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Annali di Storia delle Universit italiane - Volume 2 (1998)

Studi M. Antonella Cocchiara

Universit degli Studi e intellettuali nel disegno di 'Messina capitale'


[English summary]

1. Tra i numerosi provvedimenti repressivi, carichi di simbolismo oltre che di durezza punitiva, che il vicer di Sicilia Francisco Bazan de Benavides, conte di Santisteban, disponeva 'a chiusura' della rivolta antispagnola di Messina (1674-1678), v'era anche la soppressione dell'Ateneo peloritano, costretto a interrompere la sua breve ma intensa attivit1, ripresa solo nel 1838, anno della rifondazione borbonica 2. Il Messanense Studium Generale veniva spogliato di diritti che, prima con ordinanza viceregia (2 marzo 16793), successivamente con prammatica di Carlo II (6 settembre 1682 4), venivano conferiti al Siculorum Gymnasium di Catania, che cos riacquistava la 'privativa' degli studi universitari nell'isola. Perch tanta acrimonia? Evidentemente al governo spagnolo non era parso sufficiente soffocare, e umiliare, le pretese autonomistiche del ceto senatorio messinese, disponendo che la citt - dichiarata "pel delitto di fellonia e lesa Maest [...] morta civilmente ed incapace di qualunque genere di onore" 5 - fosse spogliata di tutti i suoi beni e privilegi; non era bastato che lo spoglio avesse luogo con la plateale sottrazione delle pergamene e dei registri che contenevano i (veri e falsi) privilegi, trasportati, "a la ora de la mayor publicidad, para que sea notoria"6, dall'Archivio della Torre del Duomo, dov'erano conservati, nel palazzo del vicer. A questi provvedimenti, dettati dall'intento di cancellare insieme alle memorie storiche la stessa coscienza cittadina7, se ne aggiungevano altri, sia di pari 'esemplarit', come la rottura della campana della Torre di quell'Archivio, che era servita a convocare "la furiosa pertinacia de estos pueblos a su abusiva observancia", e la demolizione del "Palacio de la Ciudad" 8, che di pi sostanziale lesivit delle prerogative politiche ed economiche vantate da Messina, come, ad esempio, il definitivo annientamento dell'autorit senatoria, realizzato tra l'altro attraverso la sostituzione del Senato con un Magistrato degli eletti (nominati dal vicer), la soppressione della Corte stratigoziale, l'abolizione della Zecca e del Consolato della Seta. Ma ci continuava a non bastare; si volevano precostituire ulteriori garanzie contro eventuali futuri attacchi al governo centrale, si voleva fissare un 'punto di non ritorno', sancendo definitivamente la soppressione non solo dei simulacri dell'autonomia cittadina, ma anche di altri 'luoghi' di latente pericolosit: lo Studium, e insieme ad esso gli altri simboli della cultura cittadina, come le Accademie 9. Se, con tanta determinazione, il Benavides realizzava la sistematica demolizione delle istituzioni non solo politiche ma anche culturali della citt, intenzionato a cancellarne ogni ricordo, a fondamento di un tale disegno doveva esserci una ragione pi profonda del mero impeto punitivo, dell'"irosa vendetta"10, un nesso che, al di l della pur grave contingenza repressiva, legava l'Ateneo al progetto politico che stava alla base dello scontro degli anni Settanta. Certa storiografia tardo-ottocentesca, ancora pervasa di passione risorgimentale contro qualunque "tirannide straniera" e segnata, del resto, da anacronistica foga municipalista, non nutriva dubbi in proposito: l'Universit degli Studi era stata il luogo di coagulo del disegno autonomistico messinese e per questo era

stata travolta dalla repressione spagnola11. Le pi recenti ricostruzioni storiografiche mostrano maggiore cautela e individuano posizioni diversificate tra i docenti dello Studium peloritano, non tutti convinti sostenitori della "causa della rivolta" 12. Sono, tuttavia, unanimi nel riconoscere, anche al di l del contenzioso immediatamente precedente allo scoppio dello scontro, un'antica solidariet tra Universit e istituzioni cittadine, un rapporto simbiotico risalente alle stesse origini dello Studium e reso pi evidente dai suoi successivi sviluppi, scanditi in particolare dalla rifondazione filippina del 1591, dai nuovi assetti statutari del 1597 e da un'ultima riforma del 1641 che decretavano il pieno e capillare controllo, munifico e solerte, del Senato cittadino sullo Studio13, a conferma di un interesse che, travalicando l'ambito puramente culturale o ipotetici connotati di mecenatismo, aveva precisa valenza politica. Ed sotto questo profilo - e non tanto nell'adesione pi o meno massiccia dei professori universitari o nel loro sostegno pi o meno diretto alla rivolta antispagnola 14 - che pu spiegarsi l'accanimento del conte di Santisteban contro l'Ateneo messinese. Un legame 'originario', quindi, quello tra Universit e Senato cittadino, reciprocamente avvolti in una matassa il cui bandolo potrebbe essere individuato all'interno di quell'ambizioso disegno politico elaborato dal ceto senatorio e sintetizzabile nell'obiettivo di 'Messina capitale', cio in un progetto da cui lo Studium traeva la sua stessa ratio giustificativa e in vista del quale gli sarebbe stato assegnato un ruolo di primo piano nella tutela delle prerogative vantate dalla citt. Particolare importanza ricopriva in questa prospettiva la facolt giuridica, i cui lettori vedremo impegnati nella difesa dei privilegi comunali ogniqualvolta le circostanze lo richiederanno. Testimonianza del rapporto che Dollo definir di "mutua salute" tra "Accademia e mastra senatoria"15 sono le numerose opere, giuridiche o pi palesemente apologetiche, scritte a tutela di aspetti diversi dell'autonomia cittadina da giuristi - non tutti messinesi, ma tutti docenti dell'Ateneo - pubblicate tra la fine del Cinquecento e il 1678, cio negli anni di reale attivit dello Studium Generale di Messina16.

2. Le complesse ragioni dei frequenti contenziosi tra i vicer spagnoli e l'oligarchia messinese rappresentata nel Senato, assunti a genesi della rivolta antispagnola, sono state ampiamente studiate, sebbene sulla base di linee interpretative differenti e spesso attente a cogliere solo le specificit di una storia 'tutta cittadina' e non, piuttosto, a incastonare queste vicende nel pi vasto quadro della politica estera della monarchia spagnola17. Di recente, per, e sulla base di un nuovo approccio storiografico, stato sottolineato, quale tratto caratteristico della politica spagnola nell'isola, il rifiuto a operazioni di concentrazione in un'unica sede cittadina di istituzioni e prerogative che, al contrario, seguendo il machiavellico 'divide et impera', venivano distribuite (secondo equilibri n stabili n indifferenti alle dinamiche di potere interne alla corte madrilena) tra Palermo, sede della corte e dei grandi tribunali, Messina, sede della Zecca e titolare di numerosi altri privilegi che le garantivano ampi spazi di autonomia e una gestione delle sue istituzioni more reipublicae, e Catania, sede del Siciliae Studium Generale. Una sapiente suddivisione di uffici, compiti e ruoli che avrebbe contribuito a determinare quel 'policentrismo' che connoter la storia della Sicilia nell'et moderna 18. Questa tendenza trovava conferma, se non valorizzazione, durante il regno di Filippo II, quando dagli stessi ambienti di corte veniva avanzata la proposta di fissare la residenza del vicer alternativamente per quattro anni a Messina e per due o tre a Palermo proprio al fine di controbilanciare la posizione di supremazia assunta in

quegli anni dalla 'capitale'19. E' in questo contesto che si spiegano gli accordi del novembre 1590 tra i giurati messinesi e il vicer conte d'Alba, fissati nel 'privilegio' del 21 ottobre 1591 con cui il sovrano, dietro pagamento di un donativo di 500.000 scudi, disponeva, tra l'altro: a) l'abolizione di due gabelle imposte nel 1562 dal vicer Garcia de Toledo e, di contro, la facolt per la citt di imporre e riscuotere per proprio conto una tassa "di tar uno" per ogni libbra di seta prodotta e un'altra di "danari quattro per quartuccio di vino", nonch la concessione del monopolio dell'esportazione della seta; b) un sostanziale incremento del ruolo 'politico' della Corte stratigoziale in forza di una clausola che 'manipolava' l'originario privilegio alfonsino del 1422 e prevedeva che, in mancanza di pronuncia del Supremo Consiglio d'Italia, dovesse darsi esecuzione alla sentenza dichiarativa di 'controprivilegio' emessa dalla Curia locale 20; c) la residenza del vicer e dei tribunali del regno per diciotto mesi ogni triennio nella citt dello Stretto; d) la conferma ai messinesi della facolt "di potere [...] tenere Studj" e "di poter dottorare, e donare il grado di Dottore in tutte le scienze, e Professioni che si leggeranno nelli Studj sudetti, come si fa nell'altri Studj d'Italia" 21. Il capitolo del 1591, in sostanza, scardinava i precedenti assetti tra le maggiori citt dell'isola a tutto vantaggio di Messina, peraltro in assoluta aderenza con i disegni di una corte che aspirava evidentemente ad un diverso equilibrio tra le rappresentanze provinciali dell'isola, anche se ci doveva passare attraverso un incremento di autonomia del centro mamertino, e che inoltre, grazie a quell'accordo, rimpinguava i deficitari bilanci del Regno. E' stato sottolineato il carattere 'privatistico' dell'accordo del 1591: non un privilegio concesso da un'autorit sovrana a sudditi meritevoli, ma un vero e proprio contratto a titolo oneroso stipulato tra parti 'uguali', tra una corona che si impegnava a concedere 'privilegi' e una citt che si obbligava in ragione di ci a pagare un prezzo (do ut des), nell'ambito di un rapporto tra titolari di attribuzioni patrimoniali legate da un nesso sinallagmatico, a testimonianza di un atteggiamento di Filippo II che non costituiva un elemento di novit nella politica estera della Corona di Spagna, inserendosi perfettamente nella scia "di quella tradizione pattizia che in Sicilia aveva, soprattutto in ragione dell'eredit aragonese, salde radici" 22. Com' noto, il capitolo del 1591 avrebbe scatenato, in tempi diversi, una molteplicit di contenziosi, innanzitutto con la citt di Catania, che faceva immediatamente valere contro Messina la pretesa 'privativa di Studio Generale'23. Gli scontri pi duri, per, sarebbero nati a causa delle violazioni da parte viceregia delle immunit e dei privilegi vantati da Messina e del conseguente ricorso al diritto di 'controprivilegio' - pensiamo al contrasto violentissimo con il vicer d'Osuna 24 - e poi, soprattutto e a pi riprese, intorno a quel punto dell'accordo che imponeva ai vicer di fissare la residenza della corte alternativamente a Messina e a Palermo. Espressione di una volont sovrana che in Sicilia non manifestava affatto obiettivi accentratori, il provvedimento innestava un'emulazione tra le due citt di certo vantaggiosa per il Regno, specie per le sue 'entrate', e contestualmente contribuiva a fomentare temi gi cari alla classe dirigente messinese, suggerendo "l'idea di un regno bicefalo" 25 e ponendo le basi del lungo conflitto tra Messina, da un lato, pervicace nel pretendere l'adempimento degli 'obblighi contrattuali' di fronte ai ripetuti tentativi di elusione da parte dei vicer, e, dall'altro, la Deputazione del Regno e la citt di Palermo, che non intendeva perdere il ruolo egemonico che proprio il 'monopolio' della corte viceregia le aveva fino ad allora garantito. La controversia avrebbe assunto un valore paradigmatico dei dualismi siciliani all'interno del 'policentrismo' accreditato anche dalla politica estera degli Asburgo: tra una 'Sicilia del grano' 26, ad occidente, incontestabilmente controllata da Palermo, sede della feudalit titolata e dei tanti nobili stranieri sopraggiunti nell'isola nel corso di successive ondate immigratorie e l stanziatisi per le 'attrattive' suscitate in buona parte

dalla presenza della corte, degli uffici amministrativi e dei grandi tribunali, luogo di afflusso della grossa rendita terriera ma anche florido centro commerciale coagulato intorno all'esportazione frumentaria, e una 'Sicilia della seta'27, nella quale Messina, vivace emporio commerciale la cui ricchezza risiedeva nel porto, nell'industria serica e nei numerosi privilegi, guidata da un'lite pi composita, costituita da un'aristocrazia affiancata da un patriziato civico di pi recente nobilitazione e da una fiorente oligarchia mercantile e delle professioni, esercitava il proprio predominio economico e un'influenza politica estesi per tutta la zona nordorientale dell'isola (e fino alle vicine coste calabresi) 28. Un contrasto tra due 'modelli' di sviluppo economico e di gestione politica del governo urbano, che finiva per 'semplificarsi' assumendo i toni della 'contesa tra citt rivali' per il titolo di caput Regni.

3. Il Maravall, studiando le origini dello Stato moderno e i processi di accentramento che ne hanno accompagnato la nascita, ha posto la 'questione delle capitali', la cui costituzione appare parte integrante e necessaria delle nuove articolazioni del territorio e "fenomeno caratteristico" degli emergenti ordinamenti nazionali. Capitali dove si stabiliva il sovrano con la corte, dove si concentravano i grandi tribunali regi e gli uffici centrali amministrativi, dove normalmente trovava sede uno Studium; centri urbani che per il sol fatto di essere 'capitali' acquistavano carattere di grande citt potenziando le loro originarie qualit economiche e politiche29. Un tale quadro sembrava quasi fosse chiaro ai giurati messinesi che mediante la trattativa degli anni Novanta con la Corona spagnola avevano dato solidit alle fondamenta del progetto di una 'Messina capitale': residenza della corte viceregia, e quindi presenza in citt - anche se solo per il periodo predeterminato - del vicer e concentrazione di tutti i servizi amministrativi e dei maggiori uffici giudiziari del Regno30, ma anche accentuazione degli spazi di autonomia del governo locale e della condizione privilegiata di 'citt franca', cos da mantenere nel periodo di residenza 'palermitana' della corte una forte spinta eccentrica rispetto all'altra 'capitale'. Elemento portante del progetto risultava anche l'attivazione dello Studium, non solo per il lustro che dava alla citt, avvalorandone l'aspetto di 'capitale', ma perch, soprattutto, doveva servire a formare i suoi "intellettuali organici"31, fedeli interpreti e difensori dell'articolato disegno politico-ideologico elaborato dal compatto gruppo dirigente cittadino. Particolarmente funzionale alle esigenze politiche della citt e al progetto tendente ad affermarne il primato politico, economico e culturale era la facolt giuridica (non a caso gi sottratta, insieme alla facolt di medicina, all'influenza gesuitica e direttamente controllata dal Senato cittadino): essa doveva 'produrre' i futuri funzionari, giudici e avvocati da utilizzare nelle magistrature locali o in quelle centrali "per rappresentarvi gli interessi messinesi" e su cui fare affidamento per un'efficace difesa dei suoi privilegi. La sempre maggiore osmosi tra ceto senatorio e doctores iuris se non giovava ad accreditare un'immagine della facolt giuridica 'aperta', quanto quella di medicina, all'"innovazione scientifica", mostrandola anzi ripiegata verso la "conservazione"32, proprio in ragione dei fini che perseguiva, esigeva comunque una facolt di buon livello, con insegnanti prestigiosi e ben pagati, 'reclutati' anche ultra Farum, che in caso di difficili controversie venivano assunti quali difensori della citt e delle sue prerogative 33. E come non sar inusuale trovare legum doctores impegnati, in alternanza con l'insegnamento universitario, in 'posti di trincea' a difesa dei privilegi e delle aspirazioni politiche dell'universitas (ad esempio, quali giudici della Corte stratigoziale o ambasciatori presso la corte madrilena), anche di pi saranno i professori di diritto, exteri o meno, che non si sottrarranno alla richiesta di coniugare la docenza universitaria con l'attivit pratico-forense a favore della citt.

Quanto ci pervenuto della produzione edita dai giuristi doctores legentes nell'Universit peloritana - punta di iceberg di un pi vasto ventaglio di interventi documentato da fonti manoscritte o indirette - conferma il grado di interconnessione tra costoro e il ceto dirigente messinese, svelando a un tempo il maggiore impegno dei professori di diritto nel difendere, nelle aule dei tribunali (dietro lauti guadagni) o con scritti giuridico-politico-apologetici, gli interessi della citt piuttosto che nel dedicarsi alla redazione di opere connesse alla schola e all'insegnamento impartitovi34. Una produzione, quest'ultima, non solo di dimensioni trascurabili, ma che qualitativamente non presentava elementi di originalit, omologata a collaudati impianti metodologici e di contenuto35, ben diversa, e non solo per numero, dai tanti consilia, responsa, allegationes, vota dati da questi giuristi nella qualit di defensores civitatis36. Come ha osservato la recente storiografia, sia che fossero legati strutturalmente allo Studium, sia che fossero giudici cittadini o componenti del collegium iuristarum37, essi avrebbero condiviso con le lites dominanti, nella prospettiva indicata dal progetto di 'Messina capitale', quella che per certi versi pu apparire "un'utopia collettiva" di cui tutti sarebbero infine risultati "parimenti partecipi" 38.

4. La 'questione della capitale' nella Sicilia tra Cinque e Seicento stata da ultimo e a fondo indagata da Benigno, che ha con intelligenza correlato le vicende messinesi con le dinamiche politiche interne alla corte madrilena. E in quello scorcio di secolo le aspirazioni messinesi apparivano persino legittimate, o comunque favorite, dagli indirizzi politici spagnoli, che in Sicilia, in controtendenza con quanto avveniva negli altri Stati regionali italiani e in tutt'Europa e con quanto lo stesso Filippo II faceva in Spagna - dove nel 1561 stabiliva a Madrid la capitale del Regno - decideva "di lasciare parzialmente in sospeso la questione della capitale", aprendo di fatto la via alle... 'contrattazioni', alle aspettative e ad una serie di scontri che, dalla fine del XVI secolo sino alla rivolta del '74, impegneranno su pi fronti la citt dello Stretto, assurta a protagonista delle vicende siciliane del tempo. I fatti sono noti e in parte ne abbiamo parlato. Qui ci interessa riassumere le linee portanti dell'articolato disegno messinese, nel cui ambito andremo a collocare gli scritti difensivi che rendono esplicite le dinamiche del rapporto 'citt - giuristi - Studium', evidenziando a un tempo tappe e altalenanti decorsi della politica spagnola nell'isola. La realizzazione dell'utopico progetto di 'Messina capitale' - al di l dei 'martellanti' riferimenti ad antichissimi (quanto falsi) privilegi di Appio Claudio, dell'imperatore Arcadio o di re Ruggero, cui si faceva risalire l'imperitura concessione alla citt dell'appellativo di caput Siciliae o caput Regni - presupponeva innanzitutto, di fronte alle ripetute insidie del potere centrale, la costante affermazione delle prerogative istituzionali ed economiche su cui si fondava l'autonomia cittadina. Si apriva pertanto su questo fronte un primo focolaio di scontri - quelli pi duri e pagati a pi caro prezzo - tra le lites messinesi e quei vicer intenzionati ad eludere o violare i pi recenti e 'veri' privilegi acquistati, con molti scudi e scarsi risultati, dalla citt. Sforzo vigoroso di una classe dirigente spregiudicata, che non esitava ad impoverire sensibilmente il patrimonio cittadino 39, da cui inoltre attingeva 'generosamente' per finanziare feste e realizzazioni urbanistiche capaci di propagandare sontuose opulenze di una citt che, dietro la facciata, soffriva condizioni di crisi ricadenti sulla maggioranza dei suoi abitanti (...ma anche questi elementi erano aspetti dell'ardita progettualit politico-ideologica peloritana)40. Il successo dell'iniziativa senatoria esigeva, in subordine, un'efficace difesa e un vigile controllo da esercitare nei confronti di quanti - gruppi familiari del costretto e distretto, autorit ecclesiastiche o citt concorrenti fossero di ostacolo alla preminenza messinese. In questa direzione, la 'battaglia' municipalistica doveva

essere sostenuta contemporaneamente su due fronti: contro quelle forze che operavano all'interno del territorio urbano e suburbano dell'universitas, esprimendo pericolose spinte centrifughe, e, all'esterno, contro Palermo, cui Messina contendeva il titolo di caput regni41. Lotta plateale, quest'ultima, dai toni violenti, a volte grossolani, che impegner in appassionate difese apologetiche anche lettori dell'Ateneo come il teologo Scipione Errico, il filosofo Placido Reina o i giuristi Alberto Piccolo e Giovan Battista Romano Colonna. Sugli altri fronti si combatter, invece, con le armi meno appariscenti, ma non meno affilate, del diritto. E in questo ambito si segnalano gli scritti di prestigiosi doctores legentes, come Giacomo Gallo, Ottavio Glorizio, Mario Giurba, o di altri giuristi comunque legati all'Universit, come Giovan Battista Castelli o Francesco Antonio Costa, incaricati di predisporre, insieme ad altri esponenti del ceto forense peloritano, l'apparato difensivo contro i diversi nemici. A questi giuristi - "le punte della compagine messinese", dir Lipari 42 - venivano innanzitutto affidate le sorti delle delicate controversie tra Messina e l'amministrazione viceregia, che possono grosso modo ricondursi a due nuclei di questioni relative l'uno alle competenze dello strategoto, l'altro alla gabella sulla seta imposta dal vicer duca d'Osuna in aperta violazione dei privilegi d'esenzione vantati dalla citt e pienamente riconfermati "in vim contractus" nel 1591.

5. Sull'"officio di stradic" aveva gi scritto, nel 1591, l'u.i.d. Vincenzo Ferrarotto (1559-1608), uno dei pi accesi e devoti 'portavoce' del progetto istituzionale messinese, che in un volumetto destinato per un verso ad esaltare la figura dello strategoto - secondo solo al vicer nel governo della citt - e ad affermare l'ampiezza della sua giurisdizione, estesa a quasi tutta la Sicilia orientale, di fatto 'costringeva' in una casistica ben determinata (e quindi delimitata) le sue funzioni e finiva per riconoscergli un ruolo sostanzialmente subalterno a quello del Senato 43. Solo in apparenza contraddittoria, la tesi esposta dal Ferrarotto perseguiva il duplice obiettivo di ampliare, insieme alla giurisdizione del magistrato cittadino e della sua Corte, l'egemonia messinese sul territorio, ma al contempo di definire compiti e modalit di nomina dello stesso cos da ridurre al minimo i rischi di una sua incompatibilit con le politiche cittadine 44. Nei primi decenni del Seicento - periodo di crescente conflittualit tra giurati e amministrazione viceregia (anche per la sistematica inosservanza di alcuni tra gli obblighi assunti nel 1591, ad esempio in ordine alla residenza del vicer) - l'lite peloritana mirava ad una pi ferrea precisazione del ruolo politico-militare dello strategoto (a un tempo ufficiale municipale e capitano d'armi) 45 e ad una ridefinizione dei suoi rapporti con la Corte stratigoziale e il Senato. La scelta del magistrato - "elemento di controllo e di raccordo fra istituzioni centrali e cittadine"46, ma anche 'cartina di tornasole' dei rapporti centro-periferia - e le procedure per la sua nomina diventavano cos argomento centrale e sempre pi spinoso sino a degenerare, dopo la morte del marchese di Montemayor (strategoto particolarmente attivo nella difesa dei privilegi messinesi), in duro scontro di fronte alle pretese del vicer Villena di ricoprire ad interim quella carica e poi del cardinale Doria, presidente del regno, di procedere direttamente alla nomina, sempre come interino, del marchese di Sortino47. La difesa delle tesi senatorie, che ribadivano l'esclusivo potere del sovrano all'elezione dell'ufficiale e rivendicavano ai giudici della Corte stratigoziale il potere di rivestire ad interim quella carica nei periodi di vacanza o di assenza dall'ufficio, era affidata in primo luogo 48 al giureconsulto napoletano Giacomo Gallo (1544-1618), la cui vicenda per certi esemplare nell'illustrare le 'proficue' relazioni tra dirigenza cittadina e giuristi.

I giurati messinesi avevano avuto modo di apprezzarlo quale difensore della citt nella controversia contro Catania relativa all'istituzione dell'Ateneo 49. L'esito positivo conseguito dal Gallo nella soluzione di quella lite gli avrebbe meritato, tra gli altri riconoscimenti, l'assegnazione - riservata ai lettori exteri, in base agli Statuti del 159750 - della condupta della prima cattedra di diritto civile ("con uno stipendio di ben 460 onze annue" 51) nell'appena attivato Studium Generale. Poco ci pervenuto dell'attivit scientifico-accademica svolta dal Gallo a Messina, tra il 1597 e il 1602, nulla di edito 52, mentre documenta l'intensa attivit professionale da lui esercitata anche negli anni messinesi una raccolta postuma dei suoi Consilia, tra cui ne risalta uno dato Pro Inclyta, atque Nobilissima Civitate Messanensi proprio su quell'argomento divenuto cos centrale per la salvaguardia dell'autonomia cittadina. Il Senato lo aveva infatti incaricato di redigere un parere incentrato sul problema "An stantibus amplissimis privilegijs concessis a Regibus Civitati Messanensi creatio Stratigoti eiusdem Urbis spectet tantum ad Regem, et non ad Proregem"53, e il Gallo, in perfetta sintonia con le aspirazioni della committenza cittadina, concludeva che lo strategoto non poteva essere eletto da altri se non "a Serenissimo Rege"54. Altri consilia, destinati a porre e a dibattere la stessa questione, venivano richiesti anche a due quotati giureconsulti attivi in citt, entrambi legati - in tempi diversi - alla facolt giuridica messinese: il calabrese Ottavio Glorizio (1536-1623), nominato sin dalla riapertura dello Studium lettore dei 'sacri canoni' e, fra il 1601 e il 1623, docente anche di diritto feudale, e il pi illustre tra i giuristi messinesi, Mario Giurba (1648), "iuris feudorum in patrio Gymnasio interpres primarius" negli anni 1626-1648. 'Mobilitati' in difesa della citt, sia il Glorizio55 che il Giurba56, senza discostarsi dalla linea difensiva condotta dal Gallo, esponevano in modo articolato le posizioni 'di parte' messinese 57. Il Glorizio insisteva nel sottolineare come dovesse essere uno dei tre giudici della Corte stratigoziale ad assumere, "deficiente Straticoto vel ob accessum ad visita districtus, vel ob lapsum temporis, vel pro quacumque alia causa defecerit"58, le sue funzioni quale luogotenente, e sullo stesso punto Mario Giurba aggiungeva che "immo ipso etiam biennio durante, si quando Strategus Urbe excederet provinciam suam, seu districtum peregraturus, ijdem Curiae Straticotialis Iudices Messanae et in constrictu ac districtu, ius dicunt"59. Il Giurba sarebbe tornato sui temi legati alla figura dello strategoto e in altri consilia, a prescindere dalla specifica questione dell'elezione, avrebbe approfondito argomenti di sicuro interesse come quello della giurisdizione dell'ufficiale regio in tempo di guerra e della facolt del vicer di "Straticoti iurisdictionem, ad certam urbis partem moderare"60. Quegli scritti, uniti alle doti della diplomazia messinese - capace di sfruttare a Madrid i contrasti tra opposti schieramenti, inserendosi nel "serrato gioco dei partiti di corte" 61 per ottenere i necessari 'appoggi'62 - e alla 'prodigalit' di una citt sempre pronta ad attingere al proprio erario (vessando chi da queste 'operazioni' avrebbe tratto i minori vantaggi), sembrava avessero raggiunto l'esito sperato63. Ma nel 1624 l'elezione a strategoto di Messina di Pedro de Lazan y Zica - da sempre ostile verso la citt sollevava nuove ragioni di scontro con il vicer. Anche in quell'occasione il Senato attivava la procedura del 'controprivilegio', impugnando davanti alla Corte stratigoziale la nomina del Lazan e denunciandolo come 'exoso, ostile et inimico' della citt. Veniva chiesto allora al collegio dei lettori della facolt di diritto di articolare la motivazione giuridica a sostegno dell'invalidit di quella elezione, e ancora una volta, su incarico dell'u.i.d. Leonardo Fleres, assessore del Senato oltrech lettore di Istituzioni, era Mario Giurba ad assumere, insieme a Carlo Napoli, la difesa delle posizioni dell'universitas civium, esponendosi personalmente e prendendo "parte attiva e diretta" alla espulsione dello strategoto, disposta con sentenza

del 26 aprile 1624 (una partecipazione per la quale, probabilmente, avrebbe subto le 'ritorsioni' del governo spagnolo64). La scelta dei giurati messinesi - in una logica di breve periodo - si era, comunque, rivelata di nuovo vincente, cos come produttivo continuava a risultare l''investimento' politico-culturale di uno Studium governato e finanziato dalla citt per la citt, di un sempre pi stretto legame tra un patriziato urbano impegnato a sostenere gli studi giuridici e un ceto forense che assicurava adeguata difesa a quelle che venivano presentate come le ragioni della citt, ma che rispondevano soltanto al tornaconto della sua classe dirigente, arroccata intorno ad un progetto di massima concentrazione politica, isterilito da una gestione economica orientata sempre di pi verso la miope e particolaristica difesa di interessi di tipo parassitario 65.

6. Quell'alleanza si era attivata, e con maggior vigore, di fronte agli attacchi scagliati nel 1612 contro le immunit fiscali di Messina da parte del vicer Pedro Girn, duca d'Osuna, che aveva assoggettato la 'citt franca' alla gabella di un tar e 5 grani sopra ogni libbra di seta, violando platealmente gli accordi del 1591 e andando a colpire quel monopolio sull'esportazione della seta che costituiva una delle voci pi importanti dell'economia cittadina, peraltro vitale - come sottolineano Dollo e Novarese66 - per il funzionamento dello Studium che, proprio dai proventi del dazio "di grani venticinque per ogni libbra di seta" esigibile dalla citt su tutta la produzione serica esportata dal suo porto, traeva la maggior fonte di finanziamento. Il rituale era noto e prevedibile: Messina reagiva facendo ricorso alla dichiarazione di 'controprivilegio', ma l'arresto di alcuni esponenti del ceto senatorio acuiva la durezza dello scontro 67, richiedendo uno sforzo difensivo possente e articolato su pi livelli, politico-diplomatico e giudiziale. In prima linea, a difendere le 'libert economiche' messinesi troviamo ancora una volta Ottavio Glorizio, ambasciatore cittadino presso la corte madrilena e patrocinatore della citt davanti al Supremo Consiglio d'Italia. Nel lungo Pro immunitate urbis Messanae in iure responsum68, scritto nel 1613 e suddiviso in tre parti, il canonista muoveva dalla decisa e motivata asserzione dell'autenticit degli antichi privilegi, cimentandosi - osserva Romano - in "un'operazione alquanto ardita ma non inusuale", che mirava ad accentuare l'autorit, e quindi le garanzie di difesa, delle immunit cittadine facendo risalire la loro legittimazione al diritto comune romano-canonico69. Altrettanto consuete, e al pari destinate a dare sostegno e autorevolezza alle proprie argomentazioni, erano le numerosissime citazioni dei "Doctores", da Baldo degli Ubaldi a Paolo di Castro, da Bartolo di Sassoferrato al Socini, dall'Alciato al Menochio. Notiamo, in particolare, l'ampio risalto dato dal Glorizio all'opinione espressa da Giovanni Bolognetto, "primarius iuris civilis interpres in Messanensi Universitate" il quale "pro Messanensi immunitate in alia facta consuluit"70. Tra i defensores civitatis che intervenivano su questo scottante problema, troviamo anche Giovan Battista Castelli (1573-1646), allievo del Gallo e del Glorizio, lettore tra il 1611 e il 1615 di imperiales institutiones nello Studio messinese, pi volte componente della Corte stratigoziale, nonch giudice del Concistoro e della Regia Gran Corte. Anch'egli, definito "'prodotto' tipico dell'Universit voluta dalle lites cittadine"71, scriveva un lungo Respoonsum [sic] ... pro nobili urbe Messanae contra Regium Fiscum super impositione vectigalis extractionis serici ex eius portu ... per ... Ossunae ducem, pubblicato a Messina nel 1612. Nei tre puncta in cui sviluppava la sua allegatio, pure il Castelli andava alla ricerca del fondamento di legittimit delle immunit messinesi che riteneva di poter trarre "primum ... ex dispositione iuris communis; secundo, ex forma capitulorum Regni; et tertio, ex tenore amplissimorum privilegiorum"72. Dir Caio Domenico Gallo nei suoi Annali che anche Mario Giurba "in pi luoghi delle sue opere" e Giacomo

Gallo "bench lontano da Messina" sarebbero intervenuti a sostegno delle tesi cittadine73. Di certo determinante sarebbe stato, comunque, il parere che un noto avvocato, lo spagnolo Luis de Casanate 74, dava sull'argomento, cos come utili al riguardo erano alcune argomentazioni che il nobile Francesco Antonio Costa (1571-1656), esponente di punta della dirigenza messinese, priore del collegium iuristarum, pi volte investito di prestigiose magistrature, sia cittadine che regie 75, aveva formulato nel 1607 in un parere (che si legge nel primo, e unico, volume della raccolta di suoi Consilia, pubblicata a Messina nel 1629), che pur vertendo in via principale su altro argumentum, affrontava anche il problema "An privilegia titulo oneroso concessa subsistente legitima causa Princeps possit tollere"76. Il Costa per certi versi anticipava la linea difensiva della citt, che in quella circostanza non si sarebbe limitata a ribadire l'autenticit degli antichi privilegi, a reclamare il rispetto dei nuovi, ad affermare la legittimit della dichiarazione di 'controprivilegio' e a richiedere la reductio ad pristinum delle prerogative violate. Controbattendo alle pretese avversarie - sostenute dal consultore Matute, dal reggente Giuseppe Di Napoli e dall'avvocato fiscale (nonch autorevole giurista) Pietro Corsetto77, e avanzate peraltro dallo stesso duca d'Osuna in un'intensa quanto astiosa corrispondenza con la consulta del Consiglio d'Italia - che arrivavano a contestare gli accordi del 1591 invocandone la 'legittima' revoca da parte del sovrano, il Costa sollevava "una questione di pi ampia portata - osserva Benigno - sostenendo l'assimilabilit delle transazioni con la corona a contratti", sottoposti, pertanto, alla disciplina di diritto privato 78. Il richiamo alla dottrina di Baldo suffragava la tesi che le immunit concesse "ex causa meritorum" non potevano essere revocate n "per ingratitudinem", n "per supervenientiam filiorum". E gli antichi "Privilegia immunitatum Messanae - si diceva - non sunt gratiosa, sed obtinent vim contractus, uti ex causa meritorum concessa"79. Ma c' di pi: se, in generale, era da rigettare l'ipotesi che un principe potesse mancare ai propri impegni revocando "privilegia propter merita concessa", perch comunque anche questi erano da intendersi 'onerosi', era fuor di ogni dubbio una revoca di quegli accordi, 'palesemente' a titolo oneroso, stipulati nel 1591 in quanto "Privilegium dicitur onerosum ubiquid loco pretij intervenit", affermava il Casanate, riecheggiato dal Glorizio che concordemente ribadiva "Concessio facta, pretio mediante, transit in contractum onerosum quando illud aequipollet reiconcessae"80. In conclusione, il prezzo pagato in cambio dei privilegi mutava la natura giuridica di quell'atto: non privilegium, bens contractus, perch "Privilegium in contractum irrevocabile transit pretio interveniente"81. E l'irrevocabilit era efficace non solo nei confronti della parte contraente, ma anche dei suoi aventi causa, sicch l'immunit concessa "in vim contractus non potest a Principe successore revocari"82. Il conflitto col vicer d'Osuna, cos come era stato affrontato su due diversi livelli difensivi, veniva allo stesso modo risolto: sul piano giudiziario, le argomentazioni giuridiche sopra esposte risultavano convincenti e la controversia dinanzi al Supremo Consiglio d'Italia si concludeva con il riconoscimento delle ragioni messinesi, la scarcerazione dei giurati e dei giudici cittadini e la sospensione della contestata gabella. Sul piano politico-diplomatico, la citt - sostenuta in quella circostanza sia dallo strategoto Mendoza che, a corte, dal potente gruppo ostile al vicer d'Osuna - dopo la pronuncia favorevole del Consiglio d'Italia, perveniva ad un nuovo 'oneroso' accordo con la Corona, che nel 1616, previa accettazione di un donativo di 150.000 scudi, confermava tutti i privilegi di Messina e aboliva la gabella sulla seta, accordando al contempo altre prerogative, alcune delle quali a ulteriore salvaguardia della difesa dei privilegi cittadini, mediante una serie di norme sulla procedura di 'controprivilegio' e a tutela dei giudici, giurati e avvocati che vi avessero partecipato83. La sostituzione del duca d'Osuna con Francisco de Lemos sanciva infine la vittoria messinese, completa ma non definitiva. Altre volte, infatti, il problema dell'estensione alla citt di dazi e gabelle si sarebbe riproposto -

nel 1637, e ancora nel 1661 - e la citt entrambe le volte si sarebbe avvalsa della difesa predisposta dal collegio dei dottori giuristi, tra i quali facevano spicco i nomi di Giovan Leonardo Amarelli (1590-1667), di Rossano, legato per oltre quarant'anni allo Studium mamertino dove era stato titolare della seconda e poi della prima cattedra di diritto civile 84, del perugino Carbonchio de' Carbonchi, che tra il 1634 e il 1638 ricopriva la cattedra di ius civile de sero, e in seguito di Lorenzo Lucchesi, avvocato della citt e pi volte giudice stratigoziale, che nel biennio 1666-1668 avrebbe occupato la seconda cattedra di ius civile, e del citato Leonardo Fleres, lettore di istituzioni dal 1669 sino ai giorni della rivolta antispagnola, quando, acceso 'malvizzo', era costretto ad abbandonare Messina 85.

7. Si detto che un altro indispensabile presupposto per affermare gli indirizzi politici peloritani e il disegno di 'Messina caput Regni' era costituito da un 'controllo sul territorio' capace di contenere le spinte centrifughe tendenti a contraddire o a contrapporsi a quel progetto. Per quanto, infatti, la classe dirigente cittadina facesse di tutto per offrire una rappresentazione di solida compattezza, oltrech di opulenza, del tessuto sociale messinese, intra ed extra moenia, dietro l'apparente concordia civium si nascondevano tensioni e contrasti profondi, che avrebbero visto la citt vivere uno stato di permanente conflittualit sia con la feudalit laica del distretto che con le autorit ecclesiastiche. Comprimere le spinte centrifughe significava, in fin dei conti, estendere la giurisdizione dello strategoto e della sua Corte, ribadendo il principio in base al quale su qualunque terra del distretto - fossero "casalia, oppida et alia loca, tam demanialia quam baronalia" - "exercetur iurisdictio cum mero et mixto imperio per regium straticotum Messanae"86. Le controversie, pertanto, finivano per vertere sulla giurisdizione della Corte stratigoziale, che agli inizi del Seicento era esercitata in un territorio esteso dalla valle di Milazzo alla valle dell'Alcantara; un distretto ridotto - lamentavano i messinesi - rispetto agli originari confini di Lentini e Patti, che il gruppo dirigente cittadino intendeva ripristinare, 'riacquisendo' al demanio regio le terre usurpate dalla prepotenza dei baroni feudali 87. Se obiettivo di Messina era quello di recuperare l'integrit del suo territorio e riaffermarvi la giurisdizione della curia cittadina, i baroni del distretto e le autorit ecclesiastiche (cui erano sottoposti numerosi casali) tentavano per loro conto un'operazione eguale e contraria, una vera e propria offensiva per incrementare i confini spaziali e i poteri della propria iurisdictio, che in base ai privilegi messinesi avrebbe dovuto limitarsi alla 'bassa giurisdizione'. Le ragioni di conflitto aumentavano in seguito ai provvedimenti di Filippo III orientati a favorire la trasformazione di terre demaniali in feudali, e in particolare dopo il regio rescritto del 13 settembre 1610 che riconosceva a tutta la feudalit siciliana la possibilit di acquistare il mero e misto impero. Un fenomeno - nel suo insieme definito di 'rifeudalizzazione' - che bloccher nell'Italia meridionale il processo di costruzione dello Stato moderno88 e stimoler la crescit di un contenzioso (peraltro gi instaurato) di sempre pi ampie dimensioni. Uno tra i primi conflitti di giurisdizione per l'esercizio del mero e misto impero risale al 1603 e vede la citt scontrarsi con il potente principe di Venetico, Federico Spatafora, che rivendicava il diritto di esercitare nei territori di Venetico, S. Martino e Prasinaci la piena giurisdizione civile e penale da lui acquistata 'contrattualmente'89. Investito della difesa cittadina era il Costa, che nel 1608 dava alle stampe le sue Allegationes pro Senatu messanensi contra don Federicum Spatafora 90, nelle quali, a sostegno dell'eccezione di 'controprivilegio' sollevata dalla Corte stratigoziale, ribadiva come su quelle terre, ricadenti

nel distretto di Messina e pertanto sottoposte all'esclusiva giurisdizione della Curia cittadina, il sovrano non potesse concedere ad altri il "merum et mixtum Imperium" se non "in praeiudicium Messanae" e pertanto "contra privilegia"91. Anche il Glorizio interveniva nel giudizio in questione e difendeva, in un consilium scritto nel 1609, le prerogative giurisdizionali vantate su quel casale dalla citt, sostenendo il principio in base al quale l'esercizio del mero e misto impero spettava allo strategoto e alla sua Corte e si estendeva, senza eccezioni o distinzioni, su qualunque terra del distretto 92. Le occasioni di scontro con la feudalit del distretto si sarebbero moltiplicate, alimentando altrettanti contenziosi per stabilire, ad esempio, la giurisdizione sui casali di Monforte, Giampilieri, Castanea o Savoca oppure, in conflitto con le autorit ecclesiastiche, per accertare chi dovesse esercitare la iurisdictio nei casali di Larderia, Casalvecchio, Itala, Al. Quanto i giuristi messinesi avevano elaborato per sostenere nel territorio del distretto la iurisdictio della Corte stratigoziale nei confronti delle corti baronali e della feudalit laica trovava, infatti, piena applicazione anche nella cause di giurisdizione tra la citt e le autorit ecclesiastiche. Anzi, in quei conflitti l'impegno dottrinale per comprimere il potere ecclesiastico sembrava spingersi anche oltre. Ad esempio, il Costa nella controversia tra Messina e l'Arcivescovo sulla titolarit della iurisdictio nel casale di Larderia, tra le ragioni volte a sostenere che solo alla Corte stratigoziale spettava l'esercizio del mero e misto impero, enunciava la consuetudine 'immemorabile', arrivando a dichiarare: "consuetudo contra Canones valet"93. Ancora una volta, in definitiva, ad affermare la preminenza dell'universitas sul territorio troviamo schierati gli stessi personaggi: Glorizio, Giurba, Costa94, anche se, in senso pi ampio, giover alla difesa messinese anche la posizione espressa da una parte - minoritaria - della feudistica siciliana che, in aperto dissenso con la prospettiva dei vari Niccol Intrigliolo, Garsia Mastrillo o Ottavio Corsetto, contrastava la tesi dell''infeudabilit' dei beni demaniali che facevano parte del territorio di una citt 95. Su queste posizioni era stato il messinese Pietro De Gregorio 96 ( 1533), ma vi si attestava anche il celebre giurista catanese Mario Cutelli, il quale, con espresso riferimento alla situazione messinese e, pi in generale, al controverso rapporto "territorio-iurisdictio e feudalit-citt demaniali"97, dava prova di conoscere molto bene le opinioni dei Glorizio, Giurba e Costa, che, in linea con l''antifeudalit' della sua dottrina, sostanzialmente finiva per recepire (in opere forse non casualmente pubblicate a Messina) 98.

8. Alcune delle argomentazioni elaborate dai giuristi di parte messinese in occasione delle vicende politicogiudiziarie di cui si detto venivano 'recuperate' e utilizzate anche da quegli autori - molti dei quali non giuristi - che avrebbero animato con i loro scritti la disputa, amplificata negli accenti e nelle reciproche reazioni, che vedeva contrapposta Messina a Palermo per la rivendicazione del titolo di capitale del Regno. Con questa polemica, che per un verso esasperava e per altro verso appiattiva i reali termini e gli obiettivi del disegno di 'Messina capitale', sembra quasi che i gruppi dirigenti cittadini volessero tirare l'ultima carta di una partita 'estrema' nella quale, dietro la facciata accattivante di un municipalismo sbandierato in nome dell'intera citt, si giocavano gli antitetici interessi della "classe dirigente palermitana (egemone nella deputazione del Regno) e [di] quella messinese, a cui facevano capo concezioni diverse del ruolo dello stato, della distribuzione del prelievo, della rappresentanza politica, della sovranit" 99. La rivalit tra le due citt, agevolata dai disegni opportunistici del governo spagnolo e dai suoi 'spostamenti di

campo' a favore ora dell'una ora dell'altra 'capitale', era scatenata, all'inizio del XVII secolo, dalle dure reazioni che, in tempi diversi, le velleit di primato messinesi suscitavano a Palermo e, negli anni trenta, si cristallizzava intorno a precise proposte avanzate dai messinesi alla Corona, da quella - di recente definita "strabiliante"100 - della divisione dell'isola in due viceregni, ai successivi 'aggiustamenti' che prefiguravano un unico viceregno, ripartito in due distinte zone giuridico-amministrative, ciascuna dotata di un'autonoma cancelleria che comprendeva i grandi tribunali del Regno (Regia Gran Corte, Tribunale del Real Patrimonio e Concistorio) e che, in assenza del vicer, avrebbe avuto competenza anche negli affari di governo. Alla 'generica' candidatura a caput Regni Siciliae, che dal 1591 l'oligarchia messinese aveva rilanciato non solo in forza dei consueti richiami agli antichi privilegi ma pi vigorosamente in vim contractus, faceva seguito, infatti, un progetto pi articolato che andava oltre la semplice rivendicazione della residenza della corte viceregia e - trovando sostegno (anzi, "un ottimo viatico", si dir 101) nella separazione della provincia gesuitica di Sicilia e idoneo riscontro nei mutati assetti e nelle tensioni della corte madrilena dopo la 'caduta' del duca di Lerma, l'ascesa al trono di Filippo IV e la privanza del duca di Olivares - formulava l'ipotesi di dividere il governo dell'isola in due parti, lungo la linea di confine tracciata dal corso del fiume Salso; ciascuna di esse avrebbe avuto un proprio vicer (con corte, uffici e grandi tribunali) e una propria capitale: ovviamente, Palermo e Messina. L'indagine di Francesco Benigno sulla 'questione della capitale' affronta ed esaurisce l'argomento in tutti i suoi aspetti, e ad essa facciamo rinvio, riservandoci, piuttosto, di verificare quanta parte abbiano avuto in questa ulteriore fase del progetto politico-ideologico messinese gli intellettuali legati strutturalmente allo Studium cittadino, e in particolare i doctores di diritto. Sappiamo quanto fondamentale sia stato, a cominciare dall'ultimo decennio del Cinquecento, il ruolo ricoperto a sostegno del progetto senatorio dalla pubblicistica messinese, che predisponeva una sapiente strategia propagandistico-culturale in termini prevalentemente celebrativi o di appassionata difesa della citt, in chiave antipalermitana102. In questo ambito possono collocarsi gli scritti apologetici dell'u.i.d. messinese Alberto Piccolo ( 1632), lettore di diritto canonico nella cattedra che era stata del Glorizio, da lui ricoperta sino alla morte. Impegnato al pari del predecessore nella difesa dei privilegi cittadini, anche quale 'inviato' del Senato alla corte di Spagna103, il Piccolo dava alle stampe nel 1623 - cio l'anno successivo agli accordi con cui Filippo IV aveva confermato le "antiche grazie" e decretato il successo delle posizioni messinesi sull'elezione dello strategoto, con ci suscitando le reazioni degli ambienti ostili alla citt - due opere, "pi polemiche che scientifiche" 104, firmate con lo pseudonimo di L. Porcio Calbeto (anagramma del suo nome) e pubblicate con false note tipografiche: l'Apologetica expostulatio pro S.P.Q. Mamertino e il Philacterion105 (che infatti sarebbero state condannate e vietate dall'Inquisizione siciliana 106). La produzione del Piccolo, accomunata da un identico impianto ideologico, segnava "una svolta - osserva Lipari - nella strategia culturale dei ceti intellettuali messinesi". In particolare, con l'Apologetica expostulatio una sorta di pamphlet che riproponeva lo scambio di accuse tra Messina e Palermo, affrontando pur sempre secondo il solito clich municipalista gli abusati argomenti della disputa - il Piccolo si spingeva ad indagare l'origine e la causa profonda dello scontro, che individuava "nella costante opposizione messinese alle mire politiche del baronato siciliano", avido ed efficace nell'influenzare l'azione viceregia e i cui interessi egli riteneva sostanzialmente convergenti con quelli dei gruppi dirigenti palermitani. Una disputa, pertanto, squisitamente 'politico-economica' che vedeva Messina estranea e, quindi, in piena antitesi rispetto a questo 'blocco di potere', dove la rivalit era rivelatrice del contrapporsi tra "il polo burocratico e cerealicolo" con

sede a Palermo e quello "mercantile" guidato dai messinesi 107. L'assoluta incompatibilit degli interessi che gravitavano intorno all'una e all'altra citt e la consapevolezza di quanto fosse illusorio sperare in una supremazia messinese sull'intera isola e in una conseguente posizione subalterna dell'agguerrita Palermo inducevano il ceto dirigente messinese - oltremodo deluso dal 'recidivo' inadempimento viceregio dell'obbligo della residenza e dal sostanziale insuccesso delle politiche economiche incentrate sul monopolio dell'esportazione della seta 108 - a concepire l'idea di una divisione del territorio siciliano in due viceregni, cos da assicurare alla citt dello Stretto il rango di capitale e la piena egemonia su tutta la Sicilia orientale. La proposta, avanzata nel 1629, era sorretta dall'offerta di un donativo di ben 1.000.000 di scudi e, probabilmente, contava anche su buoni sostenitori presso la corte di Madrid, ma l'opposizione palermitana, unita a quella della Deputazione del Regno, sarebbe stata durissima e, convertitasi in una controproposta divenuta immediatamente operativa 109, avrebbe bloccato le aspirazioni messinesi assicurando la conservazione degli assetti istituzionali. Quanto "i contendenti fossero pienamente consapevoli di giocare una partita decisiva per il loro futuro e per quello dell'intera isola" possiamo verificarlo leggendo i memoriali redatti prontamente dalle due parti in causa110. Le Ragioni apologetiche presentate dal Senato messinese contro il Memoriale della Deputazione del Regno di Sicilia e della citt di Palermo intorno alla divisione di quel regno, pubblicate per la prima volta in lingua spagnola, venivano riedite a Messina in versione italiana a cura di Placido Reina, "per essere indirizzate - sottolineava il 'traduttore' - alla difesa, anzi ad una nuova dimostratione delle prerogative di questa Nobil Patria"111. Il Reina, lettore di filosofia naturale a partire dal 1641 e sino al 1671, non poteva dirsi un semplice 'traduttore' delle lucide dissertazioni sui guasti cagionati dall'accentramento politico-burocratico e delle puntuali repliche con cui il Senato messinese confutava la minuziosa elencazione di parte palermitana sugli svantaggi di ordine politico ed economico che sia Palermo che l'intero Regno avrebbero subito da un'eventuale improvvida divisione. E ne avrebbe dato prova qualche decennio dopo. Quando, infatti, sfruttando gli avvenimenti del '47-'48, i messinesi, lanciavano una nuova offensiva per garantirsi almeno la residenza alternata della corte, forti dell'appoggio del figlio naturale di Filippo IV, don Giovanni d'Austria, con il quale stipulavano un patto assistito di nuove e pi ferree condizioni (e, more solito, di un'offerta di 60.000 scudi l'anno, da pagarsi 5.000 per mese), la cui validit era condizionata al placet regio, all'immancabile opposizione di Palermo, che lamentava la lesione dei diritti acquisiti con gli accordi degli anni trenta, rispondeva Placido Reina, probabilmente su incarico del Senato, rintuzzando il Memoriale de' cento capi indirizzato al sovrano da Palermo e dalla Deputazione del Regno. Il Reina non era un giurista e l'opera viene giustamente collocata dal Lipari "nel solco tradizionale del pi acceso municipalismo"112; eppure nelle obiezioni in risposta a ciascuno dei cento capitoli del memoriale palermitano sembra cogliersi il precipitato di quel patrimonio di argomentazioni tecnico-giuridiche elaborato negli anni dalla difesa messinese e ampiamente acquisito e riproposto anche da questo 'filosofo' ricordato piuttosto che per l'insegnamento universitario di filosofia naturale - di cui nulla avrebbe scritto - per essere stato il "pi fidato interprete degli orientamenti senatorii" 113. Cos, ad esempio, la retorica della "incorrotta fedelt, e sincera divotione" di Messina al sovrano era coniugata dal Reina con la rivendicazione dell'adempimento degli obblighi assunti dalla Corona nel 1591 "in vim contractus, et ex causa onerosa"ed ereditati dall'attuale sovrano114. La 'questione della capitale', dopo il completo fallimento degli arditi progetti degli anni trenta, era tornata ad essere in gran parte la 'questione della corte' nei termini stabiliti dal 'negozio' stipulato dai giurati messinesi con Filippo II.

L'opera del Reina, suggestivamente intitolata L'Idra dicapitata, sarebbe stata pubblicata, con false note tipografiche e sotto lo pseudonimo di Idoplare Copa, nel 1662, cio nel rinnovato clima di tensioni e ostilit tra autorit senatoria e viceregia suscitato dai ripetuti attacchi del vicer Ayala contro l'autonomia e i privilegi cittadini115. Ad eccezione della parentesi del 1663, negli anni seguenti si assisteva ad un'excalation di crisi interne e di contrasti con la Corona, che, con la reggenza di Marianna d'Austria, inaugurava "una politica decisamente intransigente nei confronti della citt dello Sretto" 116. Il persistente autonomismo senatorio messinese, alla luce dei mutati indirizzi politici della corte madrilena e in epoca di sempre pi consolidati assolutismi, finiva per apparire un "controsenso"117, preludio incalzante al tragico epilogo degli anni 1674-78. Messina si avviava verso quel definitivo isolamento che ad un anonimo cronista dei giorni della rivolta (un Merlo, come tale in contrasto con la politica senatoria) avrebbe fatto dire, in apertura del suo 'giornale', che "Li molti privilegij, con i quali s' gloriata la Citt di Messina di essere arricchita, furono sempre causa che la medesima si rendesse nauseosa non solo alle altre citt del Regno di Sicilia, ma anche alli Ministri Reali del suo Re Cattolico"118. Protagonista e 'partigiano' narratore di quegli avvenimenti sarebbe stato, sul fronte opposto dei Malvizzi, il nobile iuris doctor Giovan Battista Romano Colonna, lettore ad interim di diritto feudale dal 1666 al 1668, giudice stratigoziale durante il dominio francese e 'storico ufficiale' della rivolta. A lui si deve la ricostruzione (secondo la prospettiva senatoria) Della Congiura de i ministri del Re di Spagna contro la fedelissima, ed esemplare citt di Messina119, data alle stampe nel 1676, quindi nel pieno sviluppo degli eventi, nonch un resoconto dell'abbandono francese della citt, intitolato Messina abbandonata l'anno 1678 da francesi..., che restava per manoscritto120. Opere decisamente prive di obiettivit storica, eppure di grande utilit sia quali fonti dirette della posizione senatoria e delle cause giustificatrici della rivolta 121, sia quali attestazioni "del coinvolgimento del ceto dei giuristi e dei lettori dello Studium nelle vicende dell''impossibile sogno'" 122. Senza soluzione di continuit, quel coinvolgimento finiva per qualificare ulteriormente un rapporto da sempre 'privilegiato', quello tra istituzioni municipali e giuristi legati per formazione o per attivit di insegnamento allo Studium civitatis, 'pensato' e voluto dalle lites cittadine non tanto quale "centro di raffinata elaborazione dottrinale, quanto piuttosto [quale] momento di formazione di 'intellettuali organici'" 123; un rapporto di stretta osmosi che, rinsaldandosi per tutto il Seicento, aveva segnato l'intera vicenda storica, politica e culturale della Messina barocca, costituendone un dato caratteristico, almeno fino al nefasto esito della rivolta antispagnola.

M. Antonella Cocchiara (Universit di Messina)

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