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Università “Alma Mater Studiorum” - Bologna

Master in Psicomotricità Educativa e Preventiva


Fondamenti pedagogici della psicomotricità educativa e
preventiva
Prof.ssa Paola Manuzzi

Elaborato di Piergiorgio Proietti

IL PASTORE CHE PIANTAVA QUERCE


riflessioni ispirate dal racconto di

Jean Giono

“L’uomo che piantava gli alberi”

2009-2010

1
Una quarantina circa di anni fa,1 stavo facendo una lunga camminata,2 tra cime assolutamente
sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.3
Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e
Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drome, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pianure
del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte
settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drome e una piccola enclave della
Valchiusa.
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra
i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda
selvatica.
Attraversavo la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi ritrovavo in
mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio
abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne.
Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che
dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque
o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato
erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.
Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il
vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d’una
belva molestata durante il pasto.
Dovetti riprendere la marcia.4 Cinque ore più tardi non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava
speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in
lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni
modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano
accanto a lui.
Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del
pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo, al di sopra del quale aveva
installato un rudimentale verricello.
L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in
quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una
capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse
rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo
batteva faceva sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia.
La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra
bolliva sul fuoco. Notai che l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente
cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili.
Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il
suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza.
Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui; il villaggio più vicino era a più di un
giorno e mezzo di cammino.5 E, oltretutto, conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di
quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle
cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili.
Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le
famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d’estate come
d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L’ambizione irragionevole si sviluppa senza
misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi.
Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano
sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto, per la

1
Scheda 1 – “Una quarantina circa di anni…” – pag. 7
2
Scheda 2 – “una lunga camminata…” – pag. 8
3
Scheda 3 – “in Provenza…” – pag. 10
4
Scheda 4 – “il paesaggio desertico…” – pag. 12
5
Scheda 5 – “una piccola sagoma nera, in piedi…” – pag. 13
2
vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra di loro, per i vizi che
lottano tra di loro e per il miscuglio dei vizi e delle virtù, senza posa. Per sovrappiù, il vento
altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi
sempre assassina.
Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a
esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la
pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti, vista la cura che metteva in quel
lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone
un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo eliminò
ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando
infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.6
La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera
giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla
potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di
più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio
d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate.7
Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro
e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il
pascolo delle bestie era in un avallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di
me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la
strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio. Andava a duecento
metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra.
Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco.
Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era?
Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne
curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura.8

Dopo il pranzo di mezzogiorno ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza
nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva
piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne
ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della
Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non
c’era nulla.
Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di
cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una
fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita.
Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a
vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per
mancanza d’alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a
rimediare a quello stato di cose.
Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo
toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età,
appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di
felicità. Dissi che nel giro di trent’anni quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi
rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato la vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe
piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare.
Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio
generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica,
erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità
dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo.
6
Scheda 6 – “le ghiande…” – pag. 16
7
Scheda 7 – “La società di quell’uomo dava pace…” – pag. 22
8
Scheda 8 – “Piantava querce…” – pag. 23
3
Ci separammo il giorno dopo.

L’anno seguente ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non
poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo
considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.
Finita la guerra mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di
respirare un poco d’aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di
quelle contrade deserte.
Il paese era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di
nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia m’ero rimesso a pensare a quel
pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce, mi dicevo, occupano davvero un grande spazio.
Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di
Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come
dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma,
in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in
pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra.
Aveva continuato imperturbabilmente a piantare.
Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era
impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata
a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua
lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di
quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto
efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.
Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d’occhio, ne erano
la prova. Le querce erano fitte e avevano passato l’età in cui potevano essere alla mercé dei roditori;
quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l’opera creata, avrebbe dovuto ormai
ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni
prima, cioè al 1915, l’epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni dove
sospettava, a ragione, che ci fosse umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti
e molto decise.
Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena.9 Lui non se ne curava; perseguiva
ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere
dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria
forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato
dell’acqua, in tempi molto antichi.
Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all’inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi
villaggi gallo-romani di cui restavano ancora vestigia nelle quali gli archeologi avevano scavato
trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po’
d’acqua.
Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i
giardini i fiori e una certa ragione di vivere.
Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore.
I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s’erano accorti del
rigoglio di alberelli, ma l’avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno
disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era
insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale
ostinazione nella più magnifica generosità?
A partire dal 1920 non ho mai passato più d’un anno senza andare trovare Elzéard Bouffier. Non
l’ho mai visto cedere né dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il
conto delle sue delusioni. E’ facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato
necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario

9
Scheda 9 – “Il processo aveva l’aria di funzionare…” – pag. 24
4
lottare contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti.
L’anno dopo abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce.
Per farsi un’idea più precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in
una solitudine totale; al punto che, verso la fine della vita, aveva perso del tutto l’abitudine a
parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità.
Nel 1933 ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l’ordine di
non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale.
Era la prima volta, gli spiegò quell’uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A
quell’epoca Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di
andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di
costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l’anno seguente.
Nel 1935 una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale.
C’erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa
e, fortunatamente , non si fece nulla, tranne l’unica cosa utile: mettere la foresta sotto la tutela dello
Stato e proibire che si venisse a farne carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla
bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio potere di seduzione persino sul
deputato.
Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno
della settimana seguente andammo insieme a cercare Elzéard Bouffier. Lo trovammo in pieno
lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l’ispezione.
Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare
in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e
restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio.
La costa che avevamo percorso era coperta d’alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi
ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva
d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute
quasi solenne. Era un atleta di Dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto di alberi.
Prima di partire il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze
alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. “Per la semplice ragione”, mi spiegò poi,
“che quel signore ne sa più di me”. Dopo un’ora di cammino, dopo che l’idea aveva progredito in
lui, aggiunse: “Ne sa più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!”.
E’ grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell’uomo, furono
protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che
rimasero insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli.
L’opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Perché le automobili andavano
allora col gasogeno, non c’era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910,
ma l’area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l’impresa si rivelò fallimentare dal punto
di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di
distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del ’39 come aveva
ignorato quella del ’14.

Ho visto Elzéard Bouffier per l’ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo
ripreso la strada del deserto ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese,
c’era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di
quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie
prime passeggiate. Mi parve anche che l’itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno
del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in
rovina e desolata. La corriera mi portò a Vergons.
Nel 1913 quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si
odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli
uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate.
La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione
che non dispone alla virtù.
5
Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un
tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell’acqua veniva dalla
cima delle montagne: era il vento nella foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore
dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era
abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio
di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione.
In generale Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La
speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito
cinque case. La frazione contava ormai diciotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case
nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati,
verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si
aveva voglia di abitare.
Da lì proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire
completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della
montagna, vedevo i campicelli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria
verdeggiava.
Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell’epoca perché tutta la zona risplenda di salute e
felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine sorgono ora fattorie pulite, ben intonacate, che
denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta
ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a
boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi
si sono ricostruiti a poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è
stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini
e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste
campestri.
Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti,
più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier.
Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a
far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia
ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto i costanza nella grandezza d’animo e
d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme
rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna
di Dio.
Elzéard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all’ospizio di Banon.

Jean Giono
L’uomo che piantava gli alberi

6
Scheda 1 – “Una quarantina circa di anni…”
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno I, 1-9

Il racconto si apre con questo numero di anni, non l'età del protagonista, ma il tempo
trascorso da allora. Dal momento che ho sentito di potermi affidare a questa storia per
raccontare il mio percorso verso la professione di psicomotricista, anche questi
quarant'anni hanno un senso rispetto alla mia vita. Infatti mi accingo a fare 40 anni, i
miei primi quarant'anni di vita. Ora se normalmente (ma neanche più tanto…) a 40
anni si è professionalmente consolidati, e avviati ad una più o meno luminosa carriera,
comunque già definita, io mi ritrovo a quest'età in una situazione simile al povero
Dante Alighieri, che ad un'età simile, 35 anni, si trova ad un bivio esistenziale, avendo
perso la "retta" via, e necessitando di un cambiamento di rotta per ritornare a vivere
serenamente. Ai 35 anche io ho dato un indirizzo nuovo alla mia vita, lasciando la
professione precedente per imbarcarmi in una seconda avventura universitaria per
diventare neuropsicomotricista. Poi, dopo un primo anno di ambientamento, ho capito
quali lacune mi aveva lasciato il percorso accademico, così ho deciso di fare il
presente master, per arricchire il mio profilo professionale delle competenze
relazionali, metodiche, personali, caratteristiche dello psicomotricista. Ora mi ritrovo a
40 anni giusti giusti a terminare il master, e a comprendere che le competenze
psicomotorie sono soprattutto là davanti a me, nel mio futuro, e che al master non
sono arrivato se non ad un nuovo livello del socratiano "so di non sapere", che è poi il
primo passo di ogni conoscenza reale: ho solo iniziato un percorso che non ha meta,
che non finirà mai.

"Solo la direzione è reale, la meta è sempre fittizia, anche la meta


raggiunta... anzi soprattutto questa."
Arthur Schnitzler, Il libro dei motti e delle riflessioni, 1927

"La nostra meta non è mai un luogo, ma piuttosto un nuovo modo di vedere
le cose."
Henry Miller, Big Sur e le arance di Hyeronymus Bosch, 1957

In realtà il pastore, il protagonista del racconto, può essere un obiettivo, una meta. Lo
è per il narratore, da cui è giustamente considerato come un modello di vita, ma può
esserlo anche per me: in questo lavoro rappresenta per me l'archetipo dello
psicomotricista maturo, ciò che non sono affatto. E se io fossi il narratore del racconto,
come mi pongo ad essere, incontrerei nel pastore lo psicomotricista che sarò, il mio io
futuro, almeno nello stile di comportamento, nel metodo esistenziale praticato, fittizio
come meta (è un archetipo, è sempre oltre la linea dell'orizzonte), ma reale come
direzione, per dirla al modo di Schnitzler, nella citazione di sopra riportata.
Il mio tentativo è di declinare questa, per me, splendida storia in alcuni valori, principi,
linee guida, fondamenti pedagogici appunto, utili alla mia futura professione, che sarà
di psicomotricista solo come conseguenza esteriore della pratica interiore della più
essenziale professione di 'apprendista psicomotricista'.

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Scheda 2 – “una lunga camminata…”
Il cammino è sempre stato una metafora della vita, del percorso che una persona compie
nell'esistenza. E lo è più dell'essere in viaggio a cavallo, in carrozza o, in tempi più recenti, in
automobile, nave, treno o aereo proprio perché si è soli nel cammino, non si è portati da altri,
come nella nostra vita intima il percorso è nostro e dipende solo da noi, dalle nostre capacità di
saper accogliere, ascoltare, imparare, dimenticare, ecc. ecc. ecc. ecc.

Un aspetto rilevante nel percorso dello psicomotricista è il proprio lavoro personale di


autoformazione, inteso non come accumulazione di conoscenze cognitive, quanto indagine
interiore alla ricerca del proprio modo di viversi in quanto corpo "animato" dalla propria storia
personale.

Portare un tale approccio nelle scuole … implica la attuazione di percorsi di


alfabetizzazione al sentire e al meta-sentire (ragionare sul nostro sentire) in cui l’impegno
sensoriale diventa l’indispensabile apprendistato per imparare a percepirsi e pensarsi
come corpi senzienti, attraverso pratiche di autoriflessività, “laddove una volta sollecitati
a riconoscere quanto sentiamo, non ci identifichiamo completamente con questo, ma
restiamo piuttosto sul delicato crinale della nostra ineludibile doppietà: tra l’essere corpo
vissuto da un lato e la nostra capacità di sguardo su noi stessi dall’altro”
Paola Manuzzi, Psicomotricità educativa e preventiva: linee evolutive di un concetto e di
una pratica

Come allo specchio, nel bambino che ci sta di fronte si riflettono le paure, i desideri, le
conoscenze, le insicurezze di quell’”altro” bambino che vive in noi e parla attraverso il
linguaggio della fantasia, dei sogni, dei miti, dei simboli. L’attitudine con cui punteggiamo
ogni nostro intervento educativo rivela qualcosa della cura che qui e ora riserviamo alla
nostra crescita personale; l’occasione che ci deriva dall’educare ha il sapore di un dialogo
le cui storie si dispiegano in un mondo che ha a che fare profondamente con il tempo e la
corporeità.
Ivano Gamelli, Pedagogia del corpo

Quanto deve essere lungo e lento un cammino, un percorso, perché porti davvero in noi un
cambiamento?

La nostra vita è come il cammino di un pellegrino. Una volta vidi uno splendido dipinto,
rappresentava un paesaggio di sera. Sulla destra, in lontananza, una fila di colline che
sembravano blu nelle brume della sera. Al di sopra di quelle colline, lo splendore del
tramonto, le nuvole grigie striate d'argento, d'oro e di porpora. Il paesaggio è una pianura
coperta d'erba e d'erica, qua e là le cortecce bianche delle betulle con le foglie gialle
perché è autunno. Attraverso il paesaggio scorre una strada che porta a un'alta
montagna, molto, molto lontana e, sulla cima della montagna, una città su cui il sole al
tramonto getta una luce di gloria. Sulla strada cammina un pellegrino, ha un bastone in
mano. Egli sta camminando già da molto tempo ed è stanco. Incontra una donna, una
figura in nero che fa pensare alle parole di San Paolo: "Anche se triste, tuttavia sempre
lieta. Quest'angelo di Dio è stato messo lì per incoraggiare il pellegrino e per rispondere
alle sue domande; e il pellegrino chiede: 'Questa strada è sempre in salita?'. E la risposta
è : 'Sì, fino alla fine'. Il pellegrino chiede ancora: 'Il viaggio durerà tutto il giorno?'. E la
risposta è: 'Da mattina fino a sera, amico mio'. E il pellegrino continua la sua strada, triste
eppur sempre lieto.
Vincent Van Gogh

L'aspetto della gradualità e della lentezza del percorso formativo personale, causa anche della
sua lunghezza, non è trascurabile. Tutto ciò che in formazione personale è appreso, e di
conseguenza disponibile per l'utilizzo nella relazione educativa, è frutto di apprendimenti in-
corporati e in-animati legati prevalentemente alla presa di coscienza del proprio mondo
interiore.

Il sapere tecnico passa attraverso il filtro delle proprie risorse soggettive, da cui
scaturisce l’esigenza di una importante componente personale nella formazione, con una

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particolare attenzione al corpo, ai canali percettivi, e alla dimensione non verbale della
relazione.
Ferruccio Cartacci, citato in Andrea Bonifacio, Azione, rispecchiamento, pensiero

Questi apprendimenti presentano processi di acquisizione non lineari per i quali si può
certamente affermare che "le vie della conoscenza sono emozionali, dunque soggettive,
opache e provvisorie" (Paola Manuzzi, Postfazione a "Psicomotricità educativa e preventiva" a
cura di Luisa Formenti). E i tempi risultano molto diversi da quelli dipendenti dalla velocità
neuronale con cui la memoria cognitiva immagazzina nozioni ed esperienze. Il nostro mondo
interiore si struttura, e perciò assume una certa rigidità, attraverso le esperienze di vita,
soprattutto legate all’infanzia, in particolare grazie alla memoria cosiddetta “implicita”.

La memoria implicita (emozionale, comportamentale, percettiva e somatica) è presente


fin dalla nascita, o probabilmente anche prima, in quanto i circuiti neurali che utilizza
sono in via di maturazione ma già funzionanti. La memoria implicita include anche i
processi con cui il cervello crea generalizzazioni di esperienze ripetute nella forma di
modelli mentali.
Daniel J. Siegel e Mary Hartzell, Errori da non ripetere

A tale struttura intima, indispensabile alla nostra sopravvivenza psichica, ci appoggiamo per
stare al mondo, per preservarci dal pericolo di perdere la nostra identità. Si giustificano così le
resistenze che si incontrano nella formazione personale di fronte al cambiamento e
all'esposizione a destabilizzanti processi di consapevolezza. Questa pagina di Lapierre, sulla
sua esperienza in proposito, lo spiega in modo perfetto:

"Formazione personale". Che cosa intendiamo con questa definizione? Non era questione
di insegnare tecniche e progressioni di esercizi. Se questa formazione era definita
"personale", era perché metteva in discussione la persona in quanto essere della
relazione. Nella sua attività professionale, l'operatore in psicomotricità non ha un ruolo di
insegnante, deve stabilire con il bambino una relazione differente: accompagnarlo
nell'immaginario attraverso il gioco simbolico, favorire l'espressione dei suoi fantasmi e
dei sentimenti che essi risvegliano, accettare di restarne coinvolto come partner.
Questo tipo di relazioni si carica rapidamente di contenuti affettivi ed emozionali, non
soltanto per il bambino ma anche per l'adulto. Quest'ultimo rischia di proiettarvi i suoi
propri desideri e i suoi propri fantasmi. Per evitare questo scoglio, l'operatore in
psicomotricità deve dunque essere prima posto di fronte a situazioni analoghe che lo
mettano in discussione nel suo vissuto psichico e gli permettano di prenderne coscienza e
di controllarlo. Di qui, la necessità di stage pratici, tra adulti, che funzionino sulla stessa
modalità di gioco spontaneo e senza giudizio.
In tali condizioni, questi adulti colti, intelligenti, razionali, apparentemente "normali",
avevano esattamente gli stessi comportamenti dei bambini. Esprimevano gli stessi
sentimenti: aggressività, richiesta affettiva, regressione, seduzione, gelosia, onnipotenza,
sensualità, sessualità. …
Liberati dalle costrizioni della realtà, immersi nell'immaginario e nel non-verbale,
ritrovavano il bambino che era in loro. Cominciavano a parlare di mamma e papà. Era
evidente che queste attività ludiche mettevano in gioco gli elementi più profondi della
loro personalità, che c'era, in questa liberazione dell'immaginario, una espressione
dell'inconscio. La profondità, l'intensità e talvolta la violenza di questi vissuti emozionali ci
hanno sorpreso, tanto più che non avevamo fatto nulla per provocarli. Implicavano i
partecipanti ben oltre gli aspetti professionali.
André Lapierre, Dalla psicomotricità relazionale all'analisi corporea della relazione

9
Scheda 3 – “in Provenza…”

Curiosamente la scelta di questo racconto inizialmente non considerava la presenza di


molteplici sfumature che lo rendono una immagine per me molto evocativa del lavoro
psicomotorio. L'ambientazione in Provenza della storia è uno dei particolari che
assume un carattere importante nel suo essere metafora del mio lavoro.
Si diceva in precedenza come il narratore del racconto possa essere individuato come
il me presente, mentre il pastore Elzéard possa rappresentare una sorta di me futuro,
un archetipo dello psicomotricista realizzzato. Ebbene questo incontro avviene in
Provenza, cioè in Francia, e non poteva essere altrimenti.
Mi ha molto colpito in questi mesi la ricchezza dei contributi che la Francia ha dato allo
sviluppo della teoria psicomotoria e delle sue applicazioni pratiche.
André Lapierre, nel suo testo "Dalla psicomotricità relazionale all'analisi corporea della
relazione", nel capitolo relativo al suo percorso professionale, ad un certo punto
inserisce un paragrafo intitolato "Perché non in Francia?", nel quale motiva la scelta e
l'opportunità della diffusione all'estero del lavoro di tutti i grandi psicomotricisti della
sua epoca, tutti francesi. Allora in modo opposto io mi chiederei perché proprio in
Francia si è realizzato questo addensamento di talenti psicomotori a cavallo
tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70? Quali cause ambientali,
contestuali giustificano tale fenomeno? È lo stesso Lapierre, in quel suo excursus
biografico, prima di raccontare l'opzione per l'estero che forse da' delle risposte.
Innanzitutto c'è un fattore di tradizione culturale francese. Si può affermare che la
Francia è stata la culla delle teorie psicomotorie, dando un contributo decisivo alla
nascita della disciplina:
• il termine stesso "psicomotricità" è stato creato dal neurologo Jean Dupré
(inizi del XX secolo), sottolineando il parallelismo tra sviluppo motorio ed
intellettuale;
• a partire dagli anni '20 lo psicologo e pedagogista svizzero, di lingua
francese, Jean Piaget, fondatore dell'epistemologia genetica, considera il
corpo, l'esplorazione senso-motoria a fondamento dello sviluppo
dell'intelligenza;
• nel 1942 lo psicologo e pedagogista Henri Wallon con il lavoro "Dall'atto
al pensiero" colloca l'attività motoria come base dello sviluppo psicologico e
cognitivo;
• negli anni '60 Jean Le Boulch, altro professore di educazione fisica,
medico e psicologo, elabora il metodo psicocinetico, un approccio
psicopedagogico all'educazione corporea, che intende superare il dualismo
corpo-mente;
• attorno agli anni '70 il neuropsichiatra e psicanalista francese di origine
spagnola Julian De Ajuriaguerra approfondirà le relazioni tra tono ed
affettività.
In questo contesto molto vivace, racconta Lapierre, si inserisce l'istituzione, dopo la II
guerra mondiale e l'occupazione, di Centri di Rieducazione statali, gestiti dal Ministero
della Gioventù e degli Sport "per praticare una ginnastica chiamata 'correttiva' a
beneficio dei ragazzi che presentavano deficienze morfologiche e posturali" (André
Lapierre, Dalla psicomotricità relazionale all'analisi corporea della relazione). Per
dirigere questi centri vengono reclutati professori di educazione fisica, e nel corso
degli anni lo scenario presenta nuovi spunti e nuove opportunità. È ancora Lapierre a
raccontare quella magica confluenza di fattori favorevoli:

Incontro in occasione dei congressi, Boris Dolto, che è direttore di una scuola di
kinesiterapia ma anche il marito di Francoise Dolto, la nota psicanalista. (ndr: ha
studiato, sotto l'influenza di Schilder e di Lacan, l'immagine corporea, il corpo
proprio, nei bambini e creato centri per l'approfondimento relazionale tra genitori
e bambini, chiamate 'maison verte') … Incontro anche, nell'ambito
dell'Associazione dei Direttori dei Centri di Rieducazione, alcuni colleghi che
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cominciano a mettere in discussione l'orientamento degli stessi centri. Creati
all'indomani della guerra e dell'occupazione rispondevano a una richiesta della
società, preoccupata dalle carenze alimentari di cui avevano sofferto i bambini.
Venti anni dopo, la richiesta sociale si è evoluta. Ciò che preoccupa i genitori non
è più tanto la salute fisica ma la "salute psichica" dei loro ragazzi, la molteplicità
degli insuccessi scolastici la cui causa è attribuita, a torto o a ragione, a
disfunzioni percettivo-psicologiche: dislessia, disortografia, disgrafia, acalcolia,
ecc.
In Francia e in Europa è la grande epoca piagetiana. Negli ambienti psico-
educativi, non si parla d'altro che di epistemologia genetica, di sensorio-motorio,
di percettivo-motorio e di ipotetico-deduttivo. Ecco che l'attività motoria, uscita
dall'ambito dell'educazione psichica tradizionale, viene catapultata al primo posto
tra le preoccupazioni pedagogiche! Si scoprono anche i lavori di Schilder sui
concetti di corpo proprio e di schema corporeo. C'è tutto un insieme di
conoscenze teoriche che collocano il corpo e l'attività motoria come base
primaria e fondamentale dello sviluppo dell'intelligenza concettuale.
Sotto l'influenza di questa corrente di pensiero, un certo numero di direttori di
centri di rieducazione rimette in discussione la definizione e gli obiettivi dei nostri
istituti. Tra questi, Pick, Vayer, Aucouturier e io stesso per citare solo i più
conosciuti. Il Ministero della Gioventù e degli Sport, dal quale dipendiamo, si
lascia convincere e accetta di modificare le denominazione dei nostri centri che si
chiameranno, da quel momento in poi, Centri di Educazione Psichica
Specializzata. Specializzata in cosa? La storia non lo dice, ma questo titolo, per la
sua stessa imprecisione, ci lascia tutto lo spazio per fare quello che vogliamo,
quello in cui crediamo. Faremo dunque psicomotricità.

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Scheda 4 – “il paesaggio desertico…”

È interessante la descrizione del paesaggio in cui il narratore si trova a muoversi:

• Lande nude e monotone


• In altitudine
• Dove il vento soffia con una brutalità insopportabile

Per di più il narratore stesso ammette di trovarsi senza acqua.


Tutto questo scenario rimanda al mondo interiore del giovane psicomotricista
inesperto. Inizialmente si porta, spinto da una sua ispirazione, in zone non
comunemente battute, a cercare fonti di conoscenza in altura, laddove bisogna salire,
faticare un po' per trovare di nuovo l'agevole pianura, un passo nuovo, più agile. Ma il
percorso dell'apprendista psicomotricista, come già accennato nella scheda della
lunga camminata, è un percorso che parte dal proprio mondo interiore, un mondo
all'inizio nuovo, in cui l'essere umano cerca sé stesso a tentoni, senza l'abitudine a
farlo, come in un apparente deserto, dove tutto è uguale, spoglio, apparentemente
poco significativo. E dove soffia un fortissimo vento, quello della propria emotività.
La formazione personale, in questo anno di master, mi ha portato in questo deserto,
ed ho sperimentato la violenza dell'emotività, quando essa non trova strumenti per
essere convogliata, gestita, compresa, accettata. La ribellione ad essa, in particolare i
meccanismi di difesa, danno il loro grande contributo nell'alimentare simile violenza,
che vive proprio nel tentativo di controllare, comprimere l'energia emotiva,
raggiungendo il solo risultato di aumentarne la pressione e l'energia. In mancanza di
strumenti, di esperienza, il paesaggio interiore è monotono, ed in esso lo
psicomotricista, di fronte al bambino, non può trovare fonti d'ispirazione (d'acqua…),
idee colorate, panorami sorprendenti, a causa di due principali fattori: il primo è la
reale povertà del suo panorama cognitivo interiore, ancora non popolato di
esperienze, conoscenze, teorie, metodi, attraverso i quali muoversi per trovare
soluzioni; il secondo fattore fondamentale nella gestione della relazione è la capacità
di essere nella relazione senza che il vento dell'emotività interiore spazzi via ogni
possibilità di interazione consapevole.

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Scheda 5 – “una piccola sagoma nera, in piedi…”

Eccoci arrivati alla descrizione del pastore, di Elzéard, lo psicomotricista che diverrò,
se Dio vuole, e della sua casa. È una descrizione in cui sono rappresentate alcune
fondamentali qualità pedagogiche, indispensabili al buon psicomotricista.

"Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il
tronco d’un albero solitario"
Innanzitutto è in piedi. In piedi si è svegli, consapevoli, attivi, pronti. Ed è uno stare in
piedi, quello del pastore, non fluttuante, incerto, ma solido, tanto che da' al giovane
l'idea di un tronco d'albero. Provo a pensare ad un maestro, ad uno psicomotricista
come ad un tronco. Ad un tronco non lo sposti, è un limite insuperabile per l'energia a
disposizione di un bambino, ma può essere, in virtù della sua solidità, anche un
sostegno, un punto di appoggio per salire più su, dove poter osservare da nuovi punti
di vista, dove costruire una casa segreta che nessuno conosce. Limite e risorsa.

"Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo"


Laddove il giovane apprendista non ha più acqua, disperso nel suo paesaggio
desertico, lo psicomotricista maturo ha saputo organizzarsi, e cercare più in profondità
in sé stesso, superando i suoi limiti apparenti, trovando l'acqua, ottima, trovando vita,
vita per sé e vita donata, ai bambini con cui lavora.

"L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e
confidente in quella sicurezza"
Una volta, durante una seduta di coconduzione, mi sono reso conto che stavo
sbagliando qualcosa quando mi sono reso conto che stavo perdendo la voce. Perché lo
psicomotricista non utilizza prioritariamente il canale verbale, in quanto esso si rivolge
essenzialmente al mondo cognitivo del bambino. Invece lo psicomotricista intende
rivolgersi a tutto il bambino, a partire dal recupero del vissuto emotivo attraverso il
dialogo tonico, puramente non verbale, con il bambino. Con cosa parla perciò lo
psicomotricista? Parla con il suo corpo, il suo assetto tonico, le emozioni che lascia
emergere al di fuori, attraverso la strutturazione del setting, che è un condensato del
pensiero dell'adulto sul bambino, preparato per il bambino, prima che egli arrivi in
seduta. Le parole accompagnano tutto questo, ne sostengono la lettura da parte del
bambino, affinché a lui sia evidente l'attenzione, l'affidabilità, la sicurezza del rapporto
con quell'adulto lì, quello particolare, quello strano, che non fa' un lavoro normale
come gli altri papà, come mi ha detto una bimba in terapia, ma lavora "solo" facendo
giocare i bambini.

"Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ... Il tetto era solido e
stagno"
Il giovane apprendista si sarebbe aspettato che un uomo abitante in quella
desolazione vivesse in una capanna. È molto interessante che in questa descrizione il
giovane trova tutto ciò che non si sarebbe aspettato di trovare in quel mondo: solidità,
cura, confortevolezza.
Spesso si può vivere il mondo dei bambini con una certa inesperienza come caotico,
provvisorio, estemporaneo. E allora anche lo stare con i bambini assume queste
caratteristiche, in una deriva nella quale l'adulto perde le sue peculiarità, sopraffatto
dalla forza vitale dei bambini. Invece il maestro, lo psicomotricista esperto, è colui che
in quel mondo porta il suo ordine, la sua solidità, la sua sicurezza. È davvero un albero
solitario, perché solo lui porta quelle caratteristiche nel setting, eppure ne sa
sostenere il peso affinché anche gli altri, bambini, ne possano godere.

"La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile
ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che l’uomo era rasato di fresco, che

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tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la
cura minuziosa che rende i rammendi invisibili."
Cosa vuol dire tutto ciò? Il pastore vive solo, e non vede quasi mai altra anima viva,
eppure la descrizione del suo luogo di vita testimonia una grande attenzione, grande
cura a che tutto sia funzionale, a posto, in ordine. Essere pronti, come se dovesse
arrivare qualcuno … sempre pronti all'incontro, proprio come uno psicomotricista, un
maestro.
Mi viene in mente il vangelo, capitolo 25 del vangelo di Matteo, la parabola delle dieci
vergini:
A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle
vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci
del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che
non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.
Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano
pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le
altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi
dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

Ma c'è anche un'altra qualità che si può evincere da questa descrizione: la disciplina
interiore. Infatti, poiché nessuno probabilmente verrà a visitare il pastore, egli cura la
sua casa, i suoi vestiti, i suoi arnesi, non per qualcun altro, ma per sé stesso, per una
esigenza personale sua. E allora si evidenzia la qualità del proprio percorso interiore
che determina nel maestro, nello psicomotricista, un saper essere prima ancora di un
saper fare.

Personalmente sento il bisogno di assumere come oggetto d'indagine non solo il


ridotto campo dei comportamenti manifesti, ma quello più ampio che comprende
la soggettività dell'individuo che ho di fronte e la mia. … osservo con attenzione e
rigore le azioni e le interazioni che si svolgono nello scenario … e ne inferisco il
senso e valore emozionale, interrogando la mia risonanza soggettiva agli eventi.
"Inferire" equivale a "portare dentro", metabolizzare e trasformare il materiale
osservativo.
Ferruccio Cartacci, Bambini che chiedono aiuto

Una pedagogia cui sono molto affezionato è la pedagogia Waldorf, o steineriana, per la
quale appunto si enfatizza in modo a mio parere molto opportuno il ruolo
dell'autoeducazione del maestro, un processo complesso e lungo di autodisciplina che
solo negli effetti sul comportamento del maestro stesso, viene a manifestarsi nel
rapporto con i bambini.

Il cardine della formazione resta però il lavoro interiore che ogni singolo
insegnante fa su se stesso per trasformare le conoscenze e le esperienze
acquisite in reali capacità e facoltà educative. Solo questa autoeducazione può
dare fondamento ad una vera etica professionale, in grado di proteggere e
rinnovare la vocazione dell'insegnante
Autori vari, L'autoeducazione del maestro, Presentazione

"mi rispose che non fumava"


Questo particolare da' alla figura di Elzeard un ulteriore tocco di sobrietà: un uomo
solo, che vive in mezzo alla campagna può anche concedersi, e ben venga, il piccolo
privilegio di scandire le ore e le giornate sempre uguali da qualche buona fumata di
pipa. Elzeard per qualche motivo che non viene spiegato vi ha rinunciato, ma più di
questo a me interessa, per riportare il tema sulle qualità pedagogiche, accennare alla
categoria che vi collego, ovvero quella della sobrietà.
Può essere considerato un valore la sobrietà, per un maestro, uno psicomotricista? Il
termine 'sobrio' significa 'semplice, misurato, contenuto entro i limiti del necessario o
del sufficiente, alieno da ogni eccesso o ridondanza' e deriva dal latino 'ebrius', come
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suo contrario, ovvero 'non ebbro' (Devoto-Oli 2007). L'ebbrezza riporta a quel vento
violento che spazzava le lande desertiche all'inizio del racconto, ad un'immagine di
assenza di controllo. Di contro la categoria della sobrietà si addice al percorso del
maestro, dello psicomotricista, nella misura in cui egli debba imparare a conoscere e
gestire la propria emotività per poter mettere al centro delle sue percezioni non sé
stesso, o le sue proiezioni, ma il bambino che ha davanti. Un altro significato della
parola sobrietà è 'moderato soddisfacimento degli appetiti' (Devoto-Oli 2007). Essere
sobri perciò ha anche il senso di lasciare uno spazio interiore non riempito, affinché il
bambino trovi spazio nel maestro, nello psicomotricista, che a quel punto diventa
contenitore globale, cognitivo, affettivo, relazionale e fisico, per il bambino.

Povero Pierino, mi fai quasi compassione. Il privilegio l'hai pagato caro.


Deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente tutta eguale.
Perché non vieni via?
Lascia l'università, le cariche, i partiti. Mettiti subito a insegnare. La lingua solo e
null'altro.
Fai strada ai poveri senza farti strada. Smetti di leggere, sparisci. È l'ultima
missione della tua classe.
Scuola di Barbiana (Lorenzo Milani Comparetti), Lettera a una professoressa

"il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino"


Ultima notazione sulla descrizione del pastore Elzeard è la sua solitudine di vita. Non
intendo sostenere qui la solitudine come modello di vita per lo psicomotricista, ma
semplicemente sottolineare come anche nel percorso personale si è soli, pur in mezzo
alla gente. Perché è il proprio impegno che conta, quello singolo, la libertà di prendersi
la briga di guardarsi dentro e riconoscere uno sviluppo ulteriore, una strada, e la scelta
di perseguirla è assolutamente individuale.

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Scheda 6 – “le ghiande…”

Il pastore sceglieva con molta cura le ghiande, come lo psicomotricista deve scegliere
con cura le idee da coltivare, da far crescere dentro di sé perché portino frutto.

"separando le buone dalle guaste"

SApore o SOpore - La scelta

Lo psicomotricista, per sua formazione, considera “l’attività ludica come fattore di


benessere primario per il bambino ed il giocare bene come fattore di crescita”
(Chiossone, “Le costanti della Psicomotricità e la loro declinazione nei diversi
contesti”). Questo è vero tanto in ambito terapeutico...

La prassi terapeutica, che con modalità più o meno esplicite si riferisce al ruolo
evolutivo del gioco secondo la psicologia cognitivista, che lo considera promotore
di sviluppo e sede di pensiero creativo, è la terapia psicomotoria nelle sue varie
accezioni.
Ermellina Fedrizzi, I disordini dello sviluppo motorio

...quanto in ambito educativo:

Il fondo comune di queste pratiche (ndr: cura, prevenzione, educazione e


formazione di stampo psicomotorio) è identificabile in una particolare modalità di
intendere le relazioni fra processi emotivi, cognitivi e corporei, che si focalizza
nel concetto di azione e che trova spazio nell'attenzione al comportamento
spontaneo del soggetto, all'interno di un'area di gioco condiviso.
Andrea Bonifacio, Presentazione di Luisa Formenti (a cura di), Psicomotricità -
Educazione e Prevenzione

Paola Manuzzi, nel suo libro "Pedagogia del gioco e dell'animazione", propone la
coppia 'sapere-sapore', evidenziando l'opportunità di occuparsi del gioco né solamente
con un approccio teorico (sapere), né solamente avendolo provato, sapendolo fare,
secondo un sapere incarnato (sapore), ma coniugando le due 'sapienze'.
Ma c'è un'altra coppia simile, la quale non prevede invece la coniugazione ma la scelta
tra i due, come la scelta tra due ghiande, come etichette di due atteggiamenti
antitetici: SApore e SOpore.

Percepire sapore è assaporare, è accogliere, accettare di provare, di mettersi in bocca


qualcosa per sentirne il sapore. È un mettersi in gioco, è sperimentare, è entrare in
rapporto con l'altro.
Provare sopore invece rimanda ad uno stato soltanto parziale di coscienza, laddove
non si è del tutto svegli, ma neanche del tutto addormentati. In tali condizioni
l'apertura all'altro, all'ambiente circostante è molto limitato. Più pienamente viene
vissuto invece il proprio mondo interiore, tanto che già in questa fase vicina al sonno
possono verificarsi dei sogni. Per quanto riguarda l'attività di uno psicomotricista, il
sopore può rappresentare uno stato mentale semi-automatico, nel quale la ricezione
dell'esterno è pressoché assente, mentre si porta attenzione solamente alle proprie
immagini interne del bambino che si ha di fronte. Nel sopore non si sperimenta nulla
della situazione al di fuori, al più si ripropongono circolarmente atteggiamenti
derivanti dalle idee e convinzioni già acquisite (pregiudizi).

È curioso che anche la differenza fonetica tra 'sapore' e 'sopore', costituita solo dalla
sostituzione di una 'A' con una'O', possa avere una sua logica in questa dicotomia.
Secondo l'euritmia steineriana, che ho iniziato a praticare, infatti, "il corpo, la musica,
la parola tendono a essere associate nell'intento di tradurre, la parola in gesto" (Ivano
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Gamelli, Pedagogia del corpo). E la lettera 'A' si impara a conoscere come molto
diversa, nelle sue implicazioni, dalla lettera 'O'. Per raffigurare la 'A' infatti le braccia si
allargano dal basso, come per accogliere in un ampio abbraccio il mondo, mentre il
corpo si protende avanzando in avanti. La 'O' invece si rappresenta con le braccia che
formano un cerchio chiuso davanti al corpo, mentre i piedi disegnano anch'essi un
cerchio facendo ritornare la persona allo stesso punto di partenza.

Problematicità

Il problematicismo è la posizione filosofica di quelle dottrine che rifiutano la possibilità


per l'uomo di raggiungere un sapere assoluto di tipo metafisico o la convinzione
dogmatica di attingere verità o principi metastorici ed eterni. Giovanni Maria Bertin,
allievo di Antonio Banfi, è stato colui che ha approfondito tale posizione nelle sue
implicazioni pedagogiche.
Banfi intendeva l'esperienza come “il rapporto integrativo del soggetto da parte
dell’oggetto e reciprocamente dell’oggetto da parte del soggetto" (Antonio Banfi, La
ricerca della realtà). In questo orizzonte per Bertin il rapporto pedagogico è
problematico:

Da tale concetto deriva, già in via preliminare, come principio metodologico per
l'indagine su ogni forma concreta dell'esperienza (e quindi anche dell'esperienza
educativa), il riconoscimento dell'infinità del processo in cui essa si svolge e si
manifesta, per cui l'integrazione tra i due poli che ne costituiscono gli elementi
fondamentali di tensione e sviluppo (il polo soggettivo e il polo oggettivo) non si
risolve compiutamente ed adeguatamente in nessuna forma determinata del
processo medesimo (e rifiuta pertanto ogni dogmatizzazione di carattere
educativo o giuridico od altra qualsiasi).

Il principio di problematicità impedisce che venga posto a base del processo di
risoluzione razionale dell'esperienza sia il dogma (col principio di identità), sia la
scepsi (col principio di contraddizione).

Nel ritmo del processo razionale l'alternativa di affermazione e negazione porta
non alla reciproca eliminazione, ma ad una relazione dialettica che è
problematizzazione reciproca: dissoluzione dell'identico in quanto avvertimento
della sua astrattezza, dissoluzione del contraddittorio in quanto esigenza di
soppressione della contraddizione. L'identità vale come principio generale del
pensiero (e quindi del "concetto") in quanto si costituisca come unità dinamica,
unità che non solo non esclude ma anzi moltiplica all'infinito le differenze (ed è
perciò identità problematica, in quanto implica la contraddizione); la
contraddizione vale come principio del pensiero in quanto superi ma non
sopprima l'identità di cui rifiuta soltanto l'astrattezza concettuale (ed è perciò
problematica anch'essa in quanto implica l'identità). L'identità così vale non solo
in quanto superamento della contraddizione, ma anche come implicazione di
essa e suo necessario correlativo; a sua volta la contraddizione che escluda la
correlazione con l'identità si assolutizza e quindi si contraddice (in quanto
implica l'identità di ciò che è posto come contraddizione).

…l'identità garantisce la coerenza e la contraddizione la processualità
Giovanni Maria Bertin, Educazione alla ragione. Lezioni di pedagogia generale

Ancor più a ragione l'approccio problematico può essere sostenuto considerando che
la relazione psicomotoria si situa sul piano di una corporeità investita e pregnante di
vissuto:

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Avvicinata come esperienza conoscitiva cui educarsi per educare, la corporeità
presenta insomma una natura complessa e paradossale. Il linguaggio corporeo
dice "di essere questo, ma anche quello" (Galimberti, Il corpo).
Ivano Gamelli, Pedagogia del corpo

Altro aspetto da considerare a favore dell'opzione per l'approccio problematicista


risiede nell'esigenza, da parte dello psicomotricista, di quella continua autoriflessività
attraverso la quale egli deve procedere nella sua autoformazione non dando nulla per
acquisito e tanto meno per scontato, né in sé, né, visto che di altra persona si tratta,
nell'altro.

Noi portiamo dentro di noi una moltitudine di voci, per cui ogni nostra azione
sulla realtà esterna risente inevitabilmente della qualità del dialogo interno che
intratteniamo con le figure cui quelle figure rinviano. Oltre ogni illusione di
trasparenza difficilmente rintracciabile nei nostri corpi 'opachi', il nostro Io - come
ci confermano le teorie moderne dell'identità - è in realtà un arcipelago composto
da tanti 'io' "dove ogni storia è per le altre motivo e occasione di crescita e dove
la critica che ogni storia riceve più o meno esplicitamente dalle altre è un
costante invito a superare la propria cecità, le proprie limitazioni" (Bencivenga,
Oltre la tolleranza)
Ivano Gamelli, Pedagogia del corpo

Emergono così le coppie di categorie problematicistiche che mi hanno accompagnato


nel corso di questo master, quelle della trasparenza e dell'opacità, dell'autenticità e
della trasparenza. Nell'ottica disegnata da GM Bertin le polarità vanno conciliate,
perché l'una giustifica l'altra, quando si parla di sistemi complessi quali sono le
persone. Così lo psicomotricista non pianta una sola idea in sé stesso, come il pastore
non pianta una sola ghianda, ma sceglie una ghianda e anche l'altra, l'opacità e la
trasparenza, la maschera e l'autenticità, un'opinione su un bambino e il suo contrario.
Ciò rende fecondo, ricco di alternative, più ampio e in grado di rispondere alle
sorprese della complessità relazionale e affettiva di un rapporto il pensiero dello
psicomotricista.
C'è di più: le polarità non solo vanno conciliate, ma se si deve scegliere, meglio
scegliere ciò che da' più domande, più incertezze. Per Heidegger (Essere e tempo) la
trasparenza può essere ovvietà, superficialità, e tendenza paradossalmente
all'inautenticità del soggetto. Semplicistica soluzione consolatoria che ci viene data o
che ci diamo per mettere a tacere il dubbio, il pensiero. Per dirla con Maria Grazia
Contini "il massimo della trasparenza coincide in realtà con il massimo di
insignificanza", e diventa pensiero piatto, livellato, comune e accessibile a tutti, perciò
banale.

Credo che il metodo debba essere in relazione con l'area dell'indagine prescelta e
personalmente non condivido il fatto di indagare solo laddove sia applicabile un
rigoroso metodo sperimentale. Il modello clinico che qui viene esposto,
collocandosi tra l'oggettività del corpo e la soggettività del vissuto, non può
attingere esclusivamente ai metodi della scienza empirica. Dovremo in parte
accettare una maggiore incertezza. L'atteggiamento che antepone il metodo al
campo che si vuole indagare ricorda la parabola di Watzlavich sull'ubriaco che,
avendo perso la chiave di casa per strada, la cercava solo sotto il cono di luce del
lampione e a chi gliene chiedeva ragione rispondeva: "perché di là è buio e non ci
vedo".
Ferruccio Cartacci, Bambini che chiedono aiuto

Anche il gioco, osservato da un punto di vista problematico, può senz'altro essere


concepito come "oasi di gioia" come affermato da Eugen Fink, ma deve essere anche
considerato inquietante, come affermato da Caillois, caratterizzato "dall'ambiguità
della maschera, dalla precarietà del caso, dall'effetto squilibrante della vertigine"
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(Paola Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell'animazione). D'altronde come potrebbe un
essere così ambiguo come l'uomo essere tanto interessato, sin da bambino, al gioco
se non avesse questo lato ombroso di inquietudine, attraverso il quale sperimentare,
esorcizzare, e superare a volte le nostre segrete paure? Forse, al modo di Heidegger,
dal punto di vista dello psicomotricista, sarebbe anzi da preferire e indagare
maggiormente questo aspetto del gioco, piuttosto che l'altro solare.

Relazione, tra intentio ed effectum

Il maestro, lo psicomotricista, non può trascurare di ragionare sopra quest'altra coppia


problematica.
Ne parla Paola Manuzzi nel suo "Pedagogia del gioco e dell'animazione".
L'intentio è il lato della polarità dove albergano il pensiero dell'adulto sul bambino
specifico, i progetti, gli obiettivi, le strategie che intende porre in atto, tutto ciò che
l'adulto, in virtù delle sue conoscenze ed esperienze, può pianificare come parte del
progetto che realizza con il bambino.
L'effectum è invece il lato di ciò che accade realmente, e che spesso sfugge alle
previsioni. È il lato dell'imponderabile alchimia relazionale che produce risultati
inaspettati, magari e soprattutto perché è l'adulto stesso che volontariamente,
involontariamente o addirittura contro la sua volontà, ha dovuto agire fuori dagli
schemi prefissati.
Nella relazione con i bambini lo psicomotricista si troverà a doversi confrontare con un
fatto curioso:

Ciò che davvero passa, nel processo educativo - e tanto più, quanto è bassa l'età
degli allievi - sfugge al controllo. I bambini imparano molto meno per processi
sistematici, lineari e ben programmati, che non grazie alle cose sapute per caso,
sentite per sbaglio, apprese marginalmente … Se c'è qualcosa che esce dalla
routine, che va storto, che risulta essere un errore, che si contrappone al
procedere lineare di ciò che è stato pianificato, quello risulterà,
nell'apprendimento (così come nella vita), incisivo, memorabile, significativo
assai più di tutte le attività che rimangono in qualche modo dentro gli schemi
della normalità intesa come ciò che ci si può attendere e che era atteso.
Gianfranco Grilli, Sulla (provocatoria) radicalizzazione della distinzione tra cura
ed educazione

Intentio sta ad effectum come intenzionalità sta ad accadimento, come ordinario sta a
straordinario, come kronos sta a kairos, come il previsto ad imprevisto, come attesa a
sorpresa, come i piagetiani assimilazione ad accomodamento.
Anche qui il giovane narratore se vuole imparare dal pastore non può permettersi di
scartare una ghianda rispetto all'altra, ne deve prendere molte. Perché secondo un
puro ragionamento problematicista, le polarità delle coppie non sono in
contraddizione, ma si sostengono e giustificano l'una con l'altra.

Alcuni elementi infatti giustificano la polarità direi fredda, razionale, quella


dell'intentio:

Un adulto "analfabeta ludico", non allenato nella pratica a cogliere questa


modalità espressiva né a riconoscerne la complessità, non saprebbe incontrare il
bambino nel suo mondo e si limiterebbe nella migliore delle ipotesi a lasciar

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giocare i bambini, in uno spontaneismo che non sa sostenere l'evoluzione del
gioco attraverso la creazione di contesti educativi idonei.
Paola Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell'animazione

Ma allo stesso tempo sono gli stessi elementi ordinari prevedibili, che proprio
sostenendo l'evoluzione del gioco del bambino pongono i presupposti per la sorpresa,
per l'accadimento, per il salto. Come si può entrare nel mondo del bambino se non se
ne conoscono i profili di sviluppo cognitivo, motorio, relazionale, senza avere un'idea
"normativa" dei requisiti, dei prerequisiti ai vari apprendimenti, per sostenere il
bambino con una definita intenzionalità trasformativa? La psicomotricità è partita, ce
lo racconta Lapierre nel testo già citato, dal concetto psicomotorio delle "mancanze"
sviluppato da Le Boulch e Vayer, concetto tipicamente razionale e normativo. Esso
valutava il bambino rispetto alla norma, attraverso test, colmando poi i deficit
attraverso l'esercizio teso allo sviluppo dei prerequisiti a quei deficit. Tutto molto
prevedibile, anche se complesso. "Si tratta di una elaborazione intellettuale che
soddisfa la logica dell'adulto ma non corrisponde alla realtà del vissuto del bambino"
racconta Lapierre nel testo citato, per cui la psicomotricità si è poi diretta verso una
"struttura diversa, più aperta, meno normativa". Il che non è significato rinnegare la
conoscenza dei profili di sviluppo, ma averli saputi integrare nella dinamica
relazionalee, dove un ruolo ce l'ha anche l'effectum, non solo l'intentio.

Ci sono anche metodi pedagogici che sono partiti dalla polarità opposta, come
l'apprendimento cooperativo, sviluppato in America e Svezia nell'ultima parte del XX
secolo, avendo in grande attenzione il bambino, il suo contesto, la facilitazione
indiretta dei processi di apprendimento. L'apprendimento cooperativo si basa sulla
valorizzazione della collaborazione all'interno di un gruppo di allievi, prevedendo
"l'acquisizione da parte degli individui di conoscenze, abilità o atteggiamenti che sono
il risultato di una interazione di gruppo, o, detto più chiaramente, un apprendimento
individuale come risultato di un processo di gruppo" (Anthony Kaye, 1992).
Anche qui, un ragionamento tendente ad escludere l'altro polo, quello del ruolo
dell'adulto con la sua competenza, non è funzionale al successo del metodo. È Jerome
Bruner, psicologo cognitivista tra i più noti a livello mondiale, che sottolinea la
ricomposizione della polarità, confermando che in un'ottica problematicista le polarità
si sostengono nel loro essere in contraddizione.

Tutti questi filoni di ricerca hanno in comune lo sforzo di capire come i bambini
organizzano il proprio apprendimento, la memorizzazione, la formulazione di
ipotesi e il pensiero. A differenza delle teorie psicologiche precedenti, tendenti ad
applicare alle attività cognitive dei bambini dei modelli "scientifici", questo lavoro
esplora la struttura dello stesso bambino per capire meglio come arriva alle
concezioni che in ultima analisi si dimostrano più utili per lui. … Va' da sé che
questa ricerca lascia poco spazio a un atteggiamento di condiscendenza e
fornisce all'insegnante un senso molto più profondo di quello che incontrerà nella
situazione insegnamento-apprendimento.
Alcuni individuano un punto debole di questo approccio nel fatto di tollerare un
grado inaccettabile di relatività in quella che viene considerata "conoscenza". È
indubbiamente vero che occorre qualcosa di più per giustificare delle credenze
che non il semplice condividerle con altri. Questo "qualcosa di più" è il
meccanismo di giustificazione delle credenze, secondo i canoni del ragionamento
scientifico e filosofico.
Jerome Bruner, La cultura dell'educazione

Oggetti di cura o soggetti di desiderio?

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Altre ghiande sono sparse sul tavolo. Il pastore le vaglia, le confronta e sceglie le più
grandi, le più lucide, e quelle senza difetti. Al giovane psicomotricista in attesa
risuonano invece parole come CURA, DEFICIT, RISORSA, EMPOWERMENT, DESIDERIO.
Sceglierle tutte, nell'ottica problematicista o scartarne alcune?

Ho citato in precedenza le osservazioni di Lapierre rispetto al percorso iniziale della


psicomotricità negli anni in cui, insieme ai suoi colleghi, sperimentava modi nuovi di
fare pedagogia attraverso il corpo. Il passaggio fondamentale è stato quello da un
lavoro impostato sulle mancanze, ad un lavoro sulle risorse, sul desiderio di scoperta,
sulle possibilità, qualsiasi fosse il livello di partenza, di indurre, attraverso l'attività
motoria spontanea a contatto con materiali elementari, la nascita di processi di
pensiero nel bambino. Ovviamente attraverso la gestione e la sottolineatura degli
opportuni particolari da parte dello psicomotricista.

Non vorrei tenere la ghianda della CURA, tanto meno quella del DEFICIT. Anche
mantenendo l'ottica problematicista, mi bastano le già citate ghiande
dell'INTENZIONE, laddove mi danno le competenze per comprendere dove si trova il
bambino rispetto ad una scala funzionale, non per emettere un giudizio, ma per
impostare un'intenzione rispetto a ciò che c'è da preparare, da raggiungere.
Una volta su usava molto di più il termine 'curare', oggi si preferisce il termine
'prendersi cura', analogo dell'inglese 'take care', avere a cuore, interessarsi, occuparsi
di. Questo approccio mi è più consono, ma si può fare ancora meglio, si può scegliere
una ghianda ancora migliore, forse.

Come ci ricorda Cristina Palmieri nel suo bel libro sulla cura educativa (ndr:
Cristina Palmieri, La cura educativa: riflessioni ed esperienze tra le pieghe
dell'educare), nel pensiero comune riteniamo che ci sia cura laddove si delineano
una mancanza da colmare o elementi di problematicità (ndr: anche fosse solo
l'essere bambini, considerato come lacuna, 'immaturità', perché?), per cui è
frequente riferirsi alla cura nella sua dimensione riparativa, facendola scivolare
verso una specie di restitutio ad integrum in soggetti che in qualche modo siano
"bisognosi di …". Questa dimensione nasconde però l'insidia di cristallizzare
l'altro in uno stato di fragilità, accentuandone più le dipendenze, che le
autonomie.
Paola Manuzzi, Sulla pesantezza e la leggerezza dell'educare, in Ivano Gamelli (a
cura di), I laboratori del corpo

Appartengono al patrimonio della psicomotricità il non giudicare, il non stigmatizzare,


le proposte cosiddette 'oblique', che devono essere superabili da tutti, ognuno al suo
livello. E poi c'è il valore importante del mettersi in discussione da parte dell'adulto in
una relazione in cui anche lui apprende, cambia, si muove, evolve, grazie al bambino.
Allora le categorie più adeguate da adottare a mio parere, le ghiande da scegliere,
sono quelle orientate al rispetto per l'altro, ad un rapporto che se non può e non deve
essere tra pari, deve essere di pari dignità.
Sempre nell'ambito a me caro della pedagogia steineriana, esiste una branca
chiamata in italiano "pedagogia curativa", il quale si propone di seguire i bambini con
esigenze speciali in modo speciale. Potrebbe essere definita la nostra pedagogia
speciale. Ora il nome non mi soddisfa assolutamente, nel senso che non rende merito
dei contenuti della disciplina con quell'aggettivo 'curativa'. Infatti la visione è quella di
puntare sull'originalità dell'essere umano, di qualsiasi essere umano, perché così
com'è ha un suo senso nella sua scelta di stare al mondo. Il lavoro maggiore è
nell'educatore quello di cambiare il proprio sguardo per arrivare a scoprire l'originale,
l'individuale nell'altro, e di sostenerlo nella sua progressiva evoluzione. Insomma nella
sostanza non c'è nulla di curativo, nel senso che non c'è un sano da una parte e un
malato dall'altra, ma due esseri umani ciascuno al suo livello che stanno facendo il
loro percorso, cercando di abbattere le apparenze, che possono portare a giudizi di
merito su base fisica, cognitiva, comportamentale. Sembra che la parola tedesca 'heil',
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che in italiano è stata tradotta con 'curativa' abbia delle sfumature che lasciano
intendere un rapporto paritario, una relazione di profonda integrazione, ma purtroppo
non è stata ancora trovata un'alternativa per me soddisfacente in italiano.

Invece una parola che in questo ambito mi piace molto è DESIDERIO. Anche perché
nell'utilizzarla, al contrario della cura, ad esempio, i bambini da oggetti diventano
soggetti, soggetti di desiderio. Partire dal desiderio lo trovo estremamente rispettoso
dell'individualità del bambino, in quanto mi obbliga come psicomotricista a costruire
attorno al bambino le condizioni per cui lui agisca secondo le sue proprie motivazioni,
rispettandone profondamente inclinazioni e libertà, dovendo necessariamente partire
dalla facilitazione dei suoi meccanismi evolutivi intrinseci, e non dalla correzione
dall'esterno di un presunto deficit.

Aver cura del desiderio implica non saturare tempi e spazi infantili con troppi
stimoli, ma fare in educazione un lavoro di sottrazione più che di addizione, di
rallentamento dei tempi più che di loro ottimizzazione. Significa valorizzare il
pathos, togliendolo dal dominio della patologia, coglierne l'energia positiva e
trasformatrice; significa tener caro e salvaguardare il piacere del movimento nei
bambini, più che corrispondere alla paura che si sporchino o si facciano male …
Significa, soprattutto, curare la loro capacità di attesa, poiché il desiderio
introduce la dimensione temporale, struttura il tempo.

Il desiderio esercita una tensione orientante nella vita: senza di esso, l'esistenza
si appiattisce sull'esistente, sulla realtà che si ripete, e il sentimento dominante
diventa un senso di noia e ripetitività
Paola Manuzzi, Sulla pesantezza e la leggerezza dell'educare, in Ivano Gamelli (a
cura di), I laboratori del corpo

È la chiave dell'EMPOWERMENT, del mettere l'altro in condizione di farcela da solo,


non insegnando funzioni, nozioni, ma facilitando le dinamiche evolutive nel bambino.
Piantare una ghianda è questo: si compie un gesto solo, perché le conseguenze durino
negli anni, portando a traguardi lontani ed impensabili, se si guarda solo quella piccola
ghianda.

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Scheda 7 – “La società di quell’uomo dava pace…”

"Mi diede l'impressione che nulla potesse disturbarlo"

Il nostro docente Giuseppe Nicolodi ha dedicato un libro al disagio degli educatori nei
confronti del disagio del bambino, definendolo 'disagio educativo'. Con estrema
naturalezza lui ci ha più volte ricordato di non perdere la lucidità nei confronti di
bambini particolarmente disturbanti, o che manifestino un particolare disagio.
L'immagine da lui usata in queste occasioni, come molte delle sue, è molto efficace, è
che "il medico bravo non è quello che si agita o si deprime dicendoti 'quanto stai
male!', ma quello che ti consiglia la medicina giusta".
Questo suo paragone mi ricorda una delle frasi più famose di don Lorenzo Milani:

Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. É un ospedale
che cura i sani e respinge i malati.
Scuola di Barbiana (don Lorenzo Milani Comparetti), Lettera a una professoressa

L'imperturbabilità del pastore Elzeard, come tutte le sue doti, non è innata, ma è stata
acquisita attraverso un processo di crescita. Anche lo psicomotricista può sviluppare
una dote simile, da utilizzare soprattutto con i bambini e nelle situazioni più difficili,
perché è lì che il suo specifico professionale si esprime al meglio: laddove altri adulti,
senza preparazione specifica, reagirebbero in modo automatico, spontaneo,
simmetrico, lo psicomotricista, il maestro preparato, sa attuare strategie adeguate e
specifiche della propria professionalità.

Di fronte ad un bambino che "sta male" e manifesta tale stare male con
comportamenti strani, fastidiosi o in ogni caso non accettabili … anche l'adulto
"sta male" a sua volta, perché questo è il normale modo di comunicare a livello
umano quando sono in ballo dei contenuti di ordine emotivo.

La gestione pedagogica ed educativa dei sentimenti personali che suscita il
fenomeno del disagio non può essere lasciata al libero corso dell'autodifesa
personale o istituzionale che esso comporta in chi professionalmente lo incontra,
ma presuppone una chiara scelta di campo teorico-epistemologico e tecnico-
metodologico. Infatti sono possibili varie scelte e varie opzioni teoriche e
pratiche, ma esse devono essere ben delineate e chierite nei fondamenti teorici
ed epistemologici che le fondano e nelle scelte pedagogico-educative e pratico-
metodologiche che comportano.
Giuseppe Nicolodi, Il disagio educativo al nido e alla scuola dell'infanzia

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Scheda 8 – “Piantava querce…”

"Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane"

Il lavoro del pastore trova la sua concretizzazione esteriore nell’accudimento delle


pecore, ma lì non serve se non il cane, cioè l’appreso, il già elaborato. Ciò che invece
conta è continuare a seminare, ad elaborare, non l’essere lì ad assistere passivamente
il gregge. È il resto che da’ senso al suo lavoro. È un'immagine perfetta del lavoro
personale dello psicomotricista, che mentre agisce con il bambino lavora con il già
acquisito, mentre è dopo, è il lavoro di contorno che determina la sua qualità, e la
garanzia che il lavoro con il bambino non sarà automatico, monotono, scontato,
sterile.

È curioso: un pastore trova il senso maggiore della sua vita nel piantare alberi, cioè in
un'altra mansione rispetto a quella esteriore che gli da' sostentamento. Sostengo che
lo psicomotricista debba fare altrettanto: mentre è pagato per fare lo psicomotricista,
lui deve avere il gusto, se vuole essere un bravo psicomotricista, di svolgere, a latere
dal suo lavoro ufficiale, la sua vera mansione, ovvero l'apprendista psicomotricista.
Con passione, perseveranza, costanza, la stessa del pastore Elzeard, che senza sosta
ha popolato il deserto di boschi.

"Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no."

Non ti appartengono le idee, né il terreno dove le semini, i bambini. Non si può essere
proprietari, né dominatori, non si possono accampare diritti.

"Sapeva di chi era? Non lo sapeva. ... Non gli interessava conoscerne i proprietari"

Non interessa al pastore che pianta querce, ciò che gli importa è la terra, da dovunque
venga, qualunque sia il suo destino. È terra dove far germogliare. Lo stesso per lo
psicomotricista, che si relaziona con i bambini, tutti i bambini, a prescindere dalla loro
storia, da chi sono i loro genitori, senza sceglierli, senza preferenze. Perché ognuno ha
una sua storia, una sua dignità, un ruolo potenziale nel mondo del domani.

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Scheda 9 – “Il processo aveva l’aria di funzionare…”

"Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena."

Si è attivatori, facilitatori di un processo, che non si possiede, non si conosce a fondo


in modo deterministico, come fosse un motore o un aspirapolvere … per cui si può
sbagliare, fallire.
Ed è una fortuna, poter gestire solo i semi, le ghiande, perché altrimenti che uomini
miseri crescerebbero, poveri come i miei sogni, limitati come le mie paure, monotoni
come i miei schemi mentali.

I bambini imparano quello che vivono


Se i bambini vivono con le critiche,
imparano a condannare.
Se i bambini vivono con l'ostilità,
imparano a combattere.
Se i bambini vivono con la paura,
imparano ad essere apprensivi.
Se i bambini vivono con la pietà,
imparano a commiserarsi.
Se i bambini vivono con il ridicolo,
imparano ad essere timidi.
Se i bambini vivono con la gelosia,
imparano cosa sia l'invidia.
Se i bambini vivono con la vergogna,
imparano a sentirsi colpevoli.
Se i bambini vivono con la tolleranza,
imparano ad essere pazienti.
Se i bambini vivono con l'incoraggiamento,
imparano ad essere sicuri di se.
Se i bambini vivono con la lode,
imparano ad apprezzare.
Se i bambini vivono con l'approvazione,
imparano a piacersi.
Se i bambini vivono con l'accettazione,
imparano a trovare amore nel mondo.
Se i bambini vivono con il riconoscimento,
imparano ad avere un obiettivo.
Se i bambini vivono con la partecipazione,
imparano ad essere generosi.
Se i bambini vivono con l'onestà e la lealtà,
imparano cosa sia verità e giustizia.
Se i bambini vivono con la sicurezza,
imparano ad avere fede in se stessi
e in coloro che li circondano.
Se i bambini vivono con l'amichevolezza,
imparano che il mondo è un posto
bello in cui vivere.
Se i bambini vivono con la serenità,
imparano ad avere tranquillità di spirito.
Con cosa vivono i vostri figli?
Dorothy L. Nolte

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