che mai hanno visto una presenza greca. Ben piú affidabi-
le è la voce marasa (Dignano) «finocchio» < mav r aqon, poiché il tipo
è completamente isolato dal punto di vista neolatino: il trattamen-
to della -th- greca è quello che ci aspetteremmo (si veda ad esem-
pio gnav q o" «guancia» = veneto ganàsa). Nulla però ci garantisce –
anche se la cosa pare francamente improbabile – che non si tratti
di un prestito tardo antico. Lo stesso si potrebbe dire, pur con lo
stesso sforzo, per la parola gombro «corbezzolo» attestata a Dignano,

28
La presenza bizantina è stata di qualche importanza soprattutto durante l’epo-
ca del confronto con i Longobardi, dunque un periodo temporale piuttosto ri-
stretto perché il greco abbia potuto esercitare davvero la superiorità del modello
culturale tramite esso irradiato.
66 Franco Crevatin

anch’essa completamente isolata nel lessico neolatino e la cui ori-


gine va ravvisata nel greco kov m aÿ r o" id. (> com(b)ro). Siamo dun-
que costretti all’afasia, nonostante si debba prendere atto sia della
ragionevolezza delle ipotesi linguistiche sia – aggiungo – del fatto
che la localizzazione delle due voci piú significative è Dignano,
paesetto a 9 chilometri da Pola, porto e base militare del generale
bizantino Belisario?
Ebbene no: ci soccorre infatti una pia tradizione. Santa Eufemia
è la patrona di Rovigno e la leggenda vuole che il sarcofago con
le sue spoglie mortali sia stato spinto miracolosamente a riva
proprio a Rovigno, dove venne trovato, fu edificato un luogo di
culto e la martire fu eletta a Patrona. Dietro la tradizione è leg-
gibile in controluce un fatto indiscutibile, ossia che il culto di
Santa Eufemia è stato importato in Istria. Riscopriamo cosí la ratio
del prestito del nome e del suo accento ed ogni residuo dubbio
può cadere anche circa la grecità delle due voci dignanesi.
L’etimologia come processo di indagine culturale 67

I PERICOLI DEL PASSATO

In questo capitolo sosterrò una tesi che nulla ha di parados-


sale e che anzi, a ben vedere, molti giudicherebbero ovvia: il
‘passato’ è quel luogo dove si facevano altre cose ed anche quelle
che sembrano (e non è detto che lo siano davvero) simili alle
nostre si facevano in modo diverso. Tenterò inoltre di mostrare
che nelle nostre escursioni nel passato si rischia spesso di dare
per implicito molto che invece va, se possibile, dimostrato, dalle
classificazioni alla continuità, linguistica o culturale che sia.
Uno dei piú comuni errori di ingenuità è guardare alle culture
diverse dalla nostra con gli occhiali fornitici dalle nostre tradi-
zioni ed abitudini, come l’astigmatico guarda – e ci si trova bene
– con una lente cilindrica. Davanti a parole che sono in rapporto
di continuità storica e che hanno significati a tutta prima simili
– o meglio, la cui parafrasi è simile – possiamo esser portati a
credere che l’etimo, formalmente evidente, non ponga problemi
particolari. Ma perché mai dovrebbe essere cosí, essendo che noi
stessi percepiamo talora un divario di due o tre generazioni come
stupefacente? Non si tratta di accelerazione tipicamente con-
temporanea, se Varrone poteva tranquillamente parlare di antiquitates
e di vetustas per espressioni linguistiche e culturali che lo prece-
devano di non molti secoli in un ambiente che era ancora larga-
mente legato alle tradizioni avite.
L’attenzione per il contesto culturale dell’etimo è comune da
almeno ottant’anni, se fissiamo come punto di maturazione la
comparsa del Reallexicon der indogermanischen Altertumskunde (Berlin
1917-1929) di O. Schrader ed A. Nehring. In questa ricca opera è
l’archeologia la referenza principale della ricerca etimologica.
Se non il punto di arrivo, quanto meno una tappa altrettanto
importante è stato Le vocabulaire des institutions indo-européennes
di E. Benveniste (Parigi 1969), nel quale la ricerca etimologica è
legata a straordinarie finezze di ricostruzione semantica su base
testuale. Non piú l’archeologia, dunque, ma una filologia testua-
le comparata costituisce il referente dello sforzo etimologico. Strano,
68 Franco Crevatin

invero, che l’antropologia non abbia avuto che una parte piutto-
sto limitata nella ricerca 29 : come scienza della cultura avrebbe
potuto contribuire non poco ad una visione laica di molti proble-
mi.
Qual’è dunque – si potrebbe chiedere – l’oggetto del conten-
dere, se tutti concordano nell’ammettere che l’etimo ha dimen-
sione culturale? Ebbene, innanzi tutto la complessità del proces-
so, quella che travalica il rapporto tra un etimo ed un fatto, pro-
spettiva questa che è stata a lungo privilegiata dalla referenza
archeologica. Essa viene alla luce quando l’etimo coglie aspetti
poco o punto noti e sui quali è necessario emettere ipotesi il piú
possibile economiche. Un esempio, molto noto: il latino vîcus aveva
due significati, quello di «fila di case, strada, quartiere» e quello
di «insediamento»; ambedue i significati si continuano nel mon-
do romanzo («víco(lo)» rispetto ai tanti toponimi del tipo Vico o
Vigo). Qual’è dunque il fattore unificante? Evidentemente l’abita-
re vicino (v î c î nus è un derivato da v î cus) di un gruppo di perso-
ne, un abitare assieme che può essere urbano o rurale (vî lla).
Tuttavia nel momento in cui prendiamo atto che formalmente la
parola vî cus equivale perfettamente al greco Ûoi~ k o" «casa, grup-
po familiare» ci rendiamo conto che il soggetto logico soggiacente
alla comparazione è originariamente un fatto di parentela con
una proiezione abitativa: persone che sono o ritengono di essere
parenti tra di loro abitano assieme. Se poi procediamo ad una
piú ampia comparazione indoeuropeistica troviamo conferme
all’assunto, poiché l’iranico v¥s- ed il sanscrito v¢sæ- indicano appunto
il lignaggio. L’etimo ha un valore aggiunto, ossia ci garantisce
che l’insediamento latino piú antico era ancora concepito in ter-
mini di parentela.
L’esempio, per banale che sia, ci mostra che non sempre è
ovvio nei nostri termini culturali ciò che va chiesto all’etimo. Ho
detto nel capitolo precedente che scrivo con una «penna» che
però non è una ‘penna’ (d’oca) ed adesso aggiungo che l’etimo ci

29
Essa ha avuto qualche fortuna nella produzione di linguisti statunitensi.
L’etimologia come processo di indagine culturale 69

si presenta sempre come il prodotto di successive cristallizzazio-


ni semantiche e culturali. Contrariamente a quello che possiamo
dire sul piano formale dell’etimo stesso, non possiamo affermare
che il livello, cronologico e ricostruttivo da noi raggiunto, sia
semplicemente quello dell’ultima cristallizzazione. Ciò dovrebbe
essere chiaro se prendiamo in considerazione esempi a noi con-
temporanei e dunque ragionevolmente chiari. Nel sardo30 il cam-
po incolto destinato a pascolo può esser definito in vari modi: il
referente è fisicamente lo stesso, ma la terminologia varia a se-
conda della referenza culturale. Altro è il terreno destinato esclu-
sivamente a pascolo, altro il terreno non coltivato (ma che po-
trebbe esserlo), altro ancora il campo che non è coltivato perché
lasciato a maggese nel sistema della rotazione dei campi. La ro-
tazione è rigidamente prevista per le intere terre di un comune:
i gruppi sociali dividono tutte le loro terre in due gruppi, quelle
destinate pro tempore alla coltivazione 31 (nuor. bi D a T one, ecc.) e
quelle destinate al pascolo (nuor. paperile, ecc.). L’etimo della prima
parola è il latino habitatio, che sottolinea l’originario aspetto
insediativo rurale, mentre quello della seconda voce è il latino
pauper «povero». Tale ‘terra di poveri’ però originariamente nulla
aveva a che fare con il sistema rotativo né con una sua presunta
‘povertà’ rispetto alle terre produttive, bensí va visto nella logica
terriera feudale: si trattava infatti della terra riservata ai poveri
perché la sfruttassero come pascolo.
Ho usato il termine ‘cristallizzazione’ desumendolo dall’am-
bito degli studi sul mito perché mi è sembrato adattarsi bene
anche ai problemi etimologici: sinché una parola si continua, i
suoi rapporti con il resto del lessico subiscono continui, graduali
e mutevoli assestamenti in relazione alla cultura dei parlanti,
arrivando talora – e senza che i parlanti stessi ne percepiscano
con chiarezza la fastidiosa ambiguità – ad indicazioni semantiche
che sono l’esatto contrario della situazione originale. Un buon-

30
Uso il presente ‘etnografico’.
31
Nella quale la parte incolta può esser destinata a pascolo.
70 Franco Crevatin

gustaio rifiuterebbe con orrore l’idea che il vino piemontese Dolcetto


sia ‘dolce’ e sino a poco tempo fa ognuno di noi avrebbe evitato
accuratamente di prendere un (treno) accelerato, sapendo bene
che era il piú lento dei treni sulla rete. L’etimo delle due parole
ci dice però, senza scampo, che il Dolcetto era dolce e che l’acce-
lerato era piú rapido dei treni normali, ma l’etimo non ci direbbe
altro se non avessimo la possibilità di confrontarlo con altri saperi.
Un altro caso, sul quale siamo fortunatamente abbastanza
informati, è quello delle designazioni romanze occidentali della
persona «ricca»: esso ci consente di veder ancora meglio quanto
i fatti linguistici e culturali possano essere non ovvii. In tutta
l’area italiana è documentata la voce ‘ricco’, che viene forse32 da
un longobardo rikhi ed ha, apparentemente, lo stesso significato;
in area galloromanza (francese riche) il prestito ha seguito altre
vie (dal francone antico rîki), ma l’etimo è lo stesso, pur con il
senso talora di «potente», e tanto vale anche per l’iberoromanzo
(spagnolo rico), che rinviene al gotico reiks: in quest’ultimo caso
rileveremo che nelle prime attestazioni della parola (Cantar del
mio Cid) la voce vale anche «eccellente, prezioso, caro», con
connotazioni emotive non ignote nel castigliano contemporaneo.
En passant, notiamo che germanica antica è pure l’origine del
finnico rikas «ricco». Possiamo tranquillamente escludere che si
trattasse di un prestito di necessità, visto che le genti germaniche
guardavano all’Impero romano d’Occidente come al paese di tutte
le ricchezze e proprio per questo motivo lo aggredirono sino a
farlo cadere. Dovremmo resistere anche alla banalizzante idea
che, dopo la conquista, erano i popoli germanici i nuovi ricchi ed
i Romani i poveri per cui la mutata situazione avrebbe condizio-
nato il prestito: è successo anche questo, naturalmente, ma non
è il fattore fondamentale. Guardiamo innanzi tutto al senso della
parola germanica. Il tipo *r•kaz contiene due indicazioni semantiche,
quella della ‘ricchezza’ e quella del ‘potere’ (tedesco Reich). La

32
Cosí la vulgata, ma personalmente credo che la parola sia entrata dal gotico in
epoca già tardo antica.
L’etimologia come processo di indagine culturale 71

concezione germanica della ricchezza era legata alla struttura sociale


ed economica di tali genti. Sino al volgere dell’era volgare non
esistevano significative differenze di livello economico tra ap-
partenenti allo stesso gruppo ed inoltre la struttura politica era
sostanzialmente acefala. Il prolungato rapporto con l’Impero ro-
mano, l’importazione di generi di prestigio e di lusso (vasi, monili,
lo stesso vino) portò a graduali ed importanti mutamenti nell’as-
setto sociale, spingendo verso la differenziazione censuale; inol-
tre si consolidò una struttura, già prima blandamente esistente,
di potere politico: il singolo guerriero, il cui valore e capacità
erano largamente riconosciuti per tali dall’opinione pubblica, poteva
raccogliere attorno a sé altri guerrieri che lo riconoscevano come
capo, lo sostenevano in guerra e nelle assemblee; in cambio egli
elargiva con molta generosità ai suoi seguaci beni economici e di
prestigio. Insomma, il capo poteva di fatto esser ‘ricco’, ma la
sua ricchezza veniva sempre largamente redistribuita. Nell’Alto
medioevo, quando pure si erano ulteriormente approfondite le
disuguaglianze economiche, il capo germanico continuò ad esse-
re un grande redistributore di ricchezza, al punto da arrivare
talora alla distruzione di propri beni: la ricchezza andava esibita,
regalata, usata come strumento di confronto con altri capi e con
l’intero gruppo, quasi come un’arma di impatto sociale per supe-
rare il potenziale avversario in generosità redistributiva. Per fare
questo, però, i grandi redistributori avevano bisogno di poter
contare su seguaci sempre disponibili. Si creò cosí, o meglio si
perfezionò, un sistema che poneva il lavoro, in primis quello agricolo,
come un disvalore, poiché il capo o il guerriero combatte ed altri
devono lavorare per lui.
Questa fu dunque la situazione culturale nella quale avvenne
parte considerevole del contatto tardo antico e alto medievale tra
mondo germanico e mondo romanzo, e difficilmente si potevano
immaginare distanze maggiori (e prescindo dalle differenze reli-
giose). La cultura tardo latina e Cristiana predicava la povertà,
l’umiltà ed il lavoro (pur se come penitenza umana dovuta al
peccato originale, non come valore in sé; il motto ora et labora
72 Franco Crevatin

riflette proprio tali concezioni) in una tradizione economica agri-


cola per eccellenza e si trovava a confrontarsi con la cultura dei
nuovi signori che a tutto questo era estranea: la percezione della
distanza era molto forte ed anche la differenziazione alimentare
non era da essa sottostimata: il capo germanico aveva nella carne
il suo status symbol alimentare, ma la Chiesa vedeva proprio nella
frequente rinucia al consumo della carne un segno forte di
contrapposizione.
Il ‘ricco’, insomma, non era piú il dives latino (conservato pro-
babilmente solo nel sardo antico, che difatti non è stato esposto
alle migrazioni germaniche), ormai un ricordo dei tempi econo-
mici passati, ma qualcosa di sconcertante e di diverso da tutto
quello che era culturalmente ragionevole dal punto di vista dei
Latini. Il prestito finí per essere quasi un fatto di necessità.

Quanto sinora abbiamo detto (e visto negli esempi) è facil-


mente riassumibile nelle due constatazioni che l’evoluzione non
lascia tracce omologhe di un rapporto di 1 : 1 tra fatti linguistici
e fatti culturali ed, inoltre, che la continuità della forma lingui-
stica tende ad occultare ai nostri occhi l’evoluzione della cultura.
Possiamo essere in grado di cogliere delle cristallizzazioni semantiche
e culturali, ma quando siamo ridotti a ragionare sulla mera for-
ma, operando con radici lessicali e privi di altri saperi culturali,
poco possiamo andare al di là della mera presa d’atto, quando –
beninteso – essa non sia in se stessa indizio di fatti storicamente
apprezzabili. Ne consegue che ogni viaggio nel passato è rischioso
e che il rischio aumenta in diretta proporzione con la lunghezza
del viaggio stesso.

Affrontiamo adesso due altre insidie del passato, ossia l’insi-


dia classificatoria e quella della continuità. Mi riferisco, alquanto
paradossalmente, a due fattori di ordine linguistico che pure
costituiscono uno dei presupposti fondamentali della corretta ricerca
e spiegazione etimologica. Quando sosteniamo che l’italiano sciatto
viene dal latino exaptus «inadatto», ammettiamo che a) c’è conti-
L’etimologia come processo di indagine culturale 73

nuità di forma tra il punto di partenza ed i punti di arrivo e b)


che è sempre chiaro quali siano i punti in questione, ossia che
quella parola latina è l’origine identificabile ed identificata delle
citate forme romanze e di altre ancora. Alla base, poniamo,
dell’istriano (Buie) tenàr «rifare il filo alla falce fienaia» suppor-
remo, non senza buoni motivi, un latino regionale non attestato
dalle fonti scritte *apt ï n â re «rendere adatto» senza pericoli per la
credibilità della trafila. Tuttavia, come ben si può immaginare, le
cose non sono sempre cosí ovvie. Innanzi tutto in molti casi c’è
continuità di forma ma non continuità di referente: ad esempio il
vino veneto Prosecco deve il suo nome al fatto di essere di sapore
asciutto (latino pers ï ccus), ma né il vino in quanto tale – ed è
ovvio – né il nome che identifica il suo gusto possono essere
latini (sarebbe stato detto austerus). Altrettanto spesso c’è conti-
nuità di referente ma non continuità di forma: caso esemplare è
il corpetto tradizionale sardo, che molto probabilmente risale ad
epoca preromana ed il cui nome originario pare esser stato mastruca
(Quintil. Inst. Orat. 1, 5, 8 e Cic. Prov. 15, 8 e Pro Scauro 45h 2),
ma che si dice oggi beste B è †† i (letter.: veste di pelle); anche nel
basco ci sono casi di nomi riferiti a realtà culturali antiche che
però non sono etimologicamente baschi bensí prestiti latini.
Quello della continuità è un punto delicatissimo, perché per
continuità si intende di massima sempre un fatto complessivo.
Possiamo ad esempio tranquillamente dire che in Egitto da un’epoca
preistorica imprecisata sino al XVI secolo circa della nostra era
c’è stata continuità: la lingua dei costruttori delle piramidi si è
evoluta successivamente in quella dei Faraoni conquistatori, dei
sudditi dei sovrani macedoni e dei monaci copti Cristiani. Ancor
oggi nelle chiese copte, nelle quali il dialetto bohairico viene usato
come lingua liturgica, sentiamo echeggiare le parole dei Faraoni:
cosí recita il primo versetto del Pater noster
peniwt et q en niv h oui
Padre nostro che (sei) nei cieli
e che è perfettamente ritraducibile nel neo-egiziano, anche se, a
dire il vero, suonerebbe un po’ strano il plurale della parola ‘cielo’.
74 Franco Crevatin

Cµ C C!
Ä∆∆∆°!µ»g:≥ÉLCU∆
pAy-n jt nty mXnw n nA p.wt
Ma tale continuità complessiva deve tener conto del fatto che
nel copto i grecismi sono presenti in ogni testo, anche nello stes-
so Padre nostro ora citato; e sono una quantità impressionante.
Niente di strano, si dirà, considerato che il copto si vuole conno-
tare come lingua Cristiana e dunque non di rado censura parole
egiziane troppo legate al passato religioso pagano: oltre tutto,
per secoli l’Egitto è stato parte del mondo di lingua greca. Sia
pure, ma va preso atto che anche il lessico sardo, il lessico cioè
di una parlata che giustamente si considera molto conservativa,
è composto per circa il 50% da prestiti.
In effetti, oltre al naturale rinnovamento del lessico, sono molto
comuni i prestiti, tratti sia dall’esterno sia dalla propria stessa
tradizione culturale – i dottismi. Ricordo solo un caso – stupefa-
cente – da me raccolto in Istria: nella parlata di Buie, ora vene-
ziana coloniale ma anticamente di dialetto romanzo italiano nord-
orientale non veneto, per indicare il sole sfolgorante si diceva
fèbo, che altro non è se non l’epiteto del dio Apollo, Phoebus Apollo.
Il dio greco romano è ricomparso nella parlata di poveri con-
tadini laboriosi che non avevano alcuna consuetudine con il
Musagete.
Certo, l’inglese resta una lingua germanica nonostante
l’elevatissima presenza di romanismi nel suo lessico, cosí come il
sardo resta il sardo, e siccome lingue ‘miste’ sono nella realtà
difficilmente immaginabili, potremmo esser tentati di credere che
nel fenomeno del prestito, piú o meno grammaticalizzato e dun-
que piú o meno riconoscibile, si esaurisca la storia problematica.
Non è cosí.
I contatti tra le lingue sono a tutti gli effetti contatti tra parlanti
portatori di culture e l’incontro culturale, pur nel dare e nel rice-
vere, si configura come una dinamica nella quale un modello de-
finisce l’altro rispetto a se stesso, talora accettandolo o coordinan-
L’etimologia come processo di indagine culturale 75

dolo al proprio, talaltra subordinandolo o respingendolo: è fatuo


pensare all’incontro culturale come ad uno scambio equilibrato tra
pari 33 . Siccome la dinamica riguarda gruppi sociali, non di rado
possiamo trovare tracce areali della dinamica in questione. Consi-
deriamo un solo aspetto, quello delle anfizone. Un ‘centro’, dotato
di riconosciuto prestigio culturale e linguistico, irradia il proprio
modello nelle zone circostanti: le aree periferiche, quando non sono
assorbite34 , si comportano da anfizone, recepiscono cioè il modello
ed adattano il loro sviluppo aggiornandolo e commisurando la
propria identità su di esso. Basti far riferimento, tra i tanti casi
possibili, alla posizione del veneziano nell’Italia nord-orientale:
esso non solo ha assimilato aree dialettali originariamente diverse,
ma ha altresí guidato e modellato lo sviluppo di dialetti che, bene
o male, hanno conservato la loro indipendenza. Faccio l’esempio
dell’Istria: una parte dei dialetti neolatini autoctoni sono stati
venezianizzati: in essi la situazione originaria si percepisce in misura
differente al di sotto del veneziano coloniale sia nella fonetica che
nel lessico; inoltre, a seconda della diversa profondità dei legami
con Venezia, si sono diversamente aggiornati sul dialetto della
Dominante. Nell’Istria meridionale i dialetti autoctoni hanno con-
servato una loro identità, rifacendola però continuamente sul modello
offerto dal veneziano.
In casi come questo – che, ripeto, sono decisamente comuni –
la “continuità” non è valutabile se non come fatto complessivo e
possiamo trovarci nella curiosa situazione di poterla dare per
certa solo quando il singolo tipo si discosta da quello del model-
lo dominante. È per questo motivo che, ad esempio, possiamo
riconoscere – tra gli altri – come encorico nell’Istria meridionale
il tipo mazído «umile, sottomesso, addomesticato», da mansu é tus
(conservato anche nel sardo log. maze D u «addomesticato»).

33
Ammetterlo è segno, a mio parere, di nobiltà di sentimenti nei confronti della
dignità umana, ma altresí di indigenza antropologica.
34
Le modalità possono essere diverse e si va da un’assimilazione totale a forme
linguistiche e culturali di tipo coloniale nelle quali l’antica identità lascia profon-
de cicatrici.
76 Franco Crevatin

Orbene, dobbiamo concludere che sintantoché la nostra escur-


sione nel passato ha una profondità cronologica limitata ed attra-
versa periodi ragionevolmente documentati le nostre analisi eti-
mologiche possono essere solide, ma se cosí non è i problemi
possono farsi molto difficili; e si badi, non è tanto in discussione
la giustezza dell’etimo, ma la comprensione storica di esso.

Sopra si è detto che il passato è un luogo dove regna l’alterità,


talora pericolosamente camuffata da somiglianza: ora forniremo
un esempio di questa constatazione, il passaggio dal tardo
paganesimo al Cristianesimo visto dal punto di vista della lin-
gua. Il problema, come è noto, è di grande complessità, forse non
sempre circoscrivibile all’osservazione – pur vera – che molti culti
e riti tardoantichi si sono conservati via un piú o meno somma-
rio camuffamento Cristiano (come nel caso sopra ricordato di S.
Domenico dei serpari; p. 53). Ebbene, se guardiamo alle continua-
zioni linguistiche il quadro non è né molto ricco né troppo signi-
ficativo. Qualche teonimo si è conservato: Diana (sardo jana «fata,
strega», toscano ant. iana, albanese [di origine tardolatina] zân´
«esseri potenti che vivono in zone deserte», romeno zîna «fata»),
le Hørae (< greco), personificazioni del germogliare e maturare
della natura nelle sue stagioni (albanese ore «spirito tutelare e
benefico di una persona, famiglia, tribú», romeno ori), Orcus «aldilà»
(ital. orco), Silvanus «divinità dei campi e delle greggi», rusticorum
deus (Isid. Etym. 8, 11, 81 (veneto sett., trent. salvanèl). Talvolta il
teonimo compare inserito nel lessico dell’astrologia (i tipi ‘luna-
tico’, ‘gioviale’, ‘saturno’ nel senso di «taciturno, triste», lessico
che ha lasciato tracce riconoscibili (basti ricordare l’italiano disa-
stro) accanto al vocabolario della magia (il lat. carmen nel senso
di «formula magica» è alla base del francese charme, come alla
base dell’italiano incantare c’è il ‘canto’ delle formule magiche).
Il ‘malocchio’ viene direttamente dal mondo antico come la personifi-
cazione in quanto rapace notturno di spiriti malevoli (str¢ga <
greco, ital. strega) e la personificazione del potere del destino
(fata da fatum). Probabilmente antico è il tipo *aqu†na «ninfa delle
L’etimologia come processo di indagine culturale 77

acque», attestato dialettalmente nell’Italia settentrionale (gana e


sim.). Potremmo dire che non molto altro è rimasto di linguisti-
camente pertinente al mondo religioso tradizionale: Christianus
ormai in molte parlate assume anche il senso di ‘essere umano’
e paganus connota realtà negative, e questa potrebbe sembrare la
fine della storia. E, ancora una volta, non è cosí.
Infatti se guardiamo alle sopravvivenze culturali non tardia-
mo ad accorgerci che anche dal punto di vista religioso, pur
nell’avvenuta e consolidata accettazione del Cristianesimo, l’Al-
to medioevo continua, rivivendola, la realtà tardoantica. E lo fa
in un modo particolare, gerarchizzando i diversi saperi religiosi:
il sacrum generale e sovraordinato è Cristiano, il sacrum specifi-
co, locale e limitato resta, con un adattamento anche estrema-
mente sommario, quello tradizionale, che la Chiesa bolla come
pericolosa superstizione. Quest’ultimo è il sacrum, positivo o negativo
perché il sacro ha spesso natura ambigua, dell’incultum: è l’albe-
ro antico ritenuto sede di spiriti protettori, la fonte o il laghetto
popolato da esseri misteriosi, è la foresta che assedia da vicino il
villaggio ed i suoi campi coltivati e nella quale si muove libera
e pericolosa Diana o Silvanus. Non solo: è il sacrum del rito tra-
dizionale, destinato a proteggere, guarire, donare fertilità o ag-
gredire magicamente. La situazione è nota quasi ovunque una
religione nuova sia prevalsa su una fede piú antica: è nota nel-
l’Egitto copto come nel sud est asiatico buddhista e dovunque –
almeno cosí a me parrebbe – la nuova religione ha improntato di
sé il vocabolario, spesso censurando il lessico ideologico, per cosí
dire, del passato. Cito un solo – ed importante – caso di conser-
vazione: in Sardegna è attestata l’usanza di portare in chiesa il
giorno di Giovedí Santo un recipiente con del grano fatto germo-
gliare al buio che si pone presso il sepolcro di Cristo (su nènniri).
Tali germinazioni venivano preparate anche in altre occasioni (ad
esempio alla festa di S. Giovanni) ed i recipienti venivano poi
gettati nei campi dove contribuivano alla fecondità del suolo ed
alla crescita delle messi. In tal caso nei recipienti era messa a suo
tempo una figurina fallica in pasta di pane. È comunemente ri-
78 Franco Crevatin

conosciuto che tale usanza riflette l’antico rito vicino orientale


dei giardini d’Adone35 (∆Adwv n ido" kh~ p oi), noto anche nell’Egitto
antico, e ci si può chiedere se in Sardegna essa sia il frutto di un
influsso tardo antico o se addirittura non sia una sopravvivenza
dell’antica occupazione punica di parte della Sardegna (ma questa
ipotesi mi pare meno verosimile per ragioni areali). E ciononpertanto
il nome nulla ha a che fare con tali precedenti culturali, ma si
connette all’aggettivo nènneru «stentato, tardo», con riferimento
all’aspetto pallido e stento dei germogli di grano.
Per contro nell’Italia settentrionale sono percepibili netti in-
flussi germanici. La figura della Befana può a ben diritto stupir-
ci, una benevola vecchina di infame bruttezza. Come sanare la
contraddizione tra la bontà e la laidezza? Ce lo insegna il suo
nome, attestato in dialetti veneti, trentini ed istriani, Redòsega,
Didòdisa e simili. Il nome deriva da un incrocio 36 tra Herodias
(Erodiade, la perfida madre della corruttrice e corrotta Salomè)
ed il numerale ‘dodici’ e ne vedremo subito la ragione: ciò che è
chiaro sin d’ora è che all’origine la bruttezza fisica della Befana
era altresí segno della malvagità di animo. Dunque, la festa della
Manifestazione di Gesú (ej p ifaniv a ) aveva, in forma foneticamen-
te corrotta, dato nome a qualcosa di precedente che era manife-
stazione di male: ne cogliamo il passaggio, perché tale temibile
presenza era comunque stata rinominata, secondo l’insegnamen-
to scritturale, Erodiade. Il numero ‘dodici’ allude ai 12 giorni che
vanno da Natale al 5 gennaio spesso definiti popolarmente le
‘calende’, un periodo fortemente ominoso nel quale si traevano
auspici per l’anno entrante; ed altresí un periodo pericoloso, perché
in esso si manifestavano le forze del male. Questa, appunto, è
un’idea ben radicata nella tradizione religiosa precristiana delle

35
Rito di fertilità e di rinascita centrato sulla preparazione di piccole figure,
spesso antropomorfe, nelle quali venivano seminati e vegetare cereali o altre
piante.
36
L’incrocio è l’immissione in una base di un elemento lessicale di origine diver-
sa, attratto in genere da solidarietà semantica, come l’italiano vagamondo < vaga-
bondo × mondo oppure l’antico musorno «triste, mesto», dove sulla base m¥sus
«muso, broncio» è stato attratto il suffisso di tacit-urnus.
L’etimologia come processo di indagine culturale 79

genti germaniche: la fine dell’anno è la fine del tempo, quando le


forze del male e del disordine si liberano nel mondo e Wotan
cavalca nella notte con la schiera dei suoi cavalieri morti (la «caccia
selvaggia»). Tali forze dovevano essere in qualche modo respinte
perché il mondo potesse continuare la propria storia; tra di esse
compariva la spaventosa figura di colei che fu definita l’Erodiade
dei 12 giorni, la Befana orrenda che solo dopo molto tempo, pur
restando brutta, divenne la vecchina buona che porta i regali.
Il passato, dunque, come luogo della diversità e dell’alterità,
talora rumorosa e talora ingannevolmente sottile; e non è neces-
sario pensare a secoli di distanza tra punto di partenza e punto
d’arrivo per rendersene conto, come mostra quest’ultimo esem-
pio. Gli Egiziani cristianizzati distinsero anche lessicalmente il
sacerdote pagano dal prete Cristiano: il primo era xont, < Hm-
nTr il «servitore di dio», tradotto già dalla cancelleria tolemaica
con profhv t h", mentre il secondo era detto ouhhb. Ambedue i
termini risalivano alla piú antica tradizione religiosa, ma mentre
il primo era formalmente opaco, il secondo era trasparente, poi-
ché qualunque parlante poteva riconoscerlo come forma qualitativa
del verbo ouop, ouaab «essere puro». La trasparenza era rin-
forzata dall’uso della forma ouhhb per indicare tutto ciò che è
puro, innocente, santo e pneuma Nouhhb è il nome dello Spirito
Santo. A buon diritto gli antichi Egiziani avevano definito ‘puro’
(wab ) il loro sacerdote, poiché per prestare servizio nel tempio
alla presenza fisica del dio egli doveva sottostare a complessi e
spesso quotidiani riti di purificazione (rasatura, depilazione,
masticazione di pallottole di soda, abluzioni, oltre a prescrizioni
particolari per evitare contatti inquinanti), condizioni che si cer-
cherebbero invano nella figura del prete Cristiano. Era passato
pochissimo tempo, anzi per un periodo non breve Cristianesimo
e paganesimo avevano convissuto lottando a turno per la so-
pravvivenza, ma le distanze si erano ormai fatte molto forti.

Abbiamo iniziato questo capitolo attirando l’attenzione sulla


problematicità dei concetti di continuità e di classificazione: ora
80 Franco Crevatin

passiamo all’esame della seconda questione. In parole molto semplici


il problema è il seguente: quando emettiamo un’ipotesi etimolo-
gica fissiamo dei punti di partenza e di arrivo che sono di ordine
linguistico classificatorio. Diciamo infatti che la parola, poniamo,
italiana X viene dal latino Y o continua l’italiano antico Z . Ciò pre-
sume che noi si abbia sempre ragionevolmente chiaro il concetto
di latino, di italiano e cosí via. Tuttavia, ‘ragionevolmente chia-
ro’ non è sinonimo di chiarezza assoluta, poiché quest’ultima
dipende in larga parte dall’abbondanza delle nostre fonti di in-
formazione.
Penso si possa dire, senza esagerare troppo, che ogni nuovo
documento che ci proviene dal passato ci costringe a ripensare i
nostri convincimenti classificatorii, anche se non di necessità a
mutarli. C’è un aspetto in questa problematica che potremmo
definire di superficie – ed è un aspetto noto: quanto sappiamo, ad
esempio, del latino? Posta in questi termini la risposta è univoca:
conosciamo in maniera notevole il latino letterario, quel modello
che in tarda età repubblicana e nel primo Impero ha informato di
sé larga parte delle nostre fonti. Conosciamo molto meno il lati-
no di impronta non retorica (quello, per intenderci, della lingua
di professionisti che scrivevano del proprio lavoro, medici come
Scribonio Largo, architetti come Vitruvio, botanici, ecc.); ancor
meno siamo in grado di dire con qualche coerenza non episodica
cosa fosse il latino regionale e quello parlato. Cito due casi, tratti
dalle fonti letterarie, che mostrano quanto indiretta possa talora
essere l’informazione a noi pervenuta. Aulo Gellio (N.A. 17, 7)
discute un’espressione della antica legge Atinia «Quod subruptum
erit, eius rei aeterna auctoritas esto», ossia «Ciò che sarà stato ru-
bato, il diritto di disporne (cioè da parte del possessore origina-
rio) sia eterno». Basandosi su fonti grammaticali, Gellio rifiuta
l’ipotesi che la forma subruptum erit sia interpretabile come for-
ma analitica (ossia sarà + sottratto) e giustamente la ritiene una
forma verbale unica 37 ; questa discussione, tuttavia, non avrebbe

37
Si tratta infatti di un futuro anteriore passivo.
L’etimologia come processo di indagine culturale 81

avuto alcun senso se nel parlato ormai non fosse stata comune la
forma analitica, legata al progressivo degrado delle diatesi pas-
siva e deponente, copula + participio passato di tipo romanzo (è
[nella condizione di chi è] amato), una forma che invero aveva
cominciato a far capolino già in Plauto.
Ateneo (Deipnosoph. 8, 63) mette in bocca ad uno dei perso-
naggi colti del suo dialogo a banchetto (dialogo che veniva con-
dotto in lingua greca) una frase spiritosa: colpito all’uso della
parola ballismov " «ballo, danza», Ulpiano dice che questa paro-
la non è greca, ma è stata comperata nella Suburra, il quartiere
piú popolare e straccione di Roma. Non ci interessa tanto la ri-
sposta (effettivamente si tratta di voce autenticamente greca), quanto
l’informazione che il tipo latino ballare, attestato dalle nostre fonti
appena in S. Agostino, era popolare ben prima ed era parola del
volgo. Siccome l’origine greca della parola va vista nei dialetti
sicelioti, è verosimile che la voce fosse entrata a Roma già duran-
te la Repubblica. Molto di piú potremmo dire se possedessimo il
libro di P. Lavinio intitolato promettentemente de verbis sordidis.
Ma questi, per quanto sgradevoli, sono fatti di superficie, come
si diceva. Altra è la questione del taxon etnico e linguistico, ossia
di quanto noi classifichiamo e dunque identifichiamo come lati-
no (o greco, o bongobongo). La nostra classificazione non iden-
tifica un’essenza, una monade chiusa in se stessa, bensí un pro-
dotto della storia e ciò che è nella storia è per definizione mute-
vole. Scendendo su un piano concreto, quello che noi oggi defi-
niamo lombardo, ieri poteva essere cosa di diversa estensione,
diversa articolazione e con caratteri almeno in parte diversi da
quelli odierni; si tratta in fondo di una cosa ovvia, poiché un’area
linguistica si costituisce sulla base di una rete di comunicazioni
privilegiate e di modelli condivisi: un tipo linguistico non vive
nell’empireo dei nostri manuali, ma nella polvere agitata della
quotidianità areale. Non è difficile rispondere a domande del
tipo «Quando è morta la lingua X ?», perché evidentemente essa
è morta assieme ai suoi ultimi parlanti, mentre dovrebbe essere
chiaro che domande come «Quando si è smesso di parlare lati-
82 Franco Crevatin

no?» o «Quando si è iniziato a parlare francese?» sono mal poste


e dunque senza risposta. Nella Romània non si è mai smesso di
parlare latino, semplicemente lo si è chiamato in un altro modo 38 .
Alcuni problemi della classificazione per essenze, se cosí mi
posso esprimere, hanno portato a polemiche asperrime ed a con-
seguenze curiose, e mi riferisco soprattutto alla cosiddetta ‘que-
stione ladina’. Ebbene la tesi ‘ladina’ si può facilmente riassume-
re: i dialetti svizzeri dei Grigioni, alcuni dialetti atesini ed alto-
veneti ed i dialetti friulani condividono una serie di fenomeni
linguistici, per cui si è sostenuto che essi sono i frammenti signi-
ficativi di un’unità piú antica, definita appunto ladina, resto della
romanizzazione, avvenuta in condizioni ed in un ambiente par-
ticolari, della zona alpina. La tesi non tiene conto di una serie di
fatti linguistici inequivocabili, ossia che tutti i fenomeni presi in
considerazione per classificare in positivo l’area ‘ladina’ d’oggi
erano anticamente ben diffusi nell’Italia settentrionale e dunque
si tratta di conservazione in area marginale di quanto il centro,
innovando, ha perduto; non solo, ma la comparazione lessicale a
tappeto delle tre arree ‘ladine’ mostra che non esistono rapporti
particolari tra di esse, meno che mai rapporti in senso orizzon-
tale che escludano la Cisalpina nel suo complesso. L’aspetto cu-
rioso è che si è voluta identificare un’area autonoma, dandole
carattere storico anche in assenza totale di qualsivoglia referente
collocabile davvero nella storia: insomma la lingua proverebbe
l’esistenza di qualcosa che storicamente non è mai esistito.
Se dobbiamo esser prudenti davanti ad eventi linguistici che
si collocano in periodi confortati da una piú che discreta docu-
mentazione, il pericolo diviene decisamente alto quando l’etimo-
logia si spinge, tramite la ricostruzione, a livelli cronologici molto
antichi. Non sto sostenendo surrettiziamente che l’identità di un
tipo linguistico si annulla quanto piú si risale nel tempo, bensí
che l’identità esiste e si evolve come tale in una rete di rapporti:

38
Altro sarebbe chiedere «Quando si è smesso di capire il latino ciceroniano?»,
domanda che avrebbe una risposta precisa, pur se articolata; la questione qui
però non ci interessa da vicino.
L’etimologia come processo di indagine culturale 83

se non siamo in grado di riconoscere questi ultimi, la percezione


che abbiamo dell’identità stessa si impoverisce e si riduce. In
questi casi il ricorso ad etichettature di tipo etnico-linguistico,
pur mitigate, rischiano di ingenerare equivoci, anche se questa è
prassi comune in molta linguistica comparata. Designazioni come
Proto-Greci sono intrinsecamente contraddittorie – e basti chie-
dersi, per capirlo, chi mai siano i Proto-Italiani – che possono
essere tollerate come scelta espressiva, ma che non hanno spes-
sore storico.

In questo capitolo abbiamo incontrato alcuni dei nemici piú


pericolosi della ricerca etimologica, la presunzione spensierata
di continuità e l’ermeneutica inconsapevolmente etnocentrica. Contro
questo insidioso nemico nessuno è davvero al riparo, perché, come
hanno notato alcuni sensibili antropologi, la nostra cultura non
solo produce le nostre aspettative, ma ha forgiato e condiziona i
nostri stessi metodi di indagine: se è vero che la linguistica sto-
rica stricto sensu ne resta, tutto sommato, immune, lo stesso non
vale per le dimensioni culturali implicite nell’etimologia. Con-
frontati con concetti per noi abituali, reagiamo, appunto, in ma-
niera culturalmente determinata: se, poniamo, si parla di anima,
in noi riaffiora il platonismo che oppone spirito a materia e dunque
anima a corpo (v. oltre p. 102), se il tema è il sacro 39 , rischiamo
di attribuire al sacro stesso solo valori benefici e positivi, se stu-
diamo fatti politici, rischiamo di essere incapaci di capire società
decentralizzate. La consapevolezza del pericolo è il primo rime-
dio; fortunatamente, ce ne sono anche altri.

39
Un esempio: si è usi tradurre con ‘sacro’ la parola egiziana antica Dsr, tuttavia
essa vale in realtà «ciò che è messo a parte, distinto» (PYR 1778), ciò che non deve
essere accessibile ai mortali: la parola sopravvive nel copto tasr col senso di
‘protezione, recinto’ o sim. Quando i Copti dovettero tradurre il concetto greco
di sacro fecero ricorso alla parola che valeva «puro».
84 Franco Crevatin
L’etimologia come processo di indagine culturale 85

UNO, NESSUNO, CENTO MILA

In questo breve capitolo affronteremo una questione molto


semplice ed altrettanto delicata, ossia se l’arte etimologica sia
unica o se essa sia un’empiria che muta con il mutare delle con-
dizioni d’uso.
Il buon senso metodologico invita a scegliere la prima delle
due prospettive: che tipo di scienza sarebbe mai quella che non
ammette l’unicità coerente dei propri metodi? Beninteso potran-
no variare le condizioni d’uso dei metodi, perché altro è occu-
parsi di etimologia romanza, confortati da una documentazione
imponente, ed altro di etimologia afro-asiatica, dove poche sono
le lingue con documentazione antica e molte quelle con descri-
zioni solo moderne, spesso incomplete. Ma la variazione in que-
stione è subita e comunque non è tale da intaccare il principio
dell’unità disciplinare.
Ho esposto considerazioni che condivido solo in parte, in quanto
ciò che accade nel mondo è qualcosa di meno filosofico e piú pratico:
alla nostalgia per l’unità metodologica corrispondono pratiche molto
diverse, le quali a loro volta creano soglie di accettabilità rispetto
all’etimo proposto (ed ai metodi che hanno portato alla proposta
stessa) molto diverse. Ciò è ben riassunto da una maligna battuta
alquanto comune in àmbito romanistico: ‘etimo da indoeuropeista’
è definito quell’etimo che, pur non palesemente infondato, preve-
de elaborate ricostruzioni al limite dell’artificiosità; etimo ‘chimi-
co’ lo definiva tagliente Vittore Pisani. Non si tratta di eccesso di
severità, ma di abitudini e di soglie di accettabilità diverse.
La pratica etimologica parte sempre da una ipotesi ragionevol-
mente posta e da una divinatio; la parola X potrebbe ragionevol-
mente essere di origine N : se è così, allora stando alle regole fone-
tiche e morfologiche della lingua d’origine la forma d’origine potrebbe
essere Y. La divinatio tiene conto anche della verosimiglianza semantica
e di quanto in generale potrebbe opporsi all’ipotesi emessa. Alla
divinatio segue la probatio, ossia quel processo in cui si vuole di-
mostrare che l’ipotesi non solo è possibile, bensí probabile o cer-
86 Franco Crevatin

ta 40 . Dal modo in cui ho formulato la questione si evince facil-


mente che la probatio non di necessità equivale ad una dimostra-
zione: il ‘mostrare essere vero’ è possibile solo in condizioni par-
ticolari che non sono frequentissime nella storia linguistica – in
prima istanza, la presenza di forme realmente documentate e processi
morfologici assolutamente prevedibili –, altrimenti la probatio è
indicazione di probabilità. Di massima, si dovrebbe concordare
sul fatto che la probabilità consiste principalmente nell’economia
dell’ipotesi, ossia nella minimizzazione degli assunti41 , ma anche
in questo caso si dovrà convenire che ognuno può avere la pro-
pria idea di quanto sia realmente economico e di quanto non lo
sia. C’è dunque il rischio che divinatio e probatio diventino perico-
losamente contigue e dunque poco distinguibili vicendevolmente.
L’etimologia all’interno di fasi diverse di una stessa lingua o in
famiglie linguistiche di piccole dimensioni per le quali ci soccorre
una ragionevole documentazione diacronica (le lingue germaniche,
o slave, o semitiche per esempio) crea da se stessa gli anticorpi
per contenere il rischio di cui abbiamo detto: all’interno della
famiglia romanza siamo addirittura nelle condizioni di conoscere,
pur con delle limitazioni, il capostipite genealogico – il latino: che
dire però del lavoro etimologico svolto in famiglie estese come
quella indoeuropea o per le quali ci manca documentazione diacronica,
come avviene in molti casi africani ed americani? Per tornare alla
maliziosa battuta sopra ricordata, è comprensibile che l’etimologo
che lavora con parole e morfemi documentati provi sospetto per
la tipologia del lavoro di chi opera perlopiú con radici lessicali e
con morfemi ricostruiti: da questo punto di vista è dunque sin
troppo vero che la soglia di accettabilità di un etimo può essere
diversa a seconda dell’àmbito di lavoro42 .

40
Uso la terminologia processuale romana.
41
Un’ipotesi ha il costo del numero e della qualità degli atti di fede ai quali essa
costringe.
42
E non sarà inutile ricordare anche che il romanista o il germanista può e deve
far uso della filologia, strumento che non è a disposizione di chi studia lingue di
esclusiva tradizione orale.
L’etimologia come processo di indagine culturale 87

Guardiamo brevemente a dei casi metodologici a loro modo


esemplari. Il primo è l’uso di comparazione di massa o basato su
una lista standard di concetti. Tali metodi hanno trovato largo
seguito tra gli studiosi di lingue di esclusiva o prevalente tradi-
zione orale. Nel primo caso vengono comparate decine di lingue
diverse in aree molto vaste e ne vengono segnalate le convergenze
lessicali: in tal modo si tenta di definire l’esistenza delle famiglie
linguistiche presenti sul territorio. Nel secondo caso si analizzano
le forme linguistiche di concetti basici, presumibilmente non
condizionati dall’evoluzione culturale, in un gruppo di lingue
per le quali c’è il ragionevole sospetto (o la probabilità) di paren-
tela e si tenta di cogliere l’articolazione del gruppo. In ambedue
i casi esiste un lavoro conoscitivo preliminare sulla struttura delle
lingue poste a confronto.
Credo sia chiaro che in queste empirie etimologiche divinatio
e probatio sono contigue, in quanto è l’assonanza tra parole a
costituire sia la base euristica che l’ipotesi stessa: c’è assonanza
e l’assonanza è significativa. Non vorrei sembrare troppo severo,
quanto meno rispetto ai risultati raggiunti. Tuttavia il fatto che
essi siano spesso credibili in se stessi43 dipende però molto piú
dalla sensibilità e dal mestiere del singolo ricercatore, che ha
selezionato quelle (e non altre) assonanze ed ancor di piú ne ha
scartate, che non dalla bontà del metodo in quanto tale. Mi si
permetta di citare un caso abbastanza significativo. Recentemen-
te è stato ripreso il tema dei rapporti tra lingue indoeuropee e
cinese e si sono istituite ampie comparazioni tra radici lessicali
delle prime e parole, nella loro forma fonetica piú antica rag-
giungibile, dell’altro: si sono cosí isolate una notevole quantità
di assonanze spesso davvero sorprendenti per vicinanza fonica e
semantica. Ne è talora scaturita l’ipotesi che un filone indoeuropeo

43
L’elemento statistico, spesso invocato a sostegno della procedura, è invece
irrilevante poiché esso non è costruito secondo le norme condivise dell’analisi
statistica scientificamente condivisa. Desidero sia chiaro che non sto affatto cri-
ticando la ricerca di assonanze in se stessa: essa è la necessaria infanzia della
filologia etimologica.
88 Franco Crevatin

abbia contribuito alla costituzione dell’identità linguistica cine-


se. Personalmente dissento sul metodo e sono scettico sulle con-
clusioni raggiunte: in primo luogo trovo curioso comparare radici
con parole, poiché le prime sono per lo piú delle astrazioni men-
tre le seconde dei fatti reali; in secondo luogo la divinatio appare
priva di argomentazione 44 . Eppure, ripeto, le assonanze ci sono,
anche se non sappiamo che farcene 45 .
Abbiamo detto che un metodo frequentemente utilizzato è quello
della ricerca di assonanze – nel caso piú fortunato, di tipi lessicali
all’interno di un’assodata parentela linguistica – tra lingue di
una medesima area o tra lingue che si presumono imparentate in
base a liste di concetti legati al vocabolario basico. In questo caso
la divinatio assume prospettive leggermente diverse. L’etimologia
cumulativa presuppone il fatto che il vocabolario basico evolva
con molta piú lentezza di quello legato alla cultura materiale o
spirituale, il che di massima può sembrare ragionevole, e dun-
que possa mostrare con maggiore facilità solidarietà etimologiche.
Sulla base, dunque, di tali concordanze si tenta di delineare un
‘albero genealogico’ che graficamente illustri le successive tappe
della graduale differenziazione ed autonomizzazione delle lin-
gue esaminate. Restano, peraltro, dubbi sia di carattere teorico
che di carattere pratico. Possiamo davvero tirare una linea preci-
sa di confine tra vocabolario basico e vocabolario culturale? Sia-
mo davvero in grado di cogliere interazioni e rapporti areali che
hanno storie plurisecolari e che a noi si presentano appiattiti,
storie di prestiti da lungo tempo grammaticalizzati, di modelli

44
Pare riassumersi nella domanda «E se ci fosse un filone indoeuropeo nel cine-
se?»: già, ma perché sarebbe sospettabile la sua esistenza al di là delle assonanze
eventualmente producibili?
45
Ben diverso è il problema di cercare eventuali tracce di presenze linguistiche
indoeuropee ad est di quelle che sono le aree storiche nelle quali tale famiglia
linguistica è attestata: in definitiva la lingua tocaria è documentata nel Turkestan
cinese occidentale. Il problema del (o dei?) focolaio di formazione del cinese,
anche tenuto conto della piú generale parentela sino-tibetana, va probabilmente
cercato nelle regioni meridionali dell’attuale Cina, fatto questo che potrebbe complicare
la questione di eventuali contatti con il mondo di rapporti indoeuropeo.
L’etimologia come processo di indagine culturale 89

che sono stati dominanti e che si sono persi nella dinamica della
storia culturale? Domande retoriche, beninteso, che trovano nel
rifiuto dell’albero genealogico la loro conseguenza ultima. In effetti,
molti studiosi sembrano subire una pericolosa tentazione, quella
di dimenticare che l’albero genealogico può essere uno strumen-
to, anche se grossolano, per parlare di descrizione e di storia, ma
non è la Storia.
La prova migliore di quanto qui sopra sostenuto e dell’esi-
stenza di diversità di soglie di accettabilità è forse fornita dal
fatto che l’applicazione di questo metodo ai dati della linguistica
romanza è stata accolta dai romanisti con marcata ironia per l’evidente
ridicolaggine dei risultati ottenuti.
Mi pare si debba concludere che in questi casi l’etimologia si
limita ad un simulacro di forma o, in caso fortunato, alla mera
forma priva di qualsiasi connessione culturale: quest’ultima,
dichiaratamente, non è neppure considerata pertinente rispetto
ai fini proposti.
L’ammissione che esistono soglie diverse di accettabilità, de-
terminate da diversità di condizioni della ricerca etimologica, implica
due fatti rilevanti, ed il primo è la conseguente diversità di livel-
lo d’astrazione. Entro certi limiti, la proposta etimologica com-
porta sempre un margine di astrazione perché non tutto è docu-
mentato o documentabile nella storia linguistica (e culturale): ciò
che, appunto, non lo è, va ricostruito – sono le forme precedute
da asterisco usate anche in questo libro. Il procedimento è quello
di un ragionamento deduttivo del tipo se / dato che X è vero allora
Y è / potrebbe essere vero. Un esempio: nel papiro greco P. Erl.21 è
registrato l’inventario dell’arredo cultuale di un tempio egiziano
e tra i vari nomi compare quello di un recipiente che – si premu-
ra di precisare il redattore del testo – era detto in egiziano shse.
Ebbene, dato che in copto esiste la voce jees, ¥h s col signifi-
cato di «coppa, incensiere» e che le regole di adattamento fone-
tico tra egiziano e greco consentono facilmente di ricondurre la
prima forma alle seconde, e dato che sappiamo che uno dei pro-
cessi formativi della parola egiziana consisteva in epoca tarda
90 Franco Crevatin

nell’ampliamento con il suffisso -s di un sostantivo piú antico,


allora possiamo ammettere che la parola jees risalga a jh «piatto,
ciotola» (< DAa «ciotola per incensiere») tramite un non attestato
*DAas. Potremmo facilmente moltiplicare gli esempi e, per contro,
non occorre insistere sul fatto che dove ci fa difetto la documen-
tazione i se sono prevalenti sui dato che e richiedono costi di
fiducia che possono essere notevoli. L’astrazione è dunque un
prezzo generale da pagare.
Il secondo fatto connesso alle diverse soglie di accettabilità è
che pur essendo l’etimologia epistemologicamente una, nella pratica
quotidiana ne esistono molte. La mancata comprensione di tutto
ciò può portare il non linguista, quando non abbia una fede generosa
e con dubbi confini nel lavoro dei colleghi linguisti, a pensare
che nessuna etimologia vada presa troppo sul serio, contravve-
nendo a quanto ci siamo sforzati di dire sin dalle prime righe di
questo libro, ossia la fattualità del fatto linguistico.
Appunto, con Pirandello, una, nessuna, cento mila.
L’etimologia come processo di indagine culturale 91

ETIMOLOGIA E CULTURA MATERIALE

Quando si pensa all’etimologia risuona pressoché spontanea


un’eco con l’archeologia – etimi di parole ed archeologia di cose:
ognuno dà e riceve chiarimento dall’altro. Quando non si esage-
rino le aspettative, l’eco è giustificata perché capire la storia di
una parola vuol dir capire la storia di un referente. In questo
capitolo non ci riproporremo dunque di argomentare a favore
della bontà di questo assunto. Semmai, varrà la pena mostrarne
i limiti e le trappole che esso tende alla nostra ingenuità.
Ciò che noi cerchiamo nella storia archeologica ed ergologica
del referente è la motivazione di un etimo dato. È quanto face-
vano molti eruditi antichi, che raccoglievano documentazione sul
passato per spiegare la realtà linguistica dell’epoca loro, cosí come
noi quando riflettiamo sul fatto che scriviamo con una penna che
solo anticamente era d’oca.
Perché il mese di febbraio (lat. Februarius) è stato cosí denomi-
nato? Ce ne parlano parecchi eruditi latini. Varrone (L.L. 6, 13) ci
dice che februus «che purifica» era antica parola propria della
lingua rituale sabina ma utilizzata anche a Roma: durante le fe-
ste dei Lupercali avveniva la purificazione dell’antico oppidum
del Palatino. I Luperci giravano nudi, coperti solo da una pelle
caprina che, appunto, veniva detta februum. Piú o meno le stesse
cose ci dice Festo (-Paolo) 75, 23, il quale peraltro sottolinea non
solo la purificazione del popolo romano, ma in particolare quella
delle donne che avveniva tramite il “mantello di Giunone”, ossia
la pelle caprina dei Luperci. Censorino (22, 13, 14) sostiene inve-
ce che il februum era il salem calidum portato dai Luperci per fini
purificatorii. Forse le idee non erano del tutto chiare, perché si
trattava di riti ormai desueti nel primo secolo a.C., tuttavia a
tutti era chiaro che esisteva una o piú cose che contribuivano in
maniera determinante alla purezza e che potevano essere defini-
te februum. Come abbiamo detto, Varrone utilizzava spesso le
antiquitates romane per spiegare gli etimi delle parole.
92 Franco Crevatin

Ma veniamo ad alcuni esempi semplici e senza chiaroscuri.


Può a tutta prima sembrare strano che parole come ital. settentr.
(im)bastire «cucire grossolanamente con ampi punti», francese bâtiment
«edificio» ed ital. bastimento «nave» abbiano la stessa origine, ma
tutto si chiarisce quando si consideri che l’etimo ultimo è il germanico
*bastjan «intrecciare grossolanamente». Nel provenzale antico bastir
significa «tessere» ed i lavori di edificazione e costruzione hanno
dunque alla base il concetto di ‘connettere’: nel vocabolario del-
l’edilizia il verbo è stato impiegato originariamente per designa-
re i lavori di fortificazione (si pensi all’italiano ant. bastia, bastio-
ne ed alle analoghe forme ispanoromanze e francesi); ancora in
epoca franca, molti ripari fortificati erano composti da recinti
intrecciati e l’uso della pietra per queste opere è piú tardo (IX
sec.). Una tecnica elementare è dunque il presupposto di una
serie imprevedibile di sviluppi.
Una storia di sofferenze ci viene narrata dal tardo latino tripalium.
Originariamente esso era lo strumento entro il quale erano costret-
ti gli animali piú vivaci per procedere alla ferratura, conservato
inalterato sino a poco tempo fa nella Sardegna rustica. La ferratura
costava fatica e non sempre era bene accetta dagli animali: sul
modello del rurale tripalium venne costruito uno strumento di tortura,
definito allo stesso modo e che ebbe una sgradevole fortuna nel
mondo tardo antico, dato che il nome venne calcato nel greco tar-
do tripav s salon (IV sec. d.C.). Nei Glossari tardi (CGl 5, 624) si
dice che il trepalio (…) est locus in quo rei verberantur, il luogo nel
quale i condannati venivano percossi, ed il Concilio di Auxerre (a.
582) prescriveva che al prete ed al diacono era proibito stare ad
trepalium, ubi rei torquentur. La parola, nel suo senso originale, è
conservata nel francese travail, ma probabilmente già in età tardo
antica venne creato un verbo trípaliåre con il significato di tormen-
tare. Non è necessaria troppa fantasia per comprendere come si
possa essere passati da un senso di ‘tormento’ ad uno di ‘fatica,
sforzo’, entrambe attestati nel galloromanzo. Per capire invece il
concetto di ‘lavoro’, oggi dominante nell’area francese, è necessa-
rio cogliere quella che era in età tardo antica ed alto medievale la
L’etimologia come processo di indagine culturale 93

visione del lavoro. Ebbene, il lavoro non era dignità ma abbruttimento,


non nobilitazione delle energie costruttive dell’individuo bensí con-
danna ed espiazione; su questo punto concordavano, pur parten-
do da posizioni ideologiche molto diverse, sia la Chiesa Cristiana
sia le élites dominanti germaniche. Si dimentica forse con troppa
facilità che il celebre motto benedettino ora et labora era concepito
come unione di preghiera e di sofferenza espiatrice. Il lavoro è
dunque ‘fatica’ e ‘tormento’. Ma non solo il lavoro: in quell’epoca
in cui tutto ciò che era esterno allo spazio dell’insediamento e del
campo coltivato era pericoloso ed inquietante, tormento è lo stes-
so viaggiare (agn. traviler «viaggiare») una preoccupazione che piú
non si coglie nel prestito inglese travel.
Potremmo, senza eccessiva pena, moltiplicare gli esempi di
spiegazioni fattuali di etimi. Aiace Telamonio, il poderoso eroe
omerico, reggeva uno scudo immenso, uno scudo particolare si-
mile ad una torre (sav k o" hj u ? t e puv r gon), che è stato riconosciu-
to nelle raffigurazioni micenee («scudo a torre»): fatto di pelle
bovina, era davvero grande e ricopriva tutto il corpo del guerrie-
ro. L’etimo di sav k o" è facilmente individuabile tramite la com-
parazione con l’antico indiano tvacas- «spoglia animale, vello,
pelle» e l’ittito tuekka π «cadavere»: esso ribadisce la natura del
materiale struttivo dell’arma, ossia la pelle conciata.
L’archeologia e la storia delle cose possono esserci di molta
utilità nel prendere decisioni. Brevemente illustro un caso inte-
ressante e non ancora del tutto chiaro, quello dei nomi del caval-
lo in Egitto e Nubia nell’antichità. Nell’Egitto il cavallo fa la sua
piena comparsa con gli Hyksos: i Re Pastori si impadronirono
dell’Egitto sfruttando proprio le possibilità belliche dell’animale
aggiogato al cocchio da guerra (XVII sec. a.C.). Non si può esclu-
dere che l’animale potesse esser noto anche prima tramite il com-
mercio con il Vicino Oriente e con la Nubia – dove probabilmen-
te era endemica una razza particolare di cavalli –, ma la piena
conoscenza e l’uso del cavallo è appunto databile alla XVI-XVII
dinastia. Considerata la provenienza degli Hyksos, non stupisce
che la designazione egiziana piú antica sia ssm.t, un nome che è
94 Franco Crevatin

connesso con l’ebraico susim, forse esso stesso prestito 46 . Nel corso
della XVIII-XIX dinastia entrarono in uso nuovi termini, alcuni
semplici neoformazioni egiziane, altri prestiti ancora da lingue
semitiche (jbr, cfr. ebr. ’ab•r «possente, valoroso», detto di stallo-
ni) o da lingue non identificabili (gw 47). Una delle neoformazioni
egiziane piú comuni è Htr, letter. l’«aggiogato», unico termine per
indicare il cavallo che si conserva in copto (xto): la voce egizia-
na è entrata anticamente nella lingua dei Blemmii/Beja, gente
che occupava la fascia orientale del deserto tra Egitto e Nubia,
nella forma hataj, ma non è riuscita ad affermarsi nel Nubiano
né, verosimilmente, nel meroitico. Ciò probabilmente dipende dal
fatto che la Nubia ospitava da epoche piuttosto antiche una raz-
za encorica di tali animali: nel nubiano la voce che ci interessa è
murti 48 , nubiano ant. murt, parola che ritroviamo in alcune lin-
gue del Kordofan (Tira E⁄ - mrta) e del Sudan meridionale (Kunjara
murta, Bagirmi morte). Non pare dubbio che tale diffusione vada
vista nella prospettiva del commercio dei cavalli Nubiani.
La storia del cavallo attende di essere meglio definita nei suoi
particolari, ma per certo quello che abbiamo potuto per ora affer-
mare sarebbe stato irragiungibile senza l’interazione tra etimolo-
gia e archeologia/storia della referenza.
Talvolta l’indicazione etimologica potrà sembrare storicamente
ridondante, ma cionondimeno resta utile. Non abbiamo bisogno
dell’archeologia per capire che le genti dell’Italia antica erano da
millenni dedite all’agricoltura e dunque avevano sviluppato l’op-
portuno strumentario. Il latino falx, diminuitivo falcula, pare a tutta
prima voce isolata, tuttavia l’etimologo potrebbe trovare qualche
conforto49 dalla voce glossografica daculum «falce» (CGl 1, 84, 91),
46
Di origine ultima indoeuropea (ind. asæ v a-)? Genti arie erano, come si è detto,
presenti nel Vicino Oriente.
47
Se la pronuncia della parola è, come parrebbe doversi desumere dalla grafia
sillabica, *gawa è inutile speculare su eventuali connessioni con la parola indoeuropea
*ek’wo-.
48
Solo in epoche alquanto recenti si è affermato l’arabismo faras.
49
L’uso del condizionale è d’obbligo perché il raffronto non può dirsi al di sopra
di ogni sospetto.
L’etimologia come processo di indagine culturale 95

parola che si continua nella Francia meridionale (daille, ecc.) e che


senza difficoltà può essere ricondotta ad un *dalculu-, e ciò senza
far ricorso al siceliota zav g klh (= drev p anon) che pare formalmente
piú lontano. Non ha molta importanza precisare qui se daculum sia
‘ligure’ o altro.
Se è dunque vero che l’assunto basico è indiscutibile, resta
purtuttavia opportuno contenere nei limiti della cautela le nostre
aspettative: la storia della cultura materiale talora ci parla con
chiarezza, come abbiamo visto, talora balbetta, talaltra ancora
rimane ostinatamente muta. Vediamo come ciò possa avvenire.
Poniamo che noi si voglia ricostruire l’arredamento domestico
dei Romani sulla base delle parole latine conservate nei dialetti
italiani settentrionali: ne emergerebbe un quadro che, a posteriori
ossia sulla base di quello che realmente sappiamo, sarebbe uno
stupefacente miscuglio di miseria e nobiltà. Bene, i Romani dor-
mivano in un letto (lectus), sedevano su imponenti sedie con braccioli
e schienale, perlopiú riservate a donne ed a persone di rango
(cathë dra > *cathr Ë da, ital. sett. ca(d)rega) o su panche che erano
anche poggiapiedi (scamnum): per contro mangiavano su povere
assi (tabula), servendosi di una scomoda brocca a collo lungo per
bere (guttus). Ovvio: il ‘bicchiere’ l’avrebbero conosciuto molto
piú tardi. Si servivano di una raffinata posata come il cochlearius
(‘cucchiaio’), un cucchiaino per estrarre e mangiare le lumache,
ma la utilizzavano assolutamente fuori di luogo e comunque si
servivano delle pietanze con le mani. È comunque certo che ave-
vano subito un pesante e a mala pena mascherato influsso in
cucina da parte della cultura greca, perché usavano recipienti
come la t ë gula (‘teglia’), pat ï na (it. sett. piàdina), il t ë g ä num (‘tega-
me’) ed altri ancora il cui nome tradisce l’origine ellenica. Di loro
avevano inventato un recipiente per friggere, la frixoria (ital. sett.
‘farsora’ e sim.) ed uno speciale recipìente che pare fosse desti-
nato a conservare i grassi (‘pignatta’) 50 .

50
Se la voce deriva da ping(u)iata (olla).
96 Franco Crevatin

Il gioco potrebbe continuare, ma credo che sia chiaro il valore


cautelativo che gli attribuisco. Oltre tutto, potremmo pure am-
mettere che nei casi citati la specie è andata perduta per succes-
sive modificazioni, ma il genere si è conservato: difatti se aves-
simo fatto ricorso, a seconda del caso, a designazioni del tipo
«un recipente» e sim. non saremmo stati troppo lontani dalla
realtà. Ma questa sarebbe opinione ancora venata di ottimismo:
abbiamo visto sopra che il nome dell’«elefante» gode di una va-
sta comparazione all’interno delle lingue slave senza che per questo
si possa pensare che l’animale fosse davvero noto. Prima di pro-
cedere nell’argomentazione, conviene prender atto di un fatto
alquanto semplice, ossia che l’evoluzione lessicale e quella cultu-
rale non sono omologhe, non hanno identici tassi di sviluppo:
questi ultimi possono coincidere solo nel caso del prestito.
Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, ciò è vero solo per i
prestiti definiti di necessità, parole cioè che entrano nel lessi-
co di una lingua assieme ad un fatto culturale prima scono-
sciuto o molto diverso da quelli preesistenti. Tutti gli studiosi
concordano nel riconoscere nel greco aj s av m inqo" «vasca da
bagno» un prestito culturale da una lingua pregreca dell’Egeo
ed in effetti vasche da bagno sono state trovate nella cultura
minoica cretese. Il marzapane, come nome di una pasta dolce
fatta di mandorle, è stato cosí definito perché era importato
in particolari vasi di porcellana (arabo marãabån, it. antico [XIV
sec.] massapanus) che hanno preso il nome dalla città indiana
di Martaban dove venivano prodotti. Ed ancora: un particola-
re tipo di cuoio veniva detto nell’italiano ant. mascaduçus [XIV
sec.], dal nome del porto arabo (Oman) di Masqaã , specializ-
zato anche nell’esportazione di pellami. Abbiamo però visto
sopra che l’importazione dell’aratro pesante di tipo europeo
centro settentrionale non implicò che in poche regioni roman-
ze l’acquisizione del prestito linguistico langobardo: un
grammaticalizzato plovum è attestato nell’Italia settentrionale
solo marginalmente nell’area lombarda, trentina, istriana
settentrionasle ed emiliano romagnola (AIS 1434). Insomma,
non è formulabile alcuna regola che possa generare aspettati-
ve certe: possiamo riconoscere un prestito di necessità ma non
prevederne l’esistenza. Prestiti di necessità e prestiti dovuti
L’etimologia come processo di indagine culturale 97

alla pressione di un modello culturale dominante sono di fatto


indistinguibili tra loro e convivono in ogni lingua: di volta in
volta dobbiamo usare altri saperi o il semplice buon senso. In
alcuni dialetti sloveni dell’Istria settentrionale esiste, tra gli
altri, sia la voce doplír51 «candelabro» sia kadína «catena», desunti
dai dialetti veneti circostanti, ma solo il primo, legato com’è
all’arredamento ecclesiastico ed – a suo tempo – alto borghe-
se, può esser considerato prestito di necessità, non certo il
secondo.

C’è un ulteriore elemento che risulta evidente dal nostro exemplum


fictum, ossia il fatto che il dato offertoci dalla lingua, anche quando
è reale, è il prodotto di un’evoluzione semantica piú o meno
accentuata per cui deve essere esso stesso interpretato prima di
poter esser produttivamente confrontato con la storia del referente
e ciò è fattibile con certezza solo se disponiamo di documenta-
zione diacronica: l’alternativa è il ricorso all’ipotesi (se…allora…),
sia pure confortata dall’onomasiologia52, dall’antropologia (v. cap.
7) o dal semplice buon senso euristico. Per introdurre il sèguito
dell’argomentazione possiamo avvalerci di un ulteriore esempio,
quello della terminologia copta del ‘soldato, guerriero’.
I termini a noi noti sono fondamentalmente53 matoi e lemhh¥e
(akh. anche lemh se); l’akhminico2 qala¥ire, voce storicamente
molto interessante, è a parte: corrisponde all’erodoteo Kalav s irie"
(2, 164; = mav c imoi «guerrieri»), documentato nel tardo egiziano
(ad es. demotico glSr), ma il suo significato copto mostra che la
continuità semantica è venuta allentandosi. Può indicare infatti
l’eroe dalla forza sovrumana o il mitico gigante. lemhh¥e inve-
ce è parola neutra: nel greco d’Egitto è stata recepita come lemeisa
(P. HermLandl 18, 271; P. Tebt 1, 122, 1.1.1. r. 1; ecc.) ed è nome di
professione. L’etimo è evidente ed altrettanto curioso, poiché si

51
Si noterà la conservazione del nesso -pl-, indizio di una certa antichità nella
recezione.
52
L’onomasiologia è quella pratica empirica che si occupa in generale dei diversi
modi nei quali possono essere espressi linguisticamente i referenti.
53
Tralascio evidenti neoformazioni.
98 Franco Crevatin

tratta del tradizionale ed antico mr-mSa «generale», letter. ‘prepo-


sto all’esercito’: è curioso che il generale sia stato ridotto al sem-
plice grado di fantaccino. matoi è il risultato di una storia com-
plessa. Anch’esso è documentato nel greco d’Egitto, dove è usato
abbastanza frequentemente come nome proprio (Matoiü ) : solo in
un caso, almeno a mia conoscenza, si può supporre qualche tra-
sparenza semantica, ossia nel P. Lond 4 v. 14, dove compare un
Matoiü stratiwv t ou. L’etimo ultimo di questa designazione è
l’etnico mDAy, nome di una gente Nubiana che sin da epoche molto
antiche aveva fornito truppe ausiliarie all’esercito Faraonico (cfr.
Beja bija «nomade»): nell’epoca ramesside la parola veniva rego-
larmente usata per indicare le forze armate di polizia all’interno
dell’Egitto. Tuttavia la forma fonetica della parola ci fa chiaramente
intendere che la continuità tra egiziano classico e copto non è
completa e che c’è stato un incrocio lessicale, ossia l’immissione
di altro lessema su quello piú antico; l’incrocio è avvenuto con
Mdy «abitante della Media, soldato dell’esercito persiano». Nella
coscienza storica degli Egiziani si erano impresse fortemente le
occupazioni dell’Egitto assira e poi persiana, l’orrore di un mon-
do tradizionale stravolto, occasionalmente la profanazione dei
templi piú sacri e l’asportazione in Persia delle statue divine del
culto. Il Persiano sembrava imbattibile ed il ‘Medo’, il soldato
del suo esercito, poté essere preso come esempio tipico del sol-
dato. La gloria dell’Egitto imperiale era davvero lontana e pochissimo
resta nel copto dell’antica e ricca terminologia militare: soprav-
vive solo T(j)z.w «comandante», copto jo eis, ormai nel senso
generico di «signore» 54 .
Gli esempi che abbiamo addotto mostrano che le preoccupa-
zioni sopra espresse sono tanto piú acute quando tramite l’eti-
mologia vogliamo ricostruire fatti che riguardano un passato
raggiungibile solo tramite la comparazione linguistica, quanto
appunto si è riproposta una parte consistente dell’indoeuropeistica

54
Non è forse casuale che nel demotico fosse penetrato, accanto ai tipi encorici
kalasiri e matoi, il greco stratiwv t h" (dem. zrtjtz).
L’etimologia come processo di indagine culturale 99

e, sull’esempio da essa offerto, altre filologie storico-comparati-


ve. Dobbiamo dire che il fine è in se stesso insensato? No, natu-
ralmente: se la comparazione etimologica indizia l’esistenza di
referenti concettuali o concreti è doveroso, oltre che fatto di buon
senso, supporre la loro esistenza in un passato piú o meno remo-
to; se non lo facessimo, negheremmo il carattere fattuale dell’etimo.
Dunque la comparazione di teonimi come greco Zeuv " (pathv r ),
ant. indiano Dyau" (pit†), latino Iuppiter [genitivo (D)iovis], messapico
Zis, ed altri ancora, permette di ricostruire una forma *Dij Ÿ us,
connessa con la radice verbale *dei- «splendere» e con il sostan-
tivo derivato *deiwos «divinità» (indiano deva", lat. deus, ecc.). La
conclusione si impone: molte genti di lingua e cultura indoeuropea
credevano in una divinità del cielo splendente alla quale attribu-
ivano l’epiteto di ‘padre’: per antonomasia la divinità era il «ce-
leste», in quanto tale contrapposto all’uomo che è il «terrestre»
(tale è l’etimo di latino hom ø , dell’irlandese duine e di altre lin-
gue ancora) e «mortale» (greco brotov " , indiano marta", armeno
mard, ecc.). Analogamente la vasta comparazione istituibile per il
vocabolario dell’allevamento del bestiame e la corrispettiva po-
vertà del ricostruibile lessico agricolo ha portato all’ipotesi che
le genti indoeuropee praticassero un mixed farming nel quale l’al-
levamento era di gran lunga il fattore principale di ordine econo-
mico e di prestigio sociale; siccome l’allevamento implica spostamenti
da pascoli estivi a pascoli invernali si è comunemente ammesso
che le genti in questione praticassero il nomadismo.
Tratteremo in un capitolo successivo alcuni dei problemi con-
nessi alla metodologia della ricostruzione, per cui qui ci limitia-
mo a poche osservazioni connesse alle preoccupazioni cautelative
sopra avanzate: poche, perché di fatto gli esempi scelti non rin-
vengono che marginalmente a fatti archeologici. Il primo proble-
ma è la generalizzabilità del fatto ricostruito: che intendiamo,
infatti, con «molte genti»? Che tutte a suo tempo condividevano,
nel caso in questione, il teonimo e successivamente alcune lo
hanno perduto oppure che talune non lo hanno mai condiviso?
In ogni caso non ci sarebbe nulla di sorprendente, ma non sap-
100 Franco Crevatin

piamo scegliere la risposta giusta. Inoltre se *DijŸus, il Cielo diurno,


è «padre» possiamo supporre che la Terra sia «madre»? In ‘molte
culture’ (e ritorniamo a questa imbarazzante dizione) religiose è
esattamente cosí (in quella greca e indiana, per esempio), ma il
fatto non è sostenuto da equazioni comparabili per ampiezza e
spessore ideologico a quella che riguarda il Cielo. Da ultimo: la
comparazione indizierebbe un dio uranio partecipe del rapporto
col mondo e con i suoi fedeli (alla stregua dello Zeus greco, per
intenderci) o è un deus otiosus, rispettato ma scialbo come il Cielo
vedico? Come si vede, le semplici e legittime domande che ci
siamo posti toccano in realtà elementi davvero fondamentali che
la comparazione etimologica in se stessa non può risolvere.
Un’ulteriore osservazione sulla povertà del vocabolario agri-
colo e la netta prevalenza ideologica dell’allevamento. Sia come
sia, il greco, le lingue slave, l’irlandese, le lingue germaniche ed
il lituano consentono di ricostruire una radice verbale *ar£ - «ara-
re»55 la quale ci mette di fronte ad una constatazione ineludibile:
l’aratura è tecnica agricola avanzata, con notevoli implicazioni,
che supera di molto l’orticoltura e l’agricoltura della zappa. È
francamente difficile pensare che un’attività come quella dell’aratura
possa esser pensata come ‘marginale’ e dunque l’etimologia ci
mette di fronte a problemi che essa stessa non può lumeggiare.
Di fatto, tale situazione è comune ogniqualvolta da un piano
meramente referenziale (un etimo: una ‘cosa’) si passa al livello
esegetico: la referenza può offrirci una motivazione del perché
una parola è stata formata con quel particolare materiale lessicale,
può dirci se un referente è o non è attestabile in un determinato
orizzonte culturale o cronologico, ma è impotente davanti alle
scelte di natura culturale.

55
Il sanscrito conosce il concetto ma ha altri tipi lessicali.
L’etimologia come processo di indagine culturale 101

IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA

L’antropologia studia gli esseri umani, anche se talora non è


facile precisare il suo ambito specifico rispetto alle altre discipli-
ne umanistiche: personalmente preferisco credere che essa studi
i diversi modi nei quali è possibile, con pari dignità, essere Umani.
In questo è sorprendentemente vicina alla linguistica che vede
nelle lingue naturali il suo principale oggetto di interesse. Ambe-
due le discipline studiano dunque la variabilità. Se dovessi rias-
sumere il contributo che l’antropologia può dare all’etimologia,
direi che essa ci aiuta a capire la dimensione del lessico che ha
dei referenti solo apparentemente oggettivi – ed è una dimensio-
ne considerevole. Si considerino i seguenti casi:
1. Questa maglia è gialla.
2. Il sabato è il piú bel giorno della settimana.
3. Giorgio è un galantuomo.
4. Il sommaco è un arbusto.
5. Il re emette un editto.
6. Passami il coltello.
1-5 hanno una realtà che dipende da schemi culturali. Il gial-
lo è riferito ad una tassonomia dei colori, arbusto è una forma di
vita ed ambedue derivano da un sapere etnoscientifico non
generalizzabile. Sabato rinviene ad un computo calendariale de-
terminato, galantuomo a norme sociali e re ad assetti politici:
tutte e tre le parole presuppongono dei costrutti culturali entro
i quali diventano significative. Solo coltello (6) potrebbe esser
considerato una realtà oggettiva; e sia pure, ma val la pena di
non dimenticare la capacità dell’Uomo di attribuire ‘significati’,
rapporti ed ordine alle cose materiali che lo circondano e che
egli produce, un ordine altresí dal quale gli esseri umani in
quanto soggetti culturali vengono ordinati. A priori noi non
sappiamo quanta parte della cultura materiale sia di volta in
volta portatrice di significati e connessioni che includono e superano
la stessa, pur importante, materialità dell’oggetto. Vediamo qualche
caso.
102 Franco Crevatin

Nel circuito di scambio cerimoniale papua detto kula le con-


chiglie, opportunamente lavorate come parte di bracciali o di
collane, hanno una grande importanza, per cui esse sono classi-
ficate con estrema cura: le conchiglie per bracciale (mwari) si
suddividono in 5 categorie di pregio ed 1 di pregio minore e lo
stesso avviene per quelle per collana (vaiguwa). La distinzione
riguarda non tanto il tipo quanto la grandezza, il colore, numero
e tipo di altre conchiglie ad essa unite come ulteriore pendaglio:
singoli taxa delle classi superiori sono inoltre distinti per nome
proprio e per storia, ossia quella conchiglia, già da epoca antica
parte del kula, ha una storia ed un nome a tutti noto. Le due
classi superiori del genere mwari sono dette mwarikau e mwaributu:
-kau vuol dire propriamente «cecità» ed essendo quest’ultima cul-
turalmente associata alla tarda età, indica la grande antichità della
conchiglia stessa, la conchiglia dell’epoca degli antenati. –butu
indica invece la «fama», il primo passo necessario per acquistare
un nome proprio. È pertanto impensabile parlare semplicemente
di una ‘conchiglia’.

Nel greco esisteva l’antica parola indeuropea per designare la


pecora, o[ i > " (lat. ovis), ma essa è stata largamente soppiantata da
prov b aton: l’etimo di quest’ultima voce è lo stesso del verbo baiv n w
«andare», per cui è necessario concludere che la voce indicava
l’animale d’allevamento come il «bene mobile» per eccellenza (si
veda Odissea 2, 75 keimhv l iav te prov b asiv n te «i tesori ed i beni
mobili»); la stessa metafora è nota anche in altre lingue indoeuropee
e dunque conserva sicuramente un tratto ideologico molto anti-
co. In altre parole, ciò che noi volentieri considereremmo come
una voce per indicare un referente biologico, è invece legato a
concetti di natura economica.

L’antropologia – soprattutto quella linguistica – ci abitua da


una parte a ragionare con classificazioni e con tratti ideologici,
dall’altra a diffidare per principio di tutto quanto è in apparenza
semplice, in quanto tratti non ovvii possono esser presenti in
L’etimologia come processo di indagine culturale 103

quasi ciascun elemento del sapere linguistico. Eccone un altro


esempio.
Gli Egiziani antichi ebbero fama di aver fondato la geometria
(ad es. Herodot. 2, 109; Diod. Syc. 1, 69); i loro fini sarebbero stati
eminentemente pratici, ossia rimisurare i campi dopo l’inondazio-
ne, e da tale empiria sarebbero poi passati alla riflessione teoretica.
I papiri matematici e geometrici antichi (P. Rhind, P. Mosca) ci mettono
effettivamente di fronte ad argute soluzioni pratiche di problemi,
anche se non a teoresi, e purtuttavia dobbiamo riconoscere che
oltre a procedure induttive debbono esser esistite anche abitudini
deduttive basate su principi generali. Comunque sia, gli Egiziani
dovettero gradualmente costituire una terminologia che indicasse
le figure piane e solide e le loro dimensioni: i testi specialistici in
effetti usano coerentemente derivati del verbo Awj «esser lungo»
per indicare la «lunghezza», del verbo wsx per la «larghezza» e il
nome qAw per l’«altezza». Di fatto nella storia della lingua egiziana
Awj indica spesso ambedue i concetti, lunghezza e larghezza, come
nel derivato copto wou. Nell’egiziano tolemaico qAw può valere
anche «lunghezza», ed occasionalmente lo stesso significato può
essere assunto dalla parola mDt che usualmente vale «profondità».
La situazione pare molto confusa, ma tutto sommato non è diffi-
cile ritrovare un ordine cognitivo. La coincidenza di ‘altezza’ e
‘profondità’ dipende dalla collocazione ideale del parlante: se sia-
mo in barca, sotto di noi c’è l’«alto» mare, se siamo su un prato
allora possiamo trovarci sotto un «alto» albero. Comprensibile è
anche l’equivalenza di ‘lunghezza’ e di ‘larghezza’: evidentemente
nella lingua egiziana la prima implica una referenza lineare, men-
tre la seconda un’ampiezza spaziale: quando si volesse indicare la
linearità, pur nel senso della nostra ‘larghezza’, i due termini da
noi citati potevano esser scambiati. Resta un ultimo fatto, ossia il
ribaltamento dell’asse, per cui si è data la possibilità di far coin-
cidere la distanza verso l’alto con la distanza verso il fondo. Per
tutti questi fatti è possibile trovare conforti cognitivi in altre lin-
gue e culture: nel bawlé (Costa d’Avorio), ad esempio, NŸ g lo‹ vale
sia «in alto» sia «a nord».
104 Franco Crevatin

Il contributo dell’antropologia è ancora piú evidente quando


si affrontino concetti di ordine culturale specifico, quando cioè la
referenza è data da un costrutto culturale, confrontabile ma non
generalizzabile. Il primo caso che qui tratteremo è il difficile concetto
di ‘anima’ degli Egiziani antichi.
Gli usi che facciamo della parola ‘anima’ e molte delle aspet-
tative che essa suscita in noi sono largamente condizionati dal-
la filosofia platonica ed aristotelica: dal platonismo dipendono
sia la tradizione Cristiana che la filosofia religiosa dell’estremo
paganesimo antico. Per i Copti la questione era chiara e quindi
nel loro vocabolario religioso mutuarono per il concetto di ani-
ma la parola greca y u c h v 56 . Indubitabilmente la forte con-
trapposizione con la tradizione autoctona, contrapposizione
ideologica che portò tra l’altro a considerare opera diabolica gli
stessi geroglifici, determinò sia censure che mutamenti semantici
in senso peggiorativo di parole piú antiche. Cosí ad esempio i4
«demone, divinità pagana» non era piú lo «spirito trasfigurato
di un defunto» (< Ax, dem. ixj «spirito; spettro»), ma qualcosa di
terrificante e di negativo 57 ; n oun era non solo l’«abisso», le
profondità della terra o del mare, ma anche l’Inferno; amNte è
l’aldilà soprattutto con valenze negative 58 ; ecc. Per contro, non
è stata abbandonata l’antica parola per «dio» (noute59 ), e neppure
la designazione dell’infrazione alla norma religiosa, il peccato
(nobe, dem. nb.t «sacrilegio, infrazione religiosa»). In un caso
possiamo dirci sicuri dell’intervento di una censura ideologica,

56
Di fatto, potremmo ammettere che il mutuo non sia stato determinato dall’am-
biente Cristiano, bensí dalla composita cultura religiosa e filosofica, di espressio-
ne linguistica greca, propria dell’Egitto tolemaico e romano, nella quale si radicò
non solo il Cristianesimo, ma anche lo gnosticismo, l’ermetismo e la teurgia
neoplatonica. Quanto qui assunto rimarrebbe peraltro inalterato.
57
Una sfumatura funeraria si conserva però in varper ix «stregone, negromante»,
tumbwv r uco".
58
La parola significa Occidente; Plutarco (de Is. et Osir. 74) la conosce nella forma
aj m ev n qh" e riporta l’interpretazione paretimologica toŸ n lambav n onta kaiŸ div d onta,
di fonte ultima egiziana (amo ni «prendere» + + «dare»).
59
Il plurale enthr resta solidamente documentato, anche in nomi propri.
L’etimologia come processo di indagine culturale 105

ossia nel caso di *bai (< bA, nome di una delle componenti della
persona umana; v. oltre). La voce, arrivata ad Horapollo (Hierogl.
I, 7; VI sec. d.C.), era parte importante del vocabolario della ma-
gia greco-egiziana, dove è attestata in molti epiteti (ad es. bainfnoun
PGM XIII, 809 «Anima dell’Abisso» < bA n pA Nwn; baincwwc «Anima
delle Tenebre» < bA n kkw; etc.): troppo connotata per essere Cri-
stianizzata, la parola non sopravvisse al crollo ed alla persecu-
zione dell’antico paganesimo. Neppure per il concetto di ‘spiri-
to’, concetto che conservava molti dei presupposti dell’antropo-
logia israelitica, i Copti utilizzarono parole legate all’antica reli-
gione del paese 60 .
Sia come sia, i Cristiani d’Egitto percepirono benissimo la distanza
che intercorreva tra la concezione antica delle componenti della
persona umana e quella Cristiana. Le componenti piú frequente-
mente ricordate dai testi sono il kA ed il bA e per capire cosa
fossero ricorreremo ad un’etimologia sincronica: prima però è
necessario precisare che, come molte altre genti, gli Egiziani non
avevano una visione unitaria della persona umana ed inoltre tra
componente invisibile della persona (meglio evitare l’ambigua
dizione di ‘anima’) e componente visibile (il corpo) c’è continuità
e non contrapposizione. Esistono, per cosí dire, gradi diversi di
materialità e tutti altrettanto importanti, non differenziazione op-
positiva tra ‘spirito’ e ‘materia’. L’assenza di una concezione uni-
taria implica il fatto che le diverse componenti coesistono nella
stessa persona (l’ombra, il cuore, il kA) ma sono indipendenti l’una
dall’altra: esse vengono tenute assieme non solo dalla fisicità
dell’individuo ma soprattutto dal «nome»; quest’ultimo, che è la
forma fonica dell’intima essenza dell’individuo, lega assieme le
parti. L’indipendenza delle componenti si manifesta nel fatto che
ciascuna di esse è pensata come una realtà senziente, alla quale
l’individuo può rivolgere preghiere o esortazioni.

60
Nel copto esiste un’altra parola che può talora esser tradotta con «anima»,
ossia manthu, propriamente “la sede del respiro”. In se stessa la parola ricorda
la comune espressione antica circa il «soffio della vita» (TAw n anx), ma forse è piú
verosimile ammettere che la voce copta riveli influssi religiosi ebraici.
106 Franco Crevatin

Cosa è il kA? Ebbene, esso è la forza vitale della persona, che


nasce (in qualche nobile caso, viene creata dal dio) assieme al-
l’individuo: cosí come la persona nasce da un padre fisiologico,
il kA nasce dal kA del padre. Dopo la morte, il kA ha bisogno di
offerte alimentari per sopravvivere: da parte sua, il defunto per
sopravvivere nell’aldilà ha bisogno di riunirsi al suo kA, senza il
quale non potrebbe partecipare del mondo dell’oltretomba.
Il defunto si manifesta nell’aldilà spesso come un’entità con
corpo di rapace e testa umana, il bA : quando il defunto visita il
corpo mummificato o si manifesta nel nostro mondo è pressoché
sempre in tale forma 61 .
Due etimi sincronici mostrano il valore semantico centrale dei
termini kA e bA, etimi che possiamo esprimere come una propor-
zione:
kA:kA.w «nutrimento»62 =bA:bA.w «manifestazione terrifica di una potenza sovrumana»
Per capire appieno il rapporto aggiungeremo che gli Egiziani
consideravano i morti qualcosa di piú affine agli dei che agli
esseri umani: abbiamo difatti attestazioni della parola nTr.w «dei»
impiegata nel senso di «defunti».
Come si vede, il concorso di etimologia ed antropologia per-
mette in questo caso una lettura chiara e prospetticamente cor-
retta dei fatti culturali.
Sempre in tema di prospettiva, segnalo un caso decisamente
interessante che è stato sempre frainteso, ossia come si debba
intendere la parola bawlé waŸ w E› . Tutti hanno tradotto la parola
con «anima» 63 , oltreché – ed è resa corretta – «ombra; riflesso».
I missionari hanno utilizzato la voce anche per tradurre lo Spi-
rito Santo cristiano. Teniamo però conto dei seguenti fatti:
1. il waŸ w E› non è un’entità senziente;

61
Probabilmente anticamente l’idea era che i defunti si manifestassero come rapaci
notturni, gufo o civetta.
62
Che si tratti di nutrimento in senso letterale è provato dall’espressione TpH.t n
kA.w «esofago», letter. ‘cavità del nutrimento’.
63
A dire il vero, la parola bawlé indica anche una farfalla, una curiosa coinciden-
za con il greco yuchv , che vale appunto sia anima che farfalla.
L’etimologia come processo di indagine culturale 107

2. esso può esser divorato magicamente dagli stregoni, ed in


tal caso l’individuo si indebolisce e si ammala sino a ridursi ad
una larva e di conseguenza alla morte;
3. il waŸ w E› non va nell’aldilà, il Villaggio della Verità nel quale
vivono gli antenati.
Ora, la situazione pare davvero curiosa: ammettendo pure – il
che mi pare proprio corrispondere al vero – che il waŸ w E› sia,
come il kA egiziano, un’«‘anima’ - vita», e stante il fatto che i
Bawlé credono nella sopravvivenza oltre la morte, cos’è dunque
che va nell’aldilà? Ogni Bawlé risponderebbe prontamente «Io!»,
accrescendo il nostro imbarazzo e facendoci sospettare la presen-
za di una certa irrazionalità nella credenza. Non è cosí, perché,
come ho detto, tutto si riduce ad una questione di prospettiva. I
Bawlé hanno una credenza che è speculare rispetto alla nostra –
intendo quella propria del Cristianesimo –, per cui l’aldilà è il
punto di partenza, non il punto di arrivo. La realtà è quella del
Villaggio della Verità, ed è da lí che l’individuo si origina: lí
conserva la sua reale famiglia, i suoi affetti, la sua reale fisicità, il
suo vero carattere. Dal Villaggio di tanto in tanto può scegliere di
ritornare, reincarnandosi, nel nostro mondo, lasciando provviso-
riamente quanto ha di piú caro. Per vivere qui ha bisogno di un
waŸ w E› , ma di esso non ha certo bisogno per ritornare ‘a casa’.

Soffermiamoci su un ulteriore caso concettualmente affine, quello


del greco qu– m ov " , per il quale l’antropologia linguistica ci fornisce
un ragionevole chiarimento. Il significato della parola sembra
alquanto complesso, perché sin dall’epica omerica ci troviamo di
fronte a valori come «principio vitale», «animo» in quanto sede
delle passioni e del desiderio, e quindi il «coraggio», l’«ardore»,
l’«ira», la «brama». La complessità, tuttavia, è piú apparente che
reale, poiché in effetti nella maggior parte dei contesti qu– m ov "
indica la sede e l’empito della passione e del desiderio che è
volontà: la distinzione omerica kataŸ frev n a kaiŸ kataŸ qumov n
«secondo il diaframma e secondo il thymós» rinvia esplicitamente
alla distinzione tra razionalità (localizzata anche nel diaframma)
108 Franco Crevatin

ed emozione. Di conseguenza i passi nei quali la traduzione piú


appropriata parrebbe essere «spirito vitale» non vanno letti nella
prospettiva di una dimensione, per cosí dire, animica, di una
componente della persona, ma solo di una capacità degli esseri
umani di volere e desiderare che, ultima, abbandona il morente.
L’etimo della parola è stato ben presto intravisto: qu– m ov " è la stes-
sa parola del sanscrito dhümá" «fumo, vapore», del latino f¥mus,
dello slavo antico dymú ed all’interno della stessa lingua greca
c’è il verbo qumiav w che vuol dire «produrre fumo» e che presup-
pone un sostantivo *qumov " . Eppure gli etimologisti si sono mo-
strati dubbiosi, poiché la distanza semantica tra i significati della
voce greca e quello di ‘fumo, vapore’ è parsa incolmabile, nono-
stante la perfetta corrispondenza formale.
Ebbene, il greco qu– m ov " indica uno stato interiore, uno stato di
forte passione, e contemporaneamente la sede di tale stato, alme-
no in parte in alternativa con il cuore. Una delle risultanze piú
semplici della semantica antropologica su base cognitiva è che
per esprimere molti stati interiori vien fatto ricorso ad un proce-
dimento metaforico per cui il corpo umano viene considerato
contenitore, nel quale avvengono mutamenti, oppure un oggetto
fisicamente manipolato (“non mi seccare!”, “Mi ha rotto l’anima”
e sim.). I mutamenti indotti hanno come una referenza legata,
caso per caso, alla pressione (“Scoppio dalla gioia”), al riempi-
mento/svuotamento (“Sono pieno d’ansia”, “Traboccava d’ira”), al
calore e probabilmente hanno un corrispettivo fisico reale (pres-
sione sanguigna, senso di calore e sim.). È proprio il calore quel-
lo che qui ci interessa, perché la passione (e la collera) è comu-
nemente associata al calore (fuoco, vampa, bruciare, ardere) ed il
‘fumo’ è ovviamente collegato al calore. Esistono passi omerici
nei quali la collera o la passione sono associate al concetto di
calore (l’ira viene ‘spenta’, Il. 9, 678) ed in qualche caso (Il. 18,
110) avvicinata esplicitamente al fumo. Come si vede, in realtà
non ci sono molti problemi nel sostenere l’etimo tradizionale della
parola: si tratterebbe di una metafora, e per di piú abbastanza
antica. Potremmo addurre paralleli indiani vedici, come ad es.
L’etimologia come processo di indagine culturale 109

RV 10, 83-84, nei quali Manyu, la Collera, è invocata assieme a


tapas, il calore, ed è definita ‘fiammeggiante’, ma non è necessario
pensare a conservazioni ideologiche indoeuropee, poiché proba-
bilmente si tratta di semplici coincidenze tipologiche.

L’antropologia (linguistica) ci mette dunque in guardia dal


considerare i referenti come realtà oggettive, naturali e ci inse-
gna invece che tutto può essere culturalmente iscritto. Entro certi
limiti questo insegnamento non è affatto nuovo, poiché la buona
filologia ne ha sempre tenuto conto; ma ciò che è una buona
prassi – persino alquanto ovvia – quando si trattino temi etimo-
logici inseriti in un sapere documentato e condiviso (l’etimo la-
tino, poniamo, di una parola neolatina) diventa uno strumento
metodologico non altrimenti fungibile nel caso di utilizzo dell’etimo
come procedura ricostruttiva di processi culturali non altrimenti
raggiungibili (l’etimologia indoeuropea, ad esempio). Il caso che
ora tratteremo vuole illustrare appunto tale processo euristico.

Nel 1890 Delbrück scrisse un importante saggio sui rapporti


di parentela nel mondo di rapporti indoeuropeo alla luce delle
designazioni linguistiche ed i risultati ai quali giunse vennero
codificati nel Reallexicon der indogermanischen Altertumskunde di
O. Schrader ed A. Nehring (Berlin 1917-1929): da ultimo, con la
consueta finezza, sono stati ripresi ed approfonditi da E. Benveniste
nel 1969. In estrema sintesi, molti studiosi concordano sul fatto
che le genti di lingua indoeuropea riconoscevano come determinante
la discendenza patrilineare. L’affermazione è in se stessa ambi-
gua, perché è la generalizzazione di una risultanza molto piú
ristretta ed ambigua di quanto non si voglia ammettere, ma ac-
cettiamola pure, almeno come direzione esegetica. Ebbene, la
ricostruzione ha messo in luce le diverse cerchie concentriche
nelle quali l’individuo si riconosceva socialmente: esse erano *dem-
/ *domo- il segmento minimo di lignaggio, *weik- / *woiko- il
segmento di lignaggio, *genti- il lignaggio. Tre di queste cerchie
avevano una figura di riferimento, *potis, dal cui nome desumiamo
110 Franco Crevatin

che detenesse un potere coercitivo reale: ricordiamo l’antico in-


diano dampati-, greco despov t h" e, pur se con formazione diver-
sa, il latino dominus; l’antico indiano visæ p ati-, il lituano vë ‡ πpats.
Forme di responsabilità politica per la *genti- si incontrano solo
dove la parola ha ristretto nel significato la sua ampiezza sociale,
come nel gotico kindins capo di un gruppo di parentela (da un
*gentinos): è un fatto logico, perché un lignaggio ha tale estensio-
ne e profondità che, pur all’interno di una parentela riconosciuta
ed entro certi limiti ricostruibile, non è socialmente pensabile
una sola figura di riferimento al suo interno. Posta in questi ter-
mini, la situazione non è dissimile da quella di molte altre socie-
tà di lignaggi a discendenza unilineare ben conosciute nel mon-
do (ad esempio la società somala). Certo, lo studio dei sistemi di
parentela e loro terminologie ha un rilievo notevole in se stesso,
e purtuttavia nell’antropologo sorgerebbe spontanea un’osserva-
zione, ossia che molto spesso le società basate su lignaggi cono-
scono una limitata delega specificamente politica del potere co-
ercitivo e che ancor piú frequentemente sono politicamente non
centralizzate, acefale. È questo il caso anche delle genti indoeuropee
(e prescindiamo ancora una volta dall’ambiguità dei termini lo-
gici e referenziali dell’assunto)?
Ebbene, la risposta non può che essere positiva, almeno per
quanto possiamo vedere. Partiamo dalla situazione riscontrabile
presso le genti slave: il concorso dell’etnografia, della filologia e
dell’etimologia prova al di là di ogni legittimo dubbio che quan-
to meno a partire dai primi secoli della nostra era la struttura
politica era data sostanzialmente dall’interazione dei diversi pia-
ni organizzati della parentela. Dai segmenti di lignaggio (‘gran-
de famiglia’), fratrie, correlazioni matrimoniali tra lignaggi esogamici
sino al livello della tribú (lignaggio con antenato comune) tutta
la vita sociale si svolgeva nel quadro della discendenza. Il villag-
gio era proiezione di strutture di parentela o di rapporti di vicinato
tra segmenti di lignaggio. La stessa spazialità della tribú era intesa
non come una realtà a se stante, ma come proiezione di linee di
discendenza. Siamo in grado di offrire un significativo esempio.
L’etimologia come processo di indagine culturale 111

Come è noto, nell’antico slavo ecclesiastico la parola mirú aveva


un significato apparentemente complesso: valeva infatti «pace,
concordia, unanimità» ed altresí «l’insieme totale delle persone»,
«mondo». Alla varietà soggiace una norma sociale, la necessità
del consenso totale dei partecipanti – tutti a pieno titolo – alle
assemblee deliberanti dei singoli snodi parentali e sociali (la grande
famiglia, la fratria, il villaggio, ecc.): il consenso pacifico ed unanime
riguarda sempre un universo totale di individui. Il ‘mondo’ è
dunque semplicemente l’insieme totale dei rapporti di un indivi-
duo e non un concetto spaziale. Ma ancora una volta ci imbattia-
mo nel fatto fondamentale al quale sopra si accennava: se l’una-
nimità è un requisito indispensabile, è legittimo sospettare che
non esistesse delega del potere. La filologia testuale prova la
fondatezza del nostro sospetto. Le fonti bizantine antiche (Procopio
7, 14; ps. Maurizio Tattico 11, 3; ps. Cesario Nazanz. 110) ci di-
cono che gli Slavi sin dai tempi antichi vivevano in ‘democrazia’,
senza capi, senza re, autonomi e non guidati da un potere centra-
le; le fonti medievali europee (ad es. Adamo di Brema 18, 225)
confermano regolarmente l’osservazione. L’etimologia chiude l’ar-
gomento. Le parole che indicano nelle lingue slave il re (zar [<
césarí], kralj) sono prestiti, di diversa trafila, dei nomi propri Caesar
e Karl, il Cesare probabilmente di Bisanzio (se non è passato tra-
mite gotico) e Carlo Magno, il poderoso persecutore dei Sassoni
e degli Slavi pagani centro-europei. E possiamo risalire ancora di
piú nel tempo, poiché il comune kne ≈ «principe», titolo che peral-
tro è stato di sovente usato come mera espressione di rispetto
(cosí almeno presso gli Obodriti (Vita altera Kanuti ducis l. 5),
rinviene all’(ostro)goto kunings (è la stessa parola di tedesco König)
e la ≈upa, divisione territoriale alla cui guida sta un ≈upan (con
attestazioni già antico bulgare) pare proprio di origine avara.
Ritorniamo alla domanda posta sopra, ossia se le genti
indoeuropee erano politicamente acefale, ed osserviamo che in
alcune tradizioni si è conservato un importante nome di funzio-
ne, * rŸ« - (latino rŸx, antico indiano r†j-, gallico - r•x , ant. irlandese
rí), nome che siamo usi tradurre «re». Ma qual era il suo conte-
112 Franco Crevatin

nuto socio-politico? Perché ragionare sulle sue eventuali connes-


sioni con il verbo latino rego «dirigere, reggere», soprattutto se il
verbo valeva originariamente «tendere in linea retta», e col verbo
greco oj r ev g w «stendere» può essere, in assenza di ulteriori infor-
mazioni, alquanto avventuroso. Di una cosa possiamo dirci
filologicamente sicuri, ossia che il ‘re’ che possiamo intravedere
ha molte piú connessioni con il mondo della religione che con
quello della politica, almeno come noi la intendiamo. Il re della
tradizione irlandese pre-Cristiana e vedica era sostanzialmente il
massimo garante del corretto ordine, quell’ordine che doveva regnare
all’interno del gruppo formato dall’associazione di diversi grup-
pi di discendenza e che doveva continuare a sussistere tra mon-
do umano e mondo divino. Il diritto irlandese arcaico era chia-
rissimo su questo punto: il re doveva essere fisicamente integro,
doveva essere ‘vero’, ossia corretto custode ed interprete della
tradizione, poiché se non fosse stato cosí l’intero ordine del mondo
sarebbe stato a rischio, le terre sarebbero isterilite, le mandrie
non avrebbero figliato, le malattie avrebbero infuriato ed ogni
sorta di disgrazia si sarebbe abbattuta implacabilmente sul grup-
po. La conseguenza sarebbe stata inevitabile: quel re avrebbe dovuto
esser deposto ed un altro eletto al posto suo. Anche nel mondo
vedico il re era tale sintantoché il gruppo lo riconosceva effi-
ciente. Insomma, il re regnava ma non governava, non esercitava
alcun potere coercitivo, non aveva alcuna delega permanente. Il
potere risiedeva nei singoli gruppi di discendenza, non nella regalità.
Per la sensibilità di noi moderni una società siffatta pare de-
stinata al malfunzionamento ed alla dissoluzione. Nel prossimo
capitolo riprenderemo il tema e vedremo che non è cosí.
L’etimologia come processo di indagine culturale 113

ETIMOLOGIA E RICOSTRUZIONE

L’etimologia è molto spesso un processo ricostruttivo, e di ciò


nessuno si stupisce: se nell’Istria meridionale (Dignano) trovo il
verbo nigà «nitrire» e in quella settentrionale (Pirano) nigià posso
tranquillamente ricostruire due forme latine, *hinnicåre < hinn•re ed
*hinn•tulåre < hinn•tus «nitrito», mai documentate nei testi scritti ma
sicuramente esistite nel parlato64 . L’etimologo è abituato alle lacune
della documentazione e giustamente crede nella forza probante
dell’etimo e negli strumenti che la linguistica gli offre: davanti al
veneziano nèsa «nipote» (femm.) ed all’istriano meridionale nèto (femm.)
id. non ha dubbi sul fatto che le forme d’origine *néptia e *népta
sono riformazioni del femminile néptis, interessanti per la storia lin-
guistica tardo-antica, anche se mai documentate nelle fonti.
Allo stesso modo, e con uguale certezza di metodo, si può
sostenere che la coincidenza di parole appartenenti alla stessa
famiglia linguistica permette di ricostruire una parola piú antica
dalla quale sono derivate le forme storiche: il greco cov r to" «luo-
go recintato», il latino hortus, l’osco húrz, il gallico gorto 65 ecc.,
permettono di ricostruire un * «horto - con lo stesso significato,
sicuramente connesso con *ghordho- id. (slavo *gord ú «città»)/
* « hordho- (frigio Mane-zordum [toponimo], prussiano sardis «re-
cinto»). Le certezze assolute, però, finiscono qui, perché ogni altra
inferenza, pur se ragionevole in se stessa, sarebbe una
generalizzazione indebita. Una proposizione come «gli Indoeuropei
conoscevano ed utilizzavano recinzioni per delimitare spazi par-
ticolari», basata su tali concordanze sarebbe condividibile in re,
ma non certo basabile su una comparazione che non includa la
totalità delle lingue comparate66 . La concordanza tra greco pov l i",
64
Il tipo nigià potrebbe risalire anche ad * hinnicåre , ammettendo un passaggio ga
> ≠a di tipo friulano; il fenomeno è attestato, pur se sporadicamente, nell’Istria
settentrionale.
65
Presente nella toponomastica e affiancato da derivati nelle lingue celtiche.
66
Altre lingue o addirittura parte delle stesse possono avere anche altri tipi: nel
caso concreto basti pensare al gallico *d¥no- «insediamento fortificato con una
palizzata» e germanico *t¥na/u (nordico ant. t¥n, tedesco Zaun, inglese town).
114 Franco Crevatin

sanscrito p§r e lituano pilìs, raggruppabili nel senso di «fortezza,


Fluchtburg» 67 , ci pone davanti al problema nella sua forma piú
concreta. Ci furono delle genti indoeuropee che conobbero /
costruirono fortezze e che ebbero un nome per definirle: ebbene,
quali genti? Solo quelle le cui lingue attestano la voce o anche
(tutte le) altre? Inoltre, a quale epoca ci rimanda la comparazione
istituita? È purtroppo evidente che a tali domande è raramente
possibile rispondere con accettabile precisione. La linguistica
comparata ha sviluppato dei metodi empirici, tutto sommato
affidabili, per affrontare tali problemi, ossia una sorta di dialettologia
della ricostruzione: si presume – giustamente – che la realtà da
noi ricostruita è l’immagine di una rete diacronica di rapporti
linguistici e culturali all’interno di un ‘mondo’ in costante evo-
luzione, con aree piú innovative ed altre conservative, con aree
isolate ed altre piú esposte alla comunicazione. Tutto ciò è in
qualche modo valutabile su una griglia cronologica che ci è of-
ferta dall’inserimento delle singole genti indoeuropee nei loro
contesti storici, che in piú di un caso ha portato all’interruzione
dei rapporti con il ‘mondo’ piú antico. Se è vero, ad esempio, che
i Greci hanno cominciato ad inserirsi nell’ambiente egeo a parti-
re dal 2400-2300 a.C. circa, dobbiamo forzatamente presumere
che le isoglosse che essi condividono con le genti Arie siano anteriori
a tale epoca.
Ho definito tale euristica una ej m peiriv a , una pratica che può
portare a risultati affidabili quando sia applicata agli aspetti for-
mali della ricostruzione, ma la questione si complica notevol-
mente quando tramite l’etimo vogliamo ricostruire cultura, poi-
ché si crea il rischio di un Zirkel im Verstehen: dati desunti da
concordanze parziali possono diventare la griglia di riferimento
sulla quale commisurare nuove (o altre) concordanze altrettanto
parziali – a giustifica b che giustifica a. In altre parole, tale è al
fondo la critica di chi lamenta che la ricostruzione culturale del

67
Il fatto è reso pressoché certo dall’opposizione nel greco tra pov l i" e (Û)av s tu,
la fortezza vs. l’insediamento, come mostra anche la comparazione con il vedico
v≤stu «insediamento, dimora», tocario wa@t id.
L’etimologia come processo di indagine culturale 115

mondo di rapporti indoeuropeo privilegia troppo di frequente le


concordanze greco-arie.
La critica è tutt’altro che insensata, ma non rende esplicito un
fattore condizionante piuttosto importante: se la ricostruzione
culturale basata su fatti linguistici implica il necessario esame
filologico del singolo dato per come esso è inserito nella cultura
storica che gli è propria, e se inoltre essa deve tener conto anche
dell’antichità documentaria del dato stesso, diventa pressoché
inevitabile privilegiare le culture piú antiche e che, contempora-
neamente, ci hanno lasciato un corpus documentario qualificato,
come appunto quella greca, indiana, iranica, latina ed irlandese
pre-Cristiana: come potremmo, in effetti, trascurare il fatto che,
poniamo, le culture germaniche ci sono note a partire da Cesare
e Tacito – e tra i due momenti si notano significativi mutamenti!
–, che l’anglosassone Beowulf è dell’VIII secolo ed il corpus norreno
è ancora piú tardo? Sulla cultura degli Slavi, poi, abbiamo una
messe di notizie e di dati archeologici interpretabili con buona
probabilità solo a partire dall’alto Medioevo, quando cioè già era
in itinere avanzato la creazione del feudalesimo tedesco, ma per
contro non abbiamo corpora testuali 68 .
In linea di principio, tuttavia, la natura del problema è altra.
Se, infatti, si sceglie un modello interpretativo generale che guar-
da all’origine ultima delle forme comparate alla stessa stregua del
modo in cui si guarda al latino per la comparazione romanza –
l’«indeuropeo» pensato come lingua naturale storicamente data ed
espressione di un’altrettanto specifica cultura – le difficoltà
interpretative non potranno che moltiplicarsi. Se invece ci attenia-
mo al modello del mondo di rapporti, non siamo tenuti a suppor-
re unità linguistiche e culturali, anzi dobbiamo a priori prender
atto che all’interno di tale mondo devono essere sempre esistite, in
sincronia, differenze rilevanti e quindi identità diverse. Il distacco
dalla rete in questione delle singole identità storicamente accertabili

68
La cultura degli Slavi orientali è determinata in parte considerevole dalla pre-
senza vichinga.
116 Franco Crevatin

diventa uno strumento molto importante per tentare di capire quale


poteva a quell’epoca essere almeno una parte delle istituzioni lin-
guistiche e culturali di quanto era ancora restato in reciproco rap-
porto. Non si utilizzeranno allora, poniamo, i rapporti tra grecità
e vedismo per ricostruire «l’Indoeuropeo», ma per capire alcune
delle concezioni, delle strutture sociali, dei fatti di lingua che an-
teriormente alla metà del terzo millennio a.C. erano presenti, pur
senza essere i soli esistenti, nel mondo di rapporti indoeuropeo 69 .
Come si vede, la ricostruzione basata sull’etimologia è cosa
molto diversa se applicata a famiglie il cui archetipo è noto o
comunque ragionevolmente ricostruibile oppure se è applicata a
famiglie estese come quella indoeuropea.
Il modello che qui abbiamo scelto è quello che ha il maggior
grado di economicità e quindi di possibile aderenza alla storia,
almeno allo stato attuale della ricerca. Ne possiamo vedere subi-
to un aspetto. Nel modello del mondo di rapporti la ricostruzio-
ne parte sempre da dati presenti nelle lingue e culture storiche,
i quali vengono analizzati nei loro contesti: la comparazione
contribuisce a chiarire i contesti anteriori dai quali derivano ed
a chiarire la loro struttura. Comunque, il quadro risultante non
pretende di essere sempre generalizzabile: le unità linguistiche e
culturali a noi note sono soltanto una parte dell’originario spet-
tro. Nel mondo di rapporti indoeuropeo devono essere esistite
genti e lingue delle quali oggi poco o nulla sappiamo, ed ora ne
forniremo una ragione stringente. La scoperta che due delle lin-
gue attestate nel Turkestan occidentale cinese tra il VI e l’VIII
sec. d.C. sono di tipo indoeuropeo (tocario A e B) ha provocato,
all’epoca della decifrazione dei documenti, una notevole sorpre-
sa, sorpresa tanto piú grande quando ci si è resi conto che le
lingue in questione non erano vicine al tipo indo-iranico ma semmai

69
È stata la cultura neogrammatica ad ipostatizzare l’esigenza di un popolo originale
(Urvolk), parlante una lingua originaria (Ursprache) e dotato di una sua cultura,
esigenza che qui respingiamo: conserviamo invece la ineliminabile istanza di
collocare nello spazio il mondo di rapporti, per cui il concetto di proto-patria
(Urheimat), nonostante l’etichetta alquanto buffa, è ineliminabile.
L’etimologia come processo di indagine culturale 117

a quelli europei. La situazione è davvero affascinante, poiché abbiamo


prove certe dell’esistenza di genti caucasoidi sin dal II millennio
a.C. in alcune regioni periferiche della Cina, come mostra il ri-
trovamento dei celebri corpi mummificati del bacino del Tarim.
Le fonti cinesi ci parlano degli Yue-zhi, il Popolo della Luna, che
nei primi secoli prima dell’era volgare erano stati costretti a mi-
grare dalle loro sedi originarie (nell’attuale regione del Gosan)
sotto la spinta della confederazione degli Xiong-nu70 ; il loro aspetto
fisico ci è noto sia dalle fonti suddette sia dalle rappresentazioni
del I sec. d.C. del sito kushana di Khalkhayan (Battriana): fisico
slanciato, con capelli biondi o rossi ed occhi chiari, aspetto che
ha portato i sinologi a parlare di un popolo di origine indoeuropea.
Ovviamente è cosí, perché gli Yue-zhi sono semplicemente i Tocari,
noti nelle fonti greche con il nome di Tokharoi, Tháguroi e nelle
fonti sogdiane come Tw g ry.
Lo stesso vale per altre genti meno note 71 . Non occorre ricor-
dare che quella che è stata definita l’«autostrada delle steppe»
salda senza soluzione di continuità l’Ungheria (via Mar Nero –
Caspio – Tarim) alle regioni centro-asiatiche: su di essa si sono
mossi decine di popoli, alcuni dei quali ci sono noti (Sciti, Sarmati,
Avari, Bulgari, Turchi), di molti poco sappiamo (ad esempio gli
Unni 72 ). Per certo si sono diffuse anche idee ed influssi culturali
sui quali vale la pena riflettere, come mostra la notevole unifor-
mità dell’arte delle steppe – spesso giudicata scitica – che si estende
dalla regione degli Xiong-nu al mondo germanico.

70
Etnicamente mista, composta da genti sia paleo-asiatiche che proto-turche.
71
I Wu-suen, ad esempio. Le fonti cinesi descrivono in maniera simile i proto-
turchi Kirghisi, il che farebbe presumere che si tratti di genti indoeuropee turchizzate.
Non si sottolineerà mai troppo l’importanza del bacino del Tarim, vero punto di
giunzione tra Europa ed Asia interna: si tenga ad esempio conto del fatto che
tramite esso passarono le missioni manichee e nestoriane e la scrittura sogdiana
che fu per secoli la grafia di genti turche e mongole.
72
Non sappiamo chi fosse etnicamente l’élite che li guidava: i nomi propri paiono
inclassificabili secondo le attuali conoscenze, mentre le voci ‘unne’ citate da Prisco
e da Jordanes sono germaniche (medos «idromele»), pannoniche (camum «tipo di
birra»; voce data dalle fonti greche anche come peonica) o incerta (strava «rito
funebre»; voce slava?).
118 Franco Crevatin

Abbiamo detto che l’etimologia ai fini della ricostruzione cul-


turale è un procedimento che parte dal basso, per cosí dire, e
solo per gradi attinge il livello, che è anche cronologico, del mondo
di rapporti indoeuropeo. Qui lo ribadiamo con fermezza.
Sopra si è visto che c’è una notevole concordanza tra alcune
lingue indeuropee sulla terminologia dell’aratura. Restando li-
mitati al solo mondo germanico, possiamo dire che l’agricoltura
ha sempre avuto una decisiva importanza nell’economia di sus-
sistenza: possiamo rinforzare la constatazione ricordando la con-
cordanza tra il tedesco Furche «solco» l’ant. bretone rec, il latino
porca «la terra tra due solchi» e l’armeno herk «terra arata di
fresco» e quella tra antico alto tedesco egida (= ted. Egge) «erpi-
ce», lituano eké ç ios, ant. pruss. aketes (ed inoltre cimrico og(ed),
latino occa 73 , greco [con formazione diversa] oj x iv n a), concordanze
che mostrano la continuità del rilievo economico dell’agricoltura
germanica. L’archeologia conferma, pur nelle inevitabili differen-
ze ecologiche regionali, il rilievo in questione. Se invece guardia-
mo alle fonti latine, riceviamo un’impressione diversa ed in qualche
modo confusa. Cesare (B.G. 6, 22; 29) dice che le popolazioni
trans-renane vivevano di allevamento ed afferma altresí, come
altri autori antichi, che la dieta dei Germani era basata largamen-
te su carne, latte e formaggio (ad es. Posidonio fr. 22 Jacoby,
Pomponio Mela 3, 3), ma lo stesso Cesare (4, 1) dice che se le
scorrerie di un potente vicino avessero impedito ad una tribú
germanica di seminare e raccogliere le messi, quest’ultima sareb-
be dovuta senz’altro migrare per evitare la fame. Inoltre sia a
Varrone (R.R. 1, 7) che a Plinio (N.H. 17, 47) erano noti i progre-
diti sistemi di qualche gente germanica per fertilizzare i campi.
Cesare ha frainteso la natura della situazione: il bestiame era
soprattutto il bene mobile di maggior prestigio, era ciò che il
gotico esprimeva con faíhu, parola identica al latino pec¥ «bestia-
me», da cui deriva pec¥nia «fortuna, denaro», al sanscrito vedico
pasæ u " «bestiame» ed ad altre parole ancora. Per lungo tempo le

73
La formazione è però poco chiara.
L’etimologia come processo di indagine culturale 119

genti germaniche hanno conservato l’equivalenza culturale ‘be-


stiame’ = ‘ricchezza’, come mostra l’antico inglese féoh «ricchez-
za, beni mobili» ed in definitiva lo stesso cattle «proprietà, be-
stiame» (medio inglese catel, a. 1275) che è prestito dall’antico
francese settentrionale catel < lat. capitale.
Cesare ha dunque frainteso una situazione che era affine, ad
esempio, a quella irlandese pre-Cristiana: la base dell’economia
era agricola, ma era il bestiame a dare prestigio ed ad esser con-
siderato la vera ricchezza, era il bestiame per il quale si batteva
l’eroe gaelico Cú Chulainn, era la razzia di bestiame (táin bó)
l’atto guerriero per eccellenza.
L’agricoltura e la percezione della ricchezza in termini di be-
stiame (greggi e mandrie) sono dunque state parte del mondo di
rapporti indoeuropeo. La communis opinio ha spesso accolto un
modello secondo il quale gli “Indoeuropei” erano gruppi tribali di
allevatori nomadi, contando sulla varietà e stabilità del vocabola-
rio ricostruibile relativo agli animali domestici e su qualche coin-
cidenza ideologica: nel greco omerico è comune l’espressione poimhŸ n
law~n «pastore di genti74 », attribuita a capi dell’esercito acheo, sintagma
che è in senso lato equivalente del vedico gopatir janasya «il mandriano75
della stirpe, della gente» (ad es. RV 9, 35, 5: epiteto del Soma). È
doveroso chiedersi se il modello sia o no giustificato. Per certo
non lo è se pensiamo al pastoralismo come ad un modo di produ-
zione arcaico ed originario, poiché sappiamo bene che esso è inve-
ce una specializzazione ecologicamente determinata di gruppi umani
dediti all’agricoltura; con altrettanta sicurezza, non lo è se lo vin-
coliamo al nomadismo, appiattendolo su quelle che sono state le
società proto-turche e mongole della Siberia meridionale. Pro-
babilmente molto ha giocato nell’immaginario il fatto che in molti
casi sappiamo per certo che le singole genti indoeuropee non era-
no originarie delle sedi nelle quali le troviamo in epoca storica,
ma la mobilità di gruppi è un fatto eminentemente sociale che non

74
Però la voce laov " ha spesso una connotazione militare, già micenea.
75
Letter.: protettore delle vacche.
120 Franco Crevatin

è necessariamente indizio di nomadismo76 . Neppure la percezione


della ricchezza in termini di bestiame è un fattore decisivo a soste-
gno del modello tràdito. È ben vero che il tratto non può che esser
sorto in un ambiente che era dedito (anche) all’allevamento, ma è
bene non dimenticare che lo stesso concetto di ricchezza è cultu-
rale: in molte società ricchezza non è semplicemente il possedere
di piú, ma il possedere per fare qualcosa di specifico, qualcosa che
comunque obbedisce a paradigmi e valori socialmente condivisi.
Si aggiunga il fatto che se concordiamo sul fatto che il ricostruito
*pek’u valeva «bene mobile», forzatamente esso doveva opporsi a
un «bene immobile» che altro non pare poter essere se non il pos-
sesso terriero77 .
Se c’è un fine chiaramente riconoscibile della ricchezza nella
cultura di molte genti indoeuropee è il fatto che essa doveva es-
sere redistribuita, non accumulata. Sopra (p. 68) l’abbiamo visto
per il mondo germanico e lo stesso vale per l’insieme delle genti
celtiche, per il mondo greco arcaico e per quello indo-iranico: in
tutte queste culture – e questo è un elemento importante – sono gli
animali di allevamento (pecore e buoi) a rappresentare l’unità di
valore e, nella fase culturale piú antica, ad esser oggetto tradizio-
nale di redistribuzione. Si potrebbe fare un’ulteriore constatazio-
ne: perché un bene sia visto come prezioso e dunque valutato
appieno nel circuito delle (contro)prestazioni esso deve essere, nella
migliore delle ipotesi, limitatamente accessibile o accessibile solo
a prezzo di un impegno non irrilevante del singolo.
Riassumiamo: pare difficile credere alla bontà del modello del
pastoralismo nomadico applicato al mondo di rapporti indoeuropeo
perché sono troppi gli elementi che militano a suo sfavore: se

76
Altrettanto peso ha avuto la collocazione di una parte centrale dello spazio
indoeuropeo nelle regioni a nord del Mar Nero.
77
Personalmente credo che il concetto di possesso terriero sia reso dal sintagma
vedico sadas pati" «signore della sede» ed al composto verbale latino * potis sedŸre
> possidŸre «esser stanziato come signore > possedere». Naturalmente non biso-
gna credere che il concetto di possesso sia coincidente con quello moderno o,
peggio che mai, si pensi ad una proprietà individuale della terra. Su questi temi
non è tuttavia possibile soffermarsi qui.
L’etimologia come processo di indagine culturale 121

invece partiamo da situazioni economiche di mixed farming i pro-


blemi interpretativi si attenuano sino a sparire e ciò aiuta a ca-
pire meglio il concetto di ricchezza che è stato presente almeno
in una parte non irrilevante del mondo in questione78 .

L’etimo, studiato filologicamente nel suo contesto storico (e


dunque anche tramite testi), porta, tramite la comparazione delle
forme geneticamente connesse e dei rispettivi contesti, ad attin-
gere il mondo di rapporti dal quale esso deriva: si ricostruiscono
cosí aspetti di ideologia e di cultura, per parziali che essi siano.
Su tale possibilità della ricerca c’è vasto consenso, anche se non
unanimità. Ma l’importante prospettiva cosí acquisita deve fare
i conti con una tentazione generosa e nel contempo pericolosa. In
parole semplici la questione sta in questi termini: se noi sappia-
mo, come sappiamo, che è concretamente esistito un mondo di
rapporti (indoeuropeo, semitico, bantu, o altro) al quale arrivia-
mo tramite etimi e contesti collegati, perché non tentare la rico-
struzione, quando non ci soccorrano etimi specifici, soltanto at-
traverso contesti – ossia istituzioni culturali, fatti di ideologia
sociale o religiosa e sim.? La questione parrebbe, sulla base del
buon senso, ammettere una risposta positiva – e tuttavia almeno
in questo caso il senso comune è ingannevole: la comparazione
linguistica non può essere estesa con la stessa legittimità e le
stesse competenze disciplinari in àmbiti che non le sono propri.
In effetti la comparazione di tratti culturali, che non siano con-
temporaneamente linguistici, allo scopo di ricostruire situazioni
comuni precedenti non è considerata una procedura ovvia da
altri specialisti di scienze umane: può essere legittima ed utile in
sede tipologica, ma non lo è di necessità in sede storica79 .

78
Ancora una volta affermo che non possiamo pretendere di applicarlo all’interezza
del mondo in quanto tale.
79
L’obbiezione del buon senso è alquanto prevedibile, ossia che esistono casi
documentabili nei quali alcuni (o parecchi, o molti; certo, però, non tutti e nep-
pure la maggior parte) tratti della cultura A diventano chiari e comprensibili
storicamente tramite la comparazione con quelli presenti nella cultura B, quando
122 Franco Crevatin

La ricostruzione culturale che abbia come referenza linguisti-


ca il solo fatto che le culture poste a confronto siano (state) pro-
prie di parlanti lingue piú o meno strettamente imparentate è
sempre una ricostruzione rischiosa, nella quale pressoché sempre
è difficile distinguere quanto è davvero storicamente connesso e
quanto invece può essere ascritto a coincidenza tipologica.
Un esempio pertinente di confronto culturale del tipo sopra
delineato è quello istituito da qualche studioso tra il dio greco
dell’amore, “Erw", e l’equivalente indiano antico Kåma. Ambe-
due sono personificazioni (e la personificazione pare esser stato
un tratto caratteristico della cultura “poetica” sia greca arcaica
sia indiana) della forza di attrazione che spinge alla generazione
e dunque che ha in quanto tale un posto talora non irrilevante
nelle concezioni cosmogoniche delle due culture (si veda da una
parte Esiodo, Theog. 120 e dall’altra RV 10, 129). Colpisce il fatto
che in ambedue i casi (il dio del)l’Amore è pensato come arciere,
che con le sue frecce colpisce, facendole innamorare, le persone.
Nel mondo greco Eros non ha grande personalità, ma il fatto che
sia attestato un suo culto aniconico (una pietra non lavorata, aj r goŸ "
liv q o") a Thespi in Beozia, dove pare essere stato presente da
tempi immemorabili (Paus. 9, 27), ci mette in guardia dal consi-
derare il dio una mera personalità della poesia. La raccolta di
formule magiche vediche, l’Atharvaveda, ci conserva la formula
di un rito di magia amorosa (AV 3, 25), nel quale è appunto la
terribile freccia dell’Amore quella che deve colpire l’amata: nel
commentario – piú tard o, ma basato su materiale genuinamente

le culture, beninteso, siano proprie di genti linguisticamente imparentate. È quel-


lo che spesso accade grazie alla comparazione tra cultura indiana vedica e cul-
tura iranica antica. Sarebbe tuttavia un salto logico ammettere che in questo modo
arriviamo al livello di una cultura genealogicamente sovraordinata, poiché siamo
sempre di fronte a due storie culturali distinte, tra le quali lo scambio comu-
nicativo lato sensu è stato di tale qualità e quantità da essere accessibile facilmen-
te ai nostri mezzi di indagine. Al fondo il problema resta sempre lo stesso, o si
sceglie un modello genealogico e di conseguenza si suppone l’esistenza di figliazioni
culturali, oppure si preferisce il modello della rete di rapporti, come sopra abbia-
mo ripetutamente fatto, e la scelta porta a conseguenze molto diverse.
L’etimologia come processo di indagine culturale 123

antico – KaußSËtra 35, 22 ci viene spiegato che la formula andava


recitata mentre con le dita (= frecce) si picchiava una statuetta
che simboleggiava l’amata. Il comune epiteto classico del dio
dell’Amore, pañcab†>a" o pañce@u" «dalle 5 frecce», dimostra chia-
ramente l’antichità e tradizionalità del rito, trasposizione erotica
di un originale rito di caccia.
La coincidenza greco-indiana inviterebbe a credere che tali
idee siano state presenti già nel mondo di rapporti indoeuropeo 80 .
Possiamo, in assenza di comparazioni lessicali precise e nono-
stante la sua verosimiglianza, dimostrarlo? Temo di no.
Uno dei casi piú complessi ed elaborati della tradizione
indoeuropeistica di studi è costituito dall’insieme delle ricerche
di G. Dumézil. Lo studioso francese ha dedicato praticamente
l’intera vita ad esplorare in tutti i suoi risvolti l’intuizione che le
società indoeuropee sarebbero state caratterizzate da un’ideolo-
gia ad esse propria, ossia la tripartizione funzionale: la singola
società cioè avrebbe pensato se stessa come una struttura divisa
in tre classi funzionali, la classe nobiliare di re e guerrieri, quella
sacerdotale ed infine quella dei produttori. Esiste un fatto dal
quale ha preso le mosse la ricerca, ossia la divisione ideologica
della società vedica in tre diversi var>a «colori» – br†hma>a la
classe sacerdotale, r†janya la classe nobile e guerriera (k@atriya),
vaißya la classe dei coltivatori ed allevatori. Tale classificazione è
attestata solo in un inno rigvedico tardo (RV 10, 90), mentre piú
anticamente il ‘colore’ veniva impiegato per contrastare, proba-
bilmente in senso proprio, gli Arii con le genti autoctone dell’In-
dia. La questione dei ‘colori’ tardo vedici è molto complessa ed
è stata a lungo discussa, soprattutto in connessione con il ben
piú tardo sistema castale 81 , poiché molte cose ci sono note solo
da accenni fuggevoli o da allusioni 82 . È molto probabile che le

80
Si aggiunga il fatto che nelle due tradizioni la freccia è utilizzata spesso come
metafora della parola che colpisce nel segno, sia essa poetica o magica.
81
Il quale non esisteva neppure all’epoca della redazione dei Bråhmaˆa.
82
Per quanto non paia dubbia l’esistenza ab antiquo di esperti della correttezza
del rito e del sacro in generale, non è assolutamente detto che nella protostoria
124 Franco Crevatin

società iraniche antiche abbiano conosciuto una distinzione mol-


to simile, basata su ‘mestieri’, pi πtra, parola che etimologicamen-
te vale ‘colori’: † θ ravan il «sacerdote», ra θ a°πt† il «guerriero (com-
battente dal cocchio)», v†stry£ fπuyant il «produttore», eminentemente
un allevatore; la classificazione secondo colore è motivata, per-
ché nell’Iran il bianco si associava al sacerdozio, il rosso alla
guerra ed il blu all’allevamento. Questi sono i fatti; il resto, quanto
meno nella sterminata produzione di G. Dumézil, è interpreta-
zione di miti, di leggende o di tradizioni lette nell’ottica dell’in-
tuizione fondamentale, interpretazioni che non di rado generano
l’impressione della circolarità del ragionamento o dell’onere di
prova: «se è vera la tesi, questa potrebbe esserne una prova» /
«questa prova sostiene la tesi emessa». Non è necessario discu-
tere oltre la tesi della tripartizione funzionale 83 : qui si voleva
semplicemente portarla ad esempio di un modo di affrontare la
ricostruzione.

Abbiamo piú volte nel corso di questo libro parlato di un tipo


sociale che doveva avere una certa diffusione nel mondo di rap-
porti indoeuropeo, una struttura politicamente non centralizzata,
con un re che regna ma non governa, nella quale il potere coer-
citivo risiede nei gruppi di discendenza (lignaggi e segmenti di
lignaggio), con un’economia basata sul mixed farming e nella quale
il bene di prestigio erano gli animali d’allevamento e la ricchezza
non era prioritariamente accumulata bensí redistribuita. Ora possiamo
fare un ulteriore passo in avanti.
Il latino daps «banchetto, spesso sontuoso» entra in una serie
di confronti lessicali sicuri ma in parte sconcertanti: ad esso in-

degli Arii i ‘sacerdoti’ avessero il rilievo al quale ci hanno abituato i testi brahmanici:
tra l’altro è chiaro che il rito privato era anticamente gestito dal pater familias.
83
Personalmente – e lo si capisce dal testo – non la condivido, e non perché la
giudichi prioritariamente errata o controfattuale, bensí perché nella sua formula-
zione mi pare semplicemente inaccessibile alla prova in positivo o in negativo. È
una tesi che ha portato a moltissimi risultati collaterali, ma che nel suo nucleo è
indimostrabile.
L’etimologia come processo di indagine culturale 125

fatti si associano il greco dav p tw «divorare, consumare» e dapav n h


«spesa», l’antico islandese tafn «animale sacrificale la cui carne si
consuma nel banchetto religioso» e l’armeno tawn «festa solen-
ne». Il *dap-no- presunto da alcune di queste forme si ritrova nel
latino damnum, ma il senso è quello di «danno». Qual è il nesso
logico che può collegare una comunione alimentare, di carattere
pubblico e spesso religioso, al concetto negativo di ‘danno’? La
risposta è semplice, quando si consideri che in molte culture il
banchetto pubblico è un’occasione non solo di redistribuzione
della ricchezza, ma addirittura di distruzione, di sperpero della
medesima: è quello che gli antropologi definiscono potlatch. È
chiaro che in una società – quella latina – che ha perduto il senso
sociale di tali occasioni solenni ed importanti può rimanere vivo
solo il ricordo della perdita economica che tali banchetti compor-
tavano. Già; ma qual era il loro senso culturale?
In tutte le culture dove è attestato, il potlatch si collega stret-
tamente ad una competizione per lo status sociale: l’individuo
distribuisce ricchezza sino ad arrivare talora alla distruzione di
essa per migliorare il proprio status e cosí acquistare capacità di
azione sociale, attirando a sé sostenitori in grado di appoggiarlo
in tutte le occasioni pubbliche. Orbene, questo quadro è compa-
tibile con quanto abbiamo detto sopra circa la redistribuzione
della ricchezza; e non solo: ammettere una società con forte di-
namica degli status sociali rende ragione anche di parecchi altri
fatti. Una delle concordanze piú celebri e sicure della “lingua
poetica” del mondo di rapporti indoeuropeo è il sintagma rela-
tivo al concetto della ‘gloria che non si corrompe’ (greco klev o "
a[ f qiton = vedico sæ r avo ’k@itam) ed esso non va letto come una
bella immagine metaforica, bensí come espressione di un deside-
rio molto concreto, quello di veder sottratta la propria fama alla
perenne dinamica degli status sociali. Usualmente le società ca-
ratterizzate da una forte e perenne dinamica degli status sono
politicamente non centralizzate, ed anche questo è un fatto riscon-
trabile nel mondo indoeuropeo (si veda sopra la discussione sul
lat. rŸx e voci connesse).
126 Franco Crevatin

La dinamica degli status implica un elemento perenne di ten-


sione nella società, dovuto alla costante ricerca di mantenere e
migliorare la propria posizione. È questo il modo piú semplice di
spiegare, in società acefale come quella irlandese pre-Cristiana e
indiana vedica l’agonismo, il contrasto verbale, la lotta per la
precedenza a banchetto (è il tema molto noto del Heldenbiss, il
boccone migliore riservato all’eroe), quell’occasione pubblica nella
quale la precedenza e il tipo delle parti distribuite riflettono l’at-
tuale – e momentanea – situazione degli status.
Società instabili? Entro certi limiti sí, essendo che l’autorità 84
è divisa tra gruppi di discendenza, individui dotati di ricono-
sciuto prestigio che legano a sé grazie alla perenne redistribuzione
di beni un sèguito di sostenitori ed un re che regna e non gover-
na, tuttavia, come ci insegnano gli antropologi, nessun equilibrio
sociale è statico. Inoltre società come quelle che qui ci occupano
hanno un poderoso fattore che limita e controlla indirettamente
contrasti e faide, ossia la ‘fama’, che null’altro è se non il riflesso
della pubblica opinione: ancora in Esiodo (Op. 763) la fhv m h è
considerata non deperibile e quasi divina. Contro la pubblica
opinione a nulla vale l’agire del singolo o del gruppo, poiché chi
osasse schierarsi contro di essa ricadrebbe nella ‘vergogna’85 , nell’onta,
o nel piú totale isolamento. Autorevole rappresentante della vox
publica è il poeta, capace di lodare il meritevole ma di ferire il
colpevole con la satira e la disapprovazione violenta: è questa la
posizione formale, ad esempio, del bardo irlandese e del poeta
vedico, un produttore di testi che proprio in quanto riflettono i
paradigmi culturali non sono discutibili o ignorabili.
Torniamo ora al big man, all’individuo che grazie al suo pre-
stigio ed alla redistribuzione di ricchezza riesce ad acquisire social
competence, capacità di agire sociale. Abbiamo detto che quest’ul-
tima si basa sul sèguito che egli – sempre comunque pro tempore

84
È indispensabile tener distinto il semplice potere, ossia la possibilità concreta
di agire, dall’autorità, ossia il potere esercitato come diritto riconosciuto.
85
Molto spesso, difatti, tali culture sono definite ‘culture della vergogna’.
L’etimologia come processo di indagine culturale 127

– è in grado di raccogliere attorno a sé. Il sèguito non solo lo


sostiene nelle occasioni pubbliche, ossia nelle assemblee, ma gli
può all’occorrenza fornire aiuto guerriero. Tipologicamente tale
fedeltà personale è la stessa che si crea tra un prestigioso capo
militare ed i suoi seguaci in occasione di scorrerie belliche. Il
sèguito è struttura nota presso molte genti indoeuropee (Indiani,
Greci, Latini, Germani, Celti, Slavi 86 ), confortata da qualche pun-
tuale rapporto etimologico, ad es. vedico sakhi" «l’individuo che
dipende da un patrono», spesso con funzioni militari, sakh† «amico,
compagno», persiano ha∆a-, ant. nord. seggr «compagno», lat. socius:
tali forme sono dei derivati dalla radice verbale *sekw- «seguire»,
che ha dato anche il nome del ‘seguace’ nel greco miceneo (e-qe-
ta eJ k Ûev t a"), nome di funzionario dell’amministrazione palaziale.
Epperò il sèguito in quanto tale non gode di una qualche rag-
giungibile concordanza etimologica, il che potrebbe farci credere
che in quanto istituzione non abbia la stessa antichità del rapporto
fattuale e transeunte tra un individuo o un capo militare e dei
‘seguaci’, visto che questi ultimi sono invece raggiungibili etimo-
logicamente. La situazione non sarebbe del tutto sorprendente,
perché è quella che troviamo tra le genti slave 87 . Ma su quest’ul-
timo punto è inutile per ora accumulare ipotesi.

Cercheremo ora di trarre qualche conclusione dai casi studiati


in questo capitolo. L’etimo, si è detto, ha natura fattuale e forza
probante, e la ricostruzione linguistica non può credibilmente
esser revocata in dubbio. Neppure la ricostruzione culturale su
base linguistica, in particolare quella etimologica, è svalutabile
come mera opzione di possibilità. E tuttavia non possiamo na-
sconderci il fatto che la ricostruzione è tanto piú pertinente ed
affidabile quante piú informazioni storiche o, quanto meno,
tipologiche abbiamo già in nostro possesso. Se nulla possediamo,

86
Esclusivamente militare sembra essere stata la druªina slava comune.
87
E, aggiungo, le genti germaniche all’epoca di Cesare: all’epoca di Tacito, infat-
ti, il sèguito tende ad essere una vera istituzione con carattere di permanenza.
128 Franco Crevatin

poco piú di nulla possiamo dire. L’etimo è in questo caso la con-


quista faticosa in un processo nel quale nulla viene regalato e
dove talora ci si deve accontentare di un’ipotesi economica, nella
quale appunto è soprattutto l’economia ermeneutica a tentare di
compensare le inevitabili imprecisioni ed ambiguità dei dati lin-
guistici.
Il poeta latino Marziale (Ep. 1, 16, 2), nel dedicare ad un amico
il suo nuovo volume di epigrammi, riassunse mirabilmente la
situazione:
Ci sono alcune cose buone e parecchie cose cattive, o Avito,
che leggi qui: non è possibile fare un libro in un altro modo
L’etimologia come processo di indagine culturale 129

ETIMOLOGIA E SOSTRATO LINGUISTICO

La lingua ha una dimensione areale perché chi la parla occupa


un territorio. Non è detto però che in quello spazio si sia parlata
solo e sempre una determinata lingua: potevano esser esistite
lingue in sèguito scomparse o lingue portate da nuovi occupanti
che sono stati riassorbiti gradualmente nella compagine preesistente.
Queste sono le situazioni che i linguisti definiscono rispettiva-
mente con i termini di sostrato e di superstrato. Concretamente,
e facendo riferimento all’Italia (neo)latina, l’etrusco è lingua di
sostrato ed il langobardo lingua di superstrato.
Rintracciare l’origine delle parole di superstrato non è nel com-
plesso troppo difficile, poiché siamo guidati dalla storia
evenemenziale. Sappiamo che in Italia, poniamo, ci sono state
importanti presenze germaniche (Goti, Langobardi, Franchi),
bizantine (Esarcato, Italia meridionale, Istria), arabe (soprattutto
in Sicilia), albanesi (Calabria e Sicilia) – e ci limitiamo a quelle
piú importanti: da questo sapere riceviamo un utile caveat
ogniqualvolta in quelle aree linguistiche troviamo una parola che
non ci sembra spiegabile tramite le comuni trafile neolatine.
Nonostante ciò, non tutto ci è chiaro; anzi, importanti proble-
mi attendono ancora una soluzione definitiva, primo tra tutti quello
della continuità tra grecità linguistica megaloellenica e grecità
medievale e moderna nell’Italia meridionale: l’antica grecità è
stata assorbita da quella bizantina o invece c’è soluzione di continuità
determinata da una fase di latinizzazione delle parlate in que-
stione e seguita da una successiva bizantinizzazione? Propugna-
tore della continuità è stato il grande linguista tedesco G. Rohlfs,
oppositori alcuni studiosi italiani, in primis G. Alessio. La deci-
sione può esser presa solo sulla base dell’etimologia, poiché se
nella grecità medievale e moderna su suolo italiano sopravvivo-
no tracce degli antichi dialetti megaloellenici ciò significa che di
massima la continuità va ammessa.
Ebbene, questo ci pare un caso storico ed etimologico quasi da
manuale: la bibliografia sul tema è sterminata, la polemica scien-
130 Franco Crevatin

tifica è stata dura, a volte spietata, e tuttavia gli studiosi non


discutono oggi quasi piú sul tema, appagati del loro convinci-
mento morale, qualunque esso sia. Eppure rimangono spazi per
un’ulteriore riflessione. Vediamo innanzi tutto i dati generali.

La colonizzazione greca storica iniziò grosso modo nella prima


metà dell’VIII sec. a.C. Essa mirava al popolamento, ossia al tra-
sferimento di coloni dalla Grecia metropolitana alle terre d’Occi-
dente, e non alla semplice creazione di scali mercantili: all’epoca
la pressione sulle terre agricole produttive era in buona parte
della Grecia molto forte sia per ragioni politiche (diffusa presen-
za di ordinamenti politici aristocratici che favorivano l’occupa-
zione dei terreni migliori da parte di piccole élites) sia per que-
stioni ambientali 88. Con la fondazione di Cuma si aprí dunque
una stagione che durò parecchi secoli, durante i quali nuclei
consistenti di Greci si insediarono in Italia meridionale ed in Sicilia,
fondando città, creando empori, diffondendo la lingua e la cul-
tura elleniche. Pur tra difficoltà talora notevoli (la pressione etrusca
in Campania, cartaginese in Sicilia ed italica in tutto il sud), l’Ita-
lia meridionale meritò il nome di Megav l h ∆Ellav " , Magna Graecia,
venendo considerata da tutti i Greci alla stregua dello stesso territorio
metropolitano. La pressione italica ridusse progressivamente l’im-
portanza delle città stato greche e, in tempi e modi diversi, Roma
pose fine alla loro ormai fragile indipendenza.
Quando dunque parliamo di grecità italiota ci riferiamo ad
una presenza umana multiforme e complessa, ricca produttrice
di cultura spirituale e materiale e demograficamente tutt’altro
che irrilevante.
Poco possiamo dire su base documentaria delle dinamiche di
interazione linguistica tra Greci ed ambiente latino nei secoli che

88
Le rotte verso l’Occidente erano state aperte almeno cinque secoli prima, quan-
do i Greci Micenei stabilirono una serie di empori importanti nell’Italia meridionale
(soprattutto Puglia e Lucania). In seguito le rotte per l’occidente furono a lungo
in mano di Fenici e Ciprioti, e sicuramente tra gli equipaggi c’erano anche dei
Greci.
L’etimologia come processo di indagine culturale 131

vanno dalla conquista romana alla guerra gotica del VI sec. d.C.
Per quanto Roma non avesse mai avuto una politica linguistica
volta al sostegno del latino 89 , non si può dubitare del fatto che la
pressione della lingua dell’Urbe sia stata molto forte. Al volgere
dell’era volgare alcune città conservavano la loro caratterizzazio-
ne ellenica, come Pozzuoli, dove è ambientato il Satyricon di Petronio,
Taranto, Napoli, Reggio, ma l’ellenismo, stando a Strabone (6, 1),
era in forte regresso. Eppure l’epigrafia privata in lingua greca si
continua sino a tutto il V sec. e quanto meno nella Sicilia orien-
tale c’erano parecchi ellenofoni anche prima della conquista del
generale bizantino Belisario (a. 535). La constatazione di Strabone
va dunque riferita all’imbarbarimento della antica cultura ellenica
ed alla contrazione dello spazio linguistico greco, ma non come
atto di morte definitivo della grecità. C’è un episodio, accaduto
durante la guerra gotico-bizantina e riferitoci da Procopio (6, 17,
8 ss.), che è abbastanza significativo: a causa delle devastazioni
belliche, delle epidemie e della fame, molte zone dell’Italia cen-
tro meridionale erano diventate spopolate. Presso la città picena
di Urbisalia un bambinello, rimasto senza madre, venne allattato
da una capra. Quando la gente del posto, che pure era di stirpe
‘romana’, scoperse tale fatto prodigioso diede al bambino il nome
di Egisto (Ai[ g isqo"), evidentemente giocando sull’assonanza con
il nome greco della ‘capra’ (ai[ x , greco moderno ega). l’episodio
mostra che nell’Italia centro meridionale esisteva competenza nella
lingua greca, fatto da non trascurare quando si ragioni sulla continuità
megalo ellenica.
Nel VII secolo Bisanzio rivolse molte cure all’Italia meridiona-
le: la Sicilia, assieme alla Calabria meridionale e poi Otranto e
Napoli, venne eretta a thema (unità amministrativa di impronta
ed importanza militare) ed iniziò un lungo processo di trasferi-
mento di monaci bizantini e di privati dalla Grecia all’Italia
meridionale; nell’VIII sec. le diocesi di Sicilia e Calabria vennero

89
Le istituzioni e la lingua punica continuarono ad esempio indisturbate in alcu-
ne località della Sardegna sino al II sec. d.C.
132 Franco Crevatin

staccate dalla giurisdizione romana e passarono alle dipendenze


dirette del Patriarcato di Costantinopoli. In epoca normanna il
greco godette di un elevato status alla corte reale ed i documenti
conservatici tra il X ed il XIII sec. mostrano un’area di estensione
che copre l’intera Sicilia, Calabria, buona parte della Lucania fino,
forse, a saldarsi con l’area otrantina.
Bisanzio, come Roma, non aveva una politica linguistica e dunque
non era interessata all’ellenizzazione linguistica: tenuto pure conto
dell’importante influenza della religione e della ricchezza dei modelli
proiettati dal Corno d’Oro, è ragionevole pensare che tutta
l’ellenizzazione sia secondaria? E perché Bari, che per due secoli
fu la capitale bizantina in Italia, non fu mai grecizzata?
Insomma, per quanto con molte zone d’ombra l’idea che l’an-
tica grecità megaloellenica sia sopravvissuta a macchia di leopar-
do sino al VI secolo per poi confluire in quella bizantina non è,
come si vede, affatto inverosimile.

I dialetti grichi parlati oggi nel Salento ed in Calabria sono


indubitabilmente bizantini nella loro struttura: e questo è un fatto
ovvio, perché le eventuali sopravvivenze non potevano che esser
inserite in un contesto linguistico bizantino.
Vediamo ora quali sono gli elementi che indiziano una so-
pravvivenza lessicale megaloellenica. A rigore di logica (lingui-
stica), essa ha due particolarità: è caratterizzata da anteriorità
linguistica rispetto alla koiné ellenistica ed è dialettalmente con-
notata come dorica, propria cioè di quel dialetto che non fece
parte della koiné e che era largamente parlato nella Magna Graecia.
La compresenza dei due fattori ci permette ragionevolmente di
attingere livelli linguistici anteriori all’epoca bizantina. Infatti,
l’arcaismo e persino l’isolamento di una voce ‘grica’ all’interno
dei dialetti neoellenici odierni non sono elementi dirimenti, poi-
ché si potrebbe dire, appunto come sostengono a buon diritto gli
oppositori della tesi della continuità, che quanto appare oggi arcaico
ed isolato poteva ben non esserlo nel VII sec.
L’etimologia come processo di indagine culturale 133

Vediamo dunque i casi lessicali che sono i piú meritevoli d’at-


tenzione 90 .
Dorismi
bovese ásamo «senza marchio», riferito a ‘capra’, < a[ s amo"
«senza segni»; palesemente dorico (v. anche Anth. Pal. App.
678); si noti l’arcaico tipo aggettivale in -o" a due terminazioni.
otrantino láhri «felce» < bla~ c ron (Esichio), forma dorica per
il comune blh~ c ron. Qualche dubbio può esser indotto dall’at-
testazione della forma brav c lo a Corfú, il che potrebbe indur-
re a credere che si tratta di una concordanza dialettale speci-
fica e tutto sommato moderna.
bovese e sic. mediev. lanó «palmento» < la— n ov " , dorico per il
comune lhnov " .
bovese nasida, messinese nasita «striscia di terra coltivabile
presso un corso d’acqua», dal diminuitivo di na~ s o", dorico
per nh~ s o" «isola». La voce, con il significato che ci interessa,
è attestata solo nel greco d’Egitto 91 (P. Hib. 1, 90, 7 [III sec.
d.C.], P. Giss. 60, 1,1,1,4,12 [II d.C.], P. Oxy 1445, 13 [II d.C.]),
nel quale molto probabilmente è calco dell’egiziano jw «isola;
terreno vicino ad un fiume», e nel dialetto dorico delle tavole
di Eraclea (1, 38: na~ s o" «terreno alluvionale»).
bovese pastà e varianti «pasta di latte rappreso», < dorico pa—
kta— ⁄ equivalente al phkthv della koiné.
Regionalismi specifici:
bovese anápordo «tipo di cardo», reggino nápordu < oj n ov p ordon
«tipo di cardo (letter.: peto d’asino)». La voce, oltre che in
Esichio s.v., compare in Epicarmo, commediografo siciliano
(fr. 161); latinismo occasionale in Plinio (27, 110; lezione mi-
gliore rispetto ad onopradon). L’accento del siciliano napòrdu è
probabilmente una refezione.
bovese fílaco «tralcio di vite; stelo delle leguminose», < *fuv l akon
= fuv l ax «custode», calco di un latino custos con lo stesso
significato (in Plinio N.H. 17, 181).

90
L’elenco è sin troppo severo: non si troveranno voci per le quali può sussistere
anche un minimo legittimo dubbio ermeneutico – ovviamente, a mio avviso. Per
questo motivo non includo voci come il sic. ed il calabrese ‘caséntaru’ e sim.
«lombrico» che pure è sicuro dorismo (< ga~ " e[ n teron) perché sospettabile di
mediazione latina.
91
È attestata anche in Strabone, ma solo nei passi dell’opera che riguardano la
realtà geografica egiziana.
134 Franco Crevatin

bovzse véddi θ a «vespa», comune in tutta la Calabria meridio-


nale, < dev l liqe" (Esichio), dev l liqo" (Erodiano, Cherobosco,
Epimerismi, Lexika).

Anche tralasciando le decine di arcaismi e quei casi che po-


trebbero generare qualche dissenso, le voci sopra ricordate sono
di notevole forza probante se viste nel loro insieme. Decisivo è il
caso di «isola» nel senso di ‘terreno alluvionale’, caso che era
sfuggito all’attenzione degli studiosi: se è vero – ed è vero – che
nelle migliaia di testi greci a noi giunti la parola nh~ s o"/na~ s o"
presenta il doppio significato solo in Egitto, dove però è quasi
certamente calco dall’egiziano92 , e nelle tavole italiote di Eraclea,
il senso sopravvissuto nella grecità italiana meridionale non può
che essere un regionalismo megaloellenico.
Alcuni studiosi italiani hanno sostenuto che dorismi ed arcaismi
possono essere stati importati negli spostamenti umani di età
bizantina, in linea di massima un’ipotesi possibile: essa però perde
la propria ragion d’essere quando diventa una giustificazione
sistematica: comunque il caso qui discusso sembra aver ragione
– credo – di ogni possibile riserva 93 .

Non sempre, dunque, le cose sono facili quando si parla di


superstrato; per contro la situazione è sempre difficile quando si
indaga su voci appartenenti al sostrato linguistico. La ragione è
presto detta: perché siamo costretti a giocare una partita al buio.
Parole di lingue che non conosciamo, adattate in una forma fo-
netica approssimativa che obbedisce alle regole della lingua di
arrivo 94 , con attribuzioni di significato spesso generiche e larga-
mente decontestuate rispetto al loro originale habitat culturale,

92
Si badi che l’egiziano è parte di un’area coerente che comprende parte del
mondo semitico (cfr. arabo jaz•ra ) e del nubiano.
93
Va riconosciuto, tuttavia, che quanto qui affermato circa la continuità vale per
la grecità calabrese, ma non è detto che debba valere anche per quella salentina.
94
C’è da dubitare che molte persone, pur colte, riconoscerebbero nel tedesco
Pfingsten il nostro Pentecoste.
L’etimologia come processo di indagine culturale 135

trasformano il paesaggio in un mondo nel quale la distinzione


tra miraggi e realtà è spesso illusoria. Anche se possiamo ragio-
nevolmente dire che la parola x non è propria dello strato lingui-
stico di superficie e se possiamo affermare con certezza che sotto
quello strato ci sono strati precedenti, la partita rimane dura.
Sopra (p. 94) abbiamo visto che la voce greca per indicare la
vasca da bagno è un prestito da una lingua della Creta Minoica.
Restiamo per una volta ancora nello stesso àmbito.
Favoleggiavano i Greci d’età storica che Dedalo avesse costru-
ito a Creta per Minosse, re di Cnosso, un palazzo dalla pianta
incredibilmente complessa: al suo interno era stato rinchiuso il
Minotauro, mostruosa creatura metà toro e metà uomo. Già i
nomi dei protagonisti (Miv n w", Minwv t auro") e la localizzazione
del monumento rinviano alle culture cretesi pregreche: una volta
preso atto che il suffisso con il quale è formata la parola labuv r -
inqo" è caratteristico di molte voci preelleniche, che la bipenne è
un simbolo cultuale tipico di tali culture religiose e che il nome
lidio di tale oggetto era lav b ru", era pressoché inevitabile con-
cludere che il “labirinto” era originariamente il Palazzo della Bipenne,
qualcosa di connesso al mondo religioso: le tavolette greche micenee
ci hanno conservato l’espressione teonimica da-pu 2-ri-to-jo po-ti-
ni-ja Daburiv n qoio Pov t nia la «Signora del Labirinto», confer-
mando cosí che il Labirinto era effettivamente un edificio, co-
munque si debba intendere tale espressione, con significato reli-
gioso. Cosí almeno hanno convenuto molti studiosi. Effettiva-
mente la tesi del «Palazzo della Bipenne» è allettante: una parola
pregreca, comune a Creta e Lidia, un palazzo con un andamento
dei corridoi come le spirali di una conchiglia (come piú volte
precisano le fonti antiche), perdipiú situato secondo la saga a
Cnosso, dove in epoca storica ancora si dovevano vedere gli
imponenti ruderi del palazzo minoico, un simbolo religioso ben
documentato. Eppure non tutto va per il suo verso. C’è una tra-
dizione – tarda, daccordo – che vede nel labirinto un sistema di
caverne (ad es. Eust. Comm. Od. 1, 421), e c’è stato qualche stu-
dioso che ha argomentato a favore di tale esegesi; cosí come c’è
136 Franco Crevatin

stato chi ha preferito rinviare la voce labuv r inqo" a lau~ r a «viuz-


za stretta, incassata» o, in definitiva, a la~ Û a" «pietra, roccia»,
una parola di etimo indoeuropeo molto dubbio che assona con
l’albanese lerë «pietra» (< *lÄú erâ?) e con il neolatino italiano di
nord-est ‘làv(a)ra’ «pietra (piatta)» 95 . Questa frastornante serie
di accostamenti non è solo il segno di un’aporia esegetica speci-
fica, ma è quanto regolarmente avviene quando di una parola
abbiamo conservata piú o meno approssimativamente la forma
ma ignoriamo pressoché tutto sul suo significato. Tra l’altro, a
voler esser pedantemente legati ad aspettative morfologiche, do-
vremmo dire che labuv r inqo" presuppone verosimilmente una parola
*labuÿ r o- o *labuÿ r i- che non coincide appieno con quella suppo-
sta come etimo 96 .

In altri casi la situazione è piú confortante.


L’ambra era detta in greco h[ l ektron o lugkouv r ion: in epoca
ellenistica veniva detta anche souv k inon, prestito dal latino s¥cinum,
a sua volta prestito da qualche lingua del Baltico, da dove pro-
veniva l’ambra piú pregiata (cfr. lit. sãkas «resina»). La parola
lugkouv r ion era trasparente nel greco e significava ‘urina di lin-
ce’: si supponeva cioè che l’ambra fosse il prodotto fossile del-
l’urina di tali animali, come aveva supposto, forse per primo,
Demostrato. Zenotemide, un celebre scrittore greco di naturali-
stica, sostenne però che essa era la deiezione di certi animali che
vivevano vicino al Po e che si chiamavano langa, opinione che
altri anonimi studiosi antichi, evidentemente piú esperti della
realtà linguistica italiana settentrionale, corressero: tali animali
non si chiamavano langa, bensí languri (Pl. N.H. 37, 33). Zenotemide,
ed altri con lui, ritenevano dunque a ragione che la designazione
greca lugkouv r ion fosse un rifacimento paretimologico di tale voce
italiana settentrionale. Ci troviamo di fronte ai seguenti fatti: 1)

95
Quest’ultimo confronto è molto meno credibile.
96
Certo, si possono emettere ipotesi non irragionevoli per congiungere comun-
que laburinthos a labrus, ma questo non rientra qui nei nostri interessi.
L’etimologia come processo di indagine culturale 137

i Greci sin da età pre-ellenistica ritenevano che l’ambra fosse il


prodotto fossile di certi animali; 2) tali animali erano comuni
vicino al Po e 3) dal loro nome indigeno era stata tratta per
paretimologia la voce greca. Nei fatti qui esposti è implicita una
questione: perché l’Italia settentrionale padana? Per quale moti-
vo e come, cioè, i Greci avevano desunto da una regione cosí
lontana dall’Ellade una teoria (pseudo)naturalistica ed un nome
locale? E quale animale era il ‘languro’?
Alla prima domanda possiamo rispondere con facilità: perché
sin dalla fine del II millennio a.C. i Greci sapevano che nell’Italia
settentrionale, proprio alle foci del Po (e come dimostrano recen-
ti scavi archeologici) esistevano importanti centri di lavorazione
e commercializzazione dell’ambra, anche di quella proveniente
dal Baltico97 .
E probabilmente siamo in grado di rispondere anche alla se-
conda domanda: dietro la designazione languri si nasconde il ramarro.
Se si guarda infatti alle designazioni italiane settentrionali di tale
rettile (AIS 3, 450) si vedrà che l’Italia settentrionale è percorsa
da un tipo prelatino ‘languro’, spesso attratto per incrocio da
‘legare’, con il quale è entrato secondariamente in concorrenza il
latino lacerta «lucertola».
La corrispondenza formale e la situazione areale sono talmen-
te puntuali da non lasciare spazio a molti dubbi: dunque, molte
genti dell’Italia settentrionale preromana ritenevano che il ramarro,
il ‘languro’, producesse in qualche modo la preziosa ambra.

Ritorniamo al concetto di sostrato per ribadire ancora una volta


che esso non ha in se stesso nulla di ontologicamente complesso:
prima della lingua x si parlava la lingua y ed il linguista studia

97
Mi riferisco al sito di Frattesina nel Polesine, dove la marineria mercantile
orientale e cipriota dal XII sec. a. C. ebbe un importante punto di riferimento: ivi
si lavorava su commissione l’avorio e persino le uova di struzzo. I Greci, forse
già micenei, erano certamente informati di tali rotte, pur se non le percorrevano
in proprio, tant’è vero che nell’area del Caput Adriae conoscevano l’esistenza di
‘isole dell’ambra’ (∆Hlektriv d e" nh~ s oi), la cui posizione corografica è incerta
(isole del Quarnaro?).
138 Franco Crevatin

le tracce che la situazione piú antica ha lasciato nello strato piú


recente. Tutte le cose davvero difficili, tuttavia, si presentano con
presupposri semplici: il diavolo si nasconde nei particolari. Par-
tiamo dunque da un fatto apparentemente ovvio: se c’è una lin-
gua ci sono dei parlanti, i quali hanno una loro cultura e defi-
niscono in qualche modo se stessi: la ricerca sul sostrato dunque
contribuisce a definire realtà etniche e a classificare da un punto
di vista linguistico, possibilmente con l’ausilio di documentazio-
ne storica, tali genti. Non è forse quello che facciamo quando
mettiamo assieme il francese arpent «nome di misura terriera» e
l’informazione dello scrittore latino Columella (5, 1, 6) secondo il
quale i Galli chiamavano arepenne il semi-iugero? Non stiamo
forse, tramite l’etimologia, ristabilendo una categoria etnica?
È cosí, ma questo rimane vero solo quando il contesto areale
e storico nel quale si incontra il prestito è nettamente definibile,
altrimenti l’assunto, pur restando formalmente vero, è di fatto
irrilevante, non precisabile o comunque rimane al di là di qual-
siasi possibilità di accertamento.
Vediamo brevemente qualche altro caso di attribuzione certa.
Nel sardo campidanese l’«aneto» è detto tsikkiría ed il rosmarino
tsíppiri: si tratta di parole risalenti alla presenza punica in Sarde-
gna, una presenza largamente accertabile nelle fertili campagne
del Campidano e storicamente documentabile da iscrizioni, noti-
zie di età romana e da numerosi toponimi. La prima parola è
documentata dallo studioso greco di botanica Dioscoride Pedanio,
il quale attribuisce agli “Afroi 98 la voce sikkiriv a «id.» (cfr. ebraico
¡ekar); la seconda è riportata dall’erbario latino dello Pseudo Apuleio,
nel quale leggiamo che il rosmarino è detto zibbir dai Punici. La
‘ruta’ nel sardo centro-orientale è detta kúruma, ed anche questa
è voce punica, perché ancora una volta Dioscoride attribuisce ai
Cartaginesi la voce courmav dall’identico significato; è, da ultimo,
ancora lo Pseudo Apuleio a darci la spiegazione dell’oscuro nome
dell’equiseto palustre síntsiri / sintsurru, ossia il punico zunzur,

98
L’interpolatore di Dioscoride usa regolarmente ‘Africani’ per Cartaginesi.
L’etimologia come processo di indagine culturale 139

nome del poligono aviculare, una pianta che può esser scambiata
con l’equiseto.

E purtuttavia, come si è detto, attribuzioni di questo tipo non


sono frequenti. Le voci di sostrato ci sono note in quanto sono
state assunte dalla lingua che si è imposta e che ci è nota: parole
del sostrato cretese ‘minoico’ sono passate nel greco e parole
cartaginesi (o galliche, o etrusche, ‘alpine’ o altro) sono passate
nel latino; la loro successiva fortuna e diffusione sono dunque
parte della storia linguistica e culturale della lingua che le ha
recepite. La categoria etnica loro soggiacente non è meno vera,
ma la parola latina ha avuto, nel prosieguo del tempo, la sua
storia. L’esemplificazione di questo dato di fatto sarebbe sin troppo
facile, per cui mi limito a ricordare il nome dell’ontano, verna,
concordemente ritenuto di origine celtica: esso è documentato
nell’area italiana nord-occidentale, mentre altrove è prevalente il
tipo alnus (e derivati). Nel Medioevo però, stando ai dati della
toponomastica, era diffuso piú ampiamente ed oggi – fatto cu-
rioso – sopravvive nell’Istria meridionale (Gallesano verna). Sa-
rebbe palesemente assurdo voler attribuire la diffusione antica
(quanto meno quella istriana) del tipo alla presenza di Celti cisalpini:
la voce, infatti, non può che esser stata diffusa dal latino regio-
nale dell’Italia settentrionale.
La voce di sostrato giunge a nostra conoscenza tramite la
lingua veicolare che l’ha recepita – dunque per noi essa è cicatrice
di distribuzioni linguistiche piú antiche. Dobbiamo presumere
che essa abbia seguito la normale trafila di ogni prestito – ché,
all’origine, essa altro non era se non un prestito –, che sia stata
motivata da situazioni sociali e culturali specifiche, che linguisti-
camente sia stata grammaticalizzata, ossia adattata foneticamen-
te e morfologicamente al sistema della lingua ricevente, che spesso
abbia subito mutamenti semantici piú o meno rilevanti. Insom-
ma, la voce in questione è un’approssimazione, non una copia
dell’originale. Se, infatti, un elemento lessicale trova il suo posto
in un’architettura culturale data, è chiaro che l’architettura origi-
140 Franco Crevatin

nale del prestito di sostrato va di norma perduta o comunque è


piú o meno ampiamente riformulata. In conclusione, il lessema ci
informa su situazioni storiche perlopiú di seconda istanza, pro-
prie cioè della lingua d’arrivo.
Comunque sia, è di estrema importanza poter accertare l’area
di distribuzione (sopravvisssuta, daccordo, e verosimilmente ben
diversa da quella originale) di un tipo etimologicamente di sostrato:
rivediamo tramite essa le reti di comunicazione preferenziale,
siano esse il latino locale, poniamo, quello regionale od interregionale,
e possiamo tentar di capire la ratio che ha determinato l’assun-
zione del prestito o la sopravvivenza di usi lessicali precedenti al
processo di latinizzazione.
Ovviamente qui partiamo dall’assunto che una parola sia sta-
ta riconosciuta con ragionevole certezza come appartenente al
sostrato. Tuttavia è molto delicato decidere cosa sia ‘ragionevole’
e cosa non lo sia, e c’è il rischio, come si è spesso detto, di co-
prire semplicemente la nostra ignoranza con la pudica e falsifi-
cante etichetta di SOSTRATO .
Partiamo – scegliendo come àmbito linguistico quello neolatino,
in quanto ricco e ben documentato – da documentazioni moder-
ne. Nel tipo dialettale della zona x sono documentati termini che
non è possibile spiegare tramite il latino: ad esempio, nell’Istria
meridionale sono attestati i tipi * ARNO «anfratto tra le rocce» e
* KARMA «buca rocciosa» che non sono latini; non solo: la loro
forma attuale (rovignese arno, carma) presuppongono quella – e
nessun’altra – forma originale. Ne consegue che l’ipotesi piú econo-
mica, accertato che non si tratta né di slavismo né di germanismo,
è far risalire etimologicamente le voci al sostrato 99 . L’ipotesi è
corretta, ma in moltissimi altri casi il problema è molto piú complesso.
Nell’Italia settentrionale (soprattutto in Lombardia e Ticino) è
attestata una base * BORD( A ) i cui significati variano da quello di
strega a maschera, nebbia, suono basso (v. LEI s.v.): è possibile

99
Tralascio qui di indagare l’ipotesi se il tipo karma non sia in qualche modo una
voce di origine indoeuropea, < *ker- «tagliare, incidere» con suffisso in nasale.
L’etimologia come processo di indagine culturale 141

recuperare una certa coerenza semantica (e pare proprio che il


senso di ‘mascher(atur)a’ sia quello che consente di dare unità
semantica ai derivati), ma nulla ci autorizza ad attribuire la pa-
rola al sostrato, semplicemente non sappiamo quale mai sia l’ori-
gine della parola. Si rischia sempre di procedere, come diceva
Virgilio, per incertam lunam sub luce maligna. Ad esempio la ‘ca-
valletta’ ha nomi che nel Ticino rinvengono ad un * SALIPPU , in
Lombardia a * SALIUTTULA ed a * SALIUCCU nel ladino dolomitico,
tutte formazioni sconcertanti, ma non al punto da far trascurare
l’ipotesi che la base soggiacente altro non sia se non il latino
sal•re nel senso di «saltare» 100 . Il tipo lessicale ‘kadolka / gadolka’
«bevanda, diffusa in zona ticinese, a base di acqua e latte» è stato
spesso ritenuto preromano,la spiegazione piú economica è rite-
nerlo un composto, alquanto recente, di ‘acqua’ ([a]ga) + ‘dolca’
«dolce» (< lat. dulcåre «addolcire»), ossia un ‘acqua dal gusto
dolciastro’. Anche i nostri insuccessi etimologici congiurano dunque
per creare ulteriori miraggi.

Il riconoscimento di una voce di sostrato implica l’estraneità


della stessa all’etimologia interna ed esterna (una parola non è
spiegabile né all’interno del latino, poniamo, né nella logica
indoeuropeistica all’interno della quale il latino viene classifi-
cato come tale 101 ); può implicare altresí una forma della parola,
una tipologia, che mal si adatta a quella canonica nota nella lin-
gua di superficie. Talora possono essere i suffissi formativi a suggerirci
un etimo di sostrato: l’abbiamo visto per -nq- greco e potremmo
spesso ammetterlo per formazioni in -p- o -r- neolatine.
Comunque sia, non è possibile stabilire criteri che valgano
sempre e comunque per definire a priori cosa debba e possa es-
sere una voce etimologicamente di sostrato, criteri che superino

100
Semmai si potrebbe chiederci se almeno nel caso del suffisso -ippu- non si sia
davanti ad una sopravvivenza morfologica di lingue del sostrato.
101
In questo senso possiamo parlare di voci di sostrato ad esempio italico o
celtico o altro ancora, indoeuropeo sí ma non latino.
142 Franco Crevatin

l’ej m peiriv a del quotidiano o del caso legato alla singola lingua.
Forse, per paradossale che possa sembrare – poiché in effetti esso
crea altrettanti problemi di quanti non contribuisca a risolvere –
un elemento indicativo è la ricomparsa (e dunque la comparabilità)
della voce in zone diverse e contigue 102 . Affronteremo questo
problema partendo da qualche esempio.
Le carte AIS 7, 1482 e 1484 ci forniscono la distribuzione dei
vari tipi lessicali italiani per i concetti di ‘vaglio da grano’ e di
‘setaccio’, attrezzi agricoli importanti e tecnologicamente molto
poveri. Il vaglio, in un’area che va dalla Galloromania al lombar-
do alpino, grigionese, ladino centrale, trentino e friulano, ha un
nome che presuppone * DRAGIU / * DRAGIA, per il quale è stata sup-
posta, per ragioni areali, un’origine celtica. Il nome del setaccio,
invece, in area galloromanza, veneta, trentina, ladino dolomitica,
istriana ed in buona parte del Friuli, risale al tipo *TAMÁSIU , ed
anche per esso si è supposta, con verosimiglianza, un’origine celtica.
Sicuramente i tipi sono dunque preromani, ma la storia è com-
plessa: sicuramente una parte della loro fortuna va ascritta ai
rapporti tra Cisalpina e Galloromània, in un continuum cronolo-
gico che si scala dalla tarda antichità al basso medioevo.
Di diffusione molto piú ristretta è il tipo * TAMA ˘ R O «recinto per
animali», presente in area alpina centrale ed orientale, probabil-
mente in origine qualsiasi costruzione provvisoria fatta con rami
o pali (cfr. friulano tàmar «stabbio», gardenese tambra «capanna
di montagna»). La base potrebbe essere affine a * TAMUSKJA (- O ˜ - ?),
anch’essa di diffusione alpina centro orientale e dal significato di
«capanna, tettoia, fienile» (friulano tamosse «fienile di montagna»).
Ma come saldare queste basi al ricostruito * KAMO ˜ K JO (- SK - ?), esso
pure parola che indica una costruzione di pali in montagna e con

102
Ciò che qui volutamente tralascio è la possibilità di connettere basi (di sostrato)
ricostruite, con un senso generico altrettanto ricostruito, a toponimi (che per definizione
hanno perso qualsiasi trasparenza semantica): è questa una prassi, perigliosissima,
che è stata spesso seguita. Non si tratta di dichiarare l’inaffidabilità assoluta
delle connessioni proposte, e parecchie potranno pure corrispondere al ‘vero’
etimologico, ma quale strumento, che non sia la fede, ci consente di falsificare
l’ipotesi emessa?
L’etimologia come processo di indagine culturale 143

la stessa distribuzione areale? E come rapportare il tutto a quel


* KAM - / * GAM -, voce lombarda alpina e dolomitica che sembra
indicare la capanna (‘camanna’), che pure arieggia il tipo italiano
capanna, attestato per la prima volta da Isidoro di Siviglia?
I due esempi ci insegnano piú cose: innanzi tutto il ricompa-
rire del tipo su distanze notevoli mostra che effettivamente la
ricostruzione di un tipo lessicale è operazione legittima, poiché
da una singola attestazione poco si può dedurre; dalla certezza
di legittimità ricaviamo la necessaria certezza di un origine non
latina. Inoltre il fatto che * TAMÁSIU sia noto anche in area francese
conforta l’idea che si tratti di un celtismo. Di piú, poco possiamo
dire: erano i due diversi tipi lessicali per indicare lo staccio tipi
concorrenti oppure si riferivano a realtà ergologiche diverse (per
funzione o materia struttiva)? Non lo sappiamo. In particolare il
secondo esempio ci mostra in quali labirinti di ipotesi possa condurci
il tentativo di esegesi. Ma anche se restassimo aderenti all’infor-
mazione minimale, ossia l’esistenza del tipo ‘alpino’ * TAMA ˘ R O do-
vremmo forse concludere che in epoca preromana la zona com-
presa tra le Alpi centrali e quelle orientali era linguisticamente
unitaria? È difficile ammetterlo, per cui parrebbe prudente con-
cludere che già in epoca preromana il tipo era una voce di cul-
tura, legato ad una specifica cultura materiale ma slegato da un
presupposto etnico.
Altri due esempi ci portano a considerazioni in parte diverse.
Le designazioni del mirtillo dal Ticino alla Carnia sono dei
derivati da un *GLASTO (*glasína103 , *glast(i)øne), voce celtica attestata
anche da Plinio (N.H. 22, 2) e designazione del guado, pianta che
serviva come colorante e che dava un colore blu scuro. La certez-
za di trovarsi di fronte ad un celtismo è sostanziata anche da
fatti fonetici: celtico è infatti il passaggio -st- > -ts-.
Altrettanto sicuro è il caso del tipo benna, che Paolo Diacono
definisce parola gallica per indicare un tipo di veicolo: la parola
è attestata dalla Spagna all’Italia settentrionale. Probabilmente si

103
Con passaggio fonetico sicuramente celtico -st- > ts- > -(s)s-.
144 Franco Crevatin

trattava di un carro con cestone di vimini intrecciati, dato che i


derivati italiani mostrano spesso il senso di «cesto, civea».
La certezza etimologica non va disgiunta dalla consapevolez-
za che il tipo * GLASTO , proprio perché legato ad una tecnica tin-
toria, è originariamente parola di cultura; alla fin fine lo stesso
‘mirtillo’ può esserlo, come ci mostra il fatto che il tipo giàsena
‘mirtillo’ è attestato nel dialetto di Capodistria (Istria settentrio-
nale), dove i mirtilli non esistono per cui siamo di fronte ad un
prestito, anche se non recentissimo, dall’area dialettale veneta.
Nel caso di benna è evidente che abbiamo a che fare con una voce
propria del latino parlato: l’unico problema semmai sarebbe quello,
filologico, di capire come Paolo Diacono sapesse che la voce era
di origine celtica, ma è problema che qui a noi non interessa.

Dobbiamo dunque esser molto attenti nel valutare l’area di


distribuzione di un tipo lessicale etimologicamente di sostrato,
poiché esso è sempre passato attraverso la lingua dominante. Questo
fatto può ingenerare situazioni equivoche. In alcuni dei casi so-
pra citati, pur essendo probabile che i tipi citati siano stati parte
anche del latino cisalpino, sarebbe pericoloso ignorare le strette
connessioni intercorrenti tra Galloromània ed Italia settentrionale,
connessioni che si sono create già nel IV sec. d.C., quando l’an-
damento del sistema viario romano assunse sempre piú un anda-
mento latitudinale rispetto a quello precedente e basato sulla
centralità di Roma. I rapporti si sono continuati, sempre molto
intensi, nell’alto Medioevo e talora sino alla fine del Medioevo
stesso. Partiamo dunque da una situazione di latino interregionale
prima, internazionale poi (la Gallia tardo antica ed alto medieva-
le era un formidabile centro irradiatore) per giungere a situa-
zioni di interferenza decisamente neolatina. Insomma, l’etimo di
sostrato non ci garantisce mai che la distribuzione della voce sia
esclusivamente antica.
Per incertam lunam sub luce maligna, come sopra si diceva, una
luce spettrale che talvolta ci fa dar corpo alle ombre e talaltra con-
fonde ai nostri occhi anche ciò che in piena luce sarebbe semplice.
L’etimologia come processo di indagine culturale 145

Potremmo facilmente continuare, con casi piú o meno eviden-


ti, piú o meno problematici, piú o meno diffusi 104 . In genere i tipi
lessicali di sostrato si incontrano nel mondo neolatino (ed il fatto
resta vero anche in generale) nelle tassonomie vegetali ed anima-
li a livello del taxon specifico o varietale oppure nell’identificazione
di aspetti dell’ambiente fisico: potremmo sussumere questa
fenomenologia all’interno del particolarismo locale, le cui etichettature
linguistiche non sempre hanno equivalenti ovvii in lingue diver-
se. Lo stesso vale, in definitiva, anche per nomi di oggetti legati
a tecniche o strutture economiche specifiche. C’è da stupirsi se in
àmbito alpino i nomi della slitta – * LEUDIA, * SKLODIA , * SLE ( N ) ZULA –
sono quasi sempre di origine preromana?
Tuttavia, sarebbe riduttivo e spesso errato guardare al proble-
ma generale in termini di salienza del singolo elemento – x è un
elemento importante o caratterizzante, che attira la mia attenzio-
ne perché non lo conosco o è migliore di quello a me già noto: la
salienza riguarda un insieme culturale coerente entro il quale si
collocano i singoli elementi. L’economia di montagna, per restare
nel tema del sostrato ‘alpino’, era un quadro di riferimento in
buona parte estraneo al mondo romano ed entrare in quel mondo
di rapporti implicava conoscerne e continuarne i singoli insiemi:
le piante utili o pericolose, la lavorazione del latte ed attrezzi
connessi, la lavorazione del legno e quanto altro. Tuttavia non si
trattava di un accettare o respingere in toto, cosí come non si
trattava, ovviamente, di sostituire un certo numero di etichettature
della lingua x con quelle della lingua y, bensí di una delicata
operazione culturale: via il bilinguismo, l’interazione portò in primo
piano tali insiemi salienti e contemporaneamente portò a sele-
zionare quegli elementi che nella rete (inter)regionale di comunica-
zione erano indispensabili per ragioni di volta in volta economi-
che (lo scambio mercantile), ergologiche (attrezzi e tecniche), culturali

104
Di enorme estensione è ad esempio il tipo * BALMA «(riparo sotto) roccia», che
va dalla Spagna all’Italia alpina, e del quale è pressoché impossibile precisare il
centro d’origine.
146 Franco Crevatin

e di adattamento ambientale. È opportuno insistere su tali reti


non solo perché sappiamo che questo concretamente avvenne quando
il dominio romano si stabilizzò definitivamente nella Cisalpina,
ma anche perché diviene allora evidente che prima del latino
erano altre le lingue veicolari (non di necessità legate all’etnicità,
si badi) che avevano tenuto il campo, qualche lingua celtica, in
alcune zone il venetico, e prima ancora altre lingue, diverse re-
gione per regione (potremmo dire l’etrusco, il «ligure», se sapes-
simo dar corpo a tale designazione, e cosí via). Adesso, per cosí
dire, possiamo farci un’idea leggermente piú realistica dei pro-
cessi avvenuti: il latino regionale diffuse voci di sostrato cosí
come prima di esso avevano fatto altre lingue veicolari – il gallico,
poniamo, diffuse celtismi assieme a voci pre-celtiche e cosí via.
La straziante complessità della situazione che oggi constatiamo
deriva proprio da questa sovrapposizione continua ed è a questo
punto evidente la riduttività di qualsiasi discorso sul sostrato
meramente in termini di categorie etniche.

Ci resta un ultimo tema da affrontare brevemente, quello del-


la «rete di reti». La terminologia potrà parere bizzarra e tuttavia
non è inopportuna: in sostanza il problema di base è quello dei
prestiti a distanza. È abbastanza comune che in una lingua si
grammaticalizzino prestiti provenienti come origine ultima da
lingue non a contatto: ciò avviene tramite il contatto, determina-
to da ragioni commerciali, politiche o altro, di una serie di sin-
gole reti locali di comunicazione. Un esempio molto opportuno
ci è offerto dallo slavo comune * kíniga «libro» (russo kniga ecc.).
La voce nasce in Cina, juan «libro, rotolo», e da lí passa alle
lingue proto-turche: è ben vero che all’inizio dell’VIII sec. d.C. le
genti Turche dell’Orkhon avevano una propria scrittura (di ori-
gine ultima aramaica, fattualmente una forma di sogdiano non
corsivo e loro trasmessa da genti iraniche settentrionali) ed era-
no in contatto con parecchie tradizioni alfabetizzate 105 , ma era la

105
E basti pensare alle missioni manichee e nestoriane in Asia centrale.
L’etimologia come processo di indagine culturale 147

Cina a costituire il vero e proprio impero dello scritto. La parola


per ‘rotolo librario’ si diffuse cosí con una certa rapidità, passan-
do anche a genti uraliche (ad es. mordvino koñov «carta») ed
arrivando alle soglie delle steppe pontiche nella lingua dei Bulgari
(turchi), dove aveva la forma *küjnig). L’importante formazione
statuale Bulgara portò la parola sia nel Caucaso (dove è attestata,
tra l’altro, nell’osseto kúinuga e sim.), sia nella lingua dei Magiari
(cfr. ungherese moderno könyv) sia nel cuore del territorio slavo
antico. Passo passo, è dunque possibile ricostruire un percorso
che a tutta prima pare sterminato. Ma abbiamo davvero bisogno
di dimostrare che la via delle steppe collegava Asia centro-orien-
tale ed Europa? Naturalmente essa non era un’unica rete di comunica-
zione, non c’era una lingua comune che consentisse lo scambio,
ma lingue che sono state diverse nei diversi periodi storici: la via
era in sostanza la congiunzione di una serie ininterrotta di reti
locali ed interregionali. Solo in questo modo possiamo compren-
dere come una popolazione centro-asiatica106 come gli Unni sia
potuta affacciarsi temibilmente in Europa centrale. Non basta infatti
dire che gli Unni erano nomadi, essi non si spostavano casual-
mente, visto che non avevano cavalli resistenti107 , in parte perché
di razza diversa da quella europea in parte perché nutriti sempli-
cemente al pascolo, bensí si muovevano su percorsi dei quali,
pur non avendoli praticati, conoscevano l’esistenza. Su vie di
questo genere si muovevano uomini, beni, idee e parole 108 . ‘Reti
di reti’ di questo tipo sono ben note (le rotte monsoniche tra

106
Non sappiamo a quale ceppo linguistico apparteneva la loro lingua, ma, per
il poco che possiamo vedere, molti loro usi trovavano riscontri precisi in àmbito
altaico: per tutti ricordo i riti funebri in onore di Attila, la corsa sfrenata sino allo
sfinimento dei cavalieri attorno alla tenda funebre che coincide coi riti funebri
turchi e mongoli.
107
La norma mongola voleva che un cavallo da guerra non poteva essere utiliz-
zato per piú di tre giorni.
108
L’«arte delle steppe» collega l’Europa germanica e celtica alla periferia del-
l’Asia orientale (l’arte Xiong-nu è uno degli ultimi anelli); su tale via si è spostato
il manicheismo, il nestorianesimo e poi l’Islam; una parte importante dal punto
di vista linguistico l’hanno avuta le genti iraniche, prima gli Sciti e poi i Sogdiani,
ed in seguito (ed in parte contemporaneamente) le genti turche; ecc.
148 Franco Crevatin

Africa Orientale ed India, inclusive degli scali arabi e persiani; i


rapporti Mesopotamia - India già nell’età del bronzo; i legami
Vicino Oriente - Anatolia - Egeo, sia per via di terra che per mare
[Cipro], e Vicino Oriente - Caucaso meridionale; ecc.) e di esse
gli studiosi hanno trovato tracce linguistiche. Perché citarle nel
contesto del problema del sostrato? Ebbene, perché sono state
avanzate due tesi – la tesi cosiddetta indomediterranea e quella
del sostrato iberico-africano – che forse meglio si capiscono pro-
prio a partire dalla ‘rete di reti’.
La tesi indomediterranea sostiene che, anteriormente all’arri-
vo delle genti indoeuropee e semitiche, lo spazio geografico tra
Mediterraneo ed India era intercomunicante, pur nelle differenze
di lingue e culture presenti: le interconnessioni sarebbero visibili
sia a livello di parole itineranti (Wanderwörter) sia sul piano cul-
turale, tutti fatti che noi a posteriori percepiamo come elementi di
sostrato. La tesi è affascinante e da un punto di vista generale è
credibile, nonostante le argomentazioni linguistiche e culturali
addotte non siano sempre di sicura evidenza. Non si può infatti
dubitare che l’area in questione sia stata largamente attraversata
da reti di comunicazione, e di ciò sopravvivono cicatrici lingui-
stiche. Ad esempio la parola sanscrita n†gam «piombo, stagno»
(attestata dall’epoca classica) appartiene al medesimo circuito nel
quale compaiono voci semitiche (accadico an†ku, arabo ’†nuk, etiopico
n†’ik), l’armeno anag e probabilmente già il sumerico nagga. Un
altro caso, di sovente citato, è quello della parola che vale «(tipo
di) scimmia»: nel mondo semitico si può ricostruire una forma
*qâp (cfr. ebraico qôf), non senza aspetti foneticamente aberranti
(accadico uqûpu) passata in ambiente egeo (greco kh~ b o", dorico
ka~ b o") e probabilmente in armeno (kapik). Evidentemente con-
nessa è la voce indiana kap«˙. Nell’egiziano antico la forma gyf e
sim. (copto sah. qapi) pare indipendente 109 . In questo, come nel

109
Piú distante, e comunque di pertinenza incerta, mi pare il berbero marocchino
aba\us . Tralascio qui le connessioni proposte con voci celtiche, germaniche (ad es.
tedesco Affe) e slave e che comunque indizierebbero, nella migliore delle ipotesi,
un / ap-.
L’etimologia come processo di indagine culturale 149

caso precedente, siamo evidentemente di fronte a prestiti di ne-


cessità, dei quali non sappiamo precisare né la cronologia né il
centro di irradiazione, e che tuttavia illustrano bene quanto ampia
potesse essere l’estensione della rete di reti.
Il problema del sostrato iberico-africano è forse di altra natu-
ra. Lo riduco qui all’essenziale: alcune proposte etimologiche paiono
connettere Africa settentrionale Iberia e Sardegna in un circuito
coerente. Ancora una volta, noi percepiamo come fatto di sostrato
quelli che possono essere stati fenomeni di prestito legati a
spostamenti di gruppi umani. Sia come sia, gli studiosi hanno
piú volte attirato l’attenzione sulla possibilità di spiegare fatti
linguistici e culturali preromani della Sardegna con la docu-
mentazione berbera. Pausania (10, 17) riferisce inoltre che il pri-
mo colonizzatore della Sardegna era stato un certo Sardo alla
guida di genti libiche (informazione ripresa da Isid. Or. 14, 6, 39)
e connessioni con la Libia mostrano anche pretesi colonizzatori
greci (ad es. Diod. Syc. 4, 82). Norax invece, altro colonizzatore
mitico, sarebbe giunto in Sardegna con degli Iberici (Paus. 10,
17). Gli indizi sembrano davvero convergenti, anche se in se stes-
si nulla ci dicono di diretto sulla cronologia di tali rapporti. Se
prescindiamo dalle notizie che collegano paretimologicamente il
nome degli Ilienses, gente sarda dell’interno dell’isola, con il nome
di Ilio (= Troia) e dunque collegano una parte del popolamento
alle vicende seguite a tale conflitto, potremmo pensare che di
massima si tratti di informazioni, vaghe ma non infondate, che i
Greci avevano raccolto in loco all’epoca dei loro primi tentativi di
colonizzazione della Sardegna, tentativi bloccati dalla presenza
Cartaginese. Abbiamo tuttavia il diritto di porci un’altra domanda,
ossia se sia lecito staccare tali notizie proprio dalle informazioni
– queste sí, sicure – che riguardano un’altra popolazione della
Sardegna, i Balari (sui quali v. Paus. 10, 17): essi erano, secondo
la tradizione, disertori dell’esercito cartaginese che si sarebbero
insediati parte in Corsica e parte, appunto, in Sardegna. È diffi-
cile staccare il nome dei Balari da quello delle Baleari, isole la cui
popolazione era stata di sovente reclutata dai Cartaginesi per
150 Franco Crevatin

formare truppe ausiliarie: nelle Baleari i Cartaginesi avevano


importanti basi 110 ed almeno in parte vi si erano insediati, come
prova, tra gli altri, il nome di località Mago (a Minorca?) e che
rinviene al fenicio-punico maqøm «insediamento». Insomma, la
presenza cartaginese in Sardegna può esser ritenuta responsabile
non solo delle presenze linguistiche iberiche, ma anche di quelle
‘libiche’, ossia berbere, perché, com’è noto, Cartagine si serví quasi
esclusivamente di truppe libiche come alleati o mercenari per il
proprio esercito.
Forse di tutto ciò ci è rimasto un indizio significativo. Il nome
dialettale sardo dello «sparto», graminacea dal fusto molto resi-
stente utilizzata per intrecciare canestri o funi, è θinníγa nel nuorese,
tinnía nel logudorese e tsinníga nel campidanese: l’etimo è quasi
certamente il berbero tsenn•t dallo stesso significato. Plinio (N.H.
19, 26) ci dà tuttavia una notizia essenziale: lo sparto africano era
pianta piccola e di quasi nessuna utilità, mentre era molto ap-
prezzata dai Cartaginesi la varietà che essi importarono ed ac-
climatarono nella regione di Cartagena, una varietà che consen-
tiva di preparare corde e gomene che resistevano anche all’acqua
marina. L’uso dello sparto – precisa Plinio – non era anteriore
alle prime conquiste cartaginesi in Spagna e da ciò dobbiamo
concludere che anche la voce sarda non risale ad una remota ed
imprecisa antichità, ma è stata importata all’epoca dell’occupa-
zione di parte della regione da parte dei Cartaginesi.
Insomma, il circuito iberico - berbero - sardo preromano po-
trebbe non essere altro che un fatto legato all’espansione militare
e commerciale dei Cartaginesi. E questo non significa sottovalu-
tare il ruolo fortemente dinamico avuto dalle genti Berbere anche
anteriormente alla presenza di Cartagine: se esse hanno avuto la
capacità di varcare un notevole tratto di mare e di occupare le
Canarie (il cui sostrato, il cosiddetto guancio, è appunto berbero),
nulla vieta di pensare che abbiano attraversato anticamente lo
stretto di Gibilterra. In definitiva la Spagna meridionale presen-

110
È molto probabile che le basi fossero già fenicie.
L’etimologia come processo di indagine culturale 151

tava, quanto meno dalla fine del II millennio a.C. molte ragioni
di interesse: ci stavano arrivando i Fenici e le miniere d’argento
della zona tartessia dovevano già essere attive.
152 Franco Crevatin
L’etimologia come processo di indagine culturale 153

STORIE DI FRONTIERA

Abbiamo piú volte parlato in questo libro di prestiti, soste-


nendo che di norma essi ci informano su situazioni di natura
culturale: cicatrici di rapporti storici occasionali o segno di mode
che essi siano, prestiti sono presenti in ogni lingua ed in ogni suo
stile. È noto il convincimento religioso dei musulmani riguardo
al Corano: esso è coeterno e coesistente con Dio stesso111 ed è
stato rivelato sotto dettatura al Profeta: e tuttavia anche nell’ara-
bo del Corano ci sono prestiti, sia dal greco che dal latino: siråã
«strada (principale)», presente addirittura nella Fatiha, viene dal
latino stråta e qaßr (s. 22, 45) da castrum «accampamento fortifica-
to»; qalam «strumento per scrivere» viene dal greco kav l amo".
Nonostante la natura culturale del prestito sia in se stessa ov-
via, non sempre essa è immediatamente leggibile e talora per ca-
pirla è necessario servirsi di un quadro di riferimento semantico
ben piú ampio della singola parola, come qui ci insegna un caso
che a prima vista sembra sconcertante. Come è noto, il movimento
vichingo investí largamente, tramite il sistema fluviale, la Russia
europea. I Variaghi costituirono con la forza delle armi una com-
plessa rete politica e sociale: Novgorod era, tra le altre, una loro
città, da dove le genti nordiche tessevano i loro rapporti con Bi-
sanzio (Variaga fu per un certo periodo la guardia palatina del-
l’imperatore romano d’Oriente, i cosiddetti bav r aggoi), con le re-
gioni islamiche del Vicino Oriente e con i potenti regni Bulgari e
Kazaki delle steppe. Memori dell’invocazione medievale «A furore
Normannorum libera nos Domine!», non ci stupiamo del significato
«guerriero, persona forte e disciplinata» dell’ucraino varjag, ma ci
imbarazzano i significati del russo dialettale varjag «straccione
vagabondo, cestaio, merciaio ambulante», che ci sembrano inde-
gni dell’onore del capo variago Rjurik e di quella memoria guer-
riera storica che arriva al Canto della schiera di Igor112 . Eppure esiste
una buona ragione per questo stato di cose: il movimento vichingo

111
Per questo motivo il Corano (latter.: la Lettura) è inimitabile e perfetto ( i‘jåz).
112
Mi riferisco al color rosso dello scudo dei guerrieri di Igor.
154 Franco Crevatin

fu sí un terribile momento militare, ma fu altrettanto una impor-


tantissima rete mercantile di commerci. I Vichinghi erano dei grandi
commercianti, in perenne movimento, che spostavano merci di ogni
tipo e provenienza da un capo all’altro delle loro reti mercantili 113 .
Certo, nei derivati dialettali russi siamo alla miserevole caricatura
del commercio vichingo, ma, come si vede, il nocciolo dell’idea
originaria (il commercio itinerante) è rimasto inalterato.

Sarebbe facile proporre una classificazione generale dei pre-


stiti, distinguendo tra quelli di necessità (nomi per referenti sco-
nosciuti o di qualità decisamente superiore a quelli già noti) e
quelli che vengono accolti in sostituzione di un’etichetta lingui-
stica già esistente, e dunque determinati dalla pressione di un
modello linguistico e culturale dominante; tra prestiti dovuti ad
effettivo contatto e Wanderwörter, parole migratorie che passano
di lingua in lingua; tra prestiti sistematici, ossia inseriti in un
interscambio piú o meno regolare, e prestiti occasionali. Il fatto
fondamentale, però, resta il processo socio-culturale del prestito,
dalla recezione alla condivisione: gruppi sociali sono entrati in
contatto, con bisogni comunicativi comuni e spesso con identica
comunanza di interessi. Chi erano socialmente tali gruppi, che
cosa li muoveva, quali modelli portarono alla diffusione delle
nuove parole? Guardiamo ad alcuni casi concreti.

Il Canto della schiera di Igor, un poema russo antico verosimil-


mente del XIV secolo, celebra la sfortunata – e, tutto sommato,
sciocca – impresa bellica di Igor Svjatoslajeviç contro i Polovesiani:
il precipitoso Igor venne infatti battuto e catturato. L’anonimo poeta
che ha redatto il testo si ripropone di cantare il soggetto con nuo-
vo spirito, non secondo quella che era la prassi antica del mitico
veggente-poeta (ve¡çij) Bojan, il figlio del dio Veles114 , il quale

113
Una schiera di Vichinghi tentò di saltare la mediazione commerciale kazaka con
l’Asia centrale, spingendosi nel mare delle steppe, dal quale non fece piú ritorno.
114
Divinità slava antica chiamata anche Xúrsú e Da≈(d)íbogú .
L’etimologia come processo di indagine culturale 155

3. (…)
se per qualcuno componeva un canto
allor fatto pensiero
trabordava il bosco
lupo grigio in terra
aquila cinerea
sotto le nubi.

4. Se gli accadeva
– disse –
di rievocar le lotte
dei tempi andati
dieci falchi
scioglieva
sul branco dei cigni:
chi per primo ghermiva
quello per primo cantava 115 .
(traduzione E. Saronne)

Il testo è difficile ed ambiguo. D révo vale sia «albero» che


«bosco» ed il verbo che lo regge può essere interpretato come
«estendersi»; altrettanto ambiguo è quanto qui è reso con «fatto
pensiero»: il confronto con la successiva strofe 14 pare mostrare
che è corretto intendere «con il pensiero». Ciò rende possibili
traduzioni ed interpretazioni diverse; ma a quale specificità,
evidentemente arcaica, allude l’ignoto poeta russo?
Bojan non è un nome proprio slavo, bensí altaico, documenta-
to anche come nome avaro 116 : un ‘tipo’ culturale altaico è dunque
diventato, pur integrato nella Slavia tramite la discendenza da
Veles, il prototipo divino del produttore russo antico di poesia
orale. Bojan è palesemente uno sciamano, come mostra ine-
quivocamente ciò che gli viene ascritto, ossia l’inerpicarsi sul-
l’Albero (cosmico) e la capacità, propria anche dei suoi confratelli
altaici, di far entrare la sua anima nel corpo di un animale –

115
È immagine figurata: il poeta poneva le dieci dita sulle corde armoniose della
gusla, lo strumento ad arco con il quale accompagnava il proprio canto.
116
Cfr. mongolo bayan «ricco».
156 Franco Crevatin

perché è cosí che il testo è interpretabile con massima economia


ermeneutica. Ne consegue allora che i Russi sono stati esposti
anticamente alla cultura sciamanica di genti altaiche 117 e ne han-
no recepito modelli e figure; tanto possiamo dire con certezza –
ed è conseguenza di non poco conto – proprio perché il prestito
onomastico ci ha rischiato la strada.

Un nome proprio ci fa da guida anche in un altro caso: è il


nome dell’antico eroe sumerico Gilgame¡. L’epopea che lo vede-
va protagonista ebbe un’enorme diffusione nel Vicino Oriente
antico: fu letta nell’originale e tradotta in pressoché tutte le lin-
gue della macro regione. L’eroe dalla forza sovrumana, che ave-
va rapporti con gli dei, con mostri ed esseri altrettanto eccezio-
nali, che discese negli Inferi e tentò, senza successo, di trovare il
mezzo per assicurarsi la vita eterna, era figura che fondeva in sé
l’umano ed il meraviglioso. Gilgame¡ sopravvisse nei secoli: lo
ritroviamo nello scrittore greco di mirabilia Cl. Eliano (de nat.
anim. 12, 21) nella figura di un giovane principe di nome Giv l gamo";
figure collegate al suo ciclo come Utnapi¡tim, il Noè della Bibbia,
era citato nella forma Atamb•¡ nel perduto Libro dei Giganti del
profeta iranico Mani (III sec. d.C.). Ma qui vorremmo attirare
l’attenzione sul Libro dei Giganti di Enoch, conservatoci in fram-
menti nei Rotoli esseni del Mar Morto. Sotto il nome di Enoch
sono stati tramandati diversi testi che ebbero larga fortuna nel
mondo ebraico tra il II sec. a.C. ed i primi secoli dell’era volgare:
i testi, basati su miti e visioni, affrontavano diverse problemati-
che di ordine spirituale e religioso e non furono considerati ca-
nonici per l’opposizione sviluppata contro di essi dalle scuole
teologiche farisaiche. Nel Libro dei Giganti l’ignoto autore aveva
raccolto pie leggende e tradizioni popolari dell’area siro-palestinese

117
Fermo restando il fatto che anche le culture uraliche sono caratterizzate dallo
sciamanesimo, se dunque è proprio altaica l’influenza prima e decisiva sulla cultura
russa antica, possiamo fissare un terminus ante quem non, ossia la metà del V sec.
d.C., quando appunto per la prima volta compaiono genti Ogure nelle steppe a
nord del Mar Nero.
L’etimologia come processo di indagine culturale 157

relative agli eredi degli angeli precipitati sulla terra e negli inferi
a causa della loro ribellione a Dio, e tra questi figurava anche
Gilgame¡. C’è una particolarità: oltre alla forma dotta, fedele alla
grafia originale (G]lgmj ¡ 4Q 531 fr. 17, 12), compare una forma
Glgmjs (4Q530 col. 2, 2) che con il suo adeguamento aramaico –
s / accadico - ¡ ci mostra che il nome dell’eroe era entrato nel
semitico di nord-ovest molto tempo prima. Antichità di prestito,
dunque, che conviveva con una mai spenta tradizione dotta dell’epos.

Abbiamo visto nei due casi sopra riportati come fili apparen-
temente esili ci permettano di ricostruire storia e cultura. Il pros-
simo esempio, il commercio delle spezie, incensi e prodotti loca-
li, tra Mediterraneo greco-romano ed Oriente, ci imbarazza sem-
mai per la ricchezza dei casi etimologici che ci offre.
Il Periplo del Mar Eritreo è un manuale per i mercanti greci e
romani che si spingevano con i loro commerci sul mar Rosso,
nell’Arabia meridionale e, doppiando il Corno d’Africa, viaggia-
vano sino alle coste dell’odierna Dar es Salam; oppure, sfruttan-
do le rotte monsoniche, approdavano sulle coste dell’India occi-
dentale e di là scendevano sino alla punta estrema del subcontinente
per risalire occasionalmente l’India orientale sino alle foci del
Gange. Una vastità e regolarità di traffici marittimi che danno
davvero la misura mondiale dell’importanza di Roma, un’impor-
tanza ben colta dai coevi imperatori Cinesi.
L’anonimo autore del manuale 118 era un capitano greco d’Egit-
to: in un passo (29) egli parla degli alberi che “abbiamo in Egit-
to”; in un altro (49) usa l’egizianismo 119 sti~ m i «nero d’antimonio»
(copto sthm, < dem. stm, classico sdm «truccarsi di nero gli oc-
chi»). Per quanto la marineria greco-egiziana dell’epoca avesse
capacità autonome, è chiaro che essa aveva appreso molto dai
capitani arabi dell’Arabia meridionale. L’opera che l’Anonimo

118
Purtroppo il testo ci è giunto in un unico manoscritto, il cui copista ha avuto
diversi problemi di lettura dal manoscritto in suo possesso, per cui dobbiamo
sempre tener presente la possibilità che le letture siano corrotte.
119
La parola è peraltro ben diffusa nel mondo greco e latino.
158 Franco Crevatin

scrisse, grosso modo nella metà del I sec. d.C., è rivolta a mercanti,
ai quali spiega quali siano i porti, cosa vi si commerci, in quale
contesto politico essi si collochino, quali sono i problemi che si
possono incontrare e precisa, com’è ovvio, distanze in termini di
misure marittime o giorni di navigazione.
Il Periplo ci porta odore di mare e profumi di incensi e spezie,
alcune delle merci piú ricercate ed apprezzate nei mercati del
Mediterraneo e designate con i nomi che esse avevano nel com-
mercio internazionale. Il nostro capitano ci conserva nomi di luoghi,
di popoli, di regioni, e talora singole parole, mostrando sempre
una grande attenzione. Parlando della regione detta Dacinabav d h"
(l’attuale Deccan, dal sanscrito d†k@i>†patha «la regione del sud»)
ci dice che nella lingua del posto dav c ano" vale «sud», il che è
perfettamente vero (cfr. pracrito d†hi>a- idem). Descrivendo la
regione del golfo di Scizia (odierno Sind), detto cosí perché a suo
tempo aveva fatto parte del regno dei Saka, genti scitiche di cep-
po Iranico, egli cita non solo l’Indo in forma fonetica indiana
(Sinthos; la forma greca usuale deriva da fonti linguistiche iraniche),
ma anche serpenti marini detti grav a i, una parola che corrisponde
ad un derivato medio indiano del sanscrito gr†há- nel senso, docu-
mentato, di animale marino pericoloso che afferra e divora gli
uomini.
In un solo caso – peraltro molto importante – il ‘capitano’ ci
dà un’informazione di carattere religioso: il capo estremo dell’In-
dia – l’odierno Capo Comorin – è detto Komav r o Komareiv : ivi
esisteva – egli ci dice – un importante tempio, dove molti face-
vano sacre abluzioni e si dedicavano alla vita ascetica. Tempio ed
usanza continuano a tutt’oggi in onore di Durga, la divinità fem-
minile definita kum†r¢ la «fanciulla» e proprio da questo epiteto
deriva il nome geografico.
Il ‘capitano’ ci ha tramandato molte parole che egli stesso co-
nosceva e che dovevano essere usuali negli scali e negli empori
da lui frequentati. Alcune, che forse per carenza di documenta-
zione ci paiono attestate per la prima volta, avrebbero avuto grande
fortuna nei secoli a venire: è il caso di lav k ko" «lacca» (v. anche
L’etimologia come processo di indagine culturale 159

P. Lond. 2, 191, 10; II sec. d. C.), dal pracrito lakkha (< sanscrito
l†k@†), e di sav k cari «zucchero di canna» (< medio indiano sakkharå
< sanscrito sæ á rkar†). Non è facile recuperare l’etimo di tutte le
voci citate, poiché, soprattutto nell’àmbito delle spezie e dei profumi,
molte parole si riferivano a varietà locali ed altre avevano nomi
che, appunto perché legati al commercio, erano ormai largamen-
te di uso internazionale (cfr. ad es. Dioscor. mat. med. 1, 14). È
probabile che in futuro saremo in grado di capire ancor meglio
il valore documentario del Periplo, ma sin d’ora possiamo consta-
tare l’esattezza di molte informazioni. Al mondo sud arabico ci
rinviano ad esempio nomi come kav g kamon, nome di pianta aro-
matica, nota anche a Dioscoride ed a Plinio ed originaria del-
l’Arabia meridionale, il cui essudato resinoso veniva esportato:
prestito da un dialetto arabo, cfr. kamkam «lentisco» (Dozy); come
mokrotu tipo di incenso, cfr. yemenita mu\uråt , Jibb. m\irot , Mehri
m £ \ £ råt ; usi ergologici come la costruzione di barche il cui fascia-
me è fissato da fibre di palma (le barche ‘cucite’ dell’Oman, dhow).
Davvero ricca è la documentazione linguistica sull’India. Tra
i tanti termini ricordo pev t ro" nome delle foglie del cinnamomo,
evidentemente il derivato dialettale medio indiano (*pattra-) del
sanscrito patram, «foglia», da una parlata che non ha condiviso
l’evoluzione comune –tr- > -tt-. Il nome ricompare nella designa-
zione del cinnamomo, malav b aqron, da tamala-patram con discrimina-
zione della sillaba iniziale perché confusa con l’articolo neutro
del greco. kolandiofwnta è nome di un’imbarcazione di grandi
dimensioni usata per il commercio marittimo tra le coste dell’In-
dia sudorientale ed il delta del Gange. È certamente un compo-
sto con il medio indiano p øta- «imbarcazione», ma la prima parte
è di interpretazione incerta: forse si tratta di un derivato dalla
radice indiana *k ø la- «curvo», ossia *k£¯ l† > 6 a- o sim., forma
dialettalmente nota, dunque una “nave ricurva” in opposizione
alle imbarcazioni piatte adatte ai bassi fondali. Nel testo del Periplo
si incontrano altri nomi medio indiani di imbarcazioni, ossia ko-
tuvmba = pracr. ko66imba, travppaga = pracr. tappaka < *tarpa- «zattera»,
saggav r a = påli (-)sa ∑ gh†6a- «tipo di canoa». Potremmo continua-
160 Franco Crevatin

re con i nomi di alcuni pregiati legni orientali, ma nel Periplo, ov-


viamente, non troviamo tutto quello che vorremmo o ci aspetterem-
mo: non il legno profumato di sandalo 120 , attestatoci da Cosma
Indicopleuste (11, 15) nella forma tzandav n a, da sanscr. candana", non
la noce di cocco121 , il cui nome ci è conservato dallo stesso Cosma (11,
11 aj r gev l li" < medio indiano nårg¥l da sanscr. narikela-). È interes-
sante notare che il legno usato nelle imbarcazioni dell’Oman è il
legno di palma da cocco importato, evidentemente sin da epoche
molto antiche, dall’India assieme al suo nome: nel dialetto arabo
locale infatti esso si chiama når=•l .

Possiamo ricordare brevemente un altro caso meritevole d’at-


tenzione. Gli Egiziani antichi disprezzavano profondamente i popoli
e le culture della Nubia, la “miserabile” (Xzy) Nubia popolata
nell’immaginario collettivo di pericolosi stregoni, ma non pote-
rono mai farne a meno: essi rappresentavano per l’Egitto l’acces-
so a materie prime (pietre da costruzione, pietre dure, metalli) ed
a preziose merci esotiche delle regioni africane. Rari sono i pre-
stiti lato sensu nubiani nell’egiziano, anche occasionali, anche se
possiamo dirci certi che nomi per alberi dal legno pregiato come
l’ebano (hbnj, da cui il greco e[ b eno" e varie voci semitiche), da
sempre importato, o nomi di animali ormai estranei alla fauna
egiziana sono, appunto, di origine “nubiana”. Insomma, spesso
funzionò un filtro culturale che impedí ai nubianismi di inse-
diarsi nel lessico egiziano. La Nubia era anche uno dei necessari
luoghi di transito di un bene sommamente prezioso per il culto
divino giornaliero che si svolgeva nei templi d’Egitto, ossia le

120
Il prestito è entrato anticamente in tutte le lingue connesse alle rotte monsoniche,
arabo incluso (@andal).
121
Cosma ci conserva anche il nome di un liquore ottenuto dal succo fermentato
della noce di cocco, rJ o gcosou~ r a, una bevanda molto dolce ed inebriante che gli
Indiani usavano al posto del vino (11, 11). La parola è certamente un composto
con un derivato del sanscrito sur† «bevanda inebriante», la la prima parte non è,
a mio parere, di chiara derivazione: sospetto si tratti di un derivato medio india-
no del sanscrito r§k@á- «di gusto forte, aspro» (forme attestate del tipo hindi rokh
e sim.), e si veda il derivato già sanscrito r§k@a>¢ya" «distillato di melassa».
L’etimologia come processo di indagine culturale 161

resine aromatiche: sappiamo che sin dall’epoca dell’Antico Re-


gno gli Egiziani erano in grado di raggiungere via mar Rosso i
locali mercati degli aromi – la favolosa Terra di Pwnt – , ma il
viaggio era lungo e difficile ed il commercio terrestre non si in-
terruppe mai. Non è dunque un caso che l’antica parola antjw
«mirra» (documentata nel greco nella forma aj e v n tion; Esichio)
abbia possibili riscontri in lingue cuscitiche (somalo ‘anaad «in-
censo di prima qualità»). Due elementi, molto distanti tra di loro
nel tempo, ci confortano. Sin dai Testi delle Piramidi ci è noto un
dio dal nome non egiziano e che non sembra aver mai avuto
alcun culto in Egitto, il dio Ddwn: era una divinità originaria
della bassa Nubia e di essa si diceva, con espressioni formulari
(Pyr. 803; il soggetto logico è il Faraone defunto)
a te appartiene l’aroma di Dedun, il giovane dell’Alto Egitto,
che proviene da tA-stj122 .
Egli ti dà l’incenso con il quale vengono fatti incensamenti agli dei

Dedun, come Nubiano, poteva ben garantire al Faraone le preziose


resine.
Nei testi redatti in Nubia in lingua egiziana per conto di prin-
cipi e re nubiani affiorano, come è naturale, nubianismi linguisti-
ci 123 e tra questi compare ldn(y) in un’iscrizione dell’anno 2 del
Faraone sudanese Taharqa (iscriz. III, 6 Kawa; 688 a.C.), una voce
che etimologicamente si rivela essere un prestito dal sud arabico
ladan «oleoresina aromatica di cisto» e che mostra, una volta ancora,
la diretta connessione nubiana coi mercati delle resine.

Nei casi che sin qui abbiamo visto, la frontiera attraversata da


prestiti è stata sempre visibile, talora con una sua oggettività
quasi fisica. Spesso tuttavia le cose sono piú sfumate, complesse
e la frontiera ha natura socioculturale, non priva di connotazioni
psicologiche, e potremmo documentare molti casi nei quali la

122
La regione della prima cateratta e nome del primo nomo dell’Alto Egitto.
123
Ad es. ks «ciotola» (iscrizione di Nastasen) = nubiano køs id., tgr «collare»
(iscr. Harsijotef) = tígli «anello», ecc.
162 Franco Crevatin

contrapposizione culturale o sociale ha portato a deformare


spregiativamente il significato della parola mutuata 124 . Ma tor-
niamo alla frontiera socioculturale. Abbiamo visto sopra che il
disprezzo che gli Egiziani nutrivano nei confronti del mondo nubiano
funzionò da filtro nei confronti dei prestiti, un filtro che non ci
fu nei confronti delle culture semitiche del Vicino Oriente: gli
Egiziani potevano disprezzare gli Asiatici, considerando se stessi
il centro del mondo ordinato, ma sapevano bene che essi aveva-
no espresso, pur talora nella frammentazione politica, culture di
alto livello con le quali non era degradante – anzi! – confrontarsi.
Di semitismi formicolava nel Nuovo Regno la cultura scolastica
e l’ambiente militare, semitismi erano presenti nel vocabolario
della tecnica e dell’artigianato e nella lingua di ogni giorno: genti
di lingua semitica di tutti i livelli vivevano numerose in Egitto,
spesso in posizioni sociali prestigiose ed una lingua del Vicino
Oriente, l’accadico, era la lingua della diplomazia e dei rapporti
internazionali.
Se guardiamo ai rapporti con la grecità, constatiamo – non
senza qualche momentanea sorpresa – un altro fatto: l’Egitto, pur
essendo stato considerato dai Greci la patria di ogni sapere e
della riflessione religiosa, ha lasciato solo pochissime tracce lin-
guistiche nella lingua greca – prestiti legati a singole realtà cul-
turali e naturali (ad es. i{ b i" «ibis» = copto [boh.] xip) o occasio-
nali prestiti legati al commercio, come è il caso dell’e] r pi" «vino
(egiziano)» di Ipponatte fr. 79 (copto hRp < jrp). E non basta:
nelle molte centinaia di testi greci scritti nell’Egitto greco prima
e romano poi e giuntici su papiro o su ostrakon i prestiti dall’egi-
ziano si limitano a poche voci, il nome di qualche oggetto (ad es.
bhv s sion «tipo di secchio» = copto bh se, kav b o" «tipo di vaso» =

124
Un esempio solo: l’italiano trincare «bere smoderatamente» è ovviamente un
germanismo, anche se non troppo antico. Ma la contrapposizione tra cultura la-
tina e cultura germanica veniva colta aspramente già in epoca tardo antica e val
la pena di ricordare l’anonimo epigramma di un poeta dell’Africa vandalica il
quale afferma (Anthologia Latina 285 Riese): Inter <h>eils gothicum scapia<m> mazia<n>
ia<h> tri<n>can | non audet quisquam dignos educere versus «Tra il gotico Salve
procuriamoci da mangiare e bere nessuno osa produrre versi degni»
L’etimologia come processo di indagine culturale 163

copto [boh.] kabi), delle imbarcazioni fluviali ba~ r i" = copto baare
e rJ w v y (v. sotto), di qualche unità di misura (i{ n ion = copto xin,
aj r tav b h, copto ar tab, che peraltro nell’egiziano è prestito dal
persiano), alcuni nomi legati all’amministrazione o alla religione
(ad es. lemei~sa «capo militare» = copto lemhh¥e, lesw~ni" «preposto
di un tempio», probabilmente lo stesso di copto la¥ane < jmy-
rA-Sn(y.t), porenbh~ k i" «preposto ai sacri falchi» < pA wr n bjk).
Materiale linguistico egiziano si trova, spesso frainteso, nelle voces
magicae dei testi magici, ed in tal caso è l’àmbito specifico a
determinare la loro comparsa, e del tutto occasionalmente come
trascrizione di parole effettivamente pronunciate in determinate
circostanze (UPZ 79) o come citazioni fornite di glossa in greco
(ad es. shse «tipo di vaso liturgico» = copto jhhs «ciotola» o
rJ w v y (copto rams) glossato con «barca di papiro».
Per contro nel copto Cristiano i grecismi sono circa il 30% del
vocabolario totale, almeno di quello della lingua scritta. Come
dobbiamo interpretare queste situazioni? Un elemento unificante
è facilmente individuabile, ossia il fortissimo senso di identità
linguistica e culturale che ha da sempre caratterizzato la grecità:
per quanto si potessero apprezzare le culture diverse, esse erano
pur sempre culture di bav r baroi 125 . Il mondo ellenistico non mutò
di molto questo atteggiamento. I sovrani tolemaici continuarono
a considerarsi Greci, specificamente Macedoni, in un paese con-
siderato preda bellica e fu solo Cleopatra la Grande ad essere
capace di parlare e di intendere la lingua locale. La campagna,
linguisticamente e culturalmente egiziana, viveva con proprie leggi
a raccolta attorno ai tempi locali e provinciali, abbastanza distin-
ta dalla componente ellenica: coloro che al suo interno desidera-
vano in qualche modo farsi strada nell’amministrazione o nella
cultura del tempo dovevano forzatamente esser formati nella paidei~a
greca.

125
Quando la cultura straniera era giudicata oggettivamente importante, era usuale
che gli Elleni la collegassero tramite genealogie mitiche alla propria: cosí ad esempio
i Persiani potevano esser pensati come discendenti di Perse, i Romani come par-
lanti un dialetto eolico e cosí via.
164 Franco Crevatin

La situazione per gli Egiziani encorici sotto il governo roma-


no peggiorò da almeno un punto di vista, ossia da quello religio-
so: i templi infatti persero praticamente ogni autonomia econo-
mica e finanziaria, impoverendosi gradualmente e perdendo cosí
la loro capacità di proporsi come centri di trasmissione culturale.
L’Egiziano diventava cosí sempre piú esclusivamente, eccezion
fatta per colui che, a prescindere dalla nascita, era di educazione
greca, il contadino dell’immenso granaio dell’Impero romano.
Sarebbe molto interessante approfondire l’esame del com-
portamento linguistico e culturale del sacerdozio egiziano,
cosa che qui non possiamo fare se non per cenni molto ge-
nerali. Il sacerdozio dei grandi templi d’Egitto conosceva
certamente il greco. Ad essi dobbiamo molti lavori di tradu-
zione dall’egiziano, sia di testi ufficiali della cancelleria tolemaica
sia di testi letterari – e va detto che sono stati ottimi lavori.
In definitiva, l’esempio piú autorevole di apertura al nuovo
mondo era stato dato da Manetone di Sebennytos, sacerdote
ad Eliopoli con la sua storia delle dinastie egiziane: dopo di
lui, il clero di Ptah di Memfi fu sempre leale sostenitore
della monarchia tolemaica, mentre il clero tebano di Amon
non solo rimase ostile e chiuso, ma non mancò di appoggia-
re i tentativi armati di pretendenti locali al trono d’Egitto
contro i Tolomei. Una delle prove piú curiose della compe-
tenza linguistica in greco è offerta dalla traslitterazione di
nomi greci in geroglifici, nella quale sono state rispettate
alcune regole ortografiche greche (ad esempio il nome di
Roma scritto hrm, con la h- che riproduce lo spirito aspro
della trascrizione greca del nome).
È significativo che il sistema grafico copto altro non sia se non
l’alfabeto greco, integrato da un certo numero di segni alfabetici
che erano stati desunti dal demotico e che indicavano foni non
presenti nel greco: con questo agile sistema, evidentemente con-
cepito da Egiziani di educazione greca, venne prodotto un nume-
ro verosimilmente elevato di traduzioni, in primo luogo dal gre-
co, ed anche da lingue del Vicino Oriente: testi religiosi gnostici,
manichei, magici ed astrologici. Lo stesso sistema venne impie-
gato da scribi, ancora operosi nei templi tradizionali d’Egitto,
L’etimologia come processo di indagine culturale 165

per glossare trattati e testi scritti in ieratico o demotico 126 . La


traduzione implicava forzatamente la paidei~ a greca: come altri-
menti si sarebbe potuto comprendere la filosofia (neo)platonica e
rendere quei concetti religiosi, cosmologici ed antropologici che
erano ormai divenuti il patrimonio di buona parte dell’Oriente
mediterraneo? E spesso comprensione ed utilizzo di tali idee favoriva
inevitabilmente il prestito; prestito di cultura, beninteso, che poco
poteva riguardare il contadino del villaggio agricolo, e tuttavia
anche quest’ultimo aveva davanti a sé ben poche possibilità di
resistere alla pressione del modello dominante linguistico e cul-
turale ellenico. Durante il periodo del dominio romano troviamo
numerose tracce dell’ultima, disperata resistenza della cultura
egiziana: false ricostruzioni storiche di matrice nazionalistica, visioni
apocalittiche che prevedevano il degrado etico e culturale del-
l’Egitto, pur annunciandone una rinascita lontana nel tempo. Cosí
si esprime Ermete Trismegisto, figura del dio egiziano del sapere
Thot, nel trattato ermetico intitolato Asclepio 127 (cap. 24):
Verrà un tempo in cui sembrerà che gli Egiziani abbiano ono-
rato invano i loro dèi con la devozione del loro cuore e un
culto assiduo; tutta la loro pia venerazione si rivelerà ineffica-
ce e vana. Gli dèi, infatti, lasceranno la terra e risaliranno verso
il cielo, l’Egitto sarà abbandonato e la terra che fu sede dei riti,
spogliata dei suoi dèi, sarà privata della loro presenza. E gli
stranieri che popoleranno questo paese, non solo non avranno
piú cura della religione, ma, e ciò è ancor piú triste, si avrà
l’imposizione, mediante leggi e con la prescrizione di pene, di
astenersi da ogni pratica religiosa, da ogni atto di pietà o di
culto verso gli dèi. Allora questa terra santissima, sede dei santuari
e dei templi, sarà piena di sepolcri e di morti.
O Egitto, Egitto, dei tuoi culti non resteranno che leggende, le
quali saranno considerate incredibili persino dai tuoi posteri, e
rimarranno solo parole incise sulle pietre a narrare le tue pie azioni.
(traduz. B.M. Tordini Portogalli)

126
La necessità derivava dal fatto che le scritture egiziane tradizionali non segna-
vano il vocalismo delle parole.
127
Figura dell’antico santo guaritore egiziano Imhotep.
166 Franco Crevatin

Non è dunque strano che l’estrema resistenza culturale egizia-


na, documentataci all’inizio del VI secolo d.C. da Horapollo, l’autore
di un trattato sui geroglifici, fosse di cultura largamente greca ed
ignorasse sostanzialmente l’antica lingua del paese.
Il Cristianesimo egiziano, altrettanto debitore dell’Ellenismo
dal punto di vista testuale e liturgico, segnò una svolta molto
importante dal punto di vista dell’identità linguistica, poiché riuscí
a ridare unità, almeno locale, alle genti d’Egitto. Dopo l’editto di
tolleranza di Galerio (a. 311) e i provvedimenti di Costantino, la
chiesa egiziana si rafforzò sia dal punto di vista organizzativo
che economico, diventando una forza sociale di rispettabile enti-
tà, attiva al punto da organizzare non solo la propria difesa ma
altresí l’attacco nei confronti dei culti pagani.
Come abbiamo detto, il debito linguistico nei confronti della
grecità rimase alto: il copto era sí una lingua ufficiale, utilizza-
bile nella liturgia e nell’amministrazione della Chiesa, in epigrafi
pubbliche e private, nella corrispondenza e negli affari, ma era
comunque una lingua subordinata al greco, lingua quest’ultima
conosciuta ed utilizzata anche in Nubia e nel regno etiopico di
Axum 128 . Il concilio di Calcedonia (a. 451) stabilí la doppia natu-
ra di Cristo, posizione teologica che fu fatta propria dalla corte
imperiale di Bisanzio (melkitismo), mentre la Chiesa egiziana si
schierò per il monofisismo (giacobismo). Lo scisma avenne in un
periodo nel quale la Chiesa copta era in forte crescita e si stava
proiettando con slancio missionario in Nubia, per cui essa subí il
sospetto imperiale e la lotta di fazione con il melkitismo ancora
ben presente in Egitto. Teniamo conto di tale sorda contrappo-
sizione tra il Patriarcato di Alessandria e Patriarcato e corte di
Bisanzio ed assommiamoci la dura esosità delle richieste fiscali
bizantine 129 : otterremo un quadro molto indicativo entro il quale

128
Nelle lingue dell’Etiopia l’etnico «egiziano» è spesso un derivato dal greco
Aij g uv p tio", ad es. ge‘ez g´bΩ, bileno gibΩ, saho gibse; da una forma collaterale
viene l’ebraico talmudico g•phã• .
129
L’Egitto era certamente una delle piú ricche provincie dell’Impero e dovette
largamente sostenere le spese delle costose guerre (e delle forse ancor piú one-
rose ‘paci’) dell’età giustinianea.
L’etimologia come processo di indagine culturale 167

collocare il problema che ora ci occuperà, ossia l’arabizzazione


dell’Egitto.

Se guardiamo all’arabo egiziano ed ai suoi dialetti non possia-


mo che rimaner sorpresi dalla povertà dell’influsso copto, poi-
ché, nonostante le affermazioni di dilettanti mossi da malinteso
spirito religioso o nazionalistico, la conquista araba non portò ad
alcun sommovimento etnico: gli Egiziani autoctoni furono per
lungo tempo la grande maggioranza del paese: poco piú di un
centinaio di parole restano a testimoniare l’originario strato lin-
guistico copto, incluse quelle che si riferiscono specificamente
alla religione. Nomi legati al calendario (nomi di mesi come ba¡ans,
copto pa¥an s [greco Pacwv n ]) 130 ed a realtà del paese (bars•m
«erba alfalfa» = barsim; dam•ra «tempo dell’inondazione» = t-
emhr e «inondazione»; mar•s• «(vento) del sud» = mar h s «regio-
ne meridionale dell’Egitto»; b¥r• «tipo di pesce del Nilo (mugil
cephalus)» = bwr e; ˙and¥s «tipo di lucertola» = xantous; ecc.),
un discreto numero di termini agricoli (nåf «giogo» = naxb; raf6†w
«quarta parte della misura per granaglie» = rafto ou «un quar-
to») e a singole voci non riportabili ad unità (tra queste cito ’amandi
«inferno, aldilà» [solo in espressioni ingiuriose] = amNte). Poco,
troppo poco, se si pensa alla storia millenaria della lingua e della
cultura egiziana 131 . Vedremo subito – almeno nelle linee generali
del processo – che ciò è potuto accadere perché esisteva una frontiera
socioculturale tra mondo arabo e mondo copto che fungeva da
filtro.

130
Utilizzati regolarmente anche nell’Egitto greco-romano, noti ed usati in Nubia
ed in Etiopia.
131
Non dubitiamo che nuove ricerche potranno mettere in luce ulteriori prestiti,
ma il quadro generale non pare destinato a cambiare sensibilmente. Un caso
potrebbe essere ad esempio il dialettale bittaw «focaccia di mais» (collettivo),
parola che certamente araba non è: a titolo di ipotesi vien fatto di pensare ad un
nome con articolo maschile pi- e dunque la base lessicale potrebbe essere tA «pane».
Tale voce non è sopravvissuta nel copto a noi documentato, ma è possibile rico-
struire un *to; il dittongo arabo sembrerebbe alludere ad un plurale *tw ou ed
esistono casi nel copto nel quale un nome plurale è determinato con l’articolo
singolare in quanto nome di insieme.
168 Franco Crevatin

La conquista araba dell’Egitto ad opera di aAmr ibn al-aA∑ (a.


641) fu percepita largamente dagli Egiziani come la liberazione
da un esosissimo ed eretico padrone: non tardarono a capire che
il rimedio era solo apparente, specialmente dopo la repressione
di alcune rivolte contadine e successivamente, alla fine dell’VIII
sec., dopo la pesante tassazione di tutti i Cristiani 132 e la forte
immigrazione di tribú arabe dall’esterno. Molti particolari ci sono
oscuri, ma resta stupefacente che la lingua copta in pochi secoli
venne ridotta ad uno stato di sempre piú difficile sopravvivenza
in quanto lingua parlata (non cosí la Cristianità d’Egitto, pur se
venne fortemente ridimensionata): in definitiva nel XII secolo il
copto era ormai quasi esclusivamente lingua della liturgia e del-
lo studio. Conosciamo, tuttavia, i seguenti fatti:
a. Il copto, in quanto lingua dello scritto, capace di proporsi
come modello e strumento per la produzione dell’attività lato sensu
letteraria era da poco tempo costituito all’epoca della conquista
araba. Certo, essa era la lingua di vasta parte del paese, ma non
era la lingua né dell’amministrazione né lo strumento comunica-
tivo di importanti città greche, come ad esempio Alessandria.
b. Il greco rimase lingua amministrativa anche dopo l’editto
del califfo aAbd al Malik b. Marwån (fine del VII sec.) che riser-
vava tale funzione all’arabo: il greco era destinato a perdersi, ma
il copto non poteva crescere.
c. Per quanto la situazione possa esser stata socialmente ed
arealmente differenziata, nel X sec. l’arabo è la lingua di gran
lunga dominante anche nei documenti privati dei Cristiani d’Egitto:
è significativo che l’ultimo documento privato redatto in copto
sia della prima metà dell’XI sec. Eppure ancora a quell’epoca
dovevano esistere sacche nel paese nelle quali la conoscenza
dell’arabo doveva essere molto superficiale se non addirittura
assente 133 .

132
Che spinse a molte conversioni all’Islam.
133
Lo sappiamo per certo per (parte?) della popolazione di Tebtynis della metà
del X sec.
L’etimologia come processo di indagine culturale 169

d. È ben vero che la chiesa Copta riuscí a dare unità alle co-
munità locali e si propose anche come presenza economica, tut-
tavia essa, per quanto importante, rimase sempre subordinata,
prima al potere imperiale e poi a quello arabo.

Le tassazioni dei Cristiani in quanto sudditi di una religione


‘protetta’, la caratteristica culturale musulmana di non tollerare
che un non musulmano potesse ricoprire, senza esser lui stesso
un dipendente strettamente controllato, posizioni di potere su
dei musulmani limitò fortemente la mobilità sociale dei Copti ed
indebolí vieppiú il prestigio della loro lingua: vantaggi si pote-
vano ottenere solo assimilandosi linguisticamente e religiosamente
alla componente araba. La diffusione crescente dell’arabo, la scom-
parsa del greco, la chiusura in se stessa della comunità copta
portò ad assumere l’arabo come lingua di cultura: una parte
notevolissima della produzione teologica copta è stata scritta diret-
tamente in arabo e dall’arabo è stata tradotta la maggior parte
dei testi Cristiani giunti alla chiesa d’Etiopia 134 . Il copto era la
lingua del passato, un nobile passato che non poteva piú ritorna-
re. Per questi motivi troviamo pochi presttiti copti nell’arabo egiziano:
filtri culturali e sociali ne hanno impedito passaggio e sopravvivenza.

134
E difatti pochissimi sono i prestiti copti nel ge‘ez; due tuttavia si segnalano
peché evidentemente collegati a pratiche liturgiche, ossia kop‘u «profumo», da
una forma nominale del verbo copto antico kep (P. Mimaut) «fare fumigazioni
d’incenso» < qAp; e santaw «profumo» < sonte «incenso» < snTr.
170 Franco Crevatin
L’etimologia come processo di indagine culturale 171

LA BISACCIA DEL VIANDANTE

Nel nostro percorso abbiamo toccato temi diversi, accomunati


tuttavia da un elemento – la cultura. Con ‘cultura’ abbiamo inte-
so quel ventaglio di possibilità che l’Uomo, in quanto animale
sociale, ha di costruire e gestire la realtà. Ci sono però aspetti
culturali che non dipendono da scelte volontarie, esplicite o con-
sapevoli, e sono aspetti profondi, saldati alla cognizione, ai pro-
cessi umani del conoscere e del trasmettere la conoscenza acqui-
sita. Li individuiamo spesso dal fatto che, una volta identificato
l’etimo, in definitiva non ne sappiamo piú di prima circa la motivazio-
ne che lo ha espresso: non possiamo cioè credibilmente motivare
l’etimo ricorrendo alla metafora, all’estensione/restrizione del si-
gnificato o a quanto la semantica generale può offrirci.
Sono molte le lingue del mondo, ad esempio, nelle quali il
concetto formale di ‘diritto’ indica ciò che è onesto, corretto ed
all’opposto ‘storto, curvato’ indica concetti con valenza negativa.
Come è ovvio, non sono invocabili ragioni intrinseche di caratte-
re linguistico o culturale per spiegare questa situazione. Ce ne
sono però di ordine neuro-psicologico: la linea retta è la forma
ottimale che si oppone a tutte le possibili linee storte e curve.
Nell’unicità ed immediatezza consiste il suo formidabile potere
di potenziale simbolo – potenziale, perché non è obbligatorio as-
sumerlo ed è per contro disponibile e facilmente accessibile nel
repertorio dei caratteri fondamentali. All’immediatezza della ret-
ta corrisponde l’ottimalità del cerchio in quanto forma chiusa
culturalmente non determinata 135 : il cerchio include e delimita
senza soluzione di continuità.
Limitiamoci a ricordare qualche fatto linguistico: l’antico egi-
ziano Snj vale «incantare», ma il suo significato fondamentale è
quello di «circondare» (v. anche Sn «anello»); la stessa indicazio-

135
Intendiamo cioè quelle forme reperibili in natura e non condizionate da altri
saperi culturali (come ad es. la geometria euclidea).
172 Franco Crevatin

ne fondamentale è presente nel sanscrito abhicara>a- «stregone-


ria», letteralmente ‘l’azione di andare attorno, circondare’. Se il
‘circoscrivere’ è in casi come questi un’azione aggressiva, come
quella espressa dal latino circumven•re «ingannare» o dal sanscrito
cakra- «mezzo fraudolento» (‘cerchio’), in altri può indicare inve-
ce una delimitazione a protezione contro l’esterno ed essere dunque
un concetto positivo: il latino circum…stare vale «servire, assiste-
re» ed il greco aj m fiv p olo" «serva, ancella» è letteralmente ‘la
persona che va attorno (a qualcuno)’.
Caratteri o elementi fondamentali, si diceva: caratteri a se stanti
o in opposizioni, come alto / basso o luce / tenebra, caldo /
freddo e potenti codici di riferimento come quello corporale si
incontrano nel patrimonio motivazionale di tutte le lingue del
mondo e dunque possono ben esser pensati come patrimonio arcaico
e costantemente vitale dell’umanità. È affascinante seguire, pur
in maniera discontinua, le vie che essi hanno tracciato nelle cul-
ture: talvolta possono essere vie ampie, percorse da secoli di storia,
come è il caso di espressioni come quella slava comune *svétú
«luce, mondo» o sanscrita loka" «mondo» (letter.: lucore), talaltra
piccoli sentieri nascosti. Si pensi ad espressioni come quella la-
tina l¥men (oculørum) , la ‘luce’ degli occhi, che parrebbe tanto
semplicemente motivata – attraverso gli occhi entra la luce 136 : la
spiegazione potrebbe essere però meno ovvia e la connessione
tra luce ed occhio di altra natura. Noi siamo ormai abituati a
considerare la tenebra e l’ombra come assenza di luce e l’occhio
come un semplice recettore di luminosità, ma è facile constatare
quanto diversi possano essere gli atteggiamenti in molte culture
tradizionali. La tenebra ha una sua sostanza materiale esatta-
mente come la luce – basti pensare al pensiero religioso del pro-
feta Mani – ed in molte culture l’«ombra» proiettata può esser
vista come qualitativamente diversa a seconda che sia proiettata
da un essere animato o inanimato; nel primo caso essa è spesso

136
Nell’italiano e nei suoi dialetti ‘luce’ vale spesso ‘fessura’, derivati di *l¥minåle
indicano l’abbaino attraverso il quale entra la luce.
L’etimologia come processo di indagine culturale 173

vista come una componente autonoma della persona umana. Per


gli Egiziani del Nuovo Regno, per i quali l’«ombra» era una com-
ponente non deperibile della persona umana, l’«Ombra del (dio
del sole) Ra» (Sw.t-Raw) era anche il nome di santuari solari, dove
per ombra si deve intendere sia l’ombra in senso stretto sia, in
un certo qual modo, la radianza, perché l’ombra come la luce
sono entrambe proiezioni indipendenti del dio. Tornando alla
luce, non è infrequente trovare trovare associati ad essa gli occhi
nel senso di produttori, e non semplici recettori, di luce. Era cosí
per gli Egiziani: la demiurga latopolitana Neith nel buio acqueo
del mondo increato «rese luminoso lo sguardo dei suoi occhi ed
(allora) si manifestò la luce» (Esna 206, 2; Dendera 5, 95, 1).
Un esempio – e forse non ce n’è bisogno – con il calore: esso
è fortemente legato a stati interiori, all’agitazione, alla collera,
alla pulsione amorosa. Nel mondo indiano il concetto di calore
(tapa") è legato alla devozione ed alla pratica ascetica: l’indi-
spensabile iniziazione / consacrazione del sacrificante prima di
iniziare i riti sacrificali (d¥k∑å) è semplicemente una forma di ‘ca-
lore’, il quale in quanto tale teme l’acqua e la pioggia perché
sono in grado di smorzarlo e spegnerlo (TaittS 3, 1, 1, 2 ss.).
Coerentemente, in molte lingue ciò che è l’opposto dell’agitazio-
ne rientra nella categoria del ‘freddo’.
Come si vede, al di sotto di etimi di apparente semplicità possono
nascondersi storie arcaiche e complesse.

Molte sono le provviste che il viandante dell’etimologia deve


portare nella sua bisaccia – e non abbiamo neppure accennato a
quelli che sono gli strumenti tecnici che un etimologo deve possedere
ed ai quali dovrebbe esser dedicato un altro libro.
L’etimologo è accompagnato dalla coscienza dell’errore come
possibilità permanente. Anche quando si sia consapevoli dei pericoli
del passato è facile cedere alla tentazione di un confortante con-
fronto esegetico con il presente: l’etnocentrismo può ben essere
una malattia della ragione, ma è innanzi tutto una comoda pro-
spettiva, è il paio di occhiali impostoci dalla nostra cultura. Per
174 Franco Crevatin

questo motivo l’errore è il convitato di pietra di ogni ricerca eti-


mologica. Confortiamoci, perché è sempre stato cosí da che mon-
do è mondo.
I sacerdoti egiziani erano gli specialisti del sapere, potendo
accedere alla sapienza degli antenati racchiusa nei rotoli di papi-
ro conservati nelle biblioteche templari, eppure anch’essi sba-
gliavano. Quando il nuovo Faraone veniva ufficialmente consa-
crato, egli assumeva una titolatura che comprendeva 5 nomi, il
terzo dei quali era quello definito
^ «Horus d’oro»: esso origi-
nariamente ricordava che il Faraone era il falco divino, le cui
carni erano costituite dal metallo piú prezioso ed incorruttibile;
egli era il falco Horus, salito di diritto sul trono di suo padre
Osiride. Con il tempo si era però perduta la trasparente sempli-
cità della motivazione e quando in età tolemaica si tradusse in
greco la titolatura reale ormai si interpretarono i segni come se
anticamente si fosse voluto alludere al falco sacro posto in posi-
zione di dominio sul geroglifico che indicava l’oro, ma che era
usato altresí per scrivere il nome di Ombo, la città sacra al mal-
vagio dio Seth, oppositore alla lunga sconfitto del legittimo so-
vrano Horus. Il nome venne reso in demotico ntj Hr pAj-f DADAj
(stele di Rosetta) “colui che è sopra il suo nemico” ed in greco
aj n tipav l wn uJ J p ev r tero" “superiore ai suoi oppositori”, un’interpreta-
zione che arrivò sino al trattato di Horapollo sui geroglifici (I, 6).
La consapevolezza del sempre possibile errore contiene in sé
una sicura speranza: è grazie ai nostri errori che i futuri etimologi
costruiranno un sapere piú sicuro.

La ricerca della semplicità deve sempre trovar posto nella bi-


saccia dell’etimologo. Talora la ricchezza delle produzioni cultu-
rali dell’Uomo ci potrebbe portare a credere che la complessità
sia la norma. Di fatto, le cose non stanno cosí: la complessità può
essere, forse, facilmente prodotta, ma è certo molto difficile da
gestire, da apprendere e da ritrasmettere; lingua e cultura sono
governate dall’economia, dalla necessità di ottenere il massimo
dei risultati con il minimo sforzo. La complessità si può trovare
L’etimologia come processo di indagine culturale 175

in tutti quei casi culturali nei quali un gruppo di specialisti ha


prodotto una «teoria», un’organizzazione particolare e volutamente
coerente 137 di un dato sapere, o una «pratica» con accesso riser-
vato. E non dobbiamo credere che la teoria sempre e dovunque
sia stata basata su definizioni verbalizzate o verbalizzabili, come
noi ci attenderemmo per abitudine culturale, con unità logiche
discrete di immediata evidenza. Dal punto di vista dell’etimolo-
gia, basterà citare un solo esempio, quello offertoci dai teonimi.
È evidente che in sincronia il nome di una divinità, come qual-
siasi nome proprio 138 , ha soprattutto un valore denotativo, poi-
ché distingue quel dio da tutti gli altri, ma nell’imprecisato mo-
mento in cui il nome è stato attribuito esso aveva un forte valore
ideologico, adeguato non solo alla realtà sovrumana alla quale si
riferiva, ma anche coerente con una teoria, pur se non di neces-
sità consapevolmente verbalizzabile, dell’intero pantheon divino.
Recuperare tutto ciò tramite l’etimologia è davvero materia di
fede. Gli Egiziani tentarono questa strada piú volte: a lungo ri-
tennero che il nome del massimo dio tebano Amun (jmn) valesse
il «nascosto» (jmn; Manetone fr. 75 M.; Plut. de Isid. Osir. 354 d)
e che il nome di Osiride (wsjr, originariamente As.t-jrj) volesse
dire il «vigoroso» (wsr) o «quello dai molti occhi» (paretimologia
basata su un composto ormai con fonetica copto antica, *o¥-iri;
Plut. l. cit. 355a); e tante altre ne proposero, ricavandole da gio-
chi di scrittura tramite i segni geroglifici. Appunto, erano scelte
dettate dalla fede, una fede analoga a quella di chi, oggi, volesse
credere che una teoria sia sussumibile da un solo nome e pensas-
se che una volta chiarito che il nome del dio creatore mongolo
TäNri significa «cielo» si sia per ciò stesso compresa la natura
della religione di tale gente. Naturalmente, non stiamo dichia-
rando l’illegittimità della ricerca etimologica sui teonimi o l’i-
nutilità dell’informazione che comunque ricaviamo dal compren-

137
Beninteso, nei limiti della fragilità umana.
138
Ci sono tuttavia importanti differenze, tra le altre il fatto che mentre possiamo
immaginare l’insieme delle persone che, poniamo, nel villaggio si chiamano Kofi,
il teonimo è una classe con un solo elemento.
176 Franco Crevatin

dere che teonimi indoeuropei come Zeuv " , latino Iuppiter, indiano
vedico Dyau˙ (< *DyŸus ) si riferiscano ad una divinità urania (lo
«Splendente»), ma solo tentando di limitare le aspettative che è
lecito nutrire su indagini di questo tipo.
Difficoltà analoghe si incontrano nelle pratiche linguistiche
con accesso riservato: gerghi professionali, lingue di iniziati, lin-
gue di specialisti hanno in genere motivazioni contestualizzate
non facilmente accessibili, spesso perdute o aggiornate nel corso
del tempo. Molti Italiani usano l’espressione “fregare” per dire
‘imbrogliare’, ma solo persone di mezza età ricordano che essa
era a suo tempo considerata proibita a livello scolastico e tra la
gente per bene, ed ancor meno persone sanno che il suo primo
significato aveva valenza sessuale, al pari di espressioni, anch’esse
oggi oscurate semanticamente, come «non capire un tubo». Le
pratiche linguistiche con accesso riservato sono di difficile esegesi
etimologica perché la motivazione che soggiace al loro lessico è
spesso basata sull’allusione, sull’ammiccamento, non di rado sul-
l’ironia con riferimento a contesti ormai da tempo perduti o oscurati.

In molti gerghi professionali dell’Italia settentrionale compare


una parola a prima vista molto strana, strízek «pane» (ad esem-
pio nel gergo dei pastori bergamaschi e camuni), parola che di-
venta etimologicamente piú chiara quando si confronti con la
sua variante strídek: il confronto immediato è fornito dal dialetto
bormino trídek «grano», che viene direttamente dal latino tr•tícum
con lo stesso significato. I continuatori italiani del lat. tr•tícum
sono degli arcaismi, poiché nel passaggio tra tarda antichità ed
alto Medioevo ci fu, per il generale immiserimento della vita
agricola, una forte recessione dei cereali nobili e la parola si conservò
solo in aree neolatine marginali o isolate (ad esempio nel sardo).
Ora, proprio la forma strízek con la sua immotivata -z- interna ci
fa capire che c’è stato un incrocio tra i derivati dialettali di tr•tícum
e quelli di tr•sus «triturato» (talora noti proprio in area lombarda
per indicare tipi di farina), per cui possiamo dire che strízek ori-
ginariamente doveva essere una parola propria del dialetto nor-
L’etimologia come processo di indagine culturale 177

male, non del gergo, resuscitata e rimotivata proprio per fini di


occultamento semantico.
In altri casi la soluzione è ancora piú semplice. Gli Egiziani
ritenevano che il nome di una persona ne racchiudesse la piú
intima essenza, per cui agire magicamente sul nome equivaleva
ad agire sull’individuo: da ciò provenne l’idea che gli dei, pur
noti tramite un nome, avessero altresí un nome segreto, ineffabi-
le. Il «nome segreto» veniva detto nr ed è facile vedere che la
voce era semplicemente il palindromo di rn ( *rïn ), la parola co-
mune per «nome».

L’ultimo esempio etimologico che offriamo in questo libro vorrebbe


riassumere, quasi iconicamente, i caratteri della semplicità. Nel
dialetto milanese è usata una parola, sifolina, che viene quasi re-
golarmente riferita alla gamba «zoppicante». Accanto ad essa sono
presenti anche forme del tipo sífola, talora anche al maschile e
riferite ad altre realtà, per cosí dire, traballanti. Verrebbe fatto di
credere che sifolina sia dunque un diminuitivo, ma con questa
esegesi grammaticale e con la presunzione di una parola genui-
namente popolare non si fa molta strada e la parola dovrebbe
esser riposta tra quelle di origine ignota. Ed invece la soluzione
è molto semplice: si tratta di un derivato semidotto di Luciferina
(*lusiforina o sim.), propria di Lucifero, il diavolo, con discrezio-
ne della prima sillaba perché ad un certo punto scambiata con
l’articolo. Ed il diavolo, dai piedi caprini, si presenta come zop-
po in moltissime leggende popolari: quando si traveste per non
farsi riconoscere e viene in questo basso mondo, è spesso tradito
dall’andatura zoppicante. Il suo piede caprino mal si adatta alle
scarpe.

Parziali successi, questi, in àmbiti aspri e pericolosi, che ci


ricordano quanto da ultimo dovrebbe trovar posto nella bisaccia
dell’etimologo, ossia il senso del limite, il senso che l’etimologia
non può procedere all’infinito e che non tutto le è permesso, la
percezione del limite dell’importanza stessa della lingua (e quin-
178 Franco Crevatin

di della linguistica) nella definizione dell’esperienza umana. Sunt


denique fines, alla fin fine ci sono dei confini, come in tutte le cose
create: al di là dei confini c’è solo il consapevole silenzio. Do-
vremmo ispirarci ad un autorevole esempio, Febo Apollo, il dio
dell’oracolo di Delfi che ha segnato l’intera storia della cultura
greca. I messi dell’imperatore Giuliano – imperatore filosofo a
torto definito l’Apostata – erano venuti per interrogare l’oracolo,
come tanti avevano fatto prima di loro, ma quel mondo era ormai
finito ed un altro ne stava sorgendo con il vigore impetuoso di
tutto ciò che è nuovo. Apollo ne era ben consapevole e cosí fece
rispondere al sovrano:
ei[ p ate tw~ / basilh~ i , camaiŸ pev s e daiv d alo" auj l av :
ouj k ev t i Foi~ b o" e[ c ei kaluv b an, ouj mav n tida dav f nan,
ouj pagaŸ n lalev o usan: aj p ev s beto kaiŸ lav l on u{ d wr.
Dite al re che a terra è crollata la splendida dimora:
Febo non ha piú il riparo, non l’alloro del vaticinio,
non la fonte chiacchierina: si è spenta l’acqua loquace.
(Passio S. Artemii 35)
L’etimologia come processo di indagine culturale 179

QUESTIONI PARTICOLARI E NOTE BIBLIOGRAFICHE

Queste pagine non aggiungono nulla di necessario al testo: sono una


mant•ssa , sperabilmente non deteriore ed inutile (Festo 119, 9).

Capitolo I
La storia linguistica dell’Istria è stata da me analizzata in molti lavo-
ri e per tutti rimando a Lexikon der Romanistischen Linguistik, edd. G.
Holtus, M. Metzeltin, Chr. Schmitt, Tübingen 1989, III, p. 555 ss. e Rap-
porti culturali e linguistici tra i popoli dell’Italia antica, a cura di E. Cam-
panile, Pisa 1989, pp. 45-109. L’interesse per la regione in questione è
dato, in sintesi, dalla compresenza di dialetti neolatini e dialetti slavi
sin dal VII secolo, dalla sovrapposizione di diversi strati romanzi, da
complessi processi di interazione con modelli dominanti (il dialetto di
Venezia) e da una storia che ha visto anche interazioni langobarde e
bizantine. Alla lingua bawlé (Costa d’Avorio) ho dedicato ricerche sul
campo da vent’anni: alcuni risultati complessivi sono raccolti in Lexique
Baoulé-Français, a cura di G. De Franceschi e F. Crevatin, Trieste 2001 e
Il frasario Bawlé di p. V. Guérry, a cura di F. Crevatin ed Ilaria Micheli,
Trieste 2001. Sull’informazione egittologica in Macrobio ho scritto in
«IncLing» 23, 2001 (in stampa). Il problema della cosmologia aria è molto
complesso: le mie posizioni sono largamente quelle di F.B.J. Kuiper («IIJ»
8, 1964, p. 106 ss. e spesso ribadite): le ho fatte mie in «IncLing» 2, 1975,
p. 51 ss., ed altrove, e non ho motivo di cambiare. Sulla geomanzia
somala ho scritto in «IncLing» 9, 1984, p. 167 ss.

Le fonti antiche sulle lingue straniere


Il problema delle fonti nella ricerca etimologica è in parte questione
di epistemologia ed in parte un fatto di buon senso e quest’ultimo non
si può insegnare. Potremmo limitarci a dire che l’utilizzo di una fonte
pone sempre problemi di economia interpretativa e gli emendamenti
proposti hanno un costo che è bene limitare al massimo. Epistemologica-
mente, per principio e ceteris paribus, è necessario credere alla fonte:
anche nel caso di informazione fattualmente errata, potrebbe essere ragio-
nevolmente possibile capire perché essa è tale. Nel caso delle lingue
antiche, è evidente che i problemi si aggravano sia perché le trascrizioni
sono impressionistiche sia perché la tradizione testuale può essersi cor-
rotta. Il fatto è che sono alquanto rare le fonti antiche che si sono espres-
samente occupate di parole straniere, o almeno, nel naufragio della tra-
dizione antica, a noi sembrano infrequenti. Il filologo Panfilo, ad esem-
pio, si era occuparo di terminologia botanica plurilingue (excerpta della
180 Franco Crevatin

sua opera ci sono giunti nelle integrazioni a Dioscoride Pedanio [Wellmann]


e nell’erbario latino dello Pseudo-Apuleio [Corpus Med. Lat. IV, ed. Howald-
Sigerist]), e le raccolte lessicali erano funzione dell’identificazione certa
della pianta usata per la terapeutica e la magia. Abbiamo qualche glos-
sario greco-copto (J.-L. Fournet-M. Pezin «Cahiers Rech. Instit. Papyr. Égyptol.
de Lille», 12, 1990, pp. 97-99 [P. Sorbonne inv.] e H. Quecke «ZPE» 116,
1997, p. 67 ss. [P. Heid. inv.-n. G 414]; cfr. anche J. Kramer, Glossaria
bilinguia in papyris et membranis reperta, Bonn 1983], che ci fornisce pre-
ziose equivalenze (ad es. aj x iv n h = kolobein [kelebin], çiv d ero<"> =
benipi [benipe], mav c aira = çhfi [shfe], ecc.), ma nel complesso si
deve dire che le informazioni linguistiche nelle fonti greche e latine
sono sempre funzione di altri interessi.
Sulle liste di parole vicino orientali abbiamo discusso nel testo. Il
frammento vocabolaristico egiziano-accadico è stato edito da S. Smith e
C.J. Gadd, «JEA» 11 (1925) p. 230 ss. Ricordo almeno altri due vocabo-
lari antichi, quello sumero-accadico-hurrico di Ugarit (B. Abdré-Salvini,
M. Salvini, «Studies on the Civilization and Culture of Nuzi and the
Hurrian» 9, 1998, p. 3 ss.) e quello accadico-hittito (Das akkadisch-hethitische
Vokabular, «SBT» 7, Wiesbaden 1968.
Ma, ribadisco, il problema non è mai la semplice identificazione fo-
netica, perché i linguisti sono scaltriti e capaci di ardite interpretazioni:
la questione resta culturale. Cosa esattamente ha capito la fonte? Quali
erano i suoi intendimenti nel citare la parola straniera? Quali i
condizionamenti?
Un esempio non linguistico. Il Paedagogium era la scuola dei servi
imperiali destinati ai vari compiti amministrativi nella reggia degli imperatori
romani: situata sulle pendici occidentali del Palatino, nelle vicinanze
della Domus Augustana, la scuola è stata scavata e ci ha restituito un
certo numero di graffiti di età domizianea – gli studenti da sempre imbrattano
le pareti. Uno è celebre ed impressionante: un uomo è in atteggiamento
di adorazione di fronte ad un uomo crocefisso con la testa d’asino; sotto
è riportata la frase beffarda
Alexameno" sebete (sic!) qeon
Alessameno prega dio
Che si volesse irridere un giovane Cristiano pare difficilmente dubitabile:
ma perché la testa d’asino? Un’espressione metaforica di stupidità come
segno di disprezzo è pensabile, ma non è suffragabile da riscontri: nella
nostra cultura la stupidità può essere asinina, e non è detto che ciò valesse
anche per chi redasse il testo. Meglio attenersi al fatto che gli Ebrei,
secondo una calunnia ben documentata da Flavio Giuseppe (contra Apionem
L’etimologia come processo di indagine culturale 181

2, 80), adoravano una forma asinina (cfr. anche Tacito Hist. 5, 3 ss.),
calunnia poi estesa ai Cristiani (Tertull. Apol. 16); all’epoca di Domiziano
i Cristiani erano certo in prevalenza Ebrei.
Un esempio linguistico. Manetone (in Flavio Giuseppe contra Apionem
1, 14; fr. 42 Waddell) ha fornito il celebre etimo del nome degli Hyksos,
le genti che invasero l’Egitto fondando le dinastie XV e XVI: il nome è
un composto da u{ k che kaq∆ iJ e raŸ n glw~ s san significa «re» e swv s che
kataŸ thŸ n koinhŸ n diav l ekton significa «pastore», i Re Pastori dunque.
Ma in altro aj n tiv g rafon Flavio Giuseppe ha trovato nel testo di Manetone
che non si tratterebbe di ‘re’ bensí di «prigionieri di guerra», in quanto
questo è il senso di a{ k , che andrebbe letto al posto di u{ k . L’aspetto
”=U!
tecnico dell’etimologia è semplice: huk rende l’egiziano HqA «capo» ( )
e søs SAsw ( Ω UÃ 2∆ s ! ) «beduino», copto ¥w s «pastore»; hak invece
va connesso con HAq «catturare, saccheggiare», HAqw ( =
≈ -«ú ) «prigio-
nieri». L’informazione di Manetone è tinta di nazionalismo egiziano e,
tutto sommato, non è neppure sicuro che sia davvero ascrivibile a Manetone:
la sua opera venne infatti largamente rimaneggiata ed interpolata dalle
fazioni alessandrine filo ed anti Ebree. Ma l’elemento piú interessante è
dato dalla distinzione tra huk, proprio della lingua sacra, e søs tipico
invece del parlare comune: questa finezza è certo manetoniana. Il sacer-
dote di Eliopoli difatti allude al bilinguismo dotto d’età tolemaica tra
medio-egiziano, lingua dei testi sacri, e lingua parlata, ‘profana’ (da
ultimo v. K. Jansen-Winkeln, «WZKM» 85, 1995, p. 85 ss.); effettivamen-
te HqA non si continua nel copto.

Capitolo II
Molto numerose sono le liste di parole vicino orientali: si veda la
voce Listen nel Reallexikon der Assyriologie und vorderasiatischen Archäologie,
ed. Ebeling, Erich, Berlin 1932 e ss. Le lettere dell’archivio diplomatico
di el Amarna sono state riedite in traduzione da Mario Liverani (Le
lettere di el-Amarna, Brescia 1998). La teoria egiziana della lingua è stata
da me esposta in «IncLing» 16, 1993, p. 105 ss. Il Libro della Vacca
Celeste è stato riedito da E. Hornung (Der ägyptische Mythus von der
Himmelskuk, Freiburg 1982). Sul Cratilo di Platone e sulla filosofia stoica
la bibliografia è sterminata: si ricordi almeno l’opera fondamentale di
M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, 1971-72 3; su
Varrone v. Varron, «Entretiens Hardt» IX, 1963, soprattutto il lavoro di R.
Schroeter (del quale v. anche il contributo in «AAWM» 12, 1959, p. 769
ss. Sul Nighaˆ†u vedico ho scritto in Bandhu. Scritti in onore di Carlo Della
Casa, Torino 1997, p. 69 ss.
182 Franco Crevatin

Capitolo IV
Sulla concezione germanica della ricchezza si vedrà E.A. Thompson,
The Early Germans, Oxford 1965, un classico che si può aggiornare con le
singole voci del Reallexikon der germanischen Altertumskunde, ed. J. Hoops,
Berlin 1973 ss., e A.Ja. Gureviç, Le categorie della cultura medievale, Torino
1983 (trad. dall’originale russo Mosca 1972). Oltre al saggio classico di
E. Benveniste citato nel testo, il lettore italiano può utilmente leggere il
libro di R. Lazzeroni, La cultura indoeuropea, Bari 1998.

Capitolo VIII
Sulle conchiglie del kula v. S.F. Campbell in H.W. Leach e E. Leach
edd., The Kula, Cambridge 1983 p. 229 ss. Le componenti della persona
umana secondo gli Egiziani sono state riassunte in maniera piacevol-
mente divulgativa da A. Bongioanni e M. Tosi, La spiritualità dell’antico
Egitto, Rimini 1997.

Capitolo IX
Il riferimento classico per la linguistica cognitiva è G. Lakoff, Women,
fire and dangerous things: what categories reveal about the mind, University
of Chicago Press, 1988; v. anche A. Bonazza, Arbitrarietà e motivazione :
un panorama della linguistica cognitiva , Trieste, Scuola superiore di lingue
moderne, 1995.

Capitolo X
Ho avanzato in parecchie sedi una proposta di lettura di uno dei tipi
sociali diffuso nel mondo di rapporti indeuropeo: si veda ad es. «IncLing»

Capitolo XI
Le migliori e piú pacate rassegne sul problema del sostrato sono
state offerte da D. Silvestri, La teoria del sostrato: metodi e miraggi, Napoli,
3 voll. 1977-1982; La nozione di indomediterraneo in linguistica storica, Napoli
1974; sul tema ho esposto recentemente il mio punto di vista in «Varietà
e continuità nella storia linguistica del Veneto» (Atti del Convegno della
S.I.G.), Pisa 1999, p. 11 ss.

Capitolo XII
Sul movimento vichingo resta un classico G. Jones, A History of the
Vikings, Oxford 1973; v. anche F. Barbarani, L’espansione dei Vichinghi,
Verona 1979. Le proposte di lettura dello Slovo sono state da me avan-
zate in «IncLing» 11, 1986, p. 188 ss.; si veda altresí la bella edizione
commentata italiana a cura di E. Saronne (Il cantare di Igor’, Parma 1988).
L’etimologia come processo di indagine culturale 183

L’edizione commentata del Periplo del Mar Rosso che sta alla base delle
nostre letture è quella di L. Casson, Periplus maris Erythraei: text with
introduction, translation, and commentary, Princeton Univ. Press, 1989. V.
anche A. Avanzini, ed., Profumi d’Arabia, Roma 1997 (in particolare l’im-
portante contributo di G. Banti e R. Contini, p. 169 ss.Le sopravvivenze
copte nell’arabo egiziano sono state studiate da W.B. Bishai, «JNES» 23
p. 39 ss. e da P. Behnstedt, «Welt des Orients» 12, 1981, p. 81 ss.; la tesi
di E. Må˙er Is˙å˚, The Phonetics and Phonology of the Bohairic Dialect of
Coptic and the survival of Coptic Words in the Colloquial and Classic Arabic
of Egypt, Ph.D. thesis, Oxford 1975, va utilizzata con la massima cautela.
Utile è «Égypte / Monde Arabe» 27-28, 1996, con sintesi di vari specia-
listi.

Capitolo XIII
Sui primordial characters (uso non a caso il titolo del libro di R. Needham,
Univ. Press of Virginia 1985) non si è lavorato molto: la tematica rinvie-
ne alla semantica cognitiva (sulla quale v. ad es. Cognitive semantics:
meaning and cognition, edited by Jens Allwood, Peter Gärdenfors, Benjamins,
1999; Kognitive Semantik : Ergebnisse, Probleme, Perspektiven, Monika Schwarz
(Hrsg.), Tübingen 1994; Historical semantics and cognition, edited by Andreas
Blank, Peter Koch, Berlin 1999) e molto resta da fare.

Nel corso del testo ho fatto spesso riferimento alle interpretazioni di


Horapollo sui Geroglifici ed in generale alla cultura egiziana di età tar-
da: molto materiale si troverà nell’edizione con traduzione e commento
del testo di Horapollo ad opera mia e di G. Tedeschi, attualmente in
stampa. Sui problemi posti dalla storia delle lingue e popoli centro-
asiatici la bibliografia è sterminata: sui rapporti Indoeuropei-Cina il saggio
sempre citato (ed altrettanto discusso) è quello di T. Chang, Indo-European
Vocabulary in Old Chinese, Sino-Platonic Papers 7, Philadelphia 1988. In
generale la sintesi piú recente ed equilibrata è quella di P.B. Golden, The
Turkic Peoples: a historical sketch, London 1998.

Tecnica linguistica e linguistica culturale


L’etimologia, come tutti i saperi specialistici, si basa su una tecnica
che è l’indispensabile presupposto di ogni proposta; tuttavia la tecnica
in quanto tale non esaurisce i problemi posti dal sapere, fatto questo che
pare spesso dimenticato dall’odierna galassia linguistica. Ognuno sa,
credo, reperire gli esempi di quanto dico. Al fondo la questione mi pare
riconducibile alla teleologia delle scienze: l’enunciato «La linguistica spiega
i problemi posti dal linguaggio umano in quanto tale e dalle lingue
184 Franco Crevatin

naturali come reificazione dello stesso» può legittimamente essere inte-


grato dalla domanda «Per farne che?». Proprio in quanto si occupa di
uno dei fattori che piú e meglio caratterizzano l’Uomo, la linguistica ha
una particolare responsabilità all’interno delle scienze umane, dalla quale
non può evadere: sarebbe pericolosamente riduttivo pensare esclusiva-
mente all’homo loquens, perché l’Uomo è un’unità non suddivisibile, se
non per mera comodità, di fondanti strutture biologiche, cognitive e
culturali. Insomma, la linguistica dovrebbe contribuire teleologicamente
alla comprensione dell’Uomo. È probabile che ciò sia colto, magari come
nostalgia, da molte scuole; certo è che il successo del paradigma chomskyano,
ad esempio, è dovuto molto piú alle prospettive teleologiche che esso
include (il funzionamento della mente) che ai suoi successi esplicativi
nella tecnica linguistica. Nella prospettiva di una linguistica ‘culturale’,
largamente dipendente dal cognitivismo e dall’antropologia, si sono messi
alcuni studiosi (ad es. G.B. Parker, Toward a Theory of Cultural Linguistics,
Univ. of Texas Press 1996) ed è probabile che nei prossimi anni assiste-
remo ad un espandersi di questo filone: ciò che in esso per ora manca
è la dimensione storica, ed è un’assenza rumorosa. Essa dipende in parte
dalle singole storie disciplinari: il cognitivismo è in sé metastorico e
l’antropologia ha sempre avuto un atteggiamento sospettoso – nono-
stante i caveat espressi da illustri studiosi – nei confronti della storia.
Comunque sia, l’assenza dovrà essere compensata: l’Uomo percepito in
una visione solo sincronica non può che essere incompleto.
L’etimologia come processo di indagine culturale 185

Prodotto nel 2002

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I.U.O. Napoli

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