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PATRICK MACEY Retorica e affetti nel Rinascimento

i. Potere della musica e pitagorismo. Fin dall'antichit, le dispute intorno alla musica sono state animate da f due distinte correnti di pensiero, definibili "affettiva" l'una e "pitagorica" l'altra. Per ci che riguarda la prima delle due, durante il Rinascimento e gi in epoca medievale i trattatisti di musica avevano preso accuratamente ; nota di quanto riportavano gli scrittori greci e romani circa il potere esser citato dalla musica sugli affetti dell'animo umano, o passioni. Gli autori classici, compresi Cicerone e Quintiliano, riferivano come ; Pitagora usasse musica rilassante per calmare un giovane che era stato por- > tato al delirio da musica violenta, e questi racconti furono ripresi innu-1 merevoli volte dai trattatisti nel Rinascimento. Platone contrapponeva agli : effetti benefici della musica quelli dannosi, approvando solo i canti basa- ti su modi quali il dorico e il frigio (erroneamente identificati con i modi"; ecclesiastici medievali finch, nel xvi secolo, se ne scoprirono le differen- ] ze) i quali erano rispettivamente adatti a guerrieri e pacificatori, e disap-1 provando invece il genere di musica che accompagnava i lamenti, la con- ; vivialit o altre manifestazioni di debolezza (Repubblica, III, 398-99). Egli; inoltre raccomandava che la melodia e il ritmo di una canzone fossero con-, seguenti alle parole (Repubblica, ibid), e questa sua prescrizione fu ripresa e mantenuta nel Rinascimento da compositori e trattatisti. Ma in che! cosa risiede il potere della musica, la sua capacit di suscitare emozioni?.; Per Aristotele, la musica imita le passioni umane attraverso modi e ritmi; sia eccitanti sia lenti e piacevoli (Politica, Vili, 5). Cicerone defin Faf-j fetto come mutamento transitorio, spirituale o fisico, determinato da qualche causa, come "gioia", "desiderio", "timore", "molestia", "malattia", "debolezza" e quant'altro rientra in questo genere [I, 36; ed. 1967, pp. 74-76]. Nel suo trattato di retorica intitolato Institutio oratoria, Quintiliano raccomandava caldamente che l'oratore studiasse musica: Eppure anche nel discorso l'alzare, l'abbassare la voce o mutarne le inclinazioni mira a suscitare sentimenti nell'uditorio e altro , per usare lo stesso termine, ritmo nella disposizione delle parole e della voce di cui ci avvaliamo se ricerchiamct la collera del giudice, altro invece il ritmo se aspiriamo alla sua piet, poich "f rendiamo conto che anche dagli strumenti musicali, con i quali pure non si pu esprimere un discorso, gli animi vengono in diversa maniera influenzati [I, 10, 25; ed. 2001,1, p. 133]. consiglio invece quella musica [...] la conoscenza di metodi atti a suscitare e placare le passioni [I, 10, 31; ed. 2001, p. 135].
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Il legame fra oratoria e musica evidenziato da Quintiliano incoraggi i trattatisti del Rinascimento ad approfondire i collegamenti esistenti fra le due arti. La seconda corrente di pensiero traeva invece origine dalle dottrine pitagoriche, in base alle quali si riteneva che i movimenti dei pianeti lungo le proprie orbite creassero armonie celesti 0musica mundatta) basate su rapporti numerici di quinta (3/2) e quarta (4/3) giuste e che l'attivit dell'anima umana rispecchiasse tali armonie (musica bumana). Tale concezione della musica come "numero risonante" svolse un ruolo preminente nel pensiero musicale durante il Medioevo, ma verso la fine del Quattrocento l'attenzione si . spost verso l'altro polo; trattatisti e compositori erano adesso interessati al potere immediato che la musica esercita sulle emozioni, e fu in quel momento che i contenuti della retorica classica assunsero grande importanza. Nella premessa al suo Liber de arte contrapuncti (1477), Tinctoris nega in modo esplicito che i corpi celesti producano armonie - o qualsiasi altro suono - e concentra invece il suo discorso sulla musica realmente udibile. In un altro trattato, il Complexuseffectuum musices, egli elenc venti diversi effetti prodotti dalla musica. E possibile ripercorrere il mutamento generale avvenuto fra il Medioevo e il Rinascimento nella ripartizione dei vari elementi che componevano le sette arti liberali previste dal curricolo universitario. Nel Medioevo la musica faceva parte del Quadrivio, formato dalle arti della misurazione, che comprendevano l'aritmetica, la geometria e -.l'astronomia: erano tutte arti di ordine contemplativo e speculativo. Il Trivio, per contro, comprendeva le arti della comunicazione: grammatica, dialettica e retorica [cfr. in questo volume il saggio di Gilles Rico, La formazione musicale nell'ambito del Quadrivium, pp. 118-29]. Verso la met del Cinquecento, una nuova concezione circa il ruolo svolto dalla musica in quanto arte capace di influire sulle emozioni fu sviluppata da umanisti fiorentini quali Girolamo Mei e Giulio del Bene. Fu specialmente la Poetica di Aristotele a catturare gli interessi degli umanisti, e il suo concetto di arte come imitazione della natura risult decisivo. Aristotele per non indica solo la musica come arte imitativa, ma parla negli stessi termini anche del teatro. Nel suo commento del 1560 alla Poetica, Girolamo Mei estese la concezione aristotelica fino a includervi le funzioni svolte dalla musica nella danza, nel teatro e nel canto [Palisca 1985, pp. 335-36]. In un discorso rivolto nel 1575 all'Accademia degli Alterati di Firenze, Del Bene incluse la musica fra le arti della comunicazione, quali la grammatica, la dialettica, la retorica e anche la poesia. Egli istituisce una diretta analogia fra retorica e musica ; la loro capacit di suscitare emozioni: al fine che noi possiamo [...] per la retorica persuadere, et tirare la volunt dellih mini dove ci pare, et per la musica imparare ad essere ordinati, et composti bene animo nostro, et a movere gli affetti non meno che si faccia la retorica et per . Iettarsi et sollevarci dalle fatiche che nelle operationi humane ogni giorno supp tiamo [ibid., p. 337].
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Nel trattare della retorica e del suo rapporto con la musica e gli aff** nel Rinascimento, necessario isolare numerose altre componenti. In pr mo luogo c' la testimonianza offerta dalla musica stessa, e qui il post d'onore spetta alla flessibilit dimostrata nel musicare il testo da autori < li Josquin Desprs e Heinrich Isaac, nei mottetti da loro composti intonai 1500. In secondo luogo, i trattatisti decidono di affrontare diversi aspe ti riguardanti le componenti affettive presenti nella musica: Glareanus (D dekachordon, 1547) e Zarlino (Institutioni tarmoniche, 1558) posero pa colare attenzione alle caratteristiche affettive della musica rispettivamen di Josquin e di Willaert. Glareanus dice di Josquin: Nessuno ha mai esp~ so col canto gli affetti dell'anima in modo pi efficace [Glareanus 154 ed. 1969, p. 362]. Successivamente al 1540 circa, il madrigale divenne sen^ pre pi il genere designato per il trattamento retorico-musicale dei testi, con particolare riguardo per la rappresentazione pittorica delle parole (t drigalismo). Quest'ultimo approccio suscit alla fine accese critiche e co; menti derisori da parte di Vincenzo Galilei (Dialogo della musica antica ' della moderna, 1581), il quale si opponeva alle complicazioni polifoniche sollecitava un ritorno al canto solistico accompagnato da una gestualit a~ propriata, tratta dall'esempio dell'oratoria. C'era poi la questione del nr do musicale, o ethos modale, in quanto agente suscitatore di reazioni aff" tive nell'ascoltatore. Infine, esplicite analogie fra la musica e i procedimeli^ della retorica classica furono stabilite da trattatisti tedeschi quali Gali 1 Dressler (Praecepta musicae poeticae, 1563) e Joachim Burmeister (Mus" poetica, 1606); quest'ultimo illustra le sue figure retorico-musicali citando numerosi brani tratti dai mottetti di Orlando di Lasso. La testimonianza della musica. La retorica svolse un ruolo centrale nella ripresa del sapere classico dit rante il Rinascimento, e fu in particolare l'opera di Petrarca a preannunciare nel Trecento il movimento che avrebbe ridato vita alla cultura classica. Attraverso la poesia, Petrarca voleva esprimere la realt immediata delle sue esperienze ed emozioni in tutta la loro variet e con tutte le loro contraddizioni, ma per conseguire tale fine occorreva prima di tutto ricuperare il latino classico per riportarlo alla sua originale duttilit ed elo- juenza. Petrarca rivolse la propria attenzione alle opere di Cicerone quale nodello di discorso eloquente ed espressivo, e pose le basi per il successivo sviluppo del pensiero umanistico in Italia. Sebbene la retorica svolgesse un polo importante in epoca medievale, specialmente nell'arte epistolare {ars Hctaminis), alla fine del Trecento e agli inizi del Quattrocento umanisti qua- jiColuccio Salutati e Leonardo Bruni, entrambi a lungo cancellieri della Si- <noria fiorentina, diedero risalto all'arte dell'oratoria pubblica, in quanto bezzo atto a persuadere i cittadini a intraprendere azioni nobili e virtuose. !.. Gi all'inizio del Quattrocento si fece un tentativo per dimostrare l'esistenza di un rapporto fra umanesimo e musica, nonch la presenza di ele- Bienti retorici nei mottetti composti all'epoca in Italia da Ciconia e Dufay Elders 1977; 1981], ma solo successivamente, con la musica
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di Josquin )esprs (1450 -1521 ca.) e di Heinrich Isaac (1450 -1517 ca.), che riscontiamo un innegabile approccio retorico per ci che concerne il trattamento dei testi da musicare. Ne costituiscono due importanti esempi il lamento composto da Isaac nel 1492 per Lorenzo de' Medici, Quis dabit capiti meo yquam (testo di Poliziano [cfr. Sternfeld 1983]) e Miserere mei, Deus, di Joquin, un'intonazione del salmo 50 composto per il duca di Ferrara Ercole jd'Este intorno al 1503 [cfr. Macey 2090]). Quest'ultima opera in parti- polare costituisce una pietra di paragone per ci che concerne l'applicazione dei procedimenti retorici alla musica. In questo campo, i classici trattati ;di Cicerone e Quintiliano rappresentano la guida principale, pi dei trattatisti coevi, i quali generalmente non si pronunciano sull'argomento. Menare il De inventione di Cicerone, la pseudo-ciceroniana Rhetorica ad Heren- nium e una parte dell'Institutio oratoria di Quintiliano erano conosciuti nel Medioevo, durante il Quattrocento furono scoperte nuove opere di Ciccione, fra le quali l'Oratore il De oratore. Inoltre, l'Institutio oratoria di Quintiliano, conosciuta durante il Medioevo solo in versione mutilata, suscit juna nuova ondata d'interesse dopo il ricupero del testo completo, avvenuto nel 1416. j1 I trattati di retorica di Cicerone e Quintiliano delineano cinque fasi per ila composizione di un'orazione efficace, vale a dire l'invenzione {inventi), ^'organizzazione (dispositio), l'elaborazione dello stile (elocutio), la memorizzazione (imemoria) e l'esposizione ipronuntiatio). Dapprima l'oratore de- Mve decidere che cosa dire [inventi), segue poi l'organizzazione del materiale secondo un piano coerente (dispositio), consistente di tre sezioni principali: un'introduzione (exordium), che suscita l'attenzione dell'uditorio e fa appello alla sua comprensione, seguita dalla parte centrale dell'orazione, lowero i fatti in questione (narratio) e gli argomenti a favore e a sfavore (con- [firmatio e refutato)\ infine, il discorso si chiude con una perorazione (pero- . ratio) o riepilogo del caso, che comprende un trascinante appello all'uditorio. Nella terza fase, l'oratore rivolge la propria attenzione allo stile (ehPAOLO FABBRI La nascita dell'opera in musica Il teatro come fenomeno laico, d'arte (pi o meno esemplato sui modelli dell'antichit classica) e letterariamente in volgare, in Italia si and definendo sullo scorcio ultimo del Quattrocento e all'aprirsi del secolo seguente. Radicato nel clima umanistico, lo possiamo definire un frutto del Rin? scimento che si affianc sempre pi vigorosamente ed egemonicamente a; sopravvivenze medievali in via di estinzione (le forme di teatro religioso:1 rappresentazioni sacre, superstiti liturgie drammatizzate combattute e rimosse dalla stessa gerarchia ecclesiastica dopo il Concilio di Trento), e alF manifestazioni di spettacolarit popolare. Esso fece uso saltuario e limitato anche di musica, vocale e strumentale: laddove la finzione scenica realisticamente lo richiedesse, i suoi personaggi potevano essere chiamati a can4

tare/sonare/ballare; oppure in ambiti che potremmo dire "paratestuali", in; quanto estranei al testo drammatico vero e proprio, e funzionanti piuttosto1 da sua cornice (i cori nella tragedia, gli intermezzi tra un atto e l'altro, i pro-f loghi e i commiati). Per queste molteplici esigenze, di volta in volta si fece? ricorso a soluzioni musicali che contemplarono varie polifonie vocali e stru-: mentali, canto a solo accompagnato, esibizione individuale allo strumento.' Su questo tronco, alla fine del Cinquecento e soprattutto al principio del Seicento s'innest l'esperimento di rappresentazioni teatrali che inK piegavano la musica non pi come componente occasionale e sporadica, ma sistematicamente come strumento di comunicazione, alla stregua degli altri linguaggi fin li utilizzati: la parola in primo luogo, ma anche quelli no; verbali quali il costume, il trucco, la figurativit scenografica, la mimica, l'interazione personale con lo spazio scenico. Tali sperimentazioni si attuarono a Firenze negli anni Novanta del Cinquecento, nell'ambito ma anche ai margini delle realizzazioni teatrali promosse dalla dinastia medicea. Qui dal 1588 operava Emilio de' Cavalieri, un gentiluomo romano cui il neogranduca Ferdinando de' Medici aveva affidato la sovrintendenza alle musiche e agli spettacoli di corte: un indubbio segno dell'attenzione riservata; a un settore di attivit sentita come prestigiosa e distintiva, e ritenuta ca-: pace di qualificare l'immagine dinastica agli occhi delle altre corti italiane ed europee. Ma sempre a Firenze, presso il nobile Giovanni Bardi, gi da alcuni anni (attorno al 1580) si radunava informalmente anche un cenaco-; ^lointellettuale (camerata) frequentato da Vincenzo Galilei, Pietro Strozzi, Giulio Caccini (e probabilmente anche da Ottavio Rinuccini, Iacopo | Corsi, Iacopo Peri), interessato tra l'altro al problema della musica nella [ Grecia antica, e al rapporto parola-musica nell'antichit e nella produzione musicale contemporanea. Per quanto1 a distanza (si era trasferito a Roma | verso il 1560), mentore di quel gruppo fu Girolamo Mei, un umanista fio- stentino con cui Galilei si tenne sempre in contatto. E nei discorsi scambiati | direttamente tra i frequentatori di casa Bardi, nonch negli ammaestramen- Iti di Mei, temi ricorrenti erano quelli dell'efficacia espressiva dell'antica Imusica, specie nel concreto campo d'applicazione teatrale: le testimonian- |ze relative alla tragedia classica, tutta o parzialmente cantata che fosse, beine lo dimostravano [cfr. Restani 1990].

1 I primi spettacoli tutti cantati. \ 'i Le prime occasioni per dar pi ampio saggio, e a un pubblico pi vasto, I del nuovo genere, le fornirono due distinti avvenimenti del 1600. Duran- \ te il carnevale di quell'anno santo, i Filippini dell'Oratorio romano della \ Vallicella proposero uno spettacolo allegorico e morale ben pi complesso S

| Da tali ambienti nacque cosi, sul versante teorico, il Dialogo [...] della ^musica antica e della moderna che Vincenzo Galilei pubblicava nel 1581. As- |sai ricca (e per prevalentemente perduta) la messe su quello pratico: il La- \mento del conte Ugolino e le Lamentazioni di Geremia del medesimo Galilei panni Ottanta); gli spettacolari intermezzi tutti in musica coordinati da Emi- Ilio de' Cavalieri per la commedia La pellegrina di Girolamo Bargagli, nel 11589 inscenata nel gran teatro ducale per le nozze del granduca con Cristi- | na di Lorena; alcune scenette pastorali tutte cantate, date a corte a pi ri- | prese (nel carnevale 1591 11 satiro e La disperazione di fileno, nell'autunno I1595 II giuoco della cieca), stese da Laura Guidiccioni e musicate dal meli desimo Cavalieri; il drammetto ugualmente pastorale La favola di Dafne pro- jl.mosso dal nobile musicofilo Iacopo Corsi (carnevale 1597) su versi di Ri- i miccini e musiche in gran parte di Peri, ma anche dello stesso Corsi [cfr. [Pirrotta 1969]. I; Come si vede, si trattava di realizzazioni assai diverse: per natura, fun- |zioni e dimensioni. Tra esse si annoverano spettacoli ufficiali e divertimenti [ privati, sperimentazioni ma anche opere compiute, esperienze isolate o congesti rappresentativi pi articolati, architetture drammatiche minime o al ' massimo di media gittata, pagine singole dalla teatralit implicita (quelle di ; Galilei), oppure testi esplicitamente drammatici (gli altri). Vi confluivano ! stimoli molteplici: la passione per lo spettacolo, sempre pi diffusa e radicata nella cultura italiana; l'uso politico della produzione artistica; le aspirazini colte e "archeologiche" di un'lite che pi o meno dichiaratamente i intendeva rievocare i perduti modelli teatrali dell'Antichit [cfr. Sternfeld ; 1993]. Largamente condivise erano solo la scelta di ambientazioni pastora- f li e di soggetti mitologici, e quella - tecnica - di far cantare perlopi indivi- ' dualmente i personaggi portati in scena. Entrambe nascevano da propositi [di opportuna verosimiglianza: dovendo far uso di modalit comunicative co- i, ri irrealistiche (parlare - e recitare - cantando), era logico pensare di appli- r carie a personaggi e storie di fantasia, collocate in dimensioni non umane, l e in tempi e luoghi non precisabili [cfr.' Fabbri e Pompilio 1983]. Quanto al canto a voce sola, requisito fondamentale per far esprimer^ credibilmente un personaggio in scena era vederlo/sentirgli cantare indivi dualmente le parole della propria parte, senza altre mediazioni. Di frequento! la polifonia dei madrigali aveva intonato testi lirici, e spesso anche di pro| venienza teatrale: ad esempio, passi ed episodi del Pastor fido di Guarini^ Ma i vari Silvio, Amarilli, Dorinda e Mirtillo di Monteverdi, Wert, Monte! Pari e via elencando non si materializzavano se non allusivamente, in uni teatro solo mentale: le loro battute erano distribuite tra le cinque parti del| complesso vocale standard, e la loro dimensione unitaria diveniva ricostruii bile solo nella simultaneit dell'esecuzione da parte di cinque diversi ese&j cutori, nessuno dei quali incarnava per totalmente ed esaurientemente i$ personaggio. Quest'ultimo parlava come un fascio di voci reciprocamente^ intrecciate e
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inestricabili, impedendo l'identificazione con singole sue com-p ponenti. Nel canto a solo era invece immediata la sovrapposizione di in-J terprete e personaggio: se a dire io era un solo esecutore, fin troppo age* vole - anche non volendo - risultava far aderire la maschera al volto. , Rispetto al mondo degli intermezzi (o per meglio dire, di quegli elabo- ; rarissimi e spettacolari intermezzi tutti in musica che in qualche occasione ; speciale farcivano rappresentazioni solenni di commedie o tragedie parlate), i nuovi esempi di teatro interamente cantato differivano per pi di un , aspetto. Le immagini mitiche illustrate negli intermezzi avevano pi che al- j tro il carattere del tableau vivant, epifanie di questo o quel personaggio - preferibilmente, di gruppi di personaggi - con sviluppi rappresentativi minimi ; o nulli. Quelli fiorentini del 1589 ne danno eccellente esempio. Se il terzo 1 (Apollo che interviene contro il mostruoso Pitone) e il quinto (Arione gettato a mare dai pirati, e salvato miracolosamente da un delfino) contengono nuclei drammaturgici modesti ma almeno in divenire, gli altri si offri- vano precipuamente come un seguito di apparizioni concatenate col solo obiettivo della variet. Ne risultavano sequenze visive e sonore di breve du- rata (ogni intermezzo occupava suppergi un quarto d'ora), senza reale sto^ ria, con netta prevalenza delle esibizini collettive - e dunque polifoniche --i su quelle individuali. Il nascente teatro musicale mirava invece a fini dissi-1 mili da questi: inscenare vicende che, magari brevemente, si dipanavano i per lungo una direttrice drammatica, e soprattutto rappresentarle impie- ; gando i modi del canto a solo [cfr. Fabbri 1995]. del solito, e anche piuttosto diverso dal consueto. Si trattava di una prosopopea intitolata La rappresentazione di Anima et di Corpo, per il quale il suo autore Emilio de' Cavalieri, nel frattempo ritornato a Roma, aveva deciso di adoperare su larga scala le medesime modalit di recitazione cantata saggiate nelle proprie scenette pastorali fiorentine. Nell'autunno, a Firenze, le feste per le nozze di Maria de' Medici con Enrico IV re di Francia videro un'ancor pi solenne affermazione del nuovo ritrovato. Il 5 ottobre il convito reale allestito nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio ebbe per intermezzo un Dialogo cantato [...] da Giunone e Minerva steso da Battista Guarini e musicato dallo stesso Cavalieri; il .6 ottobre, a Palazzo Pitti, Iacopo Corsi offri agli sposi L'Euridice, una rappresentazione mitologica di ambiente pastorale di Ottavio Rinuccini, intonata da Iacopo Peri; il 9 ottobre al Teatro degli Uffizi si diede un'altra sceneggiatura mitologico-pa- storale, Il rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera e musiche di Giulio Cacni, supplementarmente arricchita con intermezzi essi pure in musica [cfr. Battoli Becherini 2000; Bellina 1984; Decroisette, Graziarli e Heuil- lon 2001; Gargiulo 2001; Solerti 1904; 1905]. Conosciuto cosi da una cerchia ben pi vasta, ulteriormente allargata con la diffusione a stampa - intera o parziale - di alcuni di quei primi suoi ttoli, il
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teatro tutto cantato iniziava la propria vita fatta di qualche riproposizione, e soprattutto di nuovi spettacoli. Talora essi nacquero con l'evidente intenzione di emulare le novit esibite dalla corte medicea, come nel caso delle realizzazioni promosse dai Gonzaga a Mantova privatamente nei carnevali 1607 (La favola d'Orfeo, di Alessandro Striggio e Claudio Mon- teverdi) e 1608 {La Dafne, con nuova musica di Marco da Gagliano), e per gli invitati forestieri nel corso delle feste nuziali allestite in quello stesso 1608 per il matrimonio del principe ereditario Francesco con Margherita di Savoia. Esse contemplarono: il 28 maggio la tragedia Arianna di Rinuccini e Monteverdi; il 2 giugno la commedia parlata L'idropica di Gua- rini con intermezzi di Gabriello Chiabrera musicati da vari compositori; il 3 l'introduzione e le comparse in musica per un torneo; il 4 il Ballo delle . Ingrate di Rinuccini e Monteverdi; il 5 ancora un ballo con introduzione cantata, Il sacrificio di Ifigenia di Striggio e musicista ignoto [cfr. Fabbri 1 1985]Cosi come nella scelta dei soggetti prevalse di gran lunga l'opzione mitologica e pastorale, restando eccezione quella allegorica [cfr. Fabbri ^90], per il loro trattamento non si derog mai - n allora n in seguito - dall'uso del verso, e conseguentemente dalle possibili organizzazioni metriche offerte dalla tradizione letteraria italiana. La "normale" comunicazione tra personaggi (dialoghi), e dei personaggi col pubblico (monologhi: riflessioni interiori fatte ad alta voce), venne affidata a quel registro di conversazio- ; ne ed espressione "media" ampiamente sperimentato nel teatro parlato, e costituito dai cosiddetti "versi sciolti": endecasillabi in versione intera, o ridotta a una sola delle sue componenti interne (il settenario, ben pi raramente il quinario), non legati da schemi di rima (vincoli del genere potevano qua e l sussistere, ma non erano assolutamente tassativi, n tantomeno prevedibili). L'intenzionale e saltuario abbandono di tale registro, ottenuto con tecniche varie e magari simultanee (griglie di rime, stroficit, materiali ricorrenti, metri diversi da quelli richiesti dai versi sciolti), era giustificato da situazioni drammaturgicamente particolari: prologhi, cori, canti, balli, racconti, preghiere, aforismi morali, espansioni liriche. Metrica e morfologia erano ovviamente quelle della tradizione letteraria colta: endecasillabi e settenari - distinti, o combinati tra loro - organizzati in terzine, quartine (la cosiddetta "ode"), ottave, sestine, canzoni e canzonette [Fabbri 1988; Leopold 1978]. Di recente, quella tavolozza si era arricchita grazie alle invenzioni della lirica anacreontica, modellata anche su coeve esperienze francesi, di cui Gabriello Chiabrera era il campione in Italia. Vi s'impiegavano con favore versetti corti come il trisillabo e il quinario, e preferibilmente versi parisillabi a forte accentuazione (ottonario, quadrisillabo, se- nario, perfino il decasillabo), sia in agglomerati omogenei sia in strofette eterometriche [cfr. Fabbri 1988; Fabbri e Pompilio 1983; Leopold 1981].

2. La monoda : parlar cantando e cantare ad aria. Come si detto, risorsa tecnica fondamentale al servizio di questo progetto fu quel tipo di canto a voce sola che, pi o meno nel medesimo giro d'anni, l'erudito Giovan Battista Doni designava grecamente come monodia. Essa prevedeva che l'interprete desse voce singola e individualizzata alle parole del personaggio, poggiando saldamente su di un costante sostegno strumentale (basso continuo) essenziale o arricchito, con funzioni di basamento armonico: se opportunamente coeso quanto a condotta melodica, quest'ultimo poteva per prestarsi anche a una lettura in dimensione contrappuntistica, costituendo pur sempre una "voce" (strumentale) che continuamente interagiva con la parte del canto. L'incarnazione del personaggio si attuava dunque attraverso le tecniche della monodia accompagnata, declinate variamente a seconda della situazione scenica. Base dell'imitazione per questo quasi che in armonia favellare, come dir Giulio Cacni nella prefazione alle sue Nuove musiche (Ma- rescotti, Firenze 1602), erano le intonazioni e i ritmi presenti nella voce parlante, che gi Mei aveva suggerito di studiare attentamente e di prendere a modello. Nella prefazione a Le musiche [...]sopra L'Euridice, Iacopo Peri mette a fuoco alcuni punti da lui tenuti fermi quando aveva preso a musicare La Dafne: l'aspirazione a un canto "parlante", che si collocasse a mezza strada fra la voce cantata e quella parlata sia per l'aspetto ritmico sia per quello in- ; tervallare; la registrazione, amplificata, dei profili sonori via via assunti dal- : la voce di un individuo in preda a questa o quella emozione. ' Suggestionato dall'atmosfera erudita e classicheggiante dei dibattiti del- ; la "camerata" Bardi, nella citata prefazione a Le nuove musiche Cacni in- j dicava come il linguaggio musicale constasse di favella, ritmo, suono, secondo un ordine gerarchico che privilegiava le componenti tipiche anche del discorso parlato. Per il compositore che intonava versi, risultava indispensabile una preventiva valutazione metrica del testo poetico, in modo : da attribuire valore appropriato alle sillabe: quelle accentate erano da con- [ siderare generalmente "lunghe", e "brevi" le atone. Particolare attenzione doveva essere posta anche nell'evitare la dilatazione di queste ultime con inopportuni vocalizzi (passaggi) puramente esornativi, cercando piuttosto di sottolineare la preminenza strutturale delle altre magari abbinandole a consonanze col basso continuo, come si poteva leggere del resto anche nelle riflessioni teoriche di Peri. Caccini precisava ulteriormente i suoi obiettivi nella dedicatoria della sua Euridice (Marescotti, Firenze 1600) laddove : dichiarava di aver perseguito una certa sprezzatura (quella leggiadria la quale si d al canto co'l trascorso di pi crome e semicrome sopra diverse ' corde), mediante la quale a suo avviso si era appressato quel pi alla naturai favella [Solerti 1903]. Una simile monodia recitativa, originata da un'intenzione di massima aderenza al profilo metrico - ma con le significative eccezioni notate - e appoggiata alla
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non periodicit dei versi solti, voleva dunque proporsi come un'amplificazione del parlato. Insieme, per, restituiva anche la dimensione cronologica rettilinea che gli era propria: la stesura in versi nobilitava gi di per s il registro del semplice parlato; in sovrappi, la sua declamazione ulteriormente rallentata nel canto gli conferiva una pompa e un'en- i fasi che per dilatavano, non ristrutturavano, il tempo reale necessario al disbrigo della componente verbale. Diverso era il caso per ogni anche episodico discostarsi da quella situazione. Quest'ultimo lo si poteva ottenere : organizzando quei medesimi metri per mezzo di parametri periodici (mo- i duli strofici, particolari assetti di rime, impieghi di versi-refrain), o addirit- I tura facendo uso di misure meno "prosastiche" (cio tutte quelle diverse dagli sciolti): dal punto di vista musicale, un effetto analogo lo sortiva ogni , momentaneo abbandono sia del canto a voce sola in favore di episodi a pi voci, sia della monodia disinvoltamente asimmetrica a pr di costruzioni segnate da interne periodicit e riprese. Nel primo caso, possiamo dire che l'egemonia la deteneva il sistema comunicativo verbale, ovviamente nella sua variante poetico-letteraria. Nel secondo, il rapporto era ribaltato, e i parametri musicali tendevano a prendere il sopravvento. Trattandosi per di parola e musica in dimensione rappresentativa, le due situazioni generano anche differenti prospettive temporali. Spostando l'asse del rapporto poesia-canto verso il polo musicale, e allontanandosi dal principio dell'imitazione del parlato per imboccare o meno risolutamente la via del canto, ci si distanziava anche da una re tuzione cronologicamente "realistica" del testo letterario, per introd convenzioni e strutture temporali artificiose: come tali, bisognose di suefazione e accettazione da parte di spettatori in dimestichezza invece gli ideali di verosimiglianza del teatro parlato [Fabbri 1995]. Per strutture conchiuse analoghe a quelle descritte, la musica vocal da ballo del Cinquecento aveva fatto uso del termine di "aria": e "arie "ariette") tali pagine furono designate anche all'interno dei testi can Neil'Euridice, per la seconda stanza del lieto imeneo di Tirsi Nelp ardor della pi bella stella, Peri infatti prescrisse: Si replica sopra la desima aria. Come sinonimo di "aria", lemma di origine musicale, ve ben presto impiegato anche quello di provenienza letteraria "canzone? "canzonetta" [Leopold 1978]. Agli albori del teatro musicale, proprio per le ragioni di abitudine fi municativa di cui s' detto, il ricorso a strutture di questa natura si vei fic pi che altro in alcuni momenti fissi: nei prologhi, affidati a un p< sonaggio che intona le strofe di una cosiddetta ode oraziana (le partitu pervenuteci stampano il solo modello melodico della prima stanza, da a plicare con eventuali minimi adattamenti alle successive, e il ritornello stt mentale da intercalarvi), e nei cori che suddividono una scena dall'altra concludono gli atti (essendovi il coro di continuo partecipe, la Rappresi tazione di Anima et di Corpo affida questo ruolo di
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chiusa a "sinfonie" sttj mentali). Gli interventi corali erano in genere strofici, e magari stesi ! condo i nuovi dettami della poesia anacreontica: a versi brevi, spesso m risillabi, con schemi d'accento molto evidenti e regolari (un esempio^ prima strofe di quello finale da L'Euridice: Biondo arder, che d'alto m<3 te I aureo fonte I sorger fai di si bell'onda, I ben pu dirsi alma felice I < pi: lice I appressar l'altera sponda). Trattandosi di entit collettive) compositore poteva renderli credibilmente in polifonia - omoritmica pi lopi, ma non mancano spunti d'imitazione -, con soluzioni anche solig co-corali in cui gli interventi a pi voci potevano figurare in funzione! sponsoriale. Accanto a queste, anche altre situazioni ricevono una configurazio; analogamente chiusa e un trattamento musicale adeguato: stroficit, pr lo melodico caratterizzato, basso continuo coerente e incalzante. Col a solidarsi del genere, esse anzi assumeranno il valore di luoghi topici: l'esi zione vocale, l'effusione festosa che spinge al canto (nell'Euridice, l'inv di Orfeo Gioite al canto mio, selve frondose) e la dichiarazione sentt ziosa (nella Dafne, le terzine di Apollo Non curi la mia pianta o fiamma gelo). Sempre nell'Euridice, il verso-refrain Lagrimate al mio pianto, d| bre d'Inferno tripartisce asimmetricamente - il "lamento" di Orfeo E9 neste piagge, ombrosi orridi campi, introducendo un elemento di perii 't ed eufonia gi verbali in un contesto di versi sciolti declamati (come ' lunghi monologhi di "racconto" : un altro topos di questi primi drammi, tuato dal teatro parlato e classico). Quanto alle citate terzine giubilanti Orfeo Gioite al canto mio, selve frondose, la loro collocazione dram- tica essenziale. Esse annunciano il ritorno del protagonista dopo l'in- 'one - fausta, in quanto per esigenze di circostanza Rinuccini aveva mo- 'cato il mito imponendogli un lieto fine - nell'Oltretomba a recupera- Euridice. La ricomparsa di Orfeo in scena riceve cosi un rilievo pi che ' ario: per una volta, il suo canto nasceva da un irrefrenabile moto in- 'ore, piuttosto che da un altrui invito a esibirsi. Il campo dell'effusione 'ca sar una delle situazioni teatrali che il cantar recitando in breve pre- er. 3. Il maestro di cappella e il compositore teatrale. Proprio trattandosi di poesia e musica drammatiche, efficacia particodimostrarono i compositori che seppero sfruttare in dimensione squi- amente scenica le risorse che l'una e l'altra mettevano a loro disposizio- .Anche da questo punto di vista, nei primi decenni del Seicento sui con- poranei si staglia la figura di Claudio Monteverdi (1567-1643) [cfr. &bri 1985; Gallico 1979]. Fu all'epoca del suo servizio presso la corte nzaghesca a Mantova (1590/91-1612) che Monteverdi ebbe modo di ci- "ntarsi per la prima volta negli inserti musicali del teatro parlato, nelle e di spettacolo anche musicale, e infine nel teatro tutto cantato. Di est sua attivit, interamente superstiti risultano al
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momento solo La fa- 1a d'Orfeo (1607, stampata nel 1609) e II ballo delle Ingrate (1608, ma pub- 'cato solo nel 1638, e con adattamenti: dell'Arianna di quel medesimo 08 conosciamo invece il solo celeberrimo Lamento). Come Rinuccini, an- e Alessandro Striggio - l'autore del testo letterario - sceneggi il mede- 0 mito di Orfeo ed Euridice, ma imprimendogli una pi spiccata e innsa teatralit. Si confrontino le due diverse rese di una situazione cru- 'e, cio l'annuncio della morte di Euridice e la reazione di Orfeo. In uccini sopraggiunge la nunzia Dafne, che racconta come Euridice, men- danzava cogliendo fiori in un prato, morsicata da un serpente velenoso 11 a poco era spirata tra le braccia delle amiche: impietrito, Orfeo se ne dapprima muto, poi d voce a un lamento e abbandona la scena. Sar 'co Arcetro a raccontarne la successiva disperazione, e l'apparizione ex bina di Venere; e Aminta narrer in seguito il suo fortunato ritorno 'Oltretomba insieme alla sposa rediviva. Striggio fa invece irrompere via, che sopraggiunge a turbare i divertimenti canori di Orfeo e dei pari, e prima d'iniziare la propria narrazione comunica la terribile notizia iando tutti sgomenti. Muto per tutta la durata del racconto, al termine di quest'ultimo Orfeo erompe in una pateticissima allocuzione all'amat"J maturando a vista la decisione di affrontare la discesa agli Inferi. Pure agi* to sotto gli occhi degli spettatori, e non classicamente raccontato da un nun zio, sar il movimentato ritorno dal mondo sotterraneo, con la drammatica perdita di Euridice. A un taglio letterario gi di per s pi mosso, si aggiungano appunto alt cune soluzioni monteverdiane d'indole spiccatamente teatrali. Nell'atto I i canti e le danze di Orfeo, dei Pastori e delle Ninfe si allineano secondo uno schema a specchio che restituisce l'idea di un brillante quadro vivente festivo alla maniera degli intermezzi: ne fuoco centrale l'allocuzione, di Orfeo Rosa del del, vita del mondo e degna; gli fanno prima e dopo simmetrica corona sia il coro danzato Lasciate i monti, sia l'invocazion ne nuziale Vieni, Imeneo, deh vieni. Con efficadssimo contrasto, nell'atto II alle melodiose strofe e ai canti periodici degli ignari Pastori e di Orfeo in gara felicemente canora si oppongono di l a poco i funebri versi sciolti e gli accenti prosasticamente recitativi di Silvia, messaggera della morte di Euridice. Oltre che sfruttando le architetture musicali chiuse contro la declamazione "aperta", Monteverdi restituisce vividamente il senso di un'opposizione anche ricorrendo ad altri parametri musicali. Un medesimo ritornello strumentale connota l'apertura del sipario sulla sce* nografia pastorale dell'atto I, e il ritorno al medesimo ambiente, dopo gli atti collocati nell'Oltretomba (III e IV), al principio del V. Tacciono li cornetti, tromboni et regali, - prescrive la relativa didascalia, - et entra:} no a sonare il presente ritornello le viole da braccio, organi, davicembali, contrabasso, et arpe, et chitaroni, et ceteroni, et si muta la sena: vale e dire, spariscono gH strumenti a fiato, di tessitura grave, di sonorit forte
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e pungente, che avevano reso l'atmosfera sonora spaventevole degli Infe* ri, e ritornano in azione i timbri gradevoli e dolci che meglio si confann al luminoso mondo pastorale. Ugualmente tornano, nei cori, le voci acute; dei soprani, accantonate in favore di quelle medie e gravi, con le loro tinte scure, pi adatte ad associarsi ai cupi abissi sotterranei. L'opposizione: gioia-lutto, nell'atto II, resa anche dall'individuazione timbrica degli struf menti che sorreggono le parole del Pastore (un clavicembano, chitarone e viola da braccio) e quelle di Silvia (un organo di legno e un chitarc! ne), il cui organico fatto proprio anche da Orfeo e dai Pastori per i lo* ro compianti. Nell'atto III, Caronte si oppone al passaggio di Orfeo ancheS a livello d'accompagnamenti: al di lui organo di legno, controbatte al suo no del regale. La scena di Orfeo con Eco, nell'atto V, implica una distri! buzione anche spaziale dei gruppi di basso continuo. Nella citata scena del? l'arrivo della messaggera, nell'atto II, la disparit di stato d'animo tra Sii* via da un lato, i Pastori e Orfeo dall'altro, resa in modo stridente anchi opponendo con violenza l'ambiente armonico fermamente attribuito ael* uni e all'altra. 4. Caratteri e diffusione del teatro cr, ; 0. Nei suoi primi decenni di vita, il teatro cantato rilutta a lasciarsi inquadrare in quelle categorie e schemi interpretativi consolidatisi nei perio- dia seguire, e poi divenuti canonici [cfr. Fabbri 1995]. Cronologicamente, ha fatto comodo la cifra tonda dell'anno 1600, assegnando a una sperimentale preistoria dell'opera le realizzazioni deg anni Novanta: L'Euridice d'ottobre stata indicata come il capostipite del nuovo genere (e perch non La favola di Dafne ? solo perch non ci pervenuta nella sua totalit ?), mentre alla precedente Rappresentazione di Anima et di Corpo si riserbato il titolo di progenitrice dell'oratorio, non parendo consono al venturo dramma musicale discendere da una moralit scarsamente drammatica. Ma proprio in quanto cognizioni comuni e assodate, la loro legittimit non pu ri- sultare scontata. E come dev'essere sviluppato un nucleo drammatico per : poterlo includere negli esempi di teatro cantato ? ne faranno parte tutte ' quelle numerose occasioni di spettacolo che si sostanziarono in comparse di -maschere monologanti o dialogiche, brevi intermezzi conviviali, carri allegorici con gruppi figurati, entres e presentazini di danzatori? E se queste I: saranno reputate inadatte, perch drammaturgicamente troppo esili, la stessa condanna si applicher ad "azioni drammatiche" un tantino pi complesse quali ad esempio II Reno sacrificante di Ridolfo Campeggi con musi- i che di Girolamo Giacobbi (Bologna 1617) ? L'Aurora ingannata - dovuta al- ; la medesima coppia -, che venne proposta per la prima volta a Bologna nel 1605 smembrata e utilizzata tra gli atti di una pastorale recitata parlando iJlFilarmindo del medesimo Campeggi), andr considerata un intermezzo sul tipo di quelli del 1589 o un'opera in musica? In un'ideale storia del teatro musicale, a chi toccher
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occuparsi di prodotti come II ballo delle Ingrate di Rinuccini e Monteverdi (Mantova 1608) ? Allo storico della musica ? A quel- lo della danza ? E per la competenza sulla festa d'arme e di ballo Le fonti d'Ardenna (Firenze 1623) entrer in lizza anche lo storico dello spettacolo ? : . E forse pi saggio non lasciarsi coinvolgere in simili bizantinismi. E non solo per evitare d'impelagarsi in distinzioni di cui non agevole venire a capo, ma perch l'operazione stessa pare poco produttiva: senza dire che ri- esulta metodologicamente assai dubbia una procedura mirante a setacciare i Vari prodotti alla luce di assestamenti e griglie di lettura cristallizzatisi solo pi avanti. Altra cosa porre a fuoco e segnalare la diversit di destinazioni, modalit teatrali, autonomia, grado di articolazione ed elaborazione dei nuclei drammatici, concorrenza di linguaggi, finalit, cui le tecniche del teatro tutto cantato furono di volta in volta applicate. Tutto ci andr no- tomizzato con puntiglio: non per in omaggio alla cavillosa e necrofila perversione di ridurre il mondo a tassonomie di comodo, utili all'accademica riproduzione degli studi, ma molto meno alla decifrazione della realt.

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PATRICK MACEY Retorica e affetti nel Rinascimento


i. Potere della musica e pitagorismo. Fin dall'antichit, le dispute intorno alla musica sono state animate da due distinte correnti di pensiero, definibili "affettiva" l'una e "pitagorica" l'altra. Per ci che riguarda la prima delle due, durante il Rinascimento e gi in epoca medievale i trattatisti di musica avevano preso accuratamente nota di quanto riportavano gli scrittori greci e romani circa il potere esercitato dalla musica sugli affetti dell'animo umano, o passioni. Gli autori classici, compresi Cicerone e Quintiliano, riferivano come Pitagora usasse musica rilassante per calmare un giovane che era stato portato al delirio da musica violenta, e questi racconti furono ripresi innumerevoli volte dai trattatisti nel Rinascimento. Platone contrapponeva agli effetti benefici della musica quelli dannosi, approvando solo i canti basati su modi quali il dorico e il frigio (erroneamente identificati con i modi ecclesiastici medievali finch, nel xvi secolo, se ne scoprirono le differenze) i quali erano rispettivamente adatti a guerrieri e pacificatori, e disapprovando invece il genere di musica che accompagnava i lamenti, la con- vivialit o altre manifestazioni di debolezza (Repubblica, III, 398-99). Egli inoltre raccomandava che la melodia e il ritmo di una canzone fossero conseguenti alle parole (Repubblica, ibid), e questa sua prescrizione fu ripresa e mantenuta nel Rinascimento da compositori e trattatisti. Ma in che cosa risiede il potere della musica, la sua capacit di suscitare emozioni? Per Aristotele, la musica imita le passioni umane attraverso modi e ritmi sia eccitanti sia lenti e piacevoli (Politica, Vili, 5). Cicerone defin l'affetto come mutamento transitorio, spirituale o fisico, determinato da qualche causa, come "gioia", "desiderio", "timore", "molestia", "malattia", "debolezza" e quant'altro: rientra in questo genere [I, 36; ed. 1967, pp. 74-76]. Nel suo trattato di retorica intitolato nstitutio oratoria, Quintiliano raccomandava caldamente che l'oratore studiasse musica: Eppure anche nel discorso l'alzare, l'abbassare la voce o mutarne le inclinazioni mira a suscitare sentimenti nell'uditorio e altro , per usare lo stesso termine, il ritmo nella disposizione delle parole e della voce di cui ci avvaliamo se ricerchiamo la collera del gv:.dice, altro invece il ritmo se aspiriamo alla sua piet, poich ci rendiamo conto che anche dagli strumenti musicali, con i quali pure non si pu esprimere un discorso, gli animi vengono in diversa maniera influenzati [I, 10, 25; ed. 2001,1, p. 133]. consiglio invece quella musica [...] la conoscenza di metodi atti a suscitare e placare le passioni [I, 10, 31; ed. 2001, p. 135].
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Il legame fra oratoria e musica evidenziato da Quintiliano incoraggi i trattatisti del Rinascimento ad approfondire i collegamenti esistenti fra le due arti. La seconda corrente di pensiero traeva invece origine dalle dottrine pitagoriche, in base alle quali si riteneva che i movimenti dei pianeti lungo le proprie orbite creassero armonie celesti {musica mundana) basate su rapporti numerici di quinta (3/2) e quarta (4/3) giuste e che l'attivit dell'anima umana rispecchiasse tali armonie {musica humana). Tale concezione della musica come "numero risonante" svolse un ruolo preminente nel pensiero musicale durante il Medioevo, ma verso la fine del Quattrocento l'attenzione si . spost verso l'altro polo; trattatisti e compositori erano adesso interessati al potere immediato che la musica esercita sulle emozioni, e fu in quel momento che i contenuti della retorica classica assunsero grande importanza. Nella premessa al suo Liber de arte contrapuncti (1477), Tinctoris nega in modo esplicito che i corpi celesti producano armonie - o qualsiasi altro suono - e concentra invece il suo discorso sulla musica realmente udibile. In un altro trattato, il Complexuseffectuum musices, egli elenc venti diversi effetti prodotti dalla musica. E possibile ripercorrere il mutamento generale avvenuto fra il Medioevo e il Rinascimento nella ripartizione dei vari elementi che componevano le sette arti liberali previste dal curricolo universitario. Nel Medioevo la musica faceva parte del Quadrivio, formato dalle arti della misurazione, che comprendevano l'aritmetica, la geometria e l'astronomia: erano tutte arti di ordine contemplativo e speculativo. Il Trivio, per contro, comprendeva le arti della comunicazione: grammatica, dialettica e retorica [cfr. in questo volume il saggio di Gilles Rico, La formazione musicale nell'ambito del Quadrivium, pp. 118-29]. Verso la met del Cinquecento, una nuova concezione circa il ruolo svolto dalla musica in quanto arte capace di influire sulle emozioni fu sviluppata da umanisti fiorentini quali Girolamo Mei e Giulio del Bene. Fu specialmente la Poetica di Aristotele a catturare gli interessi degli umanisti, e il suo concetto di arte come imitazione della natura risult decisivo. Aristotele per non indica solo la musica come arte imitativa, ma parla negli stessi termini anche del teatro. Nel suo commento del 1560 alla Poetica, Girolamo Mei estese la concezione aristotelica fino a includervi le funzioni svolte dalla musica nella danza, nel teatro e nel canto [Palisca 1985, pp. 335-36]. In un discorso rivolto nel 1575 l'Accademia degli Alterati di Firenze, Del Bene incluse la musica fra le ti della comunicazione, quali la grammatica, la dialettica, la retorica e anche la poesia. Egli istituisce una diretta analogia fra retorica e musica pe la loro capacit di suscitare emozioni: al fine che noi possiamo [...] per la retorica persuadere, et tirare la volunt delli hm mini dove ci pare, et per la musica imparare ad essere ordinati, et composti
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bene tu animo nostro, et a movere gli affetti non meno che si faccia la retorica et per d< Iettarsi et sollevarci dalle fatiche che nelle operationi humane ogni giorno suppoi tiamo [ibid., p. 337]. Nel trattare della retorica e del suo rapporto con la musica e gli aff nel Rinascimento, necessario isolare numerose altre componenti. In pri mo luogo c' la testimonianza offerta dalla musica stessa, e qui il post d'onore spetta alla flessibilit dimostrata nel musicare il testo da autori qu li Josquin Desprs e Heinrich Isaac, nei mottetti da loro composti intorn al 1500. In secondo luogo, i trattatisti decidono di affrontare diversi aspe" ti riguardanti le componenti affettive presenti nella musica: Glareanus {DJ dekachordon, 1547) e Zarlino {Institutioni Harmoniche, 1558) posero partii colare attenzione alle caratteristiche affettive della musica rispettivamente' di Josquin e di Willaert. Glareanus dice di Josquin: Nessuno ha mai espresi so col canto gli affetti dell'anima in modo pi efficace [Glareanus 1547, ed. 1969, p. 362]. Successivamente al 1540 circa, il madrigale divenne sempre pi il genere designato per il trattamento retorico-musicale dei testi,1 con particolare riguardo per la rappresentazione pittorica delle parole (ma-] drigalismo). Quest'ultimo approccio suscit alla fine accese critiche e com^ menti derisori da parte di Vincenzo Galilei {Dialogo della musica antica t della moderna, 1581), il quale si opponeva alle complicazioni polifoniche e^ sollecitava un ritorno al canto solistico accompagnato da una gestualit ap? propriata, tratta dall'esempio dell'oratoria. C'era poi la questione del modo musicale, o ethos modale, in quanto agente suscitatore di reazioni affete tive nell'ascoltatore. Infine, esplicite analogie fra la musica e i procedimenti della retorica classica furono stabilite da trattatisti tedeschi quali Gallus Dressler {Praecepta musicae poetcae, 1563) e Joachim Burmeister {Musica poetica, 1606); quest'ultimo illustra le sue figure retorico-musicali citando^ numerosi brani tratti dai mottetti di

Macey Retorica e affetti nel Rinascimento


Orlando di Lasso. 2. La testimonianza della musica. La retorica svolse un ruolo centrale nella ripresa del sapere classico durante il Rinascimento, e fu in particolare l'opera di Petrarca a preannunciare nel Trecento il movimento che avrebbe ridato vita alla cultura classi-; ca. Attraverso la poesia, Petrarca voleva esprimere la realt immediata delle sue esperienze ed emozioni in tutta la loro variet e con tutte le loro contraddizioni, ma per conseguire tale fine occorreva prima di tutto ricu- e il latino classico per riportarlo alla sua originale duttilit ed elonza. Petrarca rivolse la propria attenzione alle opere di Cicerone quale fello di discorso eloquente ed espressivo, e pose le basi per il successivo luppo del pensiero umanistico in Italia. Sebbene la retorica svolgesse un 3I0 importante in epoca
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medievale, specialmente nell'arte epistolare (ars *taminis), alla fine del Trecento e agli inizi del Quattrocento umanisti qua- Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, entrambi a lungo cancellieri della Si- oria fiorentina, diedero risalto all'arte dell'oratoria pubblica, in quanto 10 atto a persuadere i cittadini a intraprendere azioni nobili e virtuose. Gi all'inizio del Quattrocento si fece un tentativo per dimostrare l'esigenza di un rapporto fra umanesimo e musica, nonch la presenza di eleti retorici nei mottetti composti all'poca in Italia da Ciconia e Dufay ders 1977; 1981], ma solo successivamente, con la musica di Josquin :prs (1450 -1521 ca.) e di Heinrich Isaac (1450 -1517 ca.), che risconto un innegabile approccio retorico per ci che concerne il trattamen- dei testi da musicare. Ne costituiscono due importanti esempi il lamento imposto da Isaac nel 1492 per Lorenzo de' Medici, Quis dabit capiti meo ~uam (testo di Poliziano [cfr. Sternfeld 1983]) e Miserere mei, Deus, di Jo- 1, un'intonazione del salmo 50 composto per il duca di Ferrara Ercole l'Este intorno al 1503 [cfr. Macey 2000]). Quest'ultima opera in partire costituisce una pietra di paragone per ci che concerne l'applicazio- dei procedimenti retorici alla musica. In questo campo, i classici trattati Cicerone e Quintiliano rappresentano la guida principale, pi dei trattisi coevi, i quali generalmente non si pronunciano sull'argomento. Men- il De inventione di Cicerone, la pseudo-ciceroniana Rbetorica ad teren- im e una parte dell'Institutio oratoria di Quintiliano erano conosciuti nel edioevo, durante il Quattrocento furono scoperte nuove opere di Ciccane, fra le quali YOratore il De oratore. Inoltre, VInstitutio oratoria di Quin- 10, conosciuta durante il Medioevo solo in versione mutilata, suscit nuova ondata d'interesse dopo il ricupero del testo completo, awenu- nel 1416.

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I trattati di retorica di Cicerone e Quintiliano delineano cinque fasi per composizione di un'orazione efficace, vale a dire l'invenzione (inventici), 'organizzazione (dispositio), l'elaborazione dello stile (elocutio), la memorizzazione (memoria) e l'esposizione (pronuntiatio). Dapprima l'oratore dedecidere che cosa dire (inventio), segue poi l'organizzazione del mate- le secondo un piano coerente (dispositio), consistente di tre sezioni prin- pali: un'introduzione (exordium), che suscita l'attenzione dell'uditorio e appello alla sua comprensione, seguita dalla parte centrale dell'orazione, /ero i fatti in questione (narratio) e gli argomenti a favore e a sfavore (con- firmatio e re/utatio); infine, il discorso si chiude con una perorazione (pero- kratio) o riepilogo del caso, che comprende un trascinante appello all'uditorio. Nella terza fase, l'oratore rivolge la propria attenzione allo stile (elo-

PAOLO FABBRI La nascita dell'opera in musica


Il teatro come fenomeno laico, d'arte (pi o meno esemplato sui modelli dell'antichit classica) e letterariamente in volgare, in Italia si and defi-, nendo sullo scorcio ultimo del Quattrocento e all'aprirsi del secolo seguente. Radicato nel clima umanistico, lo possiamo definire un frutto del Rinascimento che si affianc sempre pi vigorosamente ed egemonicamente a sopravvivenze medievali in via di estinzione (le forme di teatro religioso: rappresentazioni sacre, superstiti liturgie drammatizzate combattute e rimosse dalla stessa gerarchia ecclesiastica dopo il Concilio di Trento), e alle manifestazioni di spettacolarit popolare. Esso fece uso saltuario e limitato anche di musica, vocale e strumentale: laddove la finzione scenica realisticamente lo richiedesse, i suoi personaggi potevano essere chiamati a can-J" tare/sonare/ballare; oppure in ambiti che potremmo dire "paratestuali", in ; quanto estranei al testo drammatico vero e proprio, e funzionanti piuttosto da sua cornice (i cori nella tragedia, gli intermezzi tra un atto e l'altro, i pr-, loghi e i commiati). Per queste molteplici esigenze, di volta in volta si fece ricorso a soluzioni musicali che contemplarono varie polifonie vocali e stru-.: mentali, canto a solo accompagnato, esibizione individuale allo strumento.' Su questo tronco, alla fine del Cinquecento e soprattutto al principio del Seicento s'innest l'esperimento di rappresentazioni teatrali che impiegavano la musica non pi come componente occasionale e sporadica, ma> sistematicamente come strumento di comunicazione, alla stregua degli altri linguaggi fin li utilizzati: la parola in primo luogo, ma anche quelli nonr verbali quali il costume, il trucco, la figurativit scenografica, la mimica, ; l'interazione personale con lo spazio scenico. Tali sperimentazioni si attuarono a Firenze negli anni Novanta del Cinquecento, nell'ambito ma anche ai margini delle realizzazioni teatrali promosse dalla dinastia medicea. Qui dal 1588 operava
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Emilio de' Cavalieri, un gentiluomo romano cui il neogranduca Ferdinando de' Medici aveva affidato la sovrintendenza alle musiche e agli spettacoli di corte: un indubbio segno dell'attenzione riservata a un settore di attivit sentita come prestigiosa e distintiva, e ritenuta capace di qualificare l'immagine dinastica agli occhi delle altre corti italiane ed europee. Ma sempre a Firenze, presso il nobile Giovanni Bardi, gi da alcuni anni (attorno al 1580) si radunava informalmente anche un cenaco-

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intellettuale (camerata) frequentato da Vincenzo Galilei, Pietro Strozzi, Giulio Caccini (e probabilmente anche da Ottavio Rinuccini, Iacopo SCorsi, Iacopo Peri), interessato tra l'altro al problema della musica nella ^Grecia antica, e al rapporto parola-musica nell'antichit e nella produzione musicale contemporanea. Per quanto2 a distanza (si era trasferito a Roma so il 1560), mentore di quel gruppo fu Girolamo Mei, un umanista Tolentino con cui Galilei si tenne sempre in contatto. E nei discorsi scambiati direttamente tra i frequentatori di casa Bardi, nonch negli ammaestramenti di Mei, temi ricorrenti erano quelli dell'efficacia espressiva dell'antica musica, specie nel concreto campo d'applicazione teatrale: le testimonianze relative alla tragedia classica, tutta o parzialmente cantata che fosse, belo dimostravano [cfr. Restani 1990]. Da tali ambienti nacque cosi, sul versante teorico, il Dialogo [...] della musica antica e della moderna che Vincenzo Galilei pubblicava nel 1581. Assai ricca (e per prevalentemente perduta) la messe su quello pratico: il Lato del conte Ugolino e le Lamentazioni di Geremia del medesimo Galilei {anni Ottanta); gli spettacolari intermezzi tutti in musica coordinati da Emilio de' Cavalieri per la commedia La pellegrina di Girolamo Bargagli, nel 1589 inscenata nel gran teatro ducale per le nozze del granduca con Cristina di Lorena; alcune scenette pastorali tutte cantate, date a corte a pi riese (nel carnevale 1591 // satiro e La disperazione di fileno, nell'autunno Il giuoco della cieca), stese da Laura Guidiccioni e musicate dal me- 10 Cavalieri; il drammetto ugualmente pastorale La favola di Dafne pro- osso dal nobile musicofilo Iacopo Corsi (carnevale 1597) su versi di Ri- nuccini e musiche in gran parte di Peri, ma anche dello stesso Corsi [cfr. otta 1969]. Come si vede, si trattava di realizzazioni assai diverse: per natura, fun- ioni e dimensioni. Tra esse si annoverano spettacoli ufficiali e divertimenti rivati, sperimentazioni ma anche opere compiute, esperienze isolate o conti rappresentativi pi articolati, architetture drammatiche minime o al simo di media gittata, pagine singole dalla teatralit implicita (quelle di lei), oppure testi esplicitamente drammatici (gli altri). Vi confluivano ioli molteplici: la passione per lo spettacolo, sempre pi diffusa e radi- ita nella cultura italiana; l'uso politico della produzione artistica; le aspi- |tazini colte e "archeologiche" di un'lite che pi o meno dichiaratamente tendeva rievocare i perduti modelli teatrali dell'Antichit [cfr. Sternfeld [993]. Largamente condivise erano solo la scelta di ambientazioni pastorale di soggetti mitologici, e quella - tecnica - di far cantare perlopi indivi- almente i personaggi portati in

2 I primi spettacoli tutti cantati. Le prime occasioni per dar pi ampio saggio, e a un pubblico pi vasto, del nuovo genere, le fornirono due distinti avvenimenti del 1600. Durante il carnevale di quell'anno santo, i Filippini dell'Oratorio romano della VaUicella proposero uno spettacolo allegorico e morale ben pi complesso

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scena. Entrambe nascevano da propositi opportuna verosimiglianza: dovendo far uso di modalit comunicative co- irrealistiche (parlare - e recitare - cantando), era logico pensare di appli- le a personaggi e storie di fantasia, collocate in dimensioni non umane, in tempi e luoghi non precisabili [cfr.! Fabbri e Pompilio 1983].

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Quanto al canto a voce sola, requisito fondamentale per far esprimere ' credibilmente un personaggio in scena era vederlo/sentirgli cantare indivi* } dualmente le parole della propria parte, senza altre mediazioni. Di frequente -' la polifonia dei madrigali aveva intonato testi lirici, e spesso anche di pr- ; venienza teatrale: ad esempio, passi ed episodi del Pastorfido di Guarini. * Ma i vari Silvio, Amarilli, Dorinda e Mirtillo di Monteverdi, Wert, Monte, : Pari e via elencando non si materializzavano se non allusivamente, in un", teatro solo mentale: le loro battute erano distribuite tra le cinque parti del complesso vocale standard, e la loro dimensione unitaria diveniva ricostruibile solo nella simultaneit dell'esecuzione da parte di cinque diversi esecutori, nessuno dei quali incarnava per totalmente ed esaurientemente il \ personaggio. Quest'ultimo parlava come un fascio di voci reciprocamente . intrecciate e inestricabili, impedendo l'identificazione con singole sue componenti. Nel canto a solo era invece immediata la sovrapposizione di in- ' terprete e personaggio: se a dire io era un solo esecutore, fin troppo agevole - anche non volendo - risultava far aderire la maschera al volto. Rispetto al mondo degli intermezzi (o per meglio dire, di quegli elabo- ; ratissimi e spettacolari intermezzi tutti in musica che in qualche occasione . speciale farcivano rappresentazioni solenni di commedie o tragedie parlate), i nuovi esempi di teatro interamente cantato differivano per pi di un aspetto. Le immagini mitiche illustrate negli intermezzi avevano pi che altro il carattere del tableau vivant, epifanie di questo o quel personaggio - preferibilmente, di gruppi di personaggi - con sviluppi rappresentativi minimi o nulli. Quelli fiorentini del 1589 ne danno eccellente esempio. Se il terzo (Apollo che interviene contro il mostruoso Pitone) e il quinto (Arione get- ; tato a mare dai pirati, e salvato miracolosamente da un delfino) contengo- * no nuclei drammaturgici modesti ma almeno in divenire, gli altri si offrivano precipuamente come un seguito di apparizioni concatenate col solo obiettivo della variet. Ne risultavano sequenze visive e sonore di breve durata (ogni intermezzo occupava suppergi un quarto d'ora), senza reale storia, con netta prevalenza delle esibizioni collettive - e dunque polifoniche - ; su quelle individuali. Il nascente teatro musicale mirava invece a fini dissimili da questi: inscenare vicende che, magari brevemente, si dipanavano per lungo una direttrice drammatica, e soprattutto rappresentarle impiegando i modi del canto a solo [cfr. Fabbri 1995]. solito, e anche piuttosto diverso dal consueto. Si trattava di una proso- pea intitolata La rappresentazione di Anima et di Corpo, per il quale il suo tore Emilio de' Cavalieri, nel frattempo ritornato a Roma, aveva deciso ^ adoperare su larga scala le medesime modalit di recitazione cantata sag- *f te nelle proprie scenette pastorali fiorentine. Nell'autunno, a Firenze, le ite per le nozze di Maria de' Medici con Enrico IV re di Francia videro __'ancor pi solenne affermazione del nuovo ritrovato. Il 5 ottobre il con- 'to reale allestito nel salone
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dei Cinquecento a Palazzo Vecchio ebbe per ^"termezzo un Dialogo cantato [...] da Giunone e Minerva steso da Battista Guarini e musicato dallo stesso Cavalieri; il .6 ottobre, a Palazzo Pitti, Iacopo Corsi offri agli sposi L'Euridice, una rappresentazione mitologica di ambiente pastorale di Ottavio Rinuccini, intonata da Iacopo Per; il 9 ottobre al Teatro degli Uffizi si diede un'altra sceneggiatura mitologico-pa- torale, Il rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera e musiche di Giulio Cacni, supplementarmente arricchita con intermezzi essi pure in musica [cfr. Battoli Becherini 2000; Bellina 1984; Decroisette, Graziani e Heuil- lon 2001; Gargiulo 2001; Solerti 1904; 1905]. Conosciuto cosf da una cerchia ben pi vasta, ulteriormente allargata con la diffusione a stampa - intera o parziale - di alcuni di quei primi suoi ; titoli, il teatro tutto cantato iniziava la propria vita fatta di qualche ripro- - posizione, e soprattutto di nuovi spettacoli. Talora essi nacquero con l'evidente intenzione di emulare le novit esibite dalla corte medicea, come nel ca- : so delle realizzazioni promosse dai Gonzaga a Mantova privatamente nei carnevali 1607 {La favola d'Orfeo, di Alessandro Striggio e Claudio Monteverdi) e 1608 (La Dafne, con nuova musica di Marco da Gagliano), e per gli invitati forestieri nel corso delle feste nuziali allestite in quello stesso 1608 per il matrimonio del principe ereditario Francesco con Margherita di Savoia. Esse contemplarono: il 28 maggio la tragedia Arianna di Rinuccini e Monteverdi; il 2 giugno la commedia parlata L'idropica di Guadili con intermezzi di Gabriellp Chiabrera musicati da vari compositori; il 3 l'introduzione e le comparse in musica per un torneo; il 4 il BaUo delle Ingrate di Rinuccini e Monteverdi; il 5 ancora un ballo con introduzione cantata, Il sacrificio di Ifigenia di Striggio e musicista ignoto [cfr. Fabbri 1985]. Cosi come nella scelta dei soggetti prevalse di gran lunga l'opzione mi- ' tologica e pastorale, restando eccezione quella allegorica [cfr. Fabbri 1990], per il loro trattamento non si derog mai - n allora n in seguito - dall'uso del verso, e conseguentemente dalle possibili organizzazioni metriche offerte dalla tradizione letteraria italiana. La "normale" comunicazione tra 'personaggi (dialoghi), e dei personaggi col pubblico (monologhi: riflessioni interiori fatte ad alta voce), venne affidata a quel registro di conversazione ed espressione "media" ampiamente sperimentato nel teatro parlato, e costituito dai cosiddetti "versi sciolti": endecasillabi in versione intera, o ridotta a una sola delle sue componenti interne (il settenario, ben pi raramente il quinario), non legati da schemi di rima (vincoli del genere potevano qua e l sussistere, ma non erano assolutamente tassativi, n tantomeno prevedibili). L'intenzionale e saltuario abbandono di tale registro, ottenuto con tecniche varie e magari simultanee (griglie di rime, stroficit, materiali ricorrenti, metri diversi da quelli richiesti dai versi sciolti), era giustificato da situazioni drammaturgicamente particolari: prologhi, cori, canti, balli, racconti, preghiere, aforismi morali, espansioni liriche. Metrica e morfologia erano ovviamente quelle della tradizione letteraria colta: endecasillabi e settenari - distinti, o combinati tra
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loro - organizzati in terzine, quartine (la cosiddetta "ode"), ottave, sestine, canzoni e canzonette [Fabbri 1988; Leopold 1978]. Di recente, quella tavolozza si era arricchita grazie alle invenzioni della lirica anacreontica, modellata anche su coeve esperienze francesi, di cui Gabriello Chiabrera era il campione in Italia. Vi s'impiegavano con favore versetti corti come il trisillabo e il quinario, e preferibilmente versi parisillabi a forte accentuazione (ottonario, quadrisillabo, se- nario, perfino il decasillabo), sia in agglomerati omogenei sia in strofette eterometriche [cfr. Fabbri 1988; Fabbri e Pompilio 1983; Leopold 1981]. 2. La monodia : parlar cantando e cantare ad aria. Come si detto, risorsa tecnica fondamentale al servizio di questo progetto fu quel tipo di canto a voce sola che, pi o meno nel medesimo giro d'anni, l'erudito Giovan Battista Doni designava grecamente come monodia. Essa prevedeva che l'interprete desse voce singola e individualizzata alle parole del personaggio, poggiando saldamente su di un costante sostegno strumentale (basso continuo) essenziale o arricchito, con funzioni di basamento armonico: se opportunamente coeso quanto a condotta melodica, quest'ultimo poteva per prestarsi anche a una lettura in dimensione contrappuntistica, costituendo pur sempre una "voce" (strumentale) che continuamente interagiva con la parte del canto. L'incarnazione del personaggio si attuava dunque attraverso le tecniche della monodia accompagnata, declinate variamente a seconda della situazione scenica. Base dell'imitazione per questo quasi che in armonia favellare, come dir Giulio Caccini nella prefazione alle sue Nuove musiche (Ma- rescotti, Firenze 1602), erano le intonazioni e i ritmi presenti nella voce parlante, che gi Mei aveva suggerito di studiare attentamente e di prendere a modello. Nella prefazione a Le musiche [...]sopra L'Euridice, Iacopo Peri mette a fuoco alcuni punti da lui tenuti fermi quando aveva preso a musicare La Dafne: l'aspirazione a un canto "parlante", che si collocasse a mezza strada fra la voce cantata e quella parlata sia per l'aspetto ritmico sia per quello in- tervallare; la registrazione, amplificata, dei profili sonori via via assunti dalli voce di un individuo in preda a questa o quella emozione, i Suggestionato dall'atmosfera erudita e classicheggiante dei dibattiti del- - "camerata" Bardi, nella citata prefazione a Le nuove musiche Caccini indicava come il linguaggio musicale constasse di favella, ritmo, suono, secondo un ordine gerarchico che privilegiava le componenti tipiche anche del discorso parlato. Per il compositore che intonava versi, risultava indispensabile una preventiva valutazione metrica del testo poetico, in modo jda attribuire valore appropriato alle sillabe: quelle accentate erano da considerare generalmente "lunghe", e "brevi" le atone. Particolare attenzione doveva essere posta anche nell'evitare la dilatazione di queste ultime con inopportuni vocalizzi (passaggi) puramente esornativi, cercando piuttosto di sottolineare la
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preminenza strutturale delle altre magari abbinandole a consonanze col basso continuo, come si poteva leggere del resto anche nelle riflessioni teoriche di Peri. Caccini precisava ulteriormente i suoi obiettivi nella dedicatoria della sua Euridice (Marescotti, Firenze 1600) laddove dichiarava di aver perseguito una certa sprezzatura (quella leggiadria la quale si d al canto co'l trascorso di pi crome e semicrome sopra diverse corde), mediante la quale a suo avviso si era appressato quel pi alla naturai favella [Solerti 1903]. Una simile monodia recitativa, originata da un'intenzione di massima aderenza al profilo metrico - ma con le significative eccezioni notate - e appoggiata alla non periodicit dei versi sciolti, voleva dunque proporsi come un'amplificazione del parlato. Insieme, per, restituiva anche la dimensione cronologica rettilinea che gli era propria: la stesura in versi nobilitava - gi di per s il registro del semplice parlato; in sovrappi, la sua declamatone ulteriormente rallentata nel canto gli conferiva una pompa e un'enfasi che per dilatavano, non ristrutturavano, il tempo reale necessario al disbrigo della componente verbale. Diverso era il caso per ogni anche episodico discostarsi da quella situazione. Quest'ultimo lo si poteva ottenere organizzando quei medesimi metri per mezzo di parametri periodici (mo- 1 duli strofici, particolari assetti di rime, impieghi di versi-refrain), o addirittura facendo uso di misure meno "prosastiche" (cio tutte quelle diverse ; dagli sciolti): dal punto di vista musicale, un effetto analogo lo sortiva ogni momentaneo abbandono sia del canto a voce soia in favore di episodi a pi voci, sia della monodia disinvoltamente asimmetrica a pr di costruzioni scagnate da interne periodicit e riprese. Nel primo caso, possiamo dire che l'egemonia la deteneva il sistema comunicativo verbale, ovviamente nella sua variante poetico-letteraria. Nel ! secondo, il rapporto era ribaltato, e i parametri musicali tendevano a prendere il sopravvento. Trattandosi per di parola e musica in dimensione rappresentativa, le due situazioni generano anche differenti prospettive temporali. Spostando l'asse del rapporto poesia-canto verso il polo musicale, e allontanandosi dal principio dell'imitazione del parlato per imboccare o meno risolutamente la via del canto, ci si distanziava anche da una res tuzione cronologicamente "realistica" del testo letterario, per introd convenzioni e strutture temporali artificiose: come tali, bisognose di suef azione e accettazione da parte di spettatori in dimestichezza invece c gli ideali di verosimiglianza del teatro parlato [Fabbri 1995]. Per strutture conchiuse analoghe a quelle descritte, la musica vocale da ballo del Cinquecento aveva fatto uso del termine di "aria": e "ai "ariette") tali pagine furono designate anche all'interno dei testi canta Neil'Euridice, per la seconda stanza del lieto imeneo di Tirsi Nel p ardor della pi bella stella, Peri infatti prescrisse: Si replica sopra la desima aria. Come sinonimo di

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"aria", lemma di origine musicale, ve: ben presto impiegato anche quello di provenienza letteraria "canzone^ "canzonetta" [Leopold 1978]. Agli albori del teatro musicale, proprio per le ragioni di abitudine municativa di cui s' detto, il ricorso a strutture di questa natura si ve fic pi che altro in alcuni momenti fissi: nei prologhi, affidati a un sonaggio che intona le strofe di una cosiddetta ode oraziana (le parti pervenuteci stampano il solo modello melodico della prima stanza, da plicare con eventuali minimi adattamenti alle successive, e il ritornello s mentale da intercalarvi), e nei cori che suddividono una scena dall'altra concludono gli atti (essendovi il coro di continuo partecipe, la Rappresi tazione di Anima et di Corpo affida questo ruolo di chiusa a "sinfonie" s mentali). Gli interventi corali erano in genere strofici, e magari stesi condo i nuovi dettami della poesia anacreontica: a versi brevi, spesso risillabi, con schemi d'accento molto evidenti e regolari (un esempio, prima strofe di quello finale da L'Euridice: Biondo arder, che d'alto m te I aureo fonte I sorger fai di si bell'onda, I ben pu dirsi alma felice pur lice I appressar l'altera sponda). Trattandosi di entit collettive* compositore poteva renderli credibilmente in polifonia - omoritmica lopi, ma non mancano spunti d'imitazione -, con soluzioni anche solis co-corali in cui gli interventi a pi voci potevano figurare in funzione sponsoriale. Accanto a queste, anche altre situazioni ricevono una configurazio analogamente chiusa e un trattamento musicale adeguato: stroficit, pr lo melodico caratterizzato, basso continuo coerente e incalzante. Col co solidarsi del genere, esse anzi assumeranno il valore di luoghi topici: Tesi zione vocale, l'effusione festosa che spinge al canto (nell'Euridice, l'invi di Orfeo Gioite al canto mio, selve frondose) e la dichiarazione sent ziosa (nella Dafne, le terzine di Apollo Non curi la mia pianta o fiam gelo). Sempre nell'Euridice, il verso-refrain Lagrimate al mio pianto, 0 bre d'Inferno tripartisce asimmetricamente - il "lamento" di Orfeo neste piagge, ombrosi orridi . ir^oi, introducendo un elemento di per 't ed eufonia gi verbali in un contesto di versi sciolti declamati (come lunghi monologhi di "racconto": un altro topos di questi primi drammi, iato dal teatro parlato e classico). Quanto alle citate terzine giubilanti rfeo Gioite al canto mio, selve frondose, la loro collocazione dram- tica essenziale. Esse annunciano il ritorno del protagonista dopo l'in'one - fausta, in quanto per esigenze di circostanza Rinuccini aveva mo- cato il mito imponendogli un lieto fine - nell'Oltretomba a recupera- Euridice. La ricomparsa di Orfeo in scena riceve cosi un rilievo pi che ario: per una volta, il suo canto nasceva da un irrefrenabile moto in- 'ore, piuttosto che da un altrui invito a esibirsi. Il campo dell'effusione ca sar una delle situazioni teatrali che il cantar recitando in breve pre- er. 3. Il maestro di cappella e il compositore teatrale. Proprio trattandosi di poesia e musica drammatiche, efficacia partico- dimostrarono i compositori che seppero sfruttare in dimensione squi- ente scenica le risorse che l'una e l'altra mettevano a loro disposizio- ..Anche da questo punto di vista, nei primi decenni del Seicento
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sui con- poranei si staglia la figura di Claudio Monteverdi (1567-1643) [cfr. ri 1985; Gallico 1979]. Fu all'epoca del suo servizio presso la corte aghesca a Mantova (1590/91-1612) che Monteverdi ebbe modo di cintarsi per la prima volta negli inserti musicali del teatro parlato, nelle e di spettacolo anche musicale, e infine nel teatro tutto cantato. Di ta sua attivit, interamente superstiti risultano al momento solo La fa- d'Orfeo (1607, stampata nel 1609) e 11 ballo delle Ingrate (1608, ma pub- ato solo nel 1638, e con adattamenti: dell'Arianna di quel medesimo conosciamo invece il solo celeberrimo Lamento). Come Rinuccini, an- Alessandro Striggio - l'autore del testo letterario - sceneggi il mede- mito di Orfeo ed Euridice, ma imprimendogli una pi spiccata e in- a teatralit. Si confrontino le due diverse rese di una situazione cru- 'e, cio l'annuncio della morte di Euridice e la reazione di Orfeo. In uccini sopraggiunge la nunzia Dafne, che racconta come Euridice, men- danzava cogliendo fiori in un prato, morsicata da un serpente velenoso a poco era spirata tra le braccia delle amiche: impietrito, Orfeo se ne dapprima muto, poi d voce a un lamento e abbandona la scena. Sar ico Arcetro a raccontarne la successiva disperazione, e l'apparizione ex mhina di Venere; e Aminta narrer in seguito il suo fortunato ritorno 'Oltretomba insieme alla sposa rediviva. Striggio fa invece irrompere ia, che sopraggiunge a turbare i divertimenti canori di Orfeo e dei pa- e prima d'iniziare la propria narrazione comunica la terribile notizia iando tutti sgomenti. Muto per tutta la durata del racconto, al termine di quest'ultimo Orfeo erompe in una pateticissima allocuzione all'amata, maturando a vista la decisione di affrontare la discesa agli Inferi. Pure agito sotto gli occhi degli spettatori, e non classicamente raccontato da un nunr zio, sar il movimentato ritorno dal mondo sotterraneo, con la drammatica perdita di Euridice. A un taglio letterario gi di per s pi mosso, si aggiungano appunto alcune soluzioni monteverdiane d'indole spiccatamente teatrali. Nell'atto I i canti e le danze di Orfeo, dei Pastori e delle Ninfe si allineano secondo uno schema a specchio che restituisce l'idea di un brillante quadro vivente festivo alla maniera degli intermezzi: ne fuoco centrale l'allocuzione di Orfeo Rosa del ciel, vita del mondo e degna; gli fanno prima e dopo simmetrica corona sia il coro danzato Lasciate i monti, sia l'invocazione nuziale Vieni, Imeneo, deh vieni. Con efficacissimo contrasto, nell'atto II alle melodiose strofe e ai canti periodici degli ignari Pastori e di Orfeo in gara felicemente canora si oppongono di li a poco i funebri versi sciolti e gli accenti prosasticamente recitativi di Silvia, messaggera della morte di Euridice. Oltre che sfruttando le architetture musicali chiuse contro la declamazione "aperta", Monteverdi restituisce vividamente il senso di un'opposizione anche ricorrendo ad altri parametri musicali. Un medesimo ritornello strumentale connota l'apertura del sipario sulla scenografia pastorale dell'atto I, e il ritorno al medesimo ambiente, dopo gli atti collocati nell'Oltretomba (III e IV), al principio del V. Tacciono li cornetti, tromboni et regali, - prescrive la relativa didascalia, - et entrano a sonare il presente ritornello le viole da braccio, organi, clavicembali,
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contrabasso, et arpe, et chitaroni, et ceteroni, et si muta la sena: vale a dire, spariscono gli strumenti a fiato, di tessitura grave, di sonorit forte e pungente, che avevano reso l'atmosfera sonora spaventevole degli Inferi, e ritornano in azione i timbri gradevoli e dolci che meglio si confanno al luminoso mondo pastorale. Ugualmente tornano, nei cori, le voci acute- dei soprani, accantonate in favore di quelle medie e gravi, con le loro tin- ; te scure, pi adatte ad associarsi ai cupi abissi sotterranei. L'opposizione gioia-lutto, nell'atto II, resa anche dall'individuazione timbrica degli stru? menti che sorreggono le parole del Pastore (un clavicembano, chitarone e viola da braccio) e quelle di Silvia (un organo di legno e un chitarone), il cui organico fatto proprio anche da Orfeo e dai Pastori per i loro compianti. Nell'atto III, Caronte si oppone al passaggio di Orfeo anche a livello d'accompagnamenti: al di lui organo di legno, controbatte al suono del regale. La scena di Orfeo con Eco, nell'atto V, implica una distri-, buzione anche spaziale dei gruppi di basso continuo. Nella citata scena dell'arrivo della messaggera, nell'atto II, la disparit di stato d'animo tra Sii-, via da un lato, i Pastori e Orfeo dall'altro, resa in modo stridente anche opponendo con violenza l'ambiente armonico fermamente attribuito agli uni e all'altra. ; 4. Caratteri e diffusione del teatro cc-.i o. Nei suoi primi decenni di vita, il teatro cantato rilutta a lasciarsi in- ruadrare in quelle categorie e schemi interpretativi consolidatisi nei perio- li a seguire, e poi divenuti canonici [cr. Fabbri 1995]. Cronologicamente, la fatto comodo la cifra tonda dell'anno 1600, assegnando a una speri- nentale preistoria dell'opera le realizzazioni degli anni Novanta: L'Euridi- te d'ottobre stata indicata come il capostipite del nuovo genere (e perch ton La favola di Dafne ? solo perch non ci pervenuta nella sua totalit ?), nentre alla precedente Rappresentazione di Anima et di Corpo si riserbato 1 titolo di progenitrice dell'oratorio, npn parendo consono al venturo drammi musicale discendere da una moralit scarsamente drammatica. Ma protrio in quanto cognizioni comuni e assodate, la loro legittimit non pu ri- ultare scontata. E come dev'essere sviluppato un nucleo drammatico per toterlo includere negli esempi di teatro cantato ? ne faranno parte tutte pelle numerose occasioni di spettacolo che si sostanziarono in comparse di naschere monologanti o dialogiche, brevi intermezzi conviviali, carri allegrici con gruppi figurati, entres e presentazioni di danzatori? E se queste iaranno reputate inadatte, perch drammaturgicamente troppo esili, la stes- a condanna si applicher ad "azioni drammatiche" un tantino pi commesse quali ad esempio II Reno sacrificante di Ridolfo Campeggi con musile di Girolamo Giacobbi (Bologna 1617) ? L'Aurora ingannata - dovuta al- a medesima coppia -, che venne proposta per la prima volta a Bologna nel 1605 smembrata e utilizzata tra gli atti di una pastorale recitata parlando llFilarmindo del medesimo Campeggi), andr considerata un intermezzo sul ipo di quelli del 1589 o un'opera in musica? In
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un'ideale storia del teatro (rosicale, a chi toccher occuparsi di prodotti come II ballo delle Ingrate di linuccini e Monteverdi (Mantova 1608) ? Allo storico della musica ? A quel- 3 della danza ? E per la competenza sulla festa d'arme e di ballo Le fonti l'Ardenna (Firenze 1623) entrer in lizza anche lo storico dello spettacolo ? E forse pi saggio non lasciarsi coinvolgere in simili bizantinismi. E non olo per evitare d'impelagarsi in distinzioni di cui non agevole venire a apo, ma perch l'operazione stessa pare poco produttiva: senza dire che riulta metodologicamente assai dubbia una procedura mirante a setacciare i ari prodotti alla luce di assestamenti e griglie di lettura cristallizzatisi so- ) pi avanti. Altra cosa porre a fuoco e segnalare la diversit di destinabili, modalit teatrali, autonomia, grado di articolazione ed elaborazione tei nuclei drammatici, concorrenza di linguaggi, finalit, cui le tecniche del eatro tutto cantato furono di volta in volta applicate. Tutto ci andr no- omizzato con puntiglio: non per in omaggio alla cavillosa e necrofila per- ersione di ridurre il mondo a tassonomie di comodo, utili all'accademica (produzione degli studi, ma molto meno alla decifrazione della realt.

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Melampo, che fin da ragazzo conosceva il linguaggio degli uccelli e in seguito diverme re di Argo. Nelle sue diverse formulazioni macedoni e greche il mito di Orfeo conserva pertanto il ricordo di un'organizzazione sociale arcaica, nella quale i giovani percorrevano le campagne della Piena sotto la guida di un poeta-cantore. Fenomeni paralleli al di fuori dell'ambito ellenico si riscontrano in altre culture indoeuropee, ad esempio nel mondo iranico e in quello celtico, dove il giovane Finn, protagonista di un ciclo risalente al XII secolo, capeggia una banda di coetanei usa a trascorrere il tempo nella campagna irlandese vagando e cacciando; la sua poesia, che tratta della natura o di personaggi e luoghi soprannaturali, appare sovente intessuta di oscuri versi profetici. Analoghe brigate di adolescenti nomadi, destinati a far parte del seguito del re, si incontrano nella tradizione germanica, con il sostegno di Tacito il quale accenna al fatto che i rampolli nobili di tale paese, superate le cerimonie di iniziazione, erravano per anni al servizio di diversi capi e solo in un secondo tempo sceglievano di aderire a un modello di vita stanziale; confronti interessanti possono essere altres istituiti con la peregrinano academica degli studenti universitari medievali (i cosiddetti clerici vagantes) e con gli spostamenti cui erano costretti nella stessa epoca tanto i cavalieri di bassa estrazione quanto gli artigiani delle gilde. Neil'ormai storico saggio La musique et la magie (1902), jules Combarieu non manca di accostare la leggenda di Orfeo a quelle di Krishna-Govinda che custodisce le greggi del pastore Nanda suonando il flauto, dell'imperatore cinese Fou-Hi, il quale avrebbe fissato le regole della musica "per domare le bestie feroci e per far regnare la concordia tra i funzionari", e del bardo finlandese Vainamtinen, "l'inventore dell'arpa nazionale a cinque corde, capace di far cadere in estasi tutto ci che la musica raggiunge".2 L'attributo musicale tipico di Orfeo la lyra. Le fonti letterarie sono concordi nel sottolineare il carattere etico dello strumento, costruito secondo la leggenda da Hermes che l'avrebbe ricavato tendendo alcune corde di minugia sopra un carapace di testuggine (chelys) e successiva- ; mente donato ad Apollo come risarcimento per avergli rubato una man- r dria di vacche. Simile ad altri cordofoni a pizzico quali la kithara, la phortninx r. ("kithara a culla") e il barbitos, con i quali risulta spesso intercambiabile gi nelle fonti antiche, esso si compone di una cassa di risonanza (echion) e [di due lunghi bracci ricurvi (chiamati pcheis o anche krata = corna) che 4 reggono un giogo trasversale per le corde (zygn); queste ultime, generalmente di budello ritorto, appaiono fissate alla base tramite una cordiera (chordtonon), sollevate da un ponticello arcuato (mags) e assicurante alla traversa superiore mediante corregge di cuoio munite di caviglie girevoli (kllaboi) allo scopo di regolarne la tensione. Il nome lyra attentato per la prima volta nel terzo inno omerico dedicato ad Hermes e vrso la fine del VII secolo ricorre anche in Saffo (framm. 103). Dotata in
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origine di quattro corde che venivano pizzicate con la mano sinistra e Sollecitate con una lamina di osso o di avorio (plektron) tenuta nella destra, essa vide salire il loro numero a sette (denominate rispettivamente hypate, parhypale, lichanos, mese, paramese, trite, paranete) grazie a Terpandro, mentre scarso seguito ebbe l'incremento a dodici, intonate in base al genere enarmonico, introdotto da Timoteo di Mileto, sicch nel periodo classico il tipo pi comune mantenne la tradizionale armatura a sette corde intonate su due tetracordi discendenti congiunti, in un registro che corrispondeva sostanzialmente a quello medio della voce umana. Il rilievo conferito nella pittura vascolare ad Orfeo come suonatore di chelys-lyra trova un parallelo in letteratura in un'allusione contenuta nei Persiani di Timoteo (fine V - inizio IV sec.), che fa del musicista l'inventore dello strumento; la scelta da parte del poeta del termine "chelys" rappresenta una deviazione dalla versione pi consueta secondo la quale fu Hermes a costruire la lyra a guscio di testuggine. Ad Orfeo pu essere talora associato un altro membro "esotico" della famiglia della lyra, quello noto come "kithara di Tamiri", inventato forse per il teatro, dal momento che sui vasi compare spesso la versione drammaturgica di un mito.3 In uno dei cinquanta pannelli di un grande mosaico di et bizantino-alessandrina scoperto nel 1957 a Qasr Lybia in Cirenaica (fig. 7), Orfeo imbraccia un cordofono dal lungo manico, munito di quattro grandi piroli e di due alucce atrofizzate che si protendono dalla cassa armonica: Emmanuel Winternitz ha creduto di individuarvi lo strumento di transizione tra l'antica kithara e la futura cetera, ampiamente documentata nelle fonti letterarie e figurative rinascimentali.4 Il movimento religioso che da Orfeo prende il nome, Yorfismo, nasce nel VI secolo a. C., epoca di vistose trasformazioni sociali, e segna la fine del cosiddetto medioevo greco, situabile tra il crollo delle antiche monarchie e il sorgere degli stati democratici di cui Atene ci fornisce l'esempio pi probante. In un periodo storico caratterizzato da profonde inquietudini, il nuovo culto rappresenta l'anelito all'emancipazione da un regime di oppressione e di violenza, il rifugio degli spiriti nobili che promette ai suoi adepti conforto nel presente e libert nel futuro: per questo motivo il dio straniero Zagreus, figlio di Ade e perci nume di carattere ctonio, ingiustamente fatto a pezzi e divorato dai Titani quindi rigenerato da Semele sotto le nuove spoglie di Dioniso, viene preferito alle divinit dell'Olimpo care alle vecchie aristocrazie guerriere cantate da Omero. L'ideologia orfica costituisce una sorta di "ingentilimento" del primitivo rito dionisiaco, che prevedeva tr l'altro l'omofagia, intesa come rappresentazione simbolica della tragica morte del dio oppure di quella non meno cruenta di Orfeo. Incentrata sul desiderio di giustizia (dike) e sul rispetto della legge j[nomos), essa consiste in una serie di gesti purificatori volti a liberare l'anima dalle pastoie della materia: dopo una vita ascetica improntata alla piet, all'estasi e a un regime rigorosamente vegetariano, l'iniziato sapr^ cos orientarsi negli inferi e uscire dal ciclo delle
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rinascite, ritrovando la sua natura divina. Nel V secolo, soprattutto nella Magna Grecia, i circoli orfici si mescolano sovente con quelli dionisiaci e con elementi tratti dai misteri eleusini, dando luogo a forme ibride di "baccheggiamento". Dioniso garantisce l'evasione dal vivere civile e ' mondano e i riti della possessione assicurano ai purificati una via d'uscita dalla penosa condizione umana.5 Se la ceramica attica sembra prediligere la storia di Orfeo che canta per gli uomini e quella della sua uccisione da parte delle donne trace (queste ultime impugnano in genere coltelli a forma di falce che rimandano a un probabile rito di fertilit), i manufatti magnogreci illustrano soprattutto il viaggio ultraterreno compiuto allo scopo di riscattare Euridice, cos come ci mostra un cratere a ; mascheroni del IV sec. conservato presso il Museo Nazionale di Matera (fig. 1): al centro campeggia un tempietto con Ade e Persefone, a sinistra ; Ade e gli Eracliti ed Ecate con le fiaccole, a destra Hermes con il caduceo e Orfeo in abiti orientali con la lira; nel registro in alto si vede una qua- . driga guidata da Nike. Secondo alcuni studiosi anche questo motivo troverebbe puntuali riscontri in altre culture e in particolare in una tradi- zione di racconti degli indiani d'America basati sulla discesa nel mondo dei morti di un personaggio, generalmente di sesso maschile, al fine di riportare sulla terra un parente defunto, ma si tratta probabilmente di una semplice convergenza. In ogni caso lecito supporre che proprio sull'episodio della katabasis si fondi il passaggio dalla figura di Orfeo ' cantore a quella di poeta-sciamano avvenuta forse intorno al VI-V secolo, tenendo presente che anche i Pitagorici, con i quali gli Orfici presentano numerosi punti in comune, conferivano grande importanza al viaggio nell'oltretomba compiuto dal loro nume tutelare. Nella pittura vascolare italiota, tuttavia, il tema sembra assumere una sfumatura del tutto particolare: la presenza di Orfeo negli inferi non appare infatti motivata dalla sua missione di riscattare la sposa, in quanto solo occasionalmente quest'ultima compare di persona. Tale assunto ci viene confermato da una serie di immagini apule per le quali non esistono vere e proprie cor- ; rispondenze in altre regioni del mondo antico: si tratta presumibilmente di vasi funerari, come l'anfora con Orfeo e un defunto attribuita al Pittore di Ganimede attualmente allogata a Basilea presso il Museo di Antichit ' (fig. 2), che sembra tradire l'intenzione di rappresentare l'eroe avulso dal suo mito personale, facendone un semplice intermediario dei mortali presso i signori del mondo sotterraneo e un portatore di speranza per i suoi seguaci. Un rilievo marmoreo conservato nel Museo Archeologico .Nazionale di Napoli, copia di un originale greco del V sec. a. C. proveniente forse dall'Agor di Atene, rievoca l'addio di Orfeo alla consorte, che Hermes psicopompo sta per ricondurre nell^Ade (fig. 3). Non tutti gli archeologi concordano con l'interpretazione pi ovvia, sostenendo che potrebbe trattarsi non di un addio, bens della ricongiunzione definitiva dei due innamorati: un'antica variante del mito, del tutto differente da Quella tramandataci dalle
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fonti ellenistiche, riferisce infatti che Orfeo non fall nel suo intento, riuscendo veramente a riportare in vita Euridice in Virt dei poteri suggestivi della sua arte. Il motivo iconografico di Orfeo tra gli animali quello che ha avuto maggior seguito nella pittura romana: con la sua musica il cantore placa gli istinti selvaggi delle fiere che vengono a radunarsi attorno a lui e perfino le piante si chinano sotto l'effetto dell'emozione. L'articolazione di tale scena pu essere ricondotta a quattro tipologie fondamentali: a) Orfeo al centro e due gruppi di animali a destra e a sinistra (Leptis Magna); b) Orfeo circondato da animali allineati in ranghi sovrapposti, tutti con il muso rivolto verso il centro (Palermo, Oudna); c) animali separati tra loro e dalla figura centrale di Orfeo racchiusa in un medaglione mediante linee geometriche che suddividono lo spazio in singole partizioni (Rougaa, Vienne); d) animali disposti lungo il perimetro del pavimento tutt'intorno a Orfeo, con il dorso rivolto verso il centro dell'immagine (tale era originariamente Io schema di un mosaico, poi tagliato in riquadri, rinvenuto a Cagliari nel 1762 e attualmente conservato presso il Museo di Antichit di Torino).6 Dal Nord Africa alla Gallia, dalla penisola iberica al Medio Oriente, l'Orfeo dei pavimenti musivi ancora quello greco, a torso nudo drappeggiato da un himation nella parte inferiore del corpo e con la testa cinta di alloro, ovvero vestito al modo tracio, con tunica corta, stivali e berretto frigio (figg. 4-5). Nell'et tardoantica Orfeo tra le fiere, ipostatizzato in allegoria cristiana e letto pertanto come praefigura Christi, viene associato per analogia all'immagine del Buon Pastore erioforo o a quella di Davide pastore, con frequente sostituzione della lyra da parte del flauto policalamo (syrinx), tradizionale attributo del dio Pan (fig.6). Per semplice pseudomorfosi, tematiche specificamente cristiane paiono dunque derivare in linea diretta da formule schematiche classiche: nelle Catacombe di Domitilla o in quelle dei santi Pietro e Marcellino (II sec.) l'immagine neutra di Cristo-Orfeo, priva di qualsivoglia caratterizzazione in senso biblico, assume una nuova identit solo grazie al simbolismo messianico di cui viene investita. noto, tuttavia, che i Padri della Chiesa si opposero con insistenza a siffatti adattamenti; in particolare Agostino condannava l'utilizzo in senso apotropaico di soggetti desunti dall'immaginario pagano, come prova un mosaico rinvenuto a Oudna e conservato a Tunisi al Museo del Bardo, dove la testa del musico ierofante stata mutilata molto probabilmente dagli stessi africani convertiti, convinti che il tema non si conciliasse pi con la nuova religione: ci non toglie che Orfeo sia stato rappresentato in ambito religioso fino alla met (lei V secolo d. C. e anche oltre, talora accompagnato da un agnello o da una croce. L'impiego della musica come rimedio terapeutico contro la melancholia, suggerito per primo da Teofrasto e sviluppato in modo sistematico da Asclepiade, apparenta ulteriormente il mito di Orfeo alla storia di Davide,
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riallacciandosi alla teoria platonica degli effetti morali provocati dalle diverse armonie. La funzione esoreistica della sua arte musicale viene infatti a sovrapporsi a quella esercitata dal re d'Israele nei confronti di Saul di cui riferiscono la Bibbia e le fonti patristiche, ad esempio Isidoro a Siviglia nelle Etymologwe ("Excitos quoque animos musica sedat, sicut de avide legitur, qui ab spiritu immondo Saulem arte modulationis eripuit") e uido d'Arezzo nel Micrologus ("Item et David Saulis daemonium cithara itigabat et daemoniacam feritatem huius artis potenti vi suavitate frangebat"). osi come Orfeo aveva emendato il rituale dionisiaco dei suoi aspetti pi quietanti instaurando la civilt dei costumi, Davide ristabilisce attraverso la musica l'armonia precedentemente infranta tra soma e psych, ""esso di quella macrocosmica mantenuta in equilibrio costante dal isto-Logos. L'accostamento della figura di Davide a quella di Orfeo ci documentato anche dalla cultura giudaico-ellenistica. In uno degli Teschi provenienti dall'antica sinagoga di Dura Europs sull'Eufrate sec. d. C.), oggi al Museo Nazionale di Damasco, Orfeo seduto nel- tteggiamento" consueto del citaredo in compagnia di una scimmia e di leone: ora, se una composizione di questo genere poteva figurare punemente nel pannello centrale che decorava il muro al di sopra ella nicchia destinata a contenere la legge mosaica, ci significa (a parte Evidente infrazione delle prescrizioni riguardanti l'aniconismo, fatto, esto, che coinvolge tutto il programma decorativo del sito archeologi- '") che il leggendario cantore gi da tempo si confondeva agli occhi dei "eli con l'immagine di Davide. La versione del Salmo CLI riportata da * dei rotoli rinvenuti nella grotta di Qumran sul Mar Morto ci conferma che l'essenismo (una setta influenzata dal mazdeismo ma soprattut- dal neopitagorismo, in modo da far supporre che si sia evoluta sotto influenza dei misteri orfico-pitagorici) aveva arditamente trasformato il biblico in un cantore cos abile da smuovere le montagne ed ammaliale creature dell'aria. Se l'Orfeo giudaizzato altri non dunque se non vide, per la propriet transitiva l'Orfeo cristianizzato Cristo stesso, cui parola amorosa in grado di guarire tutti i peccati: il Davide-Orfeo elSalterio esseniano ha preceduto, preparato e pre-formato l'immagine el Cristo-Orfeo presente negli ipogei romani. Anche alcuni testi eorani- 1 medievali fanno riferimento ai poteri taumaturgici di Davide. Il croni- Tabari, vissuto nel IX secolo, cos commenta la sura XXXIV: "Si rac- nta che quando il re Davide recitava i salmi, le belve si avvicinavano a ' tanto che le si sarebbe potute afferrare per il collo; ed esse erano tutto ecchi per ascoltare la sua voce"; il passo non poi cos dissimile da elio virgiliano (Georgiche IV, 510) dove si dice che Orfeo "affascinava tigri e trascinava le querce col suo canto" e da un altro ovidiano 'etamorfosi X, 143-144) in cui leggiamo che l'eroe "stava seduto in :zzo a un cerchio di bestie feroci e a una moltitudine di uccelli e persile rocce lo seguivano". Pi puntuale ancora'appare il riferimento al to biblico contenuto nella versione persiana della medesima cronaca: io aveva dato a Davide una
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bella voce, cosicch cantava i salmi con iodie cos belle che nessuno ne aveva mai ascoltate di eguali. Ora, 'and Davide cominciava a cantare le lodi del Signore, gli uccelli del "lo venivano a posarsi attorno al suo capo e ascoltavano". La figura di Davide-Orfeo non estranea neppure al sufismo, vale a dire alla letteratura mistica islamo-iraniana. Cos scrive ad esempio Hujviri nel IX secolo: "Quando Dio fece di Davide il suo luogotenente, lo dot di una voce soave, e trasform la sua gola in un insieme di flauti e fece delle montagne i suoi messaggeri al punto che i monti e le pianure, gli animali feroci e gli uccelli venivano ad ascoltarlo, l'acqua cessava di scorrere e gli uccelli cadevano dal cielo". Come non riconoscere in una simile descrizione i tratti della leggenda greca? Anche Orazio ci rammenta che Orfeo "arrestava il corso dei fiumi", mentre Seneca scrive che il suo canto "faceva cessare il rumore impetuoso del torrente" e che "gli uccelli che solcavano il cielo, ascoltate le sue melodie, si lasciavano cadere traditi dalle loro stesse forze".7 Dopo un periodo di latenza relativamente lungo, il mito di Orfeo e la sua trasposizione in ambito figurativo ritornano prepotentemente in auge nella Firenze di Cosimo de' Medici.8 Secondo Marsilio Ficino le origini del platonismo andavano ricercate nell'antica filosofia pagana, rappresentata dagli insegnamenti di Ermete Trismegisto, Zoroastro, Orfeo e Pitagora; per lui e per i suoi contemporanei e successori (tra essi Pico della Mirandola e Cristoforo Landino) gli scritti ermetici, gli inni orfici, gli oracoli caldaici, le parole d'oro e i simboli pitagorici, considerati dagli studiosi moderni come prodotti apocrifi della tarda antichit, costituivano il nocciolo non solo della dottrina di Platone ma di tutta la teologia posteriore fino al Cristianesimo. Scriveva infatti Proclo (In Tieologiam Platonis, I, 4): "Fra i Greci ogni teologia scatur dalla dottrina mistica di Orfeo. Il primo fu Pitagora, al quale furono insegnati i santi riti degli di da Aglaofamo; poi venne Platone, che eredit l'intera dottrina concernente queste materie dagli scritti pitagorici e orfici". Ficino, che amava suggellare tale elenco con il proprio nome, descrive i vari tipi di "furo- res" che affliggono l'eroe: accanto al "furor poeticus" e al "furor myste- rialis", il "furor vaticinium" e soprattutto 1' "amatorius affectus";9 l'opinione condivisa da Pico della Mirandola, laddove afferma "omnibus his furoribus occupatum fuisse Orpheum libri testimonio esse possunt". Definendo "orfica" la cecit dell'amore supremo, Ficino e Pico alludono a un frammento di un poema perduto ("nel suo petto custodendo il veloce amore senza occhi"), noto unicamente attraverso citazioni neoplatoni- che: "chiudere gli occhi nell'iniziazione" spiega Ermia nel suo commento al Fedro "significa ricevere quei divini misteri non pi mediante i sensi, ma con la pura anima stessa"; anche Proclo confessa di "abbandonarsi alla luce divina e, chiudendo gli occhi dell'anima, a questo modo immettersi nell'ignota e occulta unit degli esseri".10

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Nel Rinascimento la figura di Orfeo assume sovente un significato politico, connesso con il concetto stesso di "armonia": venerato non pi soltanto come simbolo dell'amore coniugale e come vincitore della morte, egli diviene insiem'ad Anfione il legislatore per antonomasia e l'incarnazione della "concordia urbis".11 Ma quando Angelo Poliziano scrve la hda di Orjw i sogni della citt platorco-ficiniana sono gi stati spazzala dalle dolorose esperienze politiche della fine degli Anni Settanta: Sembra che la poesia stessa ormai per il Poliziano, al confronto con la ;!ta pratica, non sia che una bellissima illusione: Orfeo si illude col suo auto di vincere la morte che gli aveva strappato l'amata, ma la morte vece vince lei e gli sottrae Euridice che solo per un momento sembrala esser stata liberata dai suoi artigli per forza di poesia; e poi la morte tra- olge anche il poeta, prima ucciso nell'anima dal nero della disperazione ;~o ad imprecare all'amore e all'eterno femminino, e poi ucciso anche nel corpo dalle Baccanti". In un passo del Comento laurenziano il mito di Orfeo viene visto come fallimento nell'ascesa dall'imperfezione alla per- ezione, sulla scorta di un carme di Boezio (Consolato III, 12) in cui si pu scorgere un ammonimento a non volgersi verso il peccato: "Orfeo ... non sa superare il secondo livello nella scala dell'essere, e cio quello della vita activa o politica: sicch, rivoltosi verso l'inferno, piomba in un'esistenza dedita alle cose pi vili, toccando infine l'abiezione del peccato contro natura [...] e perdendo infine, nella lacerazione del corpo, ci che lo rendeva, come rende ogni uomo, immagine e similitudine di Dio".12 In Ovidio il rifiuto dell'amore muliebre viene presentato come fedelt alla memoria di Euridice e la conversione all'eros efebico appare indipendente dall'evento luttuoso, ma non dobbiamo perdere di vista il fatto che sul mito gravava ancora quell'interpretazione misogina e sessuofobica di matrice cristiano-medievale che la cultura umanistica si sforz di superare facendo della battaglia di Orfeo contro la morte un simbolo della sfida alle leggi e al tempo stesso della lotta per il recupero della sapienza antica. ] Pico della Mirandola 53 riprende la versione platonica del mito narrata nel Simposio, paragonando la sorte di Orfeo a quella di Alceste: "... Alceste .perfettamente am, che all'amato andare volse per morte, e morendo per amore fu per la grazia delli Dei alla vita restituita ... e questo n pi leggiadramente n pi suttilmente potea dichiarare Platone che per lo essemplo da lui addutto d'Orfeo, del quale dice che, desiderando anda: re a vedere l'amata Euridice, non volse andargli per morte, come molle e effeminato dalla musica sua, ma cerc modo d'andargli vivo, e perci dice Platone che non pot conseguire la vera Euridice, ma solo un'ombra e uno fantasma di lei gli fu demonstrato ...". Con quanto favore fosse i accolta tale dottrina nella cerchia medicea dimostrato da un altro passo del Comento laurenziano, in cui si legge: "Chi esamina pi sottilmente (queste cose) troverr il principio dell'amorosa vita proceder dalla morte, perch chi vive ad amore, muore prima all'altre cose. E, se lo amare ha in (s quella perfezione che gi
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abbiamo detto, impossibile venire a tale :perfezione se prima non si muore, quanto alle cose pi imperfette": Orfeo, per "non essere veramente morto", non pot giungere alla perfezione della felicit sua, di avere la sua cara Euridice".14 ;; A partire dal Quattrocento Orfeo viene raffigurato non pi con la lyra dei Greci, bens con strumenti moderni quali il liuto (come in un rilievo di Luca della Robbia destinato al campanile del Duomo di Firenze), la viola o la lira da braccio (figg. 8-9). Derivata dalla viella medievale, quest'ultima viene descritta per la prima volta da Lanfranco (Scintille di musica, 1533), il quale ne sostiene l'origine classica: "La Lyra adunque ... fu ritrovata da Mercurio di quatro corde sole a imitatione della Musica Mondana che ne i quatro elementi si considera. Et accresciuta da Chorebo Lydio et da Hyagni Phrigio et da Terpandro Lesbio: il qual a similitudine de i sette Pianeti le aggiunse la settima chorda: Hoggid medesimamente di sette chorde ordinata si vede". La lira da braccio, particolarmente amata nei circoli umanistici, si associava, cos come la cete- ra, al presunto recupero della pratica musicale ellenica e pertanto compare spesso nella pittura quale attributo simbolico dei grandi poeti e musicisti dell'antichit (Apollo, Omero, Arione, Anfione), oltre che nelle rappresentazioni allegoriche della Poesia, della Musica, dell'Armonia e delle Arti Liberali, in sostituzione della lira classica; il suo significato morale viene ribadito da Lilio Giraldi, che nel De Musis Syntagma (1511) la paragona al salterio suonato dal re Davide nell'Antico Testamento.15 E quasi certamente una lira da braccio la viola citata dal Castiglione in un celebre passo del Cortegiano ("Bella musica ... parmi il cantare bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto di pi il cantare alla viola, perch tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con molta maggior attenzione si nota, ed intende il bel modo e l'aria, non essendo occupate le orecchie in pi che in una sol voce"): i due termini, infatti, rimasero per lungo tempo intercambiabili, come provano le testimonianze del Vasari e del Galilei. In realt la lira da braccio differisce dalla viola propriamente detta per il numero delle corde (cinque, pi due bordoni non tastabili fuori del manico), la forma a cuore o a foglia del cavigliere con piroli frontali invece che a falcetto o a riccio con piroli laterali, i fori di risonanza a C in luogo di quelli a F, l'accordatura per quinte e il ponticello quasi piatto allo scopo di consentire la frizione simultanea di pi corde. L'iconografia documenta una graduale evoluzione del profilo della tavola armonica, che dal modello ovoidale arcaico pass successivamente a una fisionomia "a graffa" risultante dall'abbinamento di una vlta superiore allungata e di una inferiore, per acquisire infine una forma ormai prossima a quella del violino. La letteratura del Cinque e Seicento considera strumenti antichi tanto la "lira con l'archetto", ovvero la moderna lira da braccio, quanto la "lira topcata dal plettro", vale a dire la lira classica: "Il violino fu inventato da Orfeo, figliuolo d'Apollo, e di Calliope. Safo Erista Poetessa invent l'Arco con li crini di Cavallo e fu la prima che suonasse il Violino e Viola, come s'usa
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oggid" (Bernardi, Ragionamenti musicali, 1581): ci spiega la perfetta equipollenza dei due oggetti nell'iconografia dei vari miti legati ad Apollo, oltre che nelle illustrazioni dei trattati mitologici (Lilio Giraldi, De Deis gentium varia et multiplex istoria, 1548; Vincenzo Cartari, Le imagini dei Dei degli antichi, 1556; Piero Valeriano, Hyerogliphica, 1567) e nei repertori rinascimentali e barocchi (ad esempio negli Emblemata dell'Alciati o nel' Iconologia di Cesare Ripa). In un'incisione riportata dal Libro de msica... intitulado El Maestro di Luis Miln (1536), Orfeo raffigurato con la vihuela de mano, uno strumento fiorito nella musica d'arte spagnola del XVI secolo e strutturalmente identico alla chitarra coeva, con fondo piatto, cassa allungata con lievi rientranze laterali, foro di risonanza centrale e in qualche caso ^ltri periferici a forma di piccole croci, cavigliere rettangolare lievemente; flesso all'indietro con piroli posteriori. In concomitanza con la fortuna del tema orfico che si registra all'inizio del Seicento sul versante melodrammatico (si pensi alle due versioni dell'Euridice di Ottavio Rinuccini musicate rispettivamente da Jacopo Peri e Giulio Caccini, all'Orfeo di Claudio Monteverdi o a La morte di Orfeo di Stefano Landi), le grandi tele del periodo barocco riprendono i vari episodi della vita dell'eroe tracio ricercando attraverso la composizione effetti di suspense decisamente teatrali (figg. 10-11-12). In particolare, l'episodio dello sbranamento da parte delle Baccanti pu essere considerato una sorta di antitesi semantica di un altro tema caro all'immaginario barocco, quello dello scorticamento di Marsia: il combattimento musicale tra Orfeo e le Menadi, condotto a suon di tibie berecinzie, corni, timpani e grida selvagge sancisce infatti la temporanea vittoria del dio- nisiaco sull'apollineo, ribaltando l'esito dell'altro mitico agone in cui il ;suono "incivilito" della cetra era riuscito ad aver ragione del timbro ; sguaiato dell'auls.16 Forse sulla scorta delle considerazioni espresse circa un secolo prima da Silvestro Ganassi del Fontego, che nella Regola Rubertina (1535) accenna addirittura ad antichi marmi come fonte di infor- mazione circa l'esistenza degli strumenti ad arco presso i Greci e i Romani ("... pi volte io pensava qual fosse pi antico o il leuto o il violone per poter discrivere l'origine della cosa. Dil che parlando con pi persone fommi arricordato da uno haver visto nelle antichit di Roma una istoria di molte figure scolpite in marmoro, essergli una delle figure chefeveva in mano una viola d'arc simile a queste, et subito conobbe che'l fosse pi antico il violone che il lauto per l'autorit ancora cavata da Orfeo: non si dice che lui usasse il lauto, ma ben lo istromento di corde et arco che la lira, la qual conforme di corde et archetto come il violone"), i pittori propendono per un ulteriore aggiornamento organologico delle figure di Orfeo e del suo pendant biblico Davide, ponendo loro nelle mani il violino '(fig- 13). L'attributo musicale di Orfeo torner ad essere la lira nell'et neoclassica e romantica (fig. 14), quando il recupero del mito inteso come nostalgia di un tempo ricco di immaginazione e di civilizzazione e il vagheggiamento utopistico di un ritorno alla razionalit
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degli antichi tramite l'adesione alle leggi eterne della natura condurr a forme d'espressone artistica basate su quei modelli di compostezza e armonia che allora parvero rintracciabili soltanto nella cultura ellenica. 1 Sulla leggenda di Orfeo si possono oggi leggere in traduzione italiana i seguenti contributi a carattere musicologico (tutti pubblicati nel volume Musica e mito nella Grecia antica, a cura di D. RESTANI, Bologna, Il Mulino, 1995): F. LASSERRE, "Le genealogie dei musicisti mitici", pp. 89-96; CH. SEGAL, "La magia di Orfeo e le ambiguit del linguaggio", pp. 289-301; F. GRAF, "Orfeo: un poeta tra gli uomini", pp. 303-320; J. BREMMER, "Orfeo: da cantore iniziatico a guru", pp. 321-330; M. DETIENNE, "Orfeo dalla voce di miele", pp. 331-345. 2 Cfr. I. DUCHEMIN, "Di pastori e di musici", in: Musica e mito..., cit., p. 85. 3 Cfr. G. COMOTO, La musica nella cultura greca e romana, Torino, EdT, 1979 (= Storia della Musica a cura della Societ Italiana di Musicologia, volume I, parte prima); L. VOR- REITER, Apollon-, Orpheus- und Thamyris-Lyren, in "Archiv ftlr Musikorganologie", II/l (1977), pp. 113-133; M. MAAS e J. MclNTOSH SNYDER, Stringed instruments of ancient Greece, New Haven, Conn., Yale University Press, 1989; D. DUMOUUN, Die Chelys. Ein alt- griechisches Saiteninstrument, in "Archiv fr Musikwissenschaft, XLIX (1992), pp. 225-257; M. MAAS e J. MclNTOSH SNYDER, "Strumenti a corde per di e mortali", in Musica e mito..., cit., pp. 63-75; M. DUCHESNE-GUJLLEMIN, "Nuova luce sull'origine sumerica della kithara greca," ibid., pp. 147-158; T. HGG, "Hermes e l'invenzione della lyra: una versione non ortodossa", ibid., pp. 209-234. 4 Cfr. E. WINTERNITZ, Gli strumenti musicali e il loro simbolismo nell'arte occidentale, Torino, Boringhieri/1982, p. 261. ^ Sugli aspetti musicali dei riti bacchici si vedano A. BLIS, "Musica e trance nel corteggio dionisiaco", in: Musica e mito, cit., pp. 271-281; F. GUIZZI e N. STAITI, "Mania e musica nella pittura vascolare apula", in: Imago Musicae, IX (1991), pp. 43-90. 6 Cfr. G. GUIDI, "Orfeo, Liber pater e Oceano in mosaici della Tripolitania", in: Africa Italiana, voi. VI (1935), pp. Ili e sgg. In particolare, sul mosaico torinese: L. MANINO, "Il mosaico sardo di Orfeo del Museo Archeologico di Torino", in: Bollettino della Societ Piemontese i Archeologia e Belle Arti, IV-V (1950-51), pp. 1-14. ^ Cfr. A. DUPONT-SOMMER, Le mythe d'Orphe aux animaux et ses prolongements dans le judaisme, le christianisme et l'Islam, Roma, Quaderni dell'Accademia Nazionale dei Lincei, CCCLXX1I (1975); P. PRIGENT, "Orphe dans l'iconographie chrtienne", in: Revue d'Histoire et de Philosophie Religieuses, LXIV (1984), pp. 205-221; C. MURRAY, The Christian Orpheus, in "Cahiers archologiques", XXVI (1977), pp. 19-28; P. CORBY FIN- NEY, Orpheus-David: a connection in iconography between Greco-Roman Judaism and Early Christianity, in "Journal of Jewish Art", V (1978), pp. 6-15.
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Si veda inoltre il catalogo della mostra Les Mtamorp/joses d'Orphe, a cura di C. Camboulive e M. Lavalle, Tourcoing-Strasbourg-Ixelles, Snoeck-Ducaju & Zoon, 1995. Cfr. A. BUCK, Der Orpheus-Mythos in der italienischen Renaissance, Scherpe-Verlag, Krefeld, 1961 (= Schriften und Vortrage des Petrarca-Instituts KOln, XV). 9 M. FICINO, In Philebum Platonis, 1,11. cfr. E. WIND, "Orfeo in lode dell'Atnore cieco", in Misteri pagani nel Rinascimento, Milano, Adelphi, 1971, pp. 71-73. !.. ^ Cfr. R.B.S1MON, Bronzino's Cosimo'de' Medici as Orpheus, in "Bulletin of the Philadelphia Museum of Art", 348 (Fall 1985), pp. 17-27. 12 Cfr. A. POLIZIANO, Stanze-Orfeo-Rime, (a cura di D. Puccini) Milano, Garzanti, 1992, pp. LVII-LXI. Per gli aspetti musicali della Fabula si rimanda all'insostituibile studio di N. PIRROTTA, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, ERI, 1969 (nuova edizione, Torino, Einaudi, 1975J. P. DELLA MIRANDOLA, Commento sopra una canzona de amore composta da Girolamo Benivieni (III, 7). Sull'interpretazione in chiave platonica del mito, cfr. C. M. BOWRA, "Orpheus and Eurydice", in The Classical Quarterly, II (1952), pp. 120 sgg. L. DE' MEDISI, Commento sopra alami dei suoi sonetti (ed. Simioni, I, pp. 24 sgg.). L. C. WITTEN, "Apollo, Orpheus and David: A study of the cruciai century in the evelopment of bowed strings in North Italy 1480-1580", in Journal of American Musical truments Society, I (1975), pp. 5-55.Per gli aspetti iconografici di questo episodio cfr. F. "ARRAGUE, "Orphe mis mort", in: Musica e Storia, II (1994), pp. 269-307. Cfr. OVIDIO, Le Metamorfosi, lib. XI, vv. 10 sgg.: "Il proiettile scelto da un'altra fu un sso, il quale per, mentre compiva la sua traiettoria nell'aria, fu vinto dagli accordi del ~to e dei suoni e, quasi chiedendo scusa per un'iniziativa cos scellerata, cadde din- izi ai piedi di Orfeo (...) Il canto avrebbe avuto il potere di infiacchire ogni arma ma, a ' trastare il suono della cetra, si lev un clamore immenso prodotto dai flauti berecin- dal corno ricurvo, dai timpani, dagli incitamenti e dagli ululati in onore di Bacco".
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Fig. 1 - Pittore del Sakks bianco, Orfeo agli inferi (320 a. C ca.), Matera, Museo Nazionale "D. Ridola". Orpheus tra retorica e passione: un mito barocco per l'Opera Stefano A. E. Leoni (Conservatorio di Musica A. Vivaldi - Alessandria) Come sovente accade, devo avvertire che il mio ambito di ricerca tende a mettere in luce la separazione fortemente istituzionalizzata nella cultura
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occidentale, tra prassi (l'oggetto musicale cos come predisposto, offerto e fruito) e teoria (il pensiero e l'immaginario musicali che suffon- dono l'attivit produttiva e quella ricettiva). In questo senso vorrei precisare che esisterebbero, da un punto di vista "pratico", almeno due buone ragioni per "annullare" questo intervento: 1) il mito di cui ragioniamo e di cui dovrei trattare, un "mito per l'opera", non necessariamente quello di Orfeo, che veicola essenzialmente il progetto panarmonico rinascimentale, un progetto comunque perdente nell'epoca cosiddetta barocca; siamo di fronte ad un'icona, pi che a un mito, al limite ad un mito "demitizzalo", reificato, ridotto a "pretesto". 2) a parte una prima "esplosione" coincidente con gli albori del melodramma, in realt relativamente pochi Orfei (almeno in relazione alla copiosa, sovrabbondante produzione operistica) popolano il XVII e la prima met del XVIII secolo rispetto ai tanti altri miti e personaggi mitologici.1 Come si sa l'opera, sia essa "di stato" o "di corte", sia essa prodotta e consumata per e dalla classe dirigente aristocratica (per sangue o per censo) nei teatri a pagamento, relega gli Oifei e le Euridici a pressoch sporadiche apparizioni essenzialmente ruotanti intorno ad epitalami ed imenei regali. Ecco allora l'icona dell' "amor coniugale" che soppianta l'ideale mitopoietico "armonia-potenza della musica". Come non pensare in quest'ottica - oltrech ossequi agli stilemi della favola pastorale - gli omaggi a Maria de' Medici piuttosto che all'Accademia degli Invaghiti, il plot da commedia degli equivoci giocata tra fedelt e infedelt deWOrfeo di Sartorio in urta, citt ed in una fase storica che prevedono ridefinizioni dinamiche dei rapporti tra aristocrazia di sangue e di censo o il trionfo d'Amore dell' Orfeo e Euridice gluckiano a Vienna e poi nella Parigi in cui Maria Antonietta scrive a sua sorella Maria Cristina dell'incredibile fermento e delle divisioni che l'opera generava: quasi un affare di religione, di.morale che aveva come oggetto la "regolamentazione" - o, meglio .ancora: la "regolarizzazione" - del "godimento", del "piacere", di ci che in francese chiameremmo joussiance, che anche godimento fisico nel senso pi pieno del termine.2 5s vero che le forze nobili ed occulte che la musica mise in campo nella ltura greca, riprese dagli intellettuali medievali e rinascimentali resta- o terreni non battuti dai musici prattici, e la filosofia poco spartisce con p spettacolo, allora come adesso. Ma, proprio in forza delle maglie emo- 'onali che i pratici sanno tessere e che lo spettatore sa cogliere, il fasci- o profondo del canto continua e continuer a campeggiare: une motion musicale considre comme "une sorte de crise au sens mdical du terme qui agit per le paroxysme mme auquel elle parvient": telle est selon Sulzer, la fonction de Varia dans les opras: "soulanger les passion en leur donnant libre essor, lorsqu'elles sont parvenues au plus naut degr de force".3
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Dunque, oltre ogni logica produttiva, impresariale e di consumo, la cezione dell'Opera qualcosa di pi dell'entertainment, dello show (that must go on): qualcosa che ha a che vedere con il profondo, con 'individuale e con il collettivo, con l'antropologia musicale. Fin dalle sue origini l'Opera ha in questo senso avuto rapporti oltremodo stretti con la tragedia greca, con le sue motivazioni e le sue destinazioni catartiche; a prescindere dall'interesse presente nella Camerata Bardi nei confronti delle qualit emozionali della musica greca e, pi latamente sui rapporti testo-musica nella tragedia, ben vero - e qui veniamo ancora una volta a noi - che i primi argomenti messi in scena son tolti direttamente dalla mitologia greca, quando non ispirati alle stesse opere tragiche. Ed ben vero che la tragedia antica non altro che la forma ultima che assume la celebrazione del culto di Dioniso, commemorandone la passione, ovvero la sua morte. Dioniso un "dio sofferente", segnato da diverse caratteristiche fondamentali a prescindere dalle Varianti che si son moltiplicate della sua "storia mitica": in lui v' un rapporto molto particolare con il femminile, con la follia, e con una tipologia del sacrificio. Dunque stiamo con-fondendo il canto ( e l'incanto) orfico con la figura di Dioniso? Ma Dioniso affine ad Orfeo e Orfeo lo a Dioniso. Nel nome di Apollo. Tra le molte le affinit Orfeo/Dioniso ricordiamone solo un paio: /oniso scende nell'Ade per prelevare la madre Semele, Orfeo per tentare di recuperare la sposa Euridice; Dioniso fatto a pezzi dai Titani, Orfeo dalle dorme di Tracia, dell'uno si salva il cuore palpitante, dell'altro la testa che canta. Sia Dioniso che Orfeo sono messi in relazione con i orti e con una vita dopo la morte ... la fede nell'immortalit li accumu- (e peraltro li avvicina al Cristo). Dopo l'irruzione di Dioniso nulla i come prima. Identificato con Cristo gi a Bisanzio; Dioniso torner lme Cristo nella Germania romantica. II dio del pane e del vino, secon- o Hfllderlin, il dio innominato che tra dal rumore confuso della vita tturna un prodigioso gioco di armonie. Dioniso l'ultimo dei divini, ad esso, a questa figura misteriosa ed bgua i Greci affideranno il loro sapere pi difficile, il sapere tragico, dove teatro e religione si mescolano, e le prescrizioni, i vincoli narrativi cozzano contro l'autentica follia dell' "essere fuori di se" per tornare a s. Scrive Colli che l'uso rituale della poesia orfica ... preparare l'estasi misterica attraverso rappresentazioni sacre,... la sua origine opposta. Difatti l'estasi e la sua follia a far sorgere la poesia di Orfeo, ed qui che si mostra pi profondo, pi significativo il legame tra Dioniso e Apollo.... Orfeo stesso e la figura mitica inventata dai Greci per dare un volto alla grande contraddizione, al paradosso della polarit e dell'unit tra i due di.... ci che Orfeo racconta non si deve intendere riduttivamente come magia dell'arte, come capriccio di immagini

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menzognere, e neppure come consolazione di fronte all'angoscia della vita ... ci che esso vuole esprimere il divino indicibile, l'estasi misterica.4 Veniamo peraltro a noi e al retroterra che comunque l'intellighenzia musicale cinque-seicentesca ha elaborato a partire dalla figura di Orfeo. Se entriamo del Duomo di Siena, con gli occhi bassi, lo siano per devozione o per attenzione al pavimento, proprio davanti al portale di centro, dove una tabella invita a entrare "castamente nel tempio castissimo dedicato alla Vergine", raffigurato Ermete Mercurio Trismegisto, che la tradizione, come spiega il cartiglio posto sotto la sua imponente figura, vuole contemporaneo a Mos. Il sapiente egiziano, la cui dottrina venne divulgata e studiata in periodo umanistico, si appoggia a una tabella che posa su due sfingi, e affida un volume a due figure alla sua destra, che lo ricevono in atto di deferenza. Sulla tabella scritta una frase che si attribuisce al Poimandres (Pastori degli uomini), testo appunto che andava sotto la paternit del Trismegisto: "Deus omnium creator secum Deum fecit visibilem et hunc fuit primum et solum quo oblectatus est et valde amavit proprium Filium qui appellatur Sanctum Verbum". Sulle pagine del volume invece scritto: Suscipite o licteras et leges Egiptii". E un chiaro riferimento all'Egitto, sede dell'antica sapienza (a cui paiono alludere anche le due sfingi) che viene affidata alle genti dell'Oriente e dell'Occidente, ma che al tempo stesso non pu esser disgiunta dall'origine divina ("Sanctum Verbum"). L'iscrizione sulla destra allude alla Creazione, che dev'esser l'oggetto della prima indagine dell'uomo. Perch parlare di Ermete Trismegisto? Perch c' una relazione, una stretta relazione tra Ermete Trismegisto ed Orfeo. Se il mago musicale mitico, l'astrologo che per primo inizi i Greci a questa scienza, secondo il Dell'Astrologia attribuito a Luciano Orfeo. "..non favola, ma verissima Historia - scrive, tra i tanti, Agostino Steffani nel 1695 - che Orfeo incantava le Fiere col Canto."; ci che si crede in epoca moderna figlio di yna lunga tradizione ininterrotta della quale proponiamo qui soltanto" la testimonianza di Diodoro Siculo: E poich abbiamo fatto menzione di Orfeo, non inopportuno fare una digressione e trattare brevemente di lui. Questi invero era figlio di Eagro, Trace di stirpe, molto superiore per la cultura, per il canto e per la poesia, rispetto a coloro di cui si ha memoria. ... La sua fama giunse a tal punto da far pensare che ammaliasse con il suo canto gli animali e gli alberi. Dopo di essersi impegnato per la propria formazione e aver appreso i racconti favolosi sulla teologia, si mise in viaggio per l'Egitto e, avendo imparato molte altre cose laggi, divenne il pi grande fra i Greci riguardo ai discorsi sugli di, alle iniziazioni, ai poemi e ai canti. Partecip anche alla spedizione degli Argonauti, per amore verso la moglie ebbe l'incredibile coraggio di scendere nell'Ade e,
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affascinando Persetene con la melodia, la persuase a favorire i suoi desideri e a concedergli di riportare su dall'Ade la sua donna, gi morta, similmente a quanto era accaduto a Dioniso. Si narra infatti il mito, secondo cui anche Dioniso ricondusse la madre Semele su dall'Ade...5 Ma ecco che, con il Rinascimento, Orfeo si trova inserito in una genea- ogia teologico-astrologica da Marsilio Ficino: Egli detto [Ermete Trismegisto] il primo autore di teologia; a lui successe Orfeo, secondo fra i teologi dell'antichit; Aglaofemo, iniziato al sacro insegnamento da Orfeo, ebbe come successore in teologia Pitagora, di cui fu discepolo Filolao, il maestro del nostro Divino Platone.6 Certo non del tutto nuova, basti ricordare le affermazioni di Apollonio di Tiana: Tu pensi che bisogna chiamare maghi i filosofi che discendono da - Pitagora, e analogamente anche quelli che discendono da Orfeo.7 * . Orfeo, rappresentante per eccellenza della Musica, Orfeo, il cui mito sta alla base del dramma in musica, svela le qualit incantatorie di quest'arte, la sua onnipotenza sulle cose del mondo come ci propongono decine di trattatisti musicali. 1 II mito d'Orfeo ci riporta ad un concetto tutto rinascimentale (o che ijuanto meno gode di nuova linfa vitale nel Rinascimento): l'idea di Armonia, la maggiore, forse, delle contaminazioni esoteriche della musica, 'aggiore perch comune a tutte le civilt, a tutte le fedi, a tutti i tempi. > L'Armonia, rassicurante ma non consolatoria, sta dunque alla base, delle possibilit che la musica si faccia Speculum Dei et Mundi. Pu essere materiale costitutivo del modello macrocosmico e microcosmico. Ci noto anche ad uno dei "maghi" pi conosciuti del Rinascimento, rnelio Agrippa del quale cito di seguito buona parte di due capitoli al De occulta Philosophia. CAPITOLO XXIV Dell'armonia musicale, delle sue forze e del suo potere. L'armonia musicale non orbata dei doni siderali, poich una potentissima imitatrice di tutte le cose. Seguendo opportunamente i corpi celesti, provoca mirificamente il celeste influsso, agendo sulle passioni, gli atteg- giamenti, i gesti, i movimenti, le azioni e i costumi e disponendo l'anima secondo le sue propriet, gioia o tristezza, audacia o tranquillit e simili. Perfino le bestie sono attratte dalle sue modulazioni ed possibile cos catturare cervi e uccelli, immobilizzare i pesci di uno stagno, ispirare confidenza ai delfini, render mansueti i cigni iperborei e gli elefanti delle Indie. Il suono d'un flauto basta a far gonfiare e traboccare le acque della fonte Halesia, d'ordinario assai tranquille. Esistono in Lidia alcune isole lacustri, dette isole delle Ninfe, che al suono d'un flauto vorticano e si avvicinano a riva, come ne fa fede Varrone. Sulle rive dell'Attica, cosa ancora pi sorprendente, il mare suona come un'arpa e a Megaride v'ha una roccia che, percossa, emette suoni dolcissimi. La
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musica moke l'anima, eleva il pensiero, eccita il soldato alla pugna, allevia Iepene e la fatica, conforta 1 disperati, ripristina le forze del viaggiatore. Gli Arabi asseriscono che i cammelli sovraccarichi resistono meglio alla fatica merc i canti dei loro conducenti, nel modo istesso che i portatori di pesanti fardelli rendono pi saldi i loro muscoli cantando. Perch il canto rallieta, placa le ire, scaccia le tristezze e le inquietudini, dissipa i malumori, modera la rabbia dei frenetici, fuga i vani pensieri. Democrito e Teofrasto assicurano che con t'impiego della musica possibile guarire o procurare certe malattie del corpo e dello spirito e in tal modo Terpandro e Arione Metimneo hanno curato i Lesbiani e gli Ionici e Ismenio il Tebano s' servito della musica per combattere non pochi morbi crudeli. Di pi Orfeo, Anfione, David, Pitagora, Empedocle, Asclepiade, Timoteo, realizzavano prodigi con l'impiego dei suoni e degli accordi, ora risvegliando i sensi addormentati, ora con tonalit pi gravi, raffreddando le passioni violente degli impudichi, il furore dei dementi, i trasporti degli iracondi. David chet l'ira di Saul col suono dell'arpa, Pitagora guar un voluttuoso da una passione sregolata, Timoteo mise in furore Alessandro e poi lo plac. Sassone il Grammatico fa menzione nell'istoria dei Danesi d'un certo musicista che si vantava di potere colla modulazione dei suoni indurre con tanta forza al furore della pazzia, che nessuno degli ascoltatori poteva restare padrone della sua mente; e spinto dall'ordine del re alla prova, cominci a piegare le consuetudini dell'animo con la variet dei suoni e per prima cosa, con un concerto d'inusitata severit, riemp gli ascoltatori di mestizia e stupore; poi con suoni pi vivaci, cambiata la severit in plauso, pieg gli animi a pi allegro stato ed il corpo a movimenti e gesti pi petulanti; ed infine con suoni pi aspri concit lo spirito a tal punto di pazzia, che il furore divamp in rabbia e

CAPITOLO XXV
Del suono e dell'accordo e delle cause della loro meravigliosa efficacia "Se conveniamo con Pitagora e con Platone che il cielo composto armonicamente e ch'esso governa je crea tutte le cose con moti armonici, bisogna ammettere anche che il s'uono abbia la virt di ricevere i doni delle influenze celesti. II canto ha maggiore efficacia del suono degli istrumenti, provenendo dalla concezionespirituale e dal desiderio imperioso della fantasia e del cuore e penetrando facilmente, insieme all'aria rimossa e temperata, nello spirito aereo dell'ascoltatore, che il legame tra l'anima e il corpo, portando con s l'affetto e l'animo di chi canta, muovendo con l'affetto di chi ascolta, eccitando la fantasia con la fantasia, lo spirito con lo spirito, commuove il cuore, penetra sino in fondo al pensiero, s'insinua poco a poco nei costumi e pone in moto le membra e le arresta, cos come gli umori del
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corpo. PerciTarmonia pu suscitare tante passioni, naturali e artificiali, e quella prodotta dalla voce rinvigorisce gli spiriti e i corpi. [...] Ogni concetto composto di suora o di voci. Il suono lo spirito e la voce il suono e lo spirito animato. Il discorso lo spirito profferito col suono e con la voce improntata di significato ed esso s sprigiona dalla bocca col suono e con la voce. Calcidio dice che la voce sospinta dal fondo del petto e del cuore con uno sforzo del respiro, che si produce in quella cavit del petto in cui il mediastino ricco di nervi separa il cuore dai polmoni e, merc l'uno e gli altri, unitamente alle altre parti vitali e non esclusa la lingua e la gola, produce i suoni articolati, che sono il principio della parola, interprete dello spirito, di cui manifesta i movimenti interiori.8 La potenza della musica, la potenza di Orfeo, fatta di seduzione (secum-ducere), di slatentizzaziofie degli elementi passionali ("passioni dell'anima" cartesianamente intese, ma anche passioni "comuni" nella loro apoditticit: amore e morte), di quel "gioco" potente di corrispondenze reciproche tra cielo e terra che fa in modo che "il sapiente domini gli astri", ma anche di fascinazione retorica, come ho gi avuto modo di evidenziare. Il potere dell'arte musicale dato da una commistione, da una fusione completa di poesia e musica governate da regole emozionali e passionali fornite dalla retorica (... La major temps de ma vida despengui en Retrica e Musica).9 Ma vano sarebbe l'inanellare costrutti retorici senza possedere il potere sulle cose del mondo, senza dialogare con l'essenza dell'universo. Orfeo ha "la capacit di sentire la musica dell'universo, di percepirne aspetti e suoni che sfuggono agli altri", un veggente, imo sciamano di tradizione pitagorica,10 e nello Hieros Logos, 'Pitagora' afferma di esser stato ammaestrato da Orfeo sul numero come essenza dell'universo intero. In particolare ha degli interessanti legami con il pitagorismo il testo orfico noto come la Discesa nell'Ade, attribuito da Epigene al pitagorico Cercope. Si trattava probabilmente di un testo in forma autobiografjca in cui Orfeo descriveva la sua catabasi e le verit che vi aveva appreso intorno alla vita dopo la morte. Alcuni sostennero che anche Pitagora avesse fatto un viaggio nell'Ade. La questione ha anche portato molti studiosi (fra cui recentemente West e Segai) a ritenere che la figura di Orfeo derivi nelle sue prime origini dalla tradizione sciamanica. Infatti uno dei compiti fondamentali di uno sciamano proprio quello di recarsi nel modo ultraterreno per riportarne dei morti o come esperienza iniziatica. Fra i contestatori di questa teoria si pu citare Fritz Graf il quale osserva che, se anche non si pu categoricamente escludere che vi sia alla base del mito qualche elemento di sciamanesimo,'questo va considerato talmente vago e remoto nel tempo da non essere realmente significativo. In tale prospettiva il mito greco: "non si riferiva allo sciamanesimo, ma esplorava il potere della musica, che poteva

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colmare la distanza tra ci che mortale e ci che immortale, sebbene non fino al punto di resuscitare i morti.3 Non riprendo qui, ovviamente, quanto stato scritto in merito alle origini del mito di Orfeo, al suo rapporto con lo sciamanesimo e alla fortuna medievale del mito stesso e della figura del poeta-cantore: rinvio per questo alla bibliografia segnalata in calce a questo contributo e mi limito solo ad alcune annotazioni "funzionali". La questione del rapporto morte-amore nella vicenda di Orfeo non sar secondaria nello sviluppo dell'immagine mitico-operistica; ma, del resto ... Nella tradizione letteraria il suo canto pi celebre un canto di amore e morte, di amore-nella morte, o di morte insediata entro la gioia dell'amore12 Poco sembrano contare, poco valere, invero, le potenzialit magiche del canto, della musica orfici: Per Platone [Protagora] la magia dell'eloquio orfico pu bens persuadere ma non conseguire la verit. In quanto precursore dei sofisti, Orfeo appartiene al dominio della doxa, l'opinione fondata sulla testimonianza dei sensi, e non dell'episteme, la conoscenza della realt mediante l'intelletto13 perci Orfeo destinato alla sconfitta. La testimonianza di Platone certamente meno ambigua, ma anche sorprendente ed esprime la complessa vicenda della condanna del filosofo nei confronti della poesia e la sua convinzione che essa sia incapace di rappresentare la realt: nel primo discorso sull'amore del Simposio Fedro (VII, 179-180) narra di come gli dei, mentre richiamarono dall'Ade Alceste, ammirati per l'inaudito coraggio che solo la pi nobile passione amorosa aveva potuto suscitare nell'animo, ... Ma Orfeo figlio d'Eagro, lo rimandarono dall'Ade a mani vuote; gli mostrarono l'ombra della donna per la quale era disceso, senza dargliela, F erch parve loro un debole, proprio come un citaredo, e che non avesse animo, come Alcesti, di morire per amore, ma che escogitasse ogni via per penetrare vivo nell'Ade. Appunto questa la ragione per cui lo punirono e gli fecero trovar morte per mano di donne.14 Insomma un poeta, un imitatore, un uomo che usa la parola per incantare e sedurre, come un sofista, e. non per cercare la verit, incapace di agire secondo virt e merita la punizione degli dei.

3 mito oscilla fra il potere della forma di dominare la passione pi intensa e il potere della passione, nelle sue estreme manifestazioni di fagocitare la forma. Laddove la versione del successo di Orfeo esprime il potere del linguaggio, nei suoi esiti supremi, di travalicare i confini fra gli opposti domini dell'esistenza - materia e coscienza, e in definitiva vita e morte quella del suo scacco esprime l'incapacit della lingua dell'arte di svuo-

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una delle tante ambiguit iri cui si dibatte il mito e soprattutto la ricezione del mito. Una quantit di sfumature, tutte presenti, credo, alle soglie del XVII secolo. (arsi della soggettivit dell'artista, di trascendere il sentimento e di ; conformarsi alle leggi di una realt obiettiva a noi estema, in questo caso s le condizioni poste dagli dei inferi per il ritorno di Euridice.15 . Secondo Segai si fronteggiano qui una visione immanentistica e una 'sione trascendente del potere della poesia, che nel primo caso vede il et simpatetico e partecipe in prima persona agli eventi che narra e unque destinato a coinvolgimento e sofferenza, nel secondo caso lo ede quale contemplatore distaccato degli eventi: Per un verso il poeta un individuo che soffre nella sua carne, e il cui stesso canto un prendere parte, simbolico e letterale, ai processi di decadi- ; mento morte e rinnovamento che hanno luogo nella natura. Per un altro verso il poeta si identifica con le impersonali leggi di natura: il suo canto ; imperituro, riflette, nonch la sua personale vita di sentimento, le forme fuori dal tempo dell'universo, e pu anzi servire a far risaltare per contrasto il vano tumulto della vita emotiva dell'individuo. [...] Fin da una fase molto remota il mito [di Orfeo] pare dunque aver rinchiuso in s una duplice possibilit: la trascendenza delle leggi di natura da parte del poeta per virt dei suoi poteri magici, ovvero la sua disfatta ad opera della pi ineluttabile delle necessit naturali.16 Credo che sia su questi versanti che si giochi la fortuna (perch comunque una fortuna c' stata) del mito di Orfeo nel melodramma seicentesco ed oltre. Da un Iato un aspetto squisitamente intellettualistico, culturale che si rif alla tradizione medievale dell'ars Musica e che vede Orfeo come la metafora per eccellenza della musica, quindi, per corfse- guenza, la mitologicizzazione in chiave autocelebrativa della musica stessa, dall'altro l'aspetto pi stupendamente banale che governa lo "spettacolo" moderno: amore e morte. In fondo un universale che riporta la figura di Orfeo ad una dipensione classica, romana, fatta di passione e di furore. L'esser proiettati in una dimensione nella quale il centro di attrazione e di attenzione stupor, furor emozione allo stato pressoch puro, extra-razionale: dementia amorosa. Teatro anche fuor del teatro.17 Riannodiamo le fila: pur vero che nei trattati di filosofia cos come di magia e di musica del Rinascimento, come nel De Triplici Vita di Marsilio Ficino, nel Magiae naturalis ... del Della Porta o nei testi di "Costantino Africano", di Franchino Gaffurio, di Gioseffo Zarlino, di Agrippa di Nettensheim, di Francesco Giorgi, di Robert Fludd, di Marin Mersenne e di tanti altri, il piacere sensibile nel percepire la consonanza il risultato di un accordo, o di una "simpatia" tra i suoni musicali ed un particolare "spirito" umano. Le sensazioni interne ed esterne stimolano il meccanismo corporeo ad alterare lo
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status degli spiriti, dei vapori, degli umori presenti nell'organismo umano; questa attivit sentita come un "movimento affettivo" ed il risultante stato di disequilibrio, di sbilanciamento, l'Affetto. Durante il XVI secolo, sulla scorta di una ricca tradizione clas- 'co-medievale, gli affetti e gli spiriti animali, cosi come i vapori e le influenze astrali e talismaniche in qualche modo legate ai suoni, divenendo la parte costitutiva del potere della musica ed il segno evidente di un mondo in continuo bilanciamento dinamico tra armonia e disarmonia, altro non vengono ad essere che referenti inconsci di una teoria che considera la stimolazione degli affetti come l'oggetto principale di poesia e musica. Nel passaggio da un immagine del mondo magico-simboli- ca, basata sul concetto forte di armonia del mondo, ad un universo "untuned", fuor di tempra, la musica acquista valenze "passionali" ancor maggiori e permette una riflessione sul problema della relazione mente/corpo che coinvolge una razionale e 'scientifica' spiegazione della fisiologia della passione, del furore poetico, delle alterazioni, melanconiche o meno, degli stati di coscienza. senz'altro assodato che la questione fondamentale relativa alla cosiddetta "nascita dell'opera" quella dei poteri fascinatori, incantatori della musica; poteri attestati da una tradizione ricchissima, ma ritenuti scarsamente presenti nella musica del XVI secolo, infatti Gioseffo Zarlino nel Capitolo 7 della Seconda Parte delle Institutoni Harmoniche, intitolato "Quali cose nella Musica habbiano possanza da indurre l'huomo in diverse passioni", cos scrive: ... Ne meno si ode, che la Musica ai nostri tempi habbia costretto alcuno a pigliar le arme, come si legge appresso molti, et spetialmente appresso di Basilio Magno del Grande Alessandro, il quale da Timotheo musico fu col mezo della Musica sospinto ad operare un tale effetto. Non si ode ancora, che col canto loro habbiano fatto divenire alcun furioso mansueto, come mostra Ammonio di un giovane Taurominitano, che dall' accorgimento di Pithagora, et dalla virt del Musico, di furioso che era, divent humano et piacevole: Ma ben si ode il contrario, che le vituperose et sporche parole, contenute nelle lor cantilene, corrompeno spesse volte gli animi casti de gli uditori [...] grandemente dovemo lodare et riverire i Musici antichi: conciosiache per la loro virt, col mezo della Musica, esserrtata nel mostrato modo, succedevano tali et tanti effetti maravigliosi, che il voler raccontarli sarebbe incredibile: Ma a fine che queste cose non parino favolose, et strane da udire, vederemo quello, che poteva esser la cagione de tali movimenti. Onde se noi vorremo essaminare il tutto, ritrovaremo, che Quattro sono state le cose, le quali sono sempre concorse insieme in simili effetti; delle quali mancandone alcuna, nulla, o poco si haverebbe potuto vedere. Era adunque la prima I'Harmonia, che nasce dalli suoni, o dalle voci; La seconda il Numero determinato contenuto nel Verso; il qual nominavano Metro; La terza {a Narrazione di alcuna cosa, la quale contenesse alcuno costume, et questa era la Oratione,
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overo il Parlare; La quarta et ultima poi era un Soggetto ben disposto, atto a ricevere alcuna passione. Et questo ho detto: percioche se noi pigliaremo la semplice Harmonia, sen^a aggiungerle alcuna altra cosa, non haver possanza alcuna di fare alcuno effetto estrinseco delli sopranarrati; ancora che havesse possanza ad un certo modo, di dispor l'animo intrinsecamente, ad esprimere pi facilmente alcune passioni, overo effetti; si come ridere, o piangere. [..!]. Se a tale harmonia (id est: semplice, senza altro che melodia ndr) si aggiunge poi il Numero determinato et proportionato, subito piglia gran forza, et muove l'animo; come si scorge ne i Balli, i quali spesso ne inducono ad accompagnar seco alcuni movimenti estrinsechi col corpo, et a mostrare iJ piacere, che pigliamo di tale aggiunto proportiona- to. Aggiungendo poi a queste due cose la Oratione, cio il Parlare, il quale esprima costumi col mezo della narrazione di alcuna historia, o favola; impossibile di poter dire quanta sia la forza di queste tre cose aggiunte insieme. ben vero, che se non vi si trovasse il Soggetto disposto, cio l'Uditore, il quale udissi volentieri queste cose, et in esse si dilettasse, non si potrebbe vedere alcuno effetto; et nulla o poco farebbe il Musico...18 S' ripetutamente detto per pi di un millennio che l'espressione di affetti o emozioni l'essenza e lo scopo ultimo della musica; ed infatti l'estetica dell'espressione rappresenta, accanto alla teoria basata su precetti matematici, la forma fondamentale del ragionare di musica. La parola "affetto" tuttavia non significa-un concetto fisso con un significato stabile quanto piuttosto una categoria storicamente variabile il cui senso dipende in parte dallo sviluppo della psicologia o dell'antropologia ed in parte dai cambiamenti in ordine alla tecnica musicale ed alle loro implicazioni estetiche. Contrariamente alla tendenza a vedere la teoria musicale matematica e la Dottrina degli Affetti come opposti che si escludono a vicenda, possibile trovare una mediazione tra esse a condizione che si ritenga di poter considerare - come fece Pitagora - le medesime proporzioni che regolano il movimento dei suoni tali e quali a quelle che regolano i movimento dell' anima (dando ovviamente a questo termine un significato assai vasto ed indistinto). Le proporzioni forniscono la base degli effetti della musica in quanto esse operano come mediatore in un continuo traslare dall'oggettivo al soggettivo: dalla struttura sulla quale il sistema tonale/modale e l'ordinamento ritmico sono basati alle risposte, alle corrispondenze emozionali che la musica rappresenta ed induce insieme. Con l'Illuminismo settecentesco ci si gradualmente allontananti dai fondamenti matematici della musica, ma fino ad allora la relazione tra "matematica sonora" ed "emozionalit sonora", non fu sentita come contraddittoria, bens come complementare. vero tutto ci, ma tutto questo pare non riguardare pi il melodramma gi nel momento in cui il basso continuo intona il primo accordo dell'Euridice di Peri o di Caccini.
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Innumerevoli, vero, sono le testimonianze nella trattatistica musicale rinascimentale che ci parlano di Orfeo e dei poteri meravigliosi della musica. Basti qui riportare Pietro Aaron che, al capitolo I, "Laude de la Musica" del primo libro del suo Toscanello in Musica (citiamo dalla seconda edizione del 1539) scrive: [...] per essere lei [la Musical fra ialtre discipline non solo a la contempla- tione utile (si come Boetio afferma) ma ancnora a lo operare di grandissimi effetti necessaria: [.,.] Ma per Io adietro di tre et cne successivamente succedettero, in stima grande ritrovossi. Per la prima in Orpheo, per lal- tra in Amphione, et per la terza in Harmonia moglie di Cadmo. Harmonia tanto seppe ben sonar la piva, che non maneono autori, gli quali dicono quella concordanza di differenti voci che noi chiamiamo harmonia da lei haver pigliato il nome. Amphione al dolce suono de la sua lyra edificio le mura ai Thebe [...J. Orpheo [...] Hebbe la melodia del suono, et del canto cos piena et perfetta, cne non solo hebbe forza di muovere le genti fiumane che con ragione si governano, ma le fiere et gli uccegli, anchora che manchino di ogni ragionevole discorso: ma gli arbori et sassi, laque, et gli venti, che ragione non hanno, ne sentimento: ma esso inferno ove non redentione: in tanta stima venne, che gli iddi immortali et celesti, godevano desser celebrati col suo canto.Vediatno anchora molte volte cne gli animi afflitti et mal contenti, se da qualche musicale suavita in qualche modo non si recreassero, agevolmente inanzi il tempo mancarebbono:" "Segue a lirifinito piacere et diletto, che de la musica nasce una inestimabile utilit, che a fanimo, et al corpo sestende. Et che sia utile a lanimo, potrei adducere in mezzo molti essempi: come di Empedocle, che mutata una modulatione, temper lira di un furioso giovane tauromenitano ebrio, incitato dal suono phrygio a volere ardere la casa, ove una sua amica corrivale era rinchiusa: col sostituito spondeo lo placo, et a miglior mente lo ridusse: come tutti gli Pythagorici e quali conmoveano et acchetavano gli animi, et a buoni costumi con la musica glindrizzavano: et allor imitatione Theophrasto che a tor via le passioni del lanimo, comandava apporsi le pive." Musicalmente parlando la dottrina degli "affetti" ha una profonda radice nella struttura della percezione come 'affezione' ed al contrario come 'alacritas animi'; da qui una nuova dottrina dell'ethos. Fino a collegare la figura di Orfeo a quella del Cristo, dal I secolo a Marin Mersenne: L'ultima osservazione servir per concludere questo discorso nel nome del nostro Salvatore, che gli antichi Cristiani hanno rappresentato in forma di Pastore, che porta una pecorella in spalla e tiene una siringa o flauto pastorale nella mano destra, come si pu vedere in diverse figure della Roma Sotterranea [di Bosiusjf...]. Essi l'hanno anche rappresentato con l'immagine di Orfeo che tiene un'arpa tra le mani, simile a una di quelle che io descrivo nella XXV proposizione del III Libro; per questo si voluto significare che Ges Cristo era venuto a insegnare il vero culto di un solo Dio agli uomini, al
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posto dei 360 Dei, o piuttosto idoli, cos come Orfeo, figlio ai Eagro e padre di Museo, aveva voluto introdurre, come osserva Giustino Martire che confessa, assieme a Clemente Alessandrino, di aver riconosciuto e provato nei versi che cita, nei quali si esortano gli uomini a unirsi perpetuamente con Dio, al quale sei devono tutti gli onori e ogni tipo di gloria per sempre. Ora siccome tutti quelli che io ho nominato in questa prefazione hanrio l'onore di essere Cnstiani, e siccome ogni vero Cristiano deve talmente esprimere la vita, le azioni, le passioni di Ges Cristo in se stesso cos che tutti quelli che lo vedono lo considerino una cosa sola con lui, seguendo il costume degli antichi Cristiani che stendevano le mani a formare la croce durante le preghiere [...] cosa che Tertulliano esprime con questi termini, modulabantur Christum e cosa che i Preti fanno ancora durante il Prefazio e il Canone della Santa Messa, ragionevole che si comportino come degli Orfei Cristiani, provocando i loro uditori ad- abbandonare le loro sregolate passioni per seguire la ragione e la Virt e per rendersi simili a colui da cui dipende completamente la loro salvezza. Certo una cosa strana che di mille Suonatori di Liuto e di altri strumenti non se ne trovino dieci che prendono piacere nel canto e nella espressione delle cantiche divine e che non amino di pi cantare un'aria spirituale piuttosto che centinaia di correnti sarabande e allemande.. Sembra che abbiano destinato tutto il loro lavoro alla vanit di cui riempiono i cuori con le orecchie che fanno da imbuto. Confesso di essere dell'avviso dei migliori politici, cio di ritenere che questo genere di musica che ammollisce, snerva il coraggio, che spunta lo spirito aei giovani, dovrebbe essere bandito dalle Repubbliche, come le altre cose che corrompono i buoni costumi e di cui si verrebbe facilmente ad avere ragione se i Magistrati stabilissero premi e oneste ricompense per coloro che praticano solo la musica Dorica e le altre specie, di cui abbiamo parlato, per cantare le lodi di Dio e per celebrare le leggi che servono alla istruzione di fanciulli.20 Ma ecco ora le "moderne" e magari aride affermazioni di Zaccaria evo che ne II musico testore, edito nel 1706, guarda con patente e for- 'anche esagerato scetticismo ai meravigliosi effetti della musica cos ome riportati degli auctores, ma nel contempo fonte preziosa di riferi- ento proprio ad essi. Mi si consenta allora una lunga quanto illumi- ante citazione nel: Capitolo XV Degl'Effetti della Musica Quanto sii degna, e cospicua la Musica dice Gaffurio lib. I della Teorica cap.I. che satis ea decet ratio quod Deos habeat Auctores. Et tanto potente asserisce S.Tomaso di Villa Nova, che per essa fugatur diabolus, poich ad cytharae sonitum tremefactus recedit, et quod nulla vis superai, superai harmonia. Onde non meraviglia se era solito David al suono della sua Cetra scacciare da Saul lo spirito cattivo. Le meravigliose operationi della Musica, e gl'effetti prodigiosi, che vengono attribuiti quesf Arte, si rendono tal volta incredibili, parlando iper sanamente, cert', che la Musica h li suoi effetti, e move li sensi, non solo
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humani, m pur anche opera efficacemente ne bruti, poich li Cervi del suono degl'istrumenti tanto se ne compiacciono, che si scordano della naturai timidit; gl'Elefanti divengono mansueti al suono de timpani; li Delfini al fischio de marinari, & al suono di qualche istrumento scherzano intorno le navi; e gl'Uccelli, che esercitano naturalmente il canto, ingannati dal fischiar de Cacciatori ne restano preda; li marinari si sollevano al Canto.[...] Vengono per da tal'uno decantati certi effetti prodigiosi, che, sii detto con sua buona pace, hanno del favoloso, & in particolare Vincenzo Galilei nel suo dialogo della Mtfsica antica, e moderna, stima tanto gl'effetti della Musica antica, che si adira con certi, che non credono tali favolosi racconti, onde alle carte 80. li tassa da temerarii. Vedete, dice egli, quanto costoro siino temerari, che si ridono degli effetti, che faceva una cosa, la quale non sanno quale si fosse, ne conoscevano la natura, et propriet di essa, ne come potesse ci operare. Li potrebbe par tal'uno rispon- r dere, se noi biasimiamo una cosa, che non conosciamo, come lodate voi una cosa, che non si s qual fosse, mentre asserite alle carte 82. che si perd, e che la sua meravigliosa eccellenza vien stimata favola, e sogno, & alle carte 84. dite essendosi gi perduta intieramente molti, e molti anni avanti per le guerre, per altro accidente quell'antica, e dotta maniera. Onde se noi biasimiamo torto quello, che stimiamo favoloso, voi lodate quello, che non si s come sii stato, & al presente non ; m lasciando queste cose a parte, vediamo quali siino gl'effetti meravigliosi della Musica Antica: dice il precitato Auttore alle carte 80. qual maggiore argomento volete per convincergli, che i miracoli per cosi dirgli, che ella faceva? i quali ci sono raccontati da pi degni, et famosi riscrittori. Stiamo vedere, che haver resuscitato qualche morto, e quali mai saranno questi s grand'effetti? Li racconta alle carte 86. conservava la pudicitia, faceva mansueti i furiosi, inanimava i pusicca- nimi, quietava gli spiriti perturbati, inacuiva gli ingegni, empiva gli animi di Divino furore, racchetava le discordie nate tra popoli, generava negl'huomini un habito di buini costumi, restituiva l'udito sordi, ravvivava gli spiriti, scacciava la pestilenza, rendeva gli animi oppressi lieti, e giocondi, faceva casti i lussuriosi, racchetava i maligni spiriti, curava i morsi de serpenti, mitivaga gli infuriati, et ebrii, scacciava la noia presa per le gravi cure, et fatiche, e con l'essempio d'Arione possiamo ultimamente dire (lasciando da parte altri simili) che ella liberava gl'huomini dalla morte. Manco male, che non ha detto, che li habbi resuscitati. Tutte queste cose sono belle, e buone, ma non si devono intendere tutte ad un senso, poich, si come la musica un arte di ben regolata Armonia, cos il guarir l'infirmit, render casti, racchetar le discordie de popoli, far mansueti i furiosi, e fl'ebri, & altre cose simili, sono tutti effetti considerati in ridurre le prefate cose alla loro debita concordia, come proprio del Medico render concordi gl'humori peocanti, e ci metaforicamente viene attribuito alla Musica, che nel resto di pu sonare, e cantare quanto si vuole tanto alla moderna, quanto all'antica che mai s potr esigere dalla Musica tali effetti; [...].
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Altre cose poi si devono intendere allegoricamente, come gl'effetti d'Orfeo in tirar le selve, e di Anfione nel mover i sassi fabricar le mura di Tebe, ci significato per gl'huomini rozzi, e silvestri tirati al consor- tio, e vivere sociabile; che perci questo proposito ben disse Giovan Boccaccio lib. 5 de genealog. Deorum cap. 12. Hac Orfeus moves selvas radi- ces habentesfirmissimas, etfixas solo, idest obstinatae opinionis homines, qui nisi per eloquentiae vires queunt sua'pervicacia removeri. E gi che vien detto, che questa Musica era atta mitigar i furiosi, e liberare quasi dalla morte, mi si dica, perche f trucidato Orfeo dalle Bacchanti? La cetra sua, che penetr l'inferno,perche non f atta a salvarlo? Eh che questo si deve considerare non litteralmente, m per allegoria (come si disse dell'altre cose) cio, che il vitio supera tal'hora la virt, e stempera la ben'accordata, & Armonica ragione; onde sii detto con buona pace di chi che sia, la Musica solo atta sollevare l'animo, e disporlo all'allegria, pure alla mestitia, conforme la qualit dell'Armonia accompagnata da narrativa approposi- to, e tessuta studiosamente dal dotto Contrapuntista; onde soggiungiamo con Giovan Spangerbech, che Musica Deum ipsum placat, animos hominum mira suavitate demulcet, curas eximit, et ut it Potta, miscet utile dulci. Cio placa Iddio ne canti Ecclesiastici, e devoti, all'huomo dolce, e suave deiettandolo, e sollevendolo dalla tristezza, e non opera niente di pi.21 L'ideale orfico di poesia e musica 'ispirata' di cui la tradizione ficinia- na ci offre la sua interpretazione, rappresenta un ideale estetico utopistico, irrealizzabile praticamente dai musicisti. Le teorie estetiche di Ficino e dei trattatisti cinquecenteschi circa un'arte musicale-poetica ispirata dall'intelligenza divina, appartenenti ad una antica tradizione rimasta intatta, trovarono consistenti cambiamenti e rinnovati sviluppi stilistici nel contesto offerto in epoche successive. L'oratoria si sposa con l'arte dei segni e del linguaggio, ma non sar pi un'oratoria "affettiva", sar un'arte organizzativa in senso persuaso- rio: la musica 'affettiva' stava trasformandosi in 'musicale dramma degli affetti', in spettacolo, e allora di Orfeo resta Euridice, la tensione verso di lei, la sua assenza, la morte e l'amore; l'adulazione del riconoscimento da parte dello spettatore: l'archetipo tutto umano della passione: sopravvive questo e non la Musica che dice: ch'ai dolci accenti so far tranquillo ogni turbato core, ed or di nobil'ira ed or d'amore poss'infiammar le pi gelate menti, La sopravvivenza, ricca e rigogliosa, del mito, dell'icona, nel melodramma di ieri e di oggi va allora sotto questo dualistico segno: 1) la teoresi legata alle qualit incantatone, fascinatrici dell'unione "mistica" tra parola e musica". ,
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Orfeo un poeta che usa il suo strumento per accompagnarsi nel canto. In lui, poeta e musicista ad un tempo, possiamo dunque immaginare la perfetta fusione di musica e parola in un'opera d'arte di impareggiabile bellezza. Pu allora essere fonte solo di relativo stupore scoprire che, nella stoma della musica occidentale, Orfeo compare proprio nei momenti in cui [messo in gioco il rapporto fra musica e parola, quando cio si hanno delle svolte radicali nel modo di concepire il legame fra il testo, l'affetto che 'esso esprime e la musica che li trasfigura entrambi nel suo linguaggio. 2) E le suggestioni pi profonde e irrazionali del viaggio iniziatico, All'oltretomba, dell'amore e della morte, del desiderio, di Orfeo come "macchina desiderante". Comunque sia e di qualsiasi tipo siano le motivazioni, un'ulteriore riprova della fecondit del mito di Orfeo per la musica pu essere fatta 'land, come ultimo lavoro che riecheggia questa tematica, un'opera recentissima,22 il Peony Pavillion (settembre 1998), dramma cinese del XVI sec. rivisitato dalla musica del compositore contemporaneo pechinese Tan Dun e dal ben noto regista Peter Sellare. La vicenda narra la storia del difficile amore fra una giovane e uno studente il quale, morta la donna amata, attraverso dei riti sciamanici (!) riesce a strapparla al mondo delle tenebre. Emerge cos anche l'universalit del mito di Orfeo capace di trascendere, non tanto in quanto simbolo dell'ambiguo potere posseduto dalla fusione della musica con la poesia, persino le barriere fra le diverse culture, ma per questo suo ruolo simbolico "passionale" egli assurge a figura fondamentale della storia della musica e pu essere considerato il protagonista spirituale di tutto il melodramma, fors'anche di tutto il teatro moderno
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CH. SEGAL, op.cit., p. IX. 11 Cfr. F. GRAF, "Orfeo: un poeta tra gli uomini" in: D. RESTANI (a cura di), Musica e mito nella Grecia antica, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 308. 12 CH. SEGAL, op.cit., p. IX. 13 CH. SEGAL, op.cit., p. 22. 14 Cfr. PLATONE, Simposio,179-180, in: Opere Complete, Bari, Laterza, III voi., pp.153-154. 15 CH. SEGAL, op.cit., p. 12. 16 CH. SEGAL, op.cit., p. 11. ^ Cfr. l'intero mio saggio di introduttivo al presente volume. 18 G. ZARL1NO, Insti turioni Harmoniche, Venezia, 1558, pp. 70 sgg. P. AARON, Toicanelo in musica, ,1539(2), vedasi il saggio introduttivo al presente volume. 20 M. MERSENNE, da Harmonie UniverseUe, Paris, 1636; dalla Premire Preface Generale au Lecleur, per la versione originale in francese vedi il saggio di apertura.
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^ Z. TEVO, Il Musico Testare, Venezia, 1706, pp.14 sgg.; la sottolineatura nostra. Giova ricordare che il convegno Orfeo, il mito, la musica, nel corso del quale stata presentata questa relazione, si svolto nel novembre 1999 [n.d.c.].

L'Orfeo di Rousseau: Pygmalion Amalia Collisani

(Universit degli Studi di Palermo) Neil'Encyclopdie ou Dictionnaire raisonn des sciences, des arts et des mtiers Louis de Jaucourt, autore della voce "Orphe",1 ci descrive il musico-poeta trattando con condiscendenza e con qualche impaccio i prodigi del suo canto; dalle fonti (che cita: Diodoro, Pausania e Plutarco) l'autore estrae tutto ci che non offende la sua razionalit, informandoci che Orfeo per primo aveva usato la lyra; che, sacerdote e mago, aveva conosciuto e diffuso i misteri della liturgia orientale; che, vegetariano, si asteneva persino dalle uova; che infine, disperato per la prematura perdita della sua moglie amata, credette di vederla presso un oracolo e di esserne seguito, "ma voltandosi indietro e non scorgendola pi, ne fu cos afflitto da darsi la morte".2 Questo illuminismo un po' miope, che considera superstizioni le componenti inverosimili del mito e non ne scorge i risvolti simbolici, non rispecchia l'atteggiamento, assai pi acuto e consapevole, che guid gli ideatori dell 'Encyclopdie nella loro fatica; ma, dopo la defezione di D'Alembert (1758), Jaucourt fu l'autore di innumerevoli articoli su svariati argomenti, e senza il suo zelo Diderot non sarebbe riuscito a portare a termine la pubblicazione dei diciassette volumi; gli dobbiamo dunque perdonare, con le imprecisioni, con le inesattezze, con le sviste,3 anche la sua scarsa fantasia. Tuttavia, l'aver privato Orfeo della sua profonda e poliedrica simbologia, l'aver sorvolato sul senso da attribuire al fascino incantatorio del suo canto, l'aver ridotto la sua discesa agli inferi ad una allucinazione, pu prendersi ad emblema del sospetto che l'et dei Lumi nutr nei confronti della musica: tra la celebre provocazione di Fontenelle (Sonate, que me veux tu?) - citata anche nell'Encyclopdie con efficace realismo da Jean-Jacques Rousseau4 - e le definizioni kantiane, universalmente note, che chiudono il secolo - "bel gioco di sensazioni [...] piuttosto godimento che cultura [...] giudicata dalla ragione ha minor valore di qualunque altra delle arti bell [...] le propria quasi una mancanza di urbanit".5 - si colloca il Discours preliminare che D'Alembert premise al I volume dell 'Encyclopdie (1751) dove la musica tra le arti "tient le dernier rang dans l'ordre de l'imitation". La diffidenza nei confronti della musica deriva in buona parte - lo Isappiamo - proprio dal suo charme, dal quale la ragione deve difendersi \ per conservare limpido il giudizio. Giungiamo cos al cuore di una delle
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Uontraddizioni illuministiche: la concezione didattica dell'arte, che vuole isempre vigile la ragione, teme il coinvolgimento estetico, specie se otte- : nuto, come quello della musica, al di l dei mezzi linguistici o raffigurativi; ma l'ideale di bellezza classica, armoniosa, equilibrata, simmetrica . richiede che l'oggetto artistico occulti la sua essenza artificiosa, ch'era stata l'anima del meraviglioso barocco, e, a teatro, renda gli spettatori dimentichi della finzione: li seduca e li coinvolga nell'apparenza. Tra distacco e coinvolgimento si muove l'Opera, ch'era, come si sa, non solo spettacolo di grandissimo successo e diffusione, ma fulcro concettuale della riflessione sulla musica; tra distacco e coinvolgimento si muovono le discussioni e le polemiche sull'Opera: mentre si vuol difendere la dignit della ragione dalle favole, si suggeriscono i mezzi perch l'inverosimile per eccellenza - la rappresentazione di uomini che invece di parlare cantano - possa non solo essere accettato ma addirittura passare inosservato; cos, paradossalmente, il soggetto mitologico (che rende pi credibili i personaggi che comunicano cantando) e il recitativo al posto della recitazione (che attenua il brusco passaggio dal canto al parlato) si impongono in nome della verosimiglianza. Anche Rousseau nelle voci musicali dell' Enciclopdie, scritte nel 1748, aveva dedicato poche parole ad Orfeo, indicandolo come il probabile inventore della lyra;6 pi tardi, rielaborando, integrando, correggendo quelle voci per pubblicarle nel Dictionnaire de musique (1768), gli attribu la composizione dei primi inni7 e aggiunse che quando Orfeo "addomesticava" gli animali cantava sull'armonia lidia. Inoltre Orfeo raramente ricordato anche nelle altre sue opere, filosofiche, teatrali, letterarie, pedagogiche; anzi, una sua breve apparizione nelYEmile fu aggiunta all'ultimo momento, e forse soltanto per giustificare l'incisione che adornava il frontespizio del terzo volume delle prime edizioni (1762) dov' raffigurato "enseignant aux hommes le eulte des Dieux".9 Per Rousseau la questione estetica complessa; mentre da una parte la sua concezione antilluministica della storia, il suo giudizio etico inappellabile sui guasti prodotti dalla cultura, il suo utopico concetto di verit, sem- ; brano condurlo a una condanna inflessibile delle arti, come nel primo Discours (1749) e nella Lettre D'Alembert (1758), dall'altra egli spesso delle : arti descrive le seduzioni e - quel ch' pi significativo - persino talvolta ne ^.lascia affiorare il ruolo positivo, etico e sociale. Natura e cultura, verit e ^artificio sono argomenti che affronta con strumenti affilati: sono il nodo ^centrale della sua filosofia che l'estetica contribuisce a sciogliere. Se nei suoi scritti ha riservato poco spazio ad Orfeo non certo perch jfosse poco sensibile alla musica, che gli ha fatto versare lacrime copiose Idi nostalgia, di commozione, di esaltazione erotica e narcisistica, che pi Idi una volta lo ha fatto sentire in paradiso, a cui ha dedicato mille poeti- iche descrizioni. Amava il teatro " la passion", come ha scritto proprio nella Lettre
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D'Alembert;10 -'toit n pour la Musique", come ha affermato nei Dialogues,11 e ne sentir tanto profondamente gli incanti da innamorarsi follemente di un intero coro femminile, senza aver mai visto una sola delle componenti, come ci ha raccontato nelle Confessions.12 Se Orfeo poco presente nei suoi scritti non neanche perch Rousseau condividesse le preoccupazioni illuministiche sulla dignit della ragione e sulla necessit di salvaguardarla: il coinvolgimento era decisamente il suo principio estetico anche se definito con termini diversi da quelli ricorrenti nel dibattito contemporaneo: era il luogo della comunicazione metalinguistica, morale e sentimentale, dove forse sopravvive la verit; la ragione, al contrario, non fa che elaborare menzogne. E neanche possiamo pensare che Orfeo sia stato da lui trascurato in quanto personaggio mitico; diversamente da Jaucourt, Rousseau ha frequentemente e sapientemente rielaborato i miti per utilizzarne i sensi simbolici; lettore attento dei testi classici e di Ovidio, ha popolato i suoi scritti, specialmente quelli per il teatro, di personaggi e allegorie che illuminano molti luoghi ambigui del suo pensiero: nella "Prefazione" al Narcisse (1753) che ha chiarito il senso da assegnare alla sua estetica affermando che se le arti come le scienze hanno corrotto gli uomini, "le stesse cause che hanno corrotto i popoli servono talvolta a prevenire una corruzione maggiore";13 ed nel Morceau allegorique sur la rvlation (?1750-53) e nel Pygmalion (1762) che Starobinski ha letto gli stadi e i modi in cui si articola il pensiero di Rousseau, riconfigurandone l'unit e la coerenza.14 Proprio Pygmalion ha per noi che ci occupiamo di musica ancora altri motivi d'interesse; come nota Charly Guyot, introducendolo nella "Bibliothque de la Pliade", questo monologo teatrale, oltre ad offrire strumenti per approfondire la conoscenza intima di Rousseau, e quella del suo pensiero sull'arte, "offre nella sua forma una novit che si avrebbe torto a sottostimare" :15 la forma del melologo, in cui il testo recitato e i brani musicali affidati all'orchestra si alternano. A Pigmalione, non ad Orfeo, Rousseau affid questa sua invenzione drammatica con la quale intendeva superare i limiti della lingua francese, creare una nuova e moderna relazione tra suono e parola, e far si che il teatro e la musica potessero assumersi il compito di riconvertire l'arte alla verit. Cercher di mostrare che l'aver posto Pigmalione al centro del nuovo genere teatrale, non stata una scelta casuale. Quel che soprattutto del mito di Pigmalione attrasse Rousseau, come ha visto Starobinski, fu proprio .la statua. Questa nel suo teatro, come nelle Metamorfosi ovidiane, che sono la sua fonte diretta, presenza ricorrente; anzi, il suo primo lavoro teatrale Iphis, tragdie pour l'Acadmie Royale de Musique, scritto in un periodo da collocarsi tra il 1737 e il 1740, ispirato alla storia di Ifi e Anassarete rilevante in Ovidio tanto per la simbologia della pietrificazione che per il rapporto tra Orfeo e Pigmalione;16 anch nelle Muses Galantes (1743) c'
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una statua, quella del dio Amore; nel Morceau allegorique la statua velata, come Galatea all'inizio del Pygmalion, e come questa possiede una simbologia complessa. Gi nelle Metamorfosi la statua assume un ruolo centrale nel rapporto tra arte e verit, arte e natura: "aveva l'aspetto di una fanciulla vera, - osserva Ovidio (X, 250-2) - tanto che la si sarebbe creduta viva e desiderosa di muoversi, se non l'avesse impacciata il pudore. L'arte era tanto grande da non apparire addirittura (ars adeo latet arte sua)";17 attorno a questo argomento, come gi detto, ruota non solo l'estetica ma l'intera filosofia di Rousseau; che l'arte non debba mentire spacciandosi per natura l'imperativo ch'egli oppose a Rameau, ma che debba celarsi per la compiutezza della comunicazione estetica, lo afferm pi volte: "ci si accorse che il capolavoro della musica scrisse esplicitamente persino nel Dictionnaire - di far dimenticare se stessa[...]".18 Orfeo e Pigmalione, che sono entrambi artisti, non risolvono nello stesso modo questo nodo cruciale. Sono molte per altro le loro analogie nelle Metamorfosi di Ovidio; le elenca Simone Viarre nel saggio loro dedicato:19 la rinuncia di entrambi alle donne; la loro condizione di artisti; il loro ricorrere alla preghiera; l'attitudine magico-religiosa; inoltre proprio Orfeo che narra la storia di Pigmalione nel lungo excursus che separa la sua discesa nell'Ade alla ricerca di Euridice, dalla sua tragica ed enigmatica morte. Il legame che apparenta i due artisti mitici non dovette passare inosservato a Rousseau. Nel riscrivere la storia di Pigmalione infatti egli la assimil a quella di Orfeo, introducendo nuove analogie: all'inizio del dramma, tra le passioni che Galatea, appena compiuta, ha spento in Pygmalion, viene ricordata quella che lo legava ai giovinetti; un'inclinazione che in Ovidio soltanto di Orfeo; questi infatti, dopo la morte di ' Euridice, "insegn ai Traci a indirizzare il proprio amore verso i fanciulli e a goderne la breve primavera che precede la giovinezza, cogliendone i primi fiori" (X, 83-5), mentre Pigmalione, scandalizzato dalle "sconce Propetidi [...] aveva rinunciato a sposarsi e passava la sua vita da cehbe, , dormendo da solo nel suo letto" (X, 245-6).20 La pederastia un particolare significativo, ma pur sempre secondario; ben pi profonda affinit introdusse Rousseau attribuendo a Pygmalion l'orgoglio di aver vinto sulla natura, di avere realizzato il desiderio blasfemo di generazioni di artisti, proprio come Orfeo che incanta le fiere e muove l'inanimato. Mentre infatti l'amore verso | Galatea, mescolato di erotismo e affettivit, che infiamma il personaggio ovidiano: "La bacia e gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e S crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca [...] E la colma di ^tenerezze e le porta quei doni che le fanciulle amano" (X, 256-7,259-60);21 quando invece il roussoviano Pygmalion tira via il velo che ricopre la sua = scultura, quando contempla la sua opera e di nuovo sente ardere il suo cuore, il suo stesso genio vittorioso che lo affascina
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narcisisticamente: ./'non posso cessare dall'ammirare la mia opera; mi inebrio d'amor proprio; mi adoro in quel che ho fatto...No, mai nulla apparso di cos bello lin natura; ho superato gli dei...".22 Ma a questo punto la storia dello scultore creatore diverge da quella del musico incantatore e ci chiarisce perch Rousseau tra i due artisti maghi prefer Pigmalione. L'Orfeo mitico infatti non si limita col suo canto a sospendere i ritmi naturali ma sfida l'unica legge di natura veramente inderogabile:23 viola i confini che separano la vita dalla morte, non tanto, o non soltanto, implorando gli dei inferi col suo canto fascinoso, ma soprattutto voltandosi, contro la loro prescrizione, lui vivo a guardare la morta Euridice; Pigmalione invece si ravvede: pregando, si isotto- mette completamente agli dei. Nelle Metamorfosi, mentre proferisce la sua preghiera, ne sente l'enormit e non osa neppure farne sentire il suono: " '[...] ho un desiderio: vorrei che fosse mia sposa...' e non osa dire 'la fanciulla d'avorio' ma dice 'una donna simile a quella d'avorio!' " (X, 274-76) 24 II Pygmalion di Rousseau, molto pi esplicitamente riconosce la superiorit della natura sull'arte; osservando infatti la sua creatura di pietra esclama: " la perfezione il suo difetto ... Divina Galatea, meno perfetta, non ti mancherebbe nulla ...'(Teneramente) Ma ti manca un'anima"; allora invoca Venere perch-ristabilisca le giuste gerarchie: "non chiedo un prodigio; questo un prodigio, e deve cessare; l'ordine sconvolto, la natura oltraggiata; restituisci alle sue leggi il potere, ristabilisci i suoi corsi benefici [...] risparmia alla natura l'oltraggio che un s perfetto modello sia immagine di qualcosa che non ".25 Dunque, quando improvvisamente Galatea si muove e scende dal piedistallo, non assistiamo ad una miracolosa sospensione delle leggi di natura; al contrario a un intervento divino che riassegna alla natura il suo ruolo. Galatea tocca le sue stesse braccia e mormora "io"; tocca uno degli oggetti nella stanza e "non io" mormora ancora; tocca infine Pygmalion e ripete "io": nel primo istante della sua coscienza si mescolano le identit, le anime, i corpi, e si realizza sulla scena la perfezione della passione amorosa vagheggiata da Rousseau nella vita.26 Con la metamorfosi di Galatea, una forma artistica - artificiosa e mendace diviene un essere palpitante e amante: la cultura diviene natura. Secondo Viarre nelle Metamorfosi l'essere di pietra figura della morte e Pigmalione riuscendo a dar vita al simulacro di cui innamorato - realizzerebbe il sogno di Orfeo di resuscitare Euridice27 A conclusioni simili giunge anche Charles Segai: "entrambi [Orfeo e Pigmalione], mediante il magico potere delle rispettive arti, giungono ad animare la natura inerte e ad abbattere le barriere tra materia e spirito"28. La lettura di Rousseau diversa: la statua noh natura inerte ma forma artificiosa conferita alla materia dalla tecnica e dal talento; Pygmalion realizza non il sogno di Orfeo che inscritto nell'uso corrotto e corruttore dell'arte che vuole sovvertire l'ordine di natura; realizza invece
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l'altissimo compito di riconciliare natura e cultura, il compito che orgogliosamente Rousseau si attribuiva come intellettuale, come filosofo, come artista. "Egli - scrive Starobinski citando Knt - non si limitato a denunciare il conflitto tra cultura e natura, ma ne ha cercata la so!uzione[...]: 'L'arte realizzata ridi-

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venta di nuovc&natura' ".29 Torno adesso brevemente al melologo. Mentre sul piano del contenuto Rousseau descrisse in Pygmalion l'artista capace di sanare il conflitto tra cultura e natura, su quello della forma affid al suo dramma il compito di rifondare il teatro musicale; nella sua concezione estetica le due cose non erano poi cos lontane. Non possiamo qui analizzare il percorso filosofico che lo condusse a queste conclusioni;30 sinteticamente accenno soltanto ad alcuni punti cruciali del suo pensiero che spiegano come un assertore profondamente convinto dell'essenza etica del canto, quale egli era, ne proponesse l'eliminazione delle scene; e come, malgrado questo, il Pygmalion possa esser considerato, non soltanto il frutto di una desolata rinuncia, ma, nella pi generale ambiguit estetica e filosofica di Rousseau, come '"nuova origine".31 Le lingue moderne si sono corrotte: perdendo il suono sono incapaci di esprimere l'interiorit soggettiva che l'unica verit possibile; la lingua francese, ormai completamente afona, buona soltanto alle menzogne dei salotti (specialmente nella Lettre sur la musique frangoise (1753) e nell' Essai sur l'orgine de langues (1760 ca.)) Il teatro il luogo dove la musica pu rispecchiare i movimenti ritmici e melodici del sentire umano: la verit soggettiva; ma non si possono recuperare espressivamente le forme degradate e perdute, non si pu ricreare quel misto di canto e discorso che faceva dell'antica tragedia una vera e propria opera senza arie;32 al contrario bisogna cercare nuovi modi drammatici e compositivi, adeguati al presente (specialmente nel Dictionnaire de musique (1768))Gli Italiani hanno ideato un nuovo grande stile che rimedia alla frantumazione e disgregazione della linea melodica del canto prodotte dallo sviluppo dell'armonia; lo stile di Pergolesi e di Jommelli; basato su una >| regola compositiva e contemporaneamente su un principio estetico, esso 'ij sfrutta il magnetismo del sistema tonale per stringere insieme melodia e armonia, e organizza in forme coerenti le diverse voci senza disperderle in polifonie caotiche, questo stile Rousseau chiam 'unit de mlodie': "l'armonia, invece di soffocare la melodia, la anima, le conferisce forza e determinazione; le diverse parti, senza confondersi tra loro, concorrono allo stesso effetto; e malgrado all'apparenza ciascuna abbia una sua melodia, una sola quella che esse compongono all'udito. questo che io chiamo 'unit de mlodie'" 33 (Lettre sur la musique frangoise e Dictionnaire de musique) Gi nel 1752, dieci anni prima del Pygmalion, Rousseau si era posto l'o- U biettivo di riformare il teatro musicale francese, trasfondendo nel Deviti du village (1752) la semplicit e l'immediatezza dell'opera italiana: ne aveva imitato i modi e la struttura compositiva per i quali con sguardo acuto

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prevedeva un meraviglioso futuro. Le Devin ebbe grande successo e rimase sulle scene francesi per tre quarti di secolo raggiungendo quasi le quattrocento rappresentazioni.34 Ma quando, subito dopo la prima rappresentazione che gli fece spargere lacrime di commozione e compiacimento, Rousseau intervenne con decisione nella querelle des Bouffons con la Lettre sur la musique frangoise, tra i paradossi e le contraddizioni che sostanziano la sua foga polemica, affiora il disappunto per avere usato la lingua francese nella sua semplice e delicata operina.35 Pi tardi, lavorando al Dictionnaire de musique, egli attribu romanticamente alla musica qualit espressive metalinguistiche; per effetto dell' unit de mlodie la musica nel teatro diviene imitativa ed oggetto della sua imitazione non sono soltanto gli accenti della parola ma direttamente i moti del cuore umano. "La musica, divenuta la terza arte imitativa, ebbe ben presto il suo linguaggio, i suoi modi espressivi, le sue immagini, del tutto indipendenti dalla poesia. Persino la musica strumentale impar a parlare senza bisogno di parole, e spesso non uscirono sentimenti meno vivi dall'orchestra che dalla bocca degli interpreti";36 grande amante e frequentatore di teatri, specialment italiani, aveva scoperto la potenza espressiva del recitativo accompagnato: il contrasto tra i modi lussureggianti dell'orchestra e quelli schivi del recitativo gli era apparso come "quel che vi di pi toccante, di pi affascinante, di pi potente in tutta la musica moderna".37 Un solo personaggio in scena, su cui si concentrano la tensione creativa dell'artista e l'attenzione del pubblico, pu realizzare al meglio l'effetto del recitativo accompagnato: " nei monologhi che si dispiegano tutte le energie della musica perch il musicista pu abbandonarsi a tutto l'ardore del suo genio senza essere intralciato, per tutta la durata della parte, dalla presenza di un interlocutore. Quei recitativi accompagnati, che fanno cos potente effetto nelle opere italiane, hanno luogo soltanto durante i monologhi".38 Ma se la lingua francese non adatta al canto, tanto meno lo al recitativo le cui intonazioni nascono oggi esclusivamente dagli accenti della lingua. La musica strumentale, che obbedisce invece alle ragioni musicali dell'unite de mlodie e parla senza parole, potr accostarsi, meglio che al canto, alla nuda recitazione: "persuaso che la lingua francese, che ha perduto ogni accento, non per niente adatta alla musica e soprattutto al recitativo, ho immaginato un tipo di dramma nel quale il testo e la musica invece di andare insieme, si fanno sentire alternativamente".39 Ecco il melologo: una scelta radicale, coerente con la sua utopia, e dettata non esclusivamente dal pessimismo. Non volle per cimentarsi in questa nuova prova e lasci che Horace Coignet scrivesse le musiche del Pygmalion. Questa prima versione (ne seguirono poi altre numerose) fu eseguita a Lione il 15 maggio 1770 e, in occasione della
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prima tampa del testo, Coignet attribu a Rousseau solo l'andante dell' Ouverture e un brano dell'Interlocution. Nel 1772 l'edizione viennese del testo, musicato in quella esecuzione da Aspelmayr, conteneva alcune indicazioni e descrizioni sommarie dei brani musicali da eseguire che per, sembra ormai certo, sono apocrife.40 Non si trattava di mettersi in gioco'-soltanto come compositore, cosa del resto che non faceva ormai da molti anni; nella sua invenzione teatrale convergevano la sua estetica e la sua filosofia: temette di verificarsi come artista eroico, nuovo diverso Orfeo: Pigmalione che trasforma l'arte in natura e restituisce alla musica e all'espressione una nuova origine. 1 voi. XI (1765). 2 Ivi (trad. mia): "Mais ayant regard derrire lui et ne la voyant plus, il en fut si afflig qu'il se tua lu-mme de dsespoir". 3 Tra queste - lo ricordo qui ai margini, da palermitana - quella che riguarda Palermo, da lui definita "ville detruite par un tremblement de terre", che richiese un "Supplement l'article de Palerme, regu aprs coup" nel XII volume e, nel XV, ancora una breve precisazione. 4 Cfr., nel voi. XIII, la voce "Sonate". 5 Critica del giudizio, trad. di A. Gargiulo, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 185,189,191. 6 Cfr., nel voi. X, "Musique". ^ Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Dictionnaire de musique, "Hymne", in CEuvres compltes, Paris, Gallimard, 1959-95 (d'ora in poi CEuvres.), voi. V, pp. 603-1191: 855. Ivi, "Lydien", p. 878: "Cest sur ce mode qu'Orphe apprivoisoit, dit-on, les btes mmes". 9 Emile ou de l'ducation, CEuvres, vol.IV, pp. 239-869: 606 e nota 2, 869,1864. Lettre D'Alembert sur Ics spectacles, CEuvres, voi. V, pp. 1-125:120. H Rousseau juge de Jean jaques, "Deuxime dialogue", CEuvres, voi. I, pp. 656-992: p. 872. 12 Cfr. CEuvres, voi. I, pp. 1-656: 314-15. Narcisse ou l'amant de lui-mme, CEuvres, voi. Il, pp. 957-1018: 972; trad. a cura di F. Bollino in "]-]. ROUSSEAU, Scritti sulle arti, "Prefazione al 'Narciso'", Bologna, Queb, 1998, pp. 33-48: 46. Su questo argomento e pi in generale sull'estetica di Rousseau, cfr. ivi, l'introduzione di Fernando Bollino, pp. IX-XXII. 14 Cfr. J. STAROBINSKI, La trasparenza e l'ostacolo, trad. di R. Albertini, Bologna, Il Mulino, 1982. 15 CEuvres, voi. II, pp. XCIX-C1: C. 16 Cfr. S.. VI ARRE, "Pygmalion et Orphe chez Ovide (Met., X, 243-297)", Rame des tu- iles Latines, 46 (1968), pp. 235-47: 243-44. Della pice di Rousseau resta solo il primo atto; non sappiamo se Anaxarte sar trasformata in statua, come l'Anassarete di Ovidio; ma comunque significativo che il

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primo lavoro teatrale di Rousseau sia ispirato a uno dei miti della pietrificazione. 17 OVIDIO, Le Metamorfosi, trad. di G. Faranda Villa, Milano, Rizzoli, 1999, voi. Il, p. 593. 1 Dictionnaire... cit., "Opra", (trad. mia) p. 954: "L'on senti que le chef-d'oeuvre de la musique toit de se faire oublier elle-mme". 19 S. V1ARRE, Pygmalion et... cit., pp. 240-41. 20 trad. cit., pp. 581 e 593. 21 ivi, p. 593. 22 J.-J. ROUSSEAU, Pygmalion. Scne lyrique, CEuvres, voi. II, pp. 1224-31:1226 (trad. mia): "Je ne puis me lasser d'admirer mon ouvrage; je m'enivre d'amour-propre; je m'adore dans ce que j'ai fait... Non jamais rien de si beau ne parut dans la nature; j'ai pass l'ouvrage des dieux...". 23 Secondo Rousseau l'uomo possiede, fin dall'origine, due qualit peculiari che agiscono contro natura: libert e perfettibilit; queste hanno prodotto la cultura, le societ, il progresso con tutti i mali che ne conseguono. Cfr. Discours sur l'origine et les fondemens de l'ingalitparmi les hommes, in CEuvres, t. Ili, pp. 109-223:126 e, pi estesamente, "Premire partie". 24 trad. cit., p. 595. 25 Pygmalion, cit., pp. 1227 e 1228-29: "Ah! c'est la perfection qui fait son dfaut... Divine Galathe! moins parfaite, il ne te manqueroit rien. Tendrement. Mais il te manque une ame"; "je n'attends point un prodige; il existe, il doit cesser; l'ordre est troubl, la nature est outrage; rends ieur empire ses lois, rtablis son cours bienfaisant; [...] pargne cet affront la nature, qu'un si parfait modele soit l'image de ce qui n'est pas". 26 Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Les confessions, cit., p. 416;trad. di M. Rago: J.-J. ROUSSEAU, Le confessioni, Torino, Einaudi, 1969, pp. 455: "Il primo dei miei bisogni, il pi grande, il pi forte, il pi inestinguibile, m'era tutto nel cuore: Era il bisogno di una compagnia intima, tanto intima quanto potesse esserlo; e perci mi occorreva una donna anzich un uomo, un'amica piuttsto che un amico. Questo singolare bisogno era tale che la pi stretta unione dei corpi non poteva essere sufficiente ad appagarlo. Mi sarebbero state necessarie due anime in uno stesso corpo, senza di che sentivo sempre il vuoto. 27 op. cit., p. 244. 28 CH. SEGAL, Orfeo. Il mito del poeta, trad. di D. Morante, Torino, Einaudi,1995, p. 94. 29 Cfr. J. STAROBINSKI, op. cit., p. 67 e I. KANT, Muthmasslicher Anfang der Menschengeschichte, trad. it. in Scritti politici, Torino, U rti, 1978, p. 203. Ho gi esposto la mia lettura di questi aspetti del pensiero musicale di Rousseau, in precedenti scritti ai quali rinvio: "Dall' Essai alla Lettre: ancora una volta Jean-Jacques juge de Jean-Jacques", Rivista Italiana di Musicologia, voi. XXIII (1988), pp. 242-278; "Le vrai sauvage ne chanta jamais": il mito dell'origine e della musica nel "Dictionnaire" di Rousseau, Rivista Italiana di
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Musicologia, XXXI/1 (1996), pp. 61-90; "Jean-Jacques Rousseau compositore", in La Ricerca Filosofica, Annali della Facolt di Lettere e Filosofia dell'Universit di Palermo, "La Memoria", n. 9 (1996), pp. 59-76. Sull'oscillare di Rousseau tra concezione pessimista e ottimista del mito dell'origine, cfr. specialmente, J. STAROBINSKI, La trasparenza ... cit. 32 I contemporanei di Rousseau pensavano che col melologo egli volesse in qualche- modo ricreare l'antica melopea dei Greci, (cfr. E. SALA, "La carriera di Pigmalione ovvero Nascita e prime metamorfosi del mlodrame", in: ROUSSEAU-COIGNET, Pygmalion, Milano, Ricordi, 1996 (Drammaturgia Musicale Veneta, n. 22), pp. VII-LVII); su questo argomento rinvio al mio articolo "Il melologo, Pigmalione e Pierrot", in Avidi lumi, III/7 (1999), pp. 5-9. 33 Cfr. Dictionnaire ... cit., "Unit de mlodie", p. 1144: "L'Harmonie, qui devroit touffer la Mlodie, l'anime, la renforce, la dtermine: les diverses Parties, sans se confondre, con- courent au mme effet; et qupique chacune d'elles paroisse avoir son Chant propre, de toutes ces Parties runies, on n'entend sortir qu'un seul et mme Chant. C'est-l ce que j'appelle Unit de Mlodie". 34 Cfr. TH. WEBB HUNT, The "Dictionnaire de musique" of Jean-Jacques Rousseau (North Texas State University, Ph. p. 1967), Ann Arbor, Michigan, University Microfilms, Inc., 1991, p. 42. Sembra che l'operina di Rousseau sia sparita dalle scene a causa di un grottesco insulto: una parrucca incipriata lanciata ai piedi degli interpreti da uno sconosciuto: cfr. J.-G. PROD'HOMME, "Les dernires reprsentations du "Devin du village" (Mai- uin 1829)", in: LUevue Musicale, VII/10 (1926). Cfr. A. COLLISANI, "Dall' 'Essai' alla 'Lettre'"... cit. Dictionnaire... cit., "Opra", p. 953: "La Musique, tant ainsi devenue un troisime Art l'imitation, eut bien-tt son langage, son expression, ses tableauxj tout--fait indpen- dans de la Posie. La Symphonie mme apprit parler sans le secours des paroles, et sou- vent il ne sortoit pas des sentimens moins vifs de l'Orchestre que de la bouche des Acteurs". ^ Ivi, "Rcitatif oblig", p. 1013: "Ces passages alternatif de Rcitatif et de Mlodie rev- tue de tout l'eclat de l'Orchestre, sont ce qu'il y a de plus touchant, de plus ravissant, de plus nergique dans toute la Musique moderne. L'Acteur agit, transport d'une passion qui ne lui permet pas de tout dire, s'interrompt, s'arrte, fait des rticenses, durant lesquelles l'Orchestre parie pour lui; et ces silences, ainsi remplis, affectent infiniment plus l'Auditeur que si l'Acteur disoit lu-mme tout ce que la Musique fait entendre". Ivi, "Monologue", p. 911: "C'est dans les monologues que se dploient toutes les for- ces de la musique, le musicien pouvant s'y livrer toute l'ardeur de son gnie sans tre gn dans la longueur de ses morceaux par la prsence d'un interlocuteur. Ces rcitatifs obligs, qui font un si grand effet dans les opera italiens, n'ont lieu que dans les monologues".
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J.-J. ROUSSEAU, Fragmens d'observations sur l 'Alceste italien de M. le chevalier Gluck, CEuvres ,vol. V, pp. 441-57: 448: "Persuad que la langue Frangoise destitue de tout accent n'est nullement propre la Musique, et principalement au rcitatif, j'ai immagin un gerire de drame dans lequel les paroles et la Musique, au lieu de marcher ensemble, se font entendre successivement". Su questo argomento e in generale sulla nascita - testo e musica - del Pygmalion, sulla sua diffusione in Italia e nel mondo (persino in America), sulla struttura musicale delle versioni di Coignet, Aspelmayr, Cimador, vedi l'interessante e ricco saggio di Emilio Sala, gi citato, che introduce le partiture di Coignet e Cimador (op. cit.); qui possono anche leggersi il libretto di Rousseau, in diverse versioni, e altri documenti; ringrazio sentitamente Alberto Basso che durante i lavori del Convegno mi ha segnalato questo volume la cui pubblicazione mi era, senza giustificazione, sfuggita. Cfr. anche le note al testo e quelle sui manoscritti e sulle edizioni del Pygmalion in CEuvres, voi. II, pp. 1926-7 e 1989-94. L'Orfeo romantico Giovanni Guanti (Conservatorio di Musica A.Vivaldi - Alessandria / Universit degli Studi di Pavia) Doch furchtbar ist, wie da und dort Unendlich hin zerstreut das Lebende Gott (Friedrich HOlderlin, Palmosi Milano 1825. Nel capoluogo lombardo, oppresso dall'occhiuta vigilanza degli austriaci, fermenti carbonari e nostalgie filobonapartiste trovano accogliente ricetto nei palchi del Teatro alla Scala, che ospitano anche un musicofilo inglese di passaggio sul continente: Julian Kestrel. Questo dandy, che viaggia accompagnato da un valletto che scopriremo poi essere un ex borsaiolo recuperato alla legalit, in realt un emulo tutt'altro che sprovveduto di Sherlock Holmes: non stupisce quindi che non resista alla tentazione di indagare sull'assassinio (avvenuto quattro anni prima) del marchese Ludovico Malvezzi, fatto di cui i frequentatori dell'Opera continuavano ancora a sussurrarsi l'un l'altro i particolari pi enigmatici e inquietanti. Della vita pubblica e privata della vittima di questo omicidio insoluto - un prodigo mecenate delle belle arti, e della musica in particolare - si credeva di sapere tutto o quasi tutto; si sapeva poco o nulla invece della vita del suo presunto assassino, resosi latitante il giorno stesso del delitto. Era costui un giovane tenore di origine inglese protetto e addestrato dal Malvezzi in vista di un brillante debutto sulla scena operistica, sul cui vero nome rimasto ignoto si sovrapponeva, carico di suggestione, il nome d'arte: Orfeo. Confesso che mi sarebbe piaciuto reperire nelle gazzette milanesi sottoposte alla censura degli emissari di Metternich il resoconto di questo fatto di sangue che riuniva sinistramente nella sua trama, e attorno al nome di Orfeo, la sacra
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trinit romantica di Amore, Morte e Musica. O, se non proprio in una di quelle gazzette che gi allora vantavano il monopolio sulla cronaca dei 'fatti realmente accaduti', confesso che avrei gradito imbattermi nel racconto di questo omicidio navigando sull'oceano della fiction ottocentesca, avvezza (per dirla con Riccardo Bacchelli) a presentare il nostto'paese come "lo scolatoio degli infimi romanticumi". Ma n i giornalisti n i romanzieri - e neppure quei provetti miscelatori di fiction, cronaca e storia che sono i musicologi avrebbero potuto ormarci del "delitto Malvezzi", perch quella che ho esposto (senza gliervi con una carognesca rivelazione prematura il piacere dello scio- imento finale) non che la trama del romanzo The Devil in Music di ate Ross, pubblicato nel 1997 dalla Viking Books. Cercare alter ego credibili del tanto epigonico quanto arciromantico rfeo della Ross lungo tutto l'arco del cosiddetto Secolo Lungo com' Marnato il periodo tra lo scoppio della Rivoluzione Francese (1789) e elio della Grande Guerra (1914) che gli storici tendono oggi a inter- retare come un'epoca unitaria e fortemente differenziata dal Secolo reve, teso tra la Prima Guerra Mondiale e la caduta del Muro di Berlino 989) - sarebbe impresa ardua se non proprio inutile. Infatti, censimenti ccuratissimi come quelli della Th Oxford Guide to classical Mithology in he Arts o del Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti titoli e i personaggi)1 dimostrano inoppugnabilmente come l'indice di adimento verso la fabula e il personaggio di Orfeo (poco importa se elibe, accompagnato da Euridice o vedovo; o se itinerante per la Tracia, ? per l'Ade o per i Campi Elisi) sia, nell'ambito soprattutto della produ zione e della riflessione musicale, sceso durante il Romanticismo ai suoi minimi storici. In campo figurativo, i capolavori incentrati su Orfeo di Corot, Delacroix, Ingres, Moreau, Beardsley, Redon, Burne-Jones, Rossetti, Rodin, costituiscono indubbiamente una galleria tematica ideale in cui, oltre al valore delle singole opere, importante misurare la persistente affezione degli artisti verso l'icona del citaredo tracio e l'allegorismo a esso legato da tempi immemorabili. In campo poetico-letterario, sempre" entro la vasta cornice del Secolo Lungo, oltre agli espliciti richiami di Wordsworth, Novalis, Nerval, Browning, Mallarm, Swinburne, Hugo, Valry, Tennyson, D'Annunzio, abbiamo le audaci aspirazioni neo-orfi- jche di Holderlin e di Novalis,2 nonch la mirabile traduzione di Shelley dell'epillio virgiliano (Georgiche IV, 315-558) in cui Aristeo narra la vicenda di Orfeo ed Euridice. In campo musicale invece, dove per ovvii motivi pi ci si aspetterebbe di vedere esaltato il semidio e il suo canto invincibile, gli elenchi registrano soltanto i lavori anodini di qualche diligente routinier del balletto o dell'opera in musica,3 cui si affiancano i giovanili saggi scolastici di Rossini (Il pianto d'Armonia per la morte d'Orfeo, cantata per tenore, coro maschile e orchestra su testo di Girolamo Ruggia; 1 ese69

cuzione: Bologna, Liceo Musicale, 11 agosto 1808) e di Berlioz (La mort d'Orphe, cantata per tenore, coro e grande orchestra op. 25 su testo di Henri-Montan Berton, 1827), un incompiuto Lied ds Orpheus, als er in die Hlle ging su testo di Jacobi (1792) di Schubert (settembre 1816), il poema sinfonico Orpheus4 (1853-54) di Liszt e la scena drammatica La mort Id'Orphe di Delibes (su testo di A. Renaud, 1877). In tanta penuria,5 spie- Ica in emblematico isolamento - e non soltanto per il suo intrinseco vaio- ire musicale - YOrphes aux enfers (3858) di Offenbach. Com' noto, commedianti italiani e poeti burleschi viennesi avevano gi da tempo utilizzato la leggenda di Orfeo per parodie rivolte contro l'opera barocca classicheggiante,6 e la letteratura francese degli ultimi duecento anni "conteneva un gran numero di parodie del mondo antico, che erano talmente normali per il pubblico che gi nel 1829 a un ballo in costume organizzato da Mademoiselle Mars si era vista una mascherata di di simile a quella di Offenbach" - come osserv Siegfried Kracauer nel suo Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, aggiungendo che Tutti conoscevano anche le caricature di Daumier il quale, secondo Baudelaire, aveva conferito ad Achille, a Ulisse e agli altri personaggi della mitologia l'aspetto di logori attori che quando si sapevano non osservati fiutavano tabacco. Di pi: all'inizio del Secondo Impero mettere in burletta i personaggi di rispetto dell'antichit era diventato addirittura una moda; si trattava certamente di fornire una valvola di scarico al desiderio represso di protestare contro la dittatura autoritaria. I fratelli Goncourt alla fine del 1858 scoprirono la sorprendente modernit di Luciano, l'antico derisore che parve loro come un antenato di Heine - dello stesso Heine che Xavier Aubryet nella sua discussione sull'Orfeo cit come un predecessore di Offenbach.7 Senonch, l'appropriarsi della prospettiva di questi moderni evemeristi e 'derisori del mito' (quali Daumier, Offenbach o Heine) per spiegare il vistoso calo di interesse verso la figura di Orfeo nella cultura musicale del sec. XIX come inevitabile effetto di una sconsacrazione e demitizzazione del mondo sempre pi provocatorie e impietose, potrebbe rivelarsi una scelta tanto limitativa quanto fuorviarne. Infatti, riprendendo la lezione de Les gnies des lements, un saggio scritto in francese come Le dieux en exil e che insieme a esso costituisce il vero e proprio manifesto del 'neopaganesimo' di Heine, si sarebbe tentati di recidere brutalmente il nodo costituito dalle molteplici diramazioni dell'interrogativo di cui sopra - "perch Orfeo viene negletto, nell'Ottocento, soprattutto dai musicisti?" - rispondendo che l'implacabile processo demitizzante riuscito a bandire il semidio persino da un ricovero ritenuto imprendibile come la stessa arte dei suoni. In altre parole, vittima anch'essa dell'epocale disincantamento, la musica avrebbe consegnato le proprie insegne al Dio ebraico-cristiano vincitore e carnefice dell'antica spiritualit greco-romana,8 rinunciando a encomiare la propria ormai
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aposttica potenza nell'immagine del cantore tracio ridotto in vesti dimesse, degradate e caricaturali. Senza nulla togliere all'esemiplarit dell'Orphes aux enfers - capolavoro emblematico di una sofisticata visione artistica, al contempo anticlassicistica e neo-pagana - va tuttavia sottolineato che un Orfeo che cerca alacremente la felicit lontano dalla 'prigione coniugale' (come del resto, nel capolavoro di Offenbach, fa anche Euridice), sarebbe stato difficilmente concepibile lontano da Parigi. Infatti, fulmini come quelli che Jules Janin scagli dalle colonne'de "Le Journal des Dbats" contro Offenbach - blasfemo profanatore dell'antichit "sacra e gloriosa" che "trascinava nella polvere i personaggi, cari all'umanit, di Orfeo ed Euridice e aggrediva gli dei"9 - non avrebbero trovato analoghi bersagli in una Germania che, j lungi dal farsi platealmente beffa delle divinit elleniche, raccoglieva j invece con pedantesca meticolosit le messi di un sistema scolastico e i universitario incentrato, grazie alle riforme di Wilhelm von Humboldt e Friedrich August Wolf, suirAItertumswissenschaft e sul culto severo per le antichit greco-romane.10 Nella Francia del Secondo Impero, sotto l'endemica e opprimente tradizione classicistica e dietro la rispettabile facciata del 'cattolicesimo rinnovato', "quella borghesia, che aveva bevuto le acque del Lete per non dover pi ricordare la sua origine, a causa dell'operetta correva il rischio di ritrovare se stessa";11 e l'infernale Galop dell'Orfeo offenbachiano, oltre alla "piacevole opportunit di mostrare i dessous charmants che si nascondevano sotto le crinoline",12 mostrava gi (secondo la penetrante analisi di Vittorio Mathieu) che II paradiso perduto per definizione un inferno, anche se "un inferno domestico a ritmo di can-can": Il senso tragico del paradiso perduto il sentimento profondo di tutta la musica di Offenbacn, anche della pi scanzonata. In pi, rispetto alla prima generazione romantica, c' la convinzione che non basta essere consapevoli di aver perduto il paradiso per ritrovarlo. Il primo romanticismo aveva avuto il presagio ai ci, ma ora Offenbach lo sa. E appunto perci il suo tono scherzevole, apparentemente meno angoscioso. Il paradiso perduto per definizione un inferno: ma pu essere un inferno domestico a ritmo ai can-can. ... Demoniaco del movimento nei tempi di can-can, demoniaco sensuale nei tempi di valzer (la celebre barcarola dei Racconti e il valzer trascinante della Belle Helne): entrambi si congiungono nella rivelazione del nulla.... La malinconia tipica di ogni sensualit che non riesce a liberarsi dall'intelletto. Intensissima nei Racconti di Hojfmann, essa potrebbe sembrare meno evidente nelle musiche anteriori. Ma, se si guarda meglio, ci si accorge che non cos. E, cosa ancor pi rilevante, ci si accorge che essa non affatto separata dall'altro tipo ai vuoto metafisico, dal vuoto del movimento meccanico-artificiale (com'era, anco- ra, nella comicit del pur ipocondriaco
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Rossini). La loro unit di fondo si percepisce spesso, ed perfino sottolineata dal finale di Orfeo all'inferno, quando Euridice, trasformata in baccante e ormai nello stato d'animo ai una svedese dopo il terzo divorzio prende a cantare il suo lamento sulla stessa aria del cancan, che il semplice allargarsi del tempo rende grondante di malinconia.13 \ Ben diversa doveva essere la sorte di Orfeo nell'area culturale germa- nica, dove la grande fioritura poetica romantica avrebbe affondato le l proprie radici nelle strofe alcaiche della grande ode di Klopstock An meine Freunde (1747). In essa, scrive Ladislao Mittner, il canto lirico trov un'immagine adeguata di se stesso rappresentando un fiume travolgente il cui solenne mugghiare l'anima stessa del ditirambo: il capo sanguinante di Orfeo trascinato dalle onde spumeggianti dell'Ebro verso l'oceano, mentre la natura intera, i boschi ammansiti dall'armonia musicale e le stesse rocce barcollanti seguono in estasi il martire glorioso. L'io e la il natura si compongono cos in una nuova, delirante sintesi e si preannun- eia la grande poesia dei fiumi eroici che in Goethe ed in Holderlin correranno con impeto irresistibile dai monti verso l'oceano. Da questo blocco di tre strofe, tutt'altro che perfetto in se, lecito far iniziare la nuova grande poesia tedesca.14 Ma da un Orfeo avrebbe potuto forse iniziare anche la fioritura di una nuova musica romantica tedesca per le scene teatrali se un curioso incidente non avesse scombinato capricciosamente le carte della Storia. Franz Joseph Haydn conosceva assai bene l'Orfeo ed Euridice (1762) di Gluck per averlo personalmente diretto nel 1776: non stupisce quindi che egli abbia voluto rendere omaggio al pi anziano collega inserendo un passaggio della sua celebre Aria "Che far senza Euridice" in un recitativo dell'opera L'Anima del Filosofo ossia Orfeo ed Euridice (1791). Tuttavia, per quanto idealmente unite da questa citazione e dall'analogo soggetto mitologico, le due opere non potrebbero apparire pi diverse nella concezione e nella realizzazione. Innanzitutto, perch Haydn - rifiutando il tradizionale 'lieto fine' suggerito gi dai mitografi e dai poeti neoplatonizzanti dell'Umanesimo (a cominciare dal Poliziano) e adottato, in epoca barocca, da Monteverdi e, dopo di lui, da una lunghissima schiera di operisti che comprende anche Gluck - opt invece, come Virgilio e Ovidio (e come Klopstock), per l'esito tragico. Carlo Francesco Badini, il librettista di questo che sarebbe stato l'ultimo melodramma haydniano, compendi infatti le versioni dei due poeti latini in una fabula nella quale il tracio cantore - dopo essersi voltato indietro e aver perso per sempre la sposa, che indietreggia mestamente tra le ombre dell'Ade - viene sbranato dalle Baccanti per aver rifiutato l'invito a consacrarsi come loro all'amore e al piacere. In secondo luogo, oltre che per il rifiuto del 'lieto fine', l'Orfeo ed Euridice di Haydn si differenzia da quello di Gluck per la partecipazione decisiva del coro, onnipresente in scena come nella tragedia greca per partecipare all'azione o per commentarla: un coro che acquista
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importanza persino superiore a quella dei protagonisti, riallacciando quest'opera seria a un tipo di composizione assai cara, sin dai tempi di Handel, al pubblico inglese: l'oratorio su soggetto mitologico. E si differenzia infine "anche per la presenza di una vocalit essenzialmente virtuosistica che, persino nelle arie a pi forte tinta drammatica, rivela il persistere dell'influenza belcantistica italiana che, com' nto, fu la prima vittima designata della cosiddetta 'riforma' gluckiana.15 . Circa trent'anni - quei trent'anni che in Germania videro il trapasso dallo Sturm und l^rang alla Frtihromantik, e in Francia il crollo dell'Ancient Rgime e Io scoppio e i convulsi sviluppi della Grande Rivoluzione - avrebbero dovuto passare tra la prima rappresentazione dell'Orfeo ed Euridice di Gluck e quella de L'Anima del Filosofo ossia Orfeo ed Euridice di Haydn, la cui partitura era gi ultimata nel 1791. E invece, per un imprevedibile incidente, ne passarono ben centottantanove! Di questo lavoro, commissionato a Haydn per l'inaugurazione del King's Theatre di Londra, posto sotto l'alto patrocinio del Principe di Galles, venne infatti proibita la prima esecuzione perch lo stesso re Giorgio III rifiut al proprio erede al trono la presidenza di un nuovo teatro che sarebbe potuto entrare in concorrenza con l'Opra di Londra, che godeva direttamente della protezione del sovrano. E si dovette quindi attendere il 9 giugno 1951, quando, al Teatro alla Pergola, nel corso del Maggio Musicale Fiorentino, l'opera di Haydn pot essere ascoltata per la prima volta dal pubblico sotto la direzione di Erich Kleiber e con Maria Callas nel ruolo di Euridice e Boris Christoff in quello di Orfeo.16 La storia non si fa n con i se n con i ma: ma se L'Anima del Filosofo ossia Orfeo ed Euridice di Haydn fosse andato in scena nel 1791 il venturo secolo decimonono avrebbe ricevuto in eredit dal precedente, oltre a quello di Gluck, almeno un altro esemplare 'Orfeo in musica', sotto ogni punto di vista pi memorabile degli insignificanti e giustamente dimenticati Orfei coevi di Vittorio Trento (Orfeo negli Elisi, Verona 1789), Ferdinando Par (Orphe et Euridice, Parma 1791), Matias Stabinger (Orphe traversoni l'enfer la recherche d'Eurydice, Mosca 1792), Prosper- Didier Deshayes (Le petit Orphe, "opra comique", Parigi 1793), Simone Eustachio (Orfeo ed Euridice, Mosca 1794). In quello stesso 1791 in cui la censura reale vietava la scena londinese all'opera di Haydn, al "Theater auf der Wieden" di Vienna si dava per la prima rappresentazione del Flauto magico di Mozart, il cui protagonista Tamino - liberatore di Pamina dal regno della Regina della Notte - , a tutti gli effetti, un Orfeo cui riesce il tentativo di strappare la sposa dalla morsa dell'Ade. L'identificazione Tamino-Orfeo potrebbe forse non apparire chiara a tutti,J e persino forzata, se a convalidarla non concorressero molti validi studi di ermeneutica simbolica libero-muratoria nonch l'inaspettato inserimento della stessa Zauberflte, sotto la voce "Orpheus und Eurydice", nell'autorevole e gi citata Oxford Guide to Classical Mithology in the Arfs.17 ,
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Come si visto, per una singolare coincidenza gli ultimi lavori per la scena operistica scritti sia da Haydn che da Mozart rievocarono entrambi (quello del primo espressamente, quello del secondo allusivamente) il mito di Orfeo; tuttavia, nonostante questi illustri antecedenti, anche nell'area culturale germanica la figura del divino cantore - costantemente rimasta in primo piano in poesia18 - spar quasi del tutto dalla musica. Si potrebbe spiegare perch ci avvenne ricorrendo a questa illuminante analisi contenuta nelle hegeliane Vorlesungen iiber die sthetik (1817 - 1829): Noi perci non dobbiamo formarci alcuna banale opinione sull'onnipotenza della musica come tale, di cui gli scrittori antichi, sacri e profani, ci raccontano tante storie favolose. Gi nei miracoli civilizzatori di Orfeo, i suoni e il loro movimento, pur bastando per le bestie selvagge che si ammansivano e si sdraiavano intorno a lui, non bastavano per per gli uomini che richiedevano una dottrina pi elevata. E infatti gli inni che ci sono giunti sotto il nome di Orfeo, seppur nella loro forma originaria, contengono rappresentazioni mitologiche e di altro genere.... I pifferi degli Scozzesi servono essenzialmente a infiammar di coraggio, e il potere della Marseillaise, del pa ira ecc., durante la Rivoluzione francese, non pu essere certo negato.... Ma nel tempo attuale noi non riterremo pi la musica in grado di produrre da s simile disposizione al coraggio e al disprezzo della morte. Per es., oggigiorno in quasi tutti gli eserciti abbiamo una buona musica reggimentale, che ha come compito di occupar l'animo, di distrarre, di stimolare alla marcia, di infiammare all'assalto. Ma non gi con ci che si pensa di battere il nemico; il coraggio non nasce semplicemente con il-suono della tromba e il rullo dei tamburi, e s dovrebbero radunare molte trombe prima di. poter veder crollare al loro suono una fortezza, come avvenne per le mura di Gerico. Ispirazione della mente, cannoni, genio del comandante sortiscono oggi questo effetto, e non la musica, che pu valere solo come sostegno per le potenze che hanno gi riempito ed hanno in loro potere l'animo.19 Per quanto convincente possa sembrare questa tesi che attribuisce all'inesorabilit del processo storico-dialettico anche la detronizzazione di Orfeo e il tramonto della fede nell'onnipotenza della musica, non mi arrischierei ad accettarla senza beneficio di inventario. Infatti, se cerco di dare un volto alle potenze di cui parla Hegel - potenze che, a suo dire, avrebbero gi riempito e sottomesso l'animo umano - mi quasi impossibile non vedere quello della Musica stessa, intronizzata dalla cultura romantica sopra tutte le altre arti e additata come analogon della stessa filosofia (Schopenhauer) o come filosofia di rango superiore a quella espressa razionalmente nei costrutti del discorso verbale (Wackenroder). Mi piace allora credere che, come chi raggiunge la riva pu dare alle fiamme la zattera ormai inutile che gli permise di attraversare il pelago, cos il Romanticismo tedesco, pervenuto a una visione del mondo compiutamente e intimamente 'orfica', pot bruciare e consumare
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tutti gli attributi esteriori e gli emblemi pi scontati del semidio. In altre parole, Novalis o Hlderlin non ebbero pi bisogno dell'erudita mascherata cui dovette invece sottostare ancora Marsilio Ficino, il quale, per dare pratica dimostrazione del 'potere della musica', vestendo una candida tunica e cinto il capo da un serto d'alloro, s'accompagnava nel giardino della sua villa di Careggi con un'aurea cetra ricostruita in stile 'finto-antico' copiando l'originale riprodotto su un reperto vascolare ellenistico. Eppure, la fede di quei poeti romantici nel Canto che crea e riformula con ritmo incessante l'universo era fondamentalmente analoga a quella del nostro quattrocentesco filosofo neoplatonico! E incontestabile che la coscienza romantica abbia avvertito l'obsolescenza irrimediabile di quegli apparati allegorici 'arcadico pastorale' e 'neoclassico' cui dovettero pagare rispettivamente un cospicuo tributo l'Orfeo di Monteverdi e l'Orfeo di Gluck; ma tale obsolescenza - complice la soppressione romantica delle barriere tra lo spirito e la vita - fu compensata dal fatto che non furono pi i personaggi e i paesaggi mitici della scena melodrammatica ma i loro stessi creatori (mitizzati ora persino nelle biografie) a suggestionare un pubblico sempre pi propenso ad attribuire loro veri e propri poteri orfici e sciamanici.20 Certo che quando, nell'ottobre 1812 - trovandosi a Linz alle prese col fratello Johann e con la futura cognata, la cui "vergognosa relazione" egli pretendeva di far cessare - Beethoven fu salutato dalla "Linzer Musikzeitung" come "l'Orfeo e il maggiore musicista-poeta del nostro tempo", questa non era altro che una di quelle stantie figure retoriche ancor oggi care ai fogli di provincia.21 Una figura che tuttavia sarebbe imprudente confondere con quella (in apparenza simile, ma quanto pi pregnante dato il contesto!) adoperata, un'anno pi tardi, da E.T.A. Hoffmann nel suo saggio Beethovens Instrumental-Musik (1813): Quando si parla della musica come di un'arte autonoma, non si dovrebbe forse intendere sempre soltanto la musica strumentale, che, sdegnando ogni aiuto, ogni intromissione di altra arte (la poesia), esprime in modo puro ed esclusivo la sua essenza caratteristica? Essa la pi romantica di tutte le arti: anzi si potrebbe dire che la sola veramente romantica, poich solo l'infinito il suo oggetto. La lira di Orfeo aperse le porte dell'Orco. La musica schiude alt uomo un regno ignoto, un mondo che non ha nulla in comune con quello esteriore dei sensi, e nel quale l'uomo lascia tutti i sentimenti definiti, per abbandonarsi ad una nostalgia ineffabile.22 Per quanto l'immagine di un Orfeo che non improvvisa i suoi canti divinamente ispirati ma li annota per conservarli e venderli sia forse troppo prosaica per non urtare la sensibilit di qualcuno, non si pu negare che i compositori romantici si sentirono 'Orfei redivivi' depositari delle stesse prerogative del mitico semidio. La rinuncia ai suoi emblemi pi esteriori
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procedette di pari passo con l'intensificarsi della suggestione emanata dalla sua forza interiore pi autentica, quella che gli permise (sia pure per un momento) di infrangere la barriera altrimenti insormontabile del regno dei Morti. Nelle splendide parola di Ernst Bloch, che riassumono l'utopistica speranza riposta dalla coscienza romantica nella musica, la perenne vitalit del mito ci viene cos descritta: Anche se va lasciato in sospeso se i morenti odano musica, i viventi per odono nella musica, con attissima affinit elettiva, una morte; lo spazio della morte confina mediatamente con la musica. Confina con la sua frequente espressione introversa e soprattutto col suo invisibile materiale, con la sua costante tendenza a indicare nell'invisibile, in cui inizia e verso cui seguita a tendere, un universo finalmente senza pi esteriorit.23 1 Cfr. la voce Orpheus (e le sottovoci Orpheus and Eurydice e Death of Orpheus) in: J. DAVIDSON REID, (ed.), The Oxford Guide to classical Mithology in the Arts, 1300-1990s, New York, Oxford University Press, 1993, pp. 774-799 e Orfeo in: Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, diretto da Alberto Basso, / titoli e i personaggi, voi. II, Torino, UTET, 1999, pp. 484-492. 2 Fra l'Ottocento e il Novecento Orfeo diviene l'emblematica personificazione del poeta lirico, come ha dimostrato con una penetrante analisi delle opere di Novalis, Nerval, Mallarm e Rilke W. STRAUSS in: Descent and Return: The Orphic Theme in Modem Literature, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1971. A conclusioni analoghe erano pervenuti anche E. KUSHNER, in: Le Mythe d'Orphe dans la littratureJranfai- se contemporaine, Paris, Nizet, 1961 e G. CATTAUI, in: Orphisme et prophtie chez les potes frangais 1850-1950, Paris, Plon, 1965. 3 Tali vanno considerati, entro il quadro della prima met dell'Ottocento, Der Tod des Orpheus di Maximilian Friedrich von Droste-HUlshoff (opera in tre atti su libretto di J. G. Jacobi, 1802); Orfeo di Cari Konrad Cannabich (opera in tre atti su libretto di R. de' Calzabigi, Monaco, Hof-National Theater, aprile 1802); Orpheus, grosse Oper in due atti su testo e musica di Friedrich August Kanne (Vienna, Karntnerthortheater, 10 novembre 1807); La mort d'Orphe, ouverture di Franz Ignaz Beck (1809); Streteniye Orfeyem Solntsa (L'incontro di Orfeo con il sole) cantata di Dmitry Bortnyansky (1811); Orfeo, scena lirica in un atto su testo e musica di Luigi Sampieri (Bologna, Teatro Contavalli, autunno 1814); Euridice in Tartarus op. 47 di Friedrich Daniel Rudolph Kuhlau (scena lirica drammatica su libretto di ]. E. Baggesen, Copenaghen, Kongelige Teater, 17 luglio 1816); Orpheus und Euridice di Karl Friedrich Rungenhagen (cantata profana su testo di F. W. Gubitz, Berlino, 9 gennaio 1819); Orfeo, ballo mitologico di Giacomo Serafini (Bologna, Teatro Comunale, 7 maggio 1822); La mort d'Orphe, scena lirica di Jean-Baptiste Guiraud (1827); Orpheus und Euridice di Werner Robert, conte di Gallenberg (balletto in cinque quadri su

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coreografia di L. X. S. Henry, Vienna, Karntnerthortheater, 10 settembre 1831). 4 Nel 1856, Liszt associ al brano il seguente 'programma': "Una volta ebbi a dirigere l'Orfeo di Gluck. Durante le prove mi jfu impossibile staccarmi dal punto di vista, toccante e sublime nella sua semplicit, da cui questo grande maestro ha considerato il suo soggetto, per riportarmi alla mente quell'Orfeo il cui nome plana cos maestosamente e armoniosamente sui pi poetici miti della Grecia. Ho rivisto nel pensiero un vaso etrusco della collezione del Louvre che rappresenta il primo poeta-musicista in una veste stellata, la fronte cinta della Jbenda misticamente regale, le labbra, da cui escono parole e canti divini, aperte e in atto di far risuonare energicamente le corde della sua lira con le belle dita lunghe e affusolate. Mi sembrato di vedere attorno a lui, come se Io stessi contemplando dal vero, le bestie feroci del bosco ascoltarlo rapite: gli istinti brutali dell'uomo tacere, vinti; le pietrediventare molli e i cuori pi duri bagnati da una lacrima amara e bruciante; gli uccelli canori e le cascate mormoranti sospendere le loro melodie; il riso e il piacere raccogliersi con rispetto davanti a quegli accenti che rivelavano all'umanit la potenza benefica deli'rte, la sua illuminazione gloriosa, la sua armonia civilizzatrice. L'umanit, bench guidata dalla pi pura delle morali, istruita dai dogmi pi sublimi, illuminata dai fari pi brillanti della scienza, messa in guardia dai filosofici ragionamenti dell'intelligenza, circondata dalla pi raffinata delle civilt, ancor oggi come allora come sempre conserva dentro di s istinti di ferocia, di brutalit e di sensualit, che l'arte deve intenerire, addolcire, nobilitare. Oggi come allora e come sempre, Orfeo, cio l'Arte, deve spargere le sue onde melodiose, i suoi accordi vibranti come una luce dolce e irresistibile sugli elementi contrari che feriscono e fanno sanguinare l'anima di ogni individuo e il cuore stesso di tutta la societ. Orfeo piange Euridice, simbolo dell'Ideale inghiottito dal male e dal dolore, che egli ha il permesso di strappare ai morti dell'Erebo, di fare uscire dalle tenebre cimmeriche ma che, ahim, non sapr conservare su questa terra. Possano mai pi tornare quei tempi di barbarie quando le passioni furiose, come menadi ebbre e sfrenate, vendicandosi del disprezzo dell'arte per i loro piaceri grossolani, lo fanno perire coi loro tirsi portatori di morte e le loro stupide furie. Se avessi potuto formulare fino in fondo il mio pensiero avrei desiderato rendere il carattere serenamente civilizzatore dei canti e di tutte le opere d'arte, la loro soave energia, il loro augusto impero, la sonorit che nobilmente alletta l'anima, il loro ondeggiare dolce come la brezza dell'Eliso, il loro graduale alzarsi come vapori d'incenso, l'atmosfera diafana e azzurrata in cui avvolgono il mondo e l'intero universo come in una veste trasparente d'ineffabile e misteriosa armonia" (cit. in: R. DALMONTE, Franz Liszt. La vita, l'opera, i testi musicali, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 358).
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^ Nella seconda met dell'Ottocento il tema di Orfeo dest l'interesse di un numero di musicisti ancor pi esiguo che nella prima, e ci avvenne paradossalmente proprio mentre il suo mito andava rifiorendo con la massima intensit in letteratura e nelle arti figu- . rative. Oltre ai succitati lavori di Liszt, Delibes e Offenbach, si possono infatti ricordare ; soltanto YOrphe di Benjamin Godard (dramma per musica in quattro atti su libretto di C. i ! Grandmougin, Parigi, Salon, 14 maggio 1887) e il balletto Orpheus di Leopold Wenzel (su j ; coreografia di K. Lanner, Londra, Empire Theatre, 25 maggio 1891), nonch l'incompiu- S ; ta opera Orpheus und Dionysos (1881) del sodale di Nietzsche Johann Heinrich KOselitz, ; ; alias Peter Gast. 1 6 Un frutto epigonale caratteristico di questa vena irriverente pu essere considerata la ! mytologische Karikatur Orpheus und Euridice, oder So geht es im Olympus zu di Ferdinand | ; Kauer su libretto di Karl Meisl (Vienna, Theater in der Leopoldstadt, 20 febbraio 1813). |; 7 S. KRACAUER, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, trad. it. di Sergio Montecucco, j; Milano, Garzanti, 1991, p. 216. Con molta finezza Ettore Romagnoli, affrontando il tema idella caricatura mitologica nella commedia attica antica nel suo Musica e poesia nell'antica IGrecia (Bari, Laterza, 1911, p. 97), ne aveva gi messo in rilievo l'affinit elettiva con quel;1 la fiorita nella Parigi del Secondo Impero: "Di tutte queste commedie non rimangono che ;i frammenti insignificanti: ma alcune rappresentazioni ceramiche gittano qualche luce sul \loro spirito. Ricorder la pi celebre, ... che i lettori possono ammirare sopra il celebre !; vaso del Museo Gregoriano. notte. Il nuovo, o meglio l'antico don Giovanni (Zeus), in |i figura d'uomo attempato, con un profilo buffo e arcigno, s' recato col fido Leporello |; Mercurio a dar la scalata alla finestra della bella. Egli tiene la scala sulle spalle, col capo |.infilato fra due pioli; Mercurio impugna con la sinistra il caduceo, e regge nella destra (o !| lironia anacronistica!) una lanterna. Dalla finestra Alcmena guarda teneramente l'avvenIturiero. Le parole non valgono a rendere l'anima di questa composizione, che ricorda in : !modo sorprendente le parodie classiche del grande caricaturista: Daumier; ma basta git- ; jtarvi sopra gli occhi per avvertire come aleggi sovr'essa il pi
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puro spirito offenbachia- no. N un alito troppo diverso dov animare tutte quelle antiche parodiche rappresentazioni di avventure dei Numi". !V1 "Io non sono affatto dell'opinione ... (che) l'iconoclastia dei primi cristiani sia da biasi- ; mare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi tem';.!e statue, poich in essi viveva ancora quell'antica serenit greca, quella gioia vitale che , ''al cristiano appariva diabolica. In quelle statue e in quei templi il cristiano non vedeva solo gli oggetti di un culto straniero, di una superstizione vacua a cui mancava ogni realt: egli considerava invece quei templi come le rocche di veri demoni, e conferiva agli di rappresentati nelle statue un'esistenza indiscussa; erano cio tutti diavoli. Quando i primi cristiani si rifiutavano di inginocchiarsi e di sacrificare davanti ai simulacri degli di, e per questo venivano accusati e trascinati in giudizio, essi rispondevano sempre che non potevano adorare i demoni. Preferivano sopportare il martirio, piuttosto che compiere un qualsiasi atto di venerazione per il diavolo Giove, o la diavolessa Diana, o addirittura per l'arcidiavolessa Venere. Poveri filosofi greci! Non poterono mai capire questa opposizione ... Infatti, non importava dimostrare con sottigliezze neoplatoniche il significato pi profondo della mitologia, infondere negli di morti un nuovo sangue simbolico e tormentarsi giorno per giorno a ribattere le goffe obiezioni materiali dei primi Padri della Chiesa, che schernivano specialmente il carattere morale degli di in tono quasi voltairiano: importava piuttosto difendere l'ellenismo stesso, il modo greco di pensare e di sentire, e opporsi alla diffusione dell'ebraismo, del modo ebraico di pensare e di sentire. La questione era: doveva regnare nel mondo l'ebraismo tetro, magro, ascetico, iperspiri- tuale dei nazareni, oppure la serenit ellenica, l'amore della bellezza e la fiorente gioia vitale? Quelle belle divinit non erano la cosa principale; nessuno credeva pi agli abitatori dell'Olimpo profumati d'ambrosia, ma ci si dilettava divinamente nei loro templi, nelle loro festivit e misteri; si adornava la casa di fiori, si eseguivano danze liete e solenni, ci si adagiava a gioiosi banchetti...se non in godimenti ancora pi dolci" (H. HEINE, Gli dei in esilio, a cura di Lia Secci, Milano, Adelphi, 1978, pp. 38-39). 9 S. KRACAUER, \acques Offenbach e la Parigi del suo tempo, cit., p. 215. Per un efficace quadro sintetico (anche se alquanto capzioso) del sorgere, dello svilupparsi e dell'imporsi alla cultura dell'intero Occidente delle finalit ideali e dei metodi di ricerca propugnati dall'Altertumswissenschaft germanica, cfr. M. BERNAL, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civilt classica, trad. it. di Luca Fontana, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1997, pp. 349-420. 11 S. KRACAUER, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, cit., pp. 216-217.
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"Non appena Giove dichiara agli di di volerli portare con s in un viaggio all'inferno, questi, sollecitati dal desiderio di divertirsi, dimenticano la loro ostilit a Giove e passano a glorificarlo a gran voce. Una meschinit che si trasmette agli abitanti della terra ... Nel mondo degli di e in quello degli uomini agisce una sola figura deterrente davanti alla quale persino Giove trema: si tratta della Opinione Pubblica. Dal momento che la dittatura napoleonica poggiava sul favore delle masse, essa pi che ogni altro regime doveva preoccuparsi dell'opinione pubblica, quell'entit capricciosa che da un principe, dalla sua prospettiva di principe, fu paragonata a una donna nervosa che per lunghi giorni se ne sta immobile sulla sua chaise-longue, ma nel momento della crisi fa a pezzi tutto quanto le capita tra le mani. Gli autori dell' Orfeo ebbero l'idea geniale di sostituire al coro della tragedia antica il personaggio dell'Opinione Pubblica, che rappresenta nell'operetta le apparenze dell'onore, della lealt e della fede: la convenzione sociale. Su ordine dell'Opinione Pubblica, Orfeo deve pregare Giove di restituirgli Euridice e, poich quello esita a dargli ascolto, Orfeo che in realt contento di potersi liberare di Euridice lo supplica con le parole: "Vieni! l'onore ti chiama!". Non si poteva far capire in modo pi chiaro che l'onore continuava a esistere soltanto ancora come convenzione. E come si comporta Giove di fronte alla convenzione? Vi si adegua consapevole che essa tiene unita sia la Societ terrena che quella olimpica, ma contemporaneamente sotto il suo mantello protettivo si concede oghi libert; essa per lui una facciata e nient'altro. 'Tutto per il decoro e con decoro' predica ai suoi di. Alla fine con un trucco grossolano costringe Orfeo a rinunciare a Euridice e ad andarsene, davanti all'Opinione Pubblica, senza aver concluso nulla: chiaro allora che l'Opinione Pubblica pu essere manipolata impunemente dai reggitori dei-potere.... Senza di lui (il personaggio di John Styx) l'immagine di un mondo puro non potrebbe continuare a esistere nemmeno come ricordo. Il couplet di John Styx ('Quand'ero ancora Principe d'Arcadia) un canto di una malinconia tale che pu esistere soltanto nell'animo di una persona cui l'oggi non significa nulla, e lo ieri tutto. del tutto regolare che l'infelice, che stato Principe di Arcadia, in un regno dove tutte le cose sono capovolte sia declassato a servitore. La sua esistenza opaca ha in s qualcosa di tragico. Ma a causa dell'angolo visuale rovesciato sotto cui si dispiega la sua vita, inevitabile che il tragico finisca nel massimo del comico. Dove tutto soltanto apparenza, la verit diventa lo zimbello" (S. KRACAUER, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, cit., pp. 217-219). v. MATHIEU,- La voce, la musica, il demoniaco, Milano, Spirali Edizioni, 1983, pp. 40-41. 14 L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), tomo primo, Torino, Einaudi, 1978, p. 166. Il libretto di Badini, oltre al coro e ai due protagonisti, prevede altri due personaggi: j Creonte (baritono) e un Genio (soprano); ma soltanto Orfeo presente in scena dal prin- | cipio alla fine dell'opera. Alla forte e originale
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unitariet stilistica del capolavoro di Gluck, il dramma per musica di Haydn oppone una singolare costruzione composita, ibridata sia da correnti provenienti dal passato (Mozart e, ovviamente, lo stesso Gluck), sia da correnti orientate verso l'avvenire (bel canto e, nello scatenato pandemonio delle Baccanti del quarto e ultimo atto, Beethoven). Si noti inoltre come al Genio, che entra in scena soltanto nel corso del terzo atto per proporsi a Orfeo come guida nel regno di Ade, venga affidata un'aria virtuosistica di una difficolt inaudita che, con i suoi repentini trapassi dalle note sovracute e quelle gravi, non pu non ricordare le arie della Regina della Notte nel Flauto magico; e come l'orchestra, lungi dal limitarsi ad accompagnare il canto, manifesti una propria personalit (per es. quando, subito dopo la morte di Euridice, alcuni inserti puramente strumentali esprimono il dolore del suo sposo con una intensit drammatica maggiore di quella sprigionata dalla stesso a solo di quest'ultimo). Infine, va ribadito che ne L'anima del filosofo, ossia Orfeo e Euridice il coro, spesso trattato da Haydn a voci pari (per es., alla fine del primo atto, l'elogio all'armonia ritrovata dopo il disperdersi delle Furie affidato alle sole voci maschili, e alle sole sole voci femminili invece il coro degli Amorini inneggianti ai piaceri di Eros, all'inizio del secondo atto), agisce come un vero e proprio personaggio capace di manifestare una gamma vastissima di emozioni, dalle pi violente alle pi tenere. Fra le incisioni discografiche dell'Anima del filosofo pi facilmente reperibili sul mercato segnaliamo quelle delle Editions de l'Oiseau-Lyre (452 669-2 e 452 670-2, London 1997, con Christopher Hogwood alla guida dell'Academy of Ancient Music e Cecilia Battoli, Uwe Heilmann, Ildebrando D'Arcangelo come principali interpreti); e della Deutsche Harmonia Mundi (05472-77229-2, Freiburg 1991, con Michael Schneider alla guida del Niederlandischer Kammerchor e dell'orchestra 'La Stagione' di Francoforte, e Marilyn Schmiege, Claron McFadden, Christoph Prgardien e Gotthold Schwarz come voci soliste). L'edizione di riferimento per la partitura resta quella curata d Helmut Wirth (L'anima del filosofo: ossia, Orfeo ed Euridice: dramma per musica, 1791 /Joseph Haydn ; libretto von Carlo Francesco Badini, MUnchen, G. Henle Verlag 1974). Lo stesso Wirth aveva curato, insieme a H. C. Robbins Landon, il libretto esplicativo che accompagnava i tre dischi della rara e ormai introvabile edizione della Haydn Society (HSL 2029, 1951) con Herbert Handt (Orfeo), Judith Hellwig (Euridice), Alfred Poell (Creonte), Hedda Heusser (Genio), Walter Berry (Plutone), e il coro e l'orchestra della Vienna State Opera diretti da Hans Swarowsky. Quest'esecuzione dell'opera haydniana, registrata nel dicembre del 1950 nella Mozartsaal della Konzerthaus di Vienna, precede quindi di pochi mesi l'allestimento fiorentino dei 1951. 17 "Tamino's rescue of Pamina from the Realm of Night parallels the story of Orpheus and Euridice"(J. DAVIDSON REID (ed.) The Oxford Guide lo classical Mithology in the Arts, 1300-1990s, cit., p. 789). superfluo sottolineare che nella
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lettura del simbolismo massonico del Flauto magico il 'regno dei morti' dal quale Tamino-Orfeo libera Pamina-Euridice si identifica con il mondo profano, o Regno delle Tenebre, abitato dai non iniziati. IO Ricordiamo i poemi Orfeus der Argonaut (1795) di Johann Heinrich Voss e Die zxveite Eurydice (1796) di Johann Gottfried Herder; la discesa di Orfeo nell'Ade su cui si incentra Die Etfiilling nel secondo libro dell'Heinrich voti Ofterdingen (1802) di Novalis (ma l'immagine era gi presente anche negli Hymnen art die Nacht, 1799); l'Orfeo che ammansisce Cerbero evocato da HOlderlin nella lirica Brot und Wein (1800-1801); l'abbozzo di Schiller per un Orpheus in der Unterwelt (1805). 19 G. FR. W. HEGEL, Estetica, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi, 1972, pp. 1014-1015. 20 Cfr. G. FLAHERTY, Shamanism and the eighteenth century, Princeton (N.J. ), Princeton University Press, 1992 (soprattutto i capitoli 6 - "Herder on the Artist as the Shaman of Western Civilization" e 7 "Mozart, or, Orpheus Reborn", rispettivamente alle pp. 132-149 e 150-165). Le acute deduzioni della Flaherty andrebbero utilmente integrate con quelle di R. McGAHEY, The Orphic Moment: Shaman to Poet-Thinker in Plato, Nietzsche, and Mallarm, Albany (N .J.), Suny, 1994. Non ovviamente questa la sede per approfondire la suggestiva reviviscenza di molti aspetti caratteristici dell'orfismo e dello sciamanesi- mo antichi nella fenomenologia del 'genio romantico', esaltato come redentore e terapeuta dalla comunit perch capace di protendersi oltre i confini della percezione ordinaria per intuire l'esistenza di altri mondi, ma anche emarginato ed esecrato come capro espiatorio e irrecuperabile eslege. 21 Meriterebbe ben pi di un breve accenno in nota la discussione sulla solidit della tesi di O. JANDER ("Beethoven's 'Orpheus in Hades': the Andante con moto of the Fourth piano concerto", in: '19th century music' 8, no. 3 (Spring 1985), pp. 195-212), cos riassunta nei suoi termini essenziali dallo stesso Jander [Ibid., pp. 195-196): "For several deca- des now an amusing debate has been going on among the writers of record jacket notes as to whether the second movement of Beethoven's Fourth Piano Concerto does or does not involve some association with the Orpheus legend. This 'debate' can be summarized in the following sentence, in which the wording is mine: 'It was Liszt who first compared the slow movement of Beethoven's Fourth Piano Concerto with the story of Orpheus taming the wild beasts with the music of his lyre; Beethoven, of course, had no such idea in mind'(... )It is my intention here to demonstrate that the constantly resurfacing rumor about this piece of music is indeed true, far truer than any of us ever imagined before. This movement, I believe, is Beethoven's most elaborate venture into the realm of program music. It may well be the most totally programmatic piece of music great art music - ever composed".

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Per una critica tanto sottile quanto costruttiva della proposta interpretativa di Jander cfr. E. T. CONE, "Viewpoint: Beethoven's Orpheus - or Jander's?", in: '19th Century music' 8, no. 3 (Spring 1985), pp. 283-286. A distanza di dieci anni, del resto, lo stesso Jander sfumer abilmente la sua tesi, che caricava di associazioni extramuscali suggestive ma soltanto parzialmente verificabili il secondo movimento dell'op. 58: "Orpheus revisited: a ten year retrospective on the Andante con moto of Beethoven's Fourth Piano Concerto", in: '19th century music' 19, no. 1 (Summer 1995), pp. 31-49. 2 E. T. A. HOFFMANN, Poeta e compositore. Scritti scelti sulla musica, a cura di Mariangela Don, Fiesole, Discanto Edizioni, 1985, p. 3. E. BLOCH, Il principio speranza, trad. it. di Enrico De Angelis e Tomaso Cavallo, Milano, Garzanti, 1994, voi. Ili, pp. 129-1270.

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Il suono non ha bisogno di una luce esterna; sopporta l'oscurit, anzi ne cerca il silenzio. In silenzio, di notte, vengono scavati tesori; la musica non disturba questo silenzio, essa si intende di cripte, essendo luce nella cripta. Da qui la sua vicinanza non soltanto alla felicit dei ciechi ma alla morte, anzi alla profondit dei desideri che cercano di rischiararla. Se la morte, pensata come mannaia del nulla, la pi acerba non-utopia, la musica si misura allora su di lei come la pi utopica/di tutte le arti. Essa vi si misura tanto pi turbata, in quanto la non terra della morte riempita dalla notte che, in quanto partoriente, sembra cos profondamente familiare alla musica entro questo mondo. Quanto decisamente diversa da ogni altra pu apparire la notte della morte, altrettanto - a torto o a ragione - la musica si sente come un fuoco greco che arde nello Stige. E se contro la morte Orfeo suona l'arpa, e con successo, tanto successo ce l'ha per solo nella morte, cio nell'Ade. Pu essere una leggenda che i morenti, nel loro stato di sprofondamento, odano musica....

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Perch il mito, oggi? e perch proprio Orfeo e Euridice? Se vero che il mito racconto archetipico sugli universali dell'uomo, anche vero che alcuni miti, pi di altri, sono in grado di parlare un linguaggio anche nostro, meno ancorato e circoscritto all'antichit e pi aperto ad accogliere sensi attuali, che mettono in racconto le vicende della nostra esistenza, nel suo incerto e drammatico definirsi. * Orfeo raccoglie intorno a s una vera e propria costellazione di questi sensi,ina soprattutto si fa simbolo di una condizione a noi moderni molto cara; l'incarnazione della contraddittoriet, e insieme della coerenza nella contraddizione. Orfeo il giorno e la notte, la morte e la vita, l'amore e l'odio. tutto questo insieme, ma anche molto di pi: la prova vivente di quanto possano incidere, nella vita umana, l'arte, la poesia, la bellezza, la dimostrazione della loro capacit di riscatto sul dolore e persino" sulla morte. Ma Orfeo eroe moderno soprattutto nel suo amore per Euridice, un a- more tragico, che si perde nell'attimo stesso in cui si ritrova, e che racconta l'eterna vicenda della precariet di ogni cosa umana, della fragilit di ogni affetto, destinato a essere perduto per la nostra stessa debolezza. La domanda che perseguita i due amanti infelici fin dal loro primo affacciarsi sulla scena della letteratura e dell'arte guarda all'attimo fatale in cui Orfeo perde tutto, si volta contro le prescrizioni divine e viene privato, per sempre, della sposa amatissima. Le risposte che nei millenni e nei secoli della nostra storia letteraria e artistica sono state date a questa domanda si schierano su due fronti, in opposizione: quello ch&nell'antichit era un gesto irriflesso, istintivo ma incoercibile, dettato da un impulso amoroso o da un'improvvisa follia, diventa atto cosciente e scelta consapevole nei moderni. Nei due rintocchi temporali, tra passato e presente, a un gesto irrazionale fa da controcanto un gesto ponderato, voluto e calcolato, un gesto titanico che vuole imporsi sull'imponderabilit del destino e l'irrevocabilit della perdita, ma anche, talvolta, esorcizzarla nel sorriso, volgerla ironicamente in burla, scherzarci su.

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garsi sul significato di quegli antichi racconti e li ha ricantati con voce tuna propria. : Abbiamo delineato un percorso e tracciato una via, per mostrare, insieme, la modernit e la duttilit del mito, che si fa accogliere non solo entro le codificate formeltterarie, ma anche nella musica, nel cinema, nell'arte. Un percorso attraverso le epoche e attraverso la cultura, che potr appassionare (lo speriamo) il lettore curioso, ma anche farsi occasione per avventure di lettura che coinvolgano ragazzi, studenti, insegnanti. Il nostro lettore ideale , come sempre avviene, gi iscritto nel racconto. A voi scoprirlo e, ce lo auguriamo, a voi identificarvi con lui. Marina Di Simone Ringraziamenti Ringrazio tutti gli amici delle edizioni Libri Liberi che hanno condiviso con me l'entusiasmo per questo libro e per la collana di cui fa parte; un ringraziamento speciale a Vittorio Rossi, che stato un sostegno prezioso, fonte di consigli utili e intelligenti.

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CLASSICIT Delle figure che popolano l'antica mitologia, quella di Orfeo forse la pi complessa e la pi misteriosa; dotata di straordinaria permeabilit, attraversa le regioni dell'immaginario sempre portando con s l'idea, affascinante e perturbante, del limite, del confine di ci che possibile, lecito, u- mano, ma anche di ci che appare insanabilmente contrapporsi. Un limite che viene sfidato e violato, e un limite che condizione e simbolo di indefinitezza, di mistero; Orfeo, come vedremo, cantore e poeta, uomo innamorato, semidio, vate, attraversa la vita e la morte, la gioia e il dolore, la sfrenatezza e l'olimpica luminosit. Concilia gli opposti e fa, insieme, e- splodere le contraddizioni, incarnandole in s. Come scrive Alberto Savi- nio, in Orfeo e nella sua leggenda qualcosa di ambiguo. Tra il s e il no. Quel tra s e no che la condizione umana al di l dalla categorica determinazione dei sessi: di l dalla stessa determinazione del divino e dell'umano. questa una delle ragioni - la principale - del fascino che ancora oggi ci trasmette questa figura mitica, che concentra su di s molto del mistero legato alle origini stesse della fantasia e del canto poetico, ai loro effetti sulla mente e sull'animo umano. Orfeo figlio del canto, progenie divina della musa Calliope, la musa dalla bella voce, e di Apollo, il dio luminoso che del canto e della poesia patrono (ma una tradizione parallela ne fa il figlio di Eagro, re trace). Per i suoi stessi natali, Orfeo viene quindi scelto dagli antichi Greci a mediare il delicato passaggio da mito a realt storica, e a nobilitare le origini e la natura stessa di un intero, ricchissimo universo letterario e artistico; Orfeo, mitico cantore, inserito cos in una sorta di catalogo, o di successione (propriamente una genealogia) che da lui arrivammo a Omero ed Esiodo, gli inizi certificati e tangibili della letteratura greca.
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Nel mito, Orfeo appartiene a una generazione di eroi precedente a quella omerica: partecipa alla prima spedizione per mare insieme a Giasone e a-Sirene). Fin dal suo primo apparire sulla scena della letteratura e dell'arte, Orfeo noto soprattutto per la fascinazione del suo canto, per la melodia dolcissima delle sue note, capaci di estasiare la natura tutta; le pietre si muovono accompagnando la melodia, le fiere si ammansiscono, gli animi si placano. Il canto misterioso e divino di Orfeo fa di lui una figura dai poteri straordinari e ancora una volta al limite, sospeso tra due ideologie religiose spesso sentite come opposte, antitetiche; figlio del luminoso Apollo e a lui devoto, Orfeo appartiene anche al regno pi oscuro di Dioniso, il dio dell'ebbrezza e dell'invasamento mistico (il canto di Orfeo spossessa, estrania dal mondo e dalla realt, proprio come lo sfrenamento dionisiaco, di cui tra l'altro Orfeo sar vittima nel finale della sua storia). Non a caso, tra le prerogative attribuite a Orfeo, c' anche quella di essere il fondatore di un particolare movimento religioso (e dei misteri a esso connessi), l'orfismo, una religione di cui poco o pochissimo sappiamo, ma che in qualche modo sembra volesse calare in una forma apollinea (quella della poesia e del canto) un contenuto originario di matrice dionisiaca (il mistero di Dioniso Zagreo, il dio che nella teogonia orfica il progenitore buono degli uomini - figlio di Chronos, fu sbranato dai Titani che furono poi inceneriti da Zeus; dalle loro ceneri, e dal loro corpo nutrito di quello di Dioniso, nacquero gli uomini, un amalgama di malignit e bont, di bestialit e natura divina). Ma c' un episodio, nella vita e nella storia di Orfeo, che assume un rilievo eccezionale e diventa esso stesso un mito autonomo, nel quale i tratti della personalit di Orfeo (cantore, sacerdote, mistico) si fondono e si armonizzano, quasi esaltandosi a vicenda: la storia del suo eroico e tragico amore per Euridice, un amore assoluto nel quale vita, morte e canto si intrecciano strettamente. Ecco le linee della storia: Orfeo sposo felice di Euridice, una ninfa (propriamente una Driade, ninfa dei boschi). Un giorno, mentre Euridice passeggia in compagnia di alcune Naiadi (ninfe sorelle delle Driadi, che popolano fonti e sorgenti), viene morsa da un ' serpente e muore (Virgilio, come vedremo, immagina che Euridice incontri il morso letale del serpente nel tentativo di fuggire Aristeo, che le vuole usare violenza). Orfeo inconsolabile e la piange giorno e notte, muovendo a compassione la natura tutta. Infine decide di osare la massima delle imprese: scende agli Inferi e ne supplica i sovrani, il dio Ade (o Plutone) e la regina Persefone, sua sposa. Le sue suppliche e il suo canto disperato gli valgono la grazia: Orfeo potr riottenere Euridice, ma a un patto: nel ricondurla sulla terra dovr camminare a- vanti a lei, e non dovr voltarsi: mai, per tutta la durata del cammino; solo una volta giunti sulla terra, alla luce del
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sole, Orfeo potr voltarsi a guardare la sua sposa. La condizione sembra facilissima, eppure Orfeo, quasi al termine del cammino, commette l'errore fatale di violare il patto: si volge indietro - non si sa se per improvvisa follia o per timore - e guarda Euridice, la quale istantaneamente retrocede nel mondo dal quale era venuta e al quale Orfeo stava cercando di strapparla. Orfeo, ancora pi disperato, fa ritorno sulla terra, e piange Euridice fino alla morte, una morte anch'essa tragica, terribile. Un giorno, mentre tra le montagne inospitali di Tracia, Orfeo canta ancora una volta il suo canto dispe- rato, vittima delle Baccanti invasate, e viene fatto a pezzi ( la morte rituale, lo sparagms o sbranamento della vittima4); dalla testa priva del corpo, che scorre lungo la corrente del fiume Ebro, continua fino alla fine a risuonare il nome dell'amatissima Euridice. Questa storia, cos come l'abbiamo riassunta, deriva per gran parte da Virgilio, che la pone a suggello del suo poema sui campi, le Georgiche, e da Ovidio, che la incastona nel suo lungo poema sulle metamorfosi della natura e del mito, le Metamorfosi. Prima di queste due celebri versioni, la tragica storia dei due sposi nota solo per accenni, ma sembra gi delineata nei suoi tratti essenziali (cosa sia realmente accaduto tra le prime testimonianze e le due mature versioni latine non lo sapremo probabilmente mai, tale il naufragio che ha colpito i testi dell'antichit). Platone ed Euripide accennano a Orfeo e alla sua impresa (la discesa agli Inferi) paragonandola, in via o- ra positiva ora negativa, all'eroismo di Alcesti, che si offr di morire (ed effettivamente mori) al posto del marito, Admeto5. Il retore Isocrate, qualche anno pi tardi, ricorda le incredibili capacit suasorie di Orfeo, capace di muovere a compassione persino i morti. Non sappiamo se la versione originaria del mito di Orfeo e Euridice prevedesse un esito infausto, tragico, della discesa agli Inferi, o piuttosto un lieto fine, con il ricongiungimento dei due sposi; un'ipotesi a lungo invalsa (e ancora oggi a pi riprese sostenuta) che la versione originaria del mito, con il lieto fine, sia stata trasformata e adattata a uno spirito tra- gico-romantico

Nel rituale dionisiaco le Baccanti (o Menadi), al culmine del delirio orgiastico, sbranavano un animale vivo e ne mangiavano le carni. Lo sbranamento o sparagms, d'altro canto, nel mito di Dioniso la morte che tocca a chi si oppone all'introduzione del culto e delie pratiche misteriche del dio: cos muore per esempio Penteo, re di Tebe, fatto a brani dalla madre Agave in pieno delirio mistico. 5 La storia oggetto della tragedia di Euripide, Alcesti. Ad Admeto, re di Fere in Tessaglia, concesso di poter rimandare il giorno fissato dai Fati perla sua morte se trover qualcuno disposto a morire al posto suo. L'unica che si offre la moglie Alcesti, che una volta morta viene per riportata sulla terra da Eracle, sceso agli Inferi per riportarla alla vita.

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proprio dell'et alessandrina e che in questa forma il mito sia stato raccolto e ripreso da Virgilio. Qualunque sia la soluzione di questo mistero, certamente la versione sublime e tragica di Virgilio e di Ovidio quella che pi impression, nei secoli a venire, generazioni di scrittori e di poeti. La fortuna del mito di Orfeo e Euridice fu grandissima ed vitale ancora oggi. Perch come tanti, come quasi tutti i miti dell'antichit, ancora oggi ci parla, in grado di dirci e raccontarci qualcosa sul nostro essere uomini, sulla vita, sulla morte e sull'amore. Seguiremo nel tempo la storia dei due amanti infelici e vedremo come sia proprio la .nostra epoca quella che pi di ogni altra tornata a interrogarsi sul significato profondo di questo mito, e a caricarlo di nuovi sensi, di nuovi contenuti, insieme modernissimi ed eterni. La storia letteraria di Orfeo moito antica e risale almeno al VI secolo a.C. la poesia corale greca (propriamente la melica, cio la poesia destinata al canto spiegato, e al canto corale, per celebrazioni pubbliche, cittadine) a riconoscere e rivendicare il ruolo di Orfeo, cantore divino, suo mitico progenitore. Cos, Ibico accenna a Orfeo dal nome famoso (ovoviakXutov "Opcfriv)1 e Pindaro, tra VI e V secolo definisce il poeta trace doiSv rcatrip [...] eaivtiTOi; 'Op<f>ev<;, padre dei canti, Orfeo molto lodato (Pitiche 4, 176-177). Agli stessi anni, all'incirca, risale una testimonianza archeologica importante, una metopa rinvenuta a Delfi e raffigurante la nave Argo con a bordo due citaredi, accanto a uno dei quali compare la scritta ORPHAS. Intorno al VI secolo a.C., quindi, Orfeo gi noto come cantore e come partecipante alla spedizione degli Argonauti. La storia della sua impresa agli Inferi nominata come abbiamo visto solo per accenni - da Euripide e da Platone, tra V e IV secolo a.C. Neil'Alcesti di Euripide (438 a.C.), Admeto si difende di fronte al coro e chiama in causa proprio Orfeo; se egli fosse in grado, come Orfeo, di incantare con la sua voce i sovrani degli Inferi, non esiterebbe a scendere nei territori dell'aldil per riportare in vita la moglie Alcesti (vv. 357-368): ' ei 6' 'Op<|><ix; (oi ykwaaa KC nXoq rcapfjv, XJT' rj Kpt|v Aiin.T|Tpo<; T) Kjeivri^ rcaiv involai KT)A.iioavTa a t, "AiSov XaPetv, KatfjXBov av, KCU fi' ot)8' nA.o-uro)vo<; KUOV OA0' ojtl KCTCTI yvxonoiiKq v Xaptov f^ov, rcpiv q <)><&; av KaToto-rfjaai piov. -oppo, di ricostruire il contesto di quanto dice Ibico; il frammento (17 Prilli tip. Iji xaniert7a ereca. voi. I. Milano 1990. D. 119. dAA' ovv keoe rtpooSKa fi", Tav Savco, Ka 8%' TOvjia^', (bs cruvoiKT|ooucj jiov. 'Ev taaiv avTag yp ji' cjuoKTjyw KSpoig coi TovoSe Etvai jttevp x taeivai rcXaq rcXevpotai loq 0015- jrnS yp Qavaw itote cto xp? eitiv ttj9 fiviis jcvorfs jxoi.
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Se avessi la lingua e il canto di Orfeo, e potessi incantare con la mia voce la figlia di Demetra e il suo sposo, cos da poterti strappare all'Ade, scenderei, s, agli inferi, n il cane di Plutone n Caronte, condottiero delle anime, curvo sul remo, mi potrebbero trattenere dal riportarti alla luce della vita. Ma so che non possibile. Almeno, tu aspettami l, aspetta che vi giunga, una volta morto, e preparami una dimora, per abitarvi insieme a me. Comander di depormi nella stessa cassa di cedro nella quale sei stata deposta tu, al tuo fianco. Che io non sia, neppure da morto, privo di te, mia fedele sposa, la sola a me fedele! Le parole affrante di Admeto non dicono nulla dell'esito dell'impresa di Orfeo, non ci dicono se sia stata, o meno, coronata dal successo. Anche Platone, qualche anno pi tardi, collega l'impresa di Orfeo - che per viene chiaramente presentata come un fallimento - all'eroismo di Al; cesti; un paragone a tutto svantaggio di Orfeo, che non si offr, come Alcesti, di morire in luogo dell'amata, ma eooe la pretesa di poterla riottenere. Per questo, per la sua arroganza e la sua sostanziale mancanza di vero eroismo senTimentale, gli di ingannarono Orfeo, facendogli ottenere solo un pallido sembiante della sposa, solo un iantasma. Cos parla Fedro nel Sim- posio platonico6 (179b-d): Rai (ifiv uTtepajtoOvqoKeiv ye. p.voi OXovaiv oi prvieq, 01 p.vov li avSpeq, Xk Ka ai YuvaKE<;. Toikov 8 Ka 11 rieXCo-u Qvyrrip "AXktiotk; Kavfiv jiaprupiav jtapxetai. vjip icCSe iovt Xyov ei<; tci; "EXX.T|vas, QeXrjoaaa (xvti wtp to aiirrc; dv8p<; drcoQaveiv, vtcov aTw jcaTps te Ka ji/rytp<;, ov><; Keivri tooojtov vTcepepXeto trj <|aXia 8t tv poyta, (Bete djtoSe^ai a-tojq dAAotpioix; vto<; xc liei ica oviian |ivov jrpoar|Kovta<;, Ka tom' pYaaajivT) i epyov ovtco Ka- A,v o^ev pyoaoQai ov fivov dvOpciou; aAA Ka eoi?, waie jioXXmv KoXX Ka KaX. pYaoa(ivcov eijapi6|i-qioi.q Sii xioiv Socav toto ypaq ot 0eoi, ei; "AiSov civeivai itaXiv ttjv v|/vxiiv, XX tt(v Keivris avEioav yaaQvtec, t) pvcp' o-utco Ka Oeo ttiv JtEpl tv pcoxa a;cov5iiv te Ka dpETT|v fiaXicTa ti(coiv. 'Op<j>a 8 tv Oia-

La scena che fa da sfondo al dialogo di Platone il banchetto offerto dal peta tragico Agatone per festeggiare la vittoria riportata in un agone drammatico. I convitati (tra i quali figurano anche Aristofane e Socrate), a turno, pronunciano un encomio di Eros. Fedro il primo a parlare e sostiene che Eros, il pi antico fra gli di, ha elargito agli uomini i pi splendidi favori, giacch l'innamorato desidera distinguersi agli occhi dell'amato. Eros infonde coraggio e spirito di sacrificio; prova ne sono le storie di Alcesti e Achille.

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ypou TeA-T jcTEenyav l; "AtSov, fiacca Set^avtes Tfj^ yvvaiKq f i)v flicev, attiv 8 o 8vtei;, ti fiaa.oaici^o0ai 8kei, ote (v ki- 0ap(p8q, <a oii t0a410v evekci tot} Eparco*; a7to0vfjoKEiv (oarcEp "AXkti- cmi;, dXX 8ian-nxavo0ai Eoivai ei? "Ai8ov. TovyapToi 8i tav-xa SIktjv av-tc uQeaav, Ka icoi^aav tv 0vaTov aito<) -urt yv- vaiKv YEvatai [...] In verit solo gli amanti sono disposti a morire per gli amati, e non solo gli uomini ma anche le donn. Ne offre eloquente testimonianza a- gli Elleni, in difesa del mio ragionamento, Alcesti figlia di Pelia, la quale accett lei sola di morire al posto del suo sposo, che pure aveva e padre e madre: Alcesti, ispirata dall'amore, a tal punto li super nell'affetto, da farli apparire come estranei al proprio figlio, e a lui congiunti soltanto nel nome; e per questo suo atto non solo gli uomini ma anche gli di compresero che si era comportata cos nobilmente che, per quanto varie e belle azioni altri avesse compiuto, a ben pochi gli di accordarono il privilegio di ricondurre la propria anima su dall'Ade, ma l'anima di Alcesti la lasciarono tornare, ammirati dal suo gesto7: a tal segno anche gli di onorano lo slancio e la virt d'amore! Orfeo, invece, il figlio di Eagro, lo rimandarono a mani vuote dall'Ade, dopo avergli mostrato un fantasma della donna per la quale era venuto, ma senza restituirgli lei in persona, dal momento che si era dimostrato imbelle, citaredo qual era, e non aveva osato morire per amore al pari di Alcesti, quanto piuttosto aveva cercato di escogitare il modo per scendere vivo all'Ade. Per questa ragione lo punirono, facendolo morire per mano di donne. (trad. F. Ferrari) Un giudizio severo, quello di Fedro, che ci fornisce per un prezioso indizio, un'interpretazione o una piega della storia di Orfeo che sar ripresa e variata solo in et moderna: gli di in qualche modo ingannano Orfeo. Per punirlo, certo, ma lo ingannano e lo fanno fallire. Orfeo che non sa morire viene come attratto nell'orbita filosofica di Platone; si fa simbolo e incarnazione del finto filosofo e del falso amante della saggezza, che assurdamente teme una morte al contrario auspicabile e provvidenziale. Il cortocircuito con un passo di un altro dialogo platonico, il Fedone, evidente

7 La versione seguita qui parallela a quella seguita da Euripide; nel'Alcesti, infatti, Eracle, o- spite di Admeto, lotta con Tbanatos (la Morte) per riportare Alcesti in vita. Nelle parole di Fedro, invece, Persetene, commossa dal sacrificio della donna, l'avrebbe rimandata spontaneamente nel mondo dei vivi. Il collegamento tra l'impresa di Orfeo e la storia di Alcesti torna qualche secolo pi tardi nell'opera dello scrittore e retore greco Luciano di Samosata (Dialoghi dei morti, XXVIII sive XXIII 428): Protesilao supplica Plutone e Proserpina affinch gli concedano di tornare per un solo giorno nel mondo dei vivi e godere dell'amore di Laodamia, e cita a suo precedente il caso di Alcesti e quello di Euridice: Ti voglio ricordare questo, Plutone. Voi per questo medesimo motivo avete riconsegnato Euridice ad Orfeo e avete rimandate? sulla terra la mia cugina Alcesti per fare un favore a Eracle.

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(68a-b): ... se molti, alla morte dei loro giovani amanti, delle mogli e dei figli insomma dei loro affetti umani -, vollero spontaneamente seguirli nell'Ade, spinti dalla speranza di rivedere in quel luogo quelli che amavano e di stare in loro compagnia, vuoi che proprio chi amante della saggezza e abbia la ferma e costante speranza di non poterla conseguire adeguatamente in nessun posto che nell'Ade, si rammarichi di morire e non sia contento di andarvi?. Orfeo, insomma, non sa veramente amare (a- mare, cio, nel modo autenticamente vero e pieno), perch troppo legato al- la vita e al carcere mortale che imprigiona l'anima, impedendole di ascendere alla verit e alla saggezza pure. A un Orfeo in chiave filosofica, oggetto della condanna platonica, l'oratoria e la retorica oppongono un Orfeo abile manipolatore, che usa con profitto l'arte di ammaliare con le parole; il retore Isocrate, che scrive negli stessi anni in cui vede la luce il Simposio platonico, si mostra cos attratto dalla professionalit e dalle abilit retoriche del vate trace. A Isocrate non interessa tanto l'esito dell'impresa quanto piuttosto l'exemplum mitico di un o- ratore eccellente ed eccezionale. Esempio, questo, e ancora una volta, della duttilit del mito, al quale ogni autore attinge selezionandone i tratti funzionali, quelli pertinenti alla sua strategia argomentativa. Cos Isocrate a proposito del sofista Policrate, criticato per il suo encomio di Busiride e contrapposto, appunto, a Orfeo (Busiride 11,8): 'AXX' (lv i; "AiSov tox; teQvednaq vfjyev, 8 7up (xolpaq tok; ^dvtaq rcaiAAuev. Orfeo ricondusse i morti su dall'Ade, costui (Policrate) fa morire anzitempo i vivi. Nella stessa orazione, la strategia cambia, o meglio* cambia il ruolo di Orfeo all'interno della medesima strategia di demolizione dell'avversario e cos il poeta trace diventa prototipo del bestemmiatore, giustamente punito dagli di irati: 'AXX yp crSv oot ttj; Xr|0eiaq jiXrioEv, XX tag tov tov^tov p^ac^nt aiq 7tT|KoXo'u&naa<;, 018eivtepa jiv JteitoniK-tas Ka TteJtovSras jto<J>ai- vouoiv tow; k xrv Gavaxcov yeyovTaq fi xoq k xjv vGpcccov tv dtvo- aicmxcov, totovrovq 8 Xyotx; Tiep avttv twv Sedv eipf|Kaaiv 0101)5 o- 8eq <Sv itep x<Sv %8pdv eijiev xoXn.fiaei.ev o yp4ivov KXoTtq Ka fioixeias Ka 7tap' vepwnoii; e^-teiai; amo<; cbveiSioav, XX Ka radScov Ppcoaeu; Ka Jtaxpcov KTO|j.<; Ka Hirrpcov Seonoi; Ka izoXXq XXaq vojiiaq Ka' avxwv XoyoTtoiiioav. T7tp (ov rf]v jxv dijiav 6ikt)v ok fiocav oli fif]v dnnopTiToi ye 6v<)>"uyov, dX.' oi n.v atcv dA.fjTai ica tmv ica0' fmpav vSeetq KaTo-rrioav, oi 8' xikfi^ctrioav, XXog 6 <pevytov ri)v reaipia ica 1015 okeio93

"tatoiq KoXe^iv aTtavta tv xpvov SiexXeoev, 'Opijteix; 8' naA.iota TOiJTtov tcv Xytov i)/d)ievo(; Siacntaateq tv (3iov teXEiitrioev. Tu non hai per niente a cuore la verit, ma dai retta alle bestemmie dei poeti, che mostrano che i nati da di hanno perpetrato azioni pi terribili di quelle compiute dai pi malvagi degli uomini e anche intorno agli di hanno fatto discorsi tali quali nessuno oserebbe pronunciare intorno ai nemici: non solo infatti rinfacciarono loro furti e adultri e servizi prestati presso gli uomini, ma inventarono anche favole contro di loro, su divoramenti di figli e castrazioni di padri e catene imposte a madri, e molte altre trasgressioni delle leggi. Non subirono le meritata punizione per queste cose, tuttavia non riuscirono certo a sfuggire senza castigo, e gli uni sono andati errando esuli e privi di tutto, altri sono divenuti ciechi, un altro ancora ha passato i suoi giorni in fuga dalla patria e in guerra con i familiari, Orfeo poi, che pi di ogni altro si era dedicato a questi discorsi, chiuse la sua vita sbranato. Ma torniamo a Euridice e chiudiamo questa prima carrellata introduttiva con un riferimento iconografico importante, foriero di sviluppi, sia letterari che pi in generale artistici: un bellissimo bassorilievo attico del V secolo a.C. - a noi noto attraverso copie romane, la pi celebre conservata al Museo Nazionale di Napoli - mostra Orfeo, Euridice e Hermes (il dio che accompagna i morti nell'aldil); Orfeo scosta dal volto di Euridice un velo, Hermes, dietro di lei, le prende dolcemente la mano, come a richiamarla al suo rinnovato destino di morte. Una suggestione iconografica che non sfugg certo a Virgilio e di cui, pi di duemila anni dopo, si ricord il poeta praghese Rainer Maria Rilke. Le due versioni che ci restituiscono per intero la tragica vicenda di Orfeo e della sua amata sono due versioni in qualche modo complementari, che si integrano a vjcenda; quanto dice Virgilio viene sfumato o accennato da Ovidio, quanto Virgilio tace o accenna viene sviluppato da Ovidio. E, questa, un'antica! prassi imitativa dell'arte e della letteratura, peculiare soprattutto di Ovidio: con un modello sublime non si rivaleggia riscrivendolo o correggendolo; lo si omaggia cambiando punto di vista e completando - per il solo gusto del narrare e dell'essere letti - quanto era rimasto in ombra. Un omaggio, quello di Ovidio verso Virgilio, che riconosce tutta la grandezza del predecessore, tutta la bellezza della storia da lui raccontata, ma che in qualche modo sposta la sfida su un piano diverso, e offre una diversa angolazione al racconto: un racconto che viene ricantato proprio per la sua bellezza e la sua esemplarit. Pj$i2QnjLdMn^ ii racconto

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La storia di Orfeo e Euridice, come si accennato sopra, chiude il poema di Virgilio sul lavoro dei campi, le Georgiche, composto fra il 38 e il 26 a.C., un arco di tempo reso ancora pi lungo, agli occhi dei contemporanei, dal turbine di eventi politici che lo caratterizzarono: terminate le guerre civili, Ottaviano - il futuro imperatore Augusto - trionfa su Antonio e Cleopatra e sale al trono di Roma e del mondo. Un periodo tormentato e difficile, di cui pi di una traccia rimane nel testo delle Georgiche, un'opera complessa, difficile, densa di contraddizioni e chiaroscuri. Nella letteratura antica, si sa, inizio e fine di un'opera sono punti strategici, luoghi del testo in cui si addensano i contenuti programmatici e nei quali si depositano le chiavi di lettura dell'opera: inizio e fine sono spesso, in altre parole, lo scrigno del testo, il fulcro intorno al quale*esso ruota nel suo senso ultimo e originario. Il lungo racconto di amore e di morte che chiude il poema di Virgilio a- vr quindi un significato che va oltre la superficie del racconto e che si riflet-Come un germoglio che ad ogni primavera fa spuntare una nuova foglia,jip mito gegera in ogni cultura il proprio portavoce, secolo dopo secolo. Cos scriveva lo scrittore e critico russo Iosif Brodskij, qualche anno fa, proprio a proposito di una delle tappe pi significative della storia di Orfeo e Euridice nel Novecento. Seguire il percorso che il mito ha compiuto dall'antichit a oggi equivale allora a interrogarci sul destino del mondo letterario classico e della sua eredit nelle diverse epoche della storia, seguire e ricostruire il significato che di volta in volta la storia ha attribuito ai classici, nel delicato e spesso intricato processo di costruzione della propria identit. Ogni epoca della nostra storia di occidentali si confrontata con i classici, con la pesante eredit di un patrimonio letterario divenuto anche patrimonio di tradizioni, di gusti, di convenzioni. E ogni epoca ha costruito se stessa attraverso un sistema di opposizioni e superamenti, oltre che di imitazioni, di quanto immediatamente l'ha preceduta. I classici, la classicit gre- rn-ifltjna, c-ifm striti cos, pi di una volta, l'emblema di un richiamo all'ordine e alla naturalit in momenti storici^ artistici, culturali, che tendevano a superare, esagerandola, la forma, o a negare, in qualche modo, la razionalit; cos stato per l'Umanesimo e il Rinascimento, con il ritorno a una norma razionale che sull'uomo e sui suoi valori, sull'immanenza pi che sulla trascendenza, fondava e rifondava i propri principi. E cos stato con il Settecento illuminista, che reagiva alle stravaganze e agli eccessi barocchi. Il colore politico che di volta in volta veniva fatto assumere ai classici non era sempre chiaro e univoco. accaduto cos che nella seconda rinascita della classicit, tra Settecento e Ottocento, il mondo greco-romano potesse alternativa- mente vestire i panni
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giacobini e incarnare il nuovo impero fondata da Napoleone. Ed accaduto sempre cos che l'ideologia fascista dell'inizio del Novecento potesse impugnare la classicit greco-romana elevandola a simbolo di un ordine di matrice autoritaria e conservatrice. Orfeo e la sua Euridice hanno condiviso, in tutto o solo in parte, questo destino. La loro fortuna ha toccato le pi diverse espressioni artistiche, la lo-li 0 ro storia si trasformata adattandosi allo spirito classicista dei tempi di volta in volta attraversati. Curiosamente, la storia dei due amanti infelici ha subito una sorta di specializzazione, conoscendo uno straordinario successo, innanzitutto, in ambito musicale. Mediatore, in questo campo, fu Angelo /\A&O Poliziano, che nel 1480', in epoca di pieno entusiasmo classicista, compose per uno spettacolo di corte la Favola d'Orfeo; la tragicommedia di Poliziano inaugura, di fatto, una nuova forma di intrattenimento drammatico di corte, ponendosi come primo esempio di dramma ad argomento mitologico * t e pastorale con accompagnamento (e diremmo anche completamento) musicale: musica, testo e scena cncorrono insieme alla costruzione del dramma, ne modificano e ne influnzano, parimnti, la genesi. l'atto di nascita, questo, della fortuna musicale di Orfeo e Euridice; proprio e innanzitutto a Poliziano che guardano, infatti, le due pi falnose J <eD X riscritture in musica della storia di Orfeo e Euridice: quella di Montevfiidi, ^^ nel 1607. su libretto di Alessandro Striggio, e quella di Gluck. nel 1762. su bretto di Raniero de' Calzabigi. E sempre a Poliziano, nell'ottica deforman- te yjSS dei tempi moderni, guarder la parodica rilettura di Offenb_ach, nel 1858. Come vedremo meglio pi avanti, la storia musicale di Orfeo e S Euridice conoscer anche un approdo sul terreno del balletto, con Strawinsky e il suo Orpheus del 1947. Il percorso letterario del mito di Orfeo e Euridice sembra essere stato pi travagliato, pi complesso. Tra X e XII secolo, sulla scia dell'interpretazione moralizzante (bench pagana) di Boezio, Orfeo diventa simbolo dell'unione di saggezza filosofica e di retorica, mentre Euridice simboleggia, assai pi negativamente, le tentazioni dlia carne e gli allettamenti terreni. Un'allegoresi. questa, che pro____ ceder in parallelo a quella che potremmo definire un'autentica promozio(o^ ne di Orfeo, elevato spesso, addirittura, al rango sublime di figura di Cristo (nel senso tutto peculiare e medievale del termine figura-, Orfeo e la sua impresa prefigurano e anticipano, nel mondo pagano, la discesa al Limbo - descensus ad infers - di Cristo). A questa tradizione attinge, nel Seicento, la sacra rappresentazione (o auto sacramentai) di Caldern de la Barca, Il divi- no Orfeo (la
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prima redazione del 1634), che mette in scena la lotta traJLn- steo. simbolo del Diavolo, e Orfeo, simbolo_di CristoT per l'anima di Euridice, simbolo dell'umanit intera, dotata di libero arbitrio. Nel frattempo, l'Orfeo rinascimentale (incluso, in parte almeno, quello di Poliziano) sfuma i propri tratti di amante inconsolabile per accentuare , . quelli di eroe-artista civilizzatore, dimostrazione ed emblema, insieme, del potere della poesia e delle arti, della loro capacit di redimere ed elevare l'uomo. Orfeo diventa cos simbolo del perfetto artista rinascimentale, sintesi armonica di sapienza, creativit, humanitas e amore per i propri simili. Accanto all'Orfeo vate, dotato di poteri straordinari di conoscenza e mani1 La data di composizione della Favola d'Orfeo comunque, ancora oggi, discussa; la datazione aui orooosta quella maggiormente, ma non univocamente, condivisa. polazione della natura, l'Orfeo amante diventa - soprattutto nell'esegesi neoplatonica del mito - l'esempio e il simbolo di un amore tutto spirituale, capace di elevarsi al di sopra dei desideri terreni per attingere alla conoscenza del sommo bene spirituale. La tendenza allegorizzante, che sfrutta soprattutto gli addentellati poetico-filosofici del mito orfico (Orfeo poeta e cantore della natura, ma anche Orfeo filosofo e conoscitore dei misteri della natura) continua per tutto il XVII e XVIII secolo. Ancora Shakespeare esalta nel mitico cantore il potere straordinario del linguaggio poetico, capace di avvincere la natura; e qua-, si negli stessi anni (1609) Francesi" Rarnnp npl cnn He mpipntn vptprum sdoppia la figura di Orfeo, scoprendone un lato positivo, vittorioso - Orfeo personificazione gena mosotia, della sua padronanza dell'armonia universalee un lato oscuro, perdente - lo sguardo all'indietro di Orfeo come simbolo della limitatezza umana, di un'umanit incapace di prestare ascolto alla filosofia (ma anche figura dell'impazienza della filosofia stessa, che si vota alla sconfitta). Ii'interesse per il racconto mitico, per la storia dell'Orfeo amante, rinasce solo pi tardi, con il tardo Ottocento e soprattutto il Novecento, attraverso un ponte lungo pi di un millennio che riallaccia un dialogo stretto, ma in un'ottica completamente cambiata, con i grandi testi della classicit. a partire da questo momento che Orfeo e Euridice diventano, innanzitutto quando non esclusivamente, i protagonisti di una grande tragedia d'amore, declinata come paradigma esistenziale della modernit; una tragedia che legge attraverso la storia dei due amanti infelici la condizione dell'uomo moderno, che attraverso l'amore, il senso di perdita, la solitudine, cerca e indaga se stesso.
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<<Ieri fu recitata la commedia nel salotto scenico teatro e con la consueta magnificenza,e dimani sera il ser( enissi)mo signor principe (Francesco Gonzaga) ne fa recitare una nella sala del patimento (= appartamento)che godeva madama ser(enissi)ma di Ferrara che sar singolare,posciach tutti li interlocutori parleranno musicalmente>>. Il passo,tolto dalla lettera da Mantova con cui il 23 Febbraio 1607 uno spettatore informava il proprio fratello residente a Roma sull imminente rappresentazione di una sceneggiatura in musica del mito di orfeo(opera della coppia Striglio- Monteverdi),interessa qui soprattutto per due aspetti . Essa fu scritta per chiarire al destinatario- ma anche a se stesso-la natura di tale spettacolo,lautore di quella lettera era ricorso al ben noto termine di <<Commedia>>,parola utilizzata soprattutto nel lessico teatrale contemporaneo,come specificazione della novit desecuzione,lautore di quella lettera era ricorso al ben noto termine di <<Commedia>>,parola utilizzata soprattutto nel lessico teatrale contemporaneo,come specificazione della novit desecuzione,secondo cui tutto secondo cui tutto sarebbe stato recitato cantato anzich parlato:e lo stesso giorno scrivendo al fratello Ferdinando Gonzaga, il principe Francesco aveva parlato di <<favola cantata><utilizzando un termine classico,(fabula, cio racconto drammatico).Nel Frontespizio del relativo libretto del 1607 si legge <<La Favola dOrfeo>>mentre sulla partitura stampata due anni dopo:<<favola in musica>>. Un simile evento nel 1607 a Mantova costituiva certo una novit capace di solleticare la curiosit generale e di colmare fino allesaurimento i pochi posti disponibili nellangusto teatrino allestito per loccasione in una sala del palazzo ducale(non nellampio e maestoso teatro di corte):e di fatti una replica dovette essere effettuata di li a pochi giorni. Questi generi di spettacoli si videro una decina di anni dopo al 1607 a Firenze e poi a Roma. Se inusuale era rappresentare un testo drammatico utilizzando in esclusiva il canto,il ricorso alla musica non era cosa nuova nel Cinquecento. Nel corso del 500 la musica sotto la specie della polifonia,ma anche del canto solo accompagnato) aveva conosciuto delle utilizzazioni pi o meno stabili in sede teatrale, lo stesso Peri,con grande correttezza riconobbe nelle prefazioni delle sue Musiche sopra (.) lEuridice la precedenza di tali sperimentazioni sceniche fatte da Emilio De Cavalieri. L esaltazione del genere pastorale ha inizio con il Guarini poich egli riteneva la <<commedia>> decaduta da quando gli attori e i comici dellarte se ne erano impadroniti a scopo di lucro e la <<tragedia>>perch aveva perso la
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sua finalit con il mutare delle condizioni politiche e culturali e quindi che necessit bisognava avere noi delle Tragedie se i santissimi della religione c linsegna. Per Guarini il teatro doveva avere finalit nobili di intrattenimento e di ricreazione sopraffina, <<la pastorale>>era un argomento caro e piacevole, dato che loggetto delle loro rappresentazioni era lirrealit di un mondo idealizzato e mitico,<<quella sorta di vita nella quale noi, quasi in porto fuori dallonde civili,si volentieri ricovriamo>>. Proiettandoci sullo sfondo di questi dibattici teorici e pratici, assume pregnanza maggiore anche le parole che Ottavio Rinuccini fa pronunziare alla Tragedia, chiamata a fare il prologo dellEuridice

Io, che dAlti sospir vaga e di pianti Sparsor di doglia,or di minacce il volto Fi negli ampi teatri al popolo folto Scolorir di piet volti e sembianti,

Non sangue sparso d innocenti vene, non ciglia spente di Tiranno insano, spettacolo infelice al guardo umano, canto su meste e languinose scene.

Lungi via, lungi pur d regitetti, simulacri funesti,onbre daffanni: ecco i mesti coturni e i foschi panni cangio, e desto nei cor pi dolci affetti. erna con il Canto a pi voci disperdeva e smorzava del canto a voce sola(monodia). Questi esperimenti portarono alla versione musicale dell Euridice di Rinuccini, stampata a Firenze alla fine del 1600 ma rappresentata a Palazzo Pitti solo il 5/ 12/ 1602.
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Maggiore risonanza erano destinati ad avere gli spettacoli ispirati dal gentiluomo musicofilo Jacopo Corsi ed affidati ad Ottavio Rinuccini per la parte letteraria, a Jacopo Peri per quella Musicale: per la << Favola di Dafne>> nel carnevale del 1597 e soprattutto LEuridice recitata a Palazzo Pitti il 6 ottobre 1600,offerta da Corsi quasi come regalo Nuziale a Maria d Medici in occasione dei festeggiamenti fiorentini per il suo matrimonio con Enrico IV re di Francia. E proprio quelle manifestazioni, per il livello e lufficialit che le caratterizz, come pure per il loro svolgersi alla presenza dei rappresentanti delle maggiori corti italiane ( il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, che assist anche alla recita dell Euridice necessariamente destinata ad un pubblico pi ristretto,alla prima occasione cerc di uguagliarne e perfino oltrepassarne i risultati sul medesimo terreno) f cosi il primo importante debutto in societ del teatro tutto cantato. LOrfeo del 1607 fatto a Mantova,recitato il 23 Febbraio davanti agli accademici che l avevano promosso, f di nuovo riproposto il 1 Marzo<<con lintervento di tutte le dame di questa citt>>.facendo appello a tutte le discipline artistiche sommandole luna sullaltra,le<<rappresentazioni in musica>>saturavano al livello di elaborazione a di raffinatezza le tecniche della comunicazione drammatica .Marco da Gagliano,1608 defini LEuridice;capace di dilettare<<non pure il popolo,ma i principi e i cavalieri>>. LEuridice di Rinuccini (Peri,1600),<<nobile>>la <<spezzatura>>e la <<maniera di cantare>>di Caccini(1600 e1602). Durante i preparativi per i festeggiamenti mantovani del 1608,Francesco Cini ad un certo punto informa il duca di Mantova che Peri non intendeva esibirsi,<<se non ha qualche uno ben nato simile a lui che canti>>(e proprio la presenza di Rasi dichiarata condizionante). Sua- leggibile nella premessa allEuridice (1600)-era anche lasserzione che <<nella nobilt fiorisce oggi la musica>>,e la rassegna dei <<pi eccellenti musici de nostri tempi>>(tra cui Francesco Rasi,nobile aretino, (.) e dentro alla scena fu sonata da signori per nobilt di sangue e per eccellenza di musica illustri: il signor Jacopo Corsi,che tanto spesso ho nominato, son un gravicembalo,et il signor don Grazia Montaltvo un chitarrone, messer Giovan Battista da violino una lira grande,e messer Giovanni Lapi un liuto grosso>>)che avevano offerto LEuridice<<ad una regina si grande ( Maria d Medici): di quello spettacolo si poneva in evidenza insomma soprattutto il suo voler essere un omaggio nuziale direttamente confezionato da uninformale accademia di aristocratici musicisti per diletto, e non un prodotto di professionisti appositamente ingaggiati o organizzati.

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Giulio Caccini asseriva: che <<E questa quella maniera altresi, la quale negli anni che fioriva la camerata sua il Firenze, discorrendo ella diceva, insieme con molti altri nobili virtuosi, essere stata usata dagli Antichi Greci nel rappresentare le loro Tragedie e altre favole, adoperando il canto>>. Fu pi cauto nella prefazione dallEuridice Peri che scriveva: <<E per, si come io non ardirei affermare questo essere il canto nelle greche e nelle romane favole usato, cosi ho creduto esser quello che solo possa donarcisi dalla nostra musica, per accomodarsi alla Nostra favella>>. Rievocando gli esordi sperimentali del canto solo sulle scene moderne, nella dedicatoria dellEuridice Rinuccini pone sul medesimo piano del tutto pacificamente Tragedia clasica e moderna pastorale, come se fosse del tutto ovvio lo slittamento da un genere allaltro imposto alla rinata monodia Drammatica: La concezione monodica manifestava evidenti impulsi ad una concretezza personificante : mentre in un testo lirico intonato polifonicamente l<<io>> poetico si smembrava come un cerbero a pi fauci tra Soprano alto quinto Tenore e Basso,mentre la totale coesione del rapporto tra parola e musica in una melodia affidata ad una voce sola tendeva a far coincidere il soggetto con linterprete trasformando lesecutore in personaggio. Nello stesso tempo, le esigenze di verosimiglianza connaturate alla dimensione esplicitamente teatrale trovavano nel rinnovato canto monodico il mezzo despressione pi idoneo ed ovvio per i personaggi individuali. Il Canto a voce sola era reputato in possesso di virt espressive tanto dirette grazie anche alla sua maggior naturalezza e semplicit rispetto alle Artificiose complicazioni del comporre a pi voci. Peri nella prefazione a Le Musiche () sopra LEuridice, sintetizza alcuni punti da lui tenuti Ben fermi, come il canto <<parlante>>, a met fra lemissione vocale cantata e quella parlata tanto per laspetto ritmico che per quello intervallare, e poi lauscultazione dei prifili sonori via via assunti dalla voce emozionata: Si cerc di attribuire il pi possibile alla Musica vocale gli andamenti propri del linguaggio ed a riconoscere tra le sue parti costitutive(<<favella,ritmo,suono>>) una gerarchia privilegiante indiscutibilmente le prime due, quelle cio tipiche anche del discorso parlato. Indispensabile era valutare preliminarmente lassetto metrico del testo, attribuendo il giusto valore alle sillabe a seconda che fossero lunghe o brevi, evitando di dilatare queste ultime con inopportuni vocalizzi puramente esornativi (i<<passaggi>>) e cercando di sottolineare le altre con consonanze, cosi come del resto anche Peri aveva teorizzato.

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Nella dedicatoria della sua Euridice, Caccini faceva mostra di un ulteriore passo in tale direzione con l impiego in essa di<<una certa spezzatura>>(<<quella leggiadra la quale si d al canto col trascorso di pi crome e semicrome sopra diverse corde>>)che a suo avviso lo aveva<<apprezzato quel pi alla natural favella>>. Se la recitazione era un modo di parlare pi o meno verosimile,il recitar cantando era una modalit despressione ancor meno prossima al vero: tanto che fu usata nelle storie palesemente irreali quali vicende mitologiche o rappresentazioni allegoriche,in modo che questa forma di comunicazione immaginaria.. I testi letterari da rivestire in musica avevano rispettato una opzione convenzionale,quella della scrittura in versi piuttosto che in prosa; un p per il nuovo tipo di spettacolo verso generi lontani dal vero e perci elettivamente poetici come la pastorale e le<<favole>>mitologiche,e un po per la affinit fra musica e poesia;lutilizzo dei versi endecasillabi e settenari liberamente miscelati senza schemi di metro n di rima;la duttilit degli accenti di metro n di rima ; la duttilit degli accenti di questi 2 tipi di versi, li rendevano pi idonei a essere un materiale di base per una discorsivit,lassenza di periodicit e di rigidit ritmiche osservata dai compositori faceva il resto (e tenendo conto delle sillabe accentate della Parola) si aveva un impressione di scioltezza recitativa e aderenza al dettato letterario che si poteva dirsi quasi<<naturale>>. L utilizzo delle cadenze mette per i finali,e pi sfumate e transitorie per le altre completava la sensazione di linguaggio musicale al servizio di quello verbale che tanto entusiasmava i promotori dellideale monodico. Questo tipo di canto era una specie di parlato assai pi enfatico e sonoro. Questo tipo di canto in sede teatrale dava alla recitazione tempi pi rallentati,si aveva cosi un modesto rigonfiamento del tempo scenico,che strideva con la regola aristotelica di unit di tempo di cui<<LEuridice>>era composta. L organizzazione dei metri in strofe, con particolare assetto di rime,o anche di versi refrain,o misure meno prosastiche (cio quelle con versi sciolti),si vengono a formare composizioni indicate col termine di <<aria>>(o ariette)come ad esempio nellEuridice il<<lieto imeneo>>di Tirsi o<<Nel puro ardor della pi bella stella>> dove nella seconda stanza Peri prescrive:<<Si replica sopra la medesima aria>>,se ne osservi la collocazione drammatica. Le Terzine annunziano il ritorno in scena del Protagonista dopo lincursione-felice,in quanto per esigenze di circostanza Rinuccini modific il mito imponendogli un lieto fine - nelloltretomba a recuperare Euridice. Il canto di Orfeo nasce da un irrefrenabile moto interiore che da un invito esterno ci sar un campo adatto al recitar cantando.
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Nel 1600 luso del canto a voce per fini drammatici non solo ritorna nelle sedi come Firenze e Roma che lavevano visto rinascere,ma comincia ad apparire in altri luoghi con frequenza maggiore. A Firenze questo tipo di manifestazioni era appannaggio della vita di corte:il 5 dicembre 1602 al cardinale Del Monte e Montalto veniva offerta ancora una recita dellEuridice stavolta intonata dal Caccini,e posta in scena nella medesima sala di Palazzo Pitti che due anni prima aveva visto la recita del Peri. Altrove,si registra un nutrito manipolo di spettacoli presso la corte gonzaghesca di Mantova,a cominciare da quella<<favola dOrfeo>>di Alessandro Striglio e Claudio Monteverdi/Febbraio 1607)che fu promossa dalla locale Accademia degli Invaghiti sotto legidia del Principe Francesco Gonzaga,e recitata in una sala del Palazzo Ducale. Un altro centro dove si manifesta un precoce interesse per questa nuova forma di spettacolo Bologna,mentre gli stessi testi gi sperimentati a Firenze vengono eseguiti in altre citt cone ad esempio Orfeo ed Euridice a Mantova nel 1607. Passando da Rinuccini a Striggio il personaggio di Orfeo fagocita quasi per intero la rappresentazione a danno di Euridice,come gi le rispettive intitolazioni lasciano intuire(lEuridice,La favola di Orfeo)e le relative scene iniziali manifestano:a Firenze allapertura del Sipario era Euridice al centro delle gioiose manifestazioni di ninfe e pastori,mentre a Mantova quel ruolo fu riservato a Orfeo.Qui il mitico cantore era oltretutto veramente il perno di quel quadro scenico,dato che Striggio aveva disposto gli interessi corali del I Atto in simmetria centrale attorno al monologo del protagonista: Pastore <<in quel <<Ma sil Lieto e nostro gioir Fortunato dal ciel giorno >> Coro Coro Orfeo Coro Coro <<vieni, <<lasciate <<rosa del<<lasciate Imeneo deh vieni>> i monti>> ciel,vita del Mondo e degna>> i monti>> Pastore <<vieni, Imeneo

deh vieni>> deriva>>

Oltre ad esserci una modifica del Mito da parte del primo col ritorno di Euridice, Rinuccini e Striggio divergono nella costruzione della scena,i canti di Orfeo e dei Pastori sono interrotti subito dalla notizia della morte di Euridice:<<il primo lo pone al termine del racconto di Silvia,e poi fa seguire un breve<<lamento>>di orfeo che abbandona la scena mentre inizia un
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compianto generale,/ in seguito solo narrato e sapremo che Venere,apparsagli dietro le quinte,lo incita a scendere agli inferi);mentre laltro fa comunicare la novit luttuosa,dove Orfeo ne rimane impietrito in <<muto sasso>> e poi il protagonista sfogher il proprio dolore in un<<lamento>>al termine del quale egli maturer lidea di spingersi verso i regni delloltretomba. In breve Rinuccini dislocava fuori scena le parti pi movimentate,dando classicamente il resoconto attraverso la narrazione di un testimone mentre Striggio d alla situazione una versione pi dinamica e tutta sotto gli occhi degli spettatori. Nella<<Favola dOrfeo>>dove troviamo un elevatissimo potenziale patetico,negli ultimi istanti della vita di Euridice,si ha nel Monteverdi una linea di canto espressiva nei momenti pi esacerbati con intervalli alterati cromaticamente/ci si ha anche se in un grado inferiore in quella del Caccini e del Peri),ma anche la capacit di ricavare supplementari effetti drammatici mediante il rapporto col contesto. Nel II Atto il lamento do Orfeo,<<refrain>>prima solistico e poi corale<<Atti,caso acerbo,Ahi fato empio e crudele><si ha un contrasto con quello che cera prima ossia i can ti gioiosi di Orfeo e dei pastori,in strofe con ritornelli strumentali.0All inizio di quellAtto quando il protagonista riappare in scena irrompe con un arietta di ottonari che appare una presenza scenica pi rilevante dellOratoria allocuzione in versi sciolti che fanno il Rinuccini,il Peri e il Caccini Al I ingresso del loro Orfeo <<Antri,chamiei lamenti><. La stessa grande e virtuosistica aria di Orfeo nellAtto III<<Possente spirito e formidabil nume><,con ritornello-cornice e con strumenti incorporati,ha delle precise funzioni drammatiche:qui troviamo una presentazione del mitico cantore al massimo di Orfeo e di convincere Caronte a far entrare un vivo nel regno dei morti. I canali di diffusione del teatro Musicale furono molteplici:la prima fu la visione diretta,la loro pubblicit f la presenza di invitati provenienti da parecchie corti italiane ed estere produsse frutti istantanei. Marco Gagliano nella sua<<Prefazione>>della propria Dafne alludendo all<<Euridice>>di Peri scriveva quanto fosse gradita la favola,testimoni principi e signori il fiore della nobilt italiana,che vennero alle pompose nozze,e il Sig. Duca di Mantova n fu talmente soddisfatto,che volle anchegli per le nozze del figlio con linfanta di Savoia volle che si rappresentasse una favola in musica(LArianna di Rinuccini) e fece andare a Mantova Monteverdi per musicare. Cantanti come Giovan Gualberto Magli,Girolamo Bacchini e Francesco rasi riproposero a Mantova la<<Favola dellOrfeo>>del 1607 con grande abilit
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recitative che avevano gi sfoggiato nelle rappresentazioni fiorentine del 1600. Un altro tipo di diffusione fu la stampa dei materiali letterali e musicali di quelle prime realizzazioni;le edizioni dei testi musicati e inscenati,e le relative partiture,(produzione affidata a officine tipografiche locali,deducendo una non eccessiva penetrazione sul mercato)La Euridice di Rinuccini fu pubblicata dalleditore fiorentino Giorgio Marescotti; nonch di Peri Le musiche(..) sopra LEuridice e di Caccini LEuridice composta in Musica in stile rappresentativo. A Mantova la stamperia ducale degli Osanna aveva provveduto a dar fuori i testi letterari della<<Favola dOrfeo>>di Striggio jr nel 1607,nei cataloghi delleditoria musicale veneziana-la pi importante dItalia e in quellepoca forse d dEuropa;e le composizioni teatrali per musica dell Orfeo mantovano di Monteverdi del 1607,. Di quanto fosse stato immediato il successo di questo genere teatrale,lo dice la lettera che fu spedita dal padre Angelo Grillo a Caccini del 1608,dove afferma che questa maniera nuova di far musica,di cantare senza canto,di un cantar recitativo,nobile e non popolare, che non toglie vita alle parole,anzi gli accresce laffetto,lo aveva constatato durante la rappresentazione della bella pastorale del Sig. Ottavio Rinuccini(LEuridice),dove il coro veniva usato come dagli antichi,e che questo genere veniva universalmente apprezzato dalle buone orecchie delle corti dei principi italiani da quelle di Spagna e Francia(). Per il primo decennio del 600 queste rappresentazioni fissano tipologie drammatiche e funzionalit sociali che rimarranno fisse per i primi 4 decenni dopo si avr l ingresso a pagamento e diventano forme di divertimento predisposte per Carnevale(spasso carnevalesco). Per l eccezionalit delle loro veste scenica-furono dei prodotti teatrali adattissimi alla occasioni festive particolari,specie nella vita di corte i matrimoni regali e principeschi e per visite di stato(riproposizione sotto altre spoglie musicali della vecchia Euridice)ed anche per celebrazioni di eventi significativi per la dinastia al potere. In sostanza,del teatro cantato al suo debutto gli iniziatori accreditarono spesso unimmagine fondamentalmente di prodotto di un aristocratico otium virtuoso, analogo- ma ad un grado pi elevato-alle rappresentazioni parlate poste in scena a Carnevale per onesto intrattenimento da gruppi di giovani o da istruzioni accademiche. Il carattere estremamente pi specialistico delle prestazioni richieste dal teatro musicale far per ben presto accantonare simili velleit. Nella mantovana Favola dOrfeo del 1607 scritta e rappresentata per iniziativa della locale Accademia degli Invaghiti,a quanto ne sappiamo lunico membro
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del sodalizio implicatori fu il Conte Alessandro Striggio jr,autore del testo:vale a dire,anche se componente meno professionale di simili operazioni,che per poteva dimostrare di avere competenza specifica anche un nobile accumulato. Degli altri coinvolti in quell allestimento,sappiamo che erano in rapporti professionali con la corte gonzaghesca(il solito Rasi che interpret Orfeo,padre Girolamo Bacchini che fu Euridice)o addirittura al suo stabile servizio( il caso di Monteverdi,autore della musica,maestro della cappella Ducale),oppure erano stati prestati da qualche corte amica,il castrato Giovan Gualberto Magli,che era alla dipendenze dei Medici,(che imperson la Musica,Proserpina pi un'altra parte femminile). Tuttavia di fronte alle esigenze della scena musicale,il mito dei nobili virtuosi dilettanti,o dei professionisti di rango sociale superiore coi quali perfino gli aristocratici potevano intrattenere non disdicevoli rapporti di collaborazione creativa,si dimostrava scarsamente praticabile. In questi primi anni di vita del dramma per musica, anche solo tra Firenze e Mantova considerevole il viavai di personale specializzato nel nuovo genere:come si detto,Rasi e Magli,Rinuccini e Marco da Gagliano,Bacchini e,il Brandino circolavano da un allestimento allaltro,dalla corte medicea a quella dei Gonzaga,accompagnati dalla fama di cantanti-attori o di autori specializzati richiesta da quel nuovissimo tipo di teatro. Firenze fu la citt dove si rappresentarono varie tipologie spettacolari dove veniva inserito il canto :ricordiamo il Carnevale 1616,palazzo della Gherardesca Orfeo Dolente,intermezzi in musica di Chiabrera-Belli nel 1616, presso casa Marescotti<<LEuridice di Rinuccini-Peri. Questo genere musicale fu eseguito anche a Roma poich per maggior comodit vi erano eminentissimi cantori,citt abbondantissima di perfettissimi maestri in questa professione del comporre musica,diventando cosi il suo approdo ideale si inizi con la Dafne ma la prefazione musicale crebbe in bellezza nellEuridice,giungendo ad una maturit con LArianna di Monteverdi. A Bologna nel 1619 durante il Carnevale fu composta da Stefano Landi <<la Morte dOrfeo>>. Secondo la prassi neopotistica da tempo affermata, subito dopo la sua elezione nellagosto 1623,il cardinale Maffeo Barberini assume il nome di Urbano VIII e provvide ad elevare al cardinalato suo nipote Francesco Barberini che,coi fratelli Antonio(Cardinale dal 1627)e Taddeo(nominato Prefetto dellUrbe),divenne il principale protagonista della vita artistica romana;ed possibile che il fiorentino Maffeo Barberini,allora monsignore,avesse assistito alle feste nuziali per Maria de Medici nel 1600,il

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Cardinale nipote (nato nel 1597)era troppo giovane per avere esperienza diretta di quegli avvenimenti. Tuttavia uneco dei dibattiti culturali che li avevano propiziati gli giunse ugualmente perch nel suo entourage venne a far parte lerudito fiorentino Giovan battisti Doni,che raccoglieva leredit dei Girolamo Mei,Bardi,Cossi,Vincenzo Galilei e quanti altri si erano interessati alla musica antica e ai suoi effetti. CORO Fin dagli esordi del teatro musicale il coro aveva costituito forse il pi legittimo richiamo alle ascendenze Tragiche dello spettacolo cantato:non tanto nei suoi interventi come personaggio collettivo nel corso della storia inscenata(festeggiante o in preghiera,eccitante a belliche imprese o diabolico tentatore),quanto piuttosto nei commenti a fine atto-o scena,come Rinuccini-rifacendosi alla funzione che aveva nel teatro classico. Nelle partiture diPeri,Caccini,Cavalieri,Agazzani o Giacobbi,prevale il trattamento omoritnico delle voci,mentre la stroficit letteraria impone anche quella musicale:nella distribuzione delle parti,vi erano soluzioni a due cori e a soli-cori(in qualche caso responsoriale). Ma nelle partiture fiorentine e romane fin dal 1620 allincirca nella Morte di orfeo di Stefano Landi,si ha la soddisfacente esigenza di spettacolari esibizioni vocali e strumentali deffetto,e sempre pi coreutiche,tese a far accantonare la primitiva funzione moraleggiante dei cori a fine atto,per assegnare a loro compiti pi ricreativi. Nella Favola dOrfeo Monteverdi ne aveva presentato la versione forse pi elaborata e consapevole,in cui per di pi la scrittura adottata rispondeva anche a fini espressivi. Essa infatti muta sensibilmente a seconda che il Coro sia posto al termine di un atto pastorale(i primi due e lultimo)o di quelli infernali al centro della rappresentazione(il terzo e il quarto). LOrganico ci indica la volont di dare ai primi un tono pi lieve,mentre gli altri tinte tenebrose e terribili. Nei primi,le parti cantate alternano leggiadramente duetti,trii,con le 5 voci al completo, mentre negli altri vengono bandite le tessiture acute,figurano in blocco,e gli strumenti che suonano sinfonie introduttive hanno registri gravi,con timbri fortemente caratterizzati,come il<<regale,organo di legno,cinque Tromboni>>e<<cornetti>>ai quali si prescrive di tacere quando Orfeo abbandona i cupi regni delloltretomba. E i cori degli atti pastorali usano una struttura ad aria,cio strofica(Atto v,AttoI-e nel II,con refrain a 5 voci),quelli infernali sono dei madrigali polifonici di stile severamente osservato.
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Lutilizzo di personaggi giattivi e di successo nel campo della commedia dell arte,o di tipi ridicoli,o di divinit minori diventa una caratteristica delle opere Teatrali di questo periodo,che con le loro potenzialit caricaturali davano al dramma un livello di stile ben poco aulico:ricordiamo Bacco e Caronte nel Dramma per musica <<Morte di Orfeo di Stefano Landi(questultimo si esibisce in una bizzarra arietta polimetrica<<Beva,Beva securo londa>>);diventando per il Musico occasione di mostrare il suo valore in questi differenti modi di composizione che davano al proprio dramma un intonazione vivace contro la monotonia linguistica usata nei drammi per musica. Andando al di l dei limiti consueti,Rospigliosi e Landi suggerivano potenzialit applicative inedite. Le innovazioni non erano le componenti drammatico-musicali ma la frequenza e continuit di rappresentazioni in dosi che contribuirono a stabilizzare usi e orientamenti dello spettacolo tutto cantato. La media dei testi teatrali per musica si erano mantenuti di 700-800 versi e raramente avevano superato il migliaio,ora le nuove opere si assestano su dimensioni maggiori intorno ai 1550 versi,e ampliarono anche la tela drammatica,dagli 8-10 personaggi in genere radunati nei drammi per musica se ne ha quasi il doppio nel dramma <<La Morte di Orfeo>>;da ci ne deriva un diretto incremento nellarticolazione del testo in scene:dalla quindicina circa si passa alla ventina di scene sino ad arrivare a trenta scene. Decisa invece la preferenza per il taglio in 3 Atti, come voleva anche Doni. Un ulteriore riscontro di tali tendenze allespansione si pu avere dalle dimensioni delle partiture,dalle 50 pagine alle 150 pagine si hanno le successive opere. La dilatazione delle dimensioni drammatiche realizzata da Rospigliosi,ingrossando le file dei personaggi sulla scena;questi erano i personaggi di sfera comica che diventavano un puro e semplice diversivo nella linearit di una vicenda seria;se invece essi rientravano nel novero delle parti serie,potevano contribuire a movimentare ed arricchire la storia principale,oppure materia parallela con quella primaria si realizzava cosi un intreccio a pi fili. Per tali complessi intrichi Rospigliosi dovette ricorrere ad alcuni espedienti(come lettere, ritratti,travestimenti,attrezzi scenici risolutivi,ma anche meno materiali come macchinazioni,equivoci,sotterfugi,)che venivano effettuati negli estesi e articolati testi del teatro parlato per annodare la vicenda,o sbrogliarla.

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Questa espansione o aggiornamento delle storie si traduceva,in maggiori quantit di testo da cantare,per di pi in versi sciolti e perci in musica reso nei modi Prosodici dello stile recitativo. Si accresceva cosi la natura<<parlante>>con atteggiamenti declamatori,cosicch quella tornitura melodica e quella mobilit armonica e anche ritmica del basso continuo che in precedenza lavevano caratterizzato, tendevano a livellarsi in andamenti frequentemente a note ribattute e mensuralmente uniformi,privi di passaggi vocalizzati,con Bassi pi statici,con rari cambi di armonia o anche solo daccordo. Quello della diminuita attrattiva dello stile recitativo,e dei modi per renderlo veramente interessante un tema che in quest epoca e in ambiente romano ritorna anche in pi di un autore, teorico o semplicemente testimone del teatro musicale.Quel<<tedio>>parrebbe destinato ad un incremento,data la maggior quantit di testi sciolti e la loro apparentemente meno accurata vaste musicale. Anche se tuttavia si ebbe la tendenza del livellamento rispetto ai primi esempi di recitazione cantata,si ebbe anche laumento dinteresse drammatico dei testi di Rospigliosi rispetto ai precedenti. Non va trascurata la funzionalit teatrale che ebbe il recitativo;in contrappeso ai modi dimessi e parlanti dei testi rappresentati in musica nelle stagioni barberiniane,ed anzi grazie ai recitativi si avevano intrecci e congegni drammatici ben pi articolati e perfino avvincenti,con un dinamismo scenico rispetto al coevo teatro parlato. A fronte della doppia formula stilistica applicabile ai versi sciolti,stanno le molteplici soluzioni per le parti chiuse del testo,a grande maggioranza da ricondurre alla categoria dell<<aria>>. Il luogo teatrale Questa forma di spettacolo nuovo per le sue modalit comunicative ma non nella sostanza,il teatro per musica occup gli spazi e gli ambienti gi usati in precedenza dal teatro regolare italiano cinquecentesco(palato).Nel 500 le sedi spettacolari furono molteplici:allaria aperta(piazze,strade,cortili,giardini e perfino laghi,fiumi,marine)e al chiuso(saloni,vasti locali coperti,e chiese);attrezzati spesso con strutture effimere .Nelle corti si cerc di trovare dei luoghi adibiti per destinazione teatrale sia per lattivit dilettantesca,per lesercizio scolastico,ma anche per lesibizione a pagamento delle compagnie professionistiche(saloni di rappresentanza nei palazzi delle case regnanti o di qualche famiglia Aristocratica,grandi locali di pubblica utilit in disuso,sale private).Venivano usati ambienti che venivano attrezzati per loccasione,e poi subito riportati al loro aspetto primitivo;ricordiamo nel 1600 lEuridice presso
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la<<sala di Don Antonio>>,oggi sala Bianca. Nel teatro Mediceo -furono allestiti in un salone degli Uffizi ed anche a Mantova- le rappresentazioni in musica patrocinate dai Gonzaga- si andarono collocando in sale con allestimenti effimeri( il caso della Favola dOrfeo monteverdiana del 1607,inscenata in un ambiente neppure troppo grande di un appartamento del palazzo ducale).Esemplare teatro di sala,quello Mediceo degli Uffizi era sistemato in un Salone a pianta rettangolare:uno dei lati corti era interamente occupato da un palcoscenico rialzato e molto profondo,mentre sui tre restanti giravano sei gradoni formanti una grande U col fondo schiacciato da cui promineva <<il balcone d pi degni spettatori>> e i bracci allungati senza per arrivare a toccare il palcoscenico. Il pubblico trovava posto a sedere solo sui gradoni: la platea risultava completamente sgombra,per le evoluzioni coreografiche, comunicanti col piano del palcoscenico grazie a scalinate e scivoli. Diversamente da quello del teatro Mediceo degli Uffizi,a Pitti il palco della sala in cui era stata rappresentata lEuridice aveva impiegato una di quelle delimitazioni del quadro scenico entrate saltuariamente nelluso da alcuni decenni(prospetti dipinti a rilievo formati da architravi poggiate su colonne e pilastri preferibilmente a coppie,e con intercolumni ciechi o con nicchie e statue),che diventavano cornici sceniche per celare le manovre di retropalco dando cosi unidea di illusione teatrale. Lambientazione scenografica era ottenuta con elementi Bidimensionali che erano tele dipinte disposte in modo da saturare completamente il campo visivo:in capo al palcoscenico un grande telone(fondale);sui fianchi alcune coppie simmetriche di teleri alti e stretti(quinte),paralleli o obliqui rispetto al fondale. Rispetto alle antiche,<<architettoniche>>(in muratura e in rilievo),le scene moderne simulavano con la pittura una realt inesistente;rispetto alla fissit di quelle,(cio quella che doveva rimanere dal principio alla fine),queste mutavano nel corso del dramma infrangendo la norma classica dellUnit di luogo. NellEuridice di Rinuccini- dunque gi fin dai primissimi esemplari del nuovo genere- questa pratica registrata tanto nelle didascalie della partitura a stampa(<<Finito questo a (LAria a 5 voci <<Se d Boschi i verdi onori>>)il coro si parte,e la scena si muta in Inferno>>. Un implicito percorso visivo dovette applicarsi anche alla Favola dOrfeo di Striggio jr,i cui atti III e IV si svolgono agli Inferi,e gli altri nei<<campi di tracia>>. Il sipario molte volte celava le scene alla vista degli spettatori(una volta tolto di mezzo allinizio della rappresentazione,non lo si sollevava pi)veniva diviso a
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met e raccolto ciascuno lateralmente,o lasciandolo integro e tirandolo sul proscenio,o sollevandolo in alto attorno ad unasta,o sollevandolo con pi tiranti in modo da ottenere pi festoni. Altro problema rea collocare gli strumenti dellorchestra. Questo problema pare nascere a causa del nuovo genere del teatro tutto cantato:dato che in quello solo parlato la musica interveniva sotto forma di prologhi,intermezzi,commianti,danze. Tutte queste soluzioni servivano per celare lorchestra alla vista del pubblico,per far udire sonorit soavi e mirabili concerti,senza tuttavia mostrare concretamente i sonatori e gli strumenti.Per tale principio evidentemente rispondeva la stessa intenzione di capacit illusionistica che spingeva ad occultare attentamente i meccanismi artificiosissimi delle mirabolanti invenzioni scenotecniche. Per lorchestra si ebbero due tipi di sistemazioni:una suddivisa in gruppi minori dentro(dietro)le scene,in palcoscenico(cosa che per risultava ingombrante),o la seconda su ponteggi laterali al di sopra delle quinte in modo da lasciare liberi gli accessi in scena e non intralciare i movimenti di quelle(ma sempre non palese). I musicisti si potevano sistemare ai piedi del palcoscenico,dietro paraventi o steccati che li coprissero alla vista degli spettatori,ma non ai cantanti. <<Gli stromenti,perch non siano veduti,si debbano suonare dietro le tele della scena,e da persone che vadino secondando chi canta,e senza diminuizioni,e pieno>>,scriveva Guidotti nella Premessa della Rappresentazione di Anima e di Corpo. Si deva anche una prescrizione dorganico:e quanto far Monteverdi nel la Favola dOrfeo ad esempio nellatto II,laddove entra in scena la Messaggera(portando la luttuosa notizia della morte di Euridice);mentre il Pastore che,ignaro,la interpella viene accompagnato da<<un clavicembalo,chitarrone e viola da braccio>>,lei canta su di<<un organo di legno e un chitarrone>>,come poi anche Orfeo e i due Pastori del coro conclusivo quando intoneranno analoghe parole di disperazione e di cordoglio. Lorgano di legno accompagner il canto di Orfeo anche agli Inferi,mentre Caronte gli apporr il timbro fortemente caratterizzato di un regale. In parallelo al cambiamento scenografico,si detto come per gli atti infernali della Favola dOrfeo(III e IV) Monteverdi pensasse ad un corrispondente mutamento di strumentazione che rendesse anche sonora lopposizione tra la cupa atmosfera sotterranea dell Oltretomba e la luminosit del quadro boschereccio en plein air.

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Al termine dellAtto IV infatti profonde o con la forte presenza timbrica avevano caratterizzato lambientazione infernale,<<et entrano a sonare il presente ritornello le viole da braccio,organi,clavicembali,et ceteroni>>. La consistenza dellorchestrazione impegnata in quelloccasione ci nota in quanto- eccezionalmente-figura elencata nella partitura edita una prima volta nel 1609,due anni dopo la rappresentazione:<<duoi gravicembani,duoi contrabbassi de viola,dieci viole da brazzo,unarpa doppia,duoi violini piccoli alla francese,duoi chitarroni(in realt tre),duoi organi di legno,tre bassi da Gamba,quattro Tromboni(ma furono cinque),un regale (pi duno),duoi cornetti, un flautino alla vigesima seconda (due),un clarino con tre trombe sordine>>(la lista va completata coi<<duoi violini ordinari da braccio><e<<ceteroni><citati successivamente nelle didascalie che figurano qua e la nel corso della partitura). Oltre cge per le esigenze del basso continuo essi vengono usati in varie combinazioni a 5 e 3 parti reali(a 7 solo nelle<<sinfonie>>infernali,pi grandiose,e 4 in un luogo particolare alludendo alla cetra a 4 corde di Apollo),nellaltro ricorrendo al pi ridotto e agile complesso moderno di 2 voci acute e solitamente di ugual tessitura fondate su di un basso continuo.Nelle partiture dei primi decenni del secolo queste polarit(polifonia strumentale pi tradizionale,oppure scrittura moderna su basso continuo)coesistono a lungo, palesando per la tendenza a preferire sempre oi la seconda;ad esempio quello ad 1 solo (Basso continuo),2 e 3 dellEuridice di Peri(che conta una anticheggiante<<sinfonia><a 3 per un<<Triflauto><e di quella di Caccini.

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