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PROLOGO

Questa è una storia semplice, fatta da gente semplice che, con i gesti di ogni giorno, ha perpetuato
ricordi, parole ed episodi venuti da lontano. Essi portavano dentro la gravità di un’esistenza
difficile, segnata dalla fatica del duro lavoro ma anche da una profonda dignità.
Persone umili in definitiva, ma orgogliose di appartenere tutti allo stesso paese, cioè di essere nati a
Frattura.
La miseria, si sa, degrada materialmente, ma anche interiormente. La fame, le guerre, le sciagure,
l’emigrazione avevano indurito, ma non sconfitto, questa “povera gente dimenticata da Dio”.
Una legame intenso faceva loro rialzare la testa: l’attaccamento viscerale alla propria terra che li
avvicinava nei momenti difficili e li rendeva un vero e proprio popolo, capace di imporsi su tutto e
tutti. Perfino sul terremoto.
Già, “U tarramote”... Un evento epocale che, a distanza di così tanto tempo (stiamo parlando del 13
gennaio 1915) fa sentire ancora la sua eco potente nei segni cha ha lasciato e nelle vite che ha
spezzato. Una sorta di spartiacque tra ciò che c’era prima e quello che sarebbe venuto dopo...
Niente però ha ha piegato la volontà di quegli uomini, perché essi sentivano forte la loro comunanza
e perché, dopo aver perso tutto, avevano ricostruito le loro case e continuato a vivere. Un po’ più
distante, ma sempre vicino alle loro montagne.
Ogni pietra della Jnzana racconta una piccola storia, frammenti di vita vissuta che noi dobbiamo
impegnarci ad estendere nel nostro, di ricordo. Spesso rimandano ad episodi surreali, quasi cinici,
ma che lasciano traspirare autentiche perle di saggezza popolare che diventano universali.
Tornano così dal passato personaggi tipici, il cui agire era dettato dalla particolarità del loro
quotidiano vivere...
La nostra intenzione è dargli voce per poter, ancora una volta, imparare da loro; non suscitare
tristezza nel ricordarli, ma un sorriso. Andiamo, in questo modo, un po’ indietro, al tempo in cui le
giornate erano scandite dalle stagioni ed ogni focolare era un palcoscenico a sé, dove si
susseguivano “scenette” e “cunte” che, negli anni, si sono cumulati fino a costruire una storia.
La nostra Storia...
SCENA PRIMA

La jurnata di Tatone Necola

L’azione si svolge a cavallo della II Guerra Mondiale. Dal 1935 una parte degli abitanti di Frattura
si era trasferita a Colle Martuno, il sito del nuovo paese ricostruito da Mussolini. Le restanti
famiglie vivevano, una parte nel vecchio paese, tra le case pericolanti, ed un’altra ancora nelle
“Barracche”, a valle dei due colli. Ma tutti avevano i campi in montagna e tutti dovevano scendere a
Scanno o a Villalago. Quasi tutti a piedi e, chi poteva, con l’asino o la mula.
Torniamo a Frattura: nei pressi della Fonte Gnova, per distinguerla dalla Vecchia, che si trova
appena fuori della vecchia borgata...
...intorno alla Fonte Nuova, dicevamo, le case sono rimaste intatte, ed è proprio nella ruella che
precede la salita al “Campanaro” che troviamo Tatone Necola...

Personaggi

Tatone Necola
Liberata, la vicina
Ciro, suo figlio
Esterina, l’altra sua nuora
Maria Serafina

La scena si compone di tre ambienti: la casa di famiglia, la stalla e il fondaco, dove Nicola
praticamente vive.
Il nostro è una persona burbera, con una vocina stridula, che non ama il contatto con gli altri:
ossessionato com’è dal cercare costantemente qualcosa da mangiare, preferisce stare da solo.
Capelli rasati a zero, baffoni alla “Stalin” perennemente ingialliti dal fumo e dall’unto, procede
appoggiandosi ad un bastone munito di punta. Il motivo della sua zoppìa è dovuto alla rottura di una
gamba che, però, aveva ingessato da solo con due tavole e del filo di ferro; i due frammenti del
femore si erano saldati sovrapposti rendendo l’arto più corto dell’altro. Il suo rifugio è quel
fondaco, in cui dorme, nasconde le sue cose e dove soprattutto prepara le trappole per le sue
“prede” preferite: le galline che le donne lasciano scorrazzare di giorno lungo i vicoli.

NICOLA (sta uscendo dal fondaco srotolando un filo. Si gira verso la luce del giorno per
armeggiare con il capo dello spago e prende un chicco di mais dal taschino della giacca) Ess’!
E’na passà a ‘stu quarte, no? Hi Hi Hi...! (lega il chicco al filo) Madonna la fame! La prima
galleina ch’ngappe, l’acceide e me la vaje a magnè sott’a ‘u Lacuozze andò n’n me cementa
nescieune. (lancia il capo con il chicco lontano dalla porta e rientra nel suo fondaco. Qui prenderà
una lunga pertica appoggiata ad un angolo ed inizierà a colpire il soffitto per tutta la durata del
dialogo con il figlio) Giro! Oh Gì... Jetteme nu puoche de grane ca me more pe la fame! (colpisce
facendo cadere calcinacci).
CIRO (s’affaccia dal piano di sopra) Tatà, ma che vi tru’enne? La vu’ fenì o no?! Me stè a
zuffunnà la casa a botta de taccarate!
NICOLA Giro! Giro!! (sempre bussando sulla volta. Cadono altri detriti) Ch’ scimmallitte!
CIRO N’n menenne ca ce moven’ i meteune! (fra sé) Ma stu dievele sott’a meje aveva
capetà?! (di nuovo al padre) N’ate puoche me fè sprufunnà sotte.
NICOLA Diavela!! (urlando) Mamma meje! Ecche me féne mureje pe’lla fame...
CIRO Ma pecché n’n ‘nghiene ammonde?! La Madonna che te campa....!
NICOLA Eje! Manc’a dareme ‘na megliejca de pane...
CIRO Fin’a quanne n’addegerisce ‘u puorche ca te sì magnate all’America! Accusceje te
creide a magnarece nu puorche sane!
NICOLA E quile, ‘u padroune, ‘u seiva jttate...
CIRO Eh, ‘u seiva pure setterrate! ...e teue ‘u sì jeute a rescavà!
NICOLA Alloura! ‘u mettiette bielle dint’a’u tenazze e m’u frechiette. (fa il gesto di ingoiare)
Pluff!
CIRO Ma teue sti sempre a penzà a magnè?
NICOLA E a che avess’a penzà, (stridulo) a ‘u cazze che te frejca?!
CIRO Vejde ca ad’a ieje a Scanne, chiuttosto. La meula sta già pronta dent’alla stalla.
NICOLA E c’avess’a ieje addijeune?!
CIRO Ma pecché, si remisse la trappula?
NICOLA (cercando di scansare lo spago con un piede) Neune.
CIRO Veide vé! Ne so’ già quattre ch’ene parteute p’u Lacuozze... E po’ aja ieje
repaghenne la gente.
NICOLA E la colpa è la meje che ce frechene i grendine?!
CIRO E teue n’n c’i mettenne attaccate a ‘u spaghe! (rientra)
NICOLA (ancora urlando verso l’alto) E veue faceteme magnè! (guardando per terra, si
accorge che lo spago è teso e qualcosa dall’angolo sta tirando) Ah, bella pellastrella meja,
vienn’ecche! (inizia a riavvolgere e tira una gallina che ha mangiato il chicco di mais ingoiando
anche lo spago)
LIBERATA (fuori campo da lontano) Piparelle... Piparelle... PìPìPìPìPì...
NICOLA (tira in fretta accorgendosi che la padrona sta richiamando le sue galline) Ah, t’aj
‘ngappate, eh! (la prende, le tira il collo e la nasconde sotto la giacca)
LIBERATA Piparelle… Piparelle… (le conta) Ecche me sa ca ce manca ‘na pellastra. Uhm,
ancora me ce la peglieta c’u diavele de Fecola?! Madonna meje, affolla scì netta!!
NICOLA Fammene j’alla casa, và. Ca ecche me c’ene già viste... (scappa dentro la casa
dell’altro suo figlio Michele, dove trova la nuora Esterina)
ESTERINA Tatà, bongiorno.
NICOLA Bongiorno. (Và al tavolo e taglia due grosse fette di pane da ‘u panielle)
ESTERINA Tatà, ch’ad’a cummette mo?
NICOLA Niente... (cava la gallina dalla giacca e la posa su una mappina vicino al pane)
ESTERINA Eh, niente fà bene ai uocchje... (vede la gallina morta) Ah, e chesta mo a chi te la sì
arrubbata?!
NICOLA Veramente è essa ch’ c’ha frecate ‘u grandejne meje. (mette la gallina tra le due fette
e sta per avvolgerla con la mappina)
LIBERATA (entrando) Esterì, avisse viste la gall... (vede la sua gallina tra il pane) ‘U Gesù
Criste meje!! Nicò, chesta è la galleina meja!
NICOLA (sempre stridulo) Essel’è! Mo steiv’a partì p’u Lacuozze!
ESTERINA (levandogliela dalle mani) Fosse la prejma! (alla vicina) Liberà, cumma aja fà?
Quiste, suoceme, pare ca te i dievele dentr’alla trippa ca magnene p’isse!
LIBERATA (prendendo la bestiola esanime dalle mani della donna) Esterina meja, è ‘na cosa
triste! (guardando Nicola) Me le stè a fà a straficce! Ma te le megne sane?
NICOLA ...ch’ tutte le penne!!
ESTERINA Tatà, cerca de fenirla ch’ ste galleine! Vejde andò ad’a ieje...
NICOLA Me ne vaje sceine! (guardando la gallina in mano a Liberata) Tante ecche n’n ce
magna... (esce di casa, va a prendere la mula alla stalla e s’incammina portandola per la capezza.
Incrocia Maria Serafina)
M.SERAFINA Bongiorno, Nicò.
NICOLA Bongiorno, Marì Zarrafì!
M.SERAFINA Andò vè?
NICOLA Eh, aja ieje a Scanne...
M.SERAFINA E che vè fà?
NICOLA COCCIADECAZZE!

SCENA SECONDA

Zì Pejre

Ci sono delle persone la cui vita è stata talmente avventurosa che rasenta quasi il mito. Difficile
dimenticarli.
Uno di questi è sicuramente Amedeo Caputo o “Zì Pejre” (zio Pero), come veniva chiamato.
Eroe della Grande Guerra e amico personale di Mussolini, in quanto gli aveva salvato la vita in due
occasioni, quando il futuro Duce, ferito, era stato trasportato al campo della Croce Rossa dallo
stesso Zì Pejre, che, manco a dirlo, se l’era caricato sulle spalle.
Uomo con capacità e forza fuori dal comune, capace di portare ben 132 chili di grano (pari a una
soma, in due sacchi da tre mezzetti l’uno sotto ciascun braccio) da ‘u Lemp’te, ossia il rialzo dove
oggi finisce la strada che porta a Frattura Vecchia, fino alle prime case del paese. Fontamara e
Beppe Viola non sono poi così distanti...
Poteva Agrille reggere il paragone?

Personaggi

Zì Pejre Amedeo Caputo


Agrille Achille d’Alessandro
Bacchitte Michele d’Alessandro
Viatrì Beatrice, sua moglie
Pampanucce Panfilo d’Alessandro, suo figlio

E’ il tempo della semina, che a Frattura avveniva in due tempi diversi: nei campi in montagna
veniva mietuto più che altro il grano che, l’anno dopo, poteva essere seminato già d’estate; più a
valle, c’era da dedicarsi ugualmente agli animali, ma anche alle patate, ai fagioli, alle mazzocche
che sopra alla J’nzana non crescevano. In questo modo, i terreni erano occupati da altre coltivazioni
e il grano veniva riseminato molto più tardi. Per questo motivo pensiamo che il fatto si svolge
intorno ai primi di settembre.
Ci troviamo grosso modo nella zona tra Frattura, l’Incoronata e Villalago: più precisamente tra la
Fonte Vecchia e il colle che si vede puntando verso la “Villa” (‘u Colle de la Piana): sulla destra si
trova “’u Cerrejte”, dove Achille e il figlio stanno scaricando il grano da seminare. Quest’ultimo sta
tornando con un carico dalla Cona e suo padre decide di fermarsi a riposare su una pietra al di sotto
della strada: si ammanta nel suo “cappotto” e si siede.
Amedeo sta tornando dalla Selva, il bosco sotto Monte Sant’Angelo, dov’è andato a guardare le sue
mucche, e cavalca Moretta, la sua mula...
ZI’ PEJRE Ah Moré, Ah! (sprona l’animale che si è impuntato e non vuol saperne di andare)
Mal’detta, sta desgrazieta... (la frusta pesantemente, ma non c’è verso. La povera bestia è avvezza
alle percosse di Amedeo ma rimane ferma perché in lontananza ha visto qualcosa che l’ha
turbata:una persona ferma su un masso, intabarrata in un mantello e con la testa appoggiata al
bastone che ha davanti) Vu’ camené o no?! Ah! AH!! T’aja rompe la schejna a botte de taccarate!
(s’accorge della presenza in fondo) Oh! e chi é mo quiste?! Starrà stracche ‘u crestiene. Ah! AH!
(il dolore è forte così Moretta si decide ed inizia ad avvicinarsi) Ma chi é, Achille?... Ué, Agrì!
(l’uomo sulla pietra non si muove e Amedeo piano s’avvicina) Che stè affà? Ecche
t’aviv’addurmeje?! (gli dà una pacca sulla spalla, ma Achille s’accascia di lato e cade) Eje la
Madonne! Quiste Agrille c’é muorte ‘ndutte!!...

Torna Panfilo, il figlio, per scaricare il grano da seminare dalla strada più in alto.

ZI’ PEJRE Pampanù! Vejde ca patrete c’è muorte!


PAMPANUCCE (non credendogli) ‘U cazze che te frejca! (scarica il grano)
ZI’ PEJRE Neune! ‘U so jeute pe tuzzà e c’é ‘mmuccate de zenna. Quiste c’è muorte.
PAMPANUCCE ‘U v’è ‘fancheule, o no?! (torna sui suoi passi per un altro carico)

Si trova a passare Michele “Bacchitte”.

ZI’ PEJRE Oh, quiste ‘u ejma repurtà sotte.


BACCHITTE Ma chi jé, Achille de Viatrejce?
ZI’ PEJRE Sceine! ‘U so’ truvate sopr’alla preta appujete a ‘u ancejne, ‘u chiamejva e n’n
respunnejva. Quande me so’ accantusciate, c’è ‘mmuccate pe’ nderra. Quiste ‘u ejma repurtà sotte.
BACCHITTE Eh, e cummà facejme?
ZI’ PEJRE ‘U ejma carecà sop’alla meula e tu ‘u riegge.
BACCHITTE Ma accusceje, ‘ascejse?
ZI’ PEJRE E cumma ‘u avascejma mette all ‘mpiede?! Lè! (prende Achille da terra e lo mette a
cavallo dietro Michele che non sà che fare)
BACCHITTE Ma ‘u putejma repurtà a cavall’alla meula?! E po’, arrejt’a meje?
ZI’ PEJRE Eh, e che ce fà? Tante c’è muorte oramai... (passa la Mani di Achille intorno al petto
di Michele e le lega con uno spago) Ess’é! Stì comode, Agrì?
BACCHITTE Ma jeije cumm’aja fà a purtà la meula?
ZI’ PEJRE E zitte!! La pigli’jeije la capezza. (monta in sella tirando la mula con Michele e
Achille così abbracciati) Jamme Moré, chejma repurtà Agrille a Fratteura... Ah! AAAAh! (lo
strano convoglio parte. Moretta intanto ha iniziato a agitarsi, dato che aveva capito per prima che
Agrille era morto e portarlo sulla groppa la innervosiva ancora di più, per cui ad ogni strattone,
Achille và a sbattere a Michele)
Bacchitte Amedé! Amedeo! Quiste me vutta.
ZI’ PEJRE Ma se quiste è muorte, te pozza vuttà?
Bacchitte (altro scarto di Moretta) Amedé, me vutta. Me vé ‘nguolle!
ZI’ PEJRE E abbada no! Ca n’n te fà niente. Ha’da tené paeura d’i vejve, no d’i muorte....! Che
te pozza fà cchiù ‘u cumpà Agrille?! Oramai c’é muorte...

Intanto in paese si è sparsa già la voce della morte del povero Achille.
In lontananza, Amedeo sente già il lamento di Beatrice che chiama il marito da ‘u Lemp’te...

VIATRÌ Achì. Achiiiille.... Achille meije!


ZI’ PEJRE (da lontano) Statte zitta, ca mo t’u reporte....!
VIATRÌ Achilleeee! Pover’Achille meije. Cumm’aja fà mo jeije pu’urella?
ZI’ PEJRE Ess’, mo arriva Agrille teje.
VIATRÌ (La poveretta continua a chiamare Achille finchè si avvicinano. A un certo punto si
accorge che si trova dietro Bacchitte, a cavallo della mula) Achì?! (rincuorata) Ehi, Gesù Criste
meije!
ZI’ PEJRE (con sarcasmo) Ess’u veije. Mo t’u redienghe... (scende dalla mula e scioglie
Achille) Ecchete Agrille! (lo prende di peso e lo depone per terra davanti ad un’esterrefatta
Beatrice) ‘U veje?? T’u aje repurtate, Agrille teje!

SCENA TERZA

Uliana e Lorenzo

La vita contadina di quei tempi era caratterizzata dalla durezza delle condizioni che investiva
l’esistenza di ognuno. Le donne, poi, erano doppiamente oppresse dal lavoro nei campi in montagna
e dal prendersi cura della famiglia e spesso erano maltrattate dai mariti. L’unica difesa era l’essere
più forti di questo disgraziato destino e questo, in alcuni casi, ha forgiato uno stampo di femmine
particolarmente granitiche, che potremmo definire “matriarcali”. Spesso, la loro personalità era
talmente straripante che i mariti nulla potevano e venivano completamente eclissati.
Un esempio innegabile è stata nonna Uliana.

Personaggi

Uliana Caputo
Lorenzo Galante suo marito
Palmarosa Giovannelli sua suocera
Desolina Costantini una vicina
Ingegnere

ULIANA (sta condendo la pasta accanto al focolare. Da le spalle ad un lettino dove giace,
inferma da anni, sua suocera Palmarosa) Eh mà, finalmente ce n’eme jeute da chela baracca fredda
e Musulejne c’ha date ‘sta casarella. Perlomeno ecche n’n passa ‘u vetrizze ‘mmiezz’a chele tavele
spaccate!... (assaggia con un cucchiaio) Oh, quant’è saprejte ‘stu seughe! Te raddecr’jeja!! (fra sé)
‘Ste bielle maccareune ch’ l’ova i facce magnè a i ‘ueglieune cà me so’ avezata alle cinche
p’ammassà...ce so’ misse diec’ova. Auoje è Carnevale! A ‘sta bandasema e a ‘u figlie ce scalle la
ciallella. (alla suocera) Mà, te la facce nu puoche d’acquasala? (fra sé) Chi domanda non fa
errore… (alla vecchia che non risponde) Oh mà, và buone? (fra sé) Ama a chi ti ama e rispondi a
chi ti chiama! Te bielle rescalle, eh?! accusceje repasse bona, ca ema jeje a ‘u ‘ngegnere a farete
assegnà la casa accusceje… (si volta e s’accorge che Palmarosa dorme profondamente) Hè voglia a
parlà da sola Ulià! E’ na vita cà chesta sta a ‘u liette. E’ da mo che l’avessa scapelata ‘sta sgrebbia!!
Ma fa famiglia a parte e ecche daventre n’n putejme campà accusceje malecumbenate ca
Cuncettejna mè c’addorme sop’a ‘u archeune…. (bussano alla porta) Chi jé? (senza rispondere,
viene tirato lo spago per aprire la porta ed entra Desolina) Avanti!
DESOLINA Ulià, cumma jeime?
ULIANA Eh, e cumma vulem’ì Desolì?! Dio non peggio…
DESOLINA (chiude la porta e si siede accanto al fuoco ) Fa fridde!
ULIANA (continuando nelle sue faccende) Eh, fa fridde…
DESOLINA Le sì sentente le Maschere che vene gerenne? Valentine ch’ ‘u arganette è ‘na
macchietta………………
ULIANA Ma ch’aja senteje?! Tra la vecchia, la zappa, le magnè e i ‘ueglieune facce tante ‘na
mascarata ecche daventre…!
DESOLINA (stringendosi nello scialle) Fa fridde!
ULIANA L’eme capente cà fa fridde. Desolì, è febbrare… e fa fridde. Fa freddo!
DESOLINA Ehi, ca n’n te so’ditte niente!
ULIANA E n’n m’ada dejce niente, ah!
DESOLINA (dopo un po’, per cambiare discorso) Cummà sta soceta?
ULIANA Ella lè, se n’n dorme ce lamenta.
DESOLINA Ma auoje vé ‘u ‘ngegnere?
ULIANA Scejne! Nu ‘u si senteute don Alfredo alla Messa? En’ assegnà ‘i ‘ete pedeglieune.
DESOLINA Eh, Uliana meja! me stienghe a scemenì ‘ntutte! Tre figlie che ce retirene quanne ce
pare a loro, mariteme sta sempe ‘nferucejte… I sa che facce? Coce le segne, mette la spasa sop’alla
menza e chi passa magna…
ULIANA (di spalle) La fè bona la quaglieta! DRRR… (s’avvicina al lettino) Mà! Oh mà!
Niente…n’n t’arrecchia pe’ niente, ’stu lievete!!
DESOLINA Ma pur’a Palmarosa c’attocca la casa?
ULIANA E allora, che stem’a fa?! ‘I ‘ngappaliebbre?! Basta che campa n’ate puoche… Sennò
me venev’a ‘nzaccà a ‘ste du’ stanzette? Intante me so’ levata dalla baracca e po’ m’ena dà n’ata
casa. (indicando Palmarosa) Chesta fa famiglia a parte. Meh, mo vaje a pigliè nu taccare accusceje
scalle l’acquasala. (esce. Desolina, al caldo del fuoco, si appisola. Uliana rientra e attizza il fuoco)
Ah, mo va buone! Desolì, la ti ‘na scenna d’aglie? Desolì! (s’accorge che l’altra dorme) E pure
chesta ce n’è jeuta… Certe ch’è forte! Vé ecche pe scallarece…e ce ne và pure d’u suonne!
(s’avvicina a Palmarosa) Chest’aveta pure ruffela…
LORENZO (entra trafelato) Ulià, cu’ mostre m’ha frecate n’ata vota!
ULIANA Vu’ vede ch’addevejne? Si jute n’ata vota pe’ cerque a …………… , l’ene reditte a
‘Uardiacampestre e queile t’allescete…
LORENZO (mortificato) Ema venne n’ata crapa…
ULIANA I mo che t’avessa fa?! Ma è pussibbele cà si accuscì stubbete! Ogne vota te fa la
cuntravv’nzieune: te cunvé? Già ‘u so’ refrescate ‘na vota…m’u fà j ‘ngalera? M’u fà
cumprumette?!
LORENZO J’ aja taglià.
ULIANA J’ te tagliesse la coccia!
LORENZO (S’accosta al letto della malata) Mà! Oì mà… Niente. (alla moglie) Ha magnete
mamma?
ULIANA (ancora piccata) Juste mo’ ce stejv’a fa n’acquasala… (alza la voce) Desolì!
DESOLINA (svegliandosi di soprassalto) Oh! Chi jé?
ULIANA Ma ecche t’ada meneje a durmeje?! Jamme, c’aja jeje pigliè i ‘ueglieune a
Mare’Paola. L’aja purtà a vede le Maschere…
DESOLINA Me ne sejva juta da ‘u suonne…
ULIANA E quandomai!
DESOLINA Meh, me ne revaje alla casa. (esce)
ULIANA E quanne te ne vè è sempre tarde! (al marito) J mo vaje a pigliè Nello e Cuncettejna.
Tu ni’ enne remuscenenne, ca quanne retorne megnejme.
LORENZO Và buone. (appena Uliana esce, Lorenzo si sincera che la madre stia dormendo.
Inizia così a scoprire le pentole finché trova la “spasetta” con i maccheroni. La poggia sul tavolo
ed inizia a mangiare mentre le luci sfumano)
ULIANA (rientra portando per mano i due bambini) Ah, ‘uegliù mo ce megnejme bielle i
maccareune ch’ l’ova… (scopre la zuppiera vuota) Madonna meje mamma!! Stu musselucente
brutte! Lorè! Lorenzo!
LORENZO (accorre dalla camera) Oh!
ULIANA (strillando) Ove e savecicce! Tutt’i maccareune te sì magnete?! J ‘i sejva fatte tante
de core p’i ‘ueglieune… Stu faccia de porche brutte!
LORENZO J ‘i so’ truvate e m’i so’ magnate…
ULIANA Ch’ pozza avé le bene da Ddeje! Ma che sti sfunne?! J ve sejva fatte l’acquasala a ti e
‘stu cataplasma de mammeta. Ma ‘u vè ‘fancheule fore da ‘sta casa o no?! (lo caccia in malo modo)
Vatt’a recapà, jà! Stu schefeuse brutte… Ma a che libbre stejva scritte ca’ m’avejva pigliè nu
retratte cumma quiste… (alla suocera) e assistece ’sta ’mpiastra?! E n’n sente manche
mezzanotte… (s’avvicina, la tocca su una spalla e Palmarosa piega la testa di lato) Oh!
(realizzando) Uané, e chesta c’è morta ‘ntutte… E frechete la casa! Ma propria mo t’avejve murì,
eh?! Ess’è, è remasa ch’ la vocca aperta…
LORENZO (rientra e comprende subito che sua madre è morta) Mamma! (piangendo) Mamma
mà!
ULIANA Zitto!
LORENZO (sempre commosso) Ulià, cè morta!
ULIANA E n’n ce putiva mureje addemane?? Propria mo ce recorda?! E’ da quanne t’aje
spusate che sta a ‘u liette. La so’ s’stemata, la so’ pulejta, la so’ fatta magnè a ‘stu cancielle…. Pe’
‘na vota ca me servejva pe’ farece pigliè la casa… ce và a mureje….
LORENZO Ohi, la mamma!...
ULIANA (crescendo) ZITTO!! (il povero Lorenzo si ricompone e si azzittisce immediatamente
quasi che le lacrime tornassero su negli occhi)

SCENA QUARTA
La Marcia Reale

Non so se ricordate il film “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi”.


Era la storia dell’amore tormentato di due ragazzi che avrebbero voluto sposarsi, ma l’attrito tra i
rispettivi padri glielo impediva.
Eccezionale il cavaliere - alias Totò- che vende le colombe “Cocozza” al Ministero dove lavora
Aldo Fabrizi e che non ricordava mai dove aveva incontrato il suo futuro con-suocero prima
d’allora (“...io questa faccia l’ho già vista!”).
Lo ricorderà solo alla fine del film, quando cercheranno di scambiarsi i vestiti da cerimonia in taxi.
Bene, i due non sapevano che l’ultima scena, ambientata durante una parata fascista, era avvenuta
realmente, ma una ventina d’anni prima....

Custanzille Costanzo Costantini


Pizzacalla
Antonie ‘u stuorte Antonio Rozzi

Seiva ‘u millenovecienteventenove, o ‘u trenta


la prima demeneca d’uttobre, come sempre,
chesta tradezione se respetta ogni anne:
è quiste ‘u juorne ch’ facejme la festa della Madonna.

‘Sta festa ce dà fastidje tutt’j enn’:


n’anne chiove, n’anne fa la neve e n’at’anne tira vjente.
Se spiennene tante solde inutilmente...
dicene: “’sta festa c’a da spustà!”, ma nesceune ce fà ‘nnente.

De ch’i tiempe n’n se scherzeva tante,


une ch’ la camicia nera sejva ‘nu patreterne!
prima ch’ dicejve ‘na parola, t’avive sta attiente
pecché ce stevene i spieune e i prepotente.

‘Uardiacampestre ch’ la camicia nera


sejva de Fratteura Papa e Re
e quanne la banda sunejva La Marcia Reale,
se n’n te levejve la coppela, sevene veramente ‘uè!

Isse pigliejva subbete ‘u cumande:


“Giù il cappello!” e camenejva ammont’ e abballe fra la gente.
Ca facejva acqua e neve , n’n ce ne frechejva niente:
“Chest’ è la legge. E chi non la rispetta, io lo sbatto dentro!”

Arrucunate ‘nnenze alla casa d’i Capeute, vicin’a chela fenestrella,


ce stejva Giuseppe de Pasquarosa e Custanzille.
‘nfuriete arrevette‘Uardiacampestre ch’ Pizzacalla,
decette a ‘u suocere: “N’n fa ‘u capuzielle!” e sott’ai piedi ce pestette ‘u cappielle.

La festa de c’u anne c’è remasa ‘ngoccia come nu raccunte


p’i schieffe che ce djerene a Frattura Vjecchie, ‘nnenz’alla Fonte!
Giuseppe de Pasquarosa, a case repenzate,
ce fece sceije le sangue da la vocca e da ‘u nase.

“Tu mo ‘uarda ch’ razza de ‘mbecille!


Le sapejve ca j tenejva suole ‘stu cappielle?!
Rengrazia la Madonna e Antonie u stuorte
cà stesejra t’aveva scannà cummà ‘nu puorche!”

La gente currejva sott’e sopra all’impazzate


pe regge Giuseppe che parejva ‘nu diavele scatenate:
“Sevene enne ca te la tenejva carecalata!!
Mo, se ti ‘u curagge, va a fà refà chela sunata”.

Buio. Sullo sfondo scorrono le immagini della scena in cui Aldo Fabrizi getta per terra il cappello di
Totò, mentre sfumano le note della Marcia Reale.

Martorella Rolando
Sulmona, 1-04-1990

(rivisto da Lorenzo Galante


30-10-2008)

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