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Abitare la crisi della presenza

La questione che emerge implicitamente da tutti gli scritti fino ad ora raccolti (per le immagini non
vale lo stesso discorso poiché, esprimendosi a una diversa intensità, ci dicono allo stesso tempo di
più e di meno di quanto viene de-scritto) a me sembra sia quella “dell'impossibilità di abitare”,
piuttosto che quella dell'abitare un qualsiasi luogo, che fosse casa, territorio o altro ancora. Ora,
cosa è che non si riesce ad abitare? E cosa e come possiamo abitare in quanto esseri umani? I
filosofi direbbero che ciò che abitiamo è il tempo o il linguaggio e ovviamente avrebbero le loro
ragioni ma la questione, detta così, non sembra apparire più chiara.
Partiamo per comodità dalla questione dei “luoghi”. Ciascun pensa naturalmente di abitare, nel
bene o nel male, un luogo: una casa, una città, una regione, una nazione e così via. Spesso
scriviamo e discutiamo della difficoltà ad abitare questi luoghi. Ma prima di tutto ciò, vi è qualcosa
di altro che abitiamo (o non abitiamo)? È evidente che questa è una domanda che concerne
l'ontologia, cioè l'essere stesso, piuttosto che la storia o la geografia. A me pare che questo domanda
corra, urli, si dispieghi attraverso tutti i testi, anche se mai viene esplicitamente assunta in quanto
tale. Non credo che bisogna forzatamente esplicitarla a priori però penso sia utile averla ben chiara
alla coscienza.
Questo qualcosa che l'essere abita è ciò che si direbbe “un mondo”, non in quanto totalità di tutto
ciò – cose, persone, animali etc. - che è più o meno casualmente disperso sulla Terra, ma mondo in
quanto singolare forma di vita, con tutta la sua densa rete di significazione che ci conduce al
pensiero di vivere una vita come degli esseri umani e non come degli aggregati biologici posti in un
certo ambiente senza il quale non potremmo esistere. Un mondo è il piano di consistenza che sorge
dalla qualità e dall'intensità delle relazioni tra gli esseri e le cose che vi dimorano, anche se solo
temporaneamente. Questa è anche la differenza che vi è tra l'essere umano e l'animale. Mentre
l'animale ha un suo ambiente particolare, del quale gode esclusivamente e di cui non potrebbe fare a
meno, ambiente e animale si coappartengono per così dire, l'essere umano non ne ha nessuno di
particolare, così come non ha alcuna specializzazione biologica. L'essere umano, al contrario
dell'animale però, può vivere senza mondo, anche se ciò provoca dolore (difatti, pensiamo alla
sensazione della narcosi così diffusa nella nostra epoca).
Eppure è difficile che nel parlato quotidiano, nonostante si parli correntemente di ambiente
animale, sentiamo dire che un certo animale “abita” quel posto piuttosto che l'altro. Invece, in una
specie di inversione nella quale l'essere umano si animalizza e l'animale si umanizza, capita più
spesso sentire parlare di ambienti umani e di mondi animali.
Una casa “sicura”, una città “sicura”, nel discorso dominante, sono degli ambienti, così come al suo
massimo grado l'ambiente è la metropoli (non a caso è l'unico luogo dove può nascere qualcosa
come l'ecologia). L'ambiente è la sicurezza. L'ambiente è quello che ci riduce tutti potenzialmente a
nuda vita, cioè a una popolazione gestibile biopoliticamente. Il potere vuole che tutti siano ben
collocati in un ambiente, ma fa di tutto per farci dimenticare di poter avere un mondo.
Un ambiente non fa un mondo. Nessun essere umano coappartiene “naturalmente” a un ambiente
dato, così come ad esempio si dice che non c'è coincidenza tra sessualità e genere. Nel libro
L'insurrection qui vient (Paris, 2007), che affronta diagonalmente molte questioni elaborate dalla
filosofia contemporanea, si dice difatti ad un certo punto che «Non esiste una catastrofe ambientale.
Esiste questa catastrofe che è l'ambiente» e che l'ambiente è ciò che ci resta quando noi, come esseri
umani, abbiamo perduto tutto.
I luoghi umani in quanto mondi sono sempre stati, fin dagli inizi dei tempi, dei luoghi costruiti,
pensati e costruiti per essere precisi. Sono dei luoghi che devono essere parlati, detti, raccontati ma
anche assorbiti, odorati, incorporati per poter essere abitati. E non è detto affatto che ciò che viene
detto dei luoghi corrisponda a una “realtà oggettiva”. L'importante è l'incrociarsi, per usare i termini
di Lacan, dei diversi campi esistenziali che corrispondono a quelli del reale, dell'immaginario e del
simbolico in un linguaggio comune; è questa operazione che crea un mondo.
Dire impossibilità ad abitare, allora, significa implicitamente dire che siamo “poveri di mondo”,
che non percepiamo più un mondo utilizzabile dove abitare, che non abbiamo nemmeno le parole
per dirlo. Questa povertà di mondo non è qualcosa che ha a che fare con Palermo piuttosto che con
Venezia, con Napoli piuttosto che con Milano, con Bologna piuttosto che con Parigi e così via. È
una figura epocale della crisi della presenza che ci fa sentire come in esilio non da una patria ma da
un mondo.
Questa crisi si riverbera, se facciamo attenzione agli scritti, non solo nella questione connessa
all'abitare uno spazio come la casa, ma in ognuna delle attività che dobbiamo, possiamo, vogliamo
o desideriamo svolgere. In particolare appare nella violenta critica del lavoro che ogni tanto fa
capolino, sia direttamente (come nel racconto sull'Heineken festival) che indirettamente (come in
quelli che hanno come sfondo “ambientale” il nordest). Ciò ci dice della crisi dell'opera umana in
quanto utilizzabilità del mondo, molto più che della crisi del valore-lavoro.
Altri riverberi appaiono nella crisi del genere, delle relazioni familiari, amicali, amorose, politiche
o semplicemente di prossimità che scorrono lungo tutti i testi. Questo ci dice della crisi della
possibilità stessa di creare un mondo, poiché un mondo si fa in comune o non si fa. Ma sarebbe
assurdo pensare che l'impossibilità ad abitare questo tempo in quanto sintomo della crisi della
presenza sia una storia “italiana” o peggio ancora legata solo ad alcune condizioni ambientali (il sud
e le sue eterne lamentele, il nord e la sua impossibile produttività, etc.), non deriva nemmeno dal
governo attualmente in carica in modo specifico o da una qualche potenza astratta comunque
immaginata. La crisi della presenza è un dato trasversale a ogni luogo poiché l'assenza di mondo e,
inversamente, il pieno di ambiente è percepibile ovunque e fin nella nostra stessa esistenza. La
ricerca che ciascun ha intrapreso non mi pare possa essere ridotta alla ricerca di un “ambiente meno
soffocante” o “più creativo”, ma essa riguarda esattamente le condizioni di possibilità di fare un
mondo.
In tutto questo credo che un'altra cosa da comprendere, per evitarla, sia il caricare eccessivamente
la propria povertà di mondo di un certo gusto alla (auto)vittimizzazione. Pur se in un andamento
contraddittorio, l'immaginario della vittima – vittime dello stato, della famiglia, delle convenzioni, e
tutto ciò che ci viene in mente come “mostro negativo” - è molto presente e credo che finché non si
riuscirà a costruire, a narrare e far camminare una figura di “mostro positivo”, che noi stessi
potremmo essere, difficilmente si può trovare una forma di resistenza comune efficace. Questo
chiede evidentemente di avere un atteggiamento che oltre che alla critica all'esteriorità possa
contenere una sana dose di autocritica, poiché nessuno è esente dall'intossicazione dell'ambiente in
cui nostro malgrado siamo immersi. Ed è proprio perché la nostra stessa presenza al mondo è in
crisi che facciamo fatica ad assumere il negativo e a divenire noi stessi l'esteriorità critica al mondo-
così-come-è. Il mondo, la casa e le persone con cui abitarlo, non c'è ancora e sicuramente non c'è a
causa dello sfruttamento e dell'oppressione che tutti in una maniera o nell'altra subiamo o abbiamo
subito, ma non c'è anche perché noi siamo deboli e non riusciamo ancora a farlo consistere a
prescindere dal luogo fisico in cui possiamo momentaneamente trovarci adesso.
In definitiva il problema da costruire allora, forse, non è tanto contenuto nel tracciare linee che
attraversano via via dei luoghi materiali per descriverne la criticità – cosa che va fatta,
evidentemente, altrimenti non potremmo mai collocare noi stessi in un qualsiasi discorso – ma nel
rendere la questione della crisi della presenza e dunque del costruire un mondo la questione di base
dalla quale partire per comprendere come sia possibile organizzarsi per viverla radicalmente,
ovvero, il che è lo stesso, come abitare offensivamente la crisi della presenza.

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