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Le dita ramoline

(una storia d’abuso)

Poemetto per sussurro di donna

Nerina Garofalo

Ottobre, 2009
*Il disegno è opera di un bambino, e proviene dal sito WEB

http://genova.repubblica.it/multimedia/home/2148328
Prima preghiera

Signore
Non lo so perché son qui
Ancora

Signore
Che lei sia medico o santone

O qualsivolgia forma guaritrice


Non importa

Vengo alla casa


E porto in dote un’onda

Che rende malsicura la struttura


E muta forma porta alla paura

**
La visione

Lo vede l’albero
Con la sua chioma mossa?

Come se fosse la risposta


A voce rotta

Che si incanala nel letto del dolore


Dove si sfalda il margine del cuore

Ed ogni mia celata amara forma


Rende risposta al sonno che non torna

**
L’intento

Son qui per l’eco smessa


Come l’abito di un giorno
E un giorno riportata a dichiarare

Che si rivela pallida vetrina


Nel grido che nel ventre fa mattina.

E mi rivelano quei cerchi


Nel procedere degli anni
Le lune che mi arrossavano le gambe

I seni piccoli succhiati dalla luna


Che rende al corpo l’ora mattutina

Ed io la pelle che quel soffio sfiora


La porto ancora addosso
Come morso che divora

Signore, mi permetta una dimora


Ché i mostri vengon fuori e tarda è l’ora

**
La rivelazione

Perché si sa, dottore mio dei matti,


Che dove si abita, talvolta, passan ratti

Orrende forme prese dall’affetto


Che premono al mio petto un cuore infetto

Patrigne isole d’orrore e gocce rotte


Che toccano la mensa a mani sporche.

**

Padre dei tonti, confessore dei silenti,


Ora inginocchiati se ascolti la mia storia

Rimettiti al silenzio che dolora


Porta fra i denti una parola ad ogni lora.

**

Mi strascico come la sposa che non sono


Immemore del rantolo che ingoio

Sotto la tela sono vestale in veste amara


Cerco la quiete che addomestichi la tara
Lo sa dottore mio che sono tanti
Dalle mie parti i martiri vaganti?

E non mi bastano quei viali e le radure


Quando la luce bianca cadaverica perdura

Sotto la terra giace inanimato


il morticino che il mio corpo
Non è stato.

**
Primo mistero

Vedeva una signora da lontano


Lo sguardo suo mi sciovolava dalla mano

Sola restavo nel bosco a tarda notte


Ed ogni ramo cantava note storte

Il blu travalicava verso il nero


Le pere al ramo risuonavano un mistero

La lora ripeteva le parole


Gracchiate nella notte in pieno sole

Il frutto tuo inarrivabile restava


La sola dolce presa a bocca amara

Il Lupogatto con la sua schiera di giganti


Coi denti masticava i nudi avanzi

La morte l’ho invocata in ogni dove


Segno di Dio su quella fronte senza amore

Per me però non son restati


Che quei segni

Bruciati sulla pelle come


Anelli malcontenti

**
L’auspicio

Cielo dolente nutrimi al cordone


Che non impicchi all’albero vicino

La mia ferita resami destino


E il Lupogatto come un assassino

Che possa tramutarmi in domatore


Di quell‘odioso insano costo dato all’ore

Scritto di rosso ma per certo assegno in bianco


Firmato al portatore con l’inganno

Guardo negli occhi tutta la distanza


Che la mia mamma teneva chiusa nella stanza

Di lei non porto che la bambina


che non sono

Cullata dal dolore che il lampo


rende al tuono

**
La terapia

Medico dei dolenti


Maestro di dervisci

Prendi le mie metafore


del nulla smozzicato

Disegnan con le dita ramoline


L’appiglio ai precipizi dei bambini

**

Medico, fatti matto al mio lettino,


Sei il paradosso delle radici in escrescenza

Devi portarmi forbici ed uncino


Ché occorre un taglio che definisca l’esistenza.

**
Una benedizione

Ma è giorno adesso
ed il colore non importa

Se trovo senza mani


la chiave che misuri quella porta.

Roma, ottobre 2009


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