Sei sulla pagina 1di 51
CAPITOLO VI Il penitenziario di San Lorenzo é diviso in due parti, una delle quali @ il campo e I’altra @ la sezione disciplinare, chia- mata il fortino. Questa sezione @ grande come il campo ¢ consiste di quattro fortini, che possono contenere cinquanta prigionieri ciascuno, e di novanta celle individuali Nella sezione disciplinare ci sono di solito duecentocin- quanta prigionieri, dei quali una cinquantina sono puniti nelle celle. Gli altri sono rinchiusi nei quattro fortini nel- V’attesa di essere giudicati dal Tribunal Maritime Spécial che tiene seduta tre volte all’anno. Tre quarti di essi sono colpe- voli di evasione; gli altri di furto, assassinio, rifiuto di lavo- rare ¢ insulti a qualche guardia. Quando arrivammo al fortino un secondino ci frugd ac- curatamente prendendoci poi le nostre vesti e tutto quanto possedevamo per consegnarci un paio di calzoni e wna giub- ba di tela di sacco su cui era impresso in rosso « L. D. » (Locaux Disciplinaires). Fummo poi rinchiusi. I prigionieri del fortino, ‘comple- tamente nudi nella maggioranza, si raggrupparono attorno a noi facendoci una quantitd di domande: — Dove foste arrestati? — Da che campo fuggiste? — E cosl, quel tale & ancora al campo? Pochi minuti dopo, comprendendo che la nostra fuga non aveva nessun interesse particolare, la maggior parte se ne ritornd ai suoi posti. Dei quaranta uomini che si trovavano con me la maggio- ranza erano colpevoli di evasione ed erano. stati riportati in- 62 GHIGLIOTTINA ‘SECCA dietro dalla Guiana Olandese o da quella Britannica. Uno era stato estradato da Cuba. Avevano venduto tutto quello che possedevano per del tabacco e non uno di essi aveva indu- menti: taluno portava uno straccio attorno ai lombi. Alcuni continuarono a parlarci ¢ presto compresi dai loro modi quel- lo che attirava il loro interesse: la giovinezza del mio com- pagno, Leonce. Non ci vennero date coperte e dovemmo stenderci cosi come ci trovavamo. A una sessantina di centimetri dal suo- lo erano disposte Junghe file di nudi tavolacci sui due lati di un muro centrale e gli uomini dormivano con la te- sta verso di esso ¢ un piede incatenato. Il caldo era soffocan- te in un ambiente lungo solo un quindicina di metri per una larghezza di quattro ¢ un’altezza di sette, dove I’aria entra- va da sei piccole aperture, pesantemente sbarrate ¢ poste ad un’altezza di quattro metri dal suolo. Un odore nauseabon- do permeava il locale, proveniente, come vidi, da un ma- stello per gli escrementi posto in un angolo, ¢ che veniva vuotato solo una volta al giorno! Era un giorno di pane secco e cost Leonce ed io, senza cibo e senza soldi, non avemmo nulla da mangiare. Alle cinque del pomeriggio circa una dozzina di uomini si rag- grupparono attorno alla pesante porta del fortino che stava per essere aperta, aspettando. Un ordine interruppe il silenzio: « Spingere! ». E i forzati si precipitarono nella corte per procurarsi i mi- gliori vasi per la notte, i quali dovevano essere adoperati quando si era ai ferri. Ce n’era solo uno ogni tre uomini. Un forzato mi avverti di affrettarmi a prendere il mio, ma i migliori erano stati gia scelti e dovetti accontentarmi di uno logoro e bucato. Un secondino chiamd Leonce e me e ci consegné il ferro con cui di notte avremmo dovuto assicurarci i piedi, Quin- di il capoguardia ci ordind di rientrare e chiuse la pesante porta. : Salimmo poi suile due opposte file di tavolacci dove do- CAPITOLO VI 63 vemmo serrarci i ferri attorno ai talloni, ¢, come veniva in- trodotta la lunga barre de justice, ognuno ne afferrava |’e- stremita ¢ la infilava nell’anelio del suo ferro finché la sbar- ra giungendo ad un’apertura posta sul muro opposto del fortino veniva fermata con un lucchetto. La guardia faceva V’appello, ispezionava i ferri e la porta veniva sprangata fi- no al mattino seguente. I ferri nella notte scricchiolavano e rumoreggiavano con monotonia incessante. La disposizione d’animo di questi uomini isolati é terri- bile. Causa ne @ principalmente l’abbiezione in cui devono vivere, senza distrazioni, senza nulla da fare e senza soldi per tabacco o per poter mangiare qualcosa pid della razio- ne. Quando si presenta un nuovo venuto e scoprono che ha denaro ¢ che @ debole, se si rifiuta di dividerlo con gli al- tri, viene subito depredato, Non bisogna dimenticare poi . che generalmente cssi ritornano in gruppo da qualche sfor- tunato tentativo di evasione e si incolpano a vicenda del lo- To insuccesso e scoppiano dispute che generalmente termi- nano a coltellate. Gli assassinii sono una cosa comune e spesso la barella deve portar via un forzato pugnalato o ac- coltellato senza speranza di salvezza. Unica occupazione dei prigionieri era quella di dar la caccia alle innumerevoli zanzare. Di notte una piccola lam- pada ad olio gettava la sua debole luce e tutti si sudava per il calore. Nell’aria rinchiusa c’era l’odore di rifiuti in de- composizione. Gli uomini sapevano che c’erano solo due guardie in ser- vizio notturno e che avevano l’ordine ufficiale di non en- trare in nessun fortino di notte. Cosi alcuni di essi si tolse- ro i ferri, avendo scambiato i propri con altri pid grandi di qualcuno che era morto 0 andato all’ospedale 0 possedendo un prezioso pezzettino di sapone col quale avevano spalma- to il tallone per liberare penosamente il piede. Qualcuno aveva tabacco ¢ fumava una sigaretta che pas- sava poi per una boccata a cinque o sei camerati. Le conver- 64 GHIGLIOTTINA SECCA sazioni vertevano attorno alla prossima sessione del Tribu- nal Maritime Spécial, sebbene tre mesi ancora ce ne sepa- Tassero. . La vita nei fortini, come dovevo rendermi conto, non cambia coll’andar degli anni. Molti moriranno prima del giorno del giudizio, dopo settimane e settimane di attesa € di sofferenza. Ognuno risente di questa spietata prigionia ¢ certi son ridotti a veri scheletri. L’esistenza protratta in un luogo semibuio ¢ dove Varia & fetida e satura di umidita, provoca |’anemia. I] sistema digestivo non funziona e si perde ogni desidcrio di mangiare. La dissenteria, la tenia, la malaria ci tormentano: bisognerebbe essere curati ¢ dovrem- mo fare un po’ d’esercizio. Di giorno si cammina senza po- sa avanti e indietro rodendosi internamente. Qualunque al- tra nazione civile avrebbe dato a questa gente che non vuole assoggettarsi all’esistenza infame della colonia la possibili- ta di rifarsi una vita e non I’avrebbe mandata a certa morte. Taluni commisero i} delitto in un momento di folle oblio, trascinati dalle circostanze, come spesso accade nella vita € non sono criminali; hanno energia, senso morale e dignita. Nella lotta disperata per raggiungere la libertd hanno perso perché le circostanze sono state loro avverse € sono rinchiu si ora come belve in stretto contatto con assassini, ladri ¢ pervertiti. Sono uomini d’azione e il confindmento male si contempera col loro carattere. Chi ha tentato di raggiungere la libert’ paga caramente quando vien portato qui dentro: non c’é il rifugio dell’ospe- dale; gli uomini dei fortini sono considerati come pericolo- Si, sono i riottosi e i ribelli, e solo in casi estremi si concede loro il dottore o medicine. E, settimana per settimana, chi una volta era ancora forte si indebolisce € chi resiste fino al giudizio sara condannato alla segregazione nella terribile iso- la di San Giuseppe per periodi che vanno da sei mesi a cin- que anni ¢ saranno poi classificati incorreggibili, L’Ammi- nistrazione, a cui non comoda che si torni vivi daile evasio- CAPITOLO VI 65 ni, indebolisce in lunghi mesi di segregazione nei fortini ¢ poi manda all’Isola di San Giuseppe a morire. « Cantaci qualcosa, Luli!» disse qualcuno. Luli si sedette. Una volta era un cantante di cafft, con- dannato a sette anni per aver ucciso un uomo con una bot- tiglia in un festino notturno. Era tubercoloso ¢ i suoi giorni erano contati, ma, sia che in lui perdurasse la memoria del- la sua professione, sia che non fosse conscio del suo stato, era spesso allegro ¢ disposto a cantare. — State fermi e in silenzio, — disse un forzato, perch? il rumore dei ferri non distraesse. Luld si schiari la gola e poi si mise a cantare qualche vec- chia canzone francese. Ne conosceva centinaia, molte delle quali rammentavano il passato a chi lo ascoltava, e la sua voce era bella.. — Bayard! Canta l’Oraput! — chiese qualcuno. — L’Oraput! L’Oraput! — fecero tutti in coro. Bayard eta gid da venticinque anni nella colonia. Era stato nel terribile campo Oraput, nella foresta, che una volta era destinato agli incorreggibili e che ispird ad un pocta che vi-mort il grande canto della colonia penale. Bayard si alzd dal tavolo ¢ lasciando penzolare una gamba dalla sbarra con una voce rozza ma espressiva cant questo canto che, sulla musica dell’Eucaristia, dice della vita e delle miserie dei forzati che lavorarono e morirono come insetti nel cam- po della morte nella giungla;, La campana ha suonato. In piedi! sono le cinque3 I yeli della notte coprono ancora l’Oraput E gli orridi vampiri tornano alle tane Ubriachi € satolli di sangue umano. Risveglio spaventevole per la maggior parte di noi; Nl nostro spitito vagabondo per un poco si mosse sotto altri cieli Ma la campana ha fatto risuonare spietatamente il suo appetlo Pes dirci di soffrire ancora in questi luoghi. 3+ Ghiglottina 66 GHIGLIOTTINA SECCA Ognuno prende Vascia per il lavoro E procede barcollando per Ja foresta; E’ come una processione di demoni, come una folle sarabanda E il nostro davvero @ un inferno, non quello di Satana, Si va fra sterpi, si cade, ci si rialza; I! fango e i ccppi, non c’é via di scampo; A noi si sa dire soltanto: Marcia 0 crepa Nel battello ci sara chi ti sostituisce. Il sole non riesce a farsi vedere; Una densa nube ce lo nasconde; Piove, piove sempre in questo paese selvaggio. Francia, 0 come rimpiangiamo il tuo cielo! Su, metti Ja corda nell’intaccatura E canta, disgraziato, per scaldarti il cuore Hurra, hurra, ragazzi, il tronco si muove Sotto gli occhi delle guardie beffarde! Cade finalmente € senza’ sosta Ci tocca procedere al secondo sforzo doloroso. Ed ecco l’animo ci si riempie di disgusto ¢ dolore; Chi Ia voce di un Arabo ha gridato: Rumi ro! (1), Ogni giorno si ripete questo supplizio spaventoso; Figli dei Galli orgogliosi, cosa ne & di voi! Se anche i pitt forti che ci siano fra di noi marciano con Ia te- [sta curva Piangete, piangete forzati, voi non siete pid uomini. Questo triste canto, che udivo allora per la prima volta, per poco non mi fece piangere. Ma poi forti colpi sulla por- + ta sprangata mi fecero tornare di soprassalto alla realta. — Domani sarete a pane ¢ acqua! — la rauca voce di una guardia risuond attraverso la porta. — Finitela. — Uh! — tutti risposero in coro. Non si aveva paura; si era gia stati a pane e acqua quel giorno e si sapeva che il re- golamento vietava che lo si fosse anche il successivo. Dopo un poco si fece silenzio. A volte un uomo libero dai ferri portava acqua da] barile ad un amico o a qualche am- 1) Frase araba di sprezzo che significa: « Cammina, bianco! ». CAPITOLO VI 67 malato. Uno dopo I’altro i forzati si addormentavano 0 ca- devano in un cupo stupore. Il silenzio era interrotto solo dal russare di qualcuno, dai lamenti degli ammalati e dall’inces- sante risuonare delle sbarre di ferro col cambiare di posizione degli uomini. Alle sei del mattino il secondino estraeva la sbarra e ognu- no si liberava dai ferri. Seguiva una mezz’ora di passeggiata tutto attorno al cortile in fila e poi venivamo rinchiusi nuo- vamente fino a tardi nel pomeriggio quando ci si lasciava uscire per un altro breve intervallo. I giorni erano lunghi per me ele settimane si trascinavano interminabilmente nel fetore e nel caldo, fra il monotono rumore dei ferri e i medesimi volti smorti. Sola distrazione era l’arrivo del postale francese, una volta al mese, perché il pit delle volte riportava dai paesi vicini evasi che ci in- trattenevano per qualche giorno col racconto delle loro av- venture. Essendo al mio primo tentativo di fuga, il Tribunal Ma- ritime Spécial mi condannd a soli sessanta giorni di cella, trascorsi i quali avrei dovuto essere rimandato al Nouveau Camp dal quale ero gid determinato a fuggire, questa volta per mare, avendo nel periodo trascorso nel fortino, parlato con uomini riportati da Surinam, Guadalupa ed altrove, mol- to apprendendo dalle loro sfortunate esperienze. Avevo ca- pito che c’era un solo modo di fuggire con qualche proba- bilita di sucesso ed era per il mare e non per la giungla! CAPITOLO VII Fui riportato al Nouveau Camp sotto scorta. Per una set- timana rimasi nel laboratorio dei cappelli, poi dovetti an- dare all’infermeria con i piedi pieni di acari ed infettati in tal modo che non potevo reggermi. Questo fu il periodo pid infelice della mia vita. Ero senza vestiti, non avendone |’Amministrazione consegnato alcuno ai forzati. Impiegati senza scrupolo avevano depredato i ma- gazzini, vendendone le coperte ¢ gli abiti mandati dalla Francia per i prigionieri ad operai delle miniere aurifere di Soom nel fiume Maroni ¢ ad Indiani. Era scoppiato uno scandalo anche a Caienna, capitale della colonia. Un Co- mandante vi era stato arrestato per aver venduto un mi- gliaio di coperte a contrabbandieri brasiliani. Venne condan- nato a cinque anni di prigione ¢ un alto impiegato suo com- plice si impiccd nella cella per sfuggire al disonore. Il Go- vernatore della colonia, Chanel, autorizzd i forzati prov- visoriamente a vestirsi come potevano a spese loro e a por- tare qualunque genere di abiti finché altri non ne arrivas- sero dalla Francia, Questo ordine serv} ai forzati di Caien- na che potevano procurarsi da vestire nelle botteghe, dispo- nendo di qualche soldo; ma per i disgraziati che come me erano sperduti nei campi o si trovavano nei fortini di San Lorenzo non restava altro che portare i vecchi abiti finché non cadessero a brandelli; dovemmo cosi andare per mesi se- minudi finché finalmente in Francia non si provvedette. Alberto Londres ha denominato i] Nouveau Camp « La Cour des Miracles », Vi si trovavano circa quattrocento uo- mini, di cui un centinaio almeno storpi, mutilati, elefantiaci, CAPITOLO VIL 69 ciechi o gobbi; insomma, ogni genere di deformita umana girava in cenci ¢ nessuno era dispensato dal lavoro. Quando fui rimesso e uscii dall’infermeria, ritornai alla mia baracca e il capo guardia decise di mandarmi a lavorare nelle radure della giungla dove si cercava di coltivare qual- che cosa. Fin dal primo giorno venni letteralmente divorato da gigantesche formiche e la mattina seguente ero cosi en- fiato e infebbrato che mi diedi ammalato e chiesi nuova- mente che mi venisse dato un letto all’infermeria. Ma il dottore respinse la mia richiesta. E allora continuai a darmi ammalato ogni mattina, ma solo dopo aver bevuto il caffé, che non viene distribuito agli ammalati che non vanno al lavoro. Percid io aspettavo che il caffé fosse stato distribuito e quando veniva il momento di andarsene al la- voro uscivo dalle file e dicevo che non stavo bene. Pensai di aver trovato un buon sistema e andé avanti cosi per una settimana finché non arrivé la Commissione di disciplina. Ogni quindici giorni il Comandante del penitenziario di San Lorenzo visita tutti i campi posti sotto la sua giurisdi- zione presiedendo la Commissione di disciplina, tiene se- duta con un impiegato civile dell’Amministrazione ed @ aiu- tato dal capo guardia del campo. Ogni volta che un forzato viola le norme una guardia fa rapporto contro di lui, scri- vendone il nome, il numero ¢ la colpa. Il Comandante legge i rapporti ai prigionieri man mano che appaiono davanti a lui e lascia che parlino a propria discolpa prima di decidere della punizione. Generalmente é piuttosto di manica larga e infligge solo una quindicina o una trentina di giorni di cella. Venne la mia volta: « Belbenoit 46635, si & dato amma- Jato dopo aver bevuto il caffé »: il Comandante lesse il rap- porto scritto a mio carico. Ne avevo una dozzina di rap- porti, tutti eguali. Cosi il Comandante, guardandomi seve- ramente mentre cercavo di giustificarmi, mi diede sei volte quattro giorni di cella per i primi sei rapporti, tre di otto giorni per i tre seguenti, due di quindici ¢ uno di trenta 70 GHIGLIOTTINA SECCA per gli ultimi tre, per un totale di centootto giorni di cella. La notte medesima mi trovavo ai ferri in una celletta. Era meglio che andare a lavorare sotto il solleone ed espo- sto ai morsi dolorosi delle formiche. Al mattino invece del caffé ricevevo solo un bicchier d’acqua ma in breve tempo mi ci abituai. Non me ne importava di stare a pane secco due giorni su tre; non ero un gran mangiatore e cid non aveva effetto su di me. In quanto ai ferri trovai che dopo un certo tempo ci si poteva abituare. Giunse il 14 luglio, dopo sessantacinque giorni di cella. Venne i) capo guardia annunciandomi che il Comandante aveva perdonato a tutti coloro che erano stati mandati nelle celle e dicendomi di raccogliere la mia roba e di andarmene al campo. La mia roba! Era un recipiente di latta per il rancio, un cucchiaio ed un bicchiere di alluminio tutto deformato; non avevo assolutamente altro, né vesti, eccetto quelle a brandelli che indossavo, né coperte. Mi rifiutai di uscire: — Tanto domani non andrei a la- vorare lo stesso — dissi — e dovreste riportarmi qui di nuo- vo. Tanto vale che mi lasciate in pace. — Domani poiete anche tornare — mi venne risposto — ma oggi dovete uscire, Dovetti ubbidire. Ritornai alla mia baracca da dove ero as- sente da pili di due mesi, nei quali non avevo visto nessuno dei forzati che conoscevo; nessuno si era ricordato di man- darmi nemmeno un pacchetto di sigarette o qualcosa da mangiare, mentre ero a solo pane. Mi stesi sul tavolaccio aspettando che arrivasse il mattino successivo per tornare alla mia cella dove ero certo di starmene molto meglio. Nel pomeriggio il capo guardia mi mandé a chiamare. — Belbenoit — disse — siete disposto a tornare al la- voro? — No — risposi. — E perché? — chiese. — Perché lavorando qui non ci guadagno niente ¢ non CAPITOLO VII 71 ho nessuna voglia di andarmene sotto il solleone a farmi divorare dalle formiche. Nella cella me ne sto all’ombra ¢ non sono esposto alle zanzare ¢ alla malaria. — Siete sincero, — disse. E poi soggiunse: —- E se aveste qualche interesse in quello che fate, lo preferireste alle celle? — Si, se mi date il modo di procurarmi da fumare e da migliorare un poco il mio rancio. — E va bene — disse. — Domani I’addetto all’inferme- ria tornera a San Lorenzo ¢ voi lo sostituirete, e spero che vi comporterete come si deve. — Grazie — dissi, — E meglio che lavorare sotto il sole! Mio compito era di scopare l’infermeria, di non far mai mancare acqua fresca agli ammalati e di portar loro le me- dicine. Un giorno, recandomi ad attinger acqua nel giardino del ‘capo guardia, notai un grande arancio pieno di frutti. E il giorno dopo, invece di andarmene per acqua, mentre il ca- po guardia faceva l’appello, colsi le arancie, riempiendone i secchi, e rivendendole poi al campo a due soldi J’una. Rac- colsi cinque franchi coi quali mi comprai subito una ca- micia. Il giorno dopo ripetei la cosa e potei comprarmi un paio di calzoni nuovi. Alcuni dei prigionieri del Nouveau Camp avevano vesti d’avanzo, percht si erano ammalati a Caienna e avevano pagato il contabile per essere mandati al nostro campo dove avrebbero potuto evitare per un trime- stre lavori pid duri. Al terzo giorno la fortuna mi tradi ¢ il capo guardia mi sorprese presso i] suo arancio. — Cosi vi comportate? — esclamé con aria irritata. — Non ho un vestito — dissi — e ne ho bisogno. Se ve- nisse il dottore vi piacerebbe che trovasse per infermiere un uomo seminudo? — gli risposi serio, — Ah si? E allora stasera ve ne tornerete alle baracche — disse seccamente. Nel pomeriggio venne all’infermeria. — Le arancie sono 72 GHIGLIOTTINA SECCA mie, capite? — mi disse. — Se ne volete vendere qualcuna agli ammalati dovete venire a dirmelo, Ma potete raccogliere le castagne; ve le regalo. Cosi mi misi a vendere castagne che arrostivo su una latta e rivendevo a due soldi alla ventina, riuscendo cosi a gua- dagnare una ventina di soldi al giorno. Quindi trafficai in tabacco, pane ¢ perfino in rum, .perché i forzati che gua- dagnavano un po’ di danaro prendendo farfalle crano di- sposti a pagare molto per un bicchierino di tafi2, il rum a buon mercato della Guiana. Le farfalle le rivendevano a po- chissimo al capo guardia che rivendendole a sua volta ne ritraeva um forte profitto. Il capo guardia era, sotto certi aspetti, un individuo mera- viglioso ¢ conosceva profondamente la psicologia dei forzati. Ma, povero diavolo, fu sfortunato; accusato di aver accettato danaro per favorire la fuga di una spia, venne imprigionato ¢ si impiccd nella sua cella a San Lorenzo. La sua tragica fine mi fece una profonda impressione perché egli si era condotto verso di me con insolita umanita. ‘A poco a poco 1 miei denari aumentavano. Tre mesi pit tardi, verso Ja meta di ottobre, avevo rac- colto cinquecento franchi e avevo vesti a sufficienza; comin- ciai allora a parlare di fuga con qualche conoscente che si efa pure procurato denaro con la rivendita delle farfalle. Cominciammo a prepararci con la maggior segretezza pos- sibile per quello che era il mio secondo tentativo di fuga. Avevo pil cognizioni e pid esperienza, e trovandomi nella Guiana da pit di un anno mi ero temprato al clima e alle condizioni di vita; questa volta, mi dissi, non avrei fallito! Tuttavia, questo sccondo tentativo doveva finire ancora peg- gio del primo. CAPITOLO VIII La vigilia di Natale eravamo pronti, in nove, al nostro disperato tentativo. Al risuonare dell’adunata delle otto ci allontanammo furtivamente da Nouveau Camp e attraverso il silenzio e l’oscurita della giungla ci portammo in fretta ad un torrente dove era stata nascosta una lunga canoa. Rapidi ci saltammo dentro ¢ Ja spingemmo nell’oscura corrente. Quella notte non avevamo nulla da temere perché le guardie stavano gia per festeggiare rumorosamente i] Natale con una provvista abbondante di bottiglie. La preparazione non ci era costata troppa fatica. Uno di nei aveva rubato la piroga, un’imbarcazione indiana Inga una diecina di metri, nel quartiere cinese git per il fume a San Lorenzo, Era un buon mezzo di trasporto, ricavato dal tronco di un grande albero gommifero ¢ |’avevamo otti- mamente attrezzato. Avevamo ricavato la vela da calzoni vecchi ¢ da alcune amache di stoffa venduteci da un Jibé- 7é(1) del villaggio, Per l’acqua ci servivamo di un barile per escrementi lavato per parecchi giorni di seguito per to- gliergli il cattivo odore e accuratamente ripassato con fuoco e catrame. In quanto al cibo: caffé, riso, tapioca, scatole di latte condensato, carne secca e banane, ce ]’eravamo cavata con circa 100 franchi. Raggiungemmo il Maroni, ma questa volta con una ca- (1) Libérés sono quei forzati che avendo scontato Ia Joro pena in prigione, hanno perd I'obbligo di continuare a risiedere nella colonia penale. 74 GHIGLIOTTINA SECCA noa mossa da otto remi manovrati con ardore e non pid in una zattera in balia delle correnti. Tre ore dopo avevamo superato i venti chilometri che ci separavano dalla foce del fiume: di fronte a noi stava l’aperto, ]’Atlantico. Il Marsigliese, che era stato fino allora al timone, parld nelle orecchie di un forzato steso sul fondo della canoa di- cendogli: — Basque! il fiume é finito. Prendi il remo ¢ di- rigi la barca! — Sto male — rispose Basque. — Il mare é ottimo. Dirigi un po’ tu, dopo vengo io. Una tale risposta non sorprese nessuno di noi: Basque era appena uscito dall’ospedale e soffriva ancora gravemente per la malaria. L’acqua era calma ¢ il Marsigliese non ebbe difficolta a dirigere la canoa fra le onde, Ignorava totalmente la mano- vra di barca in mare sebbene pid d’ogni altro avesse avuto parte nell’organizzazione della fuga. Ma non era necessario €ssere un marinaio, un uomo di mare, come Basque ci ave- va assicurato di essere, per far procedere una piroga in un mare pressoché immobile. Era ancora notte profonda e ci portavamo avanti lenta- mente. La marea diminuiva e poiché alla foce del fume il vento non ci era stato contrario fummo presto in alto mare. Inalberammo la vela. La luce sulla punta Galibi svaniva a poco a poco dietro di noi. Cantaci qualche cosa Roberto! — disse Marcello. E Ro- berto cantd I’Angelus del mare mentre noi lo ascoltava- mo con i cuori gonfi. E dopo cantd un’altra canzone e poi un’altra ancora. Eravamo tutti felici, andavamo incontro alla libert&!, ed eravamo pieni di speranza. — Fra otto giorni vedremo la luce del faro di Barima alla foce dell’Orinoco! — esclamd Marcello con entusiasmo. Il _vecchio Poletti, che era al suo nono tentativo, disse esultante: — Questa volta... si! Questa, mes enfants, sara quella buona! CAPITOLO VIE 5 — Per il diavolo, — aggiunse il.Marsigliese a poppa ~ fra otto giorni dobbiamo essere gente libera! La vela comincié a gonfiarsi. Procedevamo pit veloci sul- fe onde crescenti. Io sonnecchiavo nel mio posto perché I’ec- citazione e i preparativi della notte mi avevano esaurito. Ma all’improvviso udii la voce di Marcello che gridava: — A-~ scoltate! Non é un tuono? Tutti ci ponemmo in ascolto, Di Jontano giungeva come un rotolio roco: — Non pud essere il tuono.... & troppo fisso, — osservd il Marsigliese. — E poi, — disse a bassa voce — si vedono le stelle. Ma Marcello non voleva ascoltare: — Si vede che ve ne intendete poco di mare — rispose. — Una tempesta potrebbe venirvi addosso e annegarvi mentre ancora guar- date le stelle! Siete stati troppo in gattabuia, voialtri! Il rumore andava aumentando sempre pit. Dopo un certo tempo perdette Ja tonalita della lontananza... rumoreggid pil vicino, sempre pil vicino e pid forte. I} veechio Poletti si alzé in piedi nella canoa ed escla- md: — Ecco i fluttil Cominciavamo ad ascoltare con ansia, ora. Il Marsigliese specialmente appariva fortemente preoccupato, e lo ero an- ch’io perché non avevo dubbio che il rumore stesse avvi- cinandosi. Il Marsigliese scosse bruscamente Basque che ancora era completamente steso sul fondo della canoa, gridando: — Avanti, prendi il remof II mare si fa brutto! Basque si lamentd che si sentiva troppo male. II Marsiglie- se allora lo scosse col piede, urlando eccitato: — Siamo in pericolo, Basque! Io non so nulla della manovra di una barca e tu, ti abbiamo portato con noi come marinaio, Prendi il remo del timone. Prendilo, ti dico! Basque si mise a sedere. Comincid a piagnucolare e mi imploré di perdonarlo. Non ne sapeva nulla di navigazione, mi disse. Confessd che si era dato per uomo di mare solo 76 GHIGLIOTTINA SECCA per farsi prendere con noi, non avendo danaro da contri- buire per la sua parte. — Non ho mai guidato una barca! — gridd. — Ho mentito! La terribile gravita della nostra situazione ci apparve in piena luce, L’uomo non aveva ancora finito le sue scuse che un gran vento sopraggiunse trasportandoci rapidamente fin- ché una grossa ondata si precipitd all’improvviso su di noi da entrambi i lati della barca. I] Marsigliese urls da poppa. La canoa taglid l’onda come un coltello ¢ la parte anteriore picchid sull’acqua con uno schiaffo tremendo. Fu la salvez- za di Basque; non c’era ora tempo di pensare a Sui. La ca- noa era piena d’acqua. Il polso di Marcello si era slogato al primo urto. Dovevamo afferrare tutto cid che ci veniva a portata. di mano e vuotare |’acqua rapidamente, — Ci siamo oral — strillé il vecchio Poletti. — Ci get- teranno sulle roccie... i marosi colla marea vanno a frangersi fra questi bassifondi... non ci siamo allontanati abbastanza! Proprio allora un secondo flutto pit alto del primo si precipitd su di noi. Il bordo della canoa era quasi a livello dell’acqua. Era un vero caso che non si fosse spezzata quan- do la grande massa di acqua fischiando sinistramente su di noi nella notte la colpi con un colpo secchissimo. Fortuna- tamente le ondate erano separate luna dall’altra da lunghi intervalli tranquilli in cui si poteva vuotare la canoa parzial- mente dell’acqua; lo facevamo silenziosamente e frenetica- mente mentre il Marsigliese co) remo stretto in pugno ci portava sempre avanti. Presto un’altra montagna d’acqua ci si precipitS sulla schiena, La canoa ebbe un rapido guizzo e si rizzO in aria. Pensai che era finita. L’albero venne strappato ¢ la vela ci cadde addosso mentre eravamo occupati a vuotare la canoa dall’acqua. — Affondiamo! — gridd Marcello. Gridando dalla disperazione tiravamo disperatamente la vela quasi gettandoci in acqua nello sforzo di districarcene prima che arrivasse un altro maroso. CAPITOLO VIIT 77 Il Marsigliese urlava qualcosa dalla poppa fra una terri- bile confusione. Proprio allora, mentre stavo preparandomi per una nuova ondata, sentii il Marsigliese gridare: — Abbiamo passato la zona dei flutti, credo; gettate via l’acqua, gettatela via tutta! Passarono minuti, sembrava un’eternita. Ma di onde non se ne vedevano pit nella notte. La canoa sciacquava queta- mente nell’acqua tranquilla. — Ce la siamo cavata per miracolo, — disse Marcel- lo. — E tutto per quell’imbecille! — disse tirando un cal- cio con un’imprecazione al corpo prono di Basque. Anche i] timone era stato strappato, ¢ ormai non avevamo né timone né vela né albero! La nostra provvista di acqua era rovinata perché vi era penetrata acqua di mare. E ave- vamo perso quasi tutti i viveri! C’era una brezza leggera e, togliendoci le camicie, le at- taccammo a due remi a mo’ di vele di fortuna. La canoa procedeva nel silenzio e non erano passate ancora nove ore dacché avevamo lasciato il campo. Lentamente spuntd I’alba e poi il sole apparve dorato sul- Yorizzonte. Vedemmo la linea della giungla a poche mi- glia di distanza, 1] vento era con noi e puntammo diretta- mente su di essa. Non c’erano pit onde, il che era dovuto, credo, a fortunate condizioni di vento e di marea. La canoa faceva acqua abbondantemente e noi la tiram- mo sconfortati su una spiaggia fangosa. Non appena messo piede sulla sabbia il Marsigliese disse a Basque: — Non ho voglia di accopparti, ma qualcuno ce I’avrebbe sicuro, — Lo guardd freddamente per qualche minuto e poi gli indicd gli alberi: — Vattene prima che sia troppo tardi — aggiun- se togliendosi i] suo lungo coltello dalla cintura dei panta- loni. Credo che gli altri avrebbero perdonato Basque e !’avreb- bero lasciato stare con noi, ma noi eravamo assai depres- sie non dicemmo nulla. Basque guardé il coltello minac- cioso e poi senza parola se ne andd via lentamente con la 72 GHIGLIOTTINA SECCA testa curva ¢ spari nella giungla litoranea. Senza un com- mento ci mettemmo a pensare ai fatti nostri. Guardammo quello che ancora ci restava: escluso un pe- sante sacco di scatole di latte condensato praticamente tutto era stato trascinato via dall’acqua. C’era un poco di tapioca, ma tutta impregnata d’acqua; la mettemmo a seccare perché, sebbene fortemente presa dal sale, la si poteva ancora man- giare. Comprendemmo che non si sarebbe pit potuto continuare la nostra fuga per mare. Nessuno di noi sapeva dirigere una barca e la canoa sembrava troppo rovinata. La sua poppa era stata spezzata e non si aveva mezzo di ripararla o di farle comunque riprendere il mare. Saremmo rimasti sulla spiaggia fino alla mattina seguente € poi ci saremmo messi in cammino per Paramaribo attra- verso alla giungla; in seguito ci saremmo procurati un’altra barca ¢ le prowviste necessarie per proseguire per il Vene- zuela. Ci dividemmo i viveri che ancora ci restavano, Poi ci stendemmo sulla sabbia a dormire. Il mattino seguente proprio mentre ci preparavamo alla partenza, con grande nostra sorpresa vedemmo Basque venir fuori dagli alberi verso di noi. Si fermd a una quindicina di passi dicendoci: — Qui non c’é che savana; non posso ca- varmela! \\ Marsigliese guardd Marcello, e in quello sguardo lessi la condanna a morte di Basque; poi si alzd e andd verso Basque. Questi sembrava impietrito. Probabilmente sapeva che era giunta l’ora della sua morte, ma era troppo debole per la febbre e la paura per tentare di scappare. A mezzo metro da lui il Marsigliese stava ancora fissando chi, passandosi per abile marinaio, aveva rovinato tutte le nostre speranze ¢ i nostri disegni.Ci fu un momento di im- mobilita mentre i due si fissavano. Poi, con un’imprecazione, il Marsigliese balzd e colpi. Si CAPITOLO VIII 79 ud un grido acutissimo ¢ Basque stramazzé a terra. Poi il Marsigliese, come se nulla fosse, ne prese il corpo per i tal- loni ¢ lo trascind al limite dell’acqua dove Ja marea l’avreb- be preso ¢ abbandonato ai pescicani. Eravamo a due giorni di distanza dalla colonia penale ¢ gia era ayvenuto un delitto! Tuttavia per uomini della tem- pra del mio compagno non era un assassinio ma un’esecu- zione, Basque non aveva esitato a mettere in gioco la vita di otto uomini per il suo interesse. Ed anch’io non posso fare a meno di pensare che Ja sua sorte fosse meritata. Quel giorno proseguimmo a piedi, tenendoci pid vicino possibile alla linea costiera. Ma a diverse riprese dovemmo penetrare per parecchie centinaia di metri nella foresta fan- gosa perché paludi di mangrovie ci impedivano di seguire il limite delle acque. Proprio come ci aveva detto Basque, dovunque c’erano paludi. Dovevamo diguazzare nell’acqua e nel fango e quan- do incappavamo nelle grosse ed intricate radici delle man- grovie il volto ci si insanguinava tutto per i continui morsi delle mosche di palude. Camminammo per tutto il giorno. Ci facemmo un riparo per la notte contro un molle rilievo di terreno. Si mise a piovere e non potemmo fare un fuoco, e le zanzare, non allontanate dal fumo, cominciarono a tor- mentarci. Con grosse manate di fango ci spalmammo la fac- cia, il collo, le braccia, le mani ¢ i piedi, ma non serviva a molto ¢ il fango aveva un odore cos! cattivo che non mi riuscd di dormire, Appena spuntd l’alba ci rimettemmo in cammino, Era- vamo sfiniti ma contenti di lasciare un luogo cost infausto. Verso mezzogiorno vedemmo il mare davanti a noi e allora piegammo ad angolo acuto verso la sinistra, verso l’interno, credevamo. . Dopo un’ora o poco pitt eccoci di nuovo davanti al mare! Roberto ed io, che eravamo piccoli e leggeri, ci arrampi- cammo sulla cima di una mangrovia per esplorare ¢ scoprim- mo che stavamo andando lungo il fianco di una grande ¢ 80 GHIGLIOTTINA SECCA piatta penisola che si protendeva nel mare. Per attraversarla era necessario lottare per miglia di terreno fangoso e di in- trichi di radici di mangrovie. Cosi dovemmo ritornare sui nostri passi. Invano avevamo faticato nelle paludi; il ritorno fu altrettanto duro dell’andata e la notte seguente giungemmo in misero stato dove ave- vamo passato la nostra prima notte e dove c’era la nostra canoa inutilizzabile. Delle sue legna facemmo un fuoco che distogliesse gli insetti. Guardai sul mare ma il corpo di Ba- sque non si vedeva pid. Il mattino seguente dopo lunghe discussioni decidemmo di ritornare alla Guiana Francese il pil presto possibile. Potra sembrare pazzesco, ma non si poteva fare altro; i viveri erano quasi esauriti ¢ non avevamo mezzo di procu- rarcene altri. In qualunque altra direzione fossimo andati avremmo dovuto attraversare vasti terreni paludosi e lunghi tratti di giungla e nella giungla non si deve credere che si possa trovare nutrimento a volonta. Senza un fucile o sarem- mo morti di fame o ci saremmo avvelenati mangiando quel- lo che trovavamo. D’altro lato il Maroni non si trovava a pit di una cinquantina di chilometri ed eravamo sicuri di aver viveri e le forze sufficienti a raggiungerlo. E poi avrem- mo cacciato farfalle per parecchi mesi e vendendone le ali ci saremmo procurati il denaro per una nuova fuga. Ave- vamo amici fidati nei diversi campi € contavamo su di loro per nasconderci. Cosi ci dirigemmo verso I’est, sperando di raggiungere il Maroni la notte seguente. Il proseguire si faceva pid agevole perché dopo aver pas- sato un breve tratto di palude, sbucammo dal fango e dalle mangrovie in un terreno pit elevato e cominciammo ad an- dare diretti attraverso alla giungla. Marcello e il Marsiglie- se erano davanti a tagliare con i coltellacci un sentiero nel- la vegetazione. Io li seguivo con tre altri e a breve distan- za si trovavano Gypsy ¢ Roberto. I] cammino era difficile perché la regione era rotta ed ineguale. Dovevamo arram- UN CAMPO NELLA GIUNGLA CAPITOLO VIIL 81 picarci su tratti di roccie coperte di muschio lubrico o in- contravamo grandi macchie di bambi che dovevamo aggi- rare o che ci costringevano a farci strada penosamente. Gypsy aveva perduto in guerra una gamba e ce n’aveva una di legno, il che lo attardava considerevolmente; cadeva spesso sulle roccie e trovava difficile curvarsi per evitare le liane. Roberto, che era pit piccolo ancora di me, e Gypsy erano amici gid da lungo tempo ed ora ancora pid uniti dalla comune invalidita, camminavano alla retroguardia aiu- tandosi in caso di bisogno. Per tutto il giorno ci spingemmo per la giungla intricata, scambiandoci il turno ai coltelli quando Marcello ¢ il Mar- sigliese erano stanchi. Gypsy e il suo sparuto collega ne era- no dispensati perché ci facevano impazientire con la loro lentezza. Arrivammo di sera ad un fiume nelle cui vicinanze per- nottammo. Mangiammo accanto al fuoco qualche boccone di tapioca e sorbimmo un po’ di latte condensato. Il Marsi- gliese era riuscito a prendere una piccola tartaruga. Per gen- te che aveva lottato per tutta la giornata era troppo poco € dovemmo dormire affamati ed esausti. Marcello e il Marsi- gliese, tarchiato anche lui, soffrirono pit di tutti: erano ve- ramente ridotti agli estremi dalla fame. Non avevamo po- tuto mangiare come si deve dal giorno in cui avevamo la- sciato Nouveau Camp, ed eravamo partiti con provviste ben poco abbondanti. I] mattino seguente di buon’ora ci rimettemmo in cam- mino nella giungla. Eravamo su un terreno pit elevato, ora, ea tratti il cammino si faceva agevole. In molti punti c’era poco sottobosco e i vecchi alberi torreggianti che si alzavano ad altezze incredibili ci proteggevano col loro fogliame dal sole. Sopra la testa ci penzolavano muschi e piante parasite. Allora si poteva camminare con relativa facilitd e si adope- ravano poco i coltelli, ma cera un gran numero di cespugli le cui foglie ampie ed orlate di spine ci facevano sanguinare le gambe ¢ i talloni quando ci arrischiavamo a procedere in 6 - Ghighottina 82 GHIGLIOTTINA SECCA mezzo a loro. Tentammo parecchie volte di cogliere qual- che uccello o di abbattere a colpi di bastone gli iguana ma senza successo. A mezzogiorno non avevamo nulla da mangiare e bever- mo un poco pit di latte condensato. Nel tardo pomeriggio raggiungemmo un fiume di una certa ampiezza e decidemmo di passare la notte presso la sua - riva dove il terreno era un po’ meno umido che sotto gli alberi. . Gypsy ¢ Roberto non giungevano ancora. Cercammo di determinare insieme dove ci trovassimo e convenimmo che non dovevamo aver coperto nemmeno Ia meta della distanza che ci separava dal Maroni, cosa scoraggiante, stanchi ¢ af- famati come ci trovavamo. Ci accordammo di partire al le- var del sole e di dirigerci ad est pit rapidamente possibile, perché si trattava solo di raggiungere il Maroni e poi sa- rebbe stato facile trovare un villaggio indiano e procurarci cibo ¢ una canoa; avevamo denaro e sapevamo che pagando avremmo potuto ottenere dagli Indiani del Maroni tutto quello che volevamo. E poco dopo ecco sbucare Gypsy dal sentiero, Era solo. — E Roberto? — gli chiedemmo quando ci raggiunse strascicando. Roberto — disse — era rimasto indietro perché si sentiva male. Fra non molto sarebbe arrivato. Passd un’ora ¢ Roberto non arrivava. Lo chiamammo nel- la giungla, ma non ci venne risposta. Allora il Marsigliese decise di andare a vedere che cosa fosse successo. Scomparve pel sentiero gridando: — Roberto, Roberto!... — con tutta Ja sua voce. Tornd indietro sul nostro cammino per quasi un miglio. E stava per desistere quando un mucchio di rami tagliati sul- l’orlo del sentiero attirs la sua attenzione. Ebbe un subito sospetto € ci si avvicind. 1! corpo di Roberto era sotto ai rami, ancora caldo! Aveva la faccia tutta insanguinata e, rivoltan- dolo, vide che Ja nuca era stata spezzata da un colpo terribi- CAPITOLO VIIL 83 le; si ricordd allora del pesante bastone che Gypsy adoperava per aiutarsi a camminare. Vicino c’era la borsa dei viveri di Roberto, Era vuota. Gypsy aveva assassinato il suo piccolo amico e compagno per pochi bocconi di tapioca e di latte! Il Marsigliese era un individuo duramente temprato. Tor- nd al campo e ci disse che non aveva trovato traccia di Ro- berto. Ma, senza farsi scorgere da noi, prese Marcello in disparte e gli riveld tutto. I due uomini erano molto amici, uniti dalla loro robustezza fisica. Noialtri_ parlammo della scomparsa di Roberto facendo varie congetture. Alcuni pensarono che forse aveva finito coll’andare in direzione opposta; certamente avrebbe scoperto il suo errore € prima o dopo ci avrebbe raggiunto. Altri teme- vano che fosse caduto vittima di un giaguaro. Gypsy restava nel frattempo appoggiato ad un albero posando sulla sua gamba di legno. Non parlava molto, ma cid si attribuiva al dolore per la perdita dell’amico. Io addirittura tentai di con- solarlo. Vidi che i suoi occhi seguivano ostinatamente il Mar- sigliese, e ogni volta che questi si avvicinava, Gypsy gli chie- deva con aria ingenua che cosa potesse essere avvenuto a Ro- berto: — Era il mio amico! — Gypsy quasi urlava: — Era il mio buon amico! — Ma l’altro non gli rispondeva. Era molto taciturno ¢ si dava da fare per preparare il campo prima che facesse scuro. Tagliava foglie di palma per proteggerci dalla pioggia € girava attorno col suo coltellaccio, avvicinandosi sempre pid al luogo dove si trovava Gypsy. Improvvisamente passd dictro l’albero di Gypsy e questi, ancora sospettoso, perché doveva essersi chiesto se il Marsi- gliese non avesse visto il corpo mutilato di Roberto, dato che non l’aveva nascosto bene, non avendo preveduto che qual- cuno di noi sarebbe andato a cercare l’assente, gird la testa per vedere quello che l’altro faceva. Allora Marcello balzd su di lui e gli piantd un lungo coltello giusto nel cuore! Gypsy crolld a terra: — Mi hai preso, Marcello! — ansd — prenditi la mia roba da mangiare... — I] suo ultimo 84 GHIGLIOTTINA SECCA pensiero fu che era stato assassinato per la medesima ragio- ne per la quale egli stesso aveva ucciso il suo amico miglio- re: il cibo! Tutti noi assistemmo a questa scena improvvisa nel pid completo sbalordimento. Mentre Marcello asciugava il san- gue dal coltello, il Marsigliese ci raccontd quello che aveva visto sul sentiero, Guardammo nel sacco di Gypsy; c’era la scatola di latte che il piccolo Roberto aveva conservato cost disperatamente per l’ultimo giorno. E poi segui una scena orrenda, che, dopo tant’anni, an- cora ricordo in ogni particolare. I mici compagni erano tutti bruti grossi e rozzi, demo- ralizzati dalla yita che avevano dovuto condurre per cosi tanto tempo in questo inferno e dalle primitive necessita del momento. Erano affamati in un modo estremo e non sapevano né dove fossero né quando avrebbero potuto pro- curarsi da mangiare. Io ero l’unico che non patisse cosi tanto per la fame, forse per il mio fisico minuto. La proposta venne da Dédé, fratello di Marcelio: — Do- vremmo arrostirgli il piede — disse. I] Marsigliese appro- vd: — Non era che una bestia, ¢ le bestie si possono man- giare! — Gli altri annuirono, Non mi unii loro nello squar- tare il corpo di Gypsy; non mi sentivo né il cuore né lo stomaco per questo. Mezz’ora dopo il fegato di Gypsy infi- lato su di un bastone, arrostiva al fuoco, che per colmo d’iro- nia era stato ravvivato con la sua gamba di legno. — Lo si direbbe del cinghiale, —- disse Marcello, che fu il primo ad assaggiare la carne. E poi si misero a mangiare... In una tale situazione, fra uomini di un simile tipo la vita @ in pericolo se non ci si uniforma a loro. Sebbene non fossi tormentato tanto dalla fame, non avevo alcun desiderio di espormi al loro disprezzo e al loro odio. Percid — indotto anche da una certa curiositi — assaggiai un poco di carne umana, Avevo ancora un pezzo di tapioca e una scatola di latte ma dovevo fare come cssi facevano, o altrimenti sarei CAPITOLO VIII 85 incorso nel loro sfavore € avrei messo in gioco la mia vita. Nessuno sapeva che cosa riserbasse il futuro e non potevo permettermi di rendermi inviso perché in caso di necessita sarei stato il primo a essere sacrificato. Il corpo di Gypsy era stato lasciato a pochi metri dal fuoco. Ma Dédé, individuo degenere e spregevole, and6 ver- so di esso dicendo che |’avrebbe squartato. Presto tornd nel cerchio di luce del fuoco e, piegandosi verso i carboni, pose due delle scatole di latte sulle ceneri calde. — Cosa diavolo fai? — chiese Marcello. — E il sangue, é meglio seccarlo e portarlo con noi — ri- spose Dédé. — Domani avremo ancora fame. Pid tardi ci stendemmo, esauriti dalla lotta del giorno per cercare di dormire un poco. Quella sera nessuno parld; nem- meno il pid cinico di noi, credo, poteva distogliere la mente dai terribili avvenimenti del giorno, Tre corpi si trovavano oramai sul cammino della nostra fuga. Passarono due giorni. Era mattino e ancora marciavamo per la giungla, col sole alla nostra destra. Il pomeriggio pre- cedente era piovuto e noi ci eravamo portati avanti lo stesso in qualche modo, Eravamo tagliati, sanguinanti e con le ferite in suppurazione. I] Marsigliese zoppicava malamente. Avevamo tagliata la coscia di Gypsy e ognuno di noi por- tava nel sacco un pezzo di carne umana. La carne comin- ciava a decomporsi nell’umido calore della giungla e a volte una zaffata rivoltante ci veniva da chi si trovava davanti a noi. Ma nessuno osava suggerire di buttar via cid che ave- vamo con noi, tanto la paura della fame ci aveva reso di- sperati ¢ abbrutiti. Improwvisamente vedemmo nel fango impronte di piedi umani. Seguimmo la traccia e presto arrivammo ad un villaggio indiano — finalmente la riva del Maroni! Gli uomini del villaggio erano assenti. Nelle case dai tetti

Potrebbero piacerti anche