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ANONIMO

DIFESA PERSONALE
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Perchè studiare delle tecniche di difesa personale? Che cos'è la difesa personale? Cosa
significa avere un atteggiamento di allerta, ma senza cadere nella paranoia pura? Prima di
rispondere a queste ed altre domande voglio iniziare questa sezione con due episodi che
verranno analizzati per introdurre alcuni dei concetti che sono alla base della difesa
personale. Questa sezione sarà propedeutica per conoscere discipline scientifiche applicate
alla difesa personale come lo Screening.

Gli episodi che seguono sono realmente accaduti e, per mantenere al massimo il realismo
della narrazione tutti i dialoghi sono riportati senza eccessive censure di vocabolario. Chi può
essere disturbato da parole e/o concetti volgari ed osceni è avvertito. :-)

Nonostante tutto sono una persona alquanto abitudinaria. Infatti è da più di dieci anni che mi
servo sempre dallo stesso edicolante. E' un rito che si ripete almeno una volta ogni tre
settimane, e alla fine quasi ci manca, quando per qualche motivo non possiamo farlo con
quella cadenza. L'edicola non proprio nel centro della città, ma è giusto all'angolo di un ponte
che serve un'arteria fondamentale di essa. L'edicola è sempre molto frequentata, nonostante
quel che afferma il mio edicolante, penso proprio che faccia i soldi a palate... :-) Ecco che
vuoi per la posizione trafficata, vuoi per la predisposizione alla "chiacchera veloce" del mio
edicolante, questa edicola ha sempre qualche personaggio che si sofferma a parlare, un po'
come una specie di bar all'aperto. Ci puoi trovare davvero di tutto, dal pensionato frustrato al
disoccupato che cerca sostegno psicologico. In una mattina primaverile sono in bicicletta per
prendere il mio solito pacco di riviste e mentre mi fermo noto il solito tran-tran di gente
davanti all'edicola: ancora una volta dovrò fare un po' di fila... Capita. Chiudo la bici e mi
dirigo verso il piazzaletto dell'edicola. C'è qualcosa di diverso. Noto immediatamente un tizio
con gli occhiali a specchio, vestito normalmente che fuma in maniera spasmodica una
sigaretta: la porta alla bocca e la "succhia" come se il tizio in questione fosse immerso in
un'atmosfera venefica e la sigaretta fosse la sua unica fonte di ossigeno per sopravvivere.
Cammina avanti indietro nervosamente, e la mano sinistra che non regge la sigaretta si
contrae in spasmi rapidi. Ogni tanto, tra una tirata e l'altra, lo vedo parlare da solo, oppure
rivolto al passante/cliente dell'edicola di turno. Avvicinandomi incomincio a sentire quel che
va dicendo:

"A me... Non mi tratta così nessuno... Capito!?" Tirata di sigaretta e sguardo degli occhiali a
specchio perso chissà dove. "A me... Zitto, non me lo dice nessuno, non un parmigiano di
merda, non lui... Poi il terrone sarei, io? Eh?" E da un buffetto sulla spalla ad una signora
anziana che passava di lì per prendere il quotidiano; la signora in questione non lo degna di
uno sguardo, ma il passo veloce con cui si allontana è eloquente. Mi avvicino per arrivare
alla facciata dell'edicola, ed il tipo è proprio lì. "Io, lo ammazzo di botte, non me ne frega un
cazzo... Io lo uccido... A me non tratta nessuno così, polentone del minchia..." Sono davanti
all'edicola e tre persone fanno la fila, tutte anziane. Il mio sguardo piuttosto interrogativo
incontra le lenti a specchio del tipo. E' sulla quarantina, baffetti alla Hitler, abbronzato e di
corporatura media, stando al cappotto in pelle di che ha. Mi aggancia. "Sai che cazzo mi
hanno fatto" tirone della sigaretta, ormai alla fine "Sai che cazzo mi hanno fatto sul ponte?"
Non rispondo, ma faccio di tutto per non sorridere: ho già inquadrato la situazione. "Ero sullo
scooter, al semaforo, c'è la fila di auto, io passo davanti ad uno in macchina... Tanto c'è
rosso..." E si guarda attorno nervosamente, saltella quasi, è carico di adrenalina come una
bomba. "E mi suona! Mi suona! Mi volto per dirgli qualcosa e lui mi fa' zitto!!!" e mima con
l'indica sinistro il gesto eloquente di fare silenzio portandolo di scatto alla bocca. "...E mi dice
terrone quando mi passa davanti quando il semaforo è verde... E lui è di Parma, sicuro che è
di Parma!" Si guarda attorno a scatti come per trovare la forza per contenere i visceri. E'
davvero di contrasto un personaggio del genere in una piazzetta tanto bella della città con
una mattinata primaverile. "Io lo ammazzavo, sicuro, se avevo più tempo lo ammazzavo
sicuro! Scendevo..." e mima il gesto di uno che mette il cavalletto allo scooter "...e lo
riempivo di botte fino ad ucciderlo, chiama la Polizia se sei buono quando sei morto... Non
mene frega niente se è due metri, ho steso gente più grossa... Io..." E si porta la mano al
petto piegandosi con il viso verso il mio. Io sono sempre con uno sguardo mezzo
interrogativo mezzo neutrale. "Per strada non si fa così, io potrei essere cintura nera, ed
ucciderlo subito, non sai mai chi ti trovi di fronte per strada. Voi parmigiani siete dei pezzi di
merda. Noi meridionali però siamo più cattivi" e continua ad indicare con l'indice la gente sui
marciapiedi. Sigaretta finita, la butta per terra. "Non è il caso di farsi il sangue amaro per una
cosa del genere, sii superiore e non pensarci più". Ho sempre il brutto vizio di essere
estremamente conciliante con tutti e con tutti, ma in questo caso non era assolutamente il
caso di andarsi ad impelagare in discorsi relativi alla relazione che passa tra grado di cultura
civica e comune italiano di nascita. Per inciso, per me non esistono i terroni, i magrebini e
zingari vari: per esistono solo chi PENSA prima di fare e chi NON PENSA prima di fare
qualcosa. I coglioni sono dappertutto, nessuna razza, cultura, credenza religiosa ne è
immune. Il tipo mi riprende subito dalla mia frase "Ma io sooooono superiore, io sono buono
e pacifico, ma non mi devono far girare coglioni, altrimenti sono buono scendere e uccidere a
pugni..." Fortuna che eri buono e pacifico... "...Ma a me, i parmigiani non mi devono zittire,
hai capito?". Intanto i clienti della edicola davanti a me si voltavano quasi terrorizzati dallo
spettacolo offerto dal tipo. Il mio edicolante dentro alla sua finestrella era alquanto taciturno
oggi. Peccato, questo fesso ha rovinato il rapporto sereno che di solito regna in questa
edicola. Per me non ha senso lasciare le cose a metà, quindi continuo, e mi diverto sempre
come un matto in queste situazioni, quando non sfuggono di mano, ovviamente...;-) "Perchè
arrabbiarsi? Ha torto quello del semaforo, perchè rovinarsi una giornata così?" Il tipo mi
guarda come se fossi un marziano sceso sulla Terra. Ora, io non rappresento nessuna
minaccia per chicchessìa, almeno visivamente. Infatti non arrivo al metro e settanta di statura
e vesto sempre in maniera alquanto sobria. In più ho una parlata alquanto calma e
accondiscendente. E' questo che mi ha salvato, probabilmente. "E no! Cazzo! Se uno mi fà
così lo ammazzo! Hai capito, parmigiano del cazzo!!?". L'edicolante mi invita a prendere i
miei giornali, che aveva già preparato per tempo e mi saluta, invitandomi a non dare corda al
tipo. Me lo consiglia sottovoce. Saluto e me ne vado. Per il tipo è come se non avessi mai
scambiato nemmeno una battuta con lui. Mentre mi allontano sento la voce garbata di un
signore sulla sessantina che gli dice "Ma è una così bella giornata, perché rovinarsela?" di
tutta risposta il tipo lo invita ad andare a prostituirsi per pochi soldi.

Un mio carissimo amico, che chiameremo Roberto, lavora in una ditta di spedizioni via
corriere. E' un lavoro pesante. Arriva alla mattina alle 8, prepara le bolle di spedizione del
materiale, organizza gli itinerari dei vari padroncini e non stacca fino alla sera alle 21 quando
i camion carichi di merce partono per le loro destinazioni. Non è nemmeno un lavoro facile,
perché gli intoppi, le sviste, i contrattempi, la sfiga, sono sempre in agguato: ma la merce
deve arrivare a destinazione, altrimenti niente soldi. Sei giorni alla settimana sempre così.
Roberto è una persona calma, non propriamente paziente, ma sa ormai come trattare con i
camionisti, noti per non essere propriamente dei Confucio, ma si sa, il lavoro è duro anche
per loro e le preoccupazioni sono tante. Una delle tante sere in cui staccava alle 21, come al
solito, sale in macchina con l'encefalo violentato da mille pensieri sul lavoro, ma su quei mille
uno esterno lo impegnava particolarmente: sua figlia di qualche mese aveva da due giorni la
febbre altissima e sua moglie lo aveva chiamato poco prima per dirgli se era il caso di
portare la piccola al Pronto Soccorso. Avendo telefonato poi al medico, questi gli consiglia un
paio di farmaci, e poi, se in qualche ora non fosse scesa la febbre, di portarla all'ospedale.
Con questi pensieri uscì sull'incrocio che lo portava sulla statale che conduceva a casa sua...
Dopo 33 Km di strada. Subito incontra il passaggio a livello che, come per ogni sera a
quell'ora è giù. Non ha senso evitarlo, il cavalcavia più vicino è semplicemente troppo giù di
mano. Aspetta al buio, illuminato dal semaforo rosso della sbarra. Non accende nemmeno
l'autoradio, come sua abitudine, pensa troppo a sua figlia. Arriva un'automobile dietro di lui
che spegne i fari appena gli giunge a qualche metro. Una Golf rossa. Passano i minuti ed
infine il fischio del treno che arriva da lontano si genera sulla destra. Il tizio sulla macchina
dietro accende immediatamente i fari ed il motore. Se Roberto fosse un po' più rilassato
sorriderebbe: evidentemente il tipo non è di queste parti, perché chi usa spesso questo
passaggio a livello sa che tra il fischio udibile del treno e l'effettivo suo passaggio passano
almeno 40 secondi buoni. Il tizio dietro accelera ogni tanto a vuoto, scalpita. Roberto lo
guarda dal retrovisore: i fari sono accesi e non riesce a capire nulla del guidatore. Passa il
treno, il solito locale da tre vagoni scarsi. Dopo qualche secondo si alzano le sbarre, piano,
molto piano, come al solito cigolando. Il tizio dietro sgasa come se fosse in griglia di partenza
di un Gran Premio. Roberto guarda di nuovo il retrovisore; chi cavolo è questo fesso? Le
sbarre sono a metà, e con la Twingo, Roberto, evita di partire per evitare di cozzare
l'antenna radio che ha sul tetto. BEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEPPPP! Il tipo dietro gli
pianta due secondi di clacson buoni nelle orecchie e tre lampeggi di abbaglianti. E le sbarre
sono a metà. Scatta un interruttore dentro Roberto. Apre la portiera di scatto, esce in tutto il
suo metro e novanta e fisico da ex-pallanuotista agonista e procede a passi spediti verso la
portiera del conducente della macchina dietro. Ha uno sguardo che è tutto un programma. Il
tipo abbassa il finestrino e gli urla un "Ché cazzo fai!? Ti muovi si o no?" Roberto non dice
nulla, non nota nemmeno che il tizio ha circa metà della sua età e gli pianta un destro sul
naso che fa volare uno spruzzo violento di sangue verso le gambe ed il volante del tipo. E
senza dire nulla torna sulla Twingo e parte per andare a vedere come sta sua figlia.

Qualcuno di voi potrebbe raccontare storie ben più drammatiche di quelle sopra, ma sono
ottime per discutere di alcuni concetti fondamentali.

Nel primo episodio il tizio, Mister X tanto per dargli un nome, è evidentemente che ha delle
turbe comportamentali. Il nervosismo che dimostrava, l'ossessione nel rievocare l'episodio
scatenante della sua rabbia e l'implicita voglia di sfogarla con chi non c'entra nulla (ma per lui
tutti sono colpevoli di appartenenza alla stirpe che lo ha offeso) con provocazioni verbali,
sono tipici di un soggetto che soffre di ansia compulsiva. E' perfettamente normale offendersi
per un torto ricevuto, ma è la reazione che segue che ci cataloga come psicotici violenti o
come vittime auto-commiseranti a vita. Mister X ha, nella sua confusione mentale, rivelato
una grandissima verità: NON SAI MAI CON CHI HAI A CHE FARE PER STRADA. Potresti
davvero trovarti a discutere ed arrivare alle mani con qualcuno che sa davvero come
muoversi e non ha pietà a fracassarti la testa. Ad essere sincero neanche lui, Mister X, si
stava rendendo contro che stava apostrofando qualcuno che gira con un Kerambit in tasca.
Non sono una cintura nera di nessuna disciplina, ma temo che, giustamente da come mi
stavo comportando, mi stava molto sottovalutando. Meglio così. Quindi, un concetto
fondamentale: bisogna essere sempre gentili e civili con tutti per strada, non perchè lo
richiede il buonsenso, ma perchè potresti avere a che fare con un pazzo furioso, armato e
che del rispetto degli altri se ne fa un baffo, oppure, come abbiamo visto nel secondo
episodio, potremmo abusare della pazienza (limitata) di una persona a cui è caduto il mondo
addosso poco prima, e che quindi non vede l'ora di sfogarsi con ferocia con chicchessia.
Perchè l'autodifesa? La regola numero uno per evitare qualsiasi colluttazione, problema,
diverbio violento è: FATTI I GLI AFFARI TUOI, E SII CORTESE, SEMPRE. Dovrebbero
scriverla in cielo in 120 lingue e il mondo sarebbe un posto migliore. Purtroppo però, anche
per chi segue questa regola aurea, non è sempre dato evitare i guai. Se vi capita lo
squilibrato, il delinquente, lo strafottente del volante che se non guida come Schumacher
dappertutto e non tollera chi gli sbarra la strada, ecco che una colluttazione, o perlomeno un
diverbio a forte componente degenerativa può capitarvi. E' ancora viva nella mia mente
l'immagine di un giovanotto in piedi a lato del finestrino dell'autista di un'auto ad un semaforo
rosso che sbatte pugni e calci contro la portiera di questa. Il vecchietto all'interno è chiuso
dentro con la sicura (grande idea, il tipo con la Golf rossa poteva pensarci, no?) atterrito.
Perché tanta violenza da parte del giovane? Il vecchietto era reo di aver tenuto la velocità
così bassa all'approssimarsi dell'incrocio da far "scappare" il verde al giovane dietro di lui.
Quale ingiustizia per cui vale la pena lanciarsi eroicamente a distruggere l'auto altrui.

Quindi siamo tutti potenziali vittime di qualche "testa calda", finche viviamo immersi nel
tessuto sociale attuale. Certo, agli eremiti non succedono certe cose! Situazioni di
aggressioni vere e proprie a parte, ecco che una branca della psicologia applicata al
comportamento umano ci viene incontro per riconoscere e catalogare i Mister X di turno, e
per insegnarci a comportarci di conseguenza.

Tale disciplina si chiama Screening. [vedi approfondimento in seguito]

ARTI MARZIALI E DIFESA PERSONALE EFFICACE

Riflessioni che scaturiscono quando si parla di difesa personale con Maestri che hanno più
30 anni di pratica marziale…

Frequentare un corso di Arti Marziali può concretamente aiutarci a cavarcela in una


situazione di difesa personale?

La risposta può essere lunga quattordici pagine oppure risolversi con una frase.
Personalmente preferisco il secondo approccio: dipende dalla persona. Anche le Arti Marziali
sono soggette a mutamenti di pensiero, di diversi approcci ad essa a seconda della
generazione di Maestri che le tramanda, da piccole/grandi rivoluzioni di concepirle, insomma,
sono soggette alla "moda". Negli anni ’70 si pensava che chi frequentasse un corso di arti
marziali (che se era in Italia era inevitabilmente il Judo) fosse una specie di supereroe
invulnerabile e un po’ pazzo. Negli anni ottanta si sono diffuse altre discipline giapponesi
comprendendo fasce di popolazione più eterogenee e anche le donne; negli anni ’90 c’è
stato il boom delle Arti Marziali provenienti da tutti i paesi, l’importante che non fossero le
"rigide e troppo schematiche giapponesi". In questo evolversi del "mercato" delle Arti Marziali
cosa è cambiato nel concepire la difesa personale? Faccio molta fatica a credere a qualsiasi
persona che mi dice d’aver iniziato a praticare un’arte marziale per "tenersi in forma, per
scoprire me stesso, per aumentare la mia disciplina…". Se non si sta parlando del Tai Chi
Chuan, chi inizia ad avvicinarsi ad una palestra per chiedere quanto costa un corso di Karate
è perché vuole imparare a difendersi (che è diverso dal voler imparare a menar le mani, sia
chiaro). Bene, quindi la difesa personale sembra essere la molla che fa scattare l’interessa di
un individuo verso le Arti Marziali. Se durante la pratica di essa, se non smette dopo i classici
tre mesi, l’individuo capisce che sta imparando qualcosa di più che cercare di parare dei
pugni urlando o tirando calci a scatti, cioè la famosa Disciplina, la Consapevolezza del Sé e
la famosa forma fisica ideale, tanto meglio. Torniamo al discorso della difesa personale. I
pionieri delle Arti Marziali in Italia si sentivano invincibili. Stavano imparando "la scienza del
fare a botte" importando tecniche quasi "aliene" elaborate in un lontano passato burrascoso
di una nazione che si trova dall’altra parte del mondo… E in effetti qualche risultato lo hanno
ottenuto nei primi anni ’60, quando erano giovani e pieni di testosterone gli attuali 4° 5° Dan
di Judo, Ju Jitsu e Karate che ora guidano il settore tecnico e la tradizione delle rispettive
discipline. Ogni occasione era buona per "testare sul campo" le tecniche appena apprese.
Negli anni ’70 si diffondono sempre di più le Arti Marziali giapponesi in Italia e la dominano
per vent’anni circa, creando a ruota libero stuole di cinture nere/istruttori che apriranno
svariate palestre in tutte le città. Nominatemi un aggregato urbano degno di questo nome,
abitato da essere umani, che non abbia la sua palestrina dove si faccia il suo bravo corso di
Karate/Judo/Aikido. In questo periodo d’oro la parola d’ordine era: pratica seriamente un’Arte
Marziale e avrai la grande responsabilità di essere in grado di uccidere una persona a mani
nude. Questo sentimento traspare bene da una pubblicità che visto riportata su di un noto
settimanale di attualità del 1978, dove un’intera pagina era dedicata al "Ju Jitsu, l’Arte
Mortale dei Samurai. Impara anche tu a diventare invulnerabile. Fatti Rispettare…" e altre
amenità al testosterone del genere. Era la pubblicità di un libro sul Ju Jitsu. Come? Io ho
fatto Ju Jitsu? Certo! Ma ero troppo piccolo nel 1978 per aver letto quella pubblicità… J

Negli anni ottanta i Maestri tendono ad orientare gli allievi (che entrano nel Dojo perché
interessati ad imparare a difendersi, ripeto) al rispetto della Tradizione, al voler proporre
come cose applicabili totalmente nella realtà i Kata codificati tempo prima, ma con qualche
variazione per rispondere alle esigenze pressanti di difesa personale. Ecco che in questo
periodo nascono i "puramente applicabili in palestra" kata di difesa da coltello e pistola,
adattandoli da kata originariamente pensati per contrastare attacchi di pugno… C’è ancora
qualcuno che tiene i suoi corsi di "difesa personale" basandosi su queste aberrazioni
marziali, tecnicamente bellissime, operativamente da suicidio. Dopo dieci anni ecco alla
ribalta in Italia le Arti Marziali del Sud-Est Asiatico, e sono un vero e proprio vento di
rivoluzione di pensiero. Interi gruppi di praticanti di Arti Marziali giapponesi che letteralmente
volano ad integrare i propri insegnamenti con queste tecniche da "pirati filippini". Io sono uno
di questi. Ma la rivoluzione è ancora più straordinaria: ci sono dei Maestri/istruttori (alcuni
liofilizzati, in quanto creati in meno di tre mesi d’istruzione, alla faccia dei 5 anni per la cintura
nera 1°Dan delle discipline giapponesi J ) che affermano "che quello che state imparando
potrebbe non funzionare nella realtà, può solo aiutarvi… Insomma potete diventare istruttori
di Kali (in tre mesi, ovvio), ma lo stesso essere pestati in discoteca". Siamo passati in
vent’anni dal concetto di invulnerabilità totale al fatto che forse, nonostante l’impegno (e i
soldi) che investiamo nel nostro corso di combattimento a corta distanza con bastone lungo,
bastone corto, doppio bastone, coltello, coltello e bastone, kubotan, kerambit (che tanto
dobbiamo girare sempre disarmati)… Possiamo non saltarci fuori in una colluttazione contro
il primo fesso che non ha MAI varcato la soglia di una scuola di Arti Marziali. Verità o trucco
del mercato ("ti avevo avvertito che potevi non farcela, mio discepolo, ora smetti piangere e
vai a farti ingessare…")? Verità, usata spesso però come "saggezza da dare all’allievo".
Anzi, altri Maestri si spingono ancora più in là! Affermano anche che "La difesa Personale
non si può insegnare davvero…". Mi chiedo cosa avrebbe detto a commento di questa frase
l’autore del libro di Ju Jitsu del 1978. Poi le cose sono cambiate anche nel periodo di tempo
necessario ad imparare a difendersi. Allora, tempo fa (i mitici anni ‘70-’80) l’allievo prima di
prendere la sua agognata cintura nera impiegava anni. Ora l’equivalente grado nelle
discipline del Sud-Est Asiatico si ottiene in qualche lezione di poche ore ogni tot. mesi. Okay,
è vero che gli stage di adesso sono meno "annacquati" e dovrebbero far vedere solo le cose
che interessano, ma è pur sempre una bella differenza dal richiedere all’aspirante allievo di
essere martellato per tot. volte alla settimana, invece che ogni tanto nel corso di un anno.
Anche perché se il soggetto in questione è un po’ "dispersivo" (e di questi tizi il mondo
pullula), col cavolo che si allena tot. volte alla settimana per mantenere vivi gli insegnamenti
tra uno stage e l’altro, giusto? Nessun problema, spesso se paga tutta la retta puntualmente
alla fine dello stage ha sempre il suo pezzettino di carta. Poi, prima discoteca, prima
colluttazione e primo sangue dal naso. E prima delusione. E il sistema del Sud-est asiatico
non va più bene: è inefficace. Ho estremizzato un po’ la cosa per far capire bene il discorso,
ma non sono poi così tanto lontano dalla verità… J

Le Arti Marziali, fondamentalmente cosa fanno? Educano il nostro corpo a dei movimenti e ci
danno delle strategie di comportamento, giusto? Se non siamo abituati a pensare in termini
di riflessi, assorbimento dei colpi, contrattacco a bersagli paganti, uso proficuo di oggetti
contundenti e determinazione nel farlo, è chiaro che siamo candidati per il Pronto Soccorso
in caso di colluttazione. Ma prendiamo un bel ragazzone ben piantato, mettiamoci un bel po’
d’orgoglio in testa e un pizzico anti-inibizione quando è il caso di frantumare la testa a uno
solo perché gli ha guardato male la ragazza. SE uno è determinato può affrontare la cintura
nera di qualsiasi disciplina e massacrarla se, quest’ultima nella sua palestra, ha perso più
tempo a pensare alla disciplina interiore e non a coltivare della sana aggressività. Chiusa lì.
Parlando con un autorevole Maestro di Arti Marziali con 25 anni di esperienza e botte sul
serio per strada (che fortuna!) alla domanda "Chi è la persona che hai incontrato nella tua
vita che definiresti <<guerriero>>?" lui risponde senza esitazione "Il marito di mia sorella, che
non ha mai fatto un corso di arti marziali, ma è cattivo come una bestia". Allora, adesso, il
buon Maestro di Arti Marziali ai nuovi allievi dice che è tutto una questione di "grinta". Magari
tra dieci anni, quando si farà di nuovo il giro di boa, si dirà di nuovo che basta solo iscriversi
ad un corso di Arti Marziali giapponesi per essere imbattibili. E magari si tornerà ad
insegnare a parare le coltellate al ventre incrociando i polsi, oppure a disarmare aggressori
armati di pistola automatica stringendo bene il gruppo canna/carrello facendo una bella leva
al polso… Perché? Perché diranno: "Quelle tecniche filippine che insegnavano tot anni fa
erano poco realistiche, infatti chi le applicava sul serio prendeva sempre delle botte…".
Allora, sempre colpa della tecnica della tal Arte MArziale… O di chi le applica? J

I colori della consapevolezza

Quello di cui sto per parlare è il famoso Uovo di Colombo cotto nella ancora più famosa
acqua calda appena scoperta. Si tratta di concetti elementari, alla portata di tutti, e
decisamente stupidi a pensarci sopra. Ma siamo sempre lì, finché tutte le cose sono ovvie,
dopo che ci si è arrivati…

L’argomento di questa sezione è la base della Difesa Personale: la consapevolezza della


situazione. Se non badiamo a ciò che ci sta attorno molto probabilmente verremo sempre
presi di sorpresa da eventi improvvisi e violenti quali aggressioni, oppure non siamo in grado
di percepire per tempo i segnali, i dettagli, premonitori di una situazione che può degenerare
in un’aggressione, tutto questo senza diventare dei paranoici che girano con gli occhi sbarrati
per strada.

Il solito ex-colonello dei Marines degli Stati Uniti dopo che è andato in pensione, ha deciso di
mettere a frutto le sue esperienze di soldato sul campo al mercato civile. Tale militare è il
Col. Jeff Cooper che ha aperto anni fa una scuola per poliziotti e cittadini sulle moderne
tecniche di sopravvivenza urbana. La scuola è la famosa "Gunsite"dell’Arizona e i corsi
vengono definiti come "Tecniche di controllo delle crisi interpersonali a distanza ravvicinata".
Un eufemismo per dire che insegna ad usare la pistola (tanto per intenderci è il tizio che ha
passato una vita a domandarsi se quando un tizio armato di pistola va nei gabinetti pubblici
deve tenersi la pistola attaccata al cinturone oppure tenerla in mano...). Questo Col. Jeff
Cooper afferma che non esiste una vera mentalità da difesa personale se non abbiamo "la
consapevolezza della situazione". Per sapere reagire da minacce esterne dobbiamo essere
svegli e dobbiamo imparare ad esserlo. Il metodo insegnato è diviso in quattro colori, che
rappresentano quattro stadi di allerta mentale.

Condizione Bianca:

Rilassati. Ignoriamo totalmente ciò che ci circonda. Se siamo per strada a piedi e urtiamo
qualcuno per sbaglio perché pensavamo ad altro siamo in Condizione Bianca. Se siamo in
auto e facciamo il classico incidente all’incrocio perché "soprappensiero" abbiamo varcato
l’incrocio senza dare la precedenza, siamo in Condizione Bianca. Se ci aggrediscono "dal
nulla" siamo in Condizione Bianca. Molta gente muore nella Condizione Bianca. Basta
pensare agli incidenti stradali. Quanta gente vediamo che è al volante ma ha la testa chissà
immersa in quali pensieri, ben lontani dal concentrarsi dalla guida. Condizione Bianca.

Condizione Gialla:

Rilassati, ma consapevoli di dove siamo e cosa stiamo facendo. Se siamo in auto prestiamo
attenzione a cosa fa l’auto davanti a noi e quella dietro, agli incroci prima di partire
controlliamo sempre a destra e sinistra prima di attraversarlo, al parcheggio controlliamo
brevemente chi c’è intorno a noi prima di salire in auto. A piedi riusciamo a districarci tra la
folla senza investire nessuno. Questa dovrebbe essere la perenne condizione in cui
dovremmo essere quando siamo in luoghi affollati. Non è affatto paranoia, semplicemente
prestiamo limitatamente attenzione a ciò che accade intorno a noi a breve distanza.

Condizione Arancione:

Allarme specifico. L’auto di fronte a te ha inchiodato: o freni immediatamente o sterzi. Quella


dietro si avvicina troppo velocemente. Un tizio sconosciuto ci sta seguendo fin dove abbiamo
parcheggiato l’auto. Tra la folla notate una persona sconosciuta che sta dirigendosi
energicamente verso di noi, oppure una discussione sta degenerando in un alterco vero e
proprio. Questa condizione è quella che ci prepara ad amministrare situazioni di pericolo
vero e proprio. In questa situazione stiamo valutando attivamente le opzioni di fuga.

Condizione Rossa:

Attacco in corso. Scappa o combatti. L’auto di fronte a noi non ha solo inchiodato, ha messo
pure la retromarcia! Il tizio che ci ha seguito fino al parcheggio estrae un coltello e ci vuole
derubare, il tizio della folla è un ubriaco che ci ha scelto come bersaglio preferenziale per
smaltire il suo alcol, il tizio dell’alterco ci ha spintonato.

E’ praticamente impossibile passare dalla Condizione Bianca a quella Rossa


istantaneamente, ma è invece facile passare dalla Gialla alla Rossa senza troppi ritardi.
Questa guida cromatica all’atteggiamento mentale è talmente generale e flessibile che si può
applicare a qualsiasi attività quotidiana. Se siamo ben consapevoli di ciò che accade intorno
a noi riduciamo drasticamente le possibilità di essere colti di sorpresa, e si sa, la sorpresa è
fondamentale per la riuscita di qualsiasi tipo di aggressione.

Durante le varie sezioni di questo sito si farà spesso riferimento a questa scala di colori.

SCREENING

Con il termine Screening s’intende l’insieme di strategie volte allo studio istantaneo del profilo
psicologico di un aggressore per poter valutare nel minor tempo possibile il grado di
pericolosità della situazione e le tecniche d’adottare più efficaci per neutralizzarla. Gran parte
della strategia suggerita dalle tecniche di screening sono date dall’esperienza e dalla
raccolta e l’analisi statistica delle varie tipologie d’aggressione. Questa branca della scienza
applicata alla psicologia suddivide le aggressioni in varie categorie:

Aggressione da parte di malviventi abituali


Aggressione da parte di teppisti
Aggressione conseguenti a liti
Aggressione da parte di soggetti in stato alterazione mentale

In una situazione di diverbio che può portare ad una reazione violenta, la differenza
principale tra una persona esperta di autodifesa professionale (non di combattimento, sono
due cose diverse) e una persona "normale", è che quest’ultima cederà immediatamente alla
violenza in maniera istintiva, o quasi. Il professionista valuta la violenza come prima opzione,
ma la tiene come ultima scelta. Se si esaminano la maggior parte delle liti che si scatenano
fra due persone è facile suddividere gli eventi in corso in varie fasi:

Innesco
Escalation
Conclusione

L’innesco è la fase in cui il diverbio muta in una situazione che non permette ai due individui
di interrompere l’evento in corso. Segue immediatamente l’escalation, più che altro una
questione di conflitti di Ego tra i contendenti. In questa fase il professionista e/o la persona
saggia riesce verbalmente a sedare la situazione e a bloccare lo sbocco alla violenza, che è
una conclusione più che auspicabile, sempre. Altrimenti l’altra conclusione è ovviamente
l’uso della violenza. Chi scatta per primo dei due individui è colui che sente l’impulso di
dimostrare che "ha ragione". Deve dimostrare al proprio ego ed a eventuali persone che
assistono al litigio che deve "vincere". Di solito il non-professionista cede all’opzione della
violenza per uno o più dei seguenti motivi:

Non ha valutato le conseguenze che la reazione violenta può portare (fisiche e/o morali)
E’ certo che non si ferirà nello scontro
E’ convinto che è il modo migliore per impartire una "lezione" a qualcuno
E’ in preda agli effetti di sostanze stupefacenti e/o alterazioni psichiche

In compenso il professionista deve sapere riconoscere sempre per tempo i segnali


premonitori di uno scontro e una volta coinvolto deve reagire nella maniera più rapida e
definitiva possibile; non tanto per applicare la logica del "vincere" e "dimostrare" qualcosa a
qualcuno, ma per limitare al massimo i danni dello scontro. In generale lo screening ci
suggerisce che quando siamo in piena escalation l’individuo non professionista prima di
scattare all’attacco aumenta il ritmo respiratorio e ha un brivido, un tremito, più o meno
ampio su tutto il corpo, oppure limitato a degli arti.

A questa categoria di segnali appartengono le persone che non abituati alla violenza, ma
stanno sfogando una grande collera. Telegrafando in maniera così vistosa le loro intenzioni,
sono gli individui relativamente più semplici da gestire. Una situazione un po’ più ostica la
possono creare coloro che sono abituati all’opzione violenza, anche se non sono dei
combattenti professionisti, in quanto hanno imparato il concetto di non "trasmettere" le
proprie intenzioni, ma piuttosto, prima di attaccare, tendono ad appiattire le loro emozioni. In
ogni caso la reazione chimica della adrenalina nel corpo di chi ha deciso di attaccare è
spesso evidente: aumento del respiro, cambiamento di colore repentino del viso, e il già
citato tremore corporeo. L’esperto sarà in grado di mascherare in maniera efficace uno o più
di questi segnali in modo da sfruttare al massimo la sorpresa.

La reazione di massima efficacia si ha quando, avendo interpretato correttamente il


linguaggio del corpo, si riesce ad eseguire una tecnica di anticipo. Il concetto è espresso
nelle arti marziali giapponesi con il termine sen-no-sen. Per anticipo si intende una tecnica
mirata a bloccare un arto che si carica per sferrare un attacco. Essendo in fase di
caricamento il colpo non ha ancora espresso la massima forza, quindi le possibilità di
immobilizzazione e di reazione sono molto alte.

Un altro dettaglio da esaminare in questa fase è il fatto che il non-professionista, nel suo
attacco (per quanto pericoloso che sia), sicuramente dimentica di proteggere alcune parti del
suo corpo. Il corpo umano si può suddividere in quattro settori (alto dx, alto sx, basso dx,
basso sx). Avendo solo due braccia possiamo coprire solo due settori alla volta. L’inesperto
non si preoccuperà di coprirne nemmeno una in maniera efficace. Ecco che quando scatta
l’attacco, probabilmente si è in grado, se non si riesce ad anticiparlo, almeno ad evitarlo e ad
eseguire una tecnica percuotente su un settore scoperto.

Queste che seguono sono situazioni di base che hanno origini e moventi diversi e che di
conseguenza determinano strategie di reazione differenziate.

Aggressioni da parte di malviventi abituali

Potenzialmente sono le aggressioni più pericolose e che potrebbero necessitare la reazione


più decisa. L’individuo in questione fa uso di tre componenti fondamentali per portare a
termine il suo scopo: sorpresa, decisione, abilità.

Bisogna sempre considerare la peggiore delle ipotesi tattiche nel caso che si abbia a che
fare con aggressori armati (ad es. di coltello), ovvero che siano degli esperti, e che sono
abituati a questo tipo di azioni. Valutare sempre se le richieste del malvivente (ad es. una
rapina) siano tali da giustificare una reazione. Per esempio non è il caso di rischiare delle
lesioni permanenti per pochi contanti. Il più delle volte, in caso di rapina, l’aggressore non
cerca e rifiuta lo scontro fisico, anche se bisogna sempre pensare che sia in grado di
sostenerlo. Nel caso che l’aggressione sia rivolta ad intaccare la nostra incolumità (ad es.
uno stupro) bisogna solo aspettare il momento giusto per la reazione più decisa e definitiva
possibile. Darsi sempre alla fuga dopo uno scontro con un malvivente per cercare aiuto.
Aggressione da parte di teppisti

E’ il caso di due o più individui che attaccano una persona per motivi futili, più che altro per
dimostrare qualcosa. Minaccia di alta pericolosità. Un approccio verbale potrebbe essere
tentato, con le stesse regole applicate alla potenziale lite con sconosciuti, ma appena si
valuta che questo non ha effetto allontanarsi immediatamente e/o attirare l’attenzione per
aiuto. In caso di mancanza di opzioni reagire con lo scopo di ferire in maniera permanente, in
quanto se il gruppo è numeroso, non ci si può permettere di perdere tempo per controllare un
assalitore quando gli altri attaccano.

Aggressione conseguente a liti

Si dividono in due categorie: liti tra conoscenti e tra sconosciuti.

Il primo caso difficilmente si presenta. Di solito tra conoscenti (familiari ed amici) le


discussioni si possono sedare dimostrando di scendere a compromessi e a dimostrare la
propria volontà a non voler far degenerare la situazione. E’ semplicemente una questione di
scendere a patti con il proprio orgoglio.

Nel caso di diverbi con sconosciuti la situazione è di maggiore pericolosità. In questo caso, di
solito, ci troviamo di fronte ad aggressioni di tipo psichico. Se l’aggredito si sente si sente
colpito ed offeso potrebbe reagire non con coerenza. Rispondere a tono, con urla ed offese
fa perdere la calma e lo fa passare immediatamente dalla parte del torto, il che giustifica
l’eventuale reazione violenta dell’aggressore. Quindi mai cedere a questi comportamenti
perché:

a. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare


b. Non sappiamo a priori le reali intenzioni dell’interlocutore nei nostri confronti

L’unica via è un dialogo che dimostri la nostra determinazione, ma non la nostra volontà di
ricorrere alla violenza. In questi casi non bisogna alzare la voce e non accelerare il ritmo
delle parole, entrambi sintomi di debolezza che potrebbero essere sfruttati dallo sconosciuto
per innescare una colluttazione. Più passa il tempo e più le possibilità d’innesco dello scontro
diminuiscono, se la questione in gioco è irrilevante. Ricordare che in questi casi violenza
richiama solo violenza. Occorre possedere una precisa autocoscienza di sé stessi e dei
propri diritti e del concetto del rispetto di sé stessi e del prossimo.

Aggressione da parte di soggetti in stato di alterazione mentale

Situazione di estrema pericolosità. L’individuo soggetto all’influenza di sostanze stupefacenti


e/o alcool è da considerare estremamente violento e non risponde alle tecniche di dialogo
che sono state illustrate precedentemente. Inoltre la sua percezione del dolore è distorta
dalle sostanze che ha assunto, quindi normali tecniche di autodifesa rivolte al solo controllo
dell’avversario potrebbero non essere efficaci. L’unica cosa che potrebbe andare a vantaggio
di chi si difende è la possibile mancanza di coordinazione e di equilibrio dell’aggressore, se
ha molto abusato di certe sostanze. Nel caso di persone psicolabili, e quindi con il pieno
possesso delle proprie capacità motorie, bisogna sempre valutare la fuga, oppure in
mancanza di altre opzioni di una difesa con tutti i mezzi possibili.

Sostanze stupefacenti ed alcool

Al giorno d’oggi, la reperibilità e la società rendono l’uso di sostanze stupefacenti molto più
semplice di anni addietro. Per questo motivo, la possibilità di doversi difendere da un
aggressore sotto l’uso di sostanze stupefacenti, è aumentata a tal punto da dover essere
presa in considerazione come nozione di difesa personale. Gli stupefacenti sono sostanze di
natura sintetica o naturale in grado di alterare una o più funzioni dell’organismo umano. Gli
stupefacenti possono dare o meno dipendenza fisica, questo fatto è molto importante in
quanto una sindrome da astinenza provoca sintomi inversi rispetto agli effetti che induce la
droga usata. Questo ci permette di sfruttare la nostra conoscenza per ritorcere la suddetta
crisi contro l’aggressore stesso.
Ecco le principali classi di stupefacenti suddivise per azione.

Psico-depressive Alcool etilico


Sedativi (sonniferi e barbiturici
(danno dipendenza maggiori e minori)
fisica e psichica) Oppiacei(morfina, eroina,
codeina)
Narcotici sintetici(metadone,
talwin, ecc)
Psico-stimolanti Anfetamine
(danno solo Cocaina
dipendenza
psichica)
Psico-alteranti LSD
Mescalina
o Dislettici Psilocibina
Derivati dalla canapa
o Allucinogeni indiana (marijuana o
hashish)
(danno
dipendenza
psichica)

Possiamo ora esaminare i vari tipi di Sostanze Stupefacenti per conoscerne gli effetti psichici
e caratteristiche fondamentali.
Morfina: provoca sul sistema nervoso centrale, effetti di analgesia, torpore mentale,
ottundimento delle sensazioni dolorose, depressione del riflesso della tosse , depressione
dei centri respiratori, vomito, vasodilatazione periferica da liberazione d’istamina. Gli effetti
psichici sono invece, benessere diffuso, senso di tranquillità ed euforia , vivace flusso delle
idee, stato di torpore e di sonnolenza. Se assunta in vena provoca un accentuato effetto
flash con perdita di realtà.
Eroina: dopo l’assunzione, che avviene per via endovenosa, intramuscolare o inalatoria, ha
un effetto che perdura per 4-6 ore. La sua potenza analgesica è tripla della morfina, provoca
quindi stati di euforia, ideazione fluida, la realtà esterna è vissuta con distacco emotivo e
attenuazione delle sensazioni dolorose.
E’ quindi da tenere in forte considerazione per quanto riguarda la metodologia di
comportamento e di difesa, in quanto una semplice percussione dolorosa non potrebbe dare
nessun effetto. Sarà quindi il caso di orientarsi su un comportamento inabilitante alle
articolazioni o una percussione tale da provocare una perdita di coscienza.
Cocaina: via d’assunzione nasale o endovenosa. Ha una potente azione stimolante su tutte
le strutture cerebro-spinali. A livelli psichico provoca euforia, aumento dell’attività mentale
stato di benessere e diminuzione della sensazione di fatica. A dosaggi superiori insorgono
anche tremori, convulsioni, stimolazione del centro respiratorio, del centro termoregolatore, e
del centro ematico, in alcuni casi anche di allucinazioni. I soggetti in questione saranno
quindi riconoscibili per sbalzi di colorito al viso, fiatone e mancanza di equilibrio.
Anfetamine: assunzione per via orale o endovenosa. Provocano aumenti di vigilanza,
aumento del morale, riduzione della sensazione di fatica, aumento della capacità di
concentrazione e sopportazione di sforzi fisici e mentali prolungati. Per un uso prolungato
compaiono cefalee, idee deliranti, allucinazioni, tremori e ansia.
Mariujana e hashish: gli effetti compaiono dopo pochi minuti dall’inalazione dopo una
mezz’ora dall’assunzione per via orale. Consistono in senso di benessere fisico,
rilassamento, euforia, stato sognante, alterazione del tempo e dello spazio, ideazioni
accelerate ed incoerenti, flusso incontrollato di pensieri. Per dosaggi elevati, la fantasia e la
realtà si fondono con un’accentuazione dei colori, allucinazioni visive, acustiche, alterazione
dello schema corporeo, stati d’angoscia.
LSD: dopo pochi minuti dall’assunzione determina: tachicardia, salivazione, alterazioni della
sfera emotiva, stati euforici, allucinazioni, alterazioni corporee come senso di allungamento
degli arti, senso di leggerezza o pesantezza del corpo. Lo stato di introspezione indotto
dall’uso può far arrivare al suicidio facendo emergere problemi dell’inconscio che appaiono al
soggetto di estrema gravità.
Alcool: La sostanza che provoca alterazioni psichiche/motorie più comune è l’alcool. Dì per
sé stesso l’alcool è categorizzato come un depressore del sistema nervoso centrale. Questo
significa che i suoi effetti sono presenti a livello sia fisico che comportamentale. L’assunzione
di alcool provoca sempre un’intossicazione all’organismo, la gravità di questa è determinata
dalla concentrazione sanguigna che questo raggiunge. Il livello di tollerabilità dell’alcool
dipende dal sesso e dalla massa corporea dell’individuo. Sono stati definite quattro fasi
d’intossicazione da alcool:

Alterazione avvertibile del comportamento

Appena l’alcool inizia ad interessare la fisiologia dell’organismo di una persona a livello


chimico, questa potrebbe iniziare a perdere le proprie inibizioni. C’è chi reagisce
diversamente alle intossicazioni leggere da alcool. Manifestazioni incontrollabili di emozioni,
improvvisi cambi d’umore, propensione ad aperture con estranei, comportamento
meditabondo, disinteresse, comportamento anti-sociale, comportamento chiassoso,
comportamento irritante, immaturità, scadimento del linguaggio, desiderio di attirare
l’attenzione.

Comportamento temporaneo dissociato


Come la concentrazione specifica d’alcool cresce nel sangue dell’individuo, più il suo
pensiero razionale diminuisce. Chi è bevitore abituale solo in questa fase presenta i sintomi
illustrati nella fase precedente. Inoltre si aggiungono i seguenti sintomi: diminuzione
dell’allerta, incapacità di fare semplici comparazione tra situazioni, oggetti ecc…ecc…,
aumento del desiderio di continuare a bere, perdita memoria a breve termine, ripetizione di
concetti appena espressi, affermazioni incoerenti, aggressività, predisposizione alla violenza,
comportamento di sfida verbale.

Perdita parziale delle normali funzioni cerebrali

L’alcool induce un’alterazione del peso specifico del liquido contenuto nell’orecchio medio.
Questo liquido viene utilizzato dal corpo per determinare in che posizione si trova nelle tre
dimensioni. La sua alterazione porta al cervello informazioni sbagliate sulla posizione della
testa, gambe, busto ecc… Questa situazione porta alla perdita totale/parziale dell’equilibrio
nell’individuo, nonché al manifestarsi di vertigini più o meno violente.

Perdita totale di coordinazione e di controllo muscolare

In questa fase l’alcool inizia ad influenzare in maniera pesante il sistema nervoso centrale e
questo punto anche semplici movimenti di coordinazione risultano difficili. Difficoltà ad
articolare parole, impossibilità di camminare. Questa è la fase precedente al coma etilico.

E’ da notare che gli effetti dell’alcool si intensificano fino al 25% nell’ora successiva all’ultimo
bicchiere bevuto. Quindi una persona può essere nella "fase due" di intossicazione da alcool
e smettere di bere ed entro un’ora finire perfettamente nella fase successiva. La fase più
pericolosa, a livello di aggressione, è la seconda, dove l’individuo ha ancora relativamente il
controllo dal proprio corpo, ma sta perdendo gradualmente le proprie inibizioni. Qui il rischio
di violenza è piuttosto alto, specialmente quando il soggetto fa uso di alcool intenzionalmente
per liberare la propria carica aggressiva.

I quattro tipi di violenza

Tutti i vari comportamenti violenti che portano ad uno scontro fisico sono stati raccolti in
quattro categorie:

Paura

Violenza sprigionata dalla persona che si sente minacciata da una situazione, da un gruppo
di persone e/o singolo. E’ di solito una reazione a degli stimoli neurochimici che mandano la
persona in panico e cerca con la violenza di togliersi dalla minaccia. Persone in questo stato
reagiranno sempre e comunque con la massima violenza. Come affrontare la situazione:
La tecnica per maneggiare questa situazione è di mimare il panico della persona in oggetto,
convincendola che noi siamo esattamente spaventati come essa, quindi non siamo una
minaccia. E’ controproducente atteggiarsi in maniera autoritaria, bisogna semplicemente
mettersi allo stesso livello emotivo della persona in panico e calmarla.

Delirio
Violenza di chi non percepisce limiti di alcuna natura (fisica, morale, sociale…). In questa
sezione rientrano chi è sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e/o alcool. Come affrontare la
situazione: La maniera di affrontare questo caso è di dare alla persona degli stimoli che by-
passano il loro processo interno di auto-esaltazione. Per riportarlo alla realtà bisogna far
focalizzare la sua attenzione su qualsiasi cosa che non sia lui stesso. Voce convinta ed
autoritaria e impossibilità di dare opzioni di scelta al soggetto. Spesso basta un approccio
verbale per fare desistere i propositi violenti persone ubriache, magari assecondandole il più
possibile nei loro ragionamenti.

Capriccio irragionevole

Violenza basata su comportamento irragionevole auto-alimentante (possibile sindrome


psicotica di rabbia cronica da manifestare all’esterno). Come affrontare la situazione: Il
soggetto in questo caso intenzionalmente vuole provocare la violenza per sfogarsi di
qualcosa. E’ la situazione più difficile da maneggiare. Bisogna affrontare la situazione con
due azioni contemporanee: togliere "l’innesco emotivo" alla persona (per esempio non dando
importanza alle sue richieste) e fargli capire che il suo comportamento/richieste non verranno
più tollerate e soddisfatte. Spesso queste persone sembrano a tutti i costi di cercare lo
scontro (più che altro verbale), ma difficilmente accettano il rischio dello scontro fisico vero e
proprio.

Criminale

Violenza usata a livello coercitivo per ottenere qualcosa da qualcuno (soldi, potere…). Come
affrontare la situazione: La risposta può essere incredibilmente semplice. Il criminale vuole
qualcosa da noi, di tutto, tranne che una sfida con una persona pronta a combattere per
difendersi. Uno scontro fisico, se fatto in pubblico attira troppa attenzione. Il soggetto
criminale si basa sul binomio <<Predatore/Preda>>, e per lui è territorio sconosciuto quando
ci sono possibilità che la situazione venga stravolta. Dobbiamo dimostrare, a seconda delle
circostanze naturalmente (siamo disarmati contro una persona armata? Siamo di fronte ad
un professionista?), di trasmettere all’aggressore il seguente messaggio: <<Se tu mi attacchi,
io dovrò reagire e farti male>>.

Noi e la Legge

"Reprimere un momento di rabbia può salvarci da cento giorni di dolore..." Proverbio Cinese

Non si può parlare di autodifesa e di arti marziali il cui scopo è la totale efficacia in caso di
scontro, senza analizzare in maniera approfondita cosa la Legge Italiana dice in proposito.
Partiamo col dire che accettare uno scontro fisico -voluto o meno- con un'altra persona è
sempre un grosso problema. Prima di tutto è un'incognita: se ci troviamo di fronte un
"guerriero" spietato siamo fortunati se non ci rimettiamo qualche osso, se invece siamo noi
ad "esagerare" ecco che non è difficile che ci troviamo ad affrontare diversi "grattacapi" -per
usare un eufemismo- legali. Partiamo dal presupposto che per la legge abbiamo sempre
torto. Non esistono attenuanti in caso di rissa, ma solo aggravanti. Non importa chi ha
iniziato la disputa, chi partecipa, anche se per difendersi ha torto. La legge concede
pochissime situazioni ideali in cui chiunque cagiona qualsiasi lesione ad un'altra persona,
anche se per difesa personale, non è punibile, ed il più delle volte questa persona non
punibile è un pubblico ufficiale in servizio.
Esiste molta confusione tra la gente, ci sono vere e proprie leggende metropolitane in merito
all'interpretazione del Codice Penale in caso di risse, lesioni personali, autodifesa. Il più delle
volte si è portati a pensare che chi "attacca" per primo ha torto e si prenderà tutte le
conseguenze legali della rissa, oppure che i coltelli con lama sotto le famosissime "quattro
dita" sono legali e trasportabili liberamente. E' per questo che ho deciso di affrontare questo
argomento, apparentemente secondario.

Il concetto di "Difesa Legittima"

Articolo 52 del Codice Penale Italiano:

"Difesa Legittima: Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa
ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa."

Per necessità di difendere s'intende la reazione necessaria per difendere un diritto


minacciato. In sede di giudizio verranno valutate tutte le cause della minaccia e della
inevitabilità della reazione e della non esistenza di altre strade se non quella di reagire. In
pratica in caso di processo si tenterà di capire se chi ha reagito poteva fare altre cose, tipo
scappare dalla minaccia stessa.

Il diritto in questione può essere interpretato come la propria vita, incolumità, proprietà
personale, nonché diritti morali come l'onore e la riservatezza (anche se questi due ultimi
hanno perso molta importanza come attenuanti presso i giudici).

Per pericolo attuale s'intende l'unione di più concetti contemporaneamente: pericolo, ovvero
la probabilità di ricevere un danno; attuale è il pericolo presente o incombente al momento
del fatto, non futuro o già esaurito.

L'offesa ingiusta può essere una minaccia o una omissione. L'ingiustizia si verifica quando
un'azione è contro l'ordinamento giuridico vigente.

Fatte queste precisazione passiamo ad un esempio pratico. Siete stati aggrediti per strada
per un qualsiasi motivo, avete reagito e avete fatto fuori un braccio al vostro aggressore che,
dopo essere stato medicato all'ospedale vi ha denunciato per lesioni personali. A questo
segue un processo e voi in fase di giudizio citate l'Articolo 52. Avete reagito ad un pericolo
attuale e reale in maniera proporzionata; insomma avete agito in caso di Difesa Legittima. La
prima cosa che il Pubblico Ministero farà, sarà quella di esaminare se avevate o meno la
possibilità di evitare la reazione dandovi alla fuga. Per la dottrina prevalente il dilemma va
risolto applicando il concetto del "bilanciamento degli interessi", per cui il soggetto non è
tenuto a fuggire in tutti quei casi la fuga esporrebbe i suoi beni personali (tra cui la vita,
chiaramente) o di terzi (fuggire in auto con il rischio di investire qualcuno) a lesioni uguali o
superiori alla lesione che provocherebbe all' aggressore difendendosi. La giurisprudenza in
merito è oscillante. Per quanto riguarda la proporzionalità della difesa il giudizio non va
formulato non solo valutando il rapporto tra mezzi offensivi e difensivi messi in atto durante lo
scontro, ma anche riguardo alla proporzione tra il male minacciato e male inflitto. La
proporzionalità giuridica occorre quando l'aggredito provoca un male all'aggressore minore o
tollerabilmente superiore a quello subito; quindi tornando al nostro caso citato non è
giuridicamente accettabile spaccare un'articolazione a chi si limitava, chessò, a prenderci a
schiaffi. Inoltre, non è assolutamente tollerato uccidere con un bastone chi si limitava solo a
percuoterci (si, vallo a spiegare al giudice...). Inoltre non è ammesso uccidere chi tenta di
sottrarci un bene patrimoniale, mentre è accettabile infliggere una lieve ferita (ma non certo
una rottura ossea) a chi attenta ad un nostro bene patrimoniale di elevatissima entità.

Tutto questo per dire:

Non si può uccidere chi tenta di rubarci qualcosa, ma si può reagire duramente solo
con chi minaccia volutamente la nostra vita o del prossimo.
Si può reagire solo quando non si hanno ragionevoli possibilità di fuga, oppure, la fuga
sarebbe peggio della danno per noi o per chi ci sta attorno.
Si può reagire con oggetti contundenti solo chi ci attacca con armi simili.

Inoltre si può aggiungere che si finisce in Tribunale nei seguenti casi:

Se le ferite da noi cagionate all'aggressore vengono giudicate guaribili dall'ospedale


che presta soccorso in più di sette giorni (per certi medici un trauma da schiaffo si
riassorbe in otto giorni(!!!) )
Se siamo denunciati, ovvio.

E' applicabile la stesso Articolo anche quando interveniamo per difendere i beni di terzi
aggrediti, come la vita ad esempio.

Il concetto di "Stato di Necessità"

Articolo 54 del Codice Penale Italiano:

"Difesa Legittima: Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona,
pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto
sia proporzionato al pericolo."

Per pericolo attuale vale ancora la definizione data sopra.

Per danno grave alla persona è da interpretare in tutta la globalità del termine, ovvero i
danni alla persona possono essere sia fisici sia morali. L'esempio più cretino, ma calzante,
per descrivere tale situazione è il seguente: non è punibile chi ruba un asciugamano in
spiaggia dopo che ha perso il costume in mare, salvando così il suo pudore. Esempio tratto
da un testo esplicativo del Codice Penale. :-)

Il pericolo da lui non volontariamente causato s'intende sia per dolo (voluto fino in fondo)
e colposo.

IL concetto di non altrimenti evitabile è quello della azione lesiva che deve essere
assolutamente necessaria per salvarsi, e bisogna valutare sempre se c'era la possibilità di
fuga.

Questo articolo è un'integrazione del 52, ed è più che altro applicabile in quei casi in cui
comportamenti altrimenti classificati come criminosi sono in questi casi giustificati, esempio
tipico: il tizio che malmena Caio per prendere posto nell'ultima scialuppa disponibile di una
nave che affonda. Nel nostro studio specifico non ci interessa tantissimo, ma è utile sapere
anche dell'esistenza di questo Articolo.
Il concetto di "Eccesso Colposo"

Articolo 55 del Codice Penale Italiano:

"Eccesso Colposo: Quando, nel commettere alcuno dei fatti previsti negli articoli 51,52,53 e
54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'Autorità ovvero
imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è
previsto dalle legge come delitto colposo."

Eccoci nel caso peggiore che ci possa capitare. Siamo aggrediti per strada da un balordo
armato di coltello che manifesta la sola intenzione di derubarci (vallo anche questo a far
capire al giudice)e noi reagiamo uccidendolo involontariamente, oppure provocandogli delle
lesioni permanenti.

Più che altro si parla di due tipi di eccesso colposo: il primo quando si eccede perché si
valuta erroneamente la situazione (un mendicante ci chiede l'elemosina, crediamo di essere
invece derubati e lo riempiamo di botte); il secondo si verifica quando valutata perfettamente
la situazione eccediamo nella reazione per imprudenza, imperizia o negligenza, provocando
un evento più grave di quello che sarebbe stato necessario cagionare (un tizio ci minaccia
con un cutter piccolo piccolo per rapinarci e noi lo ammazziamo a mani nude e/o con corpi
contundenti).

In pratica se uccidiamo qualcuno che non aveva manifestato apertamente la volontà a sua
volta di uccidere noi, siamo a tutti gli effetti per la Legge degli assassini, con tutte le
attenuanti del caso (poche, quando muore qualcuno), e quindi nei guai seri.

Senza andare troppo nel tecnico una veloce analisi di tre articoli chiave del nostro Codice
Penale fanno cadere molti preconcetti radicati nella cultura popolare.

Il concetto di "Lesione Personale"

Articolo 582 del Codice Penale Italiano:

"Lesione Personale: Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva
una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Se la
malattia ha durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze
aggravanti previste dagli articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel 1 e nell'ultima
parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa."

Per malattia s'intende qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché


localizzata e non influente sulle condizioni organiche generali (ad es. un bel occhio nero...).

C'è da dire che l'arresto in caso di lesione personale è facoltativo da parte delle forze di
pubblica sicurezza, mentre il fermo vero e proprio non è consentito.

E' anche vero che se non procuriamo nessun danno particolare a qualcuno, nel senso che gli
procuriamo ferite guaribili in meno di sette giorni, ricadiamo comunque nella violazione
dell'articolo 581 che cita il reato di percosse. Ma si tratta di un reato decisamente più
leggero.
Un'eccezione doverosa deve essere fatta per l'applicazione di questo articolo, e decisamente
ovvia: i danni cagionati da attività sportiva, il cui esempio precipuo sono la pratica delle arti
marziali. Il fatto non costituisce reato in quanto tali attività sono giuridicamente ammesse e
quindi giustificate.

Il concetto di "Circostanze Aggravanti"

Articolo 583 del Codice Penale Italiano:

"Circostanze Aggravanti: La lesione personale è grave e si applica la reclusione da tre a


sette anni quando:

1. se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo di vita della persona offesa, ovvero
una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie attività per un tempo superiore ai
quaranta giorni;
2. se il fatto produce un indebolimento permanente di un senso o di un organo;

La lesione personale è gravissima e si applica una reclusione fino a dodici anni quando:

1. dal fatto deriva una malattia insanabile e permanente


2. la perdita di un senso
3. la perdita di un arto o una mutilazione che lo rende inservibile, la perdita della capacità di
procreare
4. la deformazione, ovvero lo sfregio del viso in maniera permanente."

Ricadiamo in questo caso quando rompiamo degli arti all'aggressore, facciamo scoppiare dei
bulbi oculari e spappoliamo i testicoli oppure sfregiamo a coltellate il viso.

Il concetto di "Omicidio Preterintenzionale"

Articolo 584 del Codice Penale Italiano:


"Omicidio Preterintenzionale: Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti previsti
dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a
diciotto anni."
Il concetto di "Rissa"

Articolo 588 del Codice Penale Italiano:


"Rissa: Chiunque partecipi ad una rissa è punito con la multa fino a lire seicentomila. Se
nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta una lesione personale, la pena, per il solo fatto
della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si
applica se la uccisione o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in
conseguenza ad essa."
Per rissa s'intende una violenta mischia con vie di fatto tra persone che compiano atti
violenti col duplice intento di arrecare offesa agli avversari e di difendersi dalle offese di
costoro.
Secondo il prevalente orientamento giuridico l'attenuante della provocazione è normalmente
non applicabile al reato di rissa, sottinteso che in esso la provocazione fra i partecipanti è
reciproca e si elide vicendevolmente, a meno che uno dei partecipanti alla contesa abbia
ecceduto i limiti accettati e prevedibili, così realizzando, con la sua condotta eccessiva, un
autonomo fatto ingiusto. Al reato di rissa, e a quelli connessi, non è applicabile la legittima
difesa perché i partecipanti sono animati dall'intento reciproco di offendersi ed accettano la
situazione di pericolo nella quale volontariamente si sono posti, sicché la loro difesa non può
dirsi necessaria.

armi

La regola delle "quattro dita di lunghezza delle lama" non è riportata su nessun articolo
ufficiale della Legge n.110 del 1975 che, con l'integrazione della Legge n.21 del 1990,
disciplina la materia delle armi in Italia. In pratica qualsiasi oggetto atto ad offendere di cui il
porto da parte nostra non sia giustificato, è reato. Per esempio, non c'è bisogno di finire nei
guai se giriamo con addosso un coltello da combattimento a doppio filo, basta avere con noi
un bel cacciavite e non essere in grado di giustificarne la presenza in tasca. Per la Legge
siamo quasi nella stessa gravità di situazione. In teoria, se non svolgiamo un lavoro
particolare che ci impone di attrezzarci con determinati strumenti (quali coltelli, roncole,
catene varie, cacciaviti ecc...ecc...) e non siamo in orario di lavoro e non stiamo per utilizzare
per il nostro lavoro tali strumenti, noi semplici cittadini non possiamo portarci addosso
nemmeno un paio di forbici da asilo con punte arrotondate. Per "motivi di sopravvivenza
urbana" sono tollerati i coltelli multiuso a lama e strumenti ritraibili nel manico, quali i coltelli
dell'Esercito Svizzero. Se invece vogliamo trovarci nei guai in meno di un minuto dobbiamo,
durante un malaugurato controllo della polizia farci trovare addosso:

Armi da fuoco senza il necessario porto d'armi adatto


Coltelli a lama fissa con doppio filo/singolo filo
Coltelli a serramanico con scatto a molla (l'automatismo sembra essere una
pesantissima aggravante per la Legge Italiana)
Coltelli a serramanico in genere
Pugni di ferro /noccoliere
Bastoni animati
Bastoni con punta in acciaio
Mazze ferrate (!!!)
Catene in metallo

La legge n.157 del 11/2/1992 esplicitamente cita <<il titolare della licenza di porto di fucile è
autorizzato, per l'esercizio venatorio, a portare, oltre le armi consentite, gli utensili da punta e
da taglio atti alle esigenze venatorie>>. Per tutti gli altri casi la legge è da interpretare. Dal
punto di vista della collezione, che tra l'altro non ci interessa per i nostri scopi, la vendita dei
coltelli di qualsiasi natura è libera e ne possiamo tenere in casa finché ne vogliamo. La
denuncia alla Questura è facoltativa da città a città. Per esempio a Parma non è necessario
denunciare i coltelli che si detengono entro le mura casalinghe. In ogni caso è una bella cosa
informarsi presso la propria Questura in merito.
Il concetto di Arma
"Si definiscono armi tutti quegli strumenti la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona.
Esse possono essere da sparo o da taglio."
Qui la definizione è piuttosto chiara e non ha bisogno di commenti particolari se non che la
Legge Italiana si limita a riconoscere come armi solo quelle da fuoco e le lame. Tutto il resto,
tipo mazze ferrate, noccoliere, bastoni in genere, sono armi improprie.
Il Concetto di arma impropria
"Si definiscono armi improprie tutti quegli strumenti atti ad offendere il cui porto è vietato in
maniera assoluta (ad es. mazze ferrate) ovvero senza giustificato motivo (coltelli da
lavoro, catene...)"
Porto abusivo di arma (impropria)
"Chiunque, senza la licenza dell'Autorità, quando la licenza è richiesta, porta un'arma fuori
della propria abitazione o delle appartenenze di essa, è punito con l'arresto da tre a diciotto
mesi. Soggiace l'arresto da diciotto mesi a tre anni chi, fuori della propria abitazione o delle
sue appartenenze, porta un'arma per cui non è ammessa licenza. Se alcuno dei fatti
previsti dalle disposizioni precedenti, è commesso in luogo ove sia concorso o adunanza di
persone, o di notte in un luogo abitato, le pene sono aumentate."
In questa legge intervengono molti fattori tecnici che è interessante esaminare. Questo reato,
definito comune, interviene anche un elemento psicologico del dolo generico, ossia la
volontà di portare armi in luogo pubblico/aperto senza la necessaria licenza. Per licenza
s'intende il permesso in regola rilasciato dalla competente Autorità che ci autorizza a portare
(con le dovute limitazioni del caso) armi con noi dopo i necessari accertamenti psicofisici. Il
concetto si abitazione è sì la nostra casa, ma anche una dimora temporanea (camera
d'albergo), le appartenenze sono le zone riconosciute come della propria abitazione, quale il
giardino e il garage, ma sono esclusi i possedimenti mobili di essa, quali automobile, roulotte,
tenda da campeggio... E' da notare, stando a questa legge, che è più grave portare con sè
armi quali pugni di ferro, mazze ferrate ecc...ecc... che sono armi improprie non regolate da
nessuna licenza di porto, piuttosto che una pistola senza licenza. Per i coltelli, riconosciuti
come armi quelli a lama fissa e con singolo/doppio filo, la peggior aggravante è il modello a
scatto, in quanto considerato anche questo arma impropria.

CONCLUSIONI

Alla luce di questa rapida carrellata di normative che disciplinano i principali articoli del
Codice Penale che possono intervenire in casi di dover reagire ad un'aggressione armata e
non, si possono fare alcune considerazioni in merito.
Prima di tutto è evidente che andare per le vie di fatto per un qualsiasi motivo ci procurerà
sempre una violazione del Codice Penale. Anche se siamo "nel giusto". In questi casi "il
giusto" per la Legge è una condizione maledettamente ideale in cui è praticamente
impossibile rientrarci. Il fatto stesso che possiamo reagire ad una provocazione di
qualsivoglia natura è reato. La valutazione della situazione è estremamente oggettiva da
parte del giudice e del pubblico ministero, quindi anche se crediamo di aver agito in totale
legalità invocando la difesa legittima, non è detto che ci sporchiamo la fedina penale per
sempre per reati di rissa/lesioni personali. Avere la fedina penale sporca è sempre una
"scocciatura", perchè finendo nel database delle forze di Pubblica Sicurezza, appena c'è una
stupidata in relazione al nostro reato possono venirci sempre a a fare domande, rintracciarci,
convocarci in Questura e via dicendo. Esistono poi vere e proprie leggende metropolitane
relativamente a sentenze dei giudici in materia di difesa personale (una delle più famose il
tizio aggredito in casa da un ladro che lo cattura e lo lega fino all'arrivo dei Carabinieri e
viene denunciato per sequestro di persona: per favore, queste cose non esistono!). E' la
cultura generale alquanto scarsa in materia che favorisce un terreno fertile per far crescere
false sicurezze in materia di difesa personale. Le leggi ci sono, sono piuttosto equilibrate e
giustamente severe, il fatto che non ce ne sia coscienza comune è solo un modo per cui le
risse e le colluttazioni/aggressioni in genere (quelle per futili motivi almeno) possano scattare
senza l'ombra di un minimo di deterrente psicologico di una brutta denuncia/condanna che
possa incombere. Ma siamo praticanti di un'arte marziale, a parte tutto noi ci alleniamo al
malaugurato caso che ciò (una colluttazione) possa avvenire. Come dobbiamo comportarci
in questi casi, a cose finite e agenti di Pubblica Sicurezza sono intervenuti sul luogo del
fatto? Non esiste una procedura vera e propria, ma buon senso. Un poliziotto mio
conoscente consiglia di:
Restare calmi e cooperativi con la Polizia.
Rispondere in maniera chiara, sensata e concisa sugli eventi appena avvenuti.
Seguire senza protestare gli agenti in Questura/Caserma.

Cosa la Polizia/Carabinieri fanno in questi casi?


Raccogliere a caldo i fatti sulla colluttazione, poi riesaminarli in seconda sede con
ulteriori testimoni aggiuntivi.
Chiederci se potevamo fuggire e perchè non lo abbiamo fatto. Da queste risposta si
può decidere al 50% una nostra condanna o meno.
Vengono esaminate le ferite ricevute/date da un medico legale o del Pronto Soccorso
che deve produrre una documentazione medica ufficiale da usare in fase di giudizio.
Viene messo a verbale qualsiasi cosa detta. Attenzione a quello che dite che non
possa essere mal interpretato. La vostra parola non conta nulla contro un verbale
redatto da un agente di P.S.
Viene esaminato il nostro background penale e quello di quello del nostro avversario.
Vengono esaminate le dichiarazioni di eventuali testimoni.
Viene vagliato il fatto se apparteniamo ad una comunità etnico-religiosa-economica
particolare.
Già, viene valutato se siamo artisti marziali.
Vengono valutate le aggravanti apportate dall'uso di armi e di che natura.
Purtroppo le prime impressioni e i pregiudizi degli agenti di P.S. (che sono esseri
umani) influenzano pesantemente gli esiti delle indagini sopra.

Meglio un brutto processo o un bel funerale? A voi la risposta, io ho già scelto.

Codice della Strada, Codice Etico

Io mi ritengo fortunato perché vivo in una (relativamente) piccola città. Per andare al lavoro
durante la bella stagione uso la bicicletta, poche volte uso l’auto. Nonostante non ci sia un
traffico enorme nella mia città ho visto fin troppi episodi che mi hanno fatto riflettere. Le
persone alla guida diventano delle bestie assetate di sangue. Chi non appartiene a questa
categoria è semplicemente una preda delle suddette bestie. Quanta aggressività fine a sé
stessa vediamo riversata nelle strade? Quanta violenza gratuita verbale e fisica siamo
testimoni (e protagonisti) durante un tragitto in auto? C’è quello che va piano davanti a noi,
c’è quello che ci taglia la strada o svolta non mettendo la freccia, o quello che al semaforo
"verde da mezz’ora" non parte. Tutti di fretta, tutti arrabbiati dal primo secondo che stringono
un volante. Già in un’altra sezione ho citato qualche esempio di violenza urbana con episodi
sempre legati ad auto e relative norme di circolazione. Non è per essere ripetitivo, ma
statisticamente misurarci con altri autisti in un flusso di traffico cittadino ci aumenta la
probabilità di uno scontro, perlomeno verbale, che può sempre degenerare. Vi citerò
brevemente alcuni episodi e vi prego, durante la lettura degli stessi, di dimenticarvi che siete
degli autisti.

1. Sono in bicicletta. In direzione opposta alla mia, sull’altra corsia, una Volvo famigliare
bianca si ferma nella corsia e lentamente s’infila in un parcheggio dall’altra parte della
strada, senza freccia e in maniera piuttosto lenta, anche se la strada era sgombra.
Evidentemente il conducente era confuso sulla direzione da prendere. Nel mentre
sopraggiungeva da dietro della Volvo uno scooter guidato da un giovane sulla ventina
che, vedendo che la Volvo era così "impacciata" a svoltare "occupandogli la strada" gli
pianta un bel colpo di avvisatore acustico, prolungato, evitandolo alla zig-zag tipica degli
scooter con tanto di braccio sinistro sventolante il tipico "vai a quel paese…". La Volvo,
che ormai si era fermata nel parcheggio inchioda, parte un prolungato suono di clacson
da questa e dal lato conducente esce un tizio con fisico da muratore palestrato che
continua a tenere la mano sul clacson e guardando insistentemente il tipo sullo scooter,
che a sua volta aveva rallentato al richiamo del clacson, ma appena vista la montagna
umana si è dileguato a velocità luce. Secondo voi erano amici che si erano riconosciuti
per strada questi due? E se quello dello scooter non avesse ceduto alla paura e si fosse
fermato come sarebbero andate le cose?
2. Parcheggio pizzeria. Un mio amico entra nel parcheggio, piuttosto strettino, quando un
tipo sulla Golf vuole uscire in retro dallo stesso passaggio. Si fermano entrambi qualche
secondo per vedere chi fa passare e, come in un stupido balletto sincronizzato, partono
entrambi fino a quasi toccarsi. Il tizio della Golf esce fuori subito e va con piglio deciso dal
finestrino del mio amico. <<Fammi passare!>> <<No, sei tu, scusa, che devi rientrare, mi
fai entrare e poi esci>>. Il tizio della Golf apre la portiera del mio amico, che è alquanto
impacciato dalla cintura di sicurezza ma non trattiene un sussulto di paura, ma non dura
molto, anche se la situazione è tatticamente molto sfavorevole per lui J <<Fammi passare
o ti spacco la testa!>> <<Tu non mi tocchi, hai capito? Stai calmo, e non mi tocchi…>>
Per fortuna che è intervenuta la ragazza che era in compagnia del tizio della Golf a
convincerlo a far passare il mio amico, ma se non ci fosse stata questa ragazza (che
fortuna stare insieme a tizi così pazienti!) , secondo voi come sarebbe andata a finire?
3. Semaforo rosso. Un ragazzo, che chiameremo Domenico, è fermo sulla sua Tipo. Arriva il
bambino magrebino a fare l’elemosina, triste immagine di tutte le metropoli. No, vai via!
Pensa Domenico. Cosa vuoi da me? Torna al tuo paese del c…! Il bambino se ne va con
l’aria più imbronciata del solito e Domenico, per una forma di paranoia pura lo controlla
dallo specchietto retrovisore… Ma cosa ha fatto con la ciotola dei soldi!? Mi ha rigato la
portiera!? Domenico scatta fuori dall’auto e colpisce con un pugno la testa del ragazzino
da dietro, poi lo gira e lo stende sul cofano dell’auto di un’altra persona in coda al
semaforo e lo riempie di schiaffi e pugni ed offese per tutti gli arabi del mondo finché
qualcuno non chiama la Polizia con un cellulare. Nessuno sarà intervenuto a fermare a
Domenico, il ragazzino non sporgerà denuncia, e Domenico ha la fedina penale pulita.
Questa cosa vergognosa è stata riportata dal giornale locale della mia città nel 1995.
Secondo voi se in coda al semaforo che scatta verde suonate a questo Domenico per
"avvertirlo che è verde", come può andare a finire?

Potrei andare avanti con altri episodi, e vi ricordo che vivo in una città piccola, mi immagino
cosa succede in altre città ben più grandi con traffico (e nervosismo) ben più intenso.
Disciplina è la parola d’ordine. Tutte le persone al volante mancano di disciplina. Non dico
rispetto per gli altri perché chiederei troppo. Se è vero che guidare in città è una attività
stressante che richiede sforzo di concentrazione non indifferente, perché sprecare altre
energie per arrabbiarsi? Ricordate che ogni colpo di clacson lanciato a mo’ di monito è un
innesco di una probabile colluttazione, ogni lampeggiata con gli abbaglianti per "chiedere
strada" su strade di città è una maledizione che ci prendiamo, o in casi limite veniamo seguiti
fino a destinazione per essere "educati" da chi ha subito il nostro abbagliante (è successo
anche questo). Ricordate inoltre che per cercare con le dita il clacson o le luci abbaglianti
perdete dei decimi di secondo vitali che potrebbero evitarvi un incidente se li impiegaste
invece a controllare bene il volante con entrambe le mani. Il trucco? IGNORATE
ATTIVAMENTE chi vi circonda. Cosa significa? Ignorare, per l’appunto, significa fregarsene
altamente di chi vi taglia la strada, di vi si inchioda davanti, di chi non mette la freccia
ecc…ecc… Attivamente significa, però evitarli fisicamente al fine di evitare collisioni. Non
chiedo di fare come fa un noto Maestro Buddista Zen della mia provincia che afferma che
ogni volta che qualcuno gli fa uno "sgarro" in automobile lui ignora, evita, e pronuncia ad alta
voce la frase "Ti voglio bene". Certa gente fa perdere la pazienza, capita anche a me, ma
non è il caso di mettersi a confrontarsi con degli sconosciuti per simili idiozie. Certo, quando
evitiamo per un soffio un incidente mortale per colpa dell’indisciplina di un altro ci arrabbiamo
eccome. Ma invece che giurare vendetta, se l’evento non si è verificato, io personalmente
rifletto su quanto sia bello vivere e di quanto siamo degli esseri fragili e mortali. Altro che
strombazzare con un clacson. Poi ritorno al solito concetto: non sai mai con chi hai a che
fare… Dentro all’abitacolo di quella macchina c’è il muratore palestrato o Domenico che gira
con il fucile da caccia del nonno?
Per concludere: L’anno scorso sono uscito da un circolo privato per immettermi su di una
grande strada deserta, ecco che da sinistra proviene la solita Golf a 100-120 all’ora (la strada
in questione è in periferia della città). C’era una curva leggera prima dell’incrocio con il
cancello del circolo da cui stavo uscendo, quindi la Golf mi vede "all’improvviso" sterza e mi
evita suonando con le trombe del clacson per molti secondi, si ferma a circa 100 metri di
fronte a me e sventola il classico dito medio della mano sinistra fuori dal finestrino, poi riparte
sgommando. Chiusa lì. Ma se io fossi una testa calda che aveva avuto una pessima
giornata? Il circolo da cui stavo uscendo era il poligono cittadino e a meno di trenta centimetri
dalla mia mano avevo una borsa in nylon con dentro la mia Glock35 in calibro .40S&W e una
scatola di colpi. Per preparare un caricatore con dentro tre colpi contati e prendere la pistola
dalla borsa e armarla mi ci sarebbero voluti circa 10 secondi. Il tizio ci avrebbe impiegato
molto di più a piedi per a raggiungermi se fosse uscito dall’abitacolo. E non sarei stato tanto
sicuro che mi avessero preso, perché era domenica mattina, la zona è isolata e non c’era
nessuno per strada. Un colpo e via. Siate disciplinati e cortesi per strada, vi eviterete un
sacco di guai.

Tecniche da strada, tecniche da palestra

Come già più volte menzionato nelle varie sezioni di questo sito, si tende a fare una
distinzione molto marcata tra le tecniche di combattimento insegnate in una palestra di una
qualsiasi arte marziale tradizionale, e quelle che davvero "servono" per strada in caso di
colluttazione.

Le arti marziali, in special modo quelle "importate" in occidente, hanno subito un’evoluzione
particolare. Tutte le arti marziali, per definizione, sono nate per combattere, neutralizzare
l’avversario in maniera più o meno definitiva, sopravvivere al campo di battaglia. Nella realtà
dello scontro corpo a corpo di una mischia tra fanti giapponesi del periodo del Giappone
medievale, c’era poco spazio per il combattente di calci volanti al viso o tecniche di controllo
articolare. Si colpiva come si poteva ed il prima possibile, senza troppo curarsi dell’eleganza
della tecnica. Ad essere sinceri questi fanti subivano un addestramento sommario dedicato
principalmente alle armi d’ordinanza. I Samurai, i famosi custodi delle tecniche di Ju Jitsu
originale, per quanto alcuni fossero degli eccellenti conoscitori di quest’arte marziale, quando
chiamati in uno scontro usavano solo quell’unica, o al massimo due tecniche che riuscivano
a fare istantaneamente ed inconsciamente; nonostante nella loro educazione marziale
annoverassero un repertorio di tecniche vastissimo. Con l’emigrare dei maestri in paesi che
non conoscevano una realtà di guerra quotidiana, alcune arti marziali in occidente sono
diventate uno sport, un metodo per mantenersi psico-fisicamente in forma, e naturalmente
una ricerca per un sistema di difesa personale. Purtroppo per la maggior parte di arti marziali
tradizionali insegnate in occidente l’ultimo punto è un po’ trascurato. Mi spiego. A seconda
del Maestro che impartisce la lezione e a seconda dello stile del sistema di combattimento,
vengono affrontate delle situazioni di combattimento, a volte anche di difesa personale da
strada, ma per motivi didattici si ragiona sempre in termini di situazioni ideali, che
difficilmente incontreremo nella realtà che, per definizione, è imprevedibile. Molti allievi, così,
memorizzano queste tecniche in maniera automatica, magari in maniera splendida, cadendo
nella terribile trappola della sicurezza di poter affondare qualsiasi situazione simile per
strada. Gli allievi che invece riescono a "slegarsi"da questo tipo di mentalità, oppure, i
Maestri stessi che cercano di educarli ad una maggiore flessibilità tecnica e mentale,
diventano concretamente in grado di affrontare una minaccia reale, e non simulata in
palestra. Perché tanta enfasi su questo argomento? Perché è davvero uno dei "pericoli" più
infidi delle arti marziali insegnate nelle palestre: la falsa confidenza nelle proprie capacità.
Prendiamo un esempio concreto vissuto sulla mia pelle. Io ho studiato per anni Ju Jitsu "stile
Bianchi". Questo sistema di combattimento giapponese è stato rivisitato da un italiano –tale
Gino Bianchi- codificandolo in cento tecniche divise in cinque settori da venti tecniche l’uno.
Ogni settore ha uno specifico argomento: controllo dell’avversario, proiezioni, leve articolari,
soffocamenti, combinazioni di tecniche dai settori precedenti. Sono tecniche molto
complesse, alcune da otto o nove passaggi consecutivi per l’esecuzione completa, alcune
sono basate su di un singolo colpo percuotente. Apprenderle tutte significa raggiungere la
cintura nera di Ju Jitsu primo Dan, e ci vogliono circa cinque anni di allenamento continuo.
Detto questo introduciamo il discorso vero e proprio. Per difendersi da un pugno diretto al
viso questo stile di Ju Jitsu può proporre almeno una trentina di tecniche diverse, che l’allievo
deve imparare tutte. Alcune sono davvero rapide e risolutive, altre decisamente acrobatiche
e proibitive da eseguire a muscoli freddi e senza avversario "collaborante". Tutte, comunque,
partono da un presupposto molto limitante: se l’avversario ci colpisce con il pugno destro, il
suo braccio sinistro è praticamente assente. Non reagisce. Non molto realistico, vero? Certo
se siamo dei combattenti eccellenti con venti anni di Ju Jitsu sulle spalle diventiamo così
rapidi, efficaci ed esplosivi, che prima che l’avversario pensi che ha anche un braccio sinistro
da usare… E’ già a terra. Ma sinceramente di iniziare a studiare il Ju Jitsu in età
adolescenziale per essere in grado di difendermi decentemente sulla trentina… Mi sembra
un po’ esagerato. C’è chi riesce ad adattarsi molto prima a questi "cambiamenti tattici"
durante uno scontro, ma parliamo dei famosi allievi con mentalità elastica di cui facevo
riferimento poco prima. E tutti quelli che assimilano "meccanicamente" i movimenti, le
posizioni e tutto? Per strada vengono macinati, o perlomeno non se la cavano bene. In
pratica finiscono sotto i colpi del loro aggressori con sul viso dipinto uno sguardo
interrogativo che implora un "questa reazione non era prevista…". Questo discorso vale per i
confronti a mani nude e per i praticanti di arti marziali giapponesi. Sono esclusi da questo
discorso i boxer, i praticanti di Muay Thay e discipline da ring simili, in quanto vengono
"cresciuti" a sopportare stress fisici enormi (leggi: botte da orbi) e darle indietro con gli
interessi e senza pietà. Questi individui non hanno bisogno di corsi di difesa personale. Anzi
il problema e semmai un altro, insegnarli, in caso di aggressione, e NON macellare
l’avversario.

Passando invece alle aggressioni armate la situazione non può che peggiorare. Se con le
mani nude potremmo "gestire" la situazione, se l’avversario non è MOLTO più grande di noi,
con dei coltelli e bastoni non possiamo permetterci di sbagliare. Anche qui, quando
l’argomento è affrontato dal Maestro della disciplina, rischiamo di brutto di cadere nella
trappola del "memorizza a perfezione la tecnica contro l’attacco che mai si presenterà così
nella realtà e sentiti orgoglioso". Molto pericoloso. Prendiamo il bastone. Nelle palestre, la
famosa "manganellata", è eseguita come una bastonata tirata con braccio destro steso e che
prosegue fino a che il bastone, se non trova il bersaglio, sbatte per terra. Con un colpo del
genere, vibrato con tale trasporto, è semplice impostare tecniche devastanti che sfruttano
l’energia cinetica dell’aggressore. Ma nella realtà, la gente gente con un bastone in mano,
come lo usa? Semplice, basta vedere il telegiornale quando c’è qualche filmato che riprende
dei disordini allo stadio o le famose "guerriglie urbane". I poliziotti e/o carabinieri, per
definizione, non ricevono alcun addestramento specifico sul maneggio del manganello
d’ordinanza, quindi lo usano in maniera molto istintiva. Fateci caso. Sferrano il colpo, e poi lo
ritraggono immediatamente, e poi ancora un colpo rapido. Fino a due-tre colpi al secondo. La
maggior parte delle tecniche insegnate in una palestra servono a poco contro un uso del
bastone del genere. Purtroppo l’addestramento che si riceve ci obbliga a focalizzarci solo
sulle azione da intraprendere in funzione del comportamento dell’aggressore, il concetto
sarebbe perfetto di per se stesso se non fosse per il fatto che per essere efficaci il
comportamento dell’aggressore deve rispondere a certi canoni. Nella realtà per forza non
può essere così. Per il coltello la situazione è addirittura drammatica. Tali problematiche
sono affrontate nella sezione dedicata al combattimento con il coltello. Solo un esempio per
tutti. Un mio amico, praticante di Kali, ha modo di conoscere durante il servizio di leva un
ragazzo della provincia di Napoli, il quale, putroppo o per fortuna, dipende, conosce l’uso del
coltello "per davvero", nonostante non abbia mai frequentato un corso di arti marziali
specifico. Incuriosito dal Kali ha chiesto a questo mio amico qualche dimostrazione. Il mio
amico ha chiesto a questo ragazzo di attaccarlo con un coltello d’allenamento. Il tizio parte
con una classica stoccata al ventre, il mio amico reagisce d’istinto spostando il bersaglio fuori
dalla traiettoria della lama e tenta di fare una chiusura sul polso armato, in quanto aveva
notato il grossolano errore del ragazzo di Napoli a tenere il braccio fermo dopo che la lama
non era andata a bersaglio. Appena il ragazzo ha sentito qualcosa sul polso destro è scattato
passandosi il coltello dalla mano destra alla sinistra e contemporaneamente facendo un
mezzo giro in senso antiorario conficcando il coltello da allenamento nel rene sinistro del mio
amico. Chi di voi pensa di gestire con tecniche tradizionali un "non marzialista" di questo
calibro?

In conclusione vorrei prima di tutto chiarire che non sono affatto ostile all’insegnamento delle
arti marziali tradizionali. Semplicemente non sono d’accordo quando mi si sente dire che
dopo tre anni scarsi di allenamento bi-settimanale di karate, judo, ecc…ecc… uno si sente
pronto ad affrontare qualsiasi aggressione, solo perché è stata ricreata in palestra o sa fare
N Kata del tal stile.

Imparare molte tecniche anche complesse, e forse senza senso in ultima analisi, è
essenziale per un motivo semplice: memoria neuromuscolare. Dobbiamo, attraverso un serio
allenamento memorizzare molte e sempre più complesse tecniche per educare il nostro
cervello e i nostri muscoli a reagire con movimenti complessi, rapidi, a gestire l’equilibrio ed
ad imparare ad ascoltare il nostro corpo. Dobbiamo crearci una "biblioteca" di tecniche, per
poi, al momento giusto, usare… Non la più adatta, ma la tecnica più efficace, che magari non
abbiamo mai fatto, ma grazie all’allenamento che abbiamo ricevuto saremo in grado, senza
nessuno sforzo, di adattarci a qualsiasi situazione, quasi istantaneamente. Il problema, a
questo punto, non è studiare tecniche "inutili", ma liberarsi "dell’inutile" quando è il caso di
fare sul serio.

Perché la strada è una cosa, la palestra un’altra.

Navy SEALs, Delta Force, Green Berets...

Ogni anno che passa è sempre peggio. Si apre una rivista di Arti Marziali e quando si trova
una pubblicità di un istruttore/maestro di qualche disciplina marziale quale Jeet Kune Do, Kali
Filippino e Pencak Silat (che di solito è di moda far andare tutte e tre a braccetto), ecco che
questi dichiara di aver insegnato (o di aver appreso alla perfezione) il programma di
addestramento di combattimento a mani nude dei S.E.A.L.s, Rangers, Delta Force,S.W.A.T.,
FBI (i più colti scrivono HRT, l'unità antiterrorismo -recupero ostaggi- dell'FBI), D.E.A., Green
Berets... Non si salva nessuna branca delle Forze Speciali USA. Ma alle nostre Forze
Speciali non insegna nessuno? Magari che i GIS o i NOCS sono totalmente a digiuno di
programmi di difesa personale? Nei loro curriculum questi istruttori/Maestri si limitano a dire
in ambito italiano di aver insegnato a molti Body Guard, e a qualche agente di Polizia. E'
brutto, per farsi pubblicità, attaccarsi a sedicenti nomi di spicco delle forze armate americane,
che sinceramente, se uno vuole imparare a menar le mani di brutto (per dirla chiara), non
gliene frega niente dove ha insegnato/imparato tali tecniche questo tizio. Poi se notate, molto
spesso, queste pubblicità chiedono "Vuoi diventare istruttore di kali, Jeet Kune ecc...?". Ma a
nessuno viene in mente che qualcuno vorrebbe imparare e basta senza velleità di insegnare
a a qualcuno qualcosa che ha impiegato magari 40 misere ore ad "imparare"?

Partiamo dal presupposto che i militari non hanno nè il tempo nè la motivazione per imparare
un sistema di combattimento in maniera completa e da zero. Devono imparare cose semplici,
rapide e risolutive. Certo, certe arti marziali si prestano più di altre da questo punto di vista e
se da questo addestramento qualche soldato abbandona il suo corpo d'appartenenza per
andare in giro a fare stages e guadagnarsi da vivere è perfettamente normale. Un tipico
esempio è l'-ex SEAL Frank Cucci che va in giro per il mondo ad insegnare le sue tecniche di
bastone-coltello-mani nude essenzialmente basate sul Kali filippino del metodo Inosanto. I
militari seguono anche loro le mode. Negli anni sessanta-settanta negli USA veniva
insegnato il Karate, il Judo, il Ju Jitsu. Addirittura prima, negli anni quaranta, andava di moda
il Defendu, un'arta marziale codificata dal famoso Cap. Fairbarn, che era essenzialmente un
Judo con degli elementi di boxe cinese. Poi negli anni ottanta il boom delle arti marziali
filippine con una strizzata d'occhio al combattimento con il coltello. Greg Walker docet. Ad
essere sinceri, tra le varie conoscenze che ho, ho avuto il piacere di chiedere ad un ex-SEAL
formatosi alla fine degli anni ottanta che razza di addestramento corpo a corpo avesse
ricevuto. La risposta fu un laconico <<Mi hanno insegnato ad uccidere con solo due dita...>>.
Forse la risposta più sincera che abbia mai sentito su quest'argomento. Tenendo conto che i
SEALs, almeno negli anni ottanta, per essere accettati dovevano superare una rigorosa
selezione, il più gracile di loro pesava 80Kg, con poco grasso corporeo addosso (almeno al
momento della selezione). Persone così, non propriamente mansuete, non hanno bisogno di
una sofisticata preparazione marziale per essere efficaci anche a mani nude. Quindi che
abbiano affrontato un intero programma di Kali Filippino sembra un pò strano. Che gli
abbiano insegnato qualche "trucchetto" di buon senso, può darsi. In Italia? Un pò come in
tutto il mondo. Si chiama per addestrare i propri uomini chi ci da più fiducia. Ho conosciuto
un noto istruttore di karate della mia città che insegna con regolarità <<alle Forze Speciali
NATO di stanza in Italia>>. Il maestro di Wing Chung di un mio amico una volta al mese va a
Livorno ad insegnare <<ai reparti speciali dei Carabinieri>>. Però questi de tizi non hanno
mai impegnato la pagina di una rivista per scrivere SEALs, FBI, DEA... Almeno loro
rimangono e si fanno conoscere in Italia. Ma cosa insegnano a questi professionisti della
guerra? Il mio istruttore di Koredas ha collaborato con il Maestro Oliver Bersabal ad un turno
di addestramento dei GIGN francesi. Essenzialmente, ha detto, in due settimane hanno
insegnato tecniche semplici di difesa da attacchi di bastone e di coltello. L'imperativo imposto
è che dovessero insegnare tecniche di controllo e non di attacco. Tradotto: dovevano
insegnare alla gendarmeria francese a non uccidere i propri assalitori e ad ammanettarli.
Questo è davvero difficile, perchè molto più facile ferire gravemente una persona che
controllarla ed ammanettarla senza neanche lussarle una spalla. Per il mani nude i GIGN
fanno molto affidamento al sistema di combattimento israeliano Krav-Maga.

La bibliografia di ex-istruttori militari americani che dicono la loro sull'argomento è


praticamente infinita. Tecniche a mani nude, di bastone singolo o doppio, di coltello,
baionetta inastata sul fucile... Ma davvero un soldato delle Forze Speciali sa tutte queste
tecniche? Anche qui gli italiani latitano, eppure abbiamo soldati in gamba nel nostro paese,
non capisco perchè nessuno ex istruttore di combattimento corpo a corpo non si mette a
scrivere un manuale tecnico o a fare un bel video. Mi piace pensare che non lo fanno perchè
sono persone serie. Un po' come quel sottufficiale della Marina Italiana che era istruttore di
combattimento a mani nude degli Incursori di Marina (i nostri SEALs, insomma) che aveva
una solidissima base di Ju Jitsu, ma praticamente insegnava ai suoi soldati a muoversi in
fretta e far male sul serio al primo colpo, ma che ha solo sentito nominare i vocaboli come
Jeet Kune Doo o Kali.

La mia esperienza personale, che non sono un bel niente a livello di riconoscimento tecnico
ufficiale, è qualche lezione alla Polizia Municipale della mia zona (che poveracci si possono
trovare spesso in situazioni che possono portare allo scontro fisico), e alle guardie carcerarie
della città. I primi erano il ritratto della demotivazione totale, ma con un barlume di
applicazione (ma in tre giorni cosa vuoi imparare?), i secondi, dopo essersi passati TUTTI gli
istruttori di Judo, Aikido, Ju Jitsu, Karate della città e provincia, erano ancora più demotivati,
tranne quando si tirava fuori il coltello, ma che per ovvi motivi si è affrontato poco. In carcere
si spera che i detenuti non girino armati di coltello, e in tal caso ho sempre consigliato di
usare la Beretta di ordinanza, poi perquisirli meglio. Con i poliziotti invece totale muro di
indifferenza. Se c'è da menare applicano sempre la regola del tre contro uno. Tre poliziotti
con una persona. Carabinieri? Ancora peggio. Fatte le solite eccezioni di elementi isolati
appartenenti alle forze dell'ordine che hanno delle ottime basi di marzialisti, la stragrande
maggioranza di essi fa troppo affidamento sull'uniforme, i propri muscoli (chi li ha), e sulla
fortuna. Ogni tanto si legge sul giornale locale di qualche poliziotto ben massacrato di botte
da qualche ubriaco: e per fortuna che la pistola ce l'hanno assicurata alla cintura con il cavo!
Altrimenti quante Beretta 9X19 in mano alle mani sbagliate. Mi chiedo: ma come mai tutti
questi istruttori che si sono fatti le ossa oltreoceano addestrando i professionisti più duri
dell'esercito americano non sono in grado di proporre a livello nazionale un corso fatto bene
e completo per le nostre forze di polizia? E' innegabile pensare che non potrebbe che
aumentare la sicurezza e l'efficienza del singolo elemento... Ma come suonerebbe come
pubblicità su di una rivista <<Istruttore qualificato di difesa personale di Carabinieri e Guardia
di Finanza...>>?

E' accaduto davvero...

La seguente email, datata 28/05/02 è stata spedita da A.D. di Reggio Emilia. La pubblico
come prima della lista perchè ritengo che racchiuda in sè dei concetti e riflessioni molto
interessanti sull'argomento.

A me, fuori del ring, non è quasi mai capitato di fare a botte. Alle medie forse. L'episodio che
vi invio è un episodio nel quale ho rischiato di dover fare a coltellate. Ritengo che sia utile,
per quanto non contenga violenza vera, per far capire come ci si sente a chi non ha mai
avuto la sfortuna di trovarcisi in mezzo. Questi fatti sono accaduti in Ecuador nell'agosto
della scorsa estate.

A Quito fa caldo e noi andiamo in giro per il mercato. C'è una folla pazzesca che si accalca
intorno alla bancarelle e compra vestiti scarpe e attrezzi agricoli. Una donna vende porcellini
d'india arrostiti. Io e il mio amico Nash cerchiamo souvenirs da portare a casa.

"Qui siamo dalla parte sbagliata" Dice Nash, un superwelter mio compagno di
allenamento"...i cappelli Panama li troviamo dalla parte opposta".
E via, allora. Sgomitiamo verso la vecchia cattedrale coi nostri Gerber piegabili in tasca. Non
abbiamo paura perchè:

1) Siamo già stati nel terzo mondo e crediamo di saperci muovere.

2) Siamo grandi e grossi e crediamo anche di essere cattivi

3) Siamo thai boxers con esperienza in Thailandia

4) Siamo armati e sappiamo usare il coltello come si può imparare a farlo senza combattere
davvero.

Così diventiamo imprudenti e smettiamo di tenere gli occhi aperti.

"Che casino!" Odore di folla, fumo e spezie varie. Che caldo che fa. Da ingegnere qual sono
mi casca l'occhio su un cantiere al bordo della piazza. Deserto perchè è domenica. Non ha
nemmeno le reti di protezione e pensiamo di fare prima passandoci in mezzo.

"Sicuro che non ci sia pericolo?" Nash è ingegnere elettronico e pensa a qualche buco in cui
cascare, più che altro. Gli dico di venirmi dietro e badare a dove mette i piedi. Entriamo nel
cantiere. Che bello che non c'è nessuno, da non credere. E' anche più grande del previsto.
Faremo in un attimo. Dico che pregusto già una buona bistecca appena sbrigata la rottura di
palle degli acquisti per gli amici a casa.

Nell'attimo che Nash impiega per rispondere vedo che mette a fuoco qualche cosa che si
trova dietro di me. Mi giro e vedo quattro tipi male in arnese che escono da dietro un muro
sbrindellato. Calma, forse sono i guardiani del cantiere.

In quattro? E poi ci puntano dritti senza dire niente. Si allargano a ventaglio per chiuderci. Mi
pare che mi abbiano tirato un pugno allo stomaco.

"Via!" Fa Nash, più rapido di me. Non tiro neanche fuori il coltello, solo comincio a correre in
mezzo alle macerie. Mi guardo indietro, i tipi non corrono. Ho già iniziato a pensare che forse
abbiamo esagerato e chissà che volevano quelli quando ci accorgiamo che c'è una
recinzione di filo spinato che divide il cantiere dal lotto adiacente. Non l'avevamo vista.
Realizzo che siamo chiusi in trappola. Siamo proprio finiti nel posto dove ci volevano portare.
Infatti i quattro avanzano senza fretta. Saranno ventenni, hanno dei visi che sembrano statue
di indios. Non li vedo come esseri umani normali, ho la stessa paura che avrei davanti ad un
rottweiler ringhiante. Dico cose sconnesse. Uno dei tipi, quello che sembra il meno
giovane, ha una mano in tasca e ormai saranno a sei metri. Tiro fuori il Gerber e lo apro con
una mano sola. Lo impugno all'arrovescia e mi metto in guardia ma non ho le idee chiare.
Nash fa lo stesso e i tipi si fermano. Uno (non quello con le mani in tasca) tira fuori un coltello
anche lui. E'una lama da cucina di poca qualità ma sarà lunga il doppio della mia. La
impugna al dritto e non mostra alcuna paura. Capisco che crede di trovarsi di fronte ad un
turista che chissà chi si crede di essere. E forse ha ragione. Io penso che questo qua magari
l'ha già usato per davvero, quel coltello.

"No me moleste" Dico io. Spagnolo da Guida lonely Planet, e inoltre mi vien da balbettare.
Nash sta zitto. Il tipo col coltello si fa avanti e fa come una finta, ma lontano. Non capisco se
voglia pigliarmi in giro per la mia guardia che gli sembra esotica oppure se intenda provarci
davvero,a farsi sotto. La sua espressione è impenetrabile.
Uno degli altri lo prende per la spalla e gli dice qualche cosa che non capisco. Lui si scuote
via di scatto e mi fa segno di farmi sotto. E'cattivo per davvero, magro magro e con una
maglietta viola. C'è scritto sopra "Consorcio alimentar San Mateo". Penso confusamente che
me la ricorderò per sempre quella maglietta, se la scampo. Ripete l'invito a farmi sotto, con la
mano.

"No me moleste" Ripeto io. Il ragazzo con le mani in tasca le tira fuori di tasca. Non ha nulla
in mano. Tira indietro quello con la maglia viola e stavolta non trova resistenza. Se ne
vanno. Stanno per girare l'angolo, e noi ancora lì impietriti, che quello cattivo si gira e ci urla:

"Cabrones!" Che credo voglia dire brutti froci. Un altro gli mette le mani sulle spalle e dice:

"Go home gringos. Go home" E fa segno di scattare. Nel senso di filare via da lì, che non sa
per quanto potrà tenere sotto controllo il suo amico.

E noi scattiamo, altro che: usciamo dal cantiere e ci rituffiamo nella calca, salvi.

"Via di qua!"

E mentre camminiamo tutti ci guardano. Ci impiego un bel pezzo a capire che abbiamo
ancora i coltelli stretti in mano!

Conclusioni:

1) La strada è una cosa il ring è un'altra. In strada può succedere di tutto nè c'è un arbitro
che ti salvi. Sul ring non ho mai avuto una paura così, mai. E non sono un fifone!

2) Perchè non gli abbiamo dato i soldi e basta? Per quella che Mac Young definisce, con
permesso parlando, cockstrong syndrome. Stupidità e orgoglio maschile. Quanto tutto fu
finito ci rendemmo conto di non aver neppure preso in considerazione l'idea. Valeva la pena
di morire? Se avessi un figlio e gli sentissi raccontare questa storia mi arrabbierei come un
serpente.

3) Ma se avessimo avuto con noi le rispettive fidanzate, che per fortuna erano rimaste a
casa a Reggio Emilia? cedere sarebbe stata una soluzione praticabile? Forse no.

4) E se dopotutto avessimo dovuto batterci? Questa è la vera domanda. Io credo che noi
due fossimo combattenti molto migliori di loro. E che non fossimo più spaventati di quanto
non fossero loro medesimi. Come sarebbe andata a finire? Se davvero quello era l'unico a
essere armato forse avremmo vinto. Chi sa. Ma che vuol dire VINCERE? Uccidere gli
avversari e ritrovarsi con sei mesi di ospedale in cambio? A coltellate si può vincere come in
Italia Germania 4 a 3? Ho paura di no. Dopo mesi di matura riflessione credo che avremmo
perso in ogni caso.

5) Alla fine tutto è bene quel che finisce bene. io sono (puerilmente) fiero di non aver ceduto.
La mia ragazza, tuttavia, non lo è. Dice che preferisce avermi tutto intero con qualche dollaro
in meno che morto. Le ragazze spesso sono più sagge di quel che noi uomini le facciamo!

Il seguente episodio è accaduto il 11/06/2000, sulla v. Emilia in zona di Parma. L'episodio è


accaduto C.F. che era in macchina con la sua ragazza. Ecco il suo racconto:
Come trovarsi un situazione compromettente senza nessun preavviso.
La mia esperienza di inciviltà comincia come può cominciare ogni mattina di un lavoratore
costretto a prendere la propria auto per recarsi al lavoro.
Il fatto scatenante è di una semplicità pressoché disarmante, la manovra azzardata di un
secondo automobilista che mi ha fatto inchiodare e partire qualche insulto tra i denti seguito
da un’alzata di mano a mo di "… ma va a svegliarti altrove….".
Dopo pochi minuti di strada, assorto nella guida e nelle solite chiacchiere, mi sento suonare
alle spalle e vedo dallo specchietto retrovisore un guidatore assorto a sbracciarsi per farmi
accostare al lato della strada.
Il mio primo pensiero è andato al qualche pezzo della mia macchina traballante e quindi a
rischio di staccarsi…ma cosa centrasse il fatto di accostare con me non riuscivo proprio a
capirlo.
Presto detto; i gesti cambiarono quando la sua macchina si accostò alla mia in un’accelerata
improvvisa….mi stava indicando molto esplicitamente, con una mano di taglio passata sotto
la gola, che le sue intenzioni erano altre e non quelle di avvertirmi di un possibile guasto.
Subito le mie viscere ebbero uno sobbalzo per poi restringersi a pugno …un istantaneo
morso di panico seguito dalla reazione di difesa. Ero completamente impreparato
psicologicamente al fatto e la cosa mi aveva spiazzato istantaneamente.
La mia compagna di viaggio fu molto più rapida di me a tirare le somme e a riconoscere la
macchina che pochi minuti prima si era fatta quasi incidentare a causa di una sua manovra
estremamente azzardata(tagliare una corsia controsenso per realizzare un’inversione a U).
Le considerazioni che mi passarono per la testa furono molteplici ed estremamente rapide…

1. Ho altra scelta?
2. Metto a rischio la mia compagna?
3. Fin dove vuole arrivare questo svitato?
4. Dove posso fermare la macchina?
5. Come posso fare ad uscire prima di trovarmi intrappolato nell’abitacolo dal buzzurro di
turno?
6. Sono in grado di difendermi?

Presto detto il comportamento che ho tenuto; siccome alle prime due domande che mi sono
posto ho dovuto dare una risposta affermativa ho tenuto i nervi a freno, ho rallentato
ulteriormente l’andatura del mio autoveicolo, mi sono tenuto ad una distanza che mi
permettesse di scartare anche un’improvvisa chiusura della macchina e mi sono preparato al
peggio con tutta la calma e l’attenzione di cui potevo disporre.
L’accompagnatrice del buzzurro, per fortuna, dimostrò più senso civile e cominciò
(interpretazione dei gesti) ad insultare lei stessa il suo compagno, ottenendo di farlo
allontanare lungo la strada.
Bastò attendere il tempo di qualche battito di ciglia per ritrovarmelo accostato sul bordo della
strada a gesticolare in mia direzione il gesto di rompermi. Fine della storia.
Considerazioni pratiche sull’accaduto. Normali: ma non è mai accaduto che un qualsiasi
individuo si fermi e metta fine a certe cose una volta per tutte queste cose con una sonora
tirata d’orecchie? Straordinarie: che certa gente possa tranquillamente andare in giro per la
strada senza un guinzaglio e un sacchetto di plastica per deporvi gli escrementi. Che in una
mente umana si possa spegnere tutto per così tanto tempo e architettare tutta questa
porcheria senza rendersi conto della sua idiozia.

Verona, Aprile 1996 (pomeriggio).


Mi stavo recando casa dei miei nonni a bordo della mia auto, quando dopo essermi fermato
ad un semaforo rosso sulla corsia di sinistra, decisi di spostarmi su quella parallela (a
destra), che risultava essere libera; dopo aver messo la freccia a destra ed essermi accertato
che nessun mezzo stesse sopravvenendo (tranne un camion che distava ~ 300-400 mt da
me), mi spostai sull'altra corsia in attesa del verde.

Ad un certo punto sentii un colpo di clacson prolungato e guardai Il retrovisore per vedere
cosa fosse successo... Con sorpesa capii che tale "melodia" era indirizzata a me, ma non ci
feci piu' di tanto caso, per evitare inutili discussioni...

Nel frattempo arrivo' il verde e partii tranquillamente, ma il camionista inizio' ad avvicinarsi


pericolosamente al retrotreno della mia auto e continuando a suonare, mi intimo'
bestemmiando di fermarmi e di scendere dalla macchina; chiusi la sicura delle porte e mi
sforzai di stare tranquillo... La situazione duro' ancora qualche minuto quando, a rilento,
procedevamo in fila indiana sul ponte che portava sul Lungadige.

Cercai di mantenere la respirazione "bassa"(avevo da poco iniziato la mia avventura nel


mondo delle arti marziali...)e raccomandandomi a tutti i Santi del Cielo, presi la bottiglia di
vino (destinata ai miei nonni) e la misi sul sedile del lato passeggero deciso ad utilizzarla se
ce ne fosse stato bisogno...
Quando ripartimmo per l'ultima volta, il camionista con una manovra repentina mi sorpasso' e
rientrando di colpo, tento' di chiudermi contro il muro adiacente la strada! Scartai a destra e
frenai, ritrovandomi a pochi cm dal muro e solo per miracolo la ruota del camion non
aggancio' il muso della mia auto!!!!

Non riuscii (visto il traffico), ne' a prendergli il n° di targa ne' ad inseguirlo.

Ancora adesso non riesco a capire i motivi che hanno spinto quel CRETINO a compiere un
atto potenzialmente omicida nei miei confronti, visto che non gli avevo ne' tagliato la strada,
ne' risposto ai suoi insulti; da notare anche l'indifferenza degli altri automobilisti (alla faccia
della solidarieta'....).

Riflessioni sulla difesa personale

Scrivo ancora per ricevere alcuni chiarimenti sul Kali o altre arti marziali simil (Krav Maga,
Jeet Kune Do, Pencak Silat, ecc.) che hanno comunque lo scopo di addestrare alla difesa su
strada. Avendo avuto informazioni di difesa personale e combattimento corpo a corpo da vari
siti, mi sono venuti alcuni dubbi: tutte le arti marziali di difesa personale insegnano, prima
delle tecniche, ad avere un atteggiamento mentale idoneo a qualsiasi situazione di pericolo.
Diciamo che rendono più coraggiosi e di conseguenza più inclini a ragionare in una
situazione in cui una persona comune sarebbe sopraffatta dal panico. Penso che fin qui le
mie osservazioni siano giuste. Ma questo atteggiamento può essere usato in qualsiasi
situazione, ed è il principio più importante da imparare. Sempre riguardo alle mie ricerche ho
letto che il Kali, come ad esempio il Wing Chun, sono arti marziali che usano tecniche
"scorrette", o meglio sleali agli occhi di un praticante di arti marziali ordinarie. Ora, se sono in
una situazione di pericolo, in cui rischio di finire davvero male, al di là delle tecniche che
posso conoscere, sfruttando l'atteggiamento mentale di cui parlavamo prima, potrei usare
una qualsiasi difesa opportunistica legata al fatto che comunque non sono costretto ad usare
metodi "leali". Temo di essere stato poco chiaro, quindi mi voglio spiegare con un esempio:
mi trovo in un bar e scoppia una lite tra me ed un'altra persona. Non posso evitare lo scontro
e l'altro vuole a tutti i costi farmi del male. Prendiamo tre ipotesi:

1. Il mio aggressore è orgoglioso e magari un pò esibizionista, quindi mi invita ad uscire e a


regolare i conti da uomo a uomo, faccia a faccia, in uno scontro frontale. Io lo seguo, ma se
non conosco il combattimento corpo a corpo e lui si, io sono fatto. Magari sono visto come un
coraggioso ma comunque sono fatto.

2. Il mio aggressore si comporta come sopra, ma io sfrutto l'atteggiamento mentale della


difesa personale e, invece di seguirlo fuori lo attacco alle spalle mentre si appresta ad uscire,
magari scagliandogli addosso un qualsiasi oggetto di offesa (bicchiere, posacenere, coltello,
ecc.). Io sono vigliacco e scorretto però anche sano e salvo e sopratutto in salute. Lui invece
è KO.

3. Il mio aggressore non aspetta un istante e mi si scaglia addosso. Io conosco le arti


marziali, magari come il Kali, e sono salvo, magari sempre sfruttando un suo punto debole o
una situazione a me favorevole.

Nella prima ipotesi mi comporto come un vero "guerriero" ma rischia di finire male, nella
seconda non sono troppo corretto però sono salvo, nella terza vinco io, combattendo faccia a
faccia, ma se è vero che le tecniche di difesa personale non sono molto leali è un pò una via
di mezzo tra le prime due ipotesi. Quindi mi chiedo se è necessario comportarsi da "guerrieri"
anche sulla strada, oppure fregarsene e salvarsi la pelle con qualunque mezzo. Suppongo
che nelle filippine i combattimenti di spada o di coltello venissero disputati come tra veri
uomini, faccia a faccia e fino alla morte, però sempre seguendo una sorta di codice
cavalleresco (non attaccare alle spalle, non usare armi se l'altro è disarmato, ecc.). Ma
siccome sulla strada di regole non ce ne dovrebbero essere.....Senza contare il fatto che al
giorno d'oggi con tutto quello con cui si va in giro si è quasi armati fino ai denti.(ES.: se mi
devo difendere su strada ed ho il giusto atteggiamento mentale non ho bisogno nè di
tecniche di nessuna arte marziale nè di muscoli. Mi basta sfruttare questo atteggiamento,
anche un pò opportunista e sleale, ed usare ogni mezzo per vincere. Ad un attacco con un
coltello non sono costretto a difendermi a mani nude; infilo una mano in tasca, estraggo un
cellulare e lo scaglio contro il mio avversario. E anche se è Mike
Tyson, un cellulare in mezzo agli occhi fa molto male....). Concludendo osservo che
comunque tutto dipende dalla situazione in cui ci si trova.

Nicola

P.S.: Resto dell'idea che la migliore difesa sia stare lontano dai guai.

Diego da ROMA, 7/09/2002

Circa tre anni fa (ora ho 22 anni) stavo tornando a casa verso le 19.30 dopo aver passato i
soliti tre quarti d’ora di traffico sul raccordo anulare di Roma a seguito di una giornata di
studio passata all’università a seguire lezioni di una pesantezza unica (mi sembra tra le altre
una esercitazione di economia politica)! Sulla mia via quindi a poche decine di metri da casa
(come Ulisse che dopo un “odissea” di viaggio becca i Proci proprio a Itacha) trovo due
ragazzi sui 17-18 anni che stavano cazzeggiando spingendosi picchiandosi o cose simili
bloccando la strada mentre andavano in motorino…cosi gli suono con decisione finché non
lasciano libera la tanto agognata strada verso la meta! Nel pieno del sorpasso sento un colpo
sordo e forte al lato destro della macchina… “Oddio mio! Vuoi vede che ho fatto secco
uno?!?!” questo fu il mio primo terrorizzato pensiero; al terrore subentrò la rabbia quando
guardando nello specchietto retrovisore vidi che non ero io che avevo preso lui ma lui che
correndomi dietro prendeva a cascate (colpi di casco) la mia macchina! Mi controllai e (forse
anche un po’ intimorito) lo seminai dirigendomi verso casa irridendolo tra me e me “To’ ho
beccato uno degli Hell’s Angels in CIAO!”! Dopo aver parcheggiato proprio sotto casa mia,
sentendo il rumore di motorini in avvicinamento pensai che forse era il caso di scendere con
in tasca il mio manganello estraibile (retrattile? Spagnolo? Non lo so come si chiama è una
sbarretta di acciaio che dentro nasconde due “mollone”una dentro l’altra con un bullone in
cima! Più che un manganello sembra un frustino gigante per capirci!).

Sono in piedi accanto alla macchina con la mano destra in tasca, dentro di me una voce dice
“non aver paura, vedrai che tirano dritto, stai calmo… comunque se si fermano non fare
cazzate” l’altra figlia della rabbia repressa di pochi secondi prima “se se fermano infilagli il
casco su per dove non batte il sole!”. Il mio dilemma amletico venne risolto dal ragazzo a tutti
noto come “colui che colpisce col casco le macchine altrui” il quale arrivato infuriato come
solo un imbecille può essere, frena, butta il motorino per terra e senza dire una parola
tenendo il casco con la mano sinistra tenta di darmi, con questo, un marrovescio (in maniera
molto sgraziata) in pieno volto! Per fortuna anche lui, come me, non doveva essere molto
esperto di arti marziali (sicuramente col tempo diventerà un campione in guerriglia urbana e
assalti a mano armata in curva NORD) infatti per caricare il colpo, con quello che presumo
fosse il suo braccio debole, fece un ampio gesto portando la mano col casco fin dietro la
testa e non fu affatto difficile bloccare il colpo a mezza via serrandogli il polso con la mia
mano snistra (intanto l’altro ragazzo tentennante guardava la scena mentre scendeva dal
motorino)! Magicamente la mano era uscita dalla tasca, il manganello si era aperto, il
simpatico buffoncello era un bersaglio perfetto iniziai a colpirlo come un matto sulla schiena
sul collo e sulla mano destra con la quale per fortuna si parava la nuca; mi vergogno un po’
della mia reazione, che anche se dettata dalla legittima difesa forse è stata un po’ esagerata
(non “proporzionata all’offesa, presente o temuta,” come si dice in gergo) ma chi può dire
cosa sarebbe successo se non avessi reagito? Citando un detto di antica saggezza e
sconfinando un po’ nel banale “meglio un brutto processo che un bel funerale”! Comunque in
quel momento il mio corpo fino un secondo prima stanco schizzava vigore da tutti i pori, la
rabbia mi faceva lacrimare gli occhi pulsare le tempie e il mio braccio colpiva da solo e
cercava i punti più esposti e non certo i più letali! Ritorniamo al fatto: ero li che pestavo come
un contadino ubriaco che pigia l’uva dopo la vendemmia (fuor di metafora in tutto non gli avrò
dato più di quattro cinque colpi) che il secondo burinozzo, forse spaventato, decide di
intervenire e lo fa in maniera, per mia fortuna, indecisa e frettolosa; inizia, infatti, a colpirmi in
piena fronte (o almeno, io, avendo le mani occupate cercavo di prestare istintivamente la
fronte, parte meno vulnerabile del viso, ai suoi colpi) anche lui usando il casco a mo di
mazza… e c’è chi dice che portare il casco salva la vita… per mia fortuna questo,
sicuramente meno imbecille del primo, non impugnava il casco ma me lo faceva piovere
sulla zucca tenendolo per i lacci. Ci sono voluti tre colpi (almeno tre erano i bernoccoli che di
li a poco si sarebbero formati) perché io lasciassi la presa e smettessi di tempestare il primo,
che un secondo dopo già era a cavallo del motorino e cosi fece immediatamente il suo
degno compare! Rimasi li a guardarli andarsene poi mi sedei sugli scalini di casa piangendo
non per il dolore ma per la rabbia che ancora non riuscivo a controllare!

Morale della storia? Non so! Forse che una tranquilla giornata di stress cittadino può
trasformare chiunque in un killer improvvisato assetato di sangue! Oppure che in una
situazione di scontro fisico più che la forza o la tecnica conta la rabbia, la decisione, la
freddezza! Che chi prende il primo colpo, se lo prende bene e lo sente bene, difficilmente poi
rischia di prenderne altri e preferisce battere in ritirata! Che le cicatrici, si sono belle, ma
stanno meglio sugli altri! Che i bulli altro non sono che vigliacchi che si fanno forza sul
numero e si nascondono dietro un atteggiamento da duri! Non so quale sia la morale di
questo mio “giorno di ordinaria follia”, ammesso che una morale ci sia veramente posso solo
dire che il tutto durò pochi secondi ma fu uno dei pochi momenti in cui mi sono sentito
veramente vivo fino in fondo!

Dimenticavo… ho fin da piccolo avuto la passione delle armi (da bambino compravo
temperini piccolissimi che portavo sempre in tasca) ora ho il porto d’armi, la mia passione
continua e cresce, nel rispetto della legge e delle liberta altrui, anche se ostacolata e
derisa… ebbene proprio un’arma, una di quelle cose tanto odiate e disprezzate, per tanti
(non voglio entrare in merito alle idee politiche, intendete il mio tanti come generico)
sinonimo di sopruso e violenza, proprio un arma… mi ha permesso di uscire da una
situazione di violenza e sopruso che altrimenti avrei dovuto subire, e per una volta, almeno
una, ha fatto pendere la bilancia dalla parte del più debole, della persona onesta che i guai
non li cerca e non li crea!

Un altro caso

Io e un mio amico di ritorno da una serata al centro e precisamente nella zona della piazza
della citta' vecchia (la piazza dell'orologio) stiamo attraversando una delle stradine adiacenti
il centro.

Stiamo camminando ed io come al solito tengo "le antenne" ben dritte.Ad un certo punto
veniamo fermati da un omino Brasiliano con un mappa della citta' in mano.

Prodigo di sorrisi ci chiede dove si trova un fantomatico "Hotel Austrian" cercando di


indicarmi la posizione sulla cartina.Io rispondo di non conoscerlo ,ma lui insiste e mi invita
calorosamente a fare un lavoro di ricerca sulla cartina.Per gentilezza io inizio a consultare la
cartina ma con quel senso di pericolo imminente che mi martella.

Il mio amico sta li di fianco sereno guardando quanto e' bello il vicolo in cui ci troviamo.Ad un
certo punto vedo passare con la coda dell'occhio due tipi in giacca e cravatta ma dall'aria un
po' losca.Ci superano di qualche metro e poi tornano indietro.

Si avvicinano al tizio che ha chiesto l'informazione chiedendogli il passaporto che lui estrae
immediatamente. Dopodiche bofonchiano qualcosa tra di loro gli mettono le mani addosso e
tirano fuori dalle sue tasche un pacchetto di polvere bianca urlando "cocainum" o qualcosa
del genere.

Ed eccoci ...si girano verso di noi urlando e tirando fuori un tesserino dove il tizio a cura di
coprire con il dito la scritta in alto...la cosa inizia a puzzare.Le urla continuano intimandoci di
estrarre il passaporto e facendo capire che sono poliziotti.

A quel punto inizio a gridare piu' forte di loro dicendo in inglese che voglio un agente di
polizia in divisa e urlo rabbioso allontanandomi e trascinando il mio amico "dormiente".

Sulla loro faccia compare un espressione allibita ,mollano l'osso e mentre usciamo dal vicolo
incrociamo due loro compari appostati.Noi correndo ci allontaniamo e filiamo a prendere la
metropolitana.INDENNI per fortuna.
Ecco quello che posso dire sulla vicenda e che forse grazie ad essere riuscito a mantenere
la freddezza , analizzando la situazione in tutte le sfumature(vedi dito sul tesserino) e
reagendo inaspettatamente cioe' urlando e mostrandomi deciso sono riuscito a non essere
almeno derubato con il mio amico (che continuava a non capire cosa stesse succedendo(la
famosa condizione BIANCA)).

Dal Trauma alla Performance. Micropsicoanalisi e prestazione sportiva

Questo mio intervento ha come oggetto l’ambito sportivo in senso proprio e l’atleta, cioè chi
pratica uno sport individuale o collettivo a livello agonistico, e come obiettivo il significato
della prestazione e il suo miglioramento.

Dato che l’ottica e il metodo sono quelli psicoanalitici, tutto l’impianto si discosta da quello più
propriamente e tradizionalmente psicologico sportivo, anche se cerca di integrarne taluni
apporti essenziali.

È bene dire subito che in Italia, a differenza di altri paesi, la psicologia dello sport è ancora
intesa per lo più, nonostante i notevoli cambiamenti degli ultimi dieci anni e fatta eccezione
per taluni ambiti oserei dire pionieristici, come strumento di intervento diagnostico e/o
psicoterapeutico, e la presenza dello psicologo in una équipe o presso un atleta è vista come
eventuale supporto o come tentativo di rimedio di una situazione "critica", non certo o non
ancora come fattore di formazione e di miglioramento prestazionale, quindi in termini di
sinergia con il ruolo dell’allenatore, del medico, del farmacologo, del dietologo, del
massoterapista, ecc.

Di fatto, per quanto riguarda lo sportivo, l’asse rimane sbilanciato sul polo somatico proprio
perché su questo verte la sua attività e dunque la sua preparazione fondamentale, mentre il
polo psichico finisce per diventare o l’elemento di intralcio, sorta di anello debole del corpo
dell’atleta, o di affinamento della sua potenza e abilità fisiche; in ogni caso una specie di
organo accessorio, collegato sì al motore principale ma non essenziale per il suo
funzionamento. Rimane dunque una scollatura tra preparazione fisica e preparazione
mentale, tra lavoro dello psicologo e lavoro dell’allenatore, che non fa che riproporre la
vecchia dicotomia tra psiche e soma, nonostante che, soprattutto da parte della psicologia
dello sport più avanzata, quella intendo aperta alle neuroscienze e al costruttivismo, si cerchi
di ricomporre in unità i due poli separati in un’ottica autenticamente psicosomatica e a
indiscutibile beneficio dello sport e della prestazione.

Anche quando l’ambiente sportivo richiede l’intervento psicologico, in realtà la sua richiesta è
di una pillola psicologica, dagli effetti immediati o nel più breve tempo possibile, concentrata
al massimo per via degli impegni agonistici che ormai invadono tutto l’arco dell’anno e mirata
unicamente al risultato. Di qui la richiesta, soprattutto di tecniche, brevi e facilmente
asssimilabili dall’atleta, da impiegare anche nello spazio ristretto del pregara. Una linea di
tendenza questa che non vale solo per lo sport ma per tutti gli ambiti di espressione
dell’uomo oggi, tempo in cui tutto si brucia nell’istante e guarda alla produttività immediata.

1. Psicoanalisi e sport.

È ovvio che, date queste premesse, un metodo e un’ottica come quelli psicoanalitici
sembrano essere assai poco praticabili in campo sportivo. L’intervento dello psicoanalista è
richiesto eventualmente quando ci sono crolli vistosi e di chiara matrice psicologica
nell’atleta. Anche in questi casi comunque lo spazio concesso al lavoro è sempre molto
ristretto, quindi forzatamente limitato alla psicoterapia o, nella migliore delle ipotesi, all’analisi
focale. La possibilità di un’osservazione profonda in un atleta è pertanto estremamente rara;
generalmente è piuttosto in individui che praticano lo sport, se non proprio marginalmente,
quantomeno come attività secondaria, che tale investigazione è possibile; occorre però
tenere presente che costoro si rivolgono all’analista non per problemi attinenti questa attività
ma per sofferenze o disturbi d’altro tipo. Le rare eccezioni di atleti che, magari
successivamente ad una psicoterapia breve, decidono di continuare il lavoro in senso più
propriamente analitico e di proseguire parallelamente l’attività sportiva primaria costituiscono
casi particolari, nel senso che rivelano una disposizione interna all’analisi, e dunque un
desiderio di cambiamento radicale del loro assetto globale. Cambiamento naturalmente non
vuol dire abbandono dello sport, ma un nuovo modo e più proficuo di esercitarlo, anche se
non è esclusa l’ipotesi che questo interesse diminuisca, si trasformi o venga addirittura
meno. Questi soggetti comunque permettono, con uno strumento analitico adeguato, di
osservare e seguire fin nei nuclei più profondi il formarsi e l’assestarsi della passione e della
pratica sportive come forme privilegiate di espressione del loro mondo interno.

La micropiscoanalisi da questo punto di vista si rivela uno strumento ideale per


l’investigazione dell’ambito sportivo in tutte le sue componenti, umane e situazionali, a causa
della sua duttilità, dei suoi supporti tecnici e soprattutto del suo modello energetico &emdash;
integrato con i punti di vista strutturale e dinamico freudiani - che ricompone in unità polo
psichico e polo somatico dell’uomo, riformulando in modo scientifico la psicosomatica e
rendendo perfettamente conto dei processi fini che intessono l’evoluzione dal primario al
secondario e l’interrelazione tra psiche e soma. Inoltre permette, anzi in certo qual modo
costringe, ad andare al di là dell’individuo ed abbracciare l’intera storia umana in cui per
tappe successive si sono elaborate, cristallizzate e fissate le forme e i setting dell’agire
sportivo collettivo, nelle quali si riversano come in stampi preconfezionati e sulle quali si
intrecciano le vicende individuali.

2. Prototraumi e sublimazione dell’aggressività.

Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto l’indagine micropsicoanalitica consente di scoprire e


ricostruire per messe in serie associative le fasi di formazione ed evoluzione della forma
sportiva a partire dalle origini mitico-rituali e sacrali-sacrificali degli elementi che la
compongono fino alle loro risultanze finali nello sport moderno; una evoluzione che vede il
passaggio progressivo da un trauma-dramma cosmico o precosmico o cosmogonico
duplicato e reiterato nel rito, ad un trauma-morte umano (la morte dell’eroe) perlaborato
come lutto nei giochi agonistici e gladiatori, ad un trauma interno neutralizzato o sublimato
nello sport attuale. In altre parole, un’evoluzione nel senso di una codificazione e
sottomissione a regole sempre più vincolanti di impulsi aggressivi all’origine estremamente
violenti e disgreganti. Tali impulsi, connessi con quell’attività primaria che è l’aggressività e
attivati da un trauma originario, in un primo tempo sono proiettati su uno scenario cosmico e
rappresentati per mimesi nel territorio del sacro con un vincolamento al codice rituale e
normativo che al sacro pertiene; in un secondo tempo sono desacralizzati, identificati e
giocati sullo scenario umano in connessione con immagini di separazione e perdita, quindi
agiti nell’ambito dei riti funerari e iscritti in quel complesso lavoro di elaborazione del lutto che
vede attivarsi in modo privilegiato i processi di identificazione e idealizzazione.

In un terzo tempo si sganciano anche dal contesto funerario e si legano alla dimensione della
festa e dell’esaltazione di capacità prettamente umane. A questo punto il trauma originario,
internalizzato e apparentemente scomparso o disattivato, in realtà rimosso specie nelle sue
componenti rappresentazionali, può diventare motore prestazionale in individui che per il loro
terreno e per i loro vissuti interiorizzati sono predisposti all’esternalizzazione sportiva.

Se questa è l’evoluzione storica e dinamica globalmente considerata nei suoi tempi


principali, il processo evolutivo concreto è più complesso e vede attivarsi congiuntamente,
sia pure con diversi gradi di intensità in ogni tempo forte i meccanismi di proiezione,
identificazione e rimozione; l’andamento generale è comunque quello di una progressiva
desaggressivizzazione degli impulsi aggressivi, quindi di sublimazione dell’aggressività.

Tale processo di sublimazione implica, oltre al cambiamento degli oggetti-meta delle pulsioni
aggressive mediante loro sostituzione con oggetti-meta socialmente accettati, un altrettanto
complesso lavoro di metabolizzazione di quel trauma che fin dalle origini sta alla base della
forma sportiva e che poi altro non è che una manifestazione di squilibrio o di rottura in
relazione a un conflitto fondamentale determinato da incompatibilità strutturali. È proprio del
mito mettere in scena questi antagonismi originari per padroneggiarli e eventualmente
risolverli, come è proprio del rito trasporli nell’agito secondo forme, modi e sequenze ordinate
che ne regolano i dinamismi interferenti e contrastanti.

La forma sportiva e il suo setting, che a loro volta sono costituiti da elementi appartenenti al
medesimo nucleo conflittuale aggressivo quale si esprime all’interno di essi, conservano una
relativa stabilità nel corso del tempo, per non dire una rigidità di tipo superegoico, in quanto
rappresentano il limite che circoscrive lo spazio dell’agire sublimato e regolato, separandolo
da quell’altro spazio in cui tutti i processi sono più liberi e l’aggressività si esplica nelle forme
più dirette o mascherate, nevrotiche o perverse.

Luoghi del tabù, forma e setting segnano il limite invalicabile, se non per gli addetti ai lavori e
dietro precisi rituali purificatori, tra il sacro e il profano, tra il puro e l’impuro; nelle attestazioni
più arcaiche sono spesso rappresentati dalla figura del serpente che si morde la coda
(Ouroboros, Apophis, Pitone e derivati, ecc.), figura inodore/puzzolente, secondo l’opinione
antica, che porta iscritto nella sua stessa natura ambigua il segno dell’ambivalenza e della
contraddittorietà e cui sono ascritte nelle diverse culture azioni, funzioni e significati simbolici
molteplici, spesso diametralmente opposti e riassumibili nella parola greca pharmakon, cioè
veleno e rimedio. Anche l’atleta/eroe/solutor d’enigmi Edipo è chiamato da Sofocle
pharmakon, in quanto artefice di felicità e di sventura, limite tra umano e superumano,
conosciuto e sconosciuto, personificazione di norma e trasgressione.

La palestra, lo stadio, il circuito, il ring, ecc. sono forme chiuse di analogo significato,
entrando nelle quali se ne assumono le valenze strutturali e dinamiche, quindi con
mobilitazione di sentimenti e pensieri che entrano in risonanza con immagini e vissuti
profondi. Ovviamente questo non vale per tutti ma sicuramente per chi porta nella sua
eredità psichica o nelle esperienze interiorizzate della sua ontogenesi il ricordo di tali forme e
le impressioni del lavoro avvenuto al loro interno.

3.L’organizzazione psicobiologica dell’atleta e la sua dinamica.

Venendo dunque all’atleta attuale, questi si trova inserito nella forma assunta dallo sport
moderno, forma ormai decisamente sganciata dalle sue origini sacrali e divenuta il luogo
dell’espressione corporea e della competizione al massimo grado.

Anche in questa nuova dimensione l’evoluzione è stata nel senso di un vincolamento sempre
più stringente a regole precisamente definite e di una neutralizzazione sempre più spinta
degli impulsi violenti e disgreganti. Ha proseguito quindi la tendenza alla deviazione
dell’aggressività verso la sua sublimazione. Il costante invito al fair play di questi ultimi anni
ne è la più evidente illustrazione, anche se nella sua reiterata invocazione denuncia un
ritorno proprio di quegli elementi che la linea di tendenza cercava di escludere o di
neutralizzare. D’altronde il processo di sublimazione non è mai concluso, in quanto processo
dinamico che, sotto la spinta delle componenti strutturali dell’aggressività, continuamente si
elabora e si rimodella a contatto con l’ambiente esterno e/o per interni spostamenti di
investimenti e scambi di informazioni.

A questo proposito, due considerazioni possono essere fatte dal punto di vista psicosociale:
1. la tendenza a desaggressivizzare sta interessando tutti gli ambiti dell’espressione umana,
con conseguente stasi energetica e rinforzo della rimozione delle rappresentazioni e affetti
specifici dell’aggressività. Di qui l’incremento delle risultanze nevrotiche, psicosomatiche e
perverse. 2. In ambito sportivo la tendenza alla trasgressione delle regole, la pratica
dilagante del doping e la ricerca di ogni mezzo per imporsi a qualunque costo, anche a
seguito della pesante intromissione di interessi commerciali e finanziari, fanno aumentare il
rischio nei tempi lunghi per lo sport stesso, oltre che beninteso per la salute e la longevità
atletiche degli sportivi.

Ma ritornando al punto di vista psicodinamico, l’atleta per sua costituzione psicobiologica si


esprime in modo privilegiato con e attraverso il corpo: il corpo diventa il teatro in cui si
rappresentano tutti i suoi vissuti, e questi si estrinsecano nella forma primordiale dell’azione,
cioè attraverso l’attività motoria. In che modo ciò avvenga e come sia possibile, la
metapsicologia micropsicoanalitica lo spiega in base al denominatore comune energetico
che lega alla radice e nell’identità di essenza lo psichico e il biologico: entrambi cioè sono
strutturati energeticamente in organizzazioni di complessità crescente e sono in interazione
permanente, accumulando e trasferendo dall’uno all’altro polo informazioni ed energia. Così
lo psichismo inconscio è descritto in termini di livelli di organizzazione energetica che
contengono la memoria di esperienze e vissuti aggressivo-sessuali, onto- e filogenetici
interiorizzati e che, quando si riattivano, si caricano producendo spinte pulsionali la cui
funzione è di scaricarli. Nel processo di carica-scarica si operano movimenti energetici e
modificazioni di sistema che interessano l’intero apparato psicosomatico, con interscambi di
informazioni tra mente e corpo e mobilitazioni della motricità dell’una e/o dell’altro. Il tutto allo
scopo di riequilibrare l’organismo psicobiologico.

4. Dalla fusione alla transizionalità.

Tornando allora all’atleta, possiamo dire che il corpo è la via preferenziale di scarica delle
tensioni ed è sul corpo che sono veicolate le informazioni contenute nelle entità psichiche.
L’inconscio cerca così di manifestarsi nel corporeo mediante una dinamica che poggia sui
diversi livelli di strutturazione energetica propri del biologico (molecole, cellule, tessuti,
organi, apparati, sistemi). Il perché di questa via preferenziale può essere spiegato, oltre che
dal terreno del soggetto, proprio dai tipi di vissuti interiorizzati e dalla dominanza aggressiva
di questi stessi. Nuclei rappresentazionali-affettivi a forte componente destrutturante e
disaggregante, che rischiano di far esplodere o implodere l’unità psicobiologica, pongono
l’organismo in stato di sovraccarica, quindi di estrema tensione e di allerta che può attivare la
motricità corporea innescando comportamenti primordiali di attacco/fuga, istinti e bisogni più
direttamente legati alla sopravvivenza. Il livello di attivazione (arousal) di base sembra
essere più elevato negli atleti e sbilanciato verso il polo dell’agitazione o della frenesia, con
una tendenza all’ansia somatica piuttosto che a quella cognitiva. I forti nuclei aggressivi si
ripercuotono sugli stadi di sviluppo ontogenetico producendo vissuti a intensa coloritura
conflittuale ed esaltando in modo particolare le pulsioni sadiche e di appropriazione.

Ma particolarmente importanti al fine di un destino atletico risultano essere alcune fasi di


transizione estremamente delicate: anzitutto quella tra il periodo fusionale e quello
defusionale, in cui l’abbarbicamento del bambino alla madre nell’indistinzione proprio del
primo periodo, con circolazione e scambi informativi tra l’uno e l’altra, può prolungarsi,
fissarsi o violentemente interrompersi esacerbando vissuti di abbandono e di rivendicazione,
attivando pulsioni di rigetto e di distruzione cannibalica mescolate con pulsioni di
annichilamento e mobilitando una continua rincorsa al ripristino della situazione precedente
perduta. Si pensi solo, ad esempio, alla coazione a correre o ad allenarsi in modo ossessivo
in taluni atleti, coazione che è come una spinta irrefrenabile verso una meta sconosciuta e
che sempre si sottrae, costringendo così la spinta medesima a cortocircuitarsi sul corpo
stesso del soggetto divenuto oggetto-meta di essa. L’investimento sul proprio corpo di tali
pulsioni nel loro impasto con le corrispettive sessuali può diventare in tal caso l’equivalente di
un investimento narcisistico sul corpo della madre, favorendo legami di tipo simbiotico e
sospingendo lo psichico verso il corporeo, anzi l’epidermico, come luogo di rifusione. Forse è
proprio qui che si forma la disposizione alla somatizzazione.

Altra fase estremamente importante, soprattutto ai fini della sublimazione dell’aggressività, è


quella delineata da Winnicott e denominata "fase transizionale"; durante questa il bambino,
se aiutato da una madre sufficientemente buona, riesce attraverso la sua creatività a riparare
quanto è stato danneggiato dalle pulsioni aggressive, e lo fa costruendosi un oggetto
intermedio che sta tra il sé e il non sé, corpo esterno che è prolungamento di sé. In realtà
questa fase si riempie di realtà e fenomeni transizionali che costituiscono come un mondo di
mezzo, tra realtà e immaginazione, in cui avvengono scambi di informazioni, percezioni,
esperienze tra mondo interno e mondo esterno, dove si stabiliscono connessioni e
corrispondenze in un movimento oscillante di proiezioni, identificazioni e introiezioni in
assoluta libertà, che esaltano la capacità creativa del bambino e lo predispongono alle
realizzazioni artistiche, religiose, magiche… sportive.

5. La prestazione e il suo miglioramento.

Giungendo al punto finale del mio intervento,e cioè alla prestazione sportiva, è chiaro dalle
premesse che questa la si raggiunge quando la sublimazione dell’aggressività è stabilmente
raggiunta e riuscita, integrandosi con la sessualità e ponendosi con questa al servizio dell’io
e delle istanze ideali. Il massimo della prestazione si ha in quella che viene chiamata peak
experience o più semplicemente momento magico: in tale momento il gesto sportivo fluisce
naturalmente quasi a prescindere dalla coscienza che il soggetto ha di compierlo; il gesto in
certo senso si fa da sé e l’atleta è tutto nel gesto, è il gesto o vede se stesso compierlo come
se fosse un altro, in una contemplazione quasi ipnotica da cui sono assenti fatica, impegno,
concentrazione sulle abilità acquisite, strategie. Si potrebbe quasi dire che il soggetto si fa
tutto corpo e il corpo si sublima nel mentale, ritrovando la comune origine energetica, con i
giusti stimoli, cioè con la libera circolazione delle informazioni tra la mente e il corpo ed una
perfetta cibernetica psicobiologica.

Ovviamente questo tipo di risultato è un punto di arrivo, la conclusione di un lungo lavoro


preparatorio compiuto sul corpo e sulla mente. Una volta tale lavoro lo si faceva
esclusivamente sul corpo; ora ci si è resi conto che lavorando sulla mente, proprio per la
cibernetica psicobiologica si producono effetti importanti nel corpo, nel senso addirittura di un
suo allenamento fisico. D’altronde, se si pensa che un sogno può indurre un
sovraffaticamento fisico o viceversa un’attivazione di forze insospettabili, si può capire che
una preparazione mentale mirata possa avere sensibili effetti sul gesto atletico.

Naturalmente occorre rendersi conto di come si producono questi risultati, per affinarne le
tecniche. Ritengo da questo punto di vista che il modello micropsicoanalitico possa essere
un ottimo strumento di lettura e di decodificazione delle interrelazioni psicosomatiche, così
come sia in grado di situare con relativa precisione i diversi livelli di organizzazione, di
scambio e di traslazione tra psichico e somatico con le relative trasformazioni strutturali e
dinamiche quali sopravvengono nei diversi sistemi psichici.

Chiarisce altresì che, se le stimolazioni-induzioni esterne, cioè provenienti dall’ambiente o


dal corpo, hanno effetti sullo psichismo, quest’ultimo, data la maggiore plasticità della sua
organizzazione, è la sede principe della elaborazione e trasformazione dei processi
psicosomatici. D’altronde è nell’inconscio che si strutturano le unità informative di base che
circoleranno negli strati superiori e nel corpo.

Ma la metodica micropsicoanalitica, sotto qualunque forma sia praticata (come psicoterapia


breve nel suo setting proprio o "sul campo", come counseling, come analisi focale, ecc.), è
certamente uno strumento eccellente per il miglioramento della prestazione. Prima di tutto
quando il processo di sublimazione è riuscito solo parzialmente e rischia, sotto la pressione
di impulsi disgreganti, di fallire o di deviare in esteriorizzazioni inadeguate; in secondo luogo
come intervento focale su disturbi soprattutto di ordine psicosomatico che possono intralciare
o arrestare temporaneamente e più o meno gravemente la pratica sportiva; infine integrare in
un piano di preparazione mentale a lungo o medio termine tecniche di visualizzazione o di
rilassamento con taluni supporti tecnici che le sono propri, quali lo studio delle fotografie
&emdash; specie quelle relative all’attività sportiva -, dell’albero genealogico e delle
registrazioni di colloqui e sedute. Ma al di là di tutto ciò l’elemento forte dell’efficacia in
ambito sportivo è il particolare atteggiamento che il micropsicoanalista dimostra, come
risultante della sua formazione, in qualunque situazione si trovi a vivere, operare e
relazionare; quindi la sua modalità di presenza e di ascolto, oltre che l’attenzione al materiale
che casualmente o espressamente gli viene offerto.

La Psicologia del Corpo applicata allo Sport e all'Arte Marziale

Negli ultimi anni, il mondo dello sport (discipline sportive e marziali) ha trovato ampia
possibilità di diffusione e rinnovato interesse da parte del gran pubblico. Tutto ciò grazie ad
una gigantesca operazione commerciale che ha invaso anche il mondo sportivo,
inglobandolo nel "grande business". Detta evoluzione ha orientato l'attenzione degli istruttori
e degli allievi al conseguimento del "risultato ad ogni costo", lasciando in secondo piano
l'importanza del percorso formativo globale ed individuale degli atleti.

In questo "grande business", anche i principi teorici e d'intervento della formazione sportiva
ha subito un'evoluzione; si è preferito puntare sul "risultato ad ogni costo" come trampolino di
lancio per il mondo commerciale, piuttosto che dedicarsi alla crescita ed allo sviluppo
psicofisiologico dei propri atleti.Ovviamente l'eccellenza tecnica e la preparazione atletica
sono state considerate per lungo tempo elementi fondamentali nel quadro del rendimento
generale. Ottenuto ciò però, tra due atleti che hanno lo stesso livello di preparazione, colui
che dimostrerà una migliore preparazione psicologica, avrà sicuramente più probabilità di
vittoria. Tutto ciò fino ad ora, è stato lasciato alla fortuna personale del singolo atleta.
La psicologia dello sport, a partire dagli anni '50, ha studiato la possibilità di ottimizzare il
rendimento degli atleti utilizzando la metodologia di H. Selye basata sull'analisi di "stimoli e
risposte".
Nell'ultimo decennio la psicologia dello sport si è evoluta dal modello di partenza,
promuovendo un allenamento psicologico dell'atleta che ha consentito un'impennata delle
prestazioni in molte discipline sportive.
Questo tipo d'allenamento psicologico, seppur funzionale per certi aspetti, rivela però un
grosso limite:
lavora sulla mente, ma continua a mantenerla com'entità scissa dal corpo, perpetuando così
l'atavica scissione tra corpo e mente.

La scissione mente-corpo che caratterizza i modelli d'intervento psicologico nello sport, sino
ad ora utilizzati, si evidenzia nei seguenti fattori:

1) LINGUAGGIO VERBALE
L'allenamento psicologico è realizzato utilizzando un linguaggio esclusivamente verbale e
basandosi su strumenti teorici, che il più delle volte rimangono incomprensibili ed intraducibili
per l'atleta, capace soprattutto di comprendere un linguaggio corporeo.

2) LUOGO D'ATTUAZIONE e CONOSCENZA ESPERENZIALE DELLO PSICOLOGO.


L'allenamento psicologico è attuato ben lontano dai campi d'allenamento, rimanendo così
scisso dalla realtà dell'atleta e dal lavoro dell'allenatore tecnico. L'esperto in psicologia,
solitamente conosce solo la propria materia, ma non ha esperienza dei vissuti psicocorporei
dell'attività motoria di cui tratta.

3) LAVORO SULLE EMOZIONI


L'allenamento psicologico è sprovvisto di tecniche d'intervento capaci di agire sulla sfera
emotiva dell'atleta, al fine di consentirgli di gestire al meglio l'incalzante tensione indotta
dall'allenamento ed il potente stress da gara.

4) APPLICAZIONE DELL'ALLENAMENTO AI DIVERSI TIPI D'ATLETI


L'allenamento psicologico è utilizzato solo con atleti agonisti, escludendo così tutti i praticanti
amatoriali, dalla possibilità di usufruirne i benefici.

Analisi Bioenergetica e l'


attività sportiva e marziale:

L'Analisi Bioenergetica, tecnica psicoterapeutica che combina la terapia corporea con la


psicoterapia verbale, sin dai suoi albori è stata utilizzata, non solo come tecnica
psicoterapeutica, ma anche come supporto con il quale ottenere una migliore integrazione
psicofisica da tutti coloro i quali utilizzano il proprio corpo come strumento di lavoro. Sin dai
suoi albori nei primi decenni del 1900, l'Analisi Bioenergetica, prima in America e poi in
Europa, fu adottata dal mondo dello spettacolo e della danza. Attori e ballerini, infatti,
sollecitati dalle correnti culturali dell'epoca, che restituivano al loro lavoro sulla scena la
completezza di una espressione, non più meccanica e recitata, ma piuttosto arricchita dalla
piena integrazione tra la gestualità del loro corpo e l'espressione veritiera delle loro emozioni,
hanno potuto allenare detta integrazione psicofisica grazie all'uso degli esercizi dell'Analisi
Bioenergetica.
Questo lavoro pionieristico è stato elaborato e realizzato da Ellen Green, psicoterapeuta
d'Analisi Bioenergetica tanto sensibile quanto tenace, che per prima ha portato l'Analisi
Bioenergetica fuori dalle stanze di terapia dando modo, a tutti coloro i quali usano il proprio
corpo come strumento di lavoro, di usufruire dei benefici psicofisici promossi dagli interventi
dell'Analisi Bioenergetica nei diversi settori dell'attività motoria ed espressiva.
Oggi, all'interno del Settore di psicologia dello sport dell'IIFAB, sulle basi di tale lavoro
pionieristico, recuperato ed ampliato negli ultimi anni con un costante lavoro di ricerca sul
campo (sia sportivo sia psicoterapeutico) dalla Dott.ssa Distefano (atleta, istruttore d'arti
marziali, psicologo dello sport e psicoterapeuta d'Analisi Bioenergetica), è stato messo
appunto un "Modello psicocorporeo d'intervento e d'allenamento nelle attività sportive e
marziali". Detto modello, a differenza dai precedenti non è più solo d'intervento per casi
specifici, ma è utilizzabile anche come metodo d'allenamento generale psicocorporeo
adattabile alla formazione d'ogni attività motoria.

Concetti teorici di base e strumenti d'intervento

L'attività di ricerca, realizzata negli ultimi anni all'interno del Settore di psicologia dello sport
dell'IIFAB, tesa ad individuare, grazie all'ausilio dell'Analisi Bioenergetica, le componenti
psicosomatiche che caratterizzano le diverse discipline sportive, si concretizza oggi in un
innovativo modello d'intervento psicologico, funzionale sia nella pratica sia nella formazione
all'attività motoria.

Questo modello, tenendo conto delle qualità ed i limiti di quelli precedenti utilizzati nel mondo
della psicologia dello sport, va a colmarne le carenze ed ampliarne le potenzialità,
avvalendosi dei sistemi integrati di lavoro sul corpo e sulla mente dell'Analisi Bioenergetica.

L'integrazione mente-corpo che caratterizza il modello d'intervento psicocorporeo nello sport,


si realizza nei seguenti fattori:

1) LINGUAGGIO PSICOCORPOREO

La novità che caratterizza questo modello, sta nel fatto che la metodologia utilizzata,
piuttosto che attuarsi con strumenti teorico-verbali, è stata elaborata e si realizza sui principi
psicosomatici di base dell'attività motoria.

Questa è la grande novità! Abbandonando l'antica scissione mente corpo, ci si avvale di uno
strumento d'intervento che integra questi fattori in una risoluzione più completa e funzionale.

Un allenamento psicologico che non rimane astratto ed intangibile, ma si pratica con il


"corpo", seguendo i principi chiave della pratica sportiva e marziale. E' per questo che lo
chiameremo "Allenamento psicocorporeo".

2) LUOGO D'ATTUAZIONE e CONOSCENZA ESPERENZIALE DELLO PSICOLOGO.

L'allenamento psicocorporeo si realizza grazie alla collaborazione tra il lavoro dell'istruttore e


quello dello psicologo specializzato, che interviene lavorando direttamente sui campi
d'allenamento. Lo specialista in psicologia, secondo questo modello, è previsto che abbia
esperienza personale della pratica motoria trattata e della tipologia d'allenamento eseguito
dagli atleti.

3) LAVORO SULLE EMOZIONI


L'allenamento psicocorporeo, basato sulla teoria dell'Analisi Bioenergetica ed utilizzandone
gli strumenti, ha ampia possibilità di lavorare direttamente sul vissuto emotivo dell'atleta. Gli
strumenti dell'Analisi Bioenergetica consentono di riutilizzare in positivo le doti psicofisiche
dell'atleta ed agevolarne il processo energetico canalizzandolo nell'azione atletica.

4) APPLICAZIONE DELL'ALLENAMENTO AI DIVERSI TIPI D'ATLETI

L'allenamento psicocorporeo prevede la possibilità di essere adattato non solo con atleti
agonisti per il conseguimento di un risultato competitivo, ma anche di essere inserito
nell'ampio processo di crescita dell'atleta amatoriale. Tutti gli allievi, infatti,
indipendentemente dal livello di competenza e dalle motivazioni ed aspirazioni che li hanno
avvicinati alle arti marziali, possono, con l'allenamento psicocorporeo, migliorare le proprie
qualità psicologiche e le proprie prestazioni fisiche.

Struttura del Modello

La strutturazione del modello psicocorporeo si basa su tre livelli.

1° livello

Avendo in primo luogo analizzato i parametri psicosomatici che caratterizzano l'attività


sportiva e marziale, utilizzando come griglia di lettura l'Analisi Bioenergetica, abbiamo
individuato nel linguaggio psicocorporeo un funzionale punto d'incontro tra le due arti.

Il linguaggio psicocorporeo dell'arte psicoterapeutica dell'Analisi Bioenergetica facilmente si è


adattato al linguaggio corporeo e fortemente emotivo della pratica marziale e sportiva,
trovando un felice punto d'incontro nella visione collegialmente condivisa del "movimento"
come forma d'espressione sia mentale sia fisica dell'individuo. Ogni gesto atletico si risolve in
un movimento che se attuato in piena integrazione psicofisica risulta fortemente efficace
nella realtà e soddisfacente per l'individuo che lo attua. Dove questa integrazione mente-
corpo non si realizza adeguatamente, gli strumenti dell'Analisi Bioenergetica, applicati al
gesto atletico in questione, sono funzionali per agevolare la liberazione del movimento
bloccato dai vincoli delle tensioni caratteriali dell'atleta.

Le tecniche psicocorporee prese in prestito dall'Analisi Bioenergetica, ed utilizzate in campo


sportivo e marziale sono state selezionate con il fine specifico di intervenire su tre livelli
d'analisi e di rielaborazione: livello posturale, livello respiratorio e livello energetico; tre livelli
che tra loro sono fortemente relazionati.
Nello specifico, sono utilizzate tecniche relative al:

* lavoro di consapevolizzazione dei blocchi corporei,


* lavoro di stress sulle tensioni psicofisiche,
* lavoro per migliorare il grounding,
* lavoro relativo alla gestione respiratoria ed energetica.
2° livello

In un secondo momento abbiamo individuato gli elementi psicosomatici ed emotivi che


caratterizzano i singoli sport e le diverse arti marziali.

Ogni attività atletica è caratterizzata da movimenti corporei specifici veicolati da vissuti


emozionali caratteristici.
Partendo da tale considerazione abbiamo suddiviso il ventaglio di sport e di discipline
marziali oggi praticate tenendo conto delle condizioni emotive specifiche che le
caratterizzano.

Sport:

* Sport di terra (calcio, atletica leggera, et.)


* Sport d'acqua (nuoto, nuoto sincronizzato, pallanuoto, tuffi, et.)
* Sport da salto (salto in alto, salto in lungo, salto con l'asta, tuffi, et.)
* Sport di contatto (rugby, sport da combattimento, hockey sul ghiaccio, et.)
* Sport con attrezzi (tennis, scherma, sport con la palla, ciclismo, et.)
* Sport con animali (discipline ippiche, et.)
* Sport in scivolata (bob, sci, pattinaggio, hockey sul ghiaccio, et.)
* Sport estremi (arrampicata, alpinismo, ultramaratone, et.).

Discipline marziali

* Discipline da terra,
* Discipline da posizione eretta,
* Discipline con armi,
* Discipline di lunga distanza,
* Discipline di media distanza
* Discipline di corta distanza,
* Discipline da energia esplosiva,
* Discipline da energia da resistenza,
* Discipline di contatto.

Ogni sport o arte marziale può riconoscersi prepotentemente in una di queste categorie, ma
contemporaneamente trovare spunti che la coinvolgono, anche nelle altre categorie.
L'allenamento psicocorporeo prevede, tra i suoi obiettivi, l'allenamento delle condizioni
psicofisiche tipiche dell'attività motoria praticata. Allenamento finalizzato a migliorare
nell'atleta la capacità di gestione delle specifiche condizioni psicofisiche, indotte dalla pratica
motoria prescelta.
Esempio d'abilità specifiche da allenare.

* Gestione della risposta allo stress acuto della gara e cronico dei carichi d'allenamento
* Gestione dell'energia in gara ed in allenamento
* Gestione del dolore
* Gestione dell'ansia da prestazione.

3° livello

Nei casi d'intervento specifico su un singolo atleta o per la preparazione agonistica degli
agonisti individuazione delle caratteristiche psicosomatiche ed emotive del singolo atleta.
Ogni atleta è un individuo psicosomatico specifico, che grazie a codesta specificità è capace
di esprimersi al meglio in determinate prestazioni atletiche piuttosto che altre.

L'allenamento psicocorporeo delle abilità sia generali sia delle singole discipline nello
specifico, si realizza secondo il seguente schema:
* Individuazione delle abilità da allenare
* Allenamento a "freddo": utilizzando le tecniche dell'analisi bioenergetica.
* Allenamento delle abilità in allenamento: applicazione del lavoro realizzato nel primo step
nell'allenamento tecnico (lavoro bioenergetico applicato alla tecnica).
* Allenamento delle abilità in condizioni gradatamente sempre più stressanti, sino alla verifica
delle abilità in gara.

Metodo d'intervento del modello psicocorporeo

L'attività di ricerca del settore di psicologia dello sport dell'IIFAB, che ha dato vita al nuovo
modello psicocorporeo, ha trovato realizzazione concreta grazie all'accoglienza dell'IMBA
(International Muay Boran Academy), scuola di formazione marziale che, mantenendo come
primaria finalità la crescita psicocorporea globale dell'atleta, ha accolto la l'Analisi
Bioenergetica integrandola nella opera di formazione.

All'interno dell'Accademia, dove la Dott. Distefano pratica e insegna Muay Thai oltre che
essere responsabile del settore psicologia, è stato possibile applicare il modello
psicocorporeo realizzando due tipologie d'allenamento: una generale per tutti gli atleti e l'altra
specifica per gli atleti della nazionale italiana di Muay Thai, che hanno partecipato ai
campionati mondiali di Muay Thai, che si sono tenuti a Bangkok nel mese di marzo del 2001.
Utilizzeremo il programma d'allenamento su citato, come esempio esplicativo del modello
d'allenamento psicocorporeo.

L'intervento presso l'Imba si è realizzato nel seguente modo:

1) Analisi delle caratteristiche psicosomatiche specifiche della Muay Thai.

La muay thai è una disciplina marziale che prevede l'utilizzo di diverse qualità d'espressione
energetica (esplosiva, media, lenta) ognuna delle quali si abbina con specifiche tecniche,
portate utilizzando tutte tre le distanze di combattimento (lunga, media, corta). Ognuno di
questi fattori elencati determina specifiche condizioni emotive e richiede altrettanti abilità
fisiche, che bisogna contemplare nella elaborazione del programma d'allenamento specifico
per questa arte marziale.

2) Analisi delle specifiche caratteristiche psicosomatiche dei tre atleti del team. E
conseguente impostazione del lavoro bioenergetico.

* Il primo A (orale, rigido) longilineo, resistente ma poco sciolto nel movimento circolare del
bacino necessario all'attuazione dei calci, è stato impostato sfruttando la sua forza di
sfondamento e la potenza delle sue ginocchiate, allenandolo alla gestione psicofisica della
corta distanza.

* Il secondo B (schizo-orale) esile, ma tenace, con precario appoggio sulle gambe ed un


carico energetico focalizzato e bloccato nella parte superiore del corpo, è stato allenato al
recupero del grounding, al fine di recuperare la funzionalità delle gambe e ridistribuire
l'energia in tutto il corpo. In tal modo ha potuto sfruttare al meglio l'energia esplosiva in suo
possesso.

* Il terzo C (rigido, masochista) tenace e resistente, ma con un'energia poco esplosiva, è


stato allenato ad utilizzarsi, in termini psicosomatici, come una forza diesel capace di
avanzare lentamente, ma con incrollabile tenacia.

Domande frequenti (FAQ)

1) Quali opportunità lavorative che offre, sia allo psicologo sia al tecnico, la
formazione secondo il modello psicocorporeo?

* La scelta di una formazione psicocorporea consente agli esperti di psicologia dello sport,
non solo l'ampliamento del proprio bagaglio professionale, ma anche l'acquisizione di
strumenti di lavoro che si adattano in modo più efficace e risolutivo al contesto sia sportivo
sia marziale. Detti strumenti, infatti, studiati specificatamente per l'attività motoria e poi
adattati in modo specifico alle caratteristiche psicofisiche di ogni singola attività motoria,
consentono un intervento di tipo psicologico che finalmente si integra in pieno con la
corporeità dell'atleta

* Il tecnico sportivo o l'istruttore marziale che sceglie una formazione psicocorporea, (


esperienza formativa sino ad trascurata nel campo della formazione dei tecnici) avrà modo,
non solo di fare un salto di qualità professionale, differenziandosi dai colleghi per la qualità e
la completezza della propria formazione; ma ogni tecnico potrà finalmente dare, finalmente, il
giusto lustro e meritato valore alla propria professione. La professione di tecnico sportivo o
marziale, infatti, sino ad ora è stata considerata la Cenerentola delle attività formative,
mentre invece, rivalutandone le qualità formative sia del corpo sia della mente dell'individuo,
merita di essere elencata tra le prime e basilari attività formative per lo sviluppo dell'uomo,
così come le altre forme educative che la nostra cultura ci offre.

2) Cosa significa lavorare con il corpo?


Principio base dell'Analisi Bioenergetica è che il corpo e la mente funzionalmente sono
identici: " quello che avviene nella mente riflette ciò che sta accadendo nel corpo e
viceversa".

L'interazione corpo e mente agisce principalmente sui livelli più superficiali della personalità,
cioè si limita agli aspetti consci. Mentre ad un livello più profondo, cioè al livello
dell'inconscio, sia le funzioni della mente sia quelle del corpo sono influenzate da fattori
energetici. Infatti, è difficile che una persona depressa produca pensieri ottimisti questo
perché il suo livello di produzione e d'investimento energetico è ridotto. Quando il livello
energetico aumenta grazie ad una respirazione più profonda, il movimento comincia a ad
emergere dal corpo inerme e la persona depressa inizia a venire fuori della sua condizione di
scarica energetica e depressione.

I processi energetici sono in relazione con lo stato di vitalità del corpo e viceversa, quanto più
un corpo è irrigidito o in tensione cronica tanto più sarà scarico energeticamente.

Alla nascita il bambino è come un vulcano in eruzione, dove scorre liberamente la lava o
flusso energetico. Ma, sia nel bambino come nel vulcano, il libero fluire del flusso energetico
è deviato o bloccato da inevitabili difficoltà e limitazioni che s'incontrano lungo il cammino
della vita (limitazioni e stress relazionali e ambientali). Questi improvvisi ostacoli creano di
volta in volta deviazioni del flusso d'energia attraverso tensioni muscolari croniche e blocchi
articolari dei distretti corporei coinvolti nei conflitti emotivi irrisolti. Il libero fluire dell'energia
pur trovando delle limitazioni è comunque segno di vitalità, infatti, con la morte la rigidità è
totale, si ha il rigor mortis.

Le tensioni muscolari che permangono dopo gli eventi stressanti della nostra vita,
cronicizzandosi determinano le caratteristiche del nostro atteggiamento corporeo limitandone
la motilità, l'autoespressione ed il livello energetico.

Ogni muscolo contratto ha la funzione di bloccare un movimento, espressione dell'emozione


che non possiamo concederci di sentire o non è gradito dagli altri che noi manifestiamo.

Per esempio, un bambino bloccato dall'educazione genitoriale a non urlare in


nessun'occasione, non alzare mai la voce a non avere mai occasione di esprimersi
liberamente, da adulto avrà serie difficoltà a farlo quando necessario. Da adulto scoprirà che
sin da piccolo ha dovuto bloccare l'espressione di se stesso, immobilizzando i muscoli
deputati a farlo.

La bambina, cresciuta secondo i principi convenzionali della femminilità non può arrabbiarsi
esprimendo fisicamente la propria rabbia, da grande avrà difficoltà a sferrare un pugno se
necessario.

O ancora un bambino che ha dovuto trattenere il pianto poiché "un maschietto non piange" o
ha ripetutamente assistito ad eventi che lo hanno impaurito manterrà scolpito sul proprio
corpo i segni delle emozioni trattenute, poiché non gradite dalla madre, dal padre o da chi si
prese cura di lui.

Il lavoro dell'Analisi Bioenergetica sul corpo è finalizzato a decontrarre le tensioni che


bloccano il libero fluire del movimento e delle emozioni, riattivando così la piena funzionalità
energetica dell'individuo.
3) Come si adatta il modello psicocorporeo con l'
attività sportiva e marziale?

Il modello psicocorporeo è stata creato sulla base del "movimento" come principio vitale ed
espressivo dell'individuo. In una prima fase il movimento, che individuiamo bloccato nel
gesto tecnico dell'atleta, viene riattivato grazie alle tecniche dell'Analisi Bioenergetica al fine
di recuperarne la piena libertà e potenza energetica.
In una seconda fase, il gesto bloccato allenato in precedenza, o meglio il movimento poco
fluido deputato ad esprimere la difficoltà mentale ed emotiva dell'atleta, dopo essere stato
lavorato " a freddo " , cioè al di fuori dell'allenamento fisico, viene inserito nell'allenamento
reale dell'atleta, rispettando una scaletta di condizioni che vanno dalla meno stressante sino
a quella più stressante cioè la gara.

4) Quali disturbi dell'


atleta sono trattati dal modello psicocorporeo?

Benessere e crescita psicofisica.

Il modello psicocorporeo, quando è applicato all'allenamento generale ha la funzione


terapeutica di promuovere l'attivazione psicofisiologica più consona e funzionale per
l'individuo al fine di ottimizzare la sua prestazione psicofisica in palestra e nella vita, e
consolidare lentamente e costantemente l'intera struttura psicofisica.

'atleta, anche se inconsapevole della tipologia di allenamento praticato, avvertirà sin dalle
prime occasioni di pratica un costante e progressivo benessere sia del corpo sia della mente,
ottenendo così una soddisfacente integrazione psicofisica, grazie alla pratica dell'attività
motoria a cui si dedica.

Supporto alle psicoterapie psicocorporee.

Lo sport o l'arte marziale, che si avvantaggia del supporto dell'allenamento (?)


psicocorporeo, è anche utilizzabile come supporto terapeutico per le psicoterapie
psicocorporee.

Interventi specifici su singoli atleti.

Il modello psicocorporeo è di frequente utilizzato per risanare i più frequenti disturbi


psicofisici manifestati dagli atleti:

* Nikefobia: atleta bravo in allenamento, incapace di vincere in gara.


* Ansia da prestazione.
* Alterazioni del potenziale energetico sia fisico sia psichico.
* Gestione della vittoria e della sconfitta.
* Gestione della risposta allo stress acuto della gara e cronico dei carichi d'allenamento
* Gestione del dolore.

6) Quali tempi e modalità d'intervento ha il modello psicocorporeo?

Il modello psicocorporeo si applica direttamente sul campo di allenamento al fine creare, sin
dal primo momento, un'integrazione tra il lavoro di allenamento mentale e quello fisico.
I tempi di risoluzione nei casi d'intervento specifico sono condizionati da numerosi fattori,
quindi poco prognosticabili. E' pur vero che ogni piccolo progresso verso l'integrazione
psicofisica, realizzato dall'atleta, rimarrà per sempre inciso nel suo psicosoma, in quanto
ottenuto non con l supporto di materiale estraneo ed utilizzato solo occasionalmente (come
le pratiche di visualizzazione o di rilassamento), ma saranno progressi che l'atleta consegue
grazie al suo lavoro attivo d'integrazione del proprio corpo con la propria psiche. Così
facendo l'atleta diventerà padrone dei sui progressi e libero di fruirne non solo nella palestra
dove pratica lo sport, ma anche nella palestra della sua vita.

7) Quali ripercussioni ha l'allenamento sportivo, praticato secondo i principi del


modello psicocorporeo, sulla vita di un atleta al di fuori dei campi di allenamento?

L'attività motoria, sia essa sport o arte marziale, è ormai condiviso da tutti, che, se praticata
nel modo adeguato, è un'occasione preziosa di crescita e benessere psicofisico per ogni tipo
di sportivo (sia esso bambino, adulto o anziano).

L'attività motoria che si avvale del modello psicocorporeo, acquista un ulteriore valore
rispetto alle altre che ne sono sprovviste, poiché grazie a detto modello ha acquisito tra le
sue finalità la crescita e la formazione dell'individuo nella sua globalità e non solo nel campo
d'allenamento. Detta peculiarità fa, di uno sport o di un arte marziale, un'occasione di verifica
obiettiva e costruttiva delle qualità e dei limiti dell'atleta, offrendogli la possibilità di migliorare
costantemente le proprie prestazioni sia in termini fisici sia psichici. L'atleta scopre, con
questa tipologia di allenamento, che le prestazioni del corpo e della mente, richieste
dall'attività motoria praticata, sono paragonabili alle prestazioni che la vita stessa gli impone
giornalmente. L'atleta, avendo l'occasione di ascoltarsi e sperimentarsi in palestra, potrà
migliorare non solo la qualità della sua pratica sportiva, ma anche la qualità della sua vita,
acquisendo maggiore dimestichezza con le proprie modalità comportamentali e rendendole
sempre più funzionali al suo benessere .

8) Le Classi di esercizi di Analisi Bioenergetica possono essere utili nella formazione


all'attività motoria?

La Classe di esercizi (attività che racchiude gli esercizi utilizzati nella psicoterapia dell'Analisi
Bioenergetica, ma spogliati dal supporto analitico) è nata per essere utilizzata, non solo
come supporto alla psicoterapia, ma soprattutto per allenare ad una migliore consapevolezza
psicofisica coloro i quali lavorano utilizzando come strumento di lavoro il proprio corpo, come
gli attori, i ballerini o gli sportivi.

Nel caso dell'attività sportiva la Classe d'esercizi può essere fonte d'ispirazione per
estrapolarne alcuni esercizi ed inserirli all'interno dell'allenamento tecnico, al fine di
migliorare la consapevolezza psicofisica del movimento che il gesto atletico richiede.

La motivazione nell'attività sportiva e la sua ottimizzazione

Come istruttori, allenatori, coach, abbiamo sempre un unico denominatore: per mezzo
dell’allenamento arrivare a produrre risultati didattici apprezzabili.

Abbiamo il compito di aiutare i nostri allievi a migliorare i processi di apprendimento; il modo


migliore per raggiungere questi risultati è di creare delle condizioni favorevoli
all’apprendimento, ovvero essere dei facilitatori di questi processi.
Dobbiamo avere sempre ben presente l’elemento fondamentale, la motivazione, che rimane
comunque e ad ogni livello alla base di qualsiasi successo sportivo, è senza dubbio la chiave
d’accesso al lavoro di tutti i giorni, attraverso il quale l’atleta soddisfa i suoi bisogni, gli stimoli
positivi, l’interesse e il divertimento, la ricerca di affiliazione verso l’allenatore ed i compagni
di allenamento e non ultimo il bisogno di affermazione e di riuscita.

CAPIRE LA MOTIVAZIONE

L’individuo inteso come unità psico-somatica deve coinvolgere ambedue le sfere


contemporaneamente, per poter avere una esaltazione di quei fenomeni relativi alla
prestazione, anticipando così l’insorgenza dei sintomi veri e propri della fatica.

Questo non è un’esclusiva del solo meccanismo fisiologico di natura biochimica, oppure
legato a fattori tipo l’età, la costituzione fisica, il sesso, o l’allenamento, dobbiamo tenere in
grande considerazione altri fattori che svolgono un ruolo ancora più determinante, come: il
profilo della personalità, l’estrazione sociale, la monotonia, la noia e le motivazioni.

In particolare mi occuperò di monotonia e noia, strettamente correlate.

La monotonia: molto spesso istruttori, allenatori, coach, rischiano inconsapevolmente di far


scadere le sessioni di allenamento per mezzo di ripetizioni stereotipate, che producono negli
allievi l’effetto della noia che prende spazio all’interno dell’individuo per mancanza di
soddisfazione verso un’attività che rimane estranea alla propria realizzazione.

Pensando alla noia, possiamo dire che rappresenta senza dubbio e in modo particolare nella
popolazione giovanile di questo preciso periodo storico un fattore negativo che incide
fortemente su ogni tipo di comportamento.

Senza dubbio la motivazione è un fenomeno molto complesso, ci risulta spesso difficile


capirne l’incidenza su un tipo di comportamento piuttosto che un altro.

Resta logico pensare che una persona più è spinta ad imparare una particolare attività, più vi
si eserciterà.

Potremmo dire che noia e monotonia affrettano l’insorgere della fatica, che si può riassumere
in:

- FATICA MUSCOLARE dipende dall’esaurimento delle fonti energetiche e dalla


conseguente lentezza di trasferimento dello stimolo, dalla fibra nervosa alla struttura
muscolare.

- FATICA GENERALE comporta una diminuzione della destrezza; il senso della misura è il
primo a manifestare segni di affaticamento e quindi di diminuita funzionalità, in queste
condizioni insorgono facilmente gli errori ed anche gli incidenti.

- FATICA SENSORIALE quando, in seguito alla stimolazione di senso, si ha una


attenuazione delle risposte date dagli organi stessi.
Dopo le premesse sopra esposte, andiamo ad analizzare in concreto quello di cui si vuole
svilupparne le tematiche : la motivazione.

Addentrandoci nel fenomeno legato alla motivazione ci troviamo in uno spazio molto
complesso, spesso è difficile capirne l’incidenza sul comportamento di un individuo.

Una forte motivazione è strettamente correlata ad una forte monoidea, che si traduce in
grande volontà nella ricerca del raggiungimento di un obiettivo che possa appagare dei nostri
bisogni.

Vari autori hanno espresso alcune ipotesi:

secondo Salvini “per motivazione si indica in psicologia l’agente fisiologico, emotivo e


cognitivo che organizza il comportamento individuale verso uno scopo.”

Per Bertolini la motivazione è “ ciò che sollecita l’individuo ad assumere ogni suo
atteggiamento ed a mettere in atto ogni suo comportamento”.

Secondo Singer la motivazione “ influisce su ciò che facciamo, (quando vi è la possibilità di


scelta) su quanto tempo ci mettiamo e su come lo facciamo”.

Thomas riporta le motivazioni a quattro desideri fondamentali:

1) il desiderio di sicurezza

2) il desiderio di ottenere il riconoscimento delle proprie qualità

3) il desiderio di ricevere risposte adeguate da parte dei propri simili

4) il desiderio di nuove esperienze.

La gerarchia dei bisogni di Maslow riporta le motivazioni a bisogni fondamentali


distinguendoli in:

- AUTOREALIZZAZIONE ( metabisogni, qualità spirituali, giustizia, bontà, bellezza)

- BISOGNI DI BASE :

1) bisogni fisiologici ( cibo, acqua, ecc. )

2) bisogni di sicurezza ( protezione, mancanza di pericolo)

3) bisogni di amore e di appartenenza ( accettazione , essere apprezzati, affiliazione )

4) bisogni di stima ( autoapprezzamento, successo )

Murray esamina ben dodici bisogni di natura fisiologica e ventotto di natura psicologica.

Secondo Singer si possono classificare i motivi per cui le persone fanno ciò che fanno in:
1) motivazione intrinseca ( gusto di fare una cosa, far progredire e mettere a frutto certe
capacità)

2) motivazione estrinseca ( trarre vantaggi materiali, apprezzamenti e ricompense.

Entrambi i tipi di motivazione, insieme o indipendentemente, determinano il


comportamento.

Un'altra classificazione indica tre categorie di motivazioni :

1) Psicofisiologiche suddivise in:

- fondamentali, che dipendono da esigenze biologiche, quali: la sete, la fame, il sonno,

- proprie dell’organizzazione nervosa antropomorfa: bisogno di esplorazione percettiva,


bisogno di attività, di manipolazione, ecc.

2) Psicodinamiche: traduzioni delle pulsioni sessuali ed aggressive. La motivazione è il


risultato del rapporto tra la scarica pulsionale originaria e la mediazione con la realtà da parte
della personalità.

3) Psicosociali: sono il riflesso dei valori, dei modelli di comportamento, delle opinioni che
l’individuo acquisisce durante il processo di socializzazione.

QUALE MOTIVAZIONE !

ELENCHIAMO LE MOTIVAZIONI

Come si diceva in apertura, pur restando in astensione di giudizio a favore di una delle teorie
precedentemente esposte, vorrei esaminare alcuni passaggi a mio avviso degni di essere
presi in considerazione per arrivare ad ottimizzare la motivazione.

Sempre più spesso siamo in presenza di baby atleti, ovvero bambini di 9-10 anni che
svolgono una attività agonistica.

Non voglio entrare in merito all’opportunità o meno dell’avviamento di bambini in età


evolutiva ad attività agonistiche, l’argomentazione sulla cura dell’apparato osteoarticolare dei
bambini nell’età dello sviluppo, richiederebbe di per sé un trattato molto lungo.

Noi parliamo di motivazione e averla indotta e canalizzata a volte tramite una


specializzazione precoce, porta nel 90% circa dei soggetti ad un abbandono precoce. (Burn-
Out)

L’ESEMPIO DI MATTEO

MOTIVO DI RIFLESSIONE

Matteo è un bambino di 10 anni, ha buone capacità coordinative e ha una grande passione


per lo sport del tennis, o forse è meglio dire aveva.
Ha iniziato a 6 anni a frequentare dei corsi di tennis presso il circolo tennistico più importante
della sua città; proseguendo nella crescita il bambino dimostrava anche buona attitudine allo
sport del tennis fino a portarlo già a 8 anni a partecipare a gare di tennis contro suoi
coetanei.

Con l’accrescere dell’età crescevano anche i tornei arrivati a 10 anni l’allenatore di Matteo gli
dice che visti i buoni risultati, passerà ad allenarsi con i ragazzi under 12, quindi un pochino
più grandi di Matteo.

Questa notizia è una esplosione di carica e di motivazione grandissima per Matteo, si sente
importante agli occhi del suo allenatore e dei compagni.

Passano le settimane ma il passaggio al gruppo promesso tarda ad arrivare, Matteo ogni


settimana chiede al suo allenatore quando inizierà con il nuovo gruppo, l’allenatore continua
a tergiversare dicendogli che sta organizzando il passaggio di avere pazienza.

Le settimane passano ma il passaggio di gruppo no; dopo mesi di altalenanti promesse


l’allenatore dice a Matteo che è meglio che resti nel gruppo dove si trova adesso, perché
forse è ancora presto per passarlo ad un gruppo più avanzato.

Per Matteo questa notizia ha un effetto devastante; si sente tradito, preso in giro, dal suo
allenatore che per lui era “il modello assoluto” una guida visualizzata non solo nello sport.

Una settimana dopo la comunicazione dell’allenatore Matteo abbandona il tennis, le


insistenze dei genitori, dell’allenatore, dei compagni, non servono a nulla, non vuole più
vedere la racchetta e non vuole più andare su un campo da tennis; l’effetto delusione non si
ferma, anche a scuola Matteo (che era sempre tra i più bravi della sua classe) non riesce più
a stare attento non studia è molto triste.

Dopo vari mesi di lavoro da parte dei genitori con l’aiuto di uno psicologo sono riusciti a fare
accettare la situazione a Matteo che ora è ritornato come prima, ho conosciuto Matteo e
attualmente del tennis non ne vuole sapere è molto insicuro quando sente questa parola, mi
piacerebbe poterlo riportare a giocare e a divertirsi al tennis, ma l’impresa è molto difficile,
dipenderà da Matteo.

LE MOTIVAZIONI

Iniziamo ad elencare vari tipi di motivazioni che vengo messe in gioco nella pratica
sportiva:

1) Interpretazione intellettualistica: motivazione come tendenza determinante della


personalità

2) Biologica: identificata con il bisogno che attiva il comportamento.

3) Istintiva: ciò che è innato è modificato dall’abitudine appresa.

4) Pulsionale: psicoanalitica, da cercare nell’inconscio

5) Antropologica: dipende dalla matrice culturale in cui vive l’individuo.


6) Sociologica: l’individuo ha la necessità di sentirsi in armonia con il gruppo in cui vive
e di valorizzarsi.

7) Umanistico-esistenziale: differenza tra bisogni e motivazioni. Le motivazioni


appartengono alla sfera dei valori e degli ideali.

MOTIVAZIONI OMEOSTATICHE

La motivazione, alla base del comportamento dell’individuo, può essere letta come
tendente allo stabilimento o ristabilimento di un equilibrio.

- Motivi fisiologici e bisogni.

- Meccanismo della privazione.

MOTIVAZIONI ANTIOMEOSTATICHE

La motivazione è rivolta alla continua rottura degli equilibri preesistenti.

- Bisogno di stimolazione.

- Esplorative.

- Hanno come oggetto: il mondo delle cose concrete, il mondo sociale, il mondo ideale.

MOTIVAZIONI PRIMARIE:

Si riferiscono alla sfera biopsichica ( bisogno dell’uomo di fare del movimento)

Cognitiva (bisogno di conoscere)

Emotiva (pulsioni interne)

MOTIVAZIONI SECONDARIE:

Si riferiscono alla sfera psico-sociale, culturale, socioeconomica.

Ora analizziamole più dettagliatamente:

CAPIRE L’AGONISMO

MOTIVAZIONI PRIMARIE : sono rappresentate dal gioco e dall’agonismo. Il gioco serve ad


incuriosire il bambino, ovvero offrire la possibilità di soddisfare il bisogno di movimento, di
immaginazione, di creatività, di affermazione e socialità.

A tale proposito la psicologia dello sport ha svolto ricerche sulla natura psicodinamica,
cognitiva e sociale del gioco, in questo campo deve essere ricercata la molla del piacere del
gioco.

L’agonismo è la “ manifestazione matura, costruttiva e creativa dell’aggressività”.


La strada che porta dall’aggressività all’agonismo è attraversata da meccanismi intrapsichici
che sono:

1) la rimozione, respingere nell’inconscio ciò che non è accettabile.

2) La sublimazione, trasformare l’impulso aggressivo in una azione socialmente accettabile e


accettata.

3) La ritualizzazione, vivere l’aggressività all’interno di una situazione controllata.

4) L’inibizione per identificazione, trasformare l’impulso aggressivo verso forme di condotta


reattiva (protezione, affetto, gioco…..)

A livello agonistico i soggetti mettono in campo una grossa fetta della loro aggressività, è
importante che l’agonismo rimanga entro canoni socializzanti e di sublimazione degli istinti
agressivi, rispettando le regole della ritualizzazione sportiva.

Dobbiamo comunque riconoscere che gioco e agonismo rivestono un passaggio


fondamentale nello sviluppo del bambino, anche se in prospettiva dinamica abbiamo
variazioni legate a seconda dell’età, del sesso, della personalità, della situazione, ecc.

L’agonismo sorge dopo, rispetto alla funzione ludica e molto spesso influenzato da modelli
sociali esterni che per bisogni istintuali.

Dobbiamo sottolineare con forza che mentre nel gioco troviamo una azione di
organizzazione dell’Io ( vedi organizzazione del sé corporeo, rapporti spazio-temporali, le
relazioni con gli altri) nel discorso agonistico si deve presupporre un Io già organizzato.

In molti testi vari Autori scrivono che non si dovrebbe praticare attività agonistica nella fascia
di età dai 9 ai 13 anni se non con funzioni ludiche generali, nella realtà la tendenza è
esattamente il contrario; una preconizzazione che a 12 anni porta a giocare in un anno un
numero di incontri pari a quelli di un professionista, il rischio è di danneggiare l’equilibrio
psico-fisico del ragazzo, utilizzando un modo errato per prepararlo all’agonismo.

Dobbiamo ricordare che il periodo della pre-adolescenza è caratterizzato da instabilità


psicologica, quindi sarà molto svantaggioso sottoporre l’allievo a situazioni di stress
competitivo non sufficientemente bilanciate da un Io forte che consenta una elaborazione
“sportiva” (e non personale) di una sconfitta o di una vittoria.

Le statistiche in merito all’abbandono sportivo, registrano in questa fascia d’età le punte più
alte.

MOTIVAZIONI SECONDARIE: si riferiscono alla sfera psico-sociale, culturale,


socioeconomica, e sono:

1)Motivazione al successo: ricerca di affermazione personale e sociale, affermare valori


che gli altri apprezzano, stimano, desiderano, divismo sportivo, sponsorizzazioni, il tutto con
il supporto dei “mass media”.
Nel 1953 McClelland dimostra stretti legami di correlazione tra motivazione al successo e
rendimento, la spiegazione è il collegamento ai processi di autostima, derivati da esperienze
positive di realizzazione e successo.

Questo tipo di reazione viene chiamata circolare.

AUTOSTIMA

ESPERIENZE ASPIRAZIONE AL

POSITIVE SUCCESSO

MECCANISMI MOTIVAZIONALI

Abbiamo anche una reazione circolare diversa, relativa a chi non ha sperimentato
situazioni di successo e quindi non è portato ad avere “aspirazioni al successo”:

SENTIMENTO DI INFERIORITA’

ESPERIENZE ASPETTATIVA DI

NEGATIVE SUCCESSO

ASSENZA DI MOTIVAZIONE

A questo punto il ruolo pedagogico dell’istruttore è di fondamentale importanza, per evitare


l’insorgere di reazioni negative nei confronti dell’allievo, cercando di non esporlo ad una serie
di insuccessi che portano inevitabilmente ad una compromissione dell’attività motivazionale.

Nell’allenamento di tutti i giorni l’istruttore deve evitare accuratamente la noia e la monotonia,


cambiando e modificando gli scenari delle esperienze didattiche, per renderle più motivanti e
stimolanti.

Una indagine interessante venne condotta da Hawthorne su un gruppo di operai, dove


nell’ambiente lavorativo furono apportate delle semplici modifiche ( le pareti furono dipinte in
modo e con colori diversi, furono cambiati i sistemi di illuminazione) il risultato fu una migliore
produzione, una maggiore voglia di recarsi al lavoro, ricerca della novità, ma la cosa più
importante che emerse da questa indagine fu che gli operai dissero di avere la sensazione
che qualcuno si occupasse di loro.

Le modifiche ambientali apportate non avrebbero avuto nessuna attinenza con la


produzione, ma sul piano psicologico esse esercitarono una grande influenza.

2) Bisogno di affiliazione: a livello psicologica il periodo adolescenziale è quello della


massima spinta ad appartenere ad un gruppo, le motivazione possono essere ricercate in:
assicurazione, accettazione, essere stimato, questo serve al ragazzo per bilanciare
insicurezze personali, atteggiamenti di impegno, abnegazione, cooperazione.

Citiamo anche “una esperienza di socializzazione ricca di significato” cosa da non


sottovalutare in una società giovanile basata sulla dipendenza dalla televisione e dai video-
game.
Una volta inserito in un gruppo il giovane entra nella cosiddetta “socializzazione secondaria”
ovvero interiorizzazione dei valori dell’attività sportiva, tendendo ad assimilare lo schema
ideologico ( norme+mete+valori) del proprio gruppo di riferimento, divenendone parte attiva.

Nel periodo dai 10 ai 14 anni l’appartenenza ad un gruppo rappresenta una delle motivazioni
allo sport più importanti, sia nello sport di squadra che nello sport singolo.

Gli allenamenti alla resistenza raramente sono “automotivanti” nei giovani, vengono realizzati
più facilmente se svolti con la complicità del gruppo.

3)Motivazione estetica: il bisogno del raggiungimento di forme ritenute “armoniche e belle”.

Lo spettacolo sportivo richiede oltre alle strategie anche la parte estetica sia per chi lo pratica
che per chi l’osserva, (l’azione ben coordinata, un gesto tecnico ben eseguito, ecc.) in certi
contesti può assumere una certa importanza.

4) Motivazione compensativa: nella fase evolutiva è di estrema importanza, può


diventare “patologica” dopo la fase adolescenziale.

Lo sport può servire come meccanismo di difesa nel nascondere o superare sentimenti
di inferiorità ( a livello fisico o psichico) nell’espressione di desideri infantili di tipo
affermativo di aggressività latente, desiderio di potenza, dovuta ad un carico di
frustrazioni non elaborate.

Questi tipi di scompensi della personalità vanno osservati con attenzione e superati con
opportuni orientamenti. ( Si ritrovano piuttosto frequentemente e per tanti versi anche
“normali” in soggetti in età evolutiva).

MOTIVAZIONE INTRINSECA ED ESTRINSECA

Passiamo ora ad analizzare un’altra spinta motivazionale che ci spinge a muoverci in


una specifica direzione:

Motivazione Intrinseca:

solitamente la molla che muove questo tipo di motivazione è collegata al fare qualcosa
solo per il gusto di farla, per migliorare e progredire le proprie capacità, o per sfruttarle
al meglio.

Forte stimolazione verso comportamenti competenti e autodeterminati nei confronti


dell’ambiente circostante.

Motivazione Estrinseca: principalmente ricerca di un miglio status sociale, in questa


situazione abbiamo un impegno verso una attività da cui trarre vantaggi materiali,
ricompense o apprezzamenti che siano.

Di solito nella motivazione estrinseca avviene un controllo da parte dell’adulto nei


confronti del comportamento spontaneo del bambino o ragazzo, utilizzando ricompense
o punizioni.
Pensiamo ad esempio, al padre che in modo più o meno conscio imponga al figlio di giocare
a tennis, incoraggiandolo attraverso piccoli ricatti di motivarlo verso una presunta carriera di
tennista.

In casi di questo tipo l’istruttore può cercare di liberare il bambino da questa induzione
motivazionale esterna, questo nella ricerca di una dimensione ludica e soprattutto di una
scelta spontanea, per evitare di esaurire precocemente la spinta motivazionale,
riconducendo l’allievo verso la motivazione intrinseca, ovvero una motivazione spontanea del
soggetto che possa sostenere nel tempo la costanza di una scelta motivata.

DETTAGLI

Vediamo ora dettagliatamente questa spinta interna, e da cosa deve essere originata, in
particolare dobbiamo sentire e avere il controllo di noi stessi, dobbiamo essere realistici in
senso ottimistico.

Secondo Singer le persone che rivelano un forte bisogno di riuscire hanno la tendenza a:

1) Prefiggersi scopi alti, specifici e raggiungibili.

2) Predisporre piani o programmi personali che saranno osservati per facilitare la


realizzazione di quegli scopi.

3) controllare continuamente i loro progressi e se sono fuori rotta, a rettificare o modificare


scopi, programmi, o gli uni e gli altri.

4) Pensare tenendo i piedi per terra.

5) Tener conto dei fattori personali che potrebbero essere la causa dei risultati desiderati,
come l’impegno e la fortuna.

6) Valutare con imparzialità ciò che hanno fatto e cercare di migliorare i loro tentativi anziché
prendersela con gli altri o con le circostanze.

Senza dubbio un impegno di questo tipo giova all’autocompiacimento e alla soddisfazione di


partecipare a un certo tipo di attività.

Con l’impegno personale è sicuramente più facile ottenere risultati nei miglioramenti delle
proprie capacità, contare al contrario sulle ricompense, finisca per dare risultati di portata
limitata.

E’ anche vero che spesso questo tipo di sistema influisce fortemente sul nostro
comportamento.

A parte le cause legate a fattori culturali, dei programmi educativi, e dei sistemi di
ricompensa potremmo dire che le attività motorie potrebbero essere:

1) Valutare in maniera positiva in prima persona.

2) Apprezzate da altre persone legate al bambino


3) Soddisfacenti, impegnative e divertenti.

Singer sostiene che se mettiamo insieme queste tre considerazioni, unite ai sei fattori
esposti in precedenza ci sono ottime possibilità per avere una attività soddisfacente e ben
riuscita.

LOCUS OF CONTROL

Vediamo di cosa si tratta; facendo un piccolo passo indietro riprendiamo il discorso sulle
attribuzioni relative ai motivi principali delle prestazioni:

1) L’abilità

2) L’impegno

3) La fortuna

4) La difficoltà che l’attività presenta

Possiamo vedere che i primi due sono interni e personali, mentre i secondi sono esterni al
soggetto. Possono essere di causalità o di controllabilità.

L’attribuzione di un successo a cause interne incrementa l’autostima e l’interesse intrinseco


verso quell’attività.

Viceversa, l’attribuzione di un insuccesso a cause interne può influenzare negativamente la


fiducia verso sé, e favorire una riduzione volontaria del coinvolgimento per quel compito.

Interessante la valutazione data da Weiner nel 1980, dove testualmente dice: “ l’attribuzione
più importante che danneggia la lotta per vincere è la sensazione di avere qualità modeste”.

Gli istruttori potrebbero sensibilizzare gli allievi a valutare in caso di sconfitta l’imputazione
alla mancanza di impegno piuttosto che prendersela con la sfortuna.

Cercare di far capire agli allievi che loro stessi possono influire sui risultati; (attribuzioni
interne) e ottenerne di migliori, ad esempio aumentando l’impegno durante le fasi di
allenamento, siano esse, tecnico-tattiche, fisiche, o di preparazione mentale.

PREMI O PUNIZIONI

Ora prendiamo in considerazione il discorso legato ai premi o le punizioni che vengono dati
dopo una determinata azione, atti a dare un certo tipo di informazione al soggetto, su come
doveva essere svolta l’azione, in positivo o negativo:

1) I premi possono essere incentivi a partecipare o ad esercitarsi

2) I premi possono plasmare i comportamenti in una determinata direzione.

Potremo però fare anche un altro tipo di considerazione:

1) Fino a che punto i premi vengono interpretati come tali da chi li riceve.
2) Fino a che punto ci si fa assegnamento per l’interesse e per la perseveranza in una data
attività.

Nel punto uno abbiamo una grande variabilità in base al soggetto a cui viene dato il premio,
lo stesso premio non per tutti i soggetti può avere lo stesso valore di stimolo.

Dovremmo quindi stare attenti, se proprio dobbiamo premiare a livello didattico, ad effettuare
una analisi per verificare il valore potenziale che potrà avere per ogni allievo.

Grande attenzione comunque a dare delle premiazioni ad alcuni e non darle ad altri,
ricordandoci che anche chi non viene premiato può averci messo il massimo dell’impegno,
credo personalmente e in base anche alle mie esperienze che l’utilizzo di incoraggiamento
verbale agli allievi facendo sentire loro la vicinanza del proprio allenatore, possa ancora
essere lo strumento motivazionale migliore.

Nel punto due sembra molto poco appropriato dare esclusivamente delle ricompense a
quello che facciamo.

E’ vero che le cause esterne della motivazione possono influenzare anche quelle interne, ma
con questo sistema nella maggior parte dei casi i risultati sugli allievi sono stati molto scarsi.

Un suggerimento potrebbe essere quello di stimolare i seguenti incoraggiamenti:

1) L’intima tendenza a partecipare ad attività fisiche.

2) La comprensione del valore di queste esperienze.

3) La continua ricerca per migliorare se stessi, per essere autosufficienti, per realizzare se
stessi.

4) Le sfide in grado di contribuire alla realizzazione di potenziali mezzi di espressione, della


destrezza, della conoscenza e del divertimento.

IL RINFORZO

E’ una azione che serve ad aumentare le possibilità di riuscita di un certo tipo di


comportamento.

Burrhus Fedric Skinner dimostrò che i rinforzi servono come informazione al nostro
organismo in merito alla appropiatezza del suo comportamento.

I rinforzi positivi sono utili al soggetto nella formazione del suo comportamento, questo
intento sta dietro l’utilizzo dei premi.

Dobbiamo fare attenzione ad una eventualità da non sottovalutare, se conseguentemente ad


una risposta premiante, abbiamo la scomparsa di uno stimolo, accresce la possibilità che
questo tipo di risposta si presenti nuovamente; il rischio è che a questo punto avremo uno
stimolo considerato rinforzo negativo.

Vediamo ora l’aspetto punitivo, che è uno stimolo avversivo che ha come scopo
l’eliminazione di un certo tipo di risposta.
La punizione viene data sempre per dirci quello che non si deve fare, non quello che si deve
fare.

Bisognerebbe fare molta attenzione all’utilizzo del “non”, un pensiero sicuramente più
costruttivo sarebbe quello di dire cosa si deve fare.

Le punizioni vengono date con l’intento di dare rinforzi per far svolgere dei tipi di
comportamento ideali, molto spesso la punizione oltre ad essere inefficace crea anche
delusione e amarezza, è anche un modo negativo di rapportarsi con gli individui.

Da preferire il rinforzo di carattere positivo, che può produrre un tipo di condizionamento che
possa dare autonomia al soggetto senza dover far ricorso a rinforzi esterni.

Possiamo prendere in considerazione come istruttori che le cose che diciamo, o che
facciamo nei confronti degli allievi dopo una loro prestazione possono essere rinforzanti,
stimolanti, oppure informative, in pratica possono fornire agli allievi il feedback necessario in
relazione alla prestazione.

IL FEEDBACK

E’ di fondamentale importanza nella funzione di apprendimento.

Il feedback avviene per mezzo dei sensi e questa informazione può arrivare durante oppure
dopo la prestazione, ma anche durante e dopo, nella ricerca di adeguatezza di quella
determinata azione.

E’ necessario nelle prime fasi di apprendimento, senza feedback non si può avere
apprendimento, è anche vero che a volte il feedback non risponde alle esigenze degli allievi
o l’allievo non se ne serva.

In questo tipo di caso si dovrà ricorrere al feedback supplementare.

In pratica è una informazione esterna fornita da una persona o da un oggetto all’allievo e


dovrà servire come conoscenza dei risultati, inoltre potrà essere anche rinforzante e
motivante.

Il sinonimo di feedback è: la conoscenza dei risultati, in pratica una informazione


autogenerata dall’allievo in merito alla propria prestazione ed ai risultati ottenuti.

A livello di informazione dovremmo prendere in considerazione quella relativa alla


conoscenza della prestazione; tecniche, strategie, capacità, forma, e altri fattori che
concorrono alla buona riuscita di una azione motoria o di una partita, grande considerazione
alla disponibilità intrinseca di questo tipo di informazione.

Questi due tipi di informazione: conoscenza dei risultati, e conoscenza della prestazione
possono essere date simultaneamente “ nel corso dell’attività” o alla fine.

Molto importante il mezzo di comunicare queste informazioni che potrà essere: visivo,
uditivo, o di altra natura ( da considerare anche l’utilizzo del video-tape per far rivedere le
azioni agli allievi, modello di feedback supplementare).
Se l’applicazione del feedback viene scelta alla fine dell’azione, può essere fornito
immediatamente o un po’ più tardi, inoltre può essere molto preciso o molto vago.

Su alcuni testi vari Autori forniscono alcuni tipi di alternative:

(R.N. Singer)

1) fare una analisi del compito e stabilire la necessità o le possibilità del feedback nel corso
dell’attività, o del feedback finale, ovvero di entrambi.

2) Che il mezzo di comunicazione sia condizionato da ciò che è disponibile, dall’utilità e dalle
preferenze dell’allievo.

3) Che il feedback finale sia quanto più immediato possibile.

4) Che il feedback sia specifico quanto basta affinché l’allievo sia in grado di adoperarlo.

IL GOAL SETTING

La traduzione di goal-setting è: formulare degli obiettivi, è di fondamentale importanza


nell’orientamento dell’atleta, altrettanto importante è classificarli a breve, medio, lungo
termine.

L’obiettivo può avere la funzione di punto di riferimento per controllare la prestazione attuale
con quella desiderata.

In questo senso molti autori hanno scritto una sorta di decalogo, riassumiamo il pensiero di: (
Tubbs 1986 – Burton 1992 – Magill 1993 – Martens e Bump 1988 – Weinberg 1992/1994 )

1) Obiettivi specifici regolano l’azione in modo più preciso di obiettivi generali.

2) In relazione a obiettivi quantitativi specifici, più elevato è l’obiettivo, migliore sarà la


prestazione, fermo restando un livello adeguato di abilità e di impegno.

3) Obiettivi specifici e difficili miglioreranno maggiormente la prestazione, rispetto ad obiettivi


del tipo “fai del tuo meglio” o non avere obiettivi.

4) La formulazione di obiettivi a breve termine e a lungo termine migliora maggiormente la


prestazione, rispetto alla solo formulazione di obiettivi a breve termine.

5) Gli obiettivi agiscono sulla prestazione guidando l’attività, mobilizzando l’impegno,


aumentando la persistenza e motivando alla ricerca di strategie appropriate al compito.

6) La definizione degli obiettivi è efficace solo in presenza di feedback che evidenzino i


progressi compiuti nella direzione del raggiungimento degli obiettivi.

7) Obiettivi difficili richiedono un notevole impegno che determina prestazioni migliori,


chiaramente mantenendoli entro limiti ragionevoli e realistici.

8) L’impegno può essere ottenuto chiedendo all’allievo di accettare l’obiettivo, mostrando


sostegno, permettendo la partecipazione alla scelta degli obiettivi, degli incentivi e dei premi.
9) Il raggiungimento degli obiettivi è favorito dalla determinazione di un piano di azione o
strategia, specialmente quando il compito è complesso o a lungo termine.

10) La competizione migliorerà la prestazione sino al grado in cui sarà necessario stabilire
obiettivi più elevati e/o aumentare l’impegno.

Potremmo aggiungerne ancora due:

- Mettere in evidenza obiettivi di prestazione ( ad esempio, migliorare la tecnica esecutiva)


piuttosto che di risultato (vincere una gara) più difficilmente controllabili.

- Controllo sistematico della valutazione degli obiettivi.

IL BURN-OUT e DROP-OUT

Come anticipato in fase di presentazione delle varie motivazioni allo sport, vediamo cosa
succede se la motivazione viene meno e subentra la demotivazione, sindrome chiamata
Burn-out che letteralmente significa “ bruciato” “esaurito”.

Tradotto in pratica ci troviamo in presenza di un “esaurimento emotivo” (Maslach e Jackson


1981), ovvero una sensazione di totale mancanza di energia fisica e psichica,
“depersonalizzazione” che arriva fino ad atteggiamenti ostili nei confronti delle persone del
proprio ambiente ( allenatore, preparatore fisico, ecc.).

“Ridotta realizzazione professionale” completa mancanza di autostima e voglia di


raggiungere i risultati prefissati quindi sensazione di inadeguatezza.

Molti Autori tendono a riportare il Burn-out solo in campo lavorativo e non sportivo altri come
(Aguglia e Sapienza 1989 – Smith 1986 ) sono convinti dell’importanza anche in campo
sportivo.

Questi Autori individuano il Burn-out come una perdita di ideali, energia, e scopo, ricondotto
in uno stress lavorativo dovuto a

vari tipi di pressioni ad esempio: pressioni socio-economiche, non deludere l’ambiente


esterno (allenatore, dirigenti, sponsor, tifosi, ecc.) a dover sempre migliorare i propri risultati.

In relazione ai giovani in età evolutiva che svolgono attività agonistica “precoce”


personalmente sposo quest’ultima teoria.

Importante da considerare in questa fase di crescita dei ragazzi l’attenzione ai bisogni di


soddisfazione, gratificazione, riconoscimento, sentirsi importanti, approvazione del gruppo.

Altrettanto importante ma da evitare, è la paura del fallimento, cattivi rapporti nei confronti
dell’istruttore-allenatore, dei compagni, pressione psicologica elevata, la noia, la frustrazione.

Il Drop-out si presenta negli atleti adolescenti in evoluzione fisica tecnica, dopo un certo
periodo di allenamenti e gare piuttosto lungo e intenso, decidano di interrompere il proprio
impegno.
Vediamo più dettagliatamente i motivi che possono indurre all’abbandono precoce (Agosti,
Baldo, Benzi et al. 1986)

1) CRISI ADOLESCENZIALI il rapido cambiamento dei parametri fisici, e il mancato


riconoscimento del proprio corpo, sono la conseguenza di una modifica anche nelle
prestazioni e nelle relazioni.

2) DIFFICOLTA’ SCOLASTICHE il binomio scuola-sport è un impegno che molti adolescenti


non riescono a sopportare.

3) BISOGNO DI ESPERIENZE diverse e nuove nella ricerca di costruzione del proprio Io.

Da non sottovalutare anche:

A) MONOTONIA DELL’ALLENAMENTO noia e assenza di obiettivi validi e alternativi.

B) L’ANSIA nella fase preagonistica la mancanza di capacità a gestire le emozioni.

C) INTEGRAZIONE NEL GRUPPO in generale lo sport favorisce l’individualità a scapito


della coesione, prioritaria in questo periodo della crescita.

D) RAPPORTO CON L’ALLENATORE personalmente la reputo una delle cause in


percentuale più importanti. Il ragazzo spesso vede valenze genitoriali ottimali con il proprio
istruttore e altrettanto spesso si sente “tradito” non capito, sente fortemente una mancanza di
possibilità di crescita e di autonomia.

CONSIDERAZIONI

Avviandoci verso la conclusione di questo lavoro di ricerca sulla motivazione vorrei


soffermarmi a riflettere su qualcosa già trattato ma meritevole di attenzione.

Molto spesso ci troviamo di fronte al bambino-atleta di soli 9 anni, mi sento solo di pensare
che in questi casi l’impegno dell’istruttore deve essere ricondotto a far scoprire al bambino la
motivazione primaria e intrinseca ( vedi pag.14 e 22) far incuriosire il bambino al piacere del
gioco nel nostro caso il tennis.

Partendo dal gioco si arriverà ad elaborare un percorso di formazione relativo


all’organizzazione del proprio Io; a quel punto possiamo inserire la parte relativa
all’agonismo.

Se nel bambino si struttureranno questi due tipi di motivazione avremo atleti che faranno una
attività agonistica nata per il gusto di farla, per migliorare e progredire le proprie capacità, o
per sfruttarle al meglio.

STATI MENTALI

Per illustrare il lavoro sugli stati mentali avremmo bisogno di spendere molte pagine e
soffermarci su parecchi aspetti legati alla preparazione mentale dell’atleta.

In modo molto riassuntivo e semplice ci soffermeremo solo su un passaggio che potrebbe


darci delle indicazioni preziose.
Parliamo di ipnosi. Oggi abbiamo la consapevolezza che l’ipnosi non ha nulla a che fare con
l’idea che si tratti di pratiche magiche o riti di strana natura.

Molto più semplicemente possiamo parlare di stato mentale naturale. Quante volte durante la
giornata entriamo e usciamo da stati di trance ipnotica senza neanche rendercene conto,
sicuramente molto di più di quanto pensiate.

Quante volte ci capita di pensare a cose future o immaginare, sognare, oppure in alcune
situazioni dopo un qualcosa che ci è capitato cambiamo atteggiamento e troviamo risorse
che non ci aspettavamo di avere.

Questi cambiamenti relativi agli stati mentali possono essere allenati, fino ad arrivare ad una
gestione completa; l’apprendimento delle induzioni ipnotiche è favorito da condizioni mentali
che potremmo riassumere in:

- avere interesse,

- curiosità,

- fiducia,

- essere disponibili,

- creatività,

- fantasia.

La funzione dell’ipnosi è molteplice, favorendo la suggestione aumenta l’empatia, permette


una percezione selettiva, favorisce l’esperienza limitandone il criticismo, consapevolezza
l’aspetto costruttivo del lavoro cerebrale.

L’ipnosi permette l’organizzazione del mondo esperienziale del soggetto attraverso il


linguaggio verbale, attraverso la voce, con la comunicazione corporea, non serve a “scoprire”
una realtà oggettiva, bensì permette la costruzione di una realtà ontologicamente stabile,
come spazio di comune unità (comunità).

Nelle situazioni di grosso impegno fisico risultano altrettanto importanti, accanto alle doti
fisiche ed al livello di allenamento, anche capacità prettamente psicologiche quale il
potenziamento mentale che ogni individuo è in grado di esprimere accedendo allo stato di
trance ipnotica.

L’allenamento mentale nello sport attraverso l’ipnosi e l’autoipnosi viene sviluppato


utilizzando il concetto di monoidea dinamica, in relazione al rilassamento psico fisico, alla
concentrazione, alla motivazione, al focus attentivo.

L’attività sportiva è la più adatta alla dimostrazione delle prestazioni fisiche, il piacere che ne
deriva, è di gran lunga maggiore di qualsiasi altra attività lavorativa, inoltre con essa è
possibile dare libero sfogo alla propria personalità e la gioia del movimento, e lo spirito di
lotta (come aggressività socialmente accettata) trovano la loro giusta espressione.
Nello sport, come in nessun altra attività, è possibile ottenere un grado massimo di
miglioramento delle prestazioni.

Quindi possiamo riassumere che nella pratica sportiva l’applicazione dell’ipnosi rappresenta
una tappa fondamentale verso il miglioramento delle prestazioni sportive.

A livello competitivo ci vengono fornite le seguenti indicazioni, sulle quali possiamo inserire
l’allenamento con l’ipnosi:

- contratture e agitazione prima dell’inizio della gara

- contratture dovute a complessi di inferiorità o ad atteggiamenti di aspettativa

- incapacità di sfruttare al massimo le proprie possibilità

- difficoltà a compiere i movimenti con scioltezza e leggerezza

- debolezza di concentrazione nel giudicare la situazione, per cui ci si lascia sfuggire anche
una vittoria sicura.

- Nervosismo generalizzato, collegato con stati di insonnia prima della gara, e cosiddetta
“febbre da competizione”.

Ricerche fatte sulle cause di insuccesso ad atleti di alto livello internazionale, e scaturita
come situazione preponderante quella della “ipermotivazione” che provoca uno stato
“ergotropico di tensione eccessiva”.

In questi casi di instabilità emotiva, l’utilizzo della pratica regolare dell’ipnosi, richiamata poi
in forma abbreviata prima dell’inizio della gara, può produrre una straordinaria sicurezza
nell’atteggiamento durante la competizione.

Impressionanti sono i risultati ottenuti con gli esercizi anticipatori: un gruppo di studenti di
educazione fisica si “allenò” per due settimane rappresentandosi mentalmente la corsa agli
ostacoli dieci volte al giorno per dieci minuti ogni volta.

Nei 110 m. ostacoli, si ebbe un tempo inferiore do 0,57 sec. Rispetto al gruppo di controllo il
miglioramento della prestazione fu del 100%. Facciamo notare che si trattava solo di
allenamento mentale, senza immersione autogena.

Da sottolineare l’utilizzo di alcune formulazioni di proponimenti, atti a rinforzare motivazione e


miglioramento delle prestazioni:

- colpisco sciolto e potente

- scatto veloce e fluido

- avversario indifferente, mantengo il ritmo

Nello specifico sport del tennis possiamo trovare con l’utilizzo di alcune tecniche la centratura
giusta e il “qui ed ora”:
- tecnica del campo, su

- tecnica del respiro calmo e tranquillo

- tecnica della palla gialla-rossa-verde

- tecnica del guardare la palla

PROVARE PER…………..

In modo molto semplificato vediamo quali sono i passaggi fondamentali di un percorso legato
ad induzioni ipnotiche:

- rilassare l’atleta per mezzo di tecniche tipo: rilassamento frazionato di Vogt, rilassamento
progressivo di Jacobson, training autogeno o altre.

- Iniziare una induzione ipnotica inserendo le visualizzazioni.

- All’interno di questo percorso si inserisce un “interruttore di attivazione”, (che porterà l’atleta


a cambiare il suo stato mentale) si tratta di un segnale postipnotico, personale, scelto
dall’atleta, (es. stringere il pugno, se in quello sport viene utilizzato un attrezzo ad es. la
racchetta, prima di iniziare il gioco, stringere due volte fortemente l’impugnatura, ognuno poi
sceglierà un segnale personale).

- Questo segnale verrà interiorizzato in fase di visualizzazione ipnotica.

- A questo punto il percorso relativo allo stato di rilassamento per mezzo dell’ipnosi si
conclude.

- Nella fase della gara questo “segnale” potrà essere richiamato ogni volta che l’atleta lo
riterrà opportuno, andando a variare il suo stato mentale.

Si precisa che queste tecniche servono per fissare i punti chiave di uno stato mentale
(ipnosi) di un lavoro con un atleta.

Per riassumere quanto esposto, prendiamo in considerazione l’acronimo SE MoLTA FeDe


importante riprendere tutti i passaggi che vedremo con l’atleta.

Sincronismo: capacità di avvicinarsi alla persona, assomigliarle, può esserci un sincronismo


completamente opposto con la persona che non ci assomiglia.

Emisfero emotivo: mettere da parte la razionalità, dare una suggestione positiva, emotiva.
Non bisogna fissarsi sui punti su cui l’atleta non vuole andare, non fissarsi sui suoi NO.

Ciò che è negativo per una persona, può essere anche adoperato in positivo; quando uno
vede in negativo, trasforma in negativo anche il positivo e viceversa.

Ecco perché pensare in positivo.

Monoidea: tutto è positivo, tutto è ok! Se il monoideismo è negativo c’è da lavorare.


Il sincronismo, unito con l’emisfero emotivo porta ad innamorarsi. Se sei innamorato hai una
idea fissa e pensi sempre a quella persona, quindi ottieni il risultato.

Quando si è di fronte a una cosa che non ha senso, si è probabilmente di fronte ad una
monoidea.

La realtà è una monoidea, solo che è condivisa.

Limitazione del campo di coscienza: contribuisce a fissare in un solo punto la volontà


responsabile per raggiungere la trance.

C’è un forte abbassamento della critica, è una prima risposta al monoideismo.

Trance: stato mentale alternativo. Lo stato di veglia è uno stato mentale, però è dato per
scontato.

Quando si sta male è un classico stato mentale in cui si perde l’equilibrio, perché si dice “ ma
che mi sta succedendo?” e ci si disorienta, rispetto allo stato mentale dello stare bene.

E’ però abbastanza facile riprendere l’equilibrio.

Attivazione: del potenziale mentale, un modo per costruire una nuova “realtà” personale.

Essere attenti a ciò che ci circonda nello stato di veglia è attivazione, oppure essere “nelle
nuvole”, perché si è in uno stato mentale proprio, con una fenomenologia diversa, è essere
in trance.

Fenomenologia: mette in evidenza lo stato di trance che è stato attivato, sia in chi lo vive,
che in chi lo induce.

E’ quello che si evidenzia (in una monoidea di rilassamento, la persona avrà uno stato
mentale diverso da quello di veglia, la catalessi o la levitazione sono fenomenologie
evidenti).

De trance: riporta allo stato di veglia di partenza (focus attentivo).

E’ l’uscita dallo stato mentale alternativo. Se abbiamo FEDE (fiducia) riusciremo bene nel
nostro lavoro.

Questo acronimo ci permette di rispondere a tutte le domande che ci vengono fatte sulla
Psicologia dello Sport e sui suoi problemi, quindi dare una mano a chi ha dei problemi.

Lo psicologo dello sport deve essere un solutore di problemi, non un creatore di problemi.

RIFLETTIAMOCI

MONOIDEA = OBIETTIVO + MOTIVAZIONE

MANTENUTI NEL TEMPO

L’OTTUNDIMENTO (smussare) DELLA CRITICA REALIZZA


LO STATO DI TRANCE

OTTIMIZZARE

Questo è l’ultimo pensiero a conclusione di questa ricerca sulla Motivazione.

Utilizzando il termine ottimizzazione vogliamo riferirci al raggiungimento della prestazione più


elevata, l’obiettivo è di cercare una riduzione dello scarto tra la prestazione reale e quella
potenziale.

Nell’atleta ( con questa definizione si intende il soggetto che ha iniziato la fase di


specializzazione) l’ottimizzazione è un progetto strategico che prende in esame tutti gli
aspetti della vita dell’atleta in dettaglio: lo stile di vita, il tipo di allenamento, la squadra, lo
studio delle sue peculiarità biotipologiche in funzione delle caratteristiche della prestazione.

L’atleta è un sistema molto complesso (interno ed esterno) e come tale deve essere
affrontato; e non in segmenti isolati o separati dal contesto del tipo di prestazione.

Conoscere- sapere - saper fare.

E’ fondamentale la distinzione che si ritrova sul piano filosofico, fra un tipo di conoscenza
immediata, per cui conoscere vuol dire “entrare in contatto” con una cosa, averne “visione”,
e un tipo di conoscenza immediata indiretta, per cui conoscere vuol dire avere nozioni o
informazioni “intorno a una cosa” , avere cognizione di qualcosa di essa, pur senza averne
esperienza diretta. Ogni praticante di WingTsun, come del resto in tutte le attività, prima di
iniziare è venuto a conoscenza del sistema attraverso la pubblicità che, sia l’Organizzazione,
sia tutti coloro che la compongono, fanno in tutte le direzioni e con ogni mezzo.
L’Organizzazione di WT del GGM Leung Ting è senza dubbio la più grande a livello
mondiale, ma sono sicuro che rispetto a quelli che praticano il sistema, coloro che lo
conoscono, o per sentito dire, o per aver letto qualcosa, sono molti più. Chiaramente
conoscere solo il nome WingTsun non significa certo “sapere” cosa è.

Secondo il mio punto di vista, “sapere” cosa è il WT significa saperne parlare, esporne i
principi, conoscere le leggi sulle quali si sviluppa, averle chiare nella mente, averne
coscienza e consapevolezza intuendone il senso e possedere delle cognizioni derivate
dall’insegnamento di una persona qualificata e da uno studio teorico approfondito.

Ben altra cosa, poi, è “saper fare” il WT.


Si da per scontato che chi pratica WT ne abbia avuto conoscenza diretta o indiretta, ma non
significa che lo “sa” o che lo “sa fare”.
Credo che ormai tutti conoscono gli occhiali cosa sono e a cosa servono, pochi sanno però
come sono fatti e quali sono i materiali usati per le lenti e per la montatura e la loro
lavorazione, pochissimi sono coloro che li costruiscono, che quindi “sanno” tutto degli
occhiali. Ma tra questi, proprio tutti li sanno fare bene?
Ho fatto un esempio riguardo l’ottica, ma si possono fare esempi in tutti i campi.
Per le arti marziali il discorso non cambia.
O attraverso i mezzi di comunicazione, o per contatto diretto, tutti conoscono le arti marziali,
non tutti però le praticano e in pochi sono quelli che pur praticandone un sistema lo sanno
veramente fare.
Può anche essere bello elencare i programmi che compongono il sistema WT, enumerarne i
principi e le caratteristiche ma se non ci si allena duramente e con continuità tutto resta solo
un bel discorso.
Parliamo di difesa personale reale e a volte è avvilente notare come alcuni insegnanti,
durante seminari o lezioni, prima di difendersi da un pugno o un calcio, fanno fare due o tre
prove del pugno o del calcio prima di applicare una tecnica. Che tristezza!
Dato che ultimamente diversi praticanti di WT Leung Ting si sono allontanati dalla WTOI-
EWTO con motivazioni molto discutibili e dato che alcuni di loro hanno menzionato il mio
nome riguardo i tutorials a cui ho partecipato al Castello, in Germania, tenuti dal GGM
Leung Ting, dove io avrei fatto una Siu Nim Tao, e, quindi, un WT “diverso” da quello che si
pratica con il GGM Kernspecht, desidero fare delle considerazioni al riguardo.
Sono 20 anni che pratico WT ed è stato sempre lo stesso, sia che abbia praticato con il
GGM Kernspecht sia con il GGM Leung Ting, prima e adesso.
Nonostante la loro diversità fisica, culturale ed etnica, non ho mai notato discrepanze
nell’esporre le forme e i principi del WingTsun.
Il WT è fatto di “principi” che vanno capiti, assimilati e interpretati. Se tutto quello che si fa
rispetta i concetti di base, al di là della novità o meno di quello che si sta imparando,
secondo me, è sempre valido, infatti in tutta la storia del WT, ogni maestro ha sempre
aggiunto qualcosa di proprio, purché rispetti i principi del sistema.
Comunque io credo che il problema non sta in ciò che a queste persone è “stato insegnato”,
ma in ciò che hanno capito di quello che gli è “stato insegnato”.
Io ho sempre diviso, e continuerò a dividere, coloro che stanno imparando il WT in due
categorie: quelli che il sistema lo praticano e quelli che lo praticano e lo studiano.
Fino a quando coloro che praticano soltanto sono semplici allievi principianti il problema non
si pone, ma quando gradi superiori insegnanti risultano essere solo dei "praticoni", senza la
minima conoscenza dei fondamenti del sistema, allora è triste.
Chi studia il WT e lo “sa fare” non si lascia abbindolare cosi facilmente dal primo che
incontra!
Il Maestro ha il compito di trasmettere oltre alle tecniche anche i principi del sistema, se
attraverso questo insegnamento l’allievo non è in grado lui stesso di arrivare a delle
conclusioni attraverso uno studio e un approfondimento personale, il problema sta in lui, non
nell’insegnamento. L’allievo al quale c’è bisogno di insegnare tutto, nei minimi particolari,
perché non riesce ad integrare niente di suo in ciò che fa, non sarà mai in grado di diventare
un esperto di WT.
Se in una classe di studenti hanno tutti le stesse carenze, la colpa è sicuramente
dell’insegnante o del suo metodo di insegnamento, ma quando queste carenze sono
riscontrabili solo in qualcuno di essi, allora il problema sta negli studenti.
Quello che sto per dire forse potrà sembrare un po’ duro, ma serve per fare un esame di
coscienza sulle proprie conoscenze del sistema.
E’ tollerabile che un insegnante di WT al di là di qualche sezione tecnica non sappia quasi
nulla delle basi del sistema e non sa dire nulla di quello che sa fare?
Si può accettare che, pur conoscendo la struttura del sistema e le basi teoriche, non sa fare
niente di quello che sa dire?
Può essere credibile un insegnante che non sa e non sa fare neanche la quinta parte del
grado che porta sulla sua uniforme?
Spero che nessuno degli insegnanti WT abbia di questi problemi, ma se qualcuno, che ha,
anche se minimamente, qualcuna delle lacune sopra elencate e non fa niente per colmarle
con un insegnante qualificato, addossando le responsabilità a chi non le ha, vuole seguire il
primo che incontra, lo faccia pure, l’organizzazione non ha bisogno di lui.
L’organizzazione WT Leung Ting, attraverso i suoi Insegnanti e Maestri, da a tutti la
possibilità di apprendere il sistema in modo omogeneo, il resto dipende dalle proprie
capacità interpretative, sia teoriche che pratiche.

Il WingTsun (WT)
Attualmente il WINGTSUN, è una delle Arti Marziali Cinesi più diffuse nel mondo - oltre 60
nazioni.

Il Wing Tsun Kung Fu non è una disciplina sportiva, ma un nuovo e formidabile metodo di
combattimento di lotta Cinese, sviluppata circa 250 anni fa da una monaca Buddista del
tempio Shaolin, unitamente ad una sua allieva Yim Wing Tsun, (dalla quale lo stile prende il
nome).

Fino a 50 anni fa, quest'arte rimase segreta (non conosciuta al grande pubblico), poiché
veniva insegnata ad una ristretta cerchia d'adepti.

OGGI

Il Wing Tsun è un'arte marziale FORMATIVA, EDUCATIVA e SALUTARE.

Nel presente, il Wing Tsun viene tramandato in modo familiare come nei secoli scorsi, con
valori che oggi sembrerebbero scomparsi:
gerarchia patriarcale; l'unità familiare; lealtà e unione tra le persone.

Il Wing Tsun tramite i suoi istruttori, educa i propri adepti contro la violenza, spiegando loro di
non usare mai in modo improprio quanto appreso, pena l'espulsione dalla scuola, ma allo
stesso tempo addestrandoli in modo efficace, per la difesa da strada.

FILOSOFIA

Il Wing Tsun, contiene tre principali correnti di pensiero Orientale; Buddismo,


Confucianesimo e Taoismo.

BUDDISMO :
Vi è il Saluto; la consapevolezza che non esiste un punto fermo - tutto è sempre in evoluzione
- la necessità di lavorare duro, per migliorare - non siamo mai arrivati.

CONFUCIANESIMO
Viene tratto il concetto della famiglia, della gerarchia della disciplina, della lealtà;

TAOISMO
Viene preso come VIA da seguire, non solo nell'applicazione dell'arte marziale, ma anche
come atteggiamento per la vita quotidiana.
Il suo studio offre l'opportunità, di una più chiara comprensione, poiché attraverso i principi,
fornisce chiare chiavi di lettura per la vita.

Queste filosofie illuminano la via del combattimento, ma anche quella della vita e del sapere.

Attraverso questa saggezza e valori vengono formulati:

4 PRINCIPI DI ENERGIA (STUDIO E GESTIONE DELLA FORZA)


1) LIBERARSI DELLA PROPRIA FORZA

2) LIBERARSI DELLA FORZA DELL'AVVERSARIO

3) SFRUTTARE LA FORZA DELL'AVVERSARIO CONTRO DI LUI

4) AGGIUNGERE LA PROPRIA ENERGIA

4 PRINCIPI DI STRATEGIA E APPLICAZIONE

1) SE LA STRADA E' LIBERA VAI DENTRO - (AVANTI)

2) SE LA STRADA E' OCCUPATA RIMANI INCOLLATO

3) SE L'AVVERSARIO CEDE SEGUILO

4) SE L'AVVERSARIO E' PIÙ FORTE CEDI

Ogni istruttore WingTsun qualificato, non solo è in grado d'insegnare questi principi in modo
teorico, ma dovrebbe essere all'altezza di metterli in atto, durante la pratica dell'arte marziale.

"BLITZ PROGRAMME"
"COMBATTIMENTO LAMPO"

IL "BLITZ PROGRAMME" (COMBATTIMENTO LAMPO) E' UN'APPLICAZIONE AVANZATA


DEL WINGTSUN, (UTILIZZATO FINO A POCHI ANNI FA, DAI SOLI REPARTI SPECIALI
DELLA POLIZIA E DELLE FORZE ARMATE).
OGGI, QUESTO PROGRAMMA VIENE INSEGNATO A TUTTI I PRINCIPIANTI WT,
AFFINCHE' IN BREVE TEMPO, ABBIANO L'OPPORTUNITA' D'APPRENDERE UN METODO
DI DIFESA PERSONALE EFFICACISSIMO.

"WINGTSUN TRADIZIONALE"
OLTRE AL "BLITZ PROGRAMME", (NECESSARIO NELLA PRIMA FASE DI STUDIO PER
GARANTIRE ALL'ALLIEVO UN'IMMEDIATA CONOSCENZA TECNICA PER LA DIFESA DA
STRADA) VIENE INSEGNATO IL METODO TRADIZIONALE

IN ESSO E' CONTENUTO - LE FORME - IL NUK SAO - IL CHI SAO - ESERCIZI DI CHI
SAO LIBERO / LAT SAO - IL COMBATTIMENTO - E LA MEDITAZIONE.

NELLA SCUOLA DEL GRAND MASTER LEUNG TING, IL WINGTSUN MANTIENE IL


METODO D'ISTRUZIONE TRADIZIONALE, DIVIDENDO I PRATICANTI IN PICCOLI GRUPPI
DI STUDIO AL FINE DI DAR LORO UN'ATTENZIONE INDIVIDUALE.

OGNI GRUPPO LAVORA SU BREVI PROGRAMMI TECNICI, PER PERMETTERE AD OGNI


ALLIEVO DI APPROFONDIRE LE NOZIONI RELATIVE AL PROPRIO LIVELLO, SENZA
CONFONDERSI.
TRAMITE ESAMI, CHE VENGONO SVOLTI OGNI TRE MESI, GLI STUDENTI HANNO
L'OPPORTUNITA' DI PROGREDIRE AL PROGRAMMA SUCCESSIVO.

WT è l'autodifesa nella forma più pura

WT è il più brillante sistema di autodifesa mai pensato dall'uomo, perché:

Il Wt non è basato sulla forza fisica o sull'abilità acrobatica e , anzi , permette alle persone più
deboli di difendere se stesse.

Il WT insegna come usare la forza dell'avversario per usarla contro di lui.

I movimenti di autodifesa del WT derivano dai riflessi tattili che sono meccanicamente e
direttamente determinati dall'attacco dell'avversario.

In questo senso il WT non è suscettibile di "finte" volte a fare cadere in errore il praticante.

Il WT può essere imparato in tempi brevi ai fini della difesa personale ed approfondito nel
tempo nei suoi aspetti di vera arte marziale tradizionale cinese.

Il WT incontra le esigenze di chi cerca di rispondere alla forza con una forza appropriata ed è
per questo particolarmente adatto per i corpi di polizia e di sicurezza.

Il WT è un sistema completo di arti marziali. La sua efficacia non risiede in evoluzioni stilistiche
o in trucchi per creduloni , ma nella totalità rivoluzionaria dei sui semplici concetti.
L'immediatezza , il limitato numero di movimenti usati , ecc., fanno del WT il più veloce
sistema di arti marziali mai provato dall'uomo.

"Meno è migliore"

L'economia del WT

Numero dei movimenti

Il WT è convinto che un uomo può affrontare un combattimento anche con pochi movimenti a
disposizione nel suo bagaglio tecnico. La migliore autodifesa è quella che annulla la maggior
parte degli attacchi reali con il minor numero possibile di movimenti !

Movimenti che vengono eseguiti simultaneamente:

Si possono eseguire fino a 3 schemi di movimento contemporaneamente.

Attraverso allenamenti intensi , gli studenti di WT imparano a prendere in prestito l 'energia di


attacco tramite una sorta di controllata e deliberata "cedevolezza". Le parti del corpo attaccate
si caricano così della forza dell'attacco stesso e rilasciano quest'energia direttamente contro
chi per primo l'ha scagliata.

Pugni a catena:

Una volta che un praticante WT ha messo a segno un colpo, non si accontenta di questo
traguardo ma lascia seguire al primo pugno una serie di altri. Questa è una delle armi più
efficaci di un combattente , al punto che neppure gli stili tradizionali di arti marziali conoscono
metodi efficaci di difesa contro i pugni a catena. La velocità ed il numero di colpi portati
all'avversario lo riducono ad una difesa senza speranza.

La "Soluzione Universale" , la "linea centrale" ecc..

L'economia del WT si manifesta in tutti i suoi movimenti ed in tutti i suoi principi ed è un'arma
talmente efficace e "facile" da un punto di vista fisico , da renderla particolarmente adatta alle
donne. La semplicità con cui si raggiungono gli obiettivi sono oggetto di stupore per molti
esperti di altre arti marziali.

Ulteriori benefici del WT

Oltre alla giusta enfasi che si dà all?aspetto della difesa personale, ci sono altri benefici per cui
si può scegliere di praticare WT. Ecco qui una breve lista di quello che una scuola di WT può
offrirti:

Il meglio nella difesa personale

Allenamento di riflessi e reazioni

Allenamento della concentrazione

Esercizi di rilassamento e meditazione

Esercizi di stretching , benessere fisico.

Maggiore sicurezza in se stessi e nei propri mezzi

Una pratica filosofia di vita

Incontrare persone simpatiche

Un passatempo divertente

Salute

Le tre sezioni dell'apprendimento del WT


Le Forme
Le "forme" derivano da un serie di movimenti naturali fondamentali che sono stati integrati per
gli intenti dell'auto difesa e sono stati inoltre arricchiti dall'esperienza dei Gran Maestri , nel
corso dei secoli, per integrare il rilassamento , la meditazione ed il benessere fisico.

Chi Sao (mani "appiccicose")

Il WT è l'unica arte marziale che include un esercizio che allena i riflessi tattili che sono
determinati dal contatto. I riflessi difensivi del Chi Sao sono sollecitati in modo immediato e
meccanico dall'attacco dell'avversario. Per questo motivo sono "fatti su misura" per rispondere
ad ogni situazione di combattimento. I riflessi del Chi Sao sono di gran lunga più veloci di quelli
comandati dal'impulso visivo e permettono di difendersi anche in situazioni di mancanza di
visibilità (di notte , in luoghi bui ecc..)

Il Chi Sao è la colla che unisce una serie di singoli movimenti in una sequenza coerente che
non è però "prestabilita" rigidamente , in modo da adattarsi ad ogni situazione e ad ogni
reazione dell'avversario. Senza il Chi Sao il WT sarebbe solo una somma di singole tecniche e
di "movimenti morti"(come tutti gli altri stili di Arti Marziali). Per questo si può dire che il Chi
Sao è la vera anima del WT.

Lat Sao (esercizi in coppia)

Lo scopo del WT è di sviluppare abilità nella lotta. Nel Lat Sao ( che significa "combattimento a
Fase," , incontro diretto) , lo studente di WT impara a confrontarsi senza paura in uno scontro
uno-contro-uno. Negli esercizi di WT ogni pugno, calcio ecc.. è eseguito con un contatto
morbido in modo da ridurre al minimo il rischio di contatti dolorosi .Lo studente può valutare i
progressi nella sua tecnica senza paura di fare del male al partner che si presta come
sparring. Il che fa del Lat Sao una delle parti più interessanti e motivanti del WT.

* Blitz-Defence: programma speciale per particolari situazioni in caso di aggressioni.

"Il WT non è solo un'arte marziale intelligente , è anche un'intelligente metodo per imparare"

Le 5 fasi del combattimento

In una reale situazione di auto difesa le "regole di buone maniere" (che potrebbero alterare
l'esito dell'incontro) non esistono! Per questo motivo è essenziale essere pronti ad un
combattimento totale , a tutti i livelli, ed è per questo che è necessario essere a conoscenza
delle varie fasi del combattimento.

Le 5 fasi:

1- Fase Combattimento con i piedi

2- Fase Combattimento con le mani

3- Fase Combattimento con gomiti e ginocchia

4- Fase Combattimento con prese, leve, immobilizzazioni , controlli ecc..

5- Fase Combattimento al suolo


In ognuna delle situazioni sopra elencate i principi del WT possono essere applicati con
successo, ed è per questo che molti praticanti di svariate arti marziali , una volta visto il WT
,iniziano a praticarlo.

"Il Wt inizia dove molte altre arti marziali si fermano : il combattimento a corta distanza senza
esclusione di colpi!"

I 4 principi del WT

Il WT non è la somma di singole tecniche , ma è un vero SISTEMA di arti marziali

Il WT segue la strategia della difesa aggressiva.

Al più alto livello della gerarchia del sistema troviamo i 4 principi:

Primo :.... Se la via è libera , avanza!

Secondo : Se la via non è libera ,attaccati al tuo avversario !

Terzo :..... Se la forza del tuo avversario è superiore alla tua , cedi!

Quarto :.. Se l'avversario indietreggia , seguilo!

Liberati delle parole che intrappolano!

La confusione provoca l'aggressivita'

Il verbo "essere" e' il principale responsabile di tutte le delusioni, le illusioni, e di conseguenza,


le confusioni mentali ; in piu' e le regole grammaticali portano, inevitabilmente, verso una lite.

La causa della confusione e' la « funzione propositiva » di Russell, cioe' una frase che sembra
avere molti sensi, ma in realta' non ne ha alcuno.

Alcuni ricercatori linguistici usano il termine « confusione » per indicare la « funzione


propositiva » espressa male, e che ne`chi parla ne`chi ascolta sanno esattamente cosa voglia
dire.

La « confusione » scatena anche alcune sensazioni come la rabbia, la paura e quindi


l'aggrassivita' ; questo accade in alcuni tipi di scimmie ed anche negli esseri umani. Attinente
a queste relazioni, vorrei indicare che nel 19 sec. John Highlings Jackson introdusse il concetto
« proposizione » , per caratterizzare la dominanza dell'emisfero sinistro quando si parla, cioe'
quella parte del cervello lavora per formulare frasi e dire qualcosa.

Al contrario dell' « espressione propositiva » Joseph Bogen, uno dei pionieri della
commissurotomia, improntava il concetto di « apposizione » per caratterizzare l'elaborazione
delle informazioni nell'emisfero destro nei destri, e si batte' molto per questa sua idea,
che riteneva dovesse essere insegnata e sviluppata nelle scuole. Un altro tedesco che si e'
battuto per il pensiero appositivo nelle scuole e' il Dr. Gerhard Huhn (Karl Koch "v.d. Kueste") "
Creativita' e scuola, rischi dell' attuale programma per lo sviluppo libero dei bambini-
incostituzionalita' delle politiche nazionali riguardanti il traguardo educativo ed i contenuti delle
lezioni alla luce delle nuove scoperte sulla esplorazione del cervello).
"ESSERE" o "NON-ESSERE"

Ci sono dei buoni argomenti per l'eliminazione delle parole "essere" ( e le sue forme come
"sono" "sei" "e'" "siete" "sono" "ero" "divenire" ecc...) in ogni frase scritta o detta, ma in modo
particolare quando si pensa.

Prima che Lei mi fermi e mi prenda per pazzo, cosa che per me vale come un complimento,
vorrei entrare brevemente nel campo della psicologia e della filosofia.

Dato che mi occupo di lavoro fisico e meditazione taoista da piu' di quaranta anni, mi permetta
di scuotere l'assioma classico Aristoteliano dell'identita' o uguaglianza. Con Heraclito, un altro
filosofo Greco, credo che noi non viviamo la stessa esperienza due volte; credo che tutto scorra
e cambi continuamente. In un batter d'occhio nel quale vedo e definisco un movimento "Bong-
sau", questa stessa tecnica si e' gia' trasformata in qualcos'altro. Allo stesso modo mutano le
persone e le cose. La frase "Pietro e' stupido" gli ruba la sua intelligenza per sempre e lo
esclude dalla societa'.

Chi parla, invece, voleva dire solo che Pietro si e' comportato in modo inusuale ed inaspettato
per un caso unico, e se lo aspetta come una persona ragionevole. Non c`e' da meravigliarsi,
quindi, se Pietro si arrabia. L'effetto di una frase molto brutta del tipo: "Sono sempre andato
male in Italiano", impedisce a chiunque, ed in qualsiasi modo, di prendere coraggio ed
impegnarsi scrivere qualcosa di importante. E questo solo perche' chiunque puo' ricevere una
brutta nota a scuola. Anche io ho ricevuto un 4 ad un compito di Tedesco al Liceo Ginnasio, ed
un 60 dallo stesso insegnante, che all'epoca era il secondo esaminatore, all'esame di maturita'.

L'uso del verbo "essere" suscita il concetto dell'eternita', dello statico, del fermo. Chi la pensa
cosi' si crea un mondo morto ed artificiale, nel quale non c`e' nessun mutamento, nessuna
speranza. Chi, per esempio, pensa di se`stesso: "Sono un lottatore" si e' privato di un qualsiasi
tipo di crescita, di qualsiasi opportunita' futura. Quindi lui "e'" un lottatore o non lo e' per niente. Il
verbo "essere" non lascia che un paio di scelte come "si" o "no", nessuna via di mezzo o livello
intermedio a qualsiasi trasformazione, come, invece, troviamo in Natura.

Quando un giovane uomo e' entusiasta per aver vinto la resistenza o una lotta, non si rende
conto che in realta' ha superato solo un livello intermedio della sua vita. Quando diverra' vecchio
dovra' riconoscere che lottare implica sempre "contro" qualcosa o qualcuno, e che questo
"contro" significa dirigersi contro la natura, contro l'esistenza e percio' contro se' stesso. Quando
lui si considera lottatore, gli altri si aspettano che lui si comporti sempre come tale e non puo'
piu' liberarsi dal carcere che si e' programmato da solo (« Un uomo e`come un uomo »).

Dare e dire dei nomi, questo o quello, e' un gesto aggressivo contro se' stesso e contro gli altri.
Chiamare un leone "animale rapitore" ed uno schiavo "buono" non solo stimola lo sviluppo del
nostro concetto della cosiddetta "morale", ma stabilisce un controllo sul pensiero piu' di quanto
ce ne possiamo rendere conto. La frase "questa e' la verita'" vuole far credere che ci sia
qualcosa come la verita' assoluta. Senza quella brutta parola "e`" non potremmo paragonarci (o
metterci d'accordo); ci sarebbe troppo poca invidia e non da' l'opportunita' di generare e
scaricare aggressivita', e noi non potremmo chiederci "Chi e' il miglior combattente tra di noi ?"

Alcune frasi non lasciano nemmeno il diritto di replica, per esempio:"Il film era fantastico", in
realta' dovrebbe essere espressa in termini soggettivi: "Io ho trovato quel film fatto bene,
perche'..." e non ci sarebbe neanche piu' il bisogno di usare la forma passiva ("Verranno
abbbattuti 45.000 bovini circa a causa dell'epidemia X", oppure Ronald Reagan: "Sono stati
commessi degli errori=mistakes were made"), dietro alla quale si nasconde, innominato,
l'autore, cioe' il soggetto della frase.

Noi dovremmo diventare piu' coscienti e responsabili e non dovremmo neanche piu'
considerarci come vittime di un mondo anonimo, specie quando affermiamo che: "Io sono stato
licenziato", ma sarebbe meglio prendere la nostra vita nelle nostre mani. Ogni volta che noi
utilizziamo una forma del verbo "essere" mentiamo a noi stessi ed agli altri. Quindi, quando lei
legge, ascolta o pensa aale coniugazioni di "essere" o "divenire", diffidi.

Secondo me l'uso del verbo essere e' ambiguo e pericoloso perche' significa identificazione: "La
paura e' il miglior insegnante" (Paura=insegnante ?), oppure puo' trarre in inganno come nel
predicato; "Il limone e' giallo" (e' solo una percezione ottica e non una caratteristica; chi non puo'
distinguere i colori lo vedra' sempre grigio). Goethe lo capi' attraverso i suoi studi sui colori che
oggi sono ampiamente riconosciuti ed apprezzati. Una persona che osserva si crea e cambia il
proprio mondo, osservando. Quando lei vede una persona ubriaca che e' stata abbandonata ai
margini di un pub, potrebbe pensare: "Questo e' ubriaco", e l'ubriaco non si potra' aspettare
alcun aiuto da lei; se invece prova a cambiare e pensa: "Da l'impressione di essere ubriaco",
allora potra' nutrire dei dubbi, guardarlo meglio, e potra' salvare la vita di un potenziale omicidio
violento.

Cerchiamo di capire che un qualunque tipo di frase, anche solo pensata, tende comunque ad
essere realizzata e, percio', diventa il nostro programma inconscio. Lei dunque e' quello che
pensa di se stesso. Ma anche gli altri sono quello che lei pensa di loro ! Stiamo attenti a fare
certe affermazioni, sia che le abbiano fatte gli altri si ache siamo stati noi a farle.

Per esempio quando qualcuno dira': "Questa idea e' stupida !" allora lei potra' intenderlo nella
sua prima lingua "l'idea non ha senso" e potra' continuare, replicando: "Che cosa non le piace
?", invece di dire: "Sciocchezze, questa e' una buona idea, e' lei lo stupido !". Quando gli altri la
insultano: "Lei e' un idiota !", allora non solo prendera' le distanze, ma tradurra' nella sua prima
lingua: "Lei mi ha irritato molto !". Ancora, quando lei cerca di risolvere un problema, pensa: "
Questo e' impossibile", allora provi a pensare meglio: "Questo, al momento, mi sembra difficile"
e cerchi una soluzione.

Ci sono, addirittura, delle lingue in cui manca completamente il verbo essere: Cinese
mandarino, Russo ed Ungherese. Io ho avuto delle difficolta' a scrivere questo articolo (tranne i
testi che ho solo citato perche' devo solo copiare).

La forma Inglese dell'infinito verbo essere corrisponde alle parole "to be", poco apprezzate e
spettacolari, deriva dal Sanskrito (lingua antica degli Indiani colti) dalla parola
"bhu=crescere/aumentare". Sia nella 1 che nella 3 persona singolare abbiamo "am" e "is" che
hanno la stessa radice come nelle parole Sanskrite asmi che deriva da atmen ("respiro"). Quindi
beati quei fortunati che non avevano il verbo "essere" !

Buddha aveva ragione quando prescriveva, come terapia per superare le sofferenze della vita,
l'uso della "parola corretta/giusta" (vedi anche "Logica del combattimento individuale", pag. 260)

K. R. Kernspecht
LIBERATI DALLE IDEE "FISSE"

Fin quando sosterremo l'idea sbagliata che siamo una personalita' unica e permanente solo
perche' occupiamo un corpo e possediamo un nome, non potremo mai osservarci e non
potremo mai cambiare nulla !

Questo perche' ci identificheremo sempre con ognuno dei nostri ruoli, con tutti i nostri cattivi
umori o pensieri che ci passano per la testa di volta in volta.

Per non dimenticarci di noi stessi, non dovremmo identificarci ne' con quelle idee che ci
vengono in mente di tanto in tanto e ne' tantomeno riferirle a noi esprimendoci con un "Io". E
quante volte riconoscamo che dottori, insegnanti o giudici identificano loro stessi con le idee che
si sono fatti di loro; sono solo prepotenti e litigiosi, occupati ad avere ragione sugli altri invece di
risolvere le questioni.

E' possibile imparare a liberarci dalle identificazioni falsate, anche se e' difficile.

Innanzitutto bisogna capire che le idee non si lasciano proprio fermare. Per non identificarsi con
loro, si deve osservare senza giudicare. Per cio' non si deve dire: "Io penso", perche' significa
cedere, significa dir loro "si". Uno spiritello cattivo manda le idee nelle nostre teste; ma noi non
dobbiamo tenerle come se fossero "nostre".

Idee e pensieri devono essere distinti bene. Noi non siamo responsabili per le nostre idee, ma lo
siamo per i nostri ragionamenti. Se Le capita di avere un'idea che Le fa riflettere, e continua a
pensarci partendo da quell'idea, allora si che e' responsabile.

Nella lingua del WingTsun: devi diventare passivo quando affronti le tue idee, allora non ti
identificherai e ne' ti confonderai con loro. Pensa sempre: Tu non sei la tua idea ! Invece,
appena credi che sia tua, l' idea avra' avuto la meglio su di te e pretendera' di realizzarsi.

In futuro, invece di pensare "Io", dovresti essere piu' preciso "Questo pensa"; se vuoi ottenere il
distacco necessario.

Quando, di sera, stai sul letto e ti vengono certe idee come un po' di invidia, di gelosia e di
cattiveria che ti vogliono buttar giu' e che riguardano il tuo cosiddetto senso della giustizia, la tua
auto-compassione, un forte senso di resa dei conti con gli altri, di vendetta ecc..., allora lasciale
andare, non ti curar di loro perche' non sono le tue idee ! Osservale divertito, il modo in cui si
infilano casualmente nella tua testa e, con la stessa facilita', se ne vanno. Quando lo potrai fare,
troverai una liberta' interiore.

Il lavoro su noi stessi riguarda, appunto, la liberta' interiore. Noi lottiamo contro noi stessi per
conseguire armonia e liberta'. Mentre all'esterno i muscoli si rilassano e ci liberiamo dalle
tensioni quando pratichiamo il WingTsun fisico, dovremmo fare allo stesso modo, a livello
mentale, con il WingTsun spirituale; dovremmo separare ogni relazione tra le nostre idee e noi
stessi.

Per impedire che i nostri ragionamenti si dirigano verso delle inutili fantasie e per prevenire il
marciume spirituale e bloccare il continuo rimuginare di certe idee intorno allo stesso
argomento, c`e' un metodo pratico, cioe' quello dell'apprendimento con il cuore e della recita ad
alta voce dei testi.
Brevemente, un'amica mi ha confidato che si tira su' con bevendo. Ma per liberarsi da certe
fissazioni che la tormentano farebbe meglio ad imparare le poesie sulle campane di Schiller !

Qualcuno si e' mai chiesto come mai i credenti Cristiani, Hindu' e Musulmani imaparano, ancora
oggi, le loro sacre scritture con il cuore; oggi che siamo nell'era dei computer e delle fotocopie.
Chi ne conosce il motivo: Perche' l'apprendimento con il cuore e' un metodo spirituale per
liberare il nostro cervello dai ragionamenti e dai pensieri meccanici ed inutili; perche' concede lo
spazio per un solo ragionamento per volta, non due.

Attenzione: Non`e' possibile immaginarsi che qualcuno stia lavorando su se stesso solo perche'
legge un editoriale al mese. Per chi lo crede, sappia che le mie "sveglie" hanno piuttosto la
funzione di addormentare e di calmare. E, per cortesia, non`e' neanche credibile che io conosca
sempre quello che scrivo, o che tutti questi argomenti siano il risultato dei miei ragionamenti.

Praticamente, si tratta di una saggezza risalente al passato remoto e della conoscenza di


alcune persone ed insegnanti vicini ad un WingTsun riguardante le "idee che rendono liberi".

K. R. Kernspecht

La leggenda e la storia del WingTsun.

La storia del WingTsun si basa su un manoscritto originale del defunto Grand Master Yip
Man e sulle ricerche del Gran Master Leung Ting. Nelle sue elaborazioni il prof. Leung Ting
fa continuamente considerare che molti elementi della leggenda del WingTsun non sono
storicamente dimostrabili e che alcuni di essi sono anzi addirittura scorretti dal punto di vista
storico scientifico. Con i1 passare del tempo, fatti veri sono stati mescolati a racconti
inventati ed è nata così una storia delle origini, che, nonostante tutto o, magari, proprio per
questo continua ad affascinare. Durante il governo K’anghsi della dinastia Ching, i seguaci
dello Shaolin Kung Fu erano talmente famosi, per la loro arte del combattimento, che il
governo Ching se ne preoccupò a tal punto, da decidere di uccidere i monaci e di
distruggere il monastero che si trovava sul monte Sung, nella provincia Honan, nella Cina
centrale. Furono quindi inviati numerosi soldati con l’ordine di distruggere il monastero e di
estinguere la comunità religiosa. Ma i monaci del monastero Shaolin opposero una
resistenza così forte, che il monastero ne rimase indenne perfino dopo una lunga e dura
lotta. Chan Man Wai, il migliore dell’anno tra i candidati all’esame dei funzionari, voleva fare
carriera nel governo e così espose il suo piano. Per poterlo attuare, fece una congiura con
alcuni monaci del monastero Shaolin, il più importante dei quali si chiamava Ma Ning Yee.
Quest’ultimo si lasciò convincere a tradire i suoi compagni e incendiò il monastero a loro
insaputa. In questo modo si riuscì a ridurlo in cenere. Durante l’incendio morirono la maggior
parte dei monaci e dei laici esperti di combattimento. Alcuni combattenti riuscirono però a
scamparla e tra questi i Cinque Anziani, capi dei cinque stili Shaolin. La maestra buddista Ng
Mui, il maestro Chi Shin, il maestro Pak Mei, il maestro Fung To Tak ed il maestro Miu Hin
con i suoi discepoli, particolarmente Hung Hai, Kwun, Fong Sai Yuk e Luk Ah Choy. Uno dei
Cinque Anziani, il maestro Chi Shin, che era anche abate e che prima dell’incendio aveva
avuto la maggior parte degli allievi, li convinse della necessità di dover combattere contro i
Manciu. Per questo Chi Shin e i suoi allievi preferiti vennero ricercati con mandato di cattura.
Chi Shin ordinò loro di disperdersi in tutto il paese per evitare di essere catturati. Egli stesso,
per potersi salvare, assunse la falsa identità di cuoco rifugiandosi su una giunca rossa. Altri
maestri, come Miu Hin e sua figlia Miu Tsui, si nascosero a lungo presso le stirpi dei Miao e
dei Yao, tra Szechwan e Yunnan. Più tardi vagabondarono per il paese ed arricchirono
sempre di più le leggende cinesi. In Cina sono famose le storie “Fong Sai Yuk sfida i
difensori di un torneo” e “Ng Mui uccide Lee Pa Shan sul paletto dei fiori di pruno”. Dopo la
distruzione del monastero Shaolin i sopravvissuti si divisero per potersi salvare con più
probabilità dalla persecuzione del governo dei Manciu. Il Master Chi Shin, ad esempio,
assunse l’identità di cuoco su una giunca rossa (la “giunca rossa” era la nave di trasporto
delle troupe di teatro, normalmente dipinta di rosso e adornata di bandiere variopinte). La
monaca Ng Mui si rifugiò nel tempio della Gru Bianca, sul monte Tai Leung. Lì ebbe modo di
dedicarsi indisturbata all’arte marziale e allo Zen. Per lungo tempo Ng Mui rifletté su come
avrebbe potuto creare una nuova arte marziale, capace di offrire la possibilità, anche a
persone fisicamente deboli, di sconfiggere esperti delle Arti Marziali classiche. La leggenda
racconta che Ng Mui ebbe l’ispirazione decisiva osservando una lotta tra una gru e una
volpe.

La volpe girava intorno alla gru, nella speranza di poter sferrare un attacco mortale, sul
fianco non protetto di quest’ultima. La gru, però, si girava in continuazione in modo da
mostrare alla volpe il suo petto. Ogni volta che la volpe si avvicinava troppo, tentando di
attaccarla con una zampa, la gru si difendeva con un’ala e, contemporaneamente,
contrattaccava con il becco. Mentre quindi la gru si difendeva con l’ala e contrattaccava con
il becco, la volpe astuta si avvaleva della velocità delle proprie gambe e degli attacchi a
sorpresa. Non ha importanza come sia terminata questa lotta. Ng Mui sviluppò, grazie
all’idea ricavata da quell’osservazione, un nuovo sistema di arti marziali. Le caratteristiche
distintive più importanti del nuovo sistema di Ng Mui, rispetto al Kung Fu Shaolin,
consistevano nei movimenti più semplici ed adattabili, nell’orientamento alla prassi e
nell’impiego più economo della forza. Il sistema di Ng Mui aveva come scopo la sconfitta del
nemico, non con la forza, bensì con il metodo. Sul monte Tai-Leung Ng Mui conobbe un
certo Yim Lee e sua figlia WingTsun, il cui nome significa “bella primavera”. Il sistema della
monaca Ng Mui deve il suo nome melodioso proprio a questa giovane ragazza. A quei tempi
la monaca buddista Ng Mui viveva nel tempio della Gru Bianca, sul monte Tai Leung e, più
volte al mese, era solita frequentare, per acquistare i viveri, il mercato del vicino villaggio,
dove la giovane ragazza Yim WingTsun vendeva il tofu insieme a suo padre. I due erano
fuggiti dalla loro terra natia, la provincia Guangdong, poiché sfortunatamente il padre era
stato coinvolto in un problema giudiziario. Essendo stato allievo del monastero Shaolin, egli
aveva appreso alcune tecniche di combattimento che impiegava, all’occorrenza, per
ristabilire la giustizia dalle sue parti. Per questa ragione, cadde in tali difficoltà, che lo
costrinsero ad abbandonare la sua terra e a rifugiarsi ai confini delle province Szechwan e
Yunnan, sul monte Tal Leung. Yim Wing Tsun crebbe e divenne una ragazza bella ed
intelligente, ma la sua bellezza ed affabilità sarebbero state anche la fonte di gravi problemi.
Infatti in quel luogo viveva un noto attaccabrighe che si chiamava Wong, il quale cercava
continuamente di provocare liti. Purtroppo gli abitanti del villaggio non sapevano difendersi
da lui, visto che egli era un esperto di Kung Fu e che apparteneva ad una società segreta.
Attratto dalla bellezza di Yim WingTsun, egli la chiese in sposa; WingTsun, però, era già
stata promessa sin dall’infanzia ad un giovane di nome Leung Bok Chau, un mercante di
Fuchia. Wong le mandò un messaggero, fissandole una scadenza e minacciandola di usare
violenza nel caso in cui ella lo avesse respinto. Padre e figlia vivevano quindi nel timore per il
loro futuro. Con l’andare del tempo Ng Mui era diventata cliente abituale di Yim Lee e spesso
si intratteneva con i due. Un giorno, ella si rese conto che erano tormentati da grandi
preoccupazioni. Yim Lee le raccontò ogni cosa e Ng Mui, che era dotata di spiccato senso
della giustizia, decise di aiutare WingTsun. Ella però non desiderava punire personalmente il
malfattore, da un lato per non far scoprire la sua vera identità, e dall’altro perché un
combattimento tra lei, la famosa maestra del monastero Shaolin ed uno sconosciuto
picchiatore sarebbe stato considerato sleale ed inglorioso. Per questi motivi volle aiutare Yim
WingTsun trasmettendole l’arte del combattimento. Dopo soli tre anni di lezione privata, la
giovane ragazza padroneggiava perfettamente il metodo che le era stato mostrato. Dopo
l’addestramento Ng Mui la mandò di nuovo nel tempio della Gru Bianca da suo padre. Non
appena WingTsun fu ritornata al villaggio, fu molestata dal picchiatore Wong. Questa volta
ella non scappò, ma lo sfidò in un duello. Il “rowdy” era sicuro della sua vittoria e già si
rallegrava all’idea di aver finalmente conquistato la ragazza. Purtroppo per lui, però, aveva
fatto male i calcoli poiché WingTsun lo sconfisse mettendolo k.o.. Dopo questa vittoria,
WingTsun continuò ad esercitarsi nel combattimento e, allorché Ng Mui decise di proseguire
il suo viaggio, fu esortata a trovare un degno successore e a istruire solo gli allievi giusti. Yim
WingTsun sposò il suo fidanzato Leung Bok Chau e gli trasmise il metodo di combattimento
che aveva appreso da Ng Mui. Leung Bok Chau, che prima di sposarsi aveva praticato il
kung Fu, non ascoltava la moglie quando questa gli parlava della sua arte marziale,
credendo che una donna fosse troppo debole per poter essere considerata una pericolosa
rivale per un uomo. Una volta, pero, WingTsun ebbe finalmente l’opportunità di dargli una
dimostrazione pratica della sua abilità, e da allora, ogni volta che combattevano insieme,
essa riusciva a sconfiggere il marito. Solo a quel punto egli riconobbe che sua moglie era
una grande maestra di arti marziali, e per renderle omaggio chiamò questo sistema di kung
Fu: “WingTsun Kuen”. Leung Bok Chau si allenò regolarmente con la moglie fino a diventare
egli stesso un Master di quest’arte marziale. Più tardi egli trasmise questo sistema a Leung
Lan Kwai, un ortopedico ed erborista che non voleva rendere pubbliche le sue conoscenze
di Kung Fu, tenendole gelosamente per sé. Nemmeno i suoi parenti e gli amici più intimi
sapevano che egli fosse un Master di Kung Fu. Il suo segreto venne svelato solo quando egli
sbaragliò un gruppo di picchiatori che aveva attaccato un uomo solo. Se Leung Lan kwai
non fosse stato costretto in quel momento a mostrare la sua abilità, la storia del WingTsun
sarebbe forse finita qui. Così invece successe che egli trasmise il suo sapere a Wong Bo, un
attore che faceva parte di una troupe teatrale. All’epoca tutti gli attori dell’opera venivano
chiamati I giovani della giunca rossa”. Leung Lan Kwai originariamente non aveva alcuna
intenzione di insegnare ad altri questo sistema, ma l’onestà e il senso della giustizia di Wong
Bo lo distolsero dal suo proposito ed egli lo accettò come allievo. A quei tempi la maggior
parte dei “giovani della giunca rossa” si occupava di arti marziali. Durante le loro
rappresentazioni si truccavano così pesantemente da diventare irriconoscibili. Per questo
motivo anche il Master buddista Chi Shin, uno dei Cinque Anziani del monastero Shaolin,
che come la monaca Ng Mui era scampato al grande incendio, assunse l’identità di cuoco su
una “giunca rossa , per evitare di essere riconosciuto ed arrestato. Sebbene egli avesse
nascosto la sua vera identità per lungo tempo, si confidò ad alcuni colleghi che non lo
tradirono, ma che, al contrario, lo protessero ripetutamente con successo nelle situazioni
pericolose. Erano tutti degli uomini dagli ideali onesti, e, soprattutto erano contro il governo
dei Manciu. Per questo si impegnavano segretamente a far crollare questo regime, fondando
delle società segrete che intraprendevano azioni contro di esso. In questo modo Master Chi
Shin divenne il loro eroe. Egli insegnò loro l’arte del combattimento e, per preparali
all’imminente lotta contro i Manciu, li istruì nel kung Fu del monastero Shaolin. Degno di
essere menzionato tra gli allievi di Master Shin era Leung Yee Tei; egli si trovava sulla
giunca rossa non in qualità di attore, ma di marinaio e governava la giunca con l’aiuto di una
lunga pertica. E chiaro, per questo, che tra tutte le tecniche offerte dal Master Chi Shin,
quella che egli preferiva era la tecnica con i bastoni lunghi. Leung Yee lei ebbe molta
fortuna, poiché Master Chi Shin, uno dei pochi esperti dei bastoni lunghi, lo ritenne degno di
apprendere tali tecniche. Proprio attraverso Leung Yee Tei le tecniche con il bastone lungo
avrebbero trovato accesso al sistema WingTsun. In età avanzata Leung Yee Tai trasmise
l’arte del WingTsun a Leung Jan, un famoso medico di Fatshan, una delle quattro città più
importanti della provincia Kwangtung, nella Cina del sud. Fatshan, molto trafficato per via
della sua posizione favorevole alla foce del fiume Perla, era un famoso centro commerciale,
crocevia di funzionari statali, ricchi mercanti, operai e gente comune. Leung Jan, che lì
aveva un’erboristeria, proveniva da una buona famiglia, era colto, gentile e disponibile; egli
non si occupava solo dell’erboristeria, ma prestava anche assistenza medica ai suoi
concittadini. Essendo un buon medico godeva della fiducia degli abitanti della città e il suo
studio era molto frequentato. Nel suo tempo libero egli si dedicava alla letteratura e, con
meraviglia di qualcuno, anche all’arte del combattimento. Tuttavia, era piuttosto indeciso su
quale stile seguire e non aveva molta considerazione per te posizioni basse e per i lunghi
ponti, che agli altri apparivano forti e vincenti: a lui interessavano poco gli stili che si
affidavano quasi esclusivamente alla forza fisica, come pure quelli che si basavano su
movimenti eleganti ma poco pratici. Ciò che cercava era un sistema i cui movimenti fossero
semplici e che si potessero eseguire in modo pratico ed efficace. Passò molti anni alla
ricerca di un sistema giusto e soprattutto di un bravo insegnante, finché la sua pazienza
venne ricompensata: incontrò Leung Yee Tai e da lui apprese il sistema WingTsun. Leung
Jan, grazie alla sua abilità, si guadagnò ben presto il titolo di ‘re del Kung Fu” del WingTsun.
La sua fama lo costrinse però a sostenere diverse sfide: ambiziosi combattenti lo costrinsero
a difendere il suo titolo, ma questi venivano regolarmente e rapidamente sconfitti. Ovunque il
suo nome era noto, si parlava con entusiasmo del suo titolo di re del Kung Fu e delle sue
vittorie. Persino oggi, la vecchia generazione del Kung Fu parla ancora con profonda
ammirazione dei suoi combattimenti.Dal punto di vista finanziario, non era necessario che
Leung Jan insegnasse il WingTsun: egli, infatti, lo faceva unicamente perché aveva bisogno
di un compagno di allenamento per i suoi studi sul sistema. Per questo motivo aveva
pochissimi allievi, tra i quali bisogna menzionare i suoi due figli, Leung Tsun e Leung Bik.
Ogni sera, dopo la chiusura della sua farmacia, insegnava il WingTsun. Uno dei suoi allievi
fu soprannominato ,,Wah, il taglialegna”, perché le sue braccia erano dure come il legno e
poiché spesso, durante l’allenamento, egli riusciva a rompere le grosse braccia dell’Uomo di
legno. Ogni sera, insieme ai suoi compagni di allenamento, Wah perfezionava le sue abilità
nel WT sotto la guida del suo maestro Leung Jan. Vicino alla farmacia si trovava la
bancarella di un cambiavalute che era appassionatissimo di Kung Fu e che desiderava ad
ogni costo trovare un famoso Maestro. Trovandosi con la bancarella nei pressi della
farmacia di Leung Jan, egli aveva la possibilità di ammirare da vicino le esibizioni del
Maestro. Avrebbe dato chissà cosa per poter diventare suo allievo. Leung Jan era però un
ricco cittadino, proveniente da una famosa famiglia, e l’umile Chan Wah Shun non aveva il
coraggio di chiedergli un tale favore, poiché aveva paura che la sua proposta venisse
respinta. Tutte le sere, dopo il lavoro, Wah il cambiavalute, in punta di piedi si appostava
davanti alla porta della farmacia per osservare la lezione di WingTsun attraverso uno
spiraglio. Master Leung Jan era il suo idolo: neanche uno dei suoi movimenti, effettuati con
le mani o con i piedi, sfuggiva alla sua attenzione. Giorno dopo giorno, il suo desiderio di
apprendere il WingTsun cresceva sempre più. Un giorno si fece coraggio e si rivolse a
Leung Jan e, come aveva previsto, la sua proposta venne cordialmente, ma decisamente,
respinta. Pur rimanendone naturalmente profondamente deluso, Wah non abbandonò le sue
speranze ed escogitò un piano per raggiungere il suo obiettivo: un giorno, mentre Leung Jan
era assente, Wah il taglialegna portò un uomo molto forte nella farmacia dove si trovava solo
Leung Tsun, il figlio minore di Leung Jan. Avrete naturalmente già capito che lo sconosciuto
non era altri che Wah il cambiavalute che, osservando regolarmente le lezioni dalla fessura
della porta, aveva già imparato abbastanza bene diverse tecniche di WingTsun. Leung Tsun
volle combattere con il cambiavalute non solo per vedere quanto avesse imparato attraverso
le lezioni ‘proibite”, ma anche per dimostrare la sua superiorità. Egli, però, non si era
duramente allenato come Wah il taglialegna. Wah il cambiavalute si rese conto al primo
contatto che il suo avversario non era così forte ed abile come si era aspettato. Senza
volerlo, il colpo con il palmo della mano di Chan Wah Shun fu talmente forte che Leung Tsun
volò sulla sedia preferita di suo padre, rompendola. Esterrefatti dall’esito del combattimento,
temettero il ritorno di Leung Jan che li avrebbe sicuramente puniti, vedendo che la sua sedia
preferita era andata distrutta. Per fare in modo che non se ne accorgesse raccolsero i pezzi
e lì assemblarono al meglio. La sera, dopo cena, Leung Jan che voleva riposarsi un po’ sulla
sua sedia prediletta, sì trovò improvvisamente a terra! Interrogato il figlio, venne a sapere
dello sconosciuto e del combattimento. A Leung Jan interessava particolarmente sapere in
che modo Wah il cambiavalute avesse appreso il WingTsun e scoprì che egli aveva
osservato di nascosto le sue lezioni e che aveva segretamente ricevuto lezione dal suo
allievo Wah il taglialegna. Leung Jan dopo aver rimproverato il taglialegna, poiché non era
permesso dare lezioni di Kung Fu senza il suo consenso, mandò a chiamare Wah il
cambiavalute. Temendo per il suo allievo “proibito” una punizione da parte di Leung Jan, gli
consigliò di non recarsi dal Maestro, ma di rifugiarsi nel suo paese natio. Ritornato in
farmacia, egli apprese che Leung Jan non covava alcun desiderio di punizione e che voleva
semplicemente constatare l’abilità del cambiavalute. Felicissimo, chiamò il suo amico che,
una volta esaminato raggiunse finalmente il suo scopo, venendo ammesso da Leung Jan. I
Manciù governavano i cinesi da oltre 200 anni, in questo modo riuscirono a divenir parte
della cultura cinese. li muro esistente agli inizi non esisteva quasi più e ciò si manifestava nel
fatto che non c’erano più sentimenti di Odio verso i Manciù e che i cinesi avevano sempre
maggiori possibilità di occupare posti nel governo dei Ching. Il governo dei Ching (e cioè i
Manciù) si era abituato allo stile di vita cinese divenendo ben presto corrotto. Attacchi da
parte di altri Paesi erano all’ordine del giorno e molti fattori stavano portando al graduare
indebolimento del morale e del loro potere militare. Una delle soluzioni era quella di
rinforzare il potere del Paese esercitando meglio i militari. A questo proposito ci si rivolse a
Chan Wah Shun e per questo gli si offri il posto di istruttore-capo dei Soldati dell’8~
gonfalone, come veniva chiamata la forza militare dei Mandò. Era una posizione prestigiosa
e di potere. Eppure per Chan Wah Shun, il successore di Leung Jan, non era un onore
essere capo-istruttore dei soldati Manciù. Esattamente come per il suo Sifu, per lui la lezione
di Kung-Fu era una passione e non una professione. Chan Wah Shun, il cambiavalute,
divenne quindi il successore di Leung Jan. Alcuni dei nostri lettori che non conoscono a
fondo la tradizione cinese si sarebbero sicuramente aspettati che uno dei due figli di Leung
Jan -Leung Tsun o Leung Bik - diventassero i suoi legittimi successori. Ma nel Kung-Fu
cinese non esiste una successione al trono di solito i figli di un Grandmaster si esercitano
meno duramente degli altri allievi, in primo luogo perché meno motivati ed inoltre per il fatto
di trovarsi spesso in contrasto con la Via seguita dal padre. E’ certo che tutti i genitori
desidererebbero che siano i propri figli a diventare suoi successori e ciò è dimostrato anche
dal fatto che solo a loro insegnavano le tecniche più avanzate. Nella maggior parte dei casi
però, il figlio si accontentava del puro sapere teorico, seguendo il motto “io so cose che tu
non sai .”, e non si curava di impadronirsi di qualcosa che avrebbe potuto ereditare dal
padre. Cosi il figlio, che conosceva solo la teoria ma quasi niente della pratica, finiva con il
diventare arrogante e geloso degli allievi del padre. Per tale motivo, non i figli di Leung Jan,
bensi Chan Wah Shun divenne il suo successore; per questo non il figlio di Chan Wah Shun,
Chan Yu Min, bensì Yip Man divenne il suo successore; per questo non uno dei figli di Yip
Man (dei quali due insegnavano il Wing Chun), bensi Leung Ting è la persona che
attualmente ha l’onere di diffondere il WingTsun nel mondo. Nonostante il figlio di Leung
Ting pratichi il Kung-Fu, nel WingTsun non esiste una successione al trono, cosa che vale
anche per le altre arti marziali cinesi, nelle quali l’unica cosa che conta è l’abilità. Chan Wah
Shun non aveva una sua scuola, ma affittava di volta in volta dei locali seconde le esigenze.
Nei suoi 36 anni di insegnamento ebbe solamente 16 allievi, tra i quali suo figlio, Chan Yu
Min, un ragazzo maleducato che, con grande dispiacere di suo padre, era spesso coinvolto
in risse con giovani criminali della sua città. A causa di ciò, Chan Wah Shun non trasmise a
suo figlio le tecniche più avanzate del WingTsun, ma le mostrò a sua nuora. Chan Yu Min fu
più tardi costretto ad apprendere dalla moglie quelle tecniche che il padre si era rifiutato di
mostrargli. Bisogna però ricordare che Chan Yu Min era abbastanza esperto nell’impiego dei
bastoni lunghi e così si guadagnò il titolo di “re dei bastoni lunghi delle sette province”
durante una competizione. Come premio ricevette un gigantesco bastone lungo, sul quale
era inciso il suo nome e, allorché aprì una propria scuola, appese tale bastone sulla porta
per attirare allievi.Fu l’ultimo Gran Maestro che tutti considerarono un leader. Di una famiglia
benestante, ricco proprietario di un terreno e di una via intera con tutti i suoi immobili, Yip
Man avrebbe potuto fare la vita comoda e sicura di un “bohemien”, senza sporcarsi le mani
con il lavoro. Ma all’improvviso e sorprendendo tutti i familiari, il giovane Yip Man scoprì ben
presto la sua passione per le arti di combattimento (per un cinese colto e benestante non era
consentito scegliere il Kung Fu come hobby). Come succede nei Paesi occidentali con la
Boxe o la Lotta, le Arti Marziali erano considerate in Cina lo svago delle classi inferiori. In
realtà i giovani intellettuali occidentali cominciarono ad interessarsi a questo tipo di pratiche
dopo averle infarcite con elementi pseudofilosofici. Al contrario del Karate che in Giappone
ed in Occidente si cominciò a praticare nelle università per fare in modo che sia i professori
che gli allievi entrassero in contatto prima possibile con quell’arte, il Kung Fu cinese continuò
ad essere considerato come uno svago per la classe operaia, che d’altra parte aveva
sempre dato i migliori combattenti, ma non degli istruttori che conoscessero anche a fondo le
base teoriche dell’arte. Di conseguenza, la maggior parte degli istruttori di WingTsun erano
(e tuttora lo sono) camerieri o cuochi, ovvero gente che non aveva veramente capito la teoria
e che dunque non poteva tramandarla agli allievi. Yip Man fu una fortunata eccezione. Già a
13 anni, Yip Man ebbe modo di frequentare le lezioni di Chan Wah Shun, il discepolo
preferito del Gran Maestro Leung Jan. Wah, il “cambia valute”, non aveva una sua scuola di
WingTsun, per questo era costretto a prendere in affitto dei locali tutte le volte che era
necessario, Il padre di Yip Man ebbe la gentilezza di mettere a sua disposizione l’antico
tempio familiare del dan Yip, in modo che potesse utilizzarlo da sala di allenamento ed
impartire li le sue lezioni. Sfortunatamente, Wah aveva pochi allievi, per via dei prezzi salati,
In quanto figlio del proprietario, per Yip Man fu facile entrare in contatto con Chan Wah
Shun. Le tecniche di Wah affascinarono il giovane Yip Man sin dal primo momento, per cui
decise di apprendere l’arte del WingTsun. Un giorno, Yip Man consegnò al sorpreso Chan
Wah Shun la somma di tre taele e gli chiese di essere ammesso come allievo. Wah guardò
insospettito il giovane, chiedendosi da dove avesse tirato fuori quei soldi, Quando parlò con
il padre di Yip Man, seppe che li aveva “presi” dal suo salvadanaio. Emozionato dalla
fermezza e dal desiderio di Yip Man di apprendere il WingTsun, Wah decise di accettarlo
come allievo, anche se gli diede le prime lezioni senza troppa convinzione, giacché non era
tanto sicuro delle capacità del giovane che considerava semplicemente un membro della
classe superiore, troppo sensibile in fondo per la pratica delle Arti Marziali. Tuttavia, con
l’aiuto della sua intelligenza ed il sostegno dei suoi “fratelli di Kung Fu” più grandi, Yip Man
riuscì ad apprendere tanto in poco tempo e così riuscì anche a porre fine ai pregiudizi di
Wha, che incominciò ad insegnargli sul serio. Chan Wha Shun dedicò 36 anni
all’insegnamento, ed in quel periodo ebbe soltanto 16 allievi, fra i quali c’era suo figlio, Chan
Yu Min. Tra tutti i suoi discepoli, Yip Man fu il più giovane. Wah il “cambia valute” morì
quando Yip Man aveva 16 anni, Quello stesso anno, Yip abbandonò Fatshan per trasferirsi a
Hong Kong ed iniziare la sua attività docente presso il St. Stephen’s College. Yip Man stava
assiduamente continuando gli studi scolastici, ma questo non gli impediva di battersi con i
suoi compagni europei, sconfiggendoli in ogni occasione, nonostante fosse più piccolo di
loro. Anni dopo confessò che a quell’epoca era molto arrogante e si sentiva troppo sicuro di
se stesso. Un giorno, un amico chiamato Lai gli disse: ‘Nella nostra società c’è un praticante
di WingTsun che ha più di 50 anni. È amico di mio padre. Avresti il coraggio di batterti con
lui?” Yip Man, giovane e pretenzioso, che in più non sapeva cosa significasse perdere e non
aveva paura di nessuno, accettò immediatamente la sfida, Il suo amico lo portò in questa
azienda che produceva seta, situata nella Jervois Street, dove l’aspettava quell’uomo. Si
presentò come il signore Leung e gli disse: “Dunque sei allievo dell’onorevole Maestro Chan
Wah Shun, di Fatshan. Sei ancora molto giovane. Cosa hai appresso dal tuo maestro? Hai
già finito la Chum-Kiu?’ Ma Yip Man che era troppo impaziente per combattere, non gli diede
troppa retta, limitandosi a dare delle risposte rapide e superficiali, mentre si toglieva il lungo
vestito per prepararsi al combattimento. Allora il signor Leung gli disse che poteva attaccarlo
a qualsiasi parte del corpo e che lui si sarebbe limitato semplicemente a difendersi senza
eseguire alcun tipo di contrattacco e che in nessun caso gli avrebbe fatto del male. Ciò fece
in modo che Yip Man si arrabbiasse ancora di più. Tuttavia, attaccò con calma e
considerazione. Ma quell’uomo era capace di difendersi dagli attacchi più forti in modo quasi
indolente. In diverse occasioni Yip Man cadde per terra, si alzò e continuò ad attaccare, ma
soltanto per scoprire che non aveva nessuna opzione. Poi si accorse che quell’uomo era
Leung Bik, il figlio minore di Leung Jan, di Fatshan, il Si-fu di Chan Wah Shun (il cambia
valute). Bisogna ricordare che Chan Wah Shun fu il maestro di Yip Man. Ciò significa che il
signor Leung era in realtà il “fratello minore di Kung Fu” (Si-Dai) del maestro (Si-Fu) di Yip
Man, dunque apparteneva ad una generazione superiore alla sua e Yip Man avrebbe dovuto
chiamarlo ‘Zio” (Si Suk). Se Yip Man non fosse stato così arrogante all’inizio, quando Leung
Bik lo aveva interrogato, avrebbe saputo tutti questi particolari da subito. Così decise di
continuare i suoi studi di WingTsun con Leung Bik, giacché il suo Sifu era già morto. Doveva
sfruttare quell’opportunità unica. Leung Bik, da parte sua, riconobbe il grande potenziale che
aveva quel giovanotto, al quale mancavano soltanto un insegnamento adeguato e
dell’esperienza. Leung Bik promise a Yip Man di insegnargli WingTsun. Così, mentre Chan
Wah Shun fu per Yip Man l’equivalente di un ‘professore delle elementari”, che gli insegnò,
personalmente ed attraverso Ng Chung le potenti tecniche basilari del WingTsun, può dirsi
che l’intellettuale Leung Bik, che aveva appreso da suo padre Leung Jan anche la “tecnica
dolce” (che teneva segreta) fu il suo “professore universitario” che diede alle sue tecniche
un’altra dimensione. Da quel momento Yip Man segui per molti anni il suo nuovo Sifu Leung
Bik, apprendendo tutti i segreti del WingTsun. A 24 anni, Yip Man tornò nella sua città di
origine, Fatshan, come un vero maestro del WingTsun. Yip Man era figlio di un benestante,
per tal motivo ebbe a disposizione tutto il tempo che voleva per praticare WingTsun insieme
al SiHing Ng Chun So ed al suo allievo Yuen Kay Shan. Yuen Kay Shan era soprannominato
“Yuen il quinto” dato che era il quinto figlio nella sua famiglia. A Fatshan tutti lo chiamavano
in quel modo, fino al punto che più tardi nessuno si ricordò più quale fosse il suo vero nome.
Pur essendo qualche anno più grande di Yip Man, nella terminologia cinese del Kung Fu era
invece suo “nipote” (SiDjuk), perché Yip Man apparteneva ad una generazione di Kung Fu
superiore ovvero aveva iniziato prima la pratica del WingTsun. Tuttavia, praticando insieme
tutti i giorni, dimenticarono presto di appartenere a delle generazioni differenti (qualcosa di
molto strano nella tradizione cinese), diventando ben presto amici per la pelle. A Fatshan Yip
Man si accorse di un fatto insolito ed anche inquietante: aveva superato tutti i suoi colleghi
più anziani (Si-Hing). Anche loro se ne accorsero e si lamentarono, dicendo che lui aveva
appreso qualcosa che il loro comune maestro Chan Wah Shun non gli aveva insegnato. Per
questo motivo lo rimproverarono, soprattutto quelli che erano stati sconfitti, dicendogli che si
era allontanato dalla “vera teoria” del WingTsun e che non insegnava un WingTsun
“corretto”. (Curiosamente a Leung Ting che apprese la “tecnica dolce” da Yip Man come
allievo privato, gli furono fatti più in avanti gli stessi rimproveri). Tutto ciò scatenò una serie di
discussioni fra Yip Man ed i suoi Si-Hing. Per fortuna Ng Chung So chiarì questa situazione.
Spiegò loro che il suo Sifu Chan Wah Shun, nonostante fosse stato un gran maestro, non fu
capace di insegnargli completamente ciò che padroneggiava, perché non aveva la
necessaria formazione scientifica per spiegare la complessa teoria del WingTsun. Leung Bik
invece, non solo era un esperto in WingTsun, ma anche un saggio, per questo fu capace di
spiegare esattamente a Yip Man la teoria essenziale del WingTsun. (Bisogna anche dire che
quasi tutte le pubblicazioni note sull’arte del combattimento di Yip Man sottolineano la
massima importanza della linea centrale, ma nessuno fuori dalla scuola di Leung Ting è
capace di spiegare correttamente questo concetto). Questa è la differenza fondamentale tra
Yip Man ed i suoi colleghi più anziani. Yip Man non nutriva alcun interesse per la fama o la
ricchezza e non si vantò mai delle sue abilità davanti ad altri. Ma si raccontano degli
aneddoti curiosi, anche se delle volte un po’ esagerati, che testimoniano come certe volte sia
stato costretto ad usare le sue tecniche. Ad esempio: una volta l’anno si teneva una festa a
Fatshan alla quale partecipavano tutti i ricchi mercanti, imprenditori e persone di spicco della
comunità, nonché gente di altre città vicine. In quelle occasioni la gente per strada era
talmente tanta che era difficile trovare un posto per guardare lo spettacolo. Ad una di quelle
feste partecipò anche Yip Man con alcune giovani signorine. Vicino a loro si trovava un
soldato. Yip Man in genere non amava troppo i soldati. A quell’epoca chi diventava soldato
era di solito un bandito o un pigro. C’era un proverbio popolare che diceva che i bravi giovani
non diventavano soldati. Le accompagnatrici di Yip Man erano vestite elegantemente e la
loro bellezza ed il loro comportamento squisito attirarono il soldato. A Yip Man non piacque
che il soldato si avvicinasse a loro signorine e che parlasse in modo scortese, dunque lo
rimproverò e cominciò a discutere con lui. Il soldato si sorprese vedendo che Yìp Man non
era un intellettuale teorico e si arrabbiò ancora di più, tirò fuori la sua pistola e gliela puntò
addosso. Yip Man non ebbe la minima esitazione. Deviandogli il braccio, gli tolse la pistola e
levò il tamburo dell’arma con le dita. Prima che il militare si riprendesse dallo spavento, Yip
Man e le sue accompagnatrici erano spariti. Questo episodio è stato descritto da diversi
testimoni in altrettanti modi. C’è persino chi dice che ruppe la pistola in due...

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