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MITOLOGIEDELLARETE 31

i discorsi dei media siano a tal punto incisivi da produrre un cortocircuito tra
divulgazione e ricerca.

Internet: un problema di oggettiuazione delle scienze umane e sociali?

Quest'ultima osservazione ci consente di introdurre la seconda categoria di


discorsi attraverso i quali l'immagine della Rete si afferma socialmente, cioè quelli
delle scienze che di essa, dai diversi punti di vista, fanno oggetto di riflessione.
Nell'odierna società della comunicazione e delle reti telematiche, la ricerca esce
dal mondo dell'accademia e della letteratura scientifica e trova ospitalità da parte
dei giornali, della radio e della televisione. Le forme sono diverse: la rubrica fissa
(come accade per le «bustine» di Eco sull'Espresso), il commento ai fatti (emble-
matico il ricorso allo psicologo per '<capire»la cronaca nera), l'intervista (di solito
a margine dell'uscita di un volume o di una ricerca su temi che entrano di diritto
nell'agenda dei media). Attraverso queste presenze i media ottengono due risul-
tati: da una parte certificano i propri discorsi appoggiandoli alla testimonianza
dello studioso (ad esempio, se il mio obiettivo è di sostenere che la scuola italiana
non garantisce sufficiente spazio all'ICT (Information and Communication
Technology), intervistare l'autore di una ricerca sull'ICT nella scuola mi consen-
tirà di affermare la mia tesi rinforzandola con il suo parere); dall'altra amplificano
la loro funzione paratestuale consegnando al lettore e allo spettatore dei modelli
di comportamento.
La giustificazione teorica di questa ibridazione tra la ricerca e la comunica-
zione mediale può essere cercata in alcune grandi idee: la spettacolarizzazione del
reale (Debord), la perdita di referente dell'immagine (Baudrillard), il rapporto
stretto che lega la società trasparente con la funzione in essa costitutiva delle
scienze umane e sociali (Vattimo).
La riflessione di Debord, per quanto criticabile nella sua radicale unilateralità
e segnata ancora da una rigida precomprensione marxista (la spettacolarizzazione
generalizzata come fase ultima del capitalismo), ha il merito di cogliere bene come
una delle caratteristiche della società dei media sia la dialettica tra la realtà e la sua
rappresentazione in cui ciascuno dei due elementi passa nell'altro:
Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l'attività sociale
effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che
rovescia il reale è di fatto prodotto. Allo stesso tempo la realtà vissuta è
materialmente intrisa della contemplazione dello spettacolo e riprende essa
stessal'ordine spettacolaregarantendogli un'adesione positiva. La realtà og-
gettiva è presente in due modi. Ogni nozione precedentementefissatanon ha
per fondo che il suo passaggionel suo opposto: la realtà sorge nello spettacolo
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e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l'essenza e il fondamen


to della società esistente. (Debord, 1992, pp. 18-19)

Chiaramente Debord pensa al dispositivo spettacolare dei media, alle rap-


presentazioni dei media, ma non è improprio ricondurre alla sua prospettiva
anche le analisi delle scienze sociali che di quel dispositivo, come sopra accenna-
vamo (la sociologia da talk show, la psicologia da periodico illustrato), spesso
divengono parte. Il meccanismo di doppia alienazione che lo studioso francese
descrive è chiaramente riscontrabile in questa categoria di discorsi: quando il
sociologo in televisione o sulla carta stampata descrive Internet come il futuro, o
come uno strumento che agevola (o inibisce) la comunicazione e che può quindi
portare a una società cooperante (o incomunicante), di fatto -per usare le parole
di Debord -sta «facendo sorgere» la realtà nello spettacolo, perche le sue parole
disegnano uno scenario che in qualche modo determina la reale ricezione e gli usi
concreti della Rete; contestualmente, lo spettacolo verbale del suo discorso è
assolutamente reale, cioè perde la propria natura di discorso e assume concretez-
za. Realtà e rappresentazione cortocircuitano. Come dice laconicamente De-
bord: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (De-
bord, 1992, p. 19).
La progressiva rarefazione della realtà e la costituzione dell ' ordine simbolico

a nuova forma di realtà è al centro anche dell'esperienza di pensiero di Jean


Baudrillard. In un percorso che muove da Lo scambio simbolico e la morte
(1976), in cui il simulacro viene analizzato come l'ultima tappa della emancipazio-
ne dell'immagine dal suo referente, e che passa attraverso la riflessione etica sugli
effetti che questo processo produce sul soggetto (1987) e quella sociologica sulla
costruzione della realtà nell'informazione televisiva,12 il filosofo francese giunge a
individuare il meccanismo che sta alla base del rapporto tra immagine e realtà,
fatto e informazione, nella società dei simulacri:
Il delitto perfetto consiste in una realizzazioneincondizionata del mondo
attraverso l'attualizzazionedi tutti i dati, mediante la trasformazione di tutti i
nostri atti e di tutti gli eventi in pura informazione. Insomma: la soluzione
finale, la risoluzione anticipata del mondo tramite la clonazione della realtà e
lo sterminio del reale e del suo doppio. (Baudrillard, 1995, p. 31)

[2 Baudrillard (1991) in un saggio divenuto celebre riflette sul significato del rapporto tra la Guerra del
Golfo e la sua copertura mediatica, giungendo alla conclusione che quella guerra non è mai stata
combattuta. Baudrillard gioca sul paradosso. Non intende dire che la Guerra del Golfo a non essere
mai stata combattuta è quella reale, ma quella che il telespettatore e il lettore della carta stampata
hanno potuto ricostruire. Quella guerra esiste solo nella rappresentazione discorsiva che i media ne
h;lnnn rJ;ltn
M,TOLOGIE
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La riflessione di Baudrillard consente di comprendere nello stesso processo


il meccanismo di certificazione tipico della copertura mediatica (l'evento inizia a
esistere solo nel momento in cui ottiene una visibilità nei media, altrimenti non
esiste) e quello della virtualizzazione introdotto dallo sviluppo dei nuovi media e
in particolare proprio della rete Internet: l'informazione (intesa sia come notizia
che come insieme di bit) si sovrappone alla realtà fino a costituirsi essa stessa a
nuova forma di realtà; il risultato è che non esistono più la realtà e il suo doppio,
ma solo un ordine di cose in cui l'uno e l'altra si confondono fino a vedere
annullata ogni loro differenza. L'analogia con il funzionamento di quelli che
abbiamo definito i «discorsi di accompagnamento» alla penetrazione sociale della
tecnologia è forte: anche in quel caso, infatti, ci troviamo di fronte a una
rappresentazione discorsiva che impone le sue ragioni alla realtà dei fatti fino a
sostituirsi ad essi. L'immagine socialmente condivisa di Internet è prodotta dalle
esperienze reali della Rete che gli individui possono avere o dal sistema di
interpretazioni, istruzioni per l'uso, previsioni che attorno ad essa si affollano? E
che peso hanno le scienze umane e sociali nella costruzione di questi quadri d'uso?
La risposta a queste domande viene dalla riflessione che Vattimo (1987)
sviluppa proprio sul rapporto tra la società della comunicazione e le scienze
umane. Si tratta di un rapporto strutturale, nella misura in cui queste scienze «non
sono solo un modo nuovo di affrontare un fenomeno "esterno" [...l ma sono rese
possibili, nei loro metodi e nel loro ideale conoscitivo, dal modificarsi della vita
individuale e associata, dal costituirsi di un modo di esistere sociale che, a sua
volta, è direttamente plasmato dalle forme della comunicazione moderna» (Vatti-
mo, 1987, p. 21). Senza la presenza di comportamenti collettivi che richiedono
processi estesi di comunicazione sociale non vi sarebbe spazio per la socioIogia;
l'antropologia non sarebbe pensabile senza le scoperte e l'allargamento dell'oriz-
zonte oltre i confini dell'Europa (un processo che ha trovato uno straordinario
veicolo nella globalizzazione mediatica dell'immaginario); allo stesso modo difficil-
mente si potrebbe pensare allo spazio pubblico (Habermas, 1983) e alla nascita
dell'idea stessa di opinione pubblica se non a partire dai media. D'altra parte le
scienze umane e sociali sono ciò che concorre alla definizione di questa stessa
società. Infatti, dal punto di vista epistemologico, il modo di procedere di queste
scienze è caratterizzato da quello che Kant e Wittgenstein hanno definito Darstel-
lung e che si può rendere nella lingua italiana parlando di una «presentazione
configurativo-immaginativa dell'oggetto» (Borutti, 1999, p. 106). Se la rappre-
sentazione (Vorstellung) è restituzione, sia pure connotata dall'apertura immagi-
nativa e attraversata dall'intenzionalità del soggetto che si rappresenta qualcosa,
la Darstellung è piuttosto finzione, non nel senso della simulazione, dell'illusione
di verità, ma della costruzione formale della realtà. Le scienze umane e sociali
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producono conoscenza per modellizzazione, cioè costruiscono il loro oggetto in


termini simbolici:
L'oggetto non è dato naturalmente, ma diventa accessibileattraverso
processi di organizzazionee "incorniciamento», che selezionanoe rendono
pertinenti le informazioni a più livelli. (Borutti, 1999, p. 129)

Vattimo esprime la stessa idea recuperando l'idea heideggeriana secondo


cui la modernità deve essere pensata come epoca delle immagini del mondo;
quest'idea non si riferisce al fatto che tutto si riduce a punti di vista soggettivi, ma
«alle immagini costruite e verificate dalle scienze, che si dispiegano sia nella
manipolazione dell'esperimento, sia nella applicazione dei risultati alla tecnica, e
che, soprattutto (il che Heidegger non esplicita, peraltro), si concentrano alla fine
nella scienza e nella tecnologia dell'informazione» (Vattimo, 1987, p. 26).
Quindi si profila un doppio rapporto tra i media, le tecnologie di comunica-
zione e Internet, da una parte, e le scienze umane e sociali dall'altra. I media
garantiscono le condizioni perche queste scienze possano esistere; quest'ultime
contribuiscono a definire l'esistenza e i significati dei media: se Internet non ci
fosse non si potrebbero scrivere libri o articoli su Internet, ma allo stesso tempo
il modo in cui Internet esiste dipende proprio dai libri e dagli articoli che su Internet
vengono scritti.
La conferma di questa ipotesi di lettura viene dagli esiti del ragionamento
dello stesso Vattimo. La costruzione della «società della comunicazione» in cui le
scienze umane e sociali sono impegnate, infatti, risponde a una ben precisa
intenzione utopica. Tale intenzione, implicita nel programma ideologico dell'lllu-
minismo, risulta chiara nella riflessione di alcuni filosofi contemporanei come
Anel e Habermas. Recuperando categorie kantiane, essi indicano nella comu i-
cazione u di ideale no. ..., ne
fon are un'etica con ivisa ne garantire la convivenza civile: una società che non
coro= è una SOCle[acne n~n puu prallcare la gIustIzIa (perche essa dipende
dalle pari opportunità di comunicazione dei soggetti) e che non conosce la
solidarietà (possibile solo sulla base di una mutua disposizione dei soggetti alla
dialogicità reciproca). Il modello di società che ne consegue è una società traspa-
rente a se stessa. È questa proprio grazie alla connessione in rete una delle
principali idee che accompagnano il radicamento sociale di Internet, cioè la
convinzione che non vi sia più nulla di coperto o di interno, ma tutto divenga
esplicito ed esternalizzato. Questa autotrasparenza, osserva Vattimo, «in qualche
senso, realizza quell'assolutezza dello spirito che in Hegel restava un puro fanta-
sma ideologico, una assolutezza che, nella sua "idealità" manteneva con il reale
rnnrreto auel rapporto di trascendenza "platonica" tipico delle essenze metafisi-
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che con tutte le loro implicazioni anche, in largo senso, repressive (nella misura
in cui restavano necessariamente trascendenti}' (Vattimo, 1987, p. 33).
Il problema è che la «costruzione del mondo» in cui le scienze umane e sociali
sono impegnate (insieme ai media, i cui discorsi, come abbiamo visto, cortocircui-
tano con esse) invece di favorire I'autotrasparenza predispone la sua negazione.

Invece che procedere verso I'autotrasparenza, la società delle scienze


umane e della comunicazione generalizzataha proceduto verso quella che,
almeno in generale, si può chiamare la "fabulazionedel mondo.. Le immagini
del mondo che ci vengono fornite dai media e dalle scienzeumane, sia pure
su piani diversi, costituisconol'obiettività stessadel mondo, non solo interpre-
tazioni diverse di una "realtà. comunque "data». "Non ci sono fatti, solo
interpretazioni., secondo il detto di Nietzsche,il quale ha anche scritto che «il
mondo vero alla fine è diventato favola..13(Vattimo, 1987, p. 38)

Arriviamo al fondo del problema e tocchiamo il punto attorno al quale


questo primo capitolo ruota: nel!' odierna società dei media e della comunicazio-
ne, le analisi giornalistiche e scientifiche della tecnologia nei suoi sviluppi e nei
suoi usi sociali sono parte integrante della realtà che esse intendono descrivere.
Se questo è in parte giustificato dallo statuto epistemologico di scienze che, come
quelle umane e sociali, consistono nel proporre modelli di costruzione simbolica
del mondo, d'altra parte non si può negare che nel caso dei media e dei discorsi
che intorno ad essi proliferano assuma i contorni di un fenomeno profondo e
diffuso. A cosa ci riferiamo realmente quando parliamo di Internet? Quando
definiamo la Rete un mondo parallelo a quello reale ne stiamo descrivendo un
carattere strutturale o stiamo prestando fede a uno dei racconti che su di essa
circolano socialmente? Probabilmente, come indica 10 stesso Vattimo, occorre
fare esercizio di sospetto emettere tra parentesi questi racconti recependoli nella
loro natura di racconti:

Se non possiamo(più?)illuderci di svelarele menzognedelle ideologie rag-


giungendo un fondamento ultimo e stabile, possiamo però esplicitare il carat-
tere plurale dei «racconti», farlo agire come elementodi liberazionedallarigidità
dei racconti fonologici, dai sistemi dogmatici del mito. (Vattimo, 1987, p. 40)

Se i discorsi delle scienze umane e sociali sui media funzionano come


racconti, se la loro attività è un'attività sostanzialmente fabulatoria, allora occorre
adottare ai fini di una loro comprensione la categoria del mito: la critica sociale
della letteratura scientifica e non scientifica relativa ai media e a Internet è in fondo
mitologia.

13Nietzsche intitola così uno dei caDitoli del CreDuscoJo deali idnli
36 COSTRUTT/VISMO E PRAGMATlCA DELLA COMUNICAZIONE ON L/NE

Mito e media: il dispositivo semiotico

La costruzione simbolica della realtà, l'attività mediante la quale con la


parola e l'immagine si vestono di simboli le cose, trova nella categoria del mito
una significativa opportunità di categorizzazione e apertura interpretativa. In
questo paragrafo cercheremo di mostrare l'eziologia e il funzionamento di tale
categoria, muovendoci tra l'interpretazione sociale e l'analisi semiotica della
cultura. L' obiettivo è di ricavare una griglia interpretativa grazie alla quale tornare
sui «discorsi di accompagnamento» della Rete per mostrarne la natura profonda-
mente mitologica e, attraverso questa operazione, metterne in agenda la deco-
struzione e il superamento.

Ermeneutica del mito

«L'illuminismo prova un orrore mitico per il mito» (Horkheimer e Adorno,


1947, p. 36). In questa sintetica affermazione di Horkheimer e Adorno è conden-
sata l'opposizione netta attraverso la quale, tradizionalmente, l'Occidente legge il
rapporto tra razionalità scientifica e mito. Nel lessico concettuale dei due filosofi
francofortesi, infatti, l'illuminismo non viene inteso tanto come epoca storica del
pensiero (identificabile con il Settecento di Rousseau e del\'Encyclopedie), quan-
to piuttosto come una struttura culturale che identifica la tendenza tipica della
mente occidentale a liberarsi del mito per sostituirlo con la comprensione razio-
nale dei fenomeni: «L'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo
progresso, ha perseguito da sempre l' obiettivo di togliere agli uomini la paura e
di renderli padroni. [. ..] Il programma dell'illuminismo era di liberare il mondo
dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere imiti e di rovesciare l'immaginazione
con la scienza» (Horkheimer e Adorno, 1947, p. Il) .IIluminismo, nell' ottica
francofortese, è la tendenza dell'uomo a piegare la natura al suo volere, è il
«riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti» .Questo potere si
esprime sia nel lavoro conoscitivo che nello sviluppo della tecnica.
La conoscenza, infatti, almeno nella sua accezione diffusa, è pensata sem-
pre come uno sforzo di comprensione dei fatti, cioè come una riduzione della
realtà a concetto. Etimologicamente, questa operazione dice di un «prendere
insieme» (cum-prehendere), di un ricomporre le cose nell'ordine del pensiero che
inevitabilmente si traduce in un atto di imposizione: questo senso di un pensiero
che impone (in senso forte) il suo ordine al mondo è ben restituito dal termine
tedesco begriff, concetto, che dice di un greifen, di un definire, che è mettere
limiti alle cose nel senso del graffio, dell'impronta decisa. Come suggerisce
Maffesoli {1996, p. 25) il sapere concettuale «impone, si impone, brutalizza,
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invece di lasciare che le cose si sviluppino liberamente». Si capisce, allora, perche


nella tradizione di una parte dell'ermeneutica (da Heidegger a Vattimo) l'idea del
pensiero comprendente sia sempre stata tacciata di violenza: la logica della
conoscenza razionale, dell'illuminismo, è violenta perche impone alle cose un
ordine che non è il loro, costringe la natura a obbedire al pensiero. Da questo
punto di vista sono emblematiche rappresentazioni dell'illuminismo tanto il Ter-
rore che l'astuzia di Ulisse.
Già Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, aveva ben colto che quando
l'universale viene affermato come puro concetto, nella sua massima astrattezza,
si rovescia nel suo contrario. Questo è quel che succede con la Rivoluzione
Francese, quando la volontà generale e i valori della libertà, dell'uguaglianza e
della fraternità, nella misura in cui vengono concettualizzati e difesi nella loro
assolutezza, si traducono nella loro propria negazione generando violenza. Robe-
spierre si erge a garante della ragione, ne difende il valore sospettando di
chiunque sembri minacciarne l' esistenza, traduce il sospetto in azione violenta
che mira alla salvaguardia dell ' ordine mediante I' eliminazione di chi pare in

procinto di minacciarlo. La logica della ragione illuministica è una logica violenta


perche esclude il dissenso: se il concetto è formulato in maniera evidente si
impone nella sua verità e non tollera il dissenso, perche il dissenso diviene
automaticamente tentativo di far prevalere la menzogna e, quindi, di rovesciare
l'ordine generando il caos.
La stessa logica di affermazione dell ' ordine razionale su tutto ciò che gli si

contrappone (ed è quindi irrazionale) si può riconoscere nella vicenda di Ulisse. «II
lungo errare da Troia ad Itaca -si legge ancora nella Dialettica dell'illuminismo
-è l'itinerario del soggetto, infinitamente debole, dal punto di vista fisico,
rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza
-l'itinerario del se attraverso i miti. Il mondo mitico è secolarizzato nello spazio
che egli percorre, i vecchi demoni popolano i margini estremi e le isole del
Mediterraneo civilizzato, ricacciati nelle rocce e nelle caverne da cui uscirono un
giorno nel brivido dei primordi. Ma le awenture danno a ciascun luogo il suo
nome; e il loro risultato è il controllo razionale dello spazio» (Horkheimer e
Adorno, 1947, p. 54) .Gli strumenti attraverso i quali I' eroe afferma questo
controllo sono l'astuzia e la parola. L'astuzia- che consente a Ulisse di passare
indenne davanti alle Sirene e di partire da Circe -costituisce la sfida e I'aggira-
mento nei confronti del mondo mitologico: Ulisse si prende gioco degli dei, cioè
afferma l'ordine razionale su quello simbolico. Un'operazione che appare chiaris-
sima nell'episodio di Polifemo, quando l'astuzia si serve del nome per andare a
segno: la rivelazione del nome, Odisseo, mentre rivela inganna, perche udeis, in
greco, significa Nessuno. Ulisse, mentre usa la parola per designare la cosa
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(dicendo «II mio nome è Nessuno» riferisce il nome a se stesso) contemporanea-


mente rompe il rapporto mitico tra parola e cosa e afferma la capacità della
ragione di usare il nome per trasformarla: «La parola sembra avere un potere
immediato sulla cosa, espressione e significato si confondono. Ma l'astuzia mette
a profitto la differenza; si attacca alla parola per trasformare la cosa» (Horkheimer
e Adorno, 1947, p. 67).
Con la figura di Ulisse, interpretata come prototipo della ragione illuminista
(astuta, calcolante, impositiva, violenta) ci viene offerta anche la saldatura della
razionalità scientifica con la tecnica: il dominio della ragione sulla natura, infatti,
così come ad esempio si esprime nell'episodio delle Sirene, passa attraverso la
scelta (tecnica) di farsi legare dai compagni all'albero della nave e di predisporre
dei tappi di cera perche, non sentendo nulla, essi non vengano ammaliati dal
canto sublime e continuino a remare. Il «ponte» concettuale tra l'una e l'altra, tra
razionalità scientifica e razionalità tecnica, è la logica del dominio: «La razionalità
tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio» (Horkheimer e Adorno,
1947, p. 127).
Rispetto a questa idea della razionalità comprendente, il mito ha sempre
rappresentato l'opzione opposta, antitetica, sia dal punto di vista storico-evoluti-
vo, che del dispositivo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, nonostante proprio nel Settecento
illuminista Vico nella sua Scienza nuova avesse indicato la necessità di guardare
in termini contestuali alle produzioni culturali delle singole età dell'uomo valoriz-
zando la cultura poetica, l'opinione che finisce per imporsi è quella hegeliana. Se
la realtà, e quindi la storia che ne rappresenta il distendersi temporale, devono
essere lette come il cammino attraverso il quale l'Idea procede verso la propria
autoconsapevolezza, allora è inevitabile ricavarne che ogni tappa di questo
cammino costituisce un passo in avanti verso la totale razionalizzazione del reale.
E infatti, nell'ultima triade in cui questo processo dialettico si articola, è la Ragione
a costituire il punto di arrivo, a realizzare l' Assoluto, non la Religione e l' Arte che
la precedono ma che inevitabilmente devono andare incontro al proprio supera-
mento. Il mito, nella prospettiva hegeliana, rappresenta l'infanzia della ragione,
cioè identifica quel momento dello sviluppo dello Spirito in cui la spiegazione
fantastica delle cose surroga temporaneamente la mancanza di una spiegazione
razionale: quando tale spiegazione sarà disponibile non occorrerà più il mito.
Questo tipo di presupposto condiziona fortemente sia gli sviluppi della
scienza tra Ottocento e Novecento che la storiografia filosofica successiva. Infatti,
nella cultura del positivismo (si pensi ai «tre stadi» di Comte), la dialettica tra
infanzia ed età adulta della ragione -già anticipata da Kant nella sua Risposta
alla domanda: cos'è l'illuminismo? -diviene il parametro per distinguere la
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spiegazione ingenua e fantastica del mondo tipica della religione e della metafisica
da quella rigorosa e matura della scienza. La logica del «disincantamento del
mondo» grazie alla quale Max Weber ricostruisce lo sviluppo razionalizzante
dell'Occidente è ben leggibile, qui, nell'idea positivista del progresso inteso come
la graduale espulsione del religioso e dell'irrazionale in favore di tutto ciò che è
positivo, cioè riscontrabile e misurabile. Una prospettiva analoga viene assunta
come criterio di interpretazione storica dalla storiografia filosofica che proprio
nell'Ottocento muove i suoi primi passi con La filosofia dei greci nel suo
sviluppo storico di Zeller. Il presupposto hegeliano ritorna nell'opera di Zeller e
si applica al rapporto tra filosofia presocratica e sistemazione platonico-aristote-
lica che viene letto nei termini di un progressivo abbandono del mito {che si
manifesta nelle immagini naturalistiche dei filosofi ionici come nella visione
parmenidea di una dea che rivela al filosofo la «via della verità») verso le forme
tipiche del ragionamento filosofico e cioè il concetto e l'argomentazione. Un
pregiudizio che viene fatto proprio su larga scala dalla cultura occidentale e
diviene criterio di discriminazione tra culture evolute e non evolute, capaci di
pensiero razionale le prime, «ferme» al pensiero mitico le seconde.
Questa dialettica si comprende se si riflette brevemente sul dispositivo del
pensiero mitico. Esso affida all'immaginazione il compito che la razionalità
scientifica affida alla comprensione:
Il razionalismoche propone un messaggiova dritto allo scopo, seguequella
via recta la cui efficacia ci è ben nota. Del tutto diverso è l'agire incerto
dell'immaginario. Essoci guida ad un sapere raro. Un sapere che, allo stesso
tempo, mostra e nascondeciò che comunque descrive.Un sapereche, dietro
agli arabeschidelle metafore, custodisce,agli occhi delle menti raffinate, verità
multiple. Un sapere che lascia ad ognuno il compito di svelare, cioè di
comprendere da e per se stessiciò che è opportuno scoprire. In un certo senso
si tratta di un sapere iniziatico. (Maffesoli, 1996, pp. 30-31)

La logica del mito è quella della traccia e dell'indizio, dell'immagine che cela
mentre svela: ne sono emblema l'immagine di Eraclito che parla da dietro una
tenda o il dire oscuro e densamente simbolico dello Zarathushtra di Nietzsche. Se
i confini dell'anima non potranno mai essere trovati perche il suo logos è troppo
profondo, come suggerisce Eraclito, forse la modalità più adatta per dirne qual-
cosa non è quella definitoria del concetto ma quella allusiva della parola poetica,
del mito. Mentre la razionalità scientifica persegue l'evidenza, il mito gioca sul
chiaroscuro, dove è più ciò che rimane nascosto di quanto non si possa vedere.
A partire dal secolo XIX il mito e la cultura che da esso promana vengono
sottoposti a svariate interpretazioni, tra cui almeno tre si segnalano per la loro
capacità di imporsi nel circuito culturale.
40 COSTRUTTIVISMO E PRAGMATlCA DELLA COMUNICAZIONE ON UNE

La prima è quella dell'etnoantropologia, secondo la quale (Rivers) il mito


appartiene a una fase precedente il tempo della storia, rappresentando la forma
caratteristica di espressione della mentalità primitiva. Come specifica Levy-Bruhl
si tratta di una forma di pensiero prelogico di cui la contraddizione e l' assenza delle
relazioni causali sono le caratteristiche. Attraverso di esso le società a solidarietà
meccanica (Durkheim) individuano e codificano un «credo», cioè un insieme di
valori e di pratiche condivisi in cui riconoscersi e attraverso cui fondare la
possibilità stessa della convivenza sociale (Malinowski).
Sull ' origine e la natura del mito dalle rappresentazioni collettive delle società
arcaiche lavora anche la psicologia del profondo. Per Freud il mito è una
trascrizione dell'inconscio, cioè la traduzione di un conflitto in immagine e la sua
proiezione/fissazione in un tempo indeterminato e perciò universale: «[...] il mito
greco -scrive Freud a Fliess il15 ottobre del 1897 -si rifà a una costrizione che
ognuno riconosce per averne sentita personalmente la presenza. Ogni membro
dell'uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia e, da questa
realizzazione di un sogno trasferita nella realtà, ognuno si ritrae con orrore e con
tutto il peso della rimozione che separa lo stato infantile da quello adulto» .Questa
accezione «clinica» del mito viene integrata da Jung in una prospettiva culturale di
più largo respiro in cui il mito diviene l'espressione emblematica degli archetipi
dell'inconscio collettivo, cioè di quelle idee primordiali che accompagnano filoge-
neticamente l'evoluzione dell'uomo.
Che altro sono i miti della «traversatamarittima notturna», dell'«eroe
errante»o del «drago-balena» se non la nostra eterna conoscenzadel tramonto
e della rinascita, divenuta immagine? Prometeo che ruba il fuoco, Ercole che
uccide il drago, i numerosi miti della creazione, il peccato originale, i sacrifici
mistici, la maternità della vergine, il perfido tradimento ai danni dell'eroe, lo
sbranamento di Osiride e molti altri miti e favole rappresentano decorsi
psichici in forma simbolica e figurata. (Jacobi, 1971, pp. 68-69)
Infine, la critica marxista (di cui sono espressione i teorici francofortesi che
abbiamo già citato) legge nel mito uno strumento di conservazione dei valori
propri di una determinata congiuntura socioeconomica. Esemplare in tal senso è
l'analisi che Marcuse fa del meccanismo di repressione addizionale all'opera nella
società dei consumi. La produzione mitologica, qui, aggiornata attraverso il
sistema televisivo e le immagini della pubblicità, costituisce «la base materiale del
dominio. [ ...] La creazione di bisogni repressivi è diventata da lungo tempo parte
del lavoro socialmente necessario nel senso che senza di esso il modo stabilito di
produzione non potrebbe reggersi» (Marcuse, 1964, p. 255). Il mito, dunque, che
dovrebbe rappresentare l'espressione dell'estetico, cioè di tutto ciò che si oppone
alla razionalità della tecnica e della produzione, funziona da strumento di legitti-
mazione e di rinforzo proprio di quella razionalità.
MITOLOGIEDELLARETE 41

Da queste rapide annotazioni si possono trarre alcune conclusioni sulla


natura del mito:
-innanzi tutto esso costituisce una forma di espressione del tutto diversa da
quella della ragione; procede per immagini, similitudini, sopporta la contrad-
dizione, predilige la suggestione rispetto all'argomentazione;
-in secondo luogo esso ha a che fare con l'attività attraverso cui l'uomo
produce valori capaci di fondare e rendere possibile I' esistenza delle società; in
questo senso nel mito ritornano e si materializzano alcune grandi ossessioni che
appartengono da sempre alla vicenda umana nel mondo;
-infine, proprio in virtù di questo fatto, il mito traduce sempre un 'intenziona-
lità e rinvia, dunque, a istanze che 10 preparano e lo costruiscono; da questo
punto di vista esso costituisce uno spazio entro il quale si giocano il controllo e
il potere, a livelli diversi.

Semiotica del mito

Proprio la linea di lettura indicata da Marcuse e dalla critica marxista


costituisce la suggestione a partire dalla quale individuare nel mito un dispositivo
fondamentale per comprendere la cultura di massa e le sue manifestazioni (e
quindi anche il senso che in questo capitolo abbiamo assegnato alle immagini
sociali di Internet). In questa prospettiva, in quanto strumento di comprensione

«II ~ ~ ~..~ .'~.~.~. ,...] è un sistema di comunicazione, è un messaggio»


(Barthes, 1957, p. 191). Se ne ricavano alcune indicazioni importanti che si
possono organizzare attorno a tre coppie categoriali: forma/concetto, natura/
storia, parola/immagine.
Il mito va, innanzi tutto, pensato piuttosto secondo la forma che non
secondo il contenuto; non è il contenuto del mito a renderlo tale (per cui sarebbe
mito l'Odissea e non, ad esempio, la Ferrari), ma il modo attraverso il quale quel
contenuto viene comunicato. Se, infatti, il mito è parola, allora non si può
escludere che sia mito tutto ciò che si può articolare secondo le regole del
discorso. Come precisa chiaramente Barthes (1957, p. 191): «II mito non si
definisce dall'oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui 10proferisce: ci sono
limiti formali al mito, non ce ne sono di sostanziali». Quindi, per restare allo stesso
esempio, la Ferrari può benissimo essere iscritta nel mito, nella misura in cui viene
resa oqqetto di forme discorsive e di rappresentazione che la rendono tale: i
42 COSTRUTTIVISMO E PRAGMATlCA DELLA COMUNICAZIONE ON L/NE

racconti giornalistici delle sue imprese, I' investitura che le proviene dai discorsi dei
tifosi, I'aura che attorno ad essa viene allestita da questi e da quelli. La pura
materia -I' auto rossa, meccanicamente perfetta, esteticamente apprezzabile -
non sarebbe sufficiente a costituire il mito se non a partire da un uso sociale che
di essa viene fatto e che passa attraverso la produzione discorsiva che la riguarda.
Se si pensa a questo rapporto che lega la materia del mito e i suoi usi
(linguistici) si comprende anche perche, secondo Barthes, il mito si iscrive nello
spazio della storia e non in quello della natura. Nella misura in cui l'oggetto
mitico è reso tale dalla parola, risulta abbastanza facile comprendere come
qualcosa che è mito per un' epoca possa non esserlo per un' altra, che potrà invece
sostituirgliene altri:
Si possono concepire miti molto antichi, non ne esistonodi eterni; perche
è la storia umana che fa passareil reale allo stato di parola, ed essasola regola
la vita e la morte del linguaggio mitico. Lontana o no, la mitologia può avere
'solo un fondamento storico, perche il mito è una parola sceltadalla storia: il
mito non può sorgere dalla «natura»delle cose. (Barthes, 1957, p. 192)

Come la moda, i gusti e le tendenze, anche il mito risente del contesto


storico e sociale all'interno del quale viene elaborato; questo è garanzia della sua
forte presa all'interno di quel contesto, ma anche del suo carattere effimero e
volubile.
Infine, la parola di cui il mito consiste non necessariamente deve avere una
forma orale o scritta: «II discorso scritto, ma anche la fotografia, il cinema, il
reportage, 10 sport, gli spettacoli, la pubblicità, possono servire da supporto alla
parola mitica» (Barthes, 1957, p. 192). In linea con una accezione larga del
linguaggio in quanto sistema di segni (qualsiasi sistema di segni, anche non
verbali), Barthes può così ritenere «parola» allo stesso titolo una fotografia e un
articolo di giornale. In questo modo egli ottiene due risultati: di poter estendere la
propria analisi «mitologica» anche a quei «miti d'oggi» che, come quelli dell'indu-
stria dei media, non prendono corpo nella parola ma nell'immagine; inoltre, di
poter far funzionare al servizio di questa analisi gli strumenti che la semiotica
aveva già utilizzato per la lingua scritta (di fatto, Barthes ritiene la mitologia una
parte della semiologia).
In quanto sistema di segni il mito funziona semioticamente secondo il
sistema triadico già fissato dalla linguistica. In base ad esso, un segno si può
considerare come il '<totale associativo» di un significante e di un significato, cioè
di un elemento espressivo (sia esso cosa, parola o immagine) e di un contenuto
semantico (idea, concetto o sentimento). Barthes porta due esempi di come
funziona la triangolazione semiotica. Il primo è quello di un mazzo di rose rosse
(significante) che, nella misura in cui viene caricato di un valore passionale
MITOLOGIEDELLARETE 43

(significato), diviene segno di amore e passione; l'altro esempio è quello del sasso
nero (significante), di per se privo di senso fino a quando gli viene attribuito un
significato (la condanna a morte in una votazione anonima) che 10rende segno di
quella condanna. La stessa struttura triadica può essere verificata in fenomeni
linguistici molto diversi fra loro, dal linguaggio ordinario, alla letteratura, al
linguaggio dei sogni e della psicologia clinica.

Fig. 1 La struttura semiotica del segno.

Nel caso del mito, questo dispositivo di triangolazione semiotica lavora a


partire da una catena semiologica già esistente. Il mito, infatti, investe di un
significato ulteriore parole e oggetti che già posseggono comunque un significato:
è, come dice Barthes, un «sistema semiologico secondo» che opera come un
metalinguaggio sul linguaggio-oggetto che è costituito dal sistema semiologico
primario della lingua. Ciò che nel sistema primario è segno, cioè sintesi totalizzante
di un significante e di un significato, costituisce per il sistema secondario del mito il
significante di una nuova catena semiologica, come risulta chiaro dalla figura 2.

Fig. 2 La struttura semiotica del mito.14

14 Dato che, in virtù del raddoppiamento della catena semiologica, ci si trova ad aver a che fare con
due significanti, due significati e due segni, Barthes suggerisce di differenziare la terminologia con
cui indicare gli stessi termini nel caso del mito. Così, il significante (che corrisponde al segno sul
piano della lingua e definisce il senso della significazione su quel piano) viene definito forma del
mito; il significato prende il nome di concetto; il terzo termine viene designato come significazione.

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