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CANTO I

Argomento del Canto


Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e spiegazione di Beatrice circa l'ordine dell'Universo.
mezzogiorno di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Proemio della Cantica (1-36)
Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la luce divina che si diffonde nell'Universo: l ha visto cose
difficili da riferire a parole, poich l'intelletto umano non riesce a ricordare ci che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenter di descrivere il regno
santo nella III Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto l'aiuto delle Muse non gli pi sufficiente. Il dio pagano dovr ispirarlo
col suo canto, come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del Paradiso e meritare cos l'alloro poetico.
Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri esserne incoronato, poich ci accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura che il suo
esempio sia seguito da altri poeti dopo di lui.
Ascesa di Dante e Beatrice (37-63)
Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando l'equinozio di primavera si trova in congiunzione con la costellazione
dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora sono pi benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui gi notte, da quello
sud, in cui giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della
donna induce Dante a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio, per cui il poeta fissa il sole pi di
quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facolt umane sono accresciute e Dante pu vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato un
secondo sole.
Trasumanazione di Dante (64-81)
Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il poeta si perde a tal punto nel suo aspetto che subisce una
trasformazione simile a quella di Glauco quando divenne una creatura marina: impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura umana,
perci il lettore dovr accontentarsi dell'esempio mitologico e sperare di averne esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in questo
momento, sia ancora in possesso del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo nei Cieli che ruotano con una melodia
armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario tutto lo spazio circostante.
Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93)
Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere l'origine del suono e della luce, per cui Beatrice, che legge nella sua mente ogni pensiero, si
rivolge subito a lui per placare il suo animo. La donna spiega che Dante immagina cose errate, poich non si trova pi in Terra come ancora crede:
egli sta salendo in Paradiso e nessuna folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in basso, fu tanto rapida quanto lui che torna al luogo che gli proprio (il
Paradiso).

Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142)


Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta tormentato da un altro e chiede alla donna come sia possibile che lui, dotato di un corpo
mortale, stia salendo oltre l'aria e il fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro, quindi guarda Dante come farebbe una madre col figlio che dice cose
insensate e spiega che tutte le cose dell'Universo sono ordinate tra loro, cos da formare un tutto armonico. In questo ordine le creature razionali
(uomini e angeli) scorgono l'impronta di Dio, che il fine cui tendono tutte le cose. Tutte le creature, infatti, sono inclini verso Dio in base alla loro
natura e tendono a fini diversi per diverse strade, secondo l'impulso che dato loro. Questo fa s che il fuoco salga verso l'alto, che si muova il cuore
degli esseri irrazionali, che la Terra stia coesa in se stessa; tale condizione comune alle creature irrazionali e a quelle dotate di intelletto. Dio risiede
nell'Empireo come vuole la Provvidenza, e Dante e Beatrice si dirigono l in quanto il loro istinto naturale li spinge verso il loro principio, che Dio.
pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda questo impulso e devia dal suo corso naturale in virt del suo libero arbitrio; cos
l'uomo talvolta si piega verso i beni terreni e non verso il Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto. Dante, se riflette bene, non
deve pi stupirsi della sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla montagna a valle; dovrebbe stupirsi del contrario, se cio non salisse pur
privo di impedimenti, come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle sue parole, Beatrice torna a fissare il Cielo.
Interpretazione complessiva.
Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta cos di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I,
1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno (II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennit si spiega con l'accresciuta importanza della
materia trattata, dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovr misurarsi con la
difficolt di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avr nel Paradiso. Ci spiega
anche perch Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente personificazione
dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovr ispirarlo con lo stesso canto con
cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto che
la poesia di Dante dovr essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinit nella rappresentazione di ci che supera i limiti
umani (ci sar ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la
sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perch seguano il suo esempio, nel che c' forse una fin troppo
modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che pi volte nella Cantica egli esprimer l'orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada
poetica.
Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del mezzogiorno ( questa l'interpretazione pi ovvia,
mentre improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi
sensi nell'Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n'
ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di pi che un essere umano e
non pu descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramut in una creatura acquatica e si gett in mare
dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrer spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini
di paragone terreni). L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di capirne la
ragione e Beatrice sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la sua natura; ci
naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di
gravit, dubbio che sar sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio
l'atteggiamento che avr sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande del discepolo e fornisce spiegazioni di
carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi
lievi, l'aria e il fuoco) ma inquadra il problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che descrivevano il
riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non, fanno parte di un tutto armonico che stato
creato da Dio e ordinato in modo preciso, cos che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto solcando

il gran mar de l'essere. Ci vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto per sua natura e la terra che attratta verso il
centro dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio; ovviamente essi sono dotati
di libero arbitrio, per cui pu avvenire che anzich volgersi in quella direzione siano attratti dai beni terreni, ma questo non il caso di Dante che ha
ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ci un atto del
tutto naturale, come quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra, come un fuoco la cui
fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sar la cifra stilistica di gran parte della III Cantica, in cui
spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti dottrinali e verr ribadito che la sola filosofia umana di per s insufficiente a capire
i misteri dell'Universo, proprio come lo stesso Virgilio aveva detto pi volte rimandando alle chiose di Beatrice-teologia: ci sar evidente anche nella
spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana non pu arrivare deve intervenire la fede e
dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in grado di comprenderlo.
interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante, prima paragonandolo a un fulmine che
corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cio verso la sfera del fuoco,
dove diretto Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, attratto verso i
beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio, segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella celeste,
anche attraverso l'immagine del sole che evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice, infine
chiamato in causa con l'immagine di un secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce ovviamente
il suo percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui lagloria divina si riverberava in tutto l'Universo, e dove si diceva
che Dante giunto nel Cielo che pi de la sua luce prende, ovvero quell'Empireo verso il quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.
Note e passi controversi
Il Parnaso citato al v. 16 il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una doppia cima; nel Medioevo si diffuse
l'errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che le due cime fossero il Citerone e l'Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e
dalle Muse, mentre in realt l'Elicona un monte diverso. possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l'un giogo come il Citerone
e l'altro con l'Elicona.
Il satiro Marsia (vv. 20-21) protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in una gara musicale e, vinto, viene
scorticato vivo dal dio.
Apollo detto delfica deit (v. 32) perch molto venerato anticamente a Delfi, mentre l'alloro definito fronda / peneia in riferimento al mito di
Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad Apollo (Met., I, 452 ss.).
Cirra (v. 36) era una citt sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.
La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 stata variamente interpretata dai commentatori, anche se probabilmente indica che
l'equinozio di primavera e il sole in congiunzione con l'Ariete. I quattro cerchi sono forse l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte
di Gerusalemme e Purgatorio, che si intersecano formando tre croci (bench non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni probabilit che
mezzogiorno, come detto in Purg., XXXIII, 104, e non l'alba come alcuni hanno ipotizzato (nell'emisfero sud giorno pieno, mentre in quello
opposto notte).
Il pelegrin del v. 51 pu essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.
L'aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo dall'atmosfera.
La similitudine ai vv. 67-69 tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che, avendo notato che i pesci pescati
mangiavano un'erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso e si trasform in una creatura acquatica, gettandosi in mare.
Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.
Il ciel del v. 122 l'Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.

CANTO VI
Argomento del Canto
Ancora nel II Cielo di Mercurio. Giustiniano si presenta a Dante. Digressione sulla storia dell'Impero romano. Invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini.
Condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena. Presentazione di Romeo di Villanova.
la sera di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Giustiniano narra la sua vita (1-27)
Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila imperiale (la capitale dell'Impero) a
Costantinopoli erano passati pi di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si
presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riform la legislazione romana.
Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma poi papa Agapito lo
aveva ricondotto alla vera fede e a quella verit che, adesso, egli legge nella mente di Dio. Non appena l'imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio
gli ispir l'alta opera legislativa e si dedic tutto ad essa, affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del Cielo.
Ragioni della digressione sul'Impero (28-36)
Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un'aggiunta, affinch il poeta si renda
conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il
simbolo imperiale degno del massimo rispetto, e ci iniziato dal primo momento in cui Pallante mor eroicamente per assicurare la vittoria
di Enea.
Storia dell'aquila: dai re alla Repubblica (37-54)
Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell'aquila imperiale, da quando dimor per trecento anni in Alba Longa fino al momento in cui Orazi e
Curiazi si batterono fra loro. Segu il ratto delle Sabine, l'oltraggio a Lucrezia che caus la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini
a Roma; in seguito i Romani portarono l'aquila contro i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato, a
Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi. L'aquila sbaragli i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, l dove nasce il fiume Po; sotto le
insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l'aquila parve amara al colle di Fiesole, sotto il quale nacque Dante.
Storia dell'aquila: l'et imperiale (55-96)
Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l'aquila venne presa in mano da Cesare, che realizz straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno,
Isre, Loira, Senna, Rodano. Cesare pass poi il Rubicone e inizi la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo
infine la battaglia di Farslo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e Iuba,
re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augustosconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra
a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente. Augusto port l'aquila fino al Mar Rosso, garantendo
a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ci che l'aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se
si guarda al terzo imperatore (Tiberio), poich la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato originale, con la crocifissione di
Cristo. Successivamente con Tito pun la stessa vendetta, con la conquista diGerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai
Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno.
Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111)
Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che causa dei mali del mondo: i primi si
oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per
cui arduo stabilire chi dei due sbagli di pi. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poich essi lo separano dalla
giustizia; Carlo II d'Angi, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni pi
feroci di lui. I figli spesso pagano le colpe dei padri e Dio non cambier certo il simbolo dell'aquila con quello dei gigli della monarchia francese.
Condizione degli spiriti nel II Cielo (112-126)
Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante e spiega che il Cielo di Mercurio ospita gli spiriti che in vita hanno perseguito onore e fama, per
cui quando i desideri sono rivolti alla gloria terrena inevitabile che si ricerchi in minor misura l'amor divino. Tuttavia, spiega Giustiniano, lui e gli
altri beati sono lieti della loro condizione, in quanto i premi sono commisurati al loro merito e la giustizia divina tale che non possono nutrire alcun
pensiero negativo. Voci diverse producono dolci melodie, e cos i vari gradi di beatitudine producono una dolcissima armonia nelle sfere celesti.
Romeo di Villanova (127-142)
Giustiniano indica a Dante l'anima di Romeo di Villanova, che splende in questo stesso Cielo e la cui grande opera fu sgradita ai Provenzali, che
tuttavia hanno pagato cara la loro ingratitudine nei suoi confronti. Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, ebbe quattro figlie e grazie all'opera
dell'umile Romeo tutte furono regine; poi le parole invidiose degli altri cortigiani lo indussero a chiedere conto del suo operato a Romeo, che aveva
accresciuto le rendite statali. Egli se n'era andato via, vecchio e povero, e se il mondo sapesse con quanta dignit si ridusse a chieder l'elemosina, lo
loderebbe assai pi di quanto gi non faccia.
Interpretazione complessiva
Il Canto occupato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano (caso unico nel poema) che risponde alle due domande che Dante gli ha
posto alla fine del precedente, rivelando cio la sua identit e spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo: nella parte centrale fa seguire alla
prima risposta una giunta che una digressione sulla storia dell'Impero romano e della sua funzione provvidenziale, per cui il tema del Canto
politico come il VI di ogni Cantica (secondo una gradazione crescente, da Firenze, all'Italia, all'Impero). La ragione della lunga digressione
mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la cattiva condotta di Guelfi e Ghibellini nei confronti dell'aquila simbolo dell'Impero, in quanto i primi vi
si oppongono e i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, causando molti dei mali politici che affliggono l'Italia e l'Europa del tempo;
soluzione a questi mali , secondo Dante, l'Impero universale, ovvero un'autorit che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia,
ponendo fine alla situazione di anarchia e instabilit che caratterizza soprattutto l'Italia ( lo stesso motivo presente nel VI del Purgatorio, con
esplicito riferimento alle leggi emanate da Giustiniano e non fatte rispettare). Proprio questo spiega, forse, perch Dante affidi a Giustiniano l'alta
celebrazione dell'Impero provvidenziale, nonostante egli fosse un monarca dell'Impero orientale e avesse regnato su Costantinopoli e non su Roma:
egli aveva emanato il Corpus iuris civilis che fu poi base del diritto di tutto il mondo romanizzato del Medioevo, un'opera giuridica immensa a cui
Dante assegnava un alto valore, oltre al fatto che Giustiniano aveva tentato di ricostituire l'antica unit dell'Impero con la riconquista di Roma e
dell'Italia. A tale riguardo non da escludere che il poeta biasimasse Costantino per aver portato la capitale a Bisanzio, facendo fare all'aquila un
volo contr'al corso del ciel e quindi contro natura, specie perch nel Medioevo si pensava che ci fosse avvenuto in seguito alla famigerata donazione
che per Dante era causa dei mali della Chiesa (va detto, in ogni caso, che Costantino figura tra i beati del Cielo di Giove, gli spiriti giusti che formano
proprio la figura dell'aquila, quindi l'eventuale condanna non va intesa in senso troppo netto). Quale che sia il motivo della scelta di Dante, il poeta
mette in bocca a Giustiniano un alto e solenne discorso che inizia con la prosopopea dell'imperatore che si presenta come l'autore della riforma

legislativa e della vittoriosa spedizione in Occidente, sia pur affidata al generale Belisario (i contrasti con quest'ultimo vengono taciuti dal poeta),
opere che hanno goduto entrambe del favore divino e, anzi, l'emanazione delCorpus sarebbe stata ispirata addirittura dallo Spirito Santo. Il volere
divino ha determinato anche la creazione dell'Impero, il cui valore provvidenziale al centro di tutta la successiva digressione: Giustiniano ripercorre
le vicende storiche di Roma attraverso il volo simbolico dell'aquila, simbolo politico e militare del dominio romano, dalle mitiche origini troiane
(evocate attraverso il riferimento a Enea, l'antico che Lavina tolse, e il sacrificio di Pallante), al periodo monarchico, fino alla creazione della
Repubblica, citando i pi rappresentativi personaggi della storia romana (fonte principale, se non l'unica, sicuramente Livio). Il punto finale di tutto
questo processo ovviamente la nascita del principato con Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo in un'unica legge e favorire cos la
venuta di Cristo: dopo la celebrazione di coloro che per Dante erano i due primi imperatori, vi quella del terzo (Tiberio) sotto il cui dominio Cristo
viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e che ha la funzione di punire il peccato originale; in seguito tale punizione viene a sua volta
punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme che Dante gli attribuisce quando era gi imperatore, mentre in realt ci avvenne sotto
Vespasiano (tale affermazione susciter i dubbi del poeta che saranno chiariti da Beatrice nel Canto seguente). Il disegno provvidenziale si esaurisce
qui, poich negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento declino culminato proprio nel trasferimento della capitale a Bisanzio e nella successiva
divisione tra Oriente e Occidente, cui sar Giustiniano a porre rimedio sia pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno,
protettore della Chiesa contro i Longobardi e, quindi, legittimo erede dell'autorit imperiale (Dante afferma una volta di pi che l'Impero germanico
erede e continuatore di quello romano, quindi legittimato a imporre la sua autorit su tutto il mondo come ribadito pi volte nel poema e
nella Monarchia). Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il sacrosanto segno e
sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio Trecento: l'attacco soprattutto contro Carlo II d'Angi, pi volte biasimato
da Dante nel poema (cfr. soprattutto Purg., VII, 124 ss.; XX, 79-81) e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinch non si illuda che la
monarchia francese possa sostituirsi all'autorit dell'Impero, che la stessa polemica portata avanti da Dante contro il re di Francia Filippo il
Bello (cfr. Purg., XXXII, con l'analoga simbologia dell'aquila imperiale). La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli
spiriti operanti per la gloria terrena (che godono di un minore grado di beatitudine ma non se ne dolgono, confermando quindi quanto gi dichiarato
da Piccarda Donati) d modo a Giustiniano di concludere il Canto indicando un altro beato di questo Cielo, quel Romeo di Villanova ministro del
conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima, secondo una diffusa diceria, delle calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la
corte vecchio e povero. Non si tratta solo di un edificante esempio di cristiana rassegnazione, dal momento che tale aneddoto ha una valenza politica
che si collega al tema centrale del Canto: la figura di Romeo, cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di Dante stesso,
che sub la stessa condanna da parte dei Fiorentini che si pentiranno del loro gesto, come toccato ai Provenzali passati sotto la tirannia degli
Angioini (e il riferimento quindi a Carlo II d'Angi citato poco prima). L'ingiusto destino che accomuna Dante e Romeo anche il prodotto della
decadenza politica, quindi (nel caso di Dante) causato dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia;
secondo alcuni Giustiniano loda la figura di Romeo per fare ammenda della sua condotta verso Belisario, il grande generale con cui ebbe contrasti e
che sollev dal suo incarico alla fine della guerra greco-gotica, ipotesi suggestiva anche se non suffragata da elementi certi. Di sicuro l'accenno a
Romeo che, ridotto in miseria, obbligato a chiedere l'elemosina, ricorda molto la figura di Provenzan Salvani (Purg., XI, 133 ss.) in cui Dante si
identificava in quanto anche lui, durante l'esilio, dovr mendicare l'aiuto dei potenti: l'umiliazione di questi personaggi la stessa che subir
l'orgoglioso poeta e che gli sar profetizzata da Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso, proprio nel momento in cui gli affider l'alta missione
morale e poetica che al centro di questa Cantica e di tutto il poema.
Note e passi controversi
I vv. 1-3 alludono al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio compiuto da Costantino, che port l'aquila simbolo dell'Impero da
occidente a oriente: il percorso contrario rispetto a quello da Troia al Lazio seguito da Enea (l'antico che Lavina tolse, cio prese che in moglie
Lavinia), nel che alcuni studiosi hanno visto una critica a Costantino. Da quel momento all'incoronazione di Giustiniano passarono meno di duecento
anni (v. 4), ma Dante segue probabilmente la cronologia di Brunetto Latini che nel Trsor indica le date del 333 e del 539, quindi con un intervallo di
206 anni.
I monti citati al v. 6 sono quelli della Troade.
Al v. 10 l'imperatore si presenta con un elegante chiasmo (Cesare fui... son Iustiniano) e con i diversi tempi verbali relativi al ruolo di imperatore in
vita e all'identit personale (cfr. Purg., V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).
Il primo amor (v. 11) che ispir a Giustiniano l'opera legislativa lo Spirito Santo.
Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si rec a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e in quell'occasione avrebbe convinto
Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte il Trsor).
Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verit di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio una frase falsa e una vera (
il principio aristotelico di non contraddizione: se si dice che Socrate o vivo o morto, vuol dire che una delle due frasi vera, l'altra per forza
falsa, in quanto tertium non datur). La parola fede ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19.
Nella lunga digressione sull'Impero (vv. 34-96) il soggetto quasi sempre l'aquila, simbolo dell'autorit imperiale.
Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.) lottarono a tre a tre per decidere le
sorti della guerra tra Roma e Alba Longa.
I vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro altri monarchi e repubbliche
dell'Italia centrale.
Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi, cos
chiamato perch era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto); l'errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di
Uguccione da Pisa.
Al v. 49 i Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Arbi, come i genitori di Virgilio erano detti Lombardi (Inf., I, 68).
Il colle citato al v. 53 Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo, che in realt era in Oriente) dopo la
guerra con Catilina.
I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini occidentale e settentrionale,
l'Isara l'Isre, l'Era prob. la Loira (ma potrebbe essere la Sane, detta Arar in latino).
I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre inseguiva Pompeo in
Egitto: Antandro e Simeonta sono rispettivamente il porto della Frigia da cui salp Enea e il fiume che scorreva accanto a Troia.
Al v. 73 biulo indica portatore ed latinismo.
Il lito rubro (v. 79) il Mar Rosso, con cui si allude alla conquista da parte di Ottaviano dell'Egitto.
Il terzo Cesare (v. 86) Tiberio, che per Dante era il terzo imperatore (dopo Cesare e Augusto).
I vv. 91-93 alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C., giusta punizione secondo la dottrina medievale per la
crocifissione di Cristo: in realt Tito non era ancora succeduto al padre Vespasiano.
Al v. 106 Carlo novello Carlo II d'Angi, figlio e successiore di Carlo I.
I vv. 109-110 non sono chiarissimi, poich Dante apprezzava i figli di Carlo II (specie Carlo Martello, che fu suo amico) e non sembra verosimile che
qui profetizzi le loro sventure come punizione divina del padre; forse la massima generale.
Al v. 118 gaggi vuol dire premi, riconoscimenti ( francesismo).
Le quattro figlie (v. 133) di Raimondo Berengario IV furono Margherita, moglie di Luigi IX il Santo re di Francia; Eleonora, moglie di Enrico III
d'Inghilterra; Sancia, moglie di Riccardo conte di Cornovaglia e re dei Romani nel 1257; Beatrice, moglie di Carlo I d'Angi. Secondo la tradizione
cui si rif Dante, questi quattro matrimoni regali furono tutti organizzati da Romeo di Villanova.
L'espressione a frusto a frusto (v. 141) significa a tozzo a tozzo e allude al fatto che Romeo dovette mendicare il pane.

CANTO XV
Argomento del Canto
Ancora nel V Cielo di Marte. Apparizione dell'avo Cacciaguida, che saluta Dante. Cacciaguida si rivela, parlando dell'antica Firenze e della sua vita.
Cacciaguida parla della sua partecipazione alla seconda crociata.
l'alba di gioved 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Silenzio dei beati. Apparizione dell'avo Cacciaguida (1-30)
Gli spiriti combattenti della croce mettono fine al loro canto melodioso, spinti dalla loro volont di fare il bene e consentire a Dante di esporre i suoi
desideri, fino a quel momento simili a una lira celeste che la mano di Dio suona armoniosamente. Come possono le anime beate, si chiede Dante,
essere sorde alle preghiere degli uomini, visto che quegli spiriti tacciono per consentirgli di parlare? giusto che arda tra le fiamme dell'Inferno colui
che, per amore di beni effimeri, non obbedisce all'amore per i beni celesti.
Uno dei lumi dei beati della croce si muove lungo il braccio destro verso il centro e poi verso il basso, simile a una stella cadente che d'improvviso
attraversa il cielo sereno, salvo che chi guarda non vede sparire nessun astro dal firmamento. Il beato non abbandona la croce ma si muove lungo
questa, proprio come una fiamma che traspare dietro una parete di alabastro. Dante paragona la devozione di quest'anima a quella di Anchise, quando
accolse il figlio Enea nei Campi Elisi, quindi il beato (l'avoCacciaguida) si rivolge al poeta parlando latino e manifestando la sua gioia per il fatto che
a Dante, suo discendente, stata aperta per due volte la porta del Paradiso.
Cacciaguida invita Dante a parlare (31-69)
Dante rivolge la sua attenzione al beato che ha finito di parlare, quindi guarda Beatrice e rimane doppiamente stupefatto, per le parole dello spirito e
per l'ardente bellezza degli occhi della donna. Cacciaguida riprende poi a parlare e dice cose tanto profonde che Dante non pu capirle, non perch
egli voglia celarne il senso ma in quanto il concetto espresso va oltre le umane capacit dell'intelletto del poeta. Quando il beato torna a parlare in
modo comprensibile a Dante, questi sente che l'avo benedice Dio per la grazia dimostrata al suo discendente, poi Cacciaguida si rivolge al poeta
dicendogli che attendeva da lungo tempo il suo arrivo, preannunciatogli dalla mente divina, e ora che Beatrice lo ha condotto fin l ci gli procura
immensa gioia. Dante, continua Cacciaguida, sa che il beato legge il suo pensiero nella mente di Dio e perci il poeta non formula alcuna richiesta;
egli conferma l'esattezza della convinzione di Dante, tuttavia invita il suo discendente a domandare per consentire al suo ardore di carit di
manifestarsi compiutamente.
Dante chiede allo spirito di manifestarsi. Cacciaguida si presenta (70-96)
Dante rivolge lo sguardo a Beatrice, la quale intuisce la sua richiesta e gli d un cenno d'assenso. Allora il poeta dice al beato che nelle anime del
Paradiso il sentimento pari all'intelligenza, poich cos ha voluto Dio quando li ha elevati a una tale altezza; ma per i mortali imperfetti non cos,
quindi Dante ringrazia lo spirito solamente con il proprio cuore per la festosa accoglienza ricevuta e lo supplica di rivelargli il proprio nome. Lo
spirito risponde presentandosi come suo antenato e affermando che il proprio figlio, Alighiero I, da pi cento anni in Purgatorio, nella I Cornice;
questi stato bisnonno di Dante e Cacciaguida invita il poeta a pregare per abbreviare la sua permanenza nel secondo regno.
Cacciaguida rievoca la Firenze antica (97-129)
Al tempo di Cacciaguida Firenze era ancora circondata dalla vecchia cinta muraria, presso la quale si trova ancora la chiesa di Badia, ed era assai pi
sobria della citt attuale. La popolazione non ostentava gioielli e monili sfarzosi, n le donne indossavano abiti alla moda per rendersi pi
appariscenti. La figlia, nascendo, non faceva paura al padre per l'uso di sposarsi precocemente e l'ampiezza della dote; in citt non vi erano case
troppo grandi e vuote per il lusso, n i cittadini si davano alla lussuria imitando Sardanapalo come nella Firenze attuale. Il monte Uccellatoio non
aveva ancora sormontato Monte Mario a Roma, per l'imponenza degli edifici cui seguir un rapido declino. Cacciaguida vide Bellincione Berti,
illustre fiorentino, andare in giro vestito in modo semplice, mentre sua moglie non si ricopriva il volto di belletti; altri illustri cittadini si
accontentavano di vesti di pelle, mentre le loro spose stavano in casa a lavorare al telaio. Le donne di Firenze a quel tempo erano certe di non morire
in esilio, n alcuna era abbandonata dal marito che andava in Francia a commerciare; esse si dedicavano ad allevare i figli, a filare la lana, a
raccontare le leggende della fondazione di Firenze da parte dei Romani. A quei tempi, conclude Cacciaguida, certe sfacciate donne fiorentine dei
tempi di Dante avrebbero fatto stupire tutti, come oggi farebbero personaggi quali Cincinnato e Cornelia.
Cacciaguida rivela il proprio nome e la sua storia (127-148)
Il beato rivela di essere nato in quella citt, partorito dalla madre che nelle doglie invocava il nome di Maria, quindi battezzato nel Battistero di
Firenze col nome di Cacciaguida. Ebbe due fratelli di nome Moronto ed Eliseo e spos una donna proveniente dalla Valpadana, il cui cognome
quello portato da Dante, Alighieri. In seguito Cacciaguida segu l'imperatore Corrado III nella seconda Crociata, dopo che il sovrano per il suo retto
operare lo aveva investito cavaliere; and dunque a combattere gli infedeli in Terrasanta, usurpata dai popoli islamici a causa della trascuratezza dei
papi. Dagli infedeli fu ucciso in battaglia e da quella morte giunse alla pace del Paradiso.

Interpretazione complessiva
Il Canto apre il trittico dedicato al personaggio di Cacciaguida e inaugura l'importante discorso relativo alla missione civile e poetica di Dante, non
a caso collocato in posizione centrale nella Cantica e nell'intero poema: in particolare questo primo episodio caratterizzato da un linguaggio solenne
e stilisticamente prezioso, con una fitta serie di rimandi alla classicit e al testo biblico che innalzano notevolmente il tono del dialogo fra il poeta e il
suo avo. In apertura Dante descive il silenzio dei beati con la similitudine di una lira celeste che la mano di Dioallenta e tira, che smette di cantare
spinta dall'amore che sempre si liqua (latinismo per si manifesta) in una volont benevola, il che induce Dante ad affermare che le anime beate non
possono essere sorde alle preghiere dei vivi; poi l'apparizione di Cacciaguida descritta come una stella cadente che d'improvviso attraversa il quieto
cielo nottuno, precisando in seguito che la luce del beato si muove lungo il braccio destro della croce simile a una gemma che non lascia il
suo nastro e a una fiamma visibile dietro una parete di alabastro (pi avanti Dante chiamer lo spirito vivo topazio, accentuando la preziosit dei
paragoni). Cacciaguida si rivolge quindi a Dante senza fare il proprio nome, cosa che avverr solo verso la fine dell'episodio, dapprima paragonato
all'ombra di Anchise che accoglie il figlio Enea nei Campi Elisi e poi mostrato mentre parla al suo discendente in latino, chiedendosi a chi oltre che a
Dante la porta del Cielo stata aperta due volte. Il doppio riferimento ovviamente al viaggio di Enea nell'Ade, narrato da Virgilio nel libro VI
dell'Eneide e in occasione del quale l'eroe ascolt dall'anima del padre il preannuncio dell'alta missione che lo avrebbe portato alla fondazione della
stirpe romana, ma anche a san Paolo che nella II Epistola ai Corinzi narrava di essere stato rapito al III Cielo, per cui la domanda retorica di
Cacciaguida sottintende che oltre a Dante la porta del Paradiso stata aperta due volte solo al santo. Enea e san Paolo erano entrambi citati da Dante
in Inf., II, 28 ss., quando il poeta aveva esposto a Virgilio i suoi dubbi circa il viaggio nell'Oltretomba, per cui come se Dante qui volesse
sottolineare il carattere provvidenziale del suo viaggio che stato voluto da Dio per consentirgli di adempiere a un'importante missione (quella di
raccontare nel poema tutto ci che ha visto, come l'avo gli spiegher nel Canto XVII); inoltre evidente il parallelismo tra Anchise e Cacciaguida, che
infatti saluta il suo discendente con l'espressione sanguis meus che ripresa letterale di Aen., VI, 835 e che nel Canto XVII profetizzer a Dante il
futuro esilio, investendolo della sua missione come Anchise aveva fatto con il figlio.
L'incontro fra Dante e Cacciaguida ha quindi un'importanza che va al di l dell'ambito personale e familiare in cui potrebbe sembrare circoscritto e

investe la sostanza stessa del poema, con la definizione della missione sacrale di cui il poeta si sente investito e la cui dichiarazione solenne affida
all'anima di questo suo oscuro antentato, scelto in quanto martire morto combattendo per la fede e vissuto in unaFirenze molto diversa da quella
attuale da cui Dante sar esiliato. La rievocazione di questa Firenze ideale del XII secolo, pi piccola di quella del XIV e la cui popolazione non
viveva ancora nel lusso sfrenato dovuto alla diffusione della ricchezza, al centro della successiva prosopepea del beato, il quale, richiesto da Dante
di rivelare la propria identit, si limita inizialmente a dire di essere stato suo antenato e concittadino: l'idealizzazione della Firenze antica a paragone
di quella moderna riprende l'accusa di Forese Donati alle sfacciate donne fiorentine di Purg., XXIII, 91-111 e anticipa la rassegna delle principali
famiglie fiorentine del Canto seguente, in cui sar evidente il rimprovero di Cacciaguida alle genti nove e ai sbiti guadagni che hanno diffuso la
corruzione nella citt e hanno causato le discordie interne, portando infine all'esilio del poeta profetizzato nel Canto XVII. Non a caso gli abitanti di
questa Firenze ideale vivevano una vita semplice e modesta, con gli uomini pi in vista che indossavano abiti non eleganti e le donne che non
sfoggiavano monili e vestiti sfarzosi, non si imbellettavano i visi, erano certe di morire in patria perch la citt non conosceva ancora gli esili politici;
la rievocazione di Cacciaguida sentita e ricca di pathos, specie all'inizio con la quadruplice anafora Non... dei vv. 100-109, in cui l'avo sottolinea i
costumi corrotti della Firenze attuale paragonandoli polemicamente a quelli morigerati dei suoi antichi concittadini. Particolarmente significativa, poi,
la descrizione delle donne intente a badare alla propria casa, ad allevare i figli e a filare la lana (l'immagine tratta dalla lett. classica e si rif a quella
della donna dell'antica Roma), mentre raccontano alla famiglia (che comprende anche la servit, come in epoca romana) dell'antica e leggendaria
fondazione di Firenze ad opera dei Romani e di Cesare: il paragone tra Firenze e Roma tanto pi significativo, in quanto Dante riteneva che gli
abitanti della sua citt di sangue puro discendessero proprio dai Romani, mentre quelli venuti da Fiesole e in seguito inurbatisi dal contado avevano
contaminato questa originaria purezza portando in citt l'avidit di guadagno che tutto aveva corrotto ( la tesi sostenuta da Cacciaguida nel Canto
XVI, ma anche da Brunetto Latini in Inf., XV, 61-78). Non a caso i due esempi pi famigerati di Fiorentini degeneri del Due-Trecento, Cianghella e
Lapo Salterello, sono paragonati in forma chiastica a Cincinnato e Cornelia, ovvero due illustri esempi di quelle alte virt virili e femminili che
caratterizzavano i cittadini dell'antica Roma, mentre il paragone implicito tra le due citt evidente anche nell'accostamento tra Monte Mario
(Montemalo) e l'Uccellatoio, col dire che Firenze ha superato Roma nel lusso degli edifici ma sar pi rapida nella decadenza. Dante crea un parallelo
tra l'evoluzione politico-morale delle due citt, in quanto entrambe hanno avuto un passato glorioso caratterizzato dalla vita austera e dalla grandezza
politica (Firenze aveva toccato il suo massimo splendore nella prima met del Duecento), ma poi sono cadute nella corruzione morale e
nell'ambizione, finendo per declinare rapidamente: Roma in passato aveva visto il crollo del suo Impero, poi ristabilito da Carlo Magno, Firenze vedr
assai presto la fine del proprio dominio politico ad opera di un imperatore in grado di riportare la sua autorit in Italia, o almeno cos si augura e
profetizza Dante.
La rievocazione di Firenze d modo a Cacciaguida di presentarsi e fare infine il proprio nome, raccontando brevemente la sua vita in cui spicca
soprattutto la partecipazione alla II Crociata al seguito dell'imperatore Corrado III, che l'aveva fatto cavaliere in seguito al suo bene ovrar : l'avo si
presenta dunque come martire caduto combattendo in Terrasanta contro gli infedeli, che tuttora usurpano i luoghi santi per colpa d'i pastor, per la
trascuratezza dei papi ( la consueta polemica di Dante contro il guelfismo e a favore dell'autorit imperiale), ma afferma anche orgogliosamente la
propria nobilt, l'appartenenza a quell'aristocrazia cittadina formata, secondo Dante, dalla semenza santadei Romani che avevano fondato Firenze e
della quale lui stesso sentiva di fare parte. La dichiarazione di Cacciaguida d modo all'esule Dante, sconfitto sul piano politico e bandito dalla propria
ingrata citt, di affermare con orgoglio la sua nobilt, cosa di cui far in parte ammenda all'inizio del Canto successivo: i versi seguenti preciseranno
meglio le origini di Cacciaguida e riprenderanno la rievocazione dell'antica Firenze ideale, con la rassegna delle famiglie pi cospicue e la rampogna
contro l'imbastardimento della popolazione per l'immigrazione dal contado, causa prima (come si detto) della corruzione e della decadenza politica
della citt che Dante sta scontando con l'esilio. L'antica nobilt di Cacciaguida anche garanzia della veridicit delle profezie che pronuncer nel
Canto XVII, e che riguarderanno non soltanto la vicenda biografica di Dante ma anche le imprese militari e politiche di Cangrande della Scala, forse
da identificare col veltro destinato a cacciare la lupa, quindi l'avarizia, dall'italia: il complessivo episodio di Cacciaguida si inserisce pertanto in un
quadro assai pi ampio della vicenda personale del poeta e va ben al di l del comprensibile rancore che egli nutriva per i suoi ingrati concittadini, il
che spiega la scelta di questo personaggio come protagonista dei Canti centrali del Paradiso, nonch l'elevatezza dello stile che li caratterizza e,
almeno in parte, l'orgogliosa affermazione da parte di Dante della propria superiorit morale sui suoi antichi nemici politici.
Note e passi controversi
Al v. 1 si liqua lat. da liqueo, manifestarsi, che Dante rende della prima coniugazione.
I vv. 19-24 indicano che la luce di Cacciaguida si muove lungo il braccio destro della croce e scende in basso, senza staccarsi da essa come
una gemma che resta attaccata al suo nastro. La lista radial propriamente il raggio che divide il cerchio, quindi ciascuno degli assi della croce
che, essendo perpendicolari, come se dividessero un cerchio in quattro quadranti uguali.
Il v. 24 allude a una particolare propriet dell'alabastro che lascia trasparire la luce: pu darsi che Dante avesse visto delle finestre di alcune chiese
fatte in quel materiale, che lasciavano filtrare la luce del sole.
I vv. 25-27 si riferiscono ovviamente ad Aen., VI, 684 ss., quando Enea scende agli Inferi e incontra l'ombra del padre Anchise nei Campi Elisi;
la maggior musa prob. Virgilio, ma potrebbe essere anche l'alta poesia dell'Eneide.
Le parole in latino ai vv. 28-30 significano: O mio discendente, o abbondanza grazia divina, a chi come a te fu aperta per due volte la porta del
cielo?. Sanguis meus calco virgiliano (Aen., VI, 835), mentre le altre espressioni come superinfusa, gratia Dei, celi ianua sono di derivazione
biblica. La domanda retorica e sottintende che il primo a compiere un viaggio in Paradiso da vivo fu san Paolo (cfr. Inf., II, 28 ss.)
Il magno volume (v. 50) il libro della mente di Dio, dove ogni cosa immutabile e dove Cacciaguida ha letto dell'arrivo di Dante.
Al v. 55 mei lat. da meare, procedere (cfr. Par., XIII, 55).
Al v. 74 la prima equalit Dio: Dante vuol dire che per i beati l'intelletto pari al loro sentimento e lo possono esprimere a parole, mentre per lui,
mortale, questo pi difficile.
I vv. 91-94 alludono al figlio di Cacciaguida, Alighiero I bisnonno del poeta, che da pi di un secolo nella I Cornice del Purgatorio: il suo nome, che
poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, la famiglia della moglie di Cacciaguida (vv. 137-138).
I vv. 97-99 alludono all'antica cinta muraria di Firenze, che risaliva al IX-X sec. ed era assai pi ristretta di quella dei tempi di Dante, realizzata nel
1173 quindi dopo la morte di Cacciaguida. Il v. 98 si riferisce alla chiesa di Badia, che si trovava presso le antiche mura e suonava ancora le ore
canoniche.
Alcuni mss. leggono al v. 101 donne contigiate, ma prob. che Dante si riferisca al capo di abbigliamento. Contigiato deriva dall'ant. fr.cointise,
ornamento.
Al v. 106 le case sono dette vte perch troppo grandi a causa del lusso e quindi sproporzionate; alcuni intendono un'allusione agli esili del tempo di
Dante, ma sembrerebbe fuori contesto in questo passo (l'avo biasima i costumi lussuosi della Firenze del Trecento).
I vv. 109-111 indicano che il monte Uccellatoio, che sorge alle porte di Firenze, non aveva ancora superato Monte Mario a Roma, cio il fasto degli
edifici di Firenze non aveva ancora oltrepassato quello della citt di Roma; forse Dante allude pi in generale all'ascesa e poi al declino politicomorale della sua citt. Uccellatoio quadrisillabo per trittongo.
Bellincione Berti (v. 112) era il padre della buona Gualdrada (Inf., XVI, 37) e fu un fiorentino illustre della nobile famiglia dei Ravignani, di cui
sappiamo ben poco (visse nel XII sec.). I Nerli e i Vecchietti (Vecchio, v. 115) erano altre famiglie cospicue di parte guelfa, anch'esse contemporanee
dell'avo.
I vv. 118-120 vogliono dire che le antiche donne di Firenze non seguivano i mariti in esilio e non erano abbandonate dagli stessi per andare a
commerciare in Francia.
L'immagine ai vv. 124-126 riprende quella del v. 117 e descrive le donne della Firenze antica intente a filare la lana, come le brave matrone dell'antica
Roma; la famiglia l'insieme dei servi e ad essi la donna fiorentina narrava le antiche storie delle origini della citt, da Roma, e attraverso questa, da
Troia.

Cianghella (v. 129) era la figlia di Arrigo della Tosa, che dopo la morte del marito Lito degli Alidosi, imolese, torn a Firenze e condusse vita
dissoluta sino alla morte, avvenuta forse nel 1330; Lapo Salterello era un giurista e poeta contemporaneo di Dante, accusato di brogli e baratteria e
che pass alla parte Nera dopo i fatti del 1301-1302 (fu, a quanto pare, uomo di corrotti costumi). A questi due esempi negativi Dante contrappone
quelli positivi di Quinzio Cincinnato, il celebre dittatore romano che vinse gli Equi, gi ricordato da Giustiniano in Par., VI, 46, e di Cornelia, la figlia
di Scipione l'Africano e madre dei Gracchi, esempio di virt e onest per le donne di Roma, inclusa tra gli spiriti magni del Limbo (cfr. Inf., IV).
Il Batisteo citato al v. 134 San Giovanni (cfr. Inf., XIX, 17; Par., XXV, 8-9); la forma Batisteo fu usata fino al Cinqucento.
Secondo alcuni la moglie di Cacciaguida (v. 137) veniva da Ferrara e apparteneva alla famiglia degli Aldighieri.
Lo 'mperador Currado (v. 139) certamente Corrado III di Hohenstaufen, che regn tra 1138-1152 e prese parte alla II Crociata; secondo alcuni
commentatori non sarebbe sceso mai in Italia, quindi Dante potrebbe riferirsi a Corrado II il Salico (1024-1039), che per troppo anteriore a
Cacciaguida. Del resto l'avo di Dante poteva essersi unito a lui anche in diversa circostanza e l'espressione dietro li andai non implica che si sia
accodato al suo seguito.

CANTO XVII
Argomento del Canto
Ancora nel V Cielo di Marte. Dante chiede all'avo Cacciaguida notizie sulla sua vita futura: profezia dell'esilio da Firenze. Profezia sulle gesta
di Cangrande Della Scala. Dubbi di Dante e dichiarazione della sua missione poetica.
il mattino di gioved 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Dante chiede a Cacciaguida notizie sulla sua vita futura (1-30)
Dante si sente come Fetonte quando si rivolse alla madre Climene per avere notizie certe su suo padre Apollo, il che avvertito da Beatrice e
dall'anima dell'avo Cacciaguida. La donna invita Dante a manifestare il suo pensiero, non perch le anime non possano conoscere i suoi desideri, ma
affinch il poeta si abitui a esprimerli liberamente cos che vengano esauditi. Dante si rivolge allora a Cacciaguida e gli ricorda, come lui ben sa
leggendo nella mente di Dio, che guidato da Virgilio egli ha udito all'Inferno e in Purgatorio delle oscure profezie sul suo conto, per cui il poeta
vorrebbe avere maggiori ragguagli in merito: bench, infatti, egli sia preparato ai colpi della sorte, una sciagura prevista pi facile da affrontare.
Dante in questo modo obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio all'anima del suo antenato.
Cenni di Cacciaguida alla prescienza divina (31-45)
Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile e non con le espressioni tortuose e oscure
proprie degli oracoli delle divinit pagane: il beato spiega che tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono gi scritti nella mente divina, il che non
implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverr, ma non lo
rende per ci inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli prevede il tempo futuro di Dante, come la dolce musica di un organo giunge alle
orecchie umane.
L'esilio di Dante (46-69)
Dante, profetizza l'avo, dovr abbandonare Firenze allo stesso modo in cui Ippolito dovette partire da Atene per la malvagit della sua matrigna.
Questo voluto e cercato gi nell'anno 1300 da papa Bonifacio VIII, nella Curia dove ogni giorno si mercanteggia Cristo: la colpa dell'esilio verr
imputata ai vinti, cos come di solito avviene, ma ben presto la punizione verso i Fiorentini dimostrer la verit dei fatti. Dante dovr lasciare ogni
cosa pi amata, ci che costituisce la prima pena dell'esilio, quindi prover com' duro accettare il pane altrui mettendosi al servizio di vari signori.
Ci che gli sar pi fastidioso sar la compagnia di altri fuorusciti, sempre pronti a mettersi contro di lui, tuttavia saranno loro e non Dante ad avere le
tempie rosse di sangue e di vergogna nella battaglia della Lastra. Le conseguenze del loro comportamento dimostreranno la loro follia, cos che per
Dante sar stato molto meglio fare parte per se stesso.
Profezie su Cangrande Della Scala (70-99)
Dante trover anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala che sullo stemma della casata reca l'aquila imperiale: egli sar
cos benevolo verso il poeta che gli conceder i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste. A Verona Dante vedr colui (Cangrande) che alla
nascita stato fortemente influenzato dal pianeta Marte, cos che le sue imprese saranno straordinarie. Nessuno se n' ancora accorto perch molto
giovane, avendo egli solo nove anni, ma prima che papa Clemente V inganni Arrigo VII di Lussemburgo il suo valore risplender chiaramente,
mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni. Le sue gesta saranno cos illustri che i suoi nemici non potranno tacerle, quindi Dante dovr
attendere il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti
in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo per il silenzio a Dante che ascolta
incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovr serbare rancore verso i suoi concittadini, poich la sua vita
destinata a durare ben oltre la punizione che li colpir.
Dubbi di Dante (100-120)
Dopo che il beato ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi di
fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui bene che sia
previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre citt a causa dei suoi versi, visto che dovr lasciare Firenze. All'Inferno, in Purgatorio e in
Paradiso il poeta ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti; tuttavia, se egli non dir tutta la verit della visione,
teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future.
La missione poetica di Dante (121-142)
La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole, quindi l'avo risponde dicendo che i lettori con la coscienza
sporca per i peccati propri o di altri proveranno fastidio per le sue parole, e tuttavia egli dovr rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ci che ha
visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che chi ha la rogna si gratti. Infatti i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma una volta digeriti saranno un
nutrimento vitale per le anime. Il grido di Dante sar come un vento che colpisce pi forte le pi alte cime, il che non ragione di poco onore, e per
questo nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note per la loro fama: il lettore non presterebbe fede ad esempi che fossero
oscuri e non conosciuti da tutti, n ad altri argomenti che non fossero evidenti di per s.
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude il trittico dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante, dopo il XV in cui l'antenato
si era presentato rievocando l'antica Firenze del XII sec. e dopo il XVI in cui, dopo l'analisi delle cause della decadenza morale della citt, c'era stata
la rassegna delle principali famiglie fiorentine cadute poi in declino. Firenze ancora al centro del Canto XVII, poich Dante chiede all'avo
spiegazioni circa l'esilio che gli stato pi volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno, il che indurr poi il poeta a manifestare i suoi dubbi
circa l'adempimento della missione: lo stile retoricamente elevato, gi in apertura con il paragone fra Dante e Fetonte che si rivolse alla madre
Climene per avere rassicurazioni sul fatto che Apollo fosse suo padre, mentre qui il poeta vuole avere conferma circa le parole spesso malevole che ha
udito contro di s (anche Fetonte, secondo il mito classico, aveva subto lo scherno di Epafo che non credeva fosse figlio di Apollo). molto evidente
poi il parallelismo, come nel Canto XV, fra Dante e Enea che incontra il padreAnchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida profetizza a
Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza, proprio come Anchise preannunciava al figlio le guerre che lo
attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa rassegna
delle antiche famiglie di Firenze nel Canto XVI si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma, mentre in questo episodio
tutto centrato su Dante destinato a lasciare la sua citt in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto politicamente, ad
adempiere all'altissimo incarico di cui investito: il discorso di Cacciaguida chiaro e privo di ambiguit, diverso dunque dalle velate allusioni di
personaggi come Farinata,Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai responsi oracolari
degli dei pagani che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo antro e alla quale
chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida). Dopo l'accenno al delicato problema della prescienza
divina, che non determina in modo necessario gli eventi pregiudicando cos il libero arbitrio, Cacciaguida annuncia a Dante che dovr lasciare Firenze
per la malvagit dei suoi concittadini, come Ippolito fu costretto a lasciare Atene per la perfidia della matrigna Fedra (il parallelo Firenze-Atene era
quasi un classico nella letteratura del Due-Trecento, gi visto in Purg., VI, 139, sia pure in chiave ironica). Pi che alle beghe cittadine tra le opposte

fazioni di Guelfi Bianchi e Neri, l'avo riconduce la questione dell'esilio alla caparbia volont di papa Bonifacio VIII di favorire la parte Nera in
combutta con la monarchia francese e Carlo di Valois, per cui la vicenda personale di Dante si inserisce in un pi ampio contesto politico che va oltre
la prospettiva comunale di Firenze e riguarda il conflitto tra potere papale e autorit imperiale, fonte secondo Dante dei mali poltici dell'Italia.
Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di citt in citt, accusato di falsi crimini dai suoi ex-concittadini e in
contrasto con gli altri fuorusciti destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra, costretto infine a mendicare il pane dai signori che gli
offriranno protezione e rifugio: tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sar il principale protettore
del poeta e al quale Dante dedicher proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII che sar fondamentale per
l'interpretazione del poema. Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo panegirico e lo
presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrer il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e soprattutto tenter di
ristabilire l'autorit imperiale in Italia del Nord: non a caso egli stato identificato sia col veltro di Inf., I, 101 ss., sia col DXV di Purg., XXXIII,
37 ss., e non da escludere che proprio la sua azione sia da mettere in rapporto con la prossima punizione di Firenze che preannunciata qui da
Cacciaguida e altrove dallo stesso Dante, essendo legata probabilmente al rovesciamento del governo dei Neri da parte di un vicario imperiale
destinato a ristabilire la legge e la giustizia, sia questi Cangrande o un altro personaggio. Naturalmente questo rester un sogno mai realizzatosi, cos
come anacronistica e non in linea con i tempi era la posizione politica di Dante relativamente al ruolo dell'Impero in Italia, ma l'attesa fiduciosa di un
personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed lo sprone che induce Dante a compiere
la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore.
Questa missione poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che
nascono proprio dalla profezia dell'esilio delineatasi finalmente con chiarezza: Dante sa che chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ci che ha
visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni se dir
tutta la verit, rischiando in caso contrario di scrivere un'opera di poco peso e, quindi, di non ottenere la fama imperitura. La risposta di Cacciaguida
tale da non lasciare incertezze ed una chiara esortazione a non essere timido amico della verit, poich proprio questo il compito di Dante: nei tre
luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati exempla di anime dannate o salve secondo il criterio della notoriet, poich solo attraverso personaggi
conosciuti il lettore ne sar colpito al punto di modificare la sua condotta, dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche
particolare della visione o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilit o ritorsioni. Il valore del poema allora soprattutto
quello di un'alta denuncia contro i mali dell'Italia del tempo, che sono legati all'assenza di una autorit centrale in grado di garantire le leggi, alla
corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, pi in generale all'avidit di guadagno che dovuta alla diffusione del denaro: Dante non dovr tirarsi
indietro rispetto a tale compito e dovr quindi riferire fedelmente tutto ci che gli stato mostrato, ovvero la condizione delle anime post mortem che
secondo la finzione del poema (e in base a quanto Dante stesso afferma nell'Epistola XIII) gli viene fatta conoscere da vivo in virt di un altissimo
privilegio e in considerazione dei suoi meriti poetici. Il discorso di Cacciaguida perci stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad
espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase lascia pur grattar dov' la rogna che rende bene l'idea della missione affidata a Dante,
quella cio di dire la verit anche quando questa suoner sgradevole alle orecchie dei potenti (in XXVII, 22-27 san Pietro user parole ancor pi dure
contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano una cloaca / del sangue e de la puzza); del resto la voce del poeta sar simile a un
vento che colpir maggiormente proprio le cime pi alte, ovvero i personaggi pi illustri del tempo che erano pi di altri responsabili della decadenza
morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potr legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro al quale, come lui stesso
dir, hanno cooperato Cielo e Terra. Il solenne ammonimento di Cacciaguida assume dunque lo stesso valore della missione di Enea nelle parole di
Anchise alla fine del libro VI dell'Eneide, quando affidava al figlio il compito di gettare le basi della stirpe romana destinata a dominare il mondo e ad
assicurare pace e giustizia sotto l'Impero di Augusto: come il pius Aeneas nemmeno Dante si sottrarr al suo dovere e far davvero manifesta tutta la
sua visione, mostrando casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi aGuido da Montefeltro, a Branca Doria che addirittura
include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in
Paradiso (Traiano, Rifeo), il cui scopo ultimo affermare l'infallibilit della giustizia divina, anche al di l delle capacit di comprensione umana.
L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione dell'alto valore morale di questa investitura, che
poi la spiegazione essenziale del successo dellaCommedia destinato a durare assai pi della breve vita del suo autore: la differenza tra quest'opera e le
scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non solo nella novit della rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia
contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto maggiore rilievo quando si pensi alle oggettive difficolt di Dante
bandito in esilio dalla sua citt, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, e nonostante
tutto privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione irrinunciabile. Ci rende il Canto XVII del Paradiso uno dei momenti
pi alti e sentiti della poesia di Dante in assoluto e acquista un valore che va molto al di l della vicenda personale e biografica del poeta, il quale
forse sottolinea i propri meriti come rivalsa nei confronti dei suoi ingrati concittadini, ma dimostra una coscienza morale e un coraggio non comuni al
suo tempo come nel mondo presente.
Dante exul immeritus: il contrastato rapporto con Firenze
Sappiamo che in seguito all'esilio che gli imped di rientrare a Firenze nel 1302 Dante fu costretto a lunghe peregrinazioni in giro per l'Italia del Nord,
che lo portarono a contatto con una realt politica ben pi ampia di quella municipale che aveva vissuto sino a quel momento e ampliarono di molto la
sua visione culturale: forse concep la Commediaanche come un mezzo per affermare la sua grandezza a dispetto dell'esilio ingiustamente patito,
quindi si pu dire che grazie a quel destino Dante divenne il grande poeta oggi celebrato. Sicuramente egli visse il bando dalla sua citt come una
ferita mai rimarginata, sperando fino all'ultimo di potervi rientrare e, al tempo stesso, nutrendo un forte rancore per i suoi avversari politici che lo
avevano esiliato: c'era anche l'accusa infamante (e pare del tutto infondata) di baratteria, cio di corruzione in atti di governo, che port alla condanna
a morte del poeta e dei suoi figli nonch alla confisca di tutti i loro beni. Si pu ben capire la triste condizione dello scrittore costretto a mettersi al
servizio dei signori potenti, a provare come sa di sale / lo pane altrui e a umiliarsi, senza tuttavia mai derogare dalla sua altissima dirittura morale;
prova ne sia il fatto che, nonostante la nostalgia della patria lontana e le oggettive difficolt, Dante non rinunci mai ad attaccare nelle sue opere le
malefatte dei potenti del suo tempo, ai quali certamente la sua parola doveva sembrare brusca come profetizzato dall'avo Cacciaguida nel Canto XVII
del Paradiso.
Il suo rapporto con Firenze fu sino alla fine di amore-odio, dal momento che in molti passi del poema Dante si scaglia con forza e sarcasmo contro i
costumi politicamente e moralmente corrotti della sua citt (cfr. soprattutto Inf., XXVI, 1-12, ma anche Purg., VI, 127-151), mentre in altri momenti
sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (cfr. Par., XXV, 1-12, dove Firenze diventa il bello ovile dove
ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla citt, i suoi avversari politici). A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare
soprattutto per prendere cappello, ovvero ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche
a Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella citt; e a Firenze avrebbe potuto
rientrare nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni per che Dante giudic
assolutamente inaccettabili. Si trattava di ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria che gli veniva rivolta, pagare una multa e trascorrere una
notte in carcere, cosa che gli avrebbe consentito di rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga, ma fin troppo
evidente che il poeta mai avrebbe sottostato a una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale, scendere a patti con
coloro che lo avevano ingiustamente allontanato e soprattutto riconoscere una colpa che non aveva commesso, un prezzo davvero troppo alto da
pagare per chi fino a quel momento si era distinto come cantor rectitudinis attraverso le pagine del poema che da anni circolava nelle citt italiane.
Il gran rifiuto di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero l'ultima
opportunit per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilit la migliore
testimonianza del suo rigore inflessibile, nonch della sua caparbiet nel tenere fede ai propri principi. Ne una testimonianza l'Epistola XII a un
amico fiorentino, forse un interlocutore reale che lo sollecitava a rientrare approfittando dell'amnistia e cui Dante risponde con cortesia riguardo

all'intercessione e con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine
dell'altera e sdegnosa dignit del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus. Ecco le sue parole riguardo all'infamante
condono di cui avrebbe potuto usufruire:
proprio questo il grazioso proscioglimento con cui richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha
meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia,
una cos avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che
predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero! Non
questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verr trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di
Dante, l'accetter a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrer mai. E che? forse che non potr vedere
dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potr sotto il cielo indagare le dolcissime verit, senza prima restituirmi abietto e
ignominioso al popolo e alla citt di Firenze? E certamente non mi mancher il pane. (trad. di A. Torri, Livorno 1842).
Il 15 ottobre 1315 venne confermata la condanna a morte per Dante e i suoi figli, e come noto il poeta sarebbe morto nel 1321 a Ravenna, dove
tuttora sepolto. La contrastata vicenda tra il poeta e la sua citt non ebbe fine con la sua scomparsa: diversi tentativi vennero fatti negli anni a venire
dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce, nessuno dei quali and tuttavia a buon fine (neppure quello ad opera di
papa Leone X nel primo Cinquecento, quando furono i Ravennati a opporsi). E forse giusto che le spoglie del grande poeta, che non pot rientrare in
vita nella sua citt a condizioni giudicate onorevoli, restino tumulate lontano dalla sua Firenze, dove all'indomani della sua morte i suoi ingrati exconcittadini erano fin troppo solleciti a volersene riappropriare, per ragioni non certamente legate all'ammirazione per la sua dignit.
Note e passi controversi
I vv. 1-3 alludono al mito di Fetonte, figlio di Apollo e Climene (Ovidio, Met., I, 748 ss.; II, 1 ss.) che era stato deriso da Epafo il quale non credeva
che il dio del Sole fosse realmente suo padre e si era rivolto alla madre per avere rassicurazioni: in seguito Apollo, per confermare la versione di
Climene, gli permise di guidare il carro del Sole, ma Fetonte devi dal retto cammino e venne fulminato da Giove (per questo il giovane esempio di
come i padri debbano essere scarsi, non condiscendenti coi figli).
Al v. 13 piota vuol dire pianta del piede, quindi per estensione radice. Il vb. t'insusi neologismo dantesco.
Al v. 31 ambage latinismo per tortuosit, espressioni oscure e allude ai responsi oracolari dei pagani (la gente folle) che spesso erano
ambigui; preciso / latin (vv. 34-35) vuol dire discorso chiaro e non necessariamente che il beato parli latino come qualcuno ha supposto (cfr.
il discreto latino di XII, 144).
Alcuni mss. al v. 42 leggono corrente, che per lectio facilior.
I vv. 46-48 alludono al mito di Ippolito, il figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al
padre; questi credette alla moglie e cacci ingiustamente il figlio da Atene (Ovidio, Met., XV, 493 ss.). Alcuni interpreti pensano che Dante paragoni
Firenze a Fedra, indicandola cio come citt matrigna.
I vv. 49-51 alludono certamente a Bonifacio VIII, intento a compiere simonia nella Curia di Roma (l dove Cristo tutto d si merca) e a complottare
per favorire la presa del potere dei Neri a Firenze. Non necessario pensare che Dante intenda attribuire al papa la volont di esiliare lui
personalmente, anche se un riferimento in tal senso non si pu escludere.
I vv. 53-54, non chiarissimi, intendono dire che presto Firenze verr punita da Dio e ci ristabilir la verit, dimostrando cio la falsit delle accuse
rivolte a Dante (prob. ci si riferisce all'accusa di baratteria).
I vv. 61-66 si riferiscono agli altri fuorusciti fiorentini a cui Dante in un primo tempo si era unito, anche se non chiaro a cosa egli alluda dicendo che
questa compagnia... era diventata tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a
Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti, con le tempie rosse di
sangue e vergogna.
Il gran Lombardo citato al v. 71 quasi certamente Bartolomeo Della Scala, figlio di Alberto I (morto nel 1301, prima dell'esilio di Dante) e fratello
maggiore di Cangrande, nato nel 1291; egli resse Verona dal 1301 al 1304, quindi Dante sarebbe stato da lui nei primissimi anni dell'esilio. Del
successore, Alboino, il poeta d un giudizio severo in Conv., IV, 16 e quindi poco probabile che si tratti di quest'ultimo.
Al v. 72 il santo uccello l'aquila imperiale, che lo stemma degli Scaligeri recava sul simbolo della scala; essi divennero vicari imperiali nel 1311, ma
non inverosimile che l'aquila fosse gi presente prima.
I vv. 76 ss. alludono senza nominarlo a Cangrande, nato nel 1291 e quindi di appena nove anni al momento del colloquio con Cacciaguida: il beato ne
predice le grandi imprese, che si vedranno prima che Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo (l'alto Arrigo), ovvero prima del
1312 quando il papa si rivolt contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore.
I vv. 91-93 contengono una profezia delle imprese di Cangrande, che per Dante non dovr riferire: identico espediente in IX, 1-6 quandoCarlo
Martello predice il castigo nei confronti di chi aveva ingannato i suoi figli, cio prob. il fratello Roberto.

CANTO XXXIII
Argomento del Canto
Ancora nel X Cielo (Empireo). Preghiera di san Bernardo alla Vergine e intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella mente di Dio: visione
dell'unit dell'Universo. I misteri della Trinit e dell'Incarnazione. Folgorazione e supremo appagamento di Dante.
mezzanotte di gioved 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Preghiera di san Bernardo alla Vergine (1-39)
San Bernardo si rivolge alla Vergine e la invoca come la pi alta e la pi umile di tutte le creature, colei che ha nobilitato la natura umana a tal punto
che Dio non ha disdegnato di incarnarsi nell'umano. Nel ventre di Maria si riaccese l'amore tra Dio e gli uomini, che ha fatto germogliare la rosa
celeste dei beati; ella per questi ultimi una perenne luce di carit e fonte di speranza per i mortali. La grandezza della Vergine tale che
benevolmente concede ogni grazia, spesso addirittura prevenendone la richiesta, poich in lei albergano la piet, la magnificenza, la bont.
Dante, spiega Bernardo, giunto all'Empireo dal profondo dell'Inferno e ha visto lo stato delle anime dopo la morte, quindi supplica Maria di
concedergli la virt sufficiente per figgere lo sguardo nella mente di Dio. Il santo le porge tutte le sue preghiere affinch gli venga concesso questo,
che egli desidera per Dante pi di quanto l'abbia mai bramato per s, e chiede alla Vergine di dissipare ogni velo che offusca gli occhi mortali del
poeta. La implora infine di conservare intatti i sensi di Dante dopo una tale visione, poich la Regina del Cielo pu ottenere tutto ci che vuole, e la
invita ad accogliere la sua preghiera alla quale si uniscono idealmente tutti i beati della rosa, inclusa Beatrice.
Intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella luce divina (40-66)
Maria tiene il suo sguardo fisso in quello di san Bernardo, dimostrando cos di accogliere la sua preghiera, poi lo rivolge alla luce di Dio, nella quale
solo lei pu addentrarsi con tanta chiarezza. Dante si avvicina al compimento di tutti i suoi desideri, cosicch consuma in s tutto il proprio ardore,
mentre Bernardo con un cenno e un sorriso lo esorta a guardare in alto. La vista di Dante, diventando via via pi chiara, si inoltra nella luce divina e
da quel momento in poi la visione del poeta tale che il linguaggio insufficiente a esprimerla, cos come anche la memoria non in grado di
ricordarla pienamente. Dante simile a colui che sogna e, al risveglio, non ricorda nulla pur conservando nell'animo una forte impressione, in quanto
egli ha dimenticato quasi tutta la sua visione e conserva in cuore la dolcezza infinita che essa gli provoc. La neve si scioglie al sole in modo simile e
cos le foglie con su scritto il responso della Sibilla si disperdevano al vento.
Invocazione di Dante: visione dell'unit dell'Universo (67-108)
Dante invoca la luce di Dio affinch essa gli consenta di ricordare in minima parte come essa gli si mostr al momento della visione, e renda il suo
linguaggio tale da poter lasciare ai posteri almeno una scintilla della Sua gloria, cosicch le parole del poeta possano esprimere la vittoria divina.
Dante figge dunque lo sguardo nella mente di Dio e resterebbe smarrito se ne distogliesse gli occhi: il poeta acquista coraggio per sostenere quella
straordinaria visione e addentra cos il suo sguardo nell'infinito, spingendo la vista alle sue possibilit estreme. Dante vede nella mente divina tutto
l'Universo legato in un volume, sostanze, accidenti e i loro rapporti uniti insieme; scorge l'essenza divina che unifica in un tutto armonico le cose
create, e parlando di questo ancora oggi sente accrescere in s la gioia. L'attimo della visione stato ormai da lui dimenticato, pi di quanto l'impresa
della nave Argo (la prima a solcare il mare e a fare stupire il dio Nettuno) sia stata dimenticata in oltre venticinque secoli. Dante continua a tenere lo
sguardo fisso nella luce divina, essendo impossibile volgere gli occhi altrove, poich tutto il bene possibile racchiuso in essa e ci che l perfetto al
di fuori difettoso. Ormai ci che riferir della visione sar meno di quanto potrebbe dire un bambino che sia ancora allattato dalla madre.
Il mistero della Trinit (109-126)
La viva luce che Dante osserva sempre uguale a se stessa, tuttavia Dante a cambiare dentro di s man mano che la sua vista si accresce, quindi
quella visione muta al mutare del suo atteggiamento interiore. All'interno di essa crede di vedere tre cerchi, delle stesse dimensioni e di colori diversi
(la Trinit), e mentre il secondo (il Figlio) sembra il riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno che ne crea un altro, il terzo (lo Spirito Santo)
come una fiamma che spira ugualmente dai primi due. Il linguaggio di Dante del tutto insufficiente a esprimere la propria visione, e questa, in
rapporto all'essenza della Trinit, davvero un nulla: egli ha visto la luce eterna che trova fondamento in se stessa, si comprende da s e, compresa da
se stessa, arde d'amore.
Il mistero dell'Incarnazione (127-138)
Dante si sofferma ad osservare il secondo cerchio (il Figlio), che sembra il riflesso del primo, e gli pare di vedere al suo interno l'immagine umana,
dello stesso colore del cerchio e, tuttavia, perfettamente visibile. Il poeta simile allo studioso di geometria, che cerca in ogni modo di risolver il
problema della quadratura del cerchio e non vi riesce perch gli manca un elemento fondamentale: anche lui cerca di capire quale sia il rapporto tra
l'immagine e il cerchio, bench le sue sole forze siano insufficienti.
Folgorazione e supremo appagamento di Dante (139-145)
Dante riconosce la propria incapacit a comprendere il mistero dell'Incarnazione dell'umano nel divino, fino a quando la sua mente viene colpita da un
alto fulgore che, in una sorta di rapimento mistico, appaga il suo desiderio. Alla sua immaginazione ora mancano le forze, tuttavia l'amore divino ha
ormai placato la sua volont di conoscere, muovendola come una ruota che si muove in modo regolare e uniforme.
Interpretazione complessiva
L'ultimo Canto del Paradiso e del poema appare diviso nettamente in due parti, corrispondenti alla preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine
perch questa interceda presso Dio e consenta a Dante la visione finale della Sua essenza (vv. 1-39) e alla descrizione della visione stessa (vv. 40145), che nonostante si concluda con la folgorazione mistica che permette a Dante l'appagamento di tutti i suoi desideri conserva innegabilmente un
carattere intellettuale e razionale. La santa orazione che il doctor mellifluus Bernardo rivolge a Maria considerata un piccolo capolavoro retorico,
che (diversamente dal Pater noster parafrasato e ampliato all'inizio del Canto XI del Purgatorio) presenta caratteri di originalit rispetto all'Ave,
Maria cui pure si ispira: a una prima parte di lode ed elogio della Vergine segue infatti la preghiera vera e propria, in cui il santo si rivolge a Maria
come a colei che concede sempre la sua grazia a chi gliela chiede, supplicandola non solo di permettere a Dante di spingere lo sguardo nella mente
divina, ma anche di conservare sani... li affetti suoi dopo una visione cos superiore alla sua natura di mortale. La prima parte della preghiera assume
dunque i toni, retoricamente elevati, di una captatio benevolentiae in cui Bernardo sottolinea l'altezza e al contempo l'umilt di Maria, figlia del
proprio figlio (con due efficacissime antitesi poste nei primissimi versi del Canto), scelta da Dio per l'altissimo compito di mettere al mondo Cristo
per sancire la pace tra Cielo e Terra, poich nel suo ventre nato l'amore che ha fatto germogliare la rosa celeste (viene gi anticipato il mistero
dell'Incarnazione, al centro della parte finale della visione). Di Maria ribadito il fatto che essa gratia plena, in grado di soddisfare ogni giusta
richiesta che provenga da un cuore onesto, dunque i tratti che la caratterizzano sono la misericordia, la piet, la magnificenza (da intendere forse
come sinonimo di liberalit cortese) e la bontate, per cui a buon diritto Bernardo le si rivolge implorando il suo aiuto in favore di Dante, giunto fin
l dalla profondit dell'Inferno dopo aver visto lo status animarum post mortem, col compito di riferire al mondo la sua visione: questo il motivo per
cui la Vergine dovr fare in modo che tale visione non sia letale ai sensi mortali del poeta, cos che egli possa scriverne negli alti versi del suo poema
e, come dir lui stesso pi avanti, lasciare a la futura gente una semplice scintilla dello splendore divino che potr per un breve istante contemplare,
per manifestare a tutti l'alta vittoria della potenza di Dio. Tutti i beati si uniscono alla implorazione di Bernardo unendo le mani in preghiera, inclusa
Beatrice la cui rapida menzione l'ultima della Commedia dopo il saluto del Canto XXXI, per cui si pu affermare che tutti gli sguardi dell'Empireo

sono rivolti a Dante in procinto di fissare il suo nella mente di Dio, creando un'atmosfera di tensione narrativa e di attesa che, in un certo senso, verr
protratta per tutto il Canto e si scioglier solo nei versi finali, con la suprema intuizione elargita a Dante dall'Altissimo.
L'intercessione della Vergine non viene manifestata con un gesto tangibile, neppure un cenno o un sorriso come far invece Bernardo per esortare
Dante alla visione, poich la Regina del Cielo si limita a tenere il suo sguardo fisso in quello dell'oratore e poi a spingerlo nella luce di Dio, nella
quale nessun'altra creatura pu internarsi tanto in profondit (del resto Maria umile e alta pi che creatura, il che spiega anche la posizione di
assoluto privilegio che occupa all'interno della rosa). Dante pu dunque fissare la mente di Dio e da qui sino alla fine del Canto come se tutti gli altri
personaggi della narrazione scomparissero, poich il poeta dovr contemplare l'Assoluto facie ad faciem senza altri intermediari che non siano la
ragione e il puro intelletto, in quanto non un abbandono mistico alla comunione col Divino oggetto della descrizione ma un'esperienza intellettuale,
in cui solo alla fine sar necessario l'alto fulgore divino perch il poeta giunga a comprendere ci che per sua natura incomprensibile all'uomo.
Infatti proprio questo l'elemento centrale della seconda parte del Canto, in cui da un lato c' il tentativo quasi vano da parte di Dante di richiamare
alla memoria ci che ha visto e che eccede totalmente le capacit del suo intelletto (secondo quanto gi dichiarato nell'esordio della Cantica, Par., I, 412), dall'altro il tentativo altrettanto arduo di tradurre in parole umane, coi poveri mezzi della sua arte poetica, la profondit della visione, per cui la
poesia dell'inesprimibile giunge qui al suo punto pi alto e stilisticamente impegnato. Per rappresentare la sproporzione tra l'altezza delle cose vedute
e l'angustia dei suoi limiti umani Dante ricorre a pi di una similitudine tratta dall'ambito domestico o mitologico: paragona se stesso a colui che si
sveglia dopo aver sognato e non ricorda nulla, ma conserva la forte impressione che il sogno gli ha lasciato nell'animo (immagine analoga pi avanti,
quando dir che parlando della visione avuta sente aumentare la sua gioia); ricorda la neve che al sol si disigilla, ovvero si scioglie non conservando
le orme impresse su di essa, cos come i ricordi svaniscono dalla sua memoria; cita i responsi della Sibilla Cumana, che venivano scritti su foglie
disperse dal vento e diventavano cos incomprensibili (fin troppo ovvio il riferimento a Virgilio, Aen., VI, 74-76, in cui Enea si prepara a scendere agli
Inferi); rammenta il mito di Argo, la prima nave a solcare i mari e la cui ombra riemp di stupore Nettuno (a indicare anche l'eccezionale primato della
sua opera poetica: cfr. Par., II, 16-18), anche se il ricordo di quell'impresa ancora vivo dopo 2500 anni, pi di quanto lo sia quello della visione in
lui dopo un brevissimo istante. L'invocazione suprema alla somma luce di Dio affinch consenta a Dante di esprimere una minima parte di ci che ha
visto (il che, a sua volta, quasi nulla rispetto all'essenza divina) si affianca a quella di san Bernardo a Maria, sottolineando il carattere assolutamente
eccezionale e irripetibile del privilegio che qui a Dante concesso: il poeta si accinge a descrivere qualcosa che quasi nessun altro ha visto da vivo, ad
eccezione dell'esperienza mistica di san Paolo, e tuttavia il poeta non rinuncia a una rappresentazione razionale e coerente della cosa vista (bench
essa possa sembrare deludente agli occhi dei lettori moderni e come tale sia stata giudicata da pi di un critico del Novecento, a cominciare da B.
Croce); la rappresentazione del Paradiso divenuta pi astratta e immateriale man mano che si procedeva nell'ascesa, quindi la stessa astrazione quasi
matematica non poteva non caratterizzare anche la visione di Dio, per la quale Dante (e in ci la novit assoluta del suo poema) rinuncia in modo
programmatico a ogni elemento iconografico, come del resto si era gi visto nella descrizione della rosa, degli angeli e di Maria.
Tre sono i misteri che a Dante dato contemplare fissando il suo sguardo nella profondit della mente di Dio, ovvero l'unit dell'Universo, la Trinit e
l'Incarnazione: per rappresentarli non pu che ricorrere a delle similitudini, ma mentre per il primo usa l'immagine concreta delvolume che raccoglie
e unifica tutto ci che si squaderna per il Cosmo, per gli altri si serve di una pura astrazione matematica, ovvero dei tre cerchi rappresentanti le
Persone Divine e dell'effigie umana dipinta con lo stesso colore entro il cerchio che corrisponde al Figlio. Tale spettacolo appaga il desiderio di
conoscenza di Dante, ma ottiene anche l'effetto di farlo cambiare internamente, cosicch gli sembra che l'Unit indissolubile della Divinit muti e in
realt la sua visione a cambiare prospettiva: l'armonia dell'Universo in cui tutto sembra avere una precisa collocazione e un'intima rispondenza la
spiegazione di tutte le apparenti contraddizioni e ingiustizie (anche politiche) che affliggono il mondo, l'Ordine che si oppone al Caos; non a caso
Dante ribadisce ci che finora stato detto a pi riprese a proposito dei beati e degli angeli e che adesso lui a sperimentare personalmente, ovvero
che chi fissa lo sguardo in Dio non pu distoglierlo per guardare null'altro, in quanto l racchiuso tutto il bene del mondo e vi diventa perfetto ci
che all'esterno difettoso (lui invece dovr farlo per tornare alla dimensione dell'umano ed proprio questa la difficolt pi grande da superare, il
motivo per cui la Vergine dovr vincere i suoi movimenti umani). La descrizione della Trinit poi ancora pi rarefatta, affidata ai tre cerchi di
diverso colore e uguali dimensioni che rappresentano il rapporto fra le tre Persone Divine (tralasciamo il fatto che, per alcuni commentatori, essi non
potevano essere identici perch sarebbero stati sovrapposti), ovvero il Figlio generato dal padre e lo Spirito Santo che procede da entrambi, come una
fiamma che spira dai primi due cerchi: l'immagine astrattamente geometrica pu forse non soddisfare il lettore moderno in cerca di una pi concreta
rappresentazione, ma quanto di pi aderente alla mentalit trecentesca nella quale Dante saldamente ancorato, per cui la descrizione della Trinit e
dell'Incarnazione non pu prescindere dal rigore degli argomenti teologici (e non si scordi che la geometria come scienza era considerata nel
Medioevo tramite fra l'umano e il divino, degna dunque della massima considerazione). Non pu stupire allora che proprio al geomtra si paragoni
Dante nel tentativo vano di capire il rapporto tra l'effigie umana e il secondo cerchio, impresa disperata come lo per il matematico calcolare il
rapporto tra il raggio e la circonferenza: qui il poeta deve confessare la propria impotenza e l'incapacit del suo intelletto, ed il solo e unico
momento in cui la visione cessa di essere esperienza razionale per diventare mistica, col fulgore divino che colpisce la mente di Dante e gli consente
per un brevissimo istante di vedere, con gli occhi del rapimento estatico, la verit del mistero che inconoscibile coi soli mezzi della logica. questo
il lumen gloriae che solo pu consentire alla mente umana la fruizione piena e completa dell'aspetto divino, che normalmente caratterizza i beati in
Cielo e occasionalmente i mortali in vita, allegorizzato da Bernardo quale terza guida di Dante nel viaggio: ed chiaro che tale suprema intuizione
dell'essenza divina l'appagamento finale di tutti i disii del poeta, il punto finale del suo percorso oltremondano dopo il quale egli non pu che tornare
alla dimensione dell'umano, accingendosi all'alto compito di descrivere nei suoi versi tutto ci che ha visto; anche l'affermazione definitiva
dell'insufficienza della ragione umana per la comprensione dei misteri dell'Universo, che restano inconoscibili senza la fede nelle cose rivelate e,
soprattutto, senza un ultimo gratuito ausilio da parte di Dio che solo pu elargire la visione di S all'uomo, la quale costituisce quella beatitudine che
tutte le anime salve godranno per l'eternit una volta giunte in patriam, nella Gerusalemme celeste. Il Canto, la Cantica e il poema possono allora
chiudersi con la solenne dichiarazione del compimento del desiderio di conoscenza da parte del poeta, che trae origine non dall'acume del suo
intelletto ma dall'atto di grazia che gli stato concesso dall'amore divino, l'amor che move il sole e l'altre stelle e che appaga intimamente la sua
volont come una ruota che si muove in modo uniforme (dunque l'immagine del cerchio chiude la poesia della Commedia, essendo simbolo della
perfezione divina e dell'incapacit dell'uomo di risolvere i misteri dell'Universo, proprio come impossibile per il geomtra... misurar lo cerchio
poich gli manca il principio fondamentale, che nella concezione di Dante da identificare con Dio).
L'invocazione alla Vergine nella poesia: Petrarca
L'invocazione alla Vergine affidata alle parole di san Bernardo e con cui si apre il Canto XXXIII del Paradiso non certo un caso isolato nella
letteratura italiana del tempo di Dante e successiva, che si riallaccia del resto a una lunga tradizione della dossologia mariana e ha in Jacopone da Todi
(autore dell'inno Stabat Mater e della lauda Donna de Paradiso) un insigne precedente: poco dopo Dante sar F. Petrarca a chiudere i Rerum
vulgarium fragmenta con la famosa canzone dedicata alla Vergine (CCCLXVI, Vergine bella, che di sol vestita), che rispetto ai versi danteschi che
preludono alla visione beatifica di Dio presenta analogie e differenze. Analoga la posizione nella raccolta petrarchesca, in quanto il componimento
chiude il Canzoniere come il Canto dantesco l'ultimo della Commedia, e simile anche il carattere di orazione e inno religioso che la canzone
assume, proponendosi come un bilancio del percorso umano e letterario del poeta quasi alla fine della sua vita; diversa l'ispirazione della poesia in
Petrarca, poich Maria invocata come fonte di grazia e salvezza da chi si considera peccatore e teme per la sua salvezza a causa degli errori
commessi (specie in campo amoroso), dunque la canzone espressione dei dubbi interiori e delle lacerazioni proprie di tutta l'opera di Petrarca, ben
lontana dalle granitiche certezze in campo religioso ed escatologico che sono al centro del poema di Dante. La Vergine, anzi, di fatto paragonata per
contrasto alla donna amata da Petrarca, quella Laura che gli ha causato tante sofferenze e che al tempo della stesura della canzone morta da tempo,
in quanto quest'ultima stata fonte di traviamento morale e illusioni sul piano amoroso, mentre Maria rappresenta un esempio di purezza che si
oppone in modo antitetico alla bellezza seducente e pericolosa della donna mortale. Ci evidente fin dai primi versi, in cui Maria indicata come
colei che Dio ha scelto per l'altissimo compito di consentire l'Incarnazione di Cristo (vv. 2-3, al sommo Sole / piacesti s, che 'n te Sua luce ascose;
cfr. Par., XXXIII, 4-6) e come la creatura che risponde sempre benevolmente a chi le chiede la grazia (vv. 7-8, Invoco lei che ben sempre rispose / chi

la chiam con fede; cfr. XXXIII, 13-15), mentre pi avanti si dir che trasforma 'l pianto d'Eva in allegrezza (v. 36, e infatti anche Dante la colloca al
di sopra di Eva nella rosa celeste); al contrario Laura indicata quasi spregiativamente come mortal bellezza (v. 85), terra (v. 92), poca mortal terra
caduca (v. 121), a indicare non solo il fatto che la donna morta e i suoi resti corporei si sono decomposti, ma anche l'enorme sproporzione tra
l'amore celeste rappresentato dalla Vergine e l'amore terreno raffigurato da Laura (non a caso Maria di sol vestita e coronata di stelle, Laura terra).
Questo amore condannato da Petrarca in quanto gli ha provocato pena e grave... danno, lo ha spinto a versare lagrime e a spendere lusinghe e
preghi indarno, gettandolo in un tempestoso mare in cui solo la Vergine pu rappresentare per lui una stella e una fidata guida: l'amore per Laura
vano in quanto non corrisposto e fonte soltanto di sofferenza, come gi dichiarato nel sonetto proemiale del Canzoniere, e la donna descritta come
colei che quand'era viva in pianto... tenne il cuore del poeta non conoscendo neppure tutti i mali che lui provava; questo amore stato un errore, che
ha tramutato Petrarca in un sasso / d'umor vano stillante (vv. 111-112) e per liberarsi del quale ora rivolge a Maria (vv. 115-117) un ultimo pianto...
devoto, / senza terrestro limo (cio senza passioni terrene), / come fu 'l primo - non d'insania vto (torna il tema del vaneggiare del poeta dietro la
bellezza di Laura, spesso indicato come la ragione per cui egli fu favola per il popolo, I, 9-11). Dunque la Vergine invocata come colei che pu
concedere la grazia e intercedere presso Dio al fine di ottenere per il poeta il perdono dei suoi peccati, ma anche come l'alta creatura che si oppone
alle passioni terrene che hanno sviato Petrarca dall'amore divino, rischiando seriamente di compromettere la sua salvezza nell'Aldil: tali passioni
occupano la sua anima ancora con grande forza, tanto che a suo dire egli ancora legato al ricordo di Laura con... mirabil fede (v. 122, e val la pena di
osservare il senso ambivalente della parola fede) e solo l'aiuto di Maria pu fargli sperare di risollevarsi dal suo stato assai misero e vile (v. 124) e di
ottenere la sospirata salvezza ora che si avvicina il giorno della morte, superando la passione terrena per Laura dalla quale, pare evidente nei versi
finali, egli non riesce a liberarsi neppure a tanti anni dalla morte della donna. Pi che un'invocazione, il suo l'accorato grido di aiuto di chi vive in
uno stato travagliato di lacerazione interiore e si aspetta da Maria l'intercessione per la remissione dei propri peccati, mentre in Dante l'orazione di san
Bernardo doveva concedergli l'assistenza necessaria a completare il suo viaggio allegorico che un percorso (realizzato con successo) verso Dio:
l'ultima poesia del Canzoniere dimostra ulteriormente la distanza ormai incolmabile tra l'autore della Commedia, poeta della certezza e della fede che
ha superato e risolto i suoi dubbi in materia religiosa, e il pre-umanista Petrarca, poeta del dubbio e dell'angosciosa incertezza, la cui fede
continuamente messa alla prova e che neppure alla fine della sua opera mostra di aver completamente risolto le ansie che caratterizzarono tutta la sua
esperienza di uomo e scrittore.
Note e passi controversi
Al v. 7 Dante parla del ventre di Maria come aveva fatto l'arcangelo Gabriele in XXIII, 104: si osservato che altrove il termine associato a
significati negativi e sgradevoli, mentre qui il poeta si forse rifatto al versetto dell'Ave, Maria (benedictus fructus ventris tui).
Il fiore del v. 9 la rosa dei beati.
Al v. 10 la Vergine detta meridiana face, perch paragonata a una fiaccola luminosa come il sole di mezzogiorno.
Al v. 20 magnificenza forse sinonimo di liberalit, generosit, anche perch si detto che Maria concede spesso la grazia senza attendere la
richiesta (cfr. Par., XVII, 73-75, 85).
I vv. 22-24 indicano che Dante giunto fino all'Empireo dalla profondit dell'Inferno e che ha visto la condizione delle anime dopo la morte (incluse,
probabilmente, anche quelle dannate).
Nei vv. 29 ss. Bernardo ricorre con insistenza al verbo pregare e a termini affini: 29, tutti miei prieghi; 30, priego; 32, co' prieghi tuoi; 34, ancor ti
priego; 39, per li miei prieghi.
Al v. 38 Beatrice nominata per l'ultima volta nel poema.
I vv. 44-45 indicano che Maria colei che pi in profondit spinge lo sguardo nella mente di Dio, pi di ogni creatura umana o angelica.
Il v. 48 stato variamente interpretato, ma probabile che Dante voglia dire che ha portato a compimento ogni ardore di desiderio.
Al v. 57 oltraggio vuol dire eccedenza, sproporzione.
Il v. 64 indica che la neve, al sole, si scioglie e non conserva le orme lasciate su di essa.
I vv. 65-66 alludono al mito classico della Sibilla Cumana, che scriveva i responsi su foglie che il vento disperdeva, rendendo impossibile la
decifrazione: in Aen., VI, 74-76 Enea (in procinto di scendere agli Inferi per incontrare l'anima del padre Anchise) prega la profetessa di parlargli
senza ricorrere a quell'espediente, in quanto ha necessit di comprendere le sue parole.
Il v. 84 indica non che Dante abbia consumato la sua visione, ma che ha portato la sua vista alle estreme possibilit umane.
I vv. 85-87 paragonano l'Universo a un volume che raccoglie e rilega tutte le pagine che compongono il creato; nei vv. seguenti (88-90) Dante indica
lo stesso concetto con termini filosofici, parlando di sostanze (ci che esiste di per se stesso), accidenti (le qualit delle sostanze) e lor costume (il
legame che le unisce insieme).
I vv. 94-96, assai discussi dai critici, vogliono prob. dire che un solo istante (punto), quello della visione, per Dante oblio (letargo) maggiore di
quanto non lo sia l'impresa della nave Argo, a venticinque secoli di distanza (la quale infatti ancora ricordata dagli uomini). Il mito degli Argonauti, i
primi a solcare il mare con una nave, ribadisce il motivo del primus ego in quanto Dante il primo ad affrontare l'alta materia delParadiso, come gi
detto in II, 16-18.
I tre giri del v. 117 sono stati interpretati come tre cerchi, ma anche come tre sfere.
La circulazion del v. 127 il secondo cerchio, corrispondente al Figlio.
I vv. 133-138 indicano che Dante tenta di capire quale sia il rapporto tra la nostra effige e il cerchio, dal momento che l'immagine umana dipinta
entro il cerchio con lo stesso colore e sarebbe dunque indistinguibile: cos il matematico cerca di calcolare esattamente la circonferenza, ma non vi
riesce perch indige, manca di un elemento essenziale (il rapporto raggio-circonferenza).
Al v. 138 vi s'indova neologismo dantesco, da dove (vi trova luogo, vi si colloca).
I vv. 140-141 indicano che la mente di Dante illuminata da un alto fulgore, che gli consente in una suprema intuizione di cogliere il rapporto tra
l'umano e il divino, dunque di comprendere il mistero dell'Incarnazione.
Il verso conclusivo della Cantica (145) termina con la parola stelle, come l'Inferno (XXXIV, 139) e il Purgatorio (XXXIII, 145).

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