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CAPITOLO XXVII Giocai alla « marseillaise » con i miei camerati di barac- ca fino a mezzanotte passata. Avrei voluto continuare fino alla sveglia, solo per salutare ancora desto la pit felice delle mie albe se gli altri non fossero stati troppo stanchi. Essi non sarebbero stati liberati i) giorno dopo e il duro ¢ mono- tono lavoro di ogni giorno sarebbe ricominciato alle sei. I moscerini svolazzavano attorno alla lampada regolamen- tare incrociandosi sotta la pallida, incerta luce e le zanzare ronzavano mordendo incessantemente. Nella soffocante ¢ stagnante atmosfera della notte piovosa le cupe baracche sem- bravano un antro soprannaturale nel quale unico suono era quello degli uomini che russavano, gemevano e parlavano confusamente nel loro sonno inquieto, Quella cupa lampada che tremolava incertamente era per me il simbolo della Guia- na e della vita pallida e smorta de’ suoi uomini. Cinque del mattino. Sveglia! Il custode della baracca mi porse una tazza dicendo: — Non ne hai diritto e domani dovrai guadagnartelo, questo caffe. I camerati delle baracche si raccolsero attorno a me un momento per salutarmi. Per l’ultima volta guardai le squadre che si recavano al layoro, poi andai dal magazziniere per cambiare i vestiti ¢ mi venne dato, come a tutti i forzati che vengono liberati, il solito pacco contenente un abito completo blu di rozza stof- fa, un cappello nero di feltro, una camicia bianca e un paio di scarpe di legno. L’abito era troppo grande ¢ le scarpe re- golamentari le odiavo ¢ le vendetti ad un cuciniere per qua- ranta soldi. 240 GHIGLIOTTINA SECCA Il Capo mi diede la carta che mi occorreva per esigere dal cassiere dell’Amministrazione la mia paga di forzato. Entrai nelfa citté ¢ consegnai i] modulo di pagamento. 11 cassicre mi contd ottantacinque franchi € dieci soldi. Ve- dendo il mio volto attonito dalla sorpresa, mi porse un fo- glio di carta con il seguente conteggio: 769 giorni di lavoro a franchi 0,50 al giorno . £, 384,50 Bolle. fe 150 Spese Min. della Giustizia. . 2. 2. . £ 30,00 3/4 trattenuti per il viaggio di ritorno in Francia eo ee eee ee ef 256,50 f. 299,00 f. 299,00 Saldo f. 85,50 — Tre quarti di trattenuta per il ritorno in Francia! — gridai. — Fui condannato a otto anni, cid significa esilio perpetuo!... Non mi lasceranno mai ritornare in Francia! ~— Lo so — mi disse. — Ma cost é il regolamento. Tre quarti della paga di ogni prigioniero devono essere tratte- Auti, Non potevo fare nulla. Ancora una volta, anche nell’ul- timo istante della mia vita di forzato, \ingiustizia doveva imperare pert derubarmi di duecentocinquantasei franchi e mezzo. Intascai il danaro con un’imprecazione e andai al Commissario di Polizia per ottenere il certificato di libera- zione. E da Sui venni informato che per Jegge avrei dovuto ri- manere nella Guiana Francese per tutto il resto della mia vita. Se avessi tentato di fuggire sarei stato condannato a cinque anni alle Isole. Dopo di che i] Commissario di Polizia aggiunse: — Inol- tre per dieci anni non potrete risiedere nella citta di Caien- na e dovrete lasciarla entro domani mattina, altrimenti sa- fete arrestato ¢ punito. — Non era passata un’ora da quan- es fo Lacten a ee ee | « LIBERATO » CAPITOLO XXVII 241 do ero stato liberato, ¢ gid ero minacciato di essere nuova- mente imprigionato. Ottantacinque franchi ¢ cinquanta centesimi: ecco il frutto di nove anni di maltrattamenti e di travagli. E un paio di scarpe normali costavano cento e venti franchi! Ne com- prai uno a buon prezzo per proteggermi i piedi nudi. fl cibo per quel giorno, una stanza, alcuni piccoli acquisti ¢ il giorno seguente tutta la somma era finita. Andai alla Re- sidenza del Governo per vedere il Governatore Siadous nel suo ufficio privato. Mi accolse con un sorriso: — Belbenoit, ora siete libero, ch? — Si, Eccellenza — risposi con la voce emozionata. — Ma le autoritd penali dicono che me ne devo andare via su- bito da Caienna. Devo vivere nella giungla come un bab- buino. — Benissimo! Ne sono felicissimo. E ora, avete per caso quanto vi basti per acquistare un biglietto per andarvene via dalla Guiana? — mi domando. — Si, Eccellenza — dissi ricordando la sua promessa e in angosciosa incertezza se volesse mantenerla 0 no. — Ho avuto denaro dalla signora Blair Niles. Ma le autoritd penali dicono che se tenterd di lasciare Ja colonia mi arresteranno e mi condanncranno a cinque anni di segregazione nelle Isole. Aggrottd le ciglia e frugd per alcuni secondi in un cas- setto del tavolino. Poi trasse un foglietto dattilografato por- gendomelo: — Ecco — disse — prendete. Mi indirizzerete una petizione formale per lasciare la colonia per un anno, fondando la vostra domanda su quello che leggerete su que- sto foglio. Mandatemela al pit presto possibile. Potrete par- tire con la prossima nave! — Lo dite... davvero, sulla prossima nave, signore? — ripetei. — Si, Belbenoit. Vi dard questo anno di libertad ¢ la- scerd che Je autorita dicano quello che vogliono — disse il Governatore con un luccichio umoristico nei suoi occhi, — 36 - Ghigliottina 242 GHIGLIOTTINA SECCA Scrivete nella petizione che, poiché nella Guiana non c’é mezzo per un uomo che abbia dignita di guadagnarsi la vita come « liberato », desiderate essere mandato in qualche altro posto dove possiate trovarvi un impiego ¢ farvi qualche soldo. La notte stessa redassi la petizione. Due giorni dopo il Governatore Siadous adund il Consiglio Coloniale per sot- tomettergliela ¢ la mia domanda fu subito accolta, perch® era il desiderio personale del capo della colonia. I] sabato seguente la decisione del Consiglio apparve sul bollettino uf- ficiale della Guiana Francese, nei termini seguenti: DEcRETO DEL GoVERNATORE DELLA GUIANA Il Governatore della Guiana e¢ il Consiglio Coloniale nella sessione de] 27 settembre 1930, decisero: il « liberato » Re- nato Belbenoit, « liberato » numero 16.444 é autorizzato, con regolare passaporto, a lasciare la colonia per un anno. Caienna, 27 settembre 1930 Il Governatore: Stapous Occorreva tuttavia un visto del Console del Venezuela, paese nel quale intendevo recarmi, ¢ andai a chiedergliclo. Con mio grande sJisappunto egli rifiutd di concedermelo. Mi disse che aveva stretti ordini da parte del suo governo, che T’anno prima aveva arrestato tutti gli uomini fuggiti dalla colonia penale trovati nel paese e che era determinato a non avere pit forzati o liberati francesi nel paese. Soggiunse poi che aveva ricevuto proprio quel giorno un rapporto dall’Am- ministrazione penale che non sembrava troppo raccoman- dabile. Avendogli chiesto di mostrarmelo, me lo fece leg- gere: Belbenoit Renato: N. 46.635; liberato N. 16.444. 1. Condannato a otto anni di lavori forzati per furto anno 1921 2. Condannato a sci mesi di prigione per insulti anno 1925 3. Condannato a sci mesi di prigione per evasione anno 1928 4. Classificato incorreggibile anno 1925 5. Classificato ‘incorreggibile anno 1927 6. Internato alle Isole come misura precauzionale nel 1925, 1927 € 1928. Voto di condotta quando venne liberato: zero. CAPITOLO XXVIT 243 Sebbene fosse |’ultimo che potesse farmi, questo era sotto ogni aspetto un vero e proprio colpo gobbo dell’Ammini- strazione Penale. Non potendo impedire al Governatore di porre in atto la sua volonta, sceglieva questi procedimenti traversi per rivalersi su di me e per non permettermi di la- sciare a colonia. Era realmente uno scacco matto al decreto del Governatore. Allora dissi al rappresentante della nazione venezuelana che mia intenzione non era di risiedere nel Venezucla e che desideravo recarmi a Panama: ma «lato che quella repubblica non aveva rappresentanti nella colonia, ero venuto da lui per- ché mi concedesse un visto per il passaggio del Venezuela € il visto del Panama avrei potuto ottenerlo in seguito. A con- ferma di quello che gli dicevo, gli mostrai una lettera che avevo ricevuto dalla signora Blair Niles e nella quale ella mi consigliava di recarmi a Panama dove mi avrebbe aiutato a impiegarmi presso la Zona Americana del Canale. Questo egli acconsenti a fare e stampd sul passaporto: « Di passaggio per recarsi a Panama». Non volevo di pit e finalmente ero libero di andarmene. Le autoriti penali ne furono furibonde. Per me quello era un giorno due volte felice perché non solo me ne andavo da quel luogo di tortura e di tormento, ma era anche il giorno del iio santo patrono, San Renato. Il Biskra avrebbe dovuto partire alle due del pomeriggio del 12 novembre. Ero vestito per l'occasione, il mio piccolo bagaglio era pronto e il biglietto era ripiegato in fondo alla tasca. Andai alla Residenza volendo ancora singraziare il Go- vernatore di quello che aveva fatto per me. Avesse la Guiana altri governatori come lui! Mi strinse la mano e mi augurd buona fortuna ¢ mi fece promettere che mi sarei presentato al Console francese di Pa- nama eche non avrei superato il tempo che mi era stato concesso da lui e soprattutto che non avrei scritto nulla che potesse compromettere il prestigio della Francia, In questa 244 GHIGLIOTTINA SECCA mia ultima occasione di parlare con il Governatore, potei rendere un favore a uno dei pochi amici che avevo nella colonia penale. Si chiamava Richard ed era internato alle Tsole, e mi aveva mandato una petizione per esserne rila- sciato, chiedendomi di presentarla al Governatore con una buona parola per lui. I] momento di farlo era venuto. — Voi confidate nella mia parola, signore — dissi al Governatore — ¢ io sento, prima di partire, di dover fare qualche cosa per un altro forzato che io so esser stato trat- tato ingiustamente. — E gli consegnai la petizione di Ri- chard, Dopo averla letta mi chiese: — E vero, Belbenoit? — Si, Eccellenza, — dissi — conosco Richard molto bene € potete essere certo di questo. — Benissimo, allora — replicd. — Potete scrivergli che gli & stato concesso il rilascio dalle Isole e che sara riportato al continente entro un mese. Ringraziai nuovamente il Governatore Siadous, ma, per un altro questa volta, e lasciando la Casa del Governo mi sentivo felice. ‘Alle due risuond il fischio del Biskra. Ero libero infine per un intero anno con davanti a me il futuro nel vasto mondo. Ero il primo « liberato » nella storia della colonia penale a cui fosse mai stata concessa una tale licenza. Molti forzati ¢ « liberati » udirono fischiare il battello guardandolo partire e, pensando a me, devono aver invidiata l’opportuniti con- cessami di andarmene per i] mondo legalmente. Quando ci fermammo alle Isole, Richard si trovava fra i rematori della barca del penitenziario. Lo chiamai e gli diedi la buona notizia del suo trasferimento al continente. — Ma bisogna che tu mi dia la tua parola che non ten- terai di scappare fin quando si trova in carica i] Governatore Siadous, — gli dissii — Presto sara richiamato in Francia enon dovrai aspettare a lungo. Richard lo promise. E aggiunse: — Una volta che se ne sara andato ti raggiungerd a Panama, camerata! CAPITOLO XXVII 245 ‘Arrivammo al lungo molo di San Lorenzo, Questa volta potei camminare calmo e¢ felice non curandomi minima- mente delle guardie dallo sguardo cattivo. [mpostai alcune lettere che Richard mi aveva affidato e incontrai alcuni « li- berati» di mia conoscenza, invitandoli ad un pranzo nel miglior negozio cinese. Erano contenti della mia buona for- tuna, ma tristi della loro sorte avasa. Poche ore dopo il Biskra discendeva il Maroni, Dalla rin- ghiera guardavo la giungla che scivolava via. Quando rag- giungemmo la foce del fume era sopraggiunta la notte € presto la costa svani a poppa, immersa nell’oscurita, Mi fer- mai alla ringhiera guardando sul mare oscuro e pensando al futuro in cui avrei dovuto ancora combattere, ma per la vita ¢ il successo € non pitt per Ja sola nuda esistenza. CAPITOLO XXVIII Come se il mondo mi si presentasse improvvisamente at- traverso un calcidoscopio dopo i miei anni di cattivita, men- tre la nave si muoveva per gli orizzonti della terra, le capi- tali delle Guiane Olandese ¢ Britannica e di Trinidad, Para- maribo, Georgetown e Porto of Spain sorgevano dal mare, e nel mare si perdevano nuovamente dietro a me, nella scia della mia nave. Ero finalmente libero e me ne andavo sem- pre pit lontano dalla Guiana. Camminavo sul ponte tutto il giorno, Mi tastavo conti- nuamente le tasche per vedere se avevo sempre il passaporto. Parlavo con i passeggeri e con loro cantavo e giocavo. Di notte lasciavo la cabina dopo poche ore di sonno e andavo sul ponte a salutare la nuova alba, Vedevo nascere il giorno dalla cupa notte, in un’alba dorata. Ero libero! Discesi la passerella a Crist6bal Colén, punto di entrata del Canale di Panama verso l’Atlantico, e mi affrettai al quartiere francese cercandovi una camera a buon prezzo. Poi mi misi alla ricerca di un impiego. Dopo poche ore ero giar- diniere al Gorgas Memorial Hospital. Per otto mesi vissi ¢ lavorai felice. Con qualche risparmio fondai una piccola la- yanderia con un socio del luogo. Ero ora un individuo in- tento a guadagnarsi la vita e il rispetto, Una sola cosa co- mincid a preoccuparmi: il tempo volava. I mesi si susse- guivano € mi restava sempre meno dell’anno di liberta che mi aveva concesso il Governatore Siadous. Gli mandai un te- legramma, seguito da una lettera in cui includevo le carte di ottima condotta e di impiego della Commissione del Canale ¢ gli chicdevo di concedermi libertad perpetua. Ma seppi che CAPITOLO XXVIII 247 aveva lasciato la colonia penale e un altro Governatore aveva preso il suo posto. Sebbene fossi libero fisicamente, diventai prigioniero spi- ritualmente, riluttando al pensiero di tornare alla Guiana per tutta la vita. Coll’andar dei giorni, delle settimane e dei mesi, diventai frenetico, Volevo mantenere la mia promessa al Governatore Siadous, ma non volevo nemmeno fitornare alla Guiana Francese. Feci il conto dei miei risparmi. Avevo danaro abbastanza per comprarmi un biglietto di terza clas- se per Parigi. Improvvisamente decisi di andare in Francia nel pid breve tempo possibile, per trovare qualche autorita che mi potesse concedere un passaporto permanente. I] mio periodo di assenza sarebbe spirato i] 12 novembre del 1931. Il 19 ottobre, un mese prima che fosse trascorso il mio anno di libert&, presi un biglictto su una nave diretta in Francia. I] 2 novembre la polizia di Le Havre, portandosi alla nave su una lancia del Servizio di Pubblica Sicurezza, esamind Je mic carte e mi arrestd. Senza alcuna comunica- zione venni tenuto per tutto novembre e dicembre in pri- gione e vi trascorsi Natale ¢ Capodanno. [fl poco denaro che mi restava se ne andé nel tentativo di comunicare per lettera con persone che avrebbero potuto aiutarmi: ma non ottenni nessuna risposta. Era come se fosscro stati impartiti ordini particolarmente severi sul mio conto: il carceriere sem- brava confermarmelo dal modo col quale mi guardava e dalla sua cortesia untuosa. Ma nessuno veniva a vedermi ¢ i giorni si succedevano finché il 15 gennaio venni improvvi- samente tolto dalla prigione a tarda notte e mandato in una automobile guardata da tre gendarmi al molo di partenza per V'Isola di Ré Ivi fui posto in una cella separata ad aspettare la nave dei forzati. Vi rimasi otto mesi, mentre si raccoglievano i prigionieri dalle varie parti dell’impero francese. Poi il 20 settembre le guardie della Guiana entrarono nella fortezza per scortare i condannati al vascello ancorato. . — Bravo Bubenoit! — disse una grossa guardia vencndo 248 GHIGLIOTTINA SECCA alla porta della mia cella per portarmi via. — Biglietto d’an- data ¢ ritorno, eh? Ce ne avete data materia di parlare! Mi spinse per il corridoio con la baionetta, togliendola solo quando ci trovammo nel cortile e fui posto in fila con gli altri uomini. Ci fecero procedere per il molo, su per la pas- serella della nave dei forzati. Per me era una brutta ¢ ben nota cosa. Un viaggio all’inferno, ma gid l’avevo fatto. Le gabbie della lurida stiva le conoscevo bene, gid ci-avevo sof- ferto ¢ mi ci trovavo meglio di coloro che ci venivano spinti per la prima volta per la stretta inferriata come topi spa- ventati. Ci fermammo sei volte in quindici giorni per gettare a mare cadaveri, con una parvenza di funerale. Il 7 ottobre ci ancorammo presso il Maroni per aspettare |’alta marea. I miei compagni di gabbia disputavano per mettere la testa ai finestrini a vedere la giungla immersa nella Juce lunare, ma io me ne stavo seduto in disparte. Quella giungla l’avevo guardata troppe volte e troppo a lungo. Ero fuori di me dalla rabbia. Mai mi era stata resa giustizia su terra francese se non da un uomo, ed era ora lontanissimo. II giorno dopo sarei disceso a terra per essere nuovamente malmenato dal- l’Amministrazione penale della Guiana. I] Governatore Sia- dous non poteva fare nulla per me. Nessuno lo poteva: se non io stesso. Per tutta la notte non potei dormire. Le zanzare che ve- nivano dalla riva molestavano tutti, ma i pensieri mi tor- mentavano tanto da non avvertire la pena fisica. All’alba fummo sbarcati sull’approdo di San Lorenzo. Nella mia te- sta c’era un solo pensiero, che pulsava come qualche cosa di vivente a parte nel mio cervello: avrei aspettata la prima occasione. Non dovevo mantenere pit nessuna promessa ed ero in guardia; non avrei promesso pid nulla a nessuno. Avrei aspettato gli eventi ¢ sarei scappato. Venni individuato da un caporale delle guardie del for- tino, prelevato di tra le parecchie centinaia degli altri forzati ¢ chiuso in una cella isolata. CAPITOLO XXVIIL 249 Cos} fini il mio anno ]i libertA: ora ero di nuovo un’unitd nel battaglione dei condannati, Avevo tentato con ogni mia forza di guidarmi, di lavorare, di comportarmi bene, di non violare nessuna legge € nessuna norma. Ero vissuto frugal- mente e avevo ottenuto dagli Americani un ottimo certifi- cato di condotta: « Lavoro... Ottimo. Comportamento.., Ot- timo », diceva il certificato di lavoro. Ma ero andato in Fran- cia per cercare giustizia, un prolungamento della durata del mio passaporto e forse i] perdono; e quello fu il mio vero er- rore, Avrei dovuto rimanere a Panama e¢ ci sarei rimasto se non avessi promesso al Governatore Siadous di onorare la sua parola e di consegnarmi alle autorita francesi prima che fosse trascorso anno di liberta da {ui concessomi. Benissimo! Avevo mantenuto la miaeparola. Ora le autorita della pri- gione potevano fare quello che volevano; non dovevo pid nulla a nessuno, Avrei scontato qualsiasi punizione che mi volessero infliggere ¢ appena tornato un « liberato » sarei scappato. Venni mandato alla Reale. L’isola in quattro anni non si era mutata per nulla. Ma le guardie erano ancora pitt me- schine e i forzati lottavano pit disperatamente che mai, Pro- curai di tenermi calmo. Passd un mese, ne passarono due, quattro, La cella nella quale camminavo per tutto il giorno € spesso per molte ore nella notte oscura, era come una tomba. II cibo mi yeniva introdotto per un’apertura. Non avevo denaro per comprarmi sigarette dalle guardie, che mi ignoravano complctamente. Camminavo avanti ¢ indietro, Saltavo, mi aggrappavo alle sbarre del soffitto e mi sospen- devo per il mento, per tenere i muscoli delle braccia in atti- vita. Giorno per giorno combattevo per non deperire nel corpo e nella mente. Cinque mesi, sei nella tormentosa so- litudine un anno si concluse. Pass6 i} settembre del 1934 — segnavo sul muro ogni giorno coll’unghia delle dita — e poi il tre novembre, tre anni dopo che ero stato preso dalla nave a Le Havre, una chiave si gird nella serratura della veechia porta, questa si apri e una guardia mi porse una 250 GHIGLIOTTINA SECCA carta. I miei occhi erano acciecati dalla continua penombra e dovetti stravolgerli per leggere il documento: vi si diceva che, avendo scontato tre anni di pena per essere andato in Francia come « liberato », ora ero di nuovo un « liberato ». Potevo andarmene al continente. « Liberato! ». Scoppiai a ridere. Libero di vivere come un cane bastardo e randagio; libero di vivere nella giungla attorno a Caienna o a San Lorenzo come una scimmia, ma non nella citt&; libero di vivere, ma senza nulla da vivere. Libero di essere un prigioniero a vita nella Guiana. Ma la povera guardia dovette certamenté credere che ridevo dalla gioia di essere libero dalla mia cella solitaria! Mi segui fino al molo, dove c’era il piccolo battello costiero, ma la luce del sole era tanto forte che non patevo aprire gli occhi, Bar- collai sul rozzo approdo e mi arrampicai a bordo. Ero riuscito a tenermi in vita ¢ di questo esultavo mentre il piccolo battello ondeggiava verso San Lorenzo, Ero riu- scito a vivere, avevo continuato ad esistere, non ero morto, non ero irrimediabilmente impazzito, Mi tastavo il corpo € nessuna parte ne era paralizzata. Ero ridotto a uno schele- tro ma il corpo era intatto. Nessuna parte ne era incancre- nita, nessuna paralizzata dalla segregazione. Ringraziai Iddio di avermi dato 1a forza di impormi di camminare avanti ¢ indietro per la cella ogni giorno, di esercitarmi nell’oscurita, solo per mantenermi in efficienza. Era stata davvero una lotta dello spirito sulla materia e sembrava che avessi vinto. Le guardie mi salutarono tutte, quando discesi sul molo di San Lorenzo, con smorfie e dileggi. Era evidente che era stata passata per tutta la colonia la parola che essendo stato amico del vecchio Governatore avrei dovuto — come lo ero stato e lo dovevo — ancora essere ad ogni occasione tormen- tato. Si, non c’era dubbio. Ero ora un « liberato » destinato a particolare miseria. Non doveyo pit stare dietro alle sbarre. Potevo provvedere al mio nutrimento da solo. Potevo man- giare rifiuti o qualunque altra cosa fossi riuscito a procu- rarmi, Potevo dormire nella giungla come centinaia di aleri CAPITOLO XXVIII 251 miei compagni di sventura. Potevo morire, e prima accadeva e meglio era. Nessuna guardia-si lasciava sfuggire un’occa- sione per tormentarml. Scovai un « liberato » che avevo conosciuto quattro anni prima, trovandolo ancora miracolosamente vivo. Alcuni ami- ci gli mandavano dalla Francia qualche franco al mese ¢ ave- va una capannuccia di erba che si offri di dividere con me. — Ti sei messo contro l’Amministrazione, Belbenoit — disse. — Loro dicono che col tuo aiuto il Governatore Sia- dous é riuscito a far cessare i loro iJleciti profitti. Le autorita penali ce hanno con te e se la prenderanno anche con me quando vedranno che ti sono amico. Ma vadano al diavolo: non ce n’ho troppa di vita davanti perché possano tormen- tarmi esageratamente. — Mangia — esclamé ponendo davanti a me una ciotola fata con una zucca e che conteneva polpa di cocco bollita con riso e con canna da zucchero. Lasciatemi dire ancora una volta che cosa significhi essere un « liberato » alla Guiana Francesc: significa che si ¢ espia- ta la condanna, che avete passato tre, cinque, dieci anni nel Campo della Morte, 0 nella Baracca Scarlatta o nelle celle oscure, € ora rimasto vivo, siete libero, Libero, ma solo di stare alla Guiana, non di andare dove volete, di riprendere una vita umana, di rivedere gli amici, di rimettervi all’opera per salvare qualche cosa dal naufragio; non libero di Jevarvi dal fango e dalla disgrazia e di ricominciare una nuova vita; libero sulo dalle celle, dai campi di punizione e dalle fetide baracche; libero di vivere alla Guiana, dove non c’é mezzo di vivere! Non ci si pud arrampicare sugli alberi come i plantigradi e vivere di foglie, non si pud volare sulla giungla come i pap- pagalli e vivere di noci, non si pud nuotare per i fiumi fan- gosi come i pesci e vivere di alghe ¢ di molluschi. Un uomo non ha addosso pelliccia o piume, deve vestirsi. E vuole la- vorare, vuol essere impiegato ogni giorno in qualche com- pito che gli procuri danaro. Egli vive col denaro; ma in tutta 252 GHIGLIOTTINA SECCA la Guiana un « liberato» non pud procurarselo in modo onesto. Non pud fare lo spazzino perché ci sono i forzati che non costano nulla; non pud servire nelle case private perché questo lo fanno i forzati che vengono concessi dalle guardie rapaci per quasi nulla; non pud nemmeno raccogliere la spazzatura perché per averne diritto bisogna pagare |’Ammi- nistrazione. Un « liberato » senza amici per procurarsi da- naro pud solo prendere. farfalle ¢ venderne Je ali agli im- piegati o costruire qualche oggettino per cederlo per pochi soldi. Sia le farfalle che questi oggetti fatti a mano vengono pagati cari in Francia e negli alberghi per turisti delle Indie Occidentali, ma il « liberato» non ne ricava pid del dieci per cento del prezzo a cui sono venduti. Presi farfalle, feci ogni genere di oggetti con la gomma che raccoglievo nella foresta. A Natale riuscii ad arrostirmi un pappagallo ucciso con arco ¢ freccia. Festeggiai il Capo- danno con un armadillo lesso, tolto dalla tana con un pic- cone rotto che avevo scovato in un mucchio di spazzatura. Festeggiai Pasqua con una minestra di semi di palma e di lucertole. Compravo le sigarette pit a buon mercato € ne ricavavo tre da ciascuna di esse. Attingevo acqua dal fume e, cosa che non faceva la maggior parte dei mici compagni di sventura, la boilivo prima di berla. Mi toglievo gli acari dalle dita dei piedi ¢ i vermi dalle altre parti del corpo. Non avevo pit denti, ma poco me ne importava, non aven- do nulla che dovesse essere masticato. Altri « liberati » se la cavavano un po’ meno peggio, an- dando di notte in citta a rebare. Ma non volevo farlo, Con tutta la mia intelligenza cercavo di trarre il possibile dalla giungla, ma essa non é generosa con |’uomo; |’uomo ottiene quello che gli occorre con strumenti costosi e con l’organiz- zazione. Mi scervellavo per procurarmi denaro per un altro tentativo di evasione, ma non riuscivo a nulla, Ero come chi nuoti in un vortice violento che lo attrae e cerchi una pietra o un legno cui afferrarsi. Ma nulla veniva al mio soccorso. Spesso pensai di andare contro qualche impiegato dell’Am- CAPITOLO XXVIII 253 ministrazione penale ¢ di colpirlo in facia. Sarei stato ar- restato e condannato ad altri sei mesi o ad un anno nelle celle o nelle baracche, ma almeno avrei ottenuto cibo e ve- stiario. Denaro! Denaro era quello che mi occorreva, pit di quanto non sia mai occorso a nessuno, per evadere da queli’inferno in terra. Con un centinaio di franchi avrei comprato una vecchia canoa indiana; con cinquanta i viveri necessari a passare un paio di scttimane in mare e con altri cinquanta il materiale occorrente per una vela di fortuna. Improwvisa- mente mi decisi ad andare a visitare un « liberato » in etd che gli anni avevano reso astuto come una vera volpe. Aveva una piccola canoa ¢ di notte attraversava il Maroni per por- tarsi alla riva olandese per farvi del contrabbando per conto de] penitenziario. Spesso portava pacchetti di cocaina, talvol- ta una nuova ragazza o un giovane mulatto per gli impie- gati dell’Amministrazione. Spingete un uomo alla disperazione e sara capace di tutto! CAPITOLO XXIX Mi trascinai nel caldo per una strada dei sobborghi di San Lorenzo, il villaggio dei condannati, pensando come avrei potuto far denari per fuggire prima che fossi impaz- zito. L’evasione aftraverso alla giungla, come mi avevano ap- preso tre terribili esperienze, era impossibile, e quella per il mare richiede la partecipazione di gente che del mare fosse pratica. Avrei dovuto procurarmi un’imbarcazione e trovare compagni che. come me preferissero la morte sull’Oceano alla vita a Caienna, uomini dai quali non potessi temere de- lazioni alle guardie. Ci voleva poi una certa quantita di vi- veri e di provviste, e prima di giungere a qualche porto sicuro occorrevano almeno dieci giorni di tempo e di vento favorevole. Che tutto cid dovesse realizzarsi sembrava im- possibile. Una persona ben vestita e con un bianco casco per il sole, evidentemente un turista di passaggio per la colonia penale, attraverso la strada assolata dirigendosi verso di me. — Dove posso trovare un prigioniero che sappia l’inglese? — mi chiese con un francese scolastico. — Io so un poco d’inglese — dissi. Forse avrei potuto rendermi in qualche modo utile a questo stranicro e mi sarei procurato qualche soldo. — Sto cercando un prigioniero di nome Belbenoit, — disse in inglese — I’uomo di cui si occupa Blair Niles nel suo libro Condannati. Bisogna che gli parli. Portatemi da lui o fatemelo venire e vi dard cinque dollari. Mi guardai attorno rapidamente. Non c’era nessuna guar- CAPITOLO XKIX 255 dia. — Datemi il denaro — dissi. Egli tolse un biglietto da un fascio di grosse banconote consegnandomelo. ~— Dove bisogna andare? — chiese. — Qui! — dissi ridendo per la prima volta dopo anni ¢ anni. — Io sono Belbenoit! — Voi! — disse egli guardandomi deluso. — Voi siete il prigioniero che scappd quattro volte? — E voi chi siete? — chiesi. Egli sembrd un poco reticente, ma finalmente disse che era un agente di una famosa casa americana di filmi. Si vo- leva fare un filme tratto dal libro di Blair Niles, una storia che si svolgeva all’Isola del Diavolo e che avrebbe dovuto rappresentare una drammatica evasione, Era venuto in volo alla Guiana Francese per studiarne i forzati. Voleva che il filme fosse accurato, disse, che fosse una riproduzione fedele delle: sofferenze umane nella peggiore prigione del mondo. Avrei potuto dargli informazioni e fornirgli dati di fatto che potessero servirgli per il futuro filme. — Che cosa farebbe un forzato che intendesse fuggire? — Scapperebbe per mare con un’imbarcazione — dissi, esprimendo il pensiero che mi si agitava nel cervello da tanti lunghi giorni. — No — mi interruppe. — Deve essere una fuga per la giungla... lotte con fiere, serpenti, paludi... — Nessuno @ mai riuscito a scappare per la giungla! — insistetti. — Lo tentai tre volte e debbo ben saperlo! — Pud darsi — disse. — Ma per il filme & meglio che il nostro eroe scappi per la giungla. So che le vostre evasioni sono state drammaticissime. Se rispondete a tutte le mie do- mande ne sarete ricompensato. Per la prima volta nella mia vita la sorte mi tendeva una mano amica. Poco mi importava di sofisticare se un eroe di cinematografo potesse 0 meno superare la giungla! Trascorsi tutta la notte seduto ad un tavolo a rispondere alle domande che mi venivano fatte, tracciando rozzi disegni di celle, di strumenti di punizione, descrivendo particolareggiatamente 256 GHIGLIOTTINA SECCA i miei tre tentativi di fuga per la giungla, dandogli parti- colari di orribili retroscena e rispondendo a tutto mentre egli riempiva di note un intero libriccino. All’alba disse che gli bastava, ¢ tolse alcuni biglietti dal fascio di banconote por- gendomeli. Presto l’aeroplano sul quale era giunto non fu che una macchia nel cielo dei Caraibi. Avrei dato la mia anima per essere libero come lui e poter librarmi per il cielo verso altri paesi. Mi sentivo un nodo in gola a vedere come colui era sceso a terra, aveva fatto le sue domande ed era ri- volato via, come se non mi avesse nemmeno un istante rite- nuto un uomo come lui. Per lui io ero solo un ufficio di informazioni, qualche cosa da cui si poteva estrarre notizie da trasformare in passiva celluloide. Ma mi aveva lasciato duecento dollari! Con tutto quel denaro un cinese di mia conoscenza m’avrebbe procurato una barca ¢ viveri, ¢ poi avrei certo trovato altri « liberati » squat- trinati che si sarebbero uniti a me. Questa volta non avrei fallito. Non ci sarebbe pitt stata nessuna cattura. Prima mi sarei portato provvisoriamente a qualche isola delle Indie Oc- cidentali, che mi avrebbe dato ricovero temporaneo, e poi agli Stati Uniti. Migliaia di miglia separano la Guiana Fran- cese da Nuova York, ma ad ogni miglio sarei fuggito da un’esistenza inumana e atroce e mi sarei avvicinato alla ci- vilta ¢ alla liberta. Il popolo degli Stati Uniti, a quanto avevo sentito, non deportava un « liberato » giunto alle sue coste dall’Isola del Diavolo. — Questa volta andra bene — mi ripetevo senza posa, mentre incominciavo ad organizzare la mia spedizione. Cercai per tutta la colonia disperatamente uomini in ter- ribili condizioni di vita, compagni che mi fossero stati del massimo aiuto fisico nella mia fuga. Infine ne scelsi quattro: Dadar, un giovane « liberato » che avevo conosciuto da circa un anno e che aveva espiato una condanna di cinque anni per una rapina; « Casquette », che aveva fatto undici anni per Vuccisione della sua amante; Bébert, che aveva colpito in fac- cia una guardia crudele che col fucile quasi gli aveva stac- CAPITOLO XXIX 257 cato la testa dal collo, e che dopo essere stato dimesso dal- Pospedale aveva scontato una condanna addizionale di quat- tro anni di segregazione; e « Panama », un forzato il cui nome non era conosciuto da nessuno di noi, ma che una volta era riuscito a fuggire € a vivere felicemente per dodici anni nella Colombia per essere poi ripreso da un nuovo con- sole francese e riportato all’Isola del Diavolo. Quattro uo- mini che mi assicurarono di volere la liberti o la morte. Ma nessuno di noi s'intendeva di navigazione. Allora cer- cai ancora e finalmente scelsi Chifflot, condannato a cinque anni per aver ucciso, per difendersi, il figlio di un potente capo nero di una tribb protetta della regione del Congo, i} quale, soggetto all’influenza della civilti moderna, si era fatto fornitore di donne bianche a Montmartre. Chifflot era stato marinaio € promise che, se avessi procurato la barca ¢ i viveri, non avrebbe avuto bisogno che del sole ¢ delle stelle per guidarci sul mare dei Caraibi. — Prima andremo alla Trinidad — dissi. Sapevo che gli abitanti di quell’isola inglese detestavano l’inferno penale francese ¢ concedevano riposo ¢ sicurezza a tutti i fuggitivi. Alle sei del pomeriggio del 2 maggio 1935 ci incontram- mo tutti segretamente nella bottega di un cinese a San Lo- renzo. La notte si faceva nera. Senza rumore penetrammo nella foresta e ci portammo al rivo del Serpente. La barca che il cinese aveva promesso di nascondere per noi era gran- de solo la meta di quella che avevamo contrattato € non era che una canoa ricavata da un tronco d’albero e larga appena un metro. Deluso, esaminai i pacchi delle provviste ¢ trovai che c’era meno dclla meta del pattuito. Mi sentii abbattuto, come se il mio tentativo fosse fallito prima ancora di inco- minciare. I miei compagni proposero di ritardare la fuga. Anche un piccolo pescecane avrebbe potuto rovesciare una tale imbarcazione e saremmo tutti periti in mare. Ma qualche cosa mi disse che non dovevo recedere, Mi misi nella canoa ¢ persuasi gli altri a prendere i loro posti. Presto lasciammo il rivo e remammo silenziosamente per il 47 + Ghigliottina 258 GHIGLIOTTINA SECCA Maroni. La marea ci era favorevole ¢ procedevamo rapida- mente. Oltrepassavamo di quando in quando qualche canoa spinta da selvaggi o da indiani. Ci gettavano una voce ma non rispondevamo. Il cinese ci aveva riforniti di un barile di acqua, ma per essere certi che non fosse stata avvelenata ci fermammo ad un rivo per raccogliere acqua dolce di cui ci si potesse fidare, Alla foce del Maroni innalzammo Ja nostra vela rappez- zata e Chifflot prese il timone di fortuna. La lunga ¢ sottile canoa comincid a danzare per le onde. Chifflot si regold se- condo una stella che egli ci disse ci avrebbe guidato verso il Nord. Le onde cominciarono a superare le sponde della canoa e due uomini sedevano vicino a Chifflot per tenergli compagnia al timone e impedirgli di addormentarsi. Gli al- tri cominciarono a gettar fuori l’acqua. Uomini in condizioni normali di spirito non si sarebbero mai spinti nel mare caraibico con una tale imbarcazione, ma noi eravamo mossi da un desiderio veramente folle di lasciare dietro a noi I’Isola del Diavolo e la Colonia penale, di cercare la libertd ad ogni costo. La notte passd rapidissi- mamente mentre guardavamo alle nostre spalle per essere sicuri che nessuna imbarcazione a motore ci inseguisse. Quan- do venne I’alba ci eravamo spinti molto in fuori nel mare e solo si vedeva qualche querulo gabbiano. Ringraziammo Chifflot e « Casquette » ne prese il posto al timone. Io mi offersi di far da cuoco. Messo in una latta di petrolio carbone ad ardere, un forte té ci faceva presto rivivere. I] cinese mi aveva completamente ingannato sui vi- veri e avremmo dovuto distribuirli molto parsimoniosamen- te nei giorni venturi. I primo nessuno protestd. Tutti par- lavamo eccitati e felici; ci eravamo finalmente liberati dalla Guiana. Assicurammo con cura tutte le provviste perché il tramonto non sembrava promettere bene ¢ Chifflot ci disse che avremmo dovuto aspettarci cattivo tempo. Alle otto il vento si mise a soffiare, spingendoci avanti. Le stelle sparirono. Io ero curvo a poppa a lato di Chifflot CAPITOLO XXIX 259 con una bussoletta in mano. La canoa procedeva sempre pitt veloce. Dovevamo filare a circa ventidue chilometri all’ora. Gli altri uomini cominciavano a impressionarsi mentre le onde ci bagnavano, ma ad ogni chilometro che procedeva- mo fuggendo davanti alla tempesta sempre crescente era un chilometro guadagnato sulla tappa della liberta. « Casquet- te » avrebbe dovuto sostituire Chifflot al timone, ma ora sa- rebbe stato troppo pericoloso farlo. Eravamo in una situa- zione precaria fra lc onde spumeggianti, e il pit piccolo mo- vimento falso ci avcebbe rovesciati nel baratro. Chifflot can- td tutta la notte € la sua voce si alzava sempre pit forte a gareggiare col vento. Poi, poco prima dell’alba, il vento ces- sd miracolosamente, un sole di rame sorse sopra all’ orizzonte e noi ci togliemmo gli abiti mettendoli ad asciugare sui re- mi. Dovevamo riparare la vela, fatta di vecchie camicie e da una tela di materasso. La stoffa era talmente vecchia che era stata strappata in parecchi punti. Non si vide !’ombra di una nave per tutto il giorno. II sole ¢ il riflesso del mare ci bru- ciavano la pelle, e le ferite nelle gambe, inflitteci dai ferri serrati attorno ai talloni nei primi giorni di prigionia e peg- giorate per il costante strofinio delle catene, cominciarono a riaprirsi € a suppurare, e bruciavano sotto gli spruzzi conti- nui di acqua salata. Dopo tre notti non eravamo pil cosi concordi. Ognuno di noi, rannicchiato per cinquanta ore ininterrotte contro il vicino, aveva continuato a parlare fino a perdere il primiti- vo buon umore, e poi aveva incominciato a lamentarsi del- le cose o dei compagni. Le mani di Chifflot erano cos} pia- gate che « Casquette » dovette sostituirlo, Disperatamente afferrato al timone nell’oscurita e su un mare ancora pid agi- tato che la notte precedente, « Casquette » dovette impiega- re tutte le sue forze per non farci inabissare nei profondi vortici del mare. Non tentavamo nemmeno di mantenere una rotta. Il mare mi portd via la bussola con una grossa ondata ¢ non si distingueva nemmeno una stella. Quando infine venne l’alba, eravamo inzuppati d’acqua, 260 GHIGLIOTTINA SECCA doloranti ¢ depressi. Attinsi un po’ d’acqua dal barile ¢ sco- prii che vi era penetrata acqua di mare. Vi mescolai latte condensato ¢ la distribuii ai miei compagni che mi dissero che aveva un sapore detestabile. ~— Sarebbe meglio che cercassimo di raggiungere il con- tinente! — disse Bébert, — Vi potremmo prendere acqua dolce ¢ ritornare in mare. ~— Ci troviamo probabilmente al largo di Demarara — disse Dadar. — & meno che a met strada dalla Trinidad. Per me sarebbe stato meglio avessimo tentato per Ja giungla; ci si pud trovare almeno tutta l’acqua che si vuole. —— Siamo in viaggio da appena tre giorni — dissi — e gia parlate di tornare a riva. Quando partimmo ve lo dissi che non sarei tornato indietro. Se raggiungiamo Trinidad siamo in salvo, In qualunque punto della costa in cui ci fer- meremo saremo consegnati al console francese. Io lo so be- ne, e gia l’ho provato. — E per tutto il giorno disputammo in tal modo. La quarta notte fu ancora pid aspra. La quinta, la sesta, Lottava furono un vero incubo ¢ diventammo come tante bestie. Vivemmo altri otto giorni non so come. Molte volte credetti che la canoa stesse per essere inghiottita da una nera onda, ma come se qualche potenza propizia la salvasse, per incanto, all’ultimo momento, la fragile imbarcazione si sol- levava magicamente sulle creste spumeggianti, oscillava un momento e poi si precipitava in un’altra onda. — Trinidad! Bah! — grugni Dadar, — non ce la fare- mo mai. E se pure lo potessimo, chi ci assicura, Belbenoit, che non saremo arrestati? Non c’é forse un console francese a Trinidad? — Si, ma gli Inglesi, credo, non ci consegneranno a lui. Ci permetteranno di riposarci qualche giorno e ci riforni- ranno di viveri; sono gente d’onore. Ci daranno ricovero per qualche giorno! Smettila di seccare e vedrai che ci arri- veremo. — Ero al timone e tenni la prua diretta costante- mente a nord-est, CAPITOLO XXIX 261 — Bah! — ringhid Bébert alla prua della canoa, — Cam- bia la rotta! Ne abbiamo abbastanza. Voglio approdare e tentare la mia fortuna coi piedi sulla terra! — Fermati! — gridai a Dadar che cominciava a stri- sciare verso la vela. Misi la mano nella camicia e ne tolsi una piccola pistola che portavo avvolta in tela cerata. La puntai su Bébert € poi su Dadar. Io sono molto piccolo: non avrei certo potuto contendere in ‘forza fisica con nessuno dei miei compagni, ma mi ero determinato a dirigermi verso Visola inglese in cui solo c’era la salvezza. Quei cinque uo- mini grandi e grossi mi guardarono torvamente, ma anche un topo si fa coraggio quando si tratta della sua liberta. — Gettatevi su di me se lo credete — dissi guardando sopra all’imboccatura dell’arma, ai miei compagni, — qui ci sono sei pallottole, e vi ammazzerd tutti se continuate! CAPITOLO XXX Non volevo per nulla uccidere i miei cinque compagni. Guardandoli al di sopra della canna della mia minuscola pi- stola, comprendevo che, come me, avevano bevuto troppa acqua salata ed crano affamati e atterriti da quelle acque in- festate da pescicani. Volevano cambiare la rotta e dirigersi a terra per disperazione e non per animosita verso di me. — Siete pazzi! — dissi loro. — La costa ¢ venezuclana € sareste sicuramente arrestati e riportati all’Isola del Diavolo. Non dobbiamo csser distanti da Trinidad e li saremo salvi. Ve l’assicuro, alla Trinidad potremo riposarci, mangiare un buon cibo e rimctterci in forze prima di riprendere il mare. — Ammiaina la vela! — gridd Bébert a Chifflot. Io pun- tai la pistola verso Chifflot, ma nello stesso istante Dadar balzd in piedi tentando di saltare oltre a lui e di afferrarmi la pistola. Prima che potessi sparare Dadar era scivolato ed era caduto contro Chifflot, ed entrambi erano rotolati contro il fianco della barca. — Bestie — urld « Casquette » — state per rovesciarci tutti! — Prese Dadar per un tallone e lo colpi dietro al- l’orecchia con il suo pugno ossuto. — E meglio legarlo! — consiglid « Panama », gettando a «Casquette » una corda bagnata. Dadar, ancora tramor- tito, venne legato strettamente. Poi « Casquette » si mise la mano alla fronte, guardando verso !’orizzonte. — Guardate da questa parte! — gridd. — Terra! Gli altri si alzarono e guardarono, ma io, credendo che fosse un trucco per distogliermi dal timone e cogliermi im- Preparato, non mi mossi. CAPITOLO XXX 263 — E Trinidad! — gridd Chifflot. — Vieni a vedere, Belbenoit! — La vela mi precludeva la parte dell’orizzonte verso cui i miei compagni guardavano. Cautamente cercai di vedere senza rischiare di essere aggredito all'improvviso. Girai il timone bruscamente per gettare la prua sopra una grossa ondata ¢ mentre eravamo sulla cresta spumeggiante mi sincerai che non mi si voleva ingannare e vidi montagne alte ed azzurre che si profilavano contro il cielo turchino. La loro vista estinse ogni animositd, ogni cattiva parola ¢ ogni disputa. Tutti gridammo dalla gioia e i sorrisi so- stituirono gli sguardi irati. Ripresi la rotta. Il vento si raf- forzava sempre pit alle nostre spalle. Eravamo rimasti per quattordici giorni in una canoa che doveva essere continua- mente vuotata dall’acqua, ma ora tutti i miei compagni, Dadar eccettuato, lo facevano allegramente mentre la vela si gonfiava sotto la forza della brezza. Poche ore dopo eravamo davanti alla costa. Vedemmo una casa col tetto di paglia in un boschetto di palme da cocco che sembrava deserta. Voltai il timone e diressi la prua sul- le onde finché la canoa venne trascinata velocemente dai frangenti sulla bianca e lucente spiaggia. I miei compagni vollero precipitarsi a terra, ma erano cos} deboli che cadde- ro lunghi e distesi sulla sabbia come se le forze fossero man- cate loro improvwvisamente. — E ora fate quello che vi pare — dissi gettando la pi- stola in mare. Alcuni neri che pescavano con le reti Jungo il mare si ten- nero prudentemente a distanza da noi, ma io li chiamai, pregandoli di arrampicarsi sugli alberi e “di procurarci qual- che noce di cocco. Essi deposero le reti, si arrampicarono sugli alberi e ci fecero avere Je noci. Ma non si volevano av- vicinare a meno di cinque metri, ¢ rotolarono le noci git per la spiaggia e poi corsero via in fretta. Apersi cinque noci passandone una a ciascuno dei miei compagni. Tagliai le corde che tenevano legato Dadar e lo tolsi dalla canoa tutta incrostata di sale, facendogli scivolare 264 GHIGLIOTTINA SECCA nella bocca il liquido freddo e dolce. Bevemmo I’acqua di due noci ciascuno, ne mangiammo la bianca polpa e poi co- minciammo a barcollare per la sabbia come tanti ubriachi. Mi sembrava che la terra mi ballasse sotto ai piedi, che si alzasse e abbassasse come il mare aveva fatto per tanti ter- ribili_giorni. Nella capanna ¢’era una grande pentola nera piena di riso e di pesce salato. Vi mettemmo le mani ¢ man- giammo come lupi finché, pieni ¢ istupiditi, rotolammo sul pavimento e ci immergemmo in un sonno profondissimo. Quando ci svegliammo consigliai di andare immediata- mente al villaggio pid vicino ad annunziare il nostro arrivo. Dapprima questa idea non piaceva per nulla ai miei compa- gni che temevano di essere arrestati: dicevano che sarebbe stato meglio trascorrere alcuni giorni qui mangiando noci di cocco e cercando altro cibo ¢ provviste senza che le auto- rit sapessero nulla di noi. Ma io insistetti che avremmo fatto meglio a recarci immediatamente da esse, prima che venissero indirettamente a conoscenza del nostro arriyo. — Io vado a denunciarmi — dissi mettendomi in cam- mino per il boschetto dei cocchi. — Se lo preferite, potete fermarvi qui. — Ma essi mi seguirono per una stradicciola. Non vedemmo aliro che negri, scurissimi e grossi, che par- lavano l’inglese con un accento largo e ci guardavano sospet- tosamente con gli occhi sbarrati, cedendoci gran parte della strada nel passare. Dopo due ore raggiungemmo il villag- getto di Moruga che, a quanto seppi, era il centro ammini- strativo della costa Sud-Est della Trinidad. Andai direttamente al posto di polizia. Il capo guardia di Moruga era seduto dietro a una vecchia tavola. Era un negro poderoso con faccia e collo scimmieschi ed era vestito di un’impeccabile uniforme militare. Restammo in piedi da- vanti a lui mentre faceva venire due guardie che torreggia- rono su di noi come giganti di ebano. — Da dove venite? — Dalla Guiana Francese — dissi. — Dove andate?, OAPITOLO XXX 265 — Agli Stati Uniti. — Per qual ragione siete approdati a Trinidad? — mi chiese non appena ebbe Jaboriosamente trascritte tutte le in- formazioni precedenti sul suo libro. — Perché siamo stati in mare quattordici giorni in ca- noa. Eravamo mezzo annegati, senza acqua né cibo. Il capo guardia si alzé, ando al telefono posto sul muro al di sopra di noi e gird la manovella. — Sei fuggiaschi fran- cesi sono approdati qui la scorsa notte — disse. Ascoltd le istruzioni di qualche superiore ed appese il ricevitore. — Andate a prendere diciotto pagnotte — disse alle sue guardie, — tre chili di caffé, tre chili di merluzzo e dodici pacchetti di sigarette. — Compild una specie di ordine ¢ lo firmé con un timbro di gomma. — Date questo al padrone della bottega, — ordind, e quando i due poliziotti se ne fu- rono andati si rivoise verso di noi e comincid a leggere da un libriccino di note. — Udite la legge di Trinidad ¢ seguitene le prescrizio- ni — disse. — I forzati francesi che fuggono dall"Isola del Diavolo ¢ raggiungono Trinidad non saranno arrestati da nessuna autorita, a meno che non violino le leggi e i regola- menti o disturbino le quiete pubblica. Se un evaso giunge con una imbarcazione che pud ancora riprendere il mare, gli sa- ranno date provviste e gli sara permesso di ripartire. Se |’im- barcazione non & pitt utilizzabile, verra wasportato a Port of Spain accompagnato da un ufficiale della polizia che lo con- durra direttamente al Comandante del Porto, Pud la vostra barca riprendere il mare? — chiese. — No, — dissi quasi gridando. — Voglio ispezionarla per esserne sicuro — disse il ca- po guardia. Quando arrivé il cibo egli ci portd git per la strada con una vecchia automobile e poi seguimmo il sen- tiero fino al mare. J] negro guardé la canoa. — Andreste in mare con una roba come questa? — chie- si. — Guardate, lo scafo & spaccato quasi completamente. Il gigantesco negro si grattd la testa, guardd qualche istan- 266 GHIGLIOTTINA SECCA te il mare agitato ¢ scuotendo la testa disse: — Vi porterd a Port of Spain. Di ritorno alla stazione di polizia, diede ad ognuno di noi una bottiglia di birra. Un negro ci prepard da mangiare ¢ ci diede riso e banane, pesce fresco, caffé bollente, manghi © carne in scatola. Non volle poi accettare alcun compenso. Nel pomeriggio andammo a zonzo per |’isola, superando una ininterrotta processione di scimmie e di negri finché raggiungemmo Port of Spain, dove fummo portati alle pri- gioni militari. Venimmo ispezionati, ci vennero presi i no- mi e fummo chiusi in una guardina. — Voi non siete sotto arresto — disse il sergente di ser- vizio, — ma dovete rimanere qui dove il console francese non pud prendervi, fino a che il Comandante non si sia oc- cupato di voi. — Ci venne apparecchiato un pasto abbon- dante ¢ dopo aver mangiato ‘ci addormentammo di un son- no che dur fino alle nove del giorno successivo, Poco dopo le dieci un uomo vestito in borghese venne fat- to entrare nella guardina, Diedi a quest’uomo, dopo poco, il soprannome di « Ami- co mio». « Dove andate, amici miei... cosa posso fare per voi, amici miei... vedrd cosa posso fare per voi, amici miei » diceva facendo una quantita di domande alle quali io rispon- devo prontamente. — Seguitemi, amici, — disse finalmente battendo alla porta che venne immediatamente aperta. Ci portd fuori dal- la prigione militare e camminammo per la strada fino a rag- giungere un punto dove sul marciapiede c’era un cartello che diceva « Esercito della Salvezza ». Si vedeva che erava- mo aspettati perché era stata apparecchiata una tavola da pranzo con sei coperti. Un certo capitano Heap e sua moglie si presentarono a noi e la signora Heap, nonostante la no- stra insistenza perché non lo facesse, si mise a servirci por- tandoci il cibo migliore che avessimo mai gustato in tanti aspri anni, Da quindici anni né « Casquette » né Bébert CAPITOLO XXX 267 avevano mangiato ad una tavola e tutti, abituati a essere trattati come bestie, avevamo le lagrime agli occhi. — Vi fermerete qui, amici miei, — disse l’impiegato in borghese. — RitornerS domani, amici miei — aggiunse separandosi da noi. Il capitano Heap disse che era un im- piegato del servizio informazioni assegnato al compito spe- ciale di prowvedere ai bisogni e al destino dei fuggiaschi dal- l'lsola del Diavolo. Prima del 1933, disse, agli evasi non ve- niva concessa liberti a Trinidad. Fino allora il Venezuela Hi accoglieva e li lasciava in liberti, ma quel paese aveva poi émesso una legge per cui si ordinava di arrestare e di im- prigionare — condannandoli ai lavori forzati — gli evasi dalla Guiana Francese; Ja gente di Trinidad, che aveva sem- pre detestato la colonia penale francese e i metodi che vi venivano usati, aveva stabilito che ai fuggiaschi venisse per- messo di risiedere ventiquattro giorni nell’isola e si desse lo- ro il modo di continuare la fuga verso altri paesi. Eravamo alloggiati all’Esercito della Salvezza senza do- verci minimamente preoccupare della nostra sicurezza, li- beri di andare e di venire come ci piaceva, andare al cine- matografo e dovunque volessimo. Parecchie persone veniva- no a trovarci e ci lasciavano sigarette, cibo e vestiti. Ma dopo aver goduto eccitatamente della nostra libert’ il primo gior- no, cominciammo a scrivere lettere ad amici e conoscenti, chiedendo danaro per acquistare il passaggio su qualche bat- tello. « Panama » scrisse ad un amico nella Colombia; Da- dar, Bébert e « Casquette » non avevano amici € non aspet- tavano nulla. Chifflot, scoprii, aveva 4ooo franchi nel suo suppositorio e disse che avrebbe comprato un biglietto su una nave ger- manica e sarebbe andato in Europa a vedere sua madre pri- ma che morisse. Ma per far cid gli occorreva un passaporto. Andammo al quartiere spagnolo a vedere se ne potessimo ottenere uno. Come sempre avviene in questo genere di fac- cende, si vide che era solo questione di denaro. Un barbiere venezuelano ci diede l’indirizzo di un ex-generale suo com=

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