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RAMON E GLI ALTRI

Viaggio nel mondo delle carceri italiane LA STORIA DI PATTY E DI RAMON di Francesco Barilli e Francesca Frizzi Maniglio Genova, 28 dicembre 2003 intervista a Patricia Retamal Domanda: Vorrei che fossi tu a fare lintroduzione a questa intervista, dicendo in breve chi sei e perch sei qui in Italia. Patty: Mi chiamo Patricia Retamal. Sono arrivata in Italia lo scorso 14 novembre, per mio figlio Ramon. Pochi giorni prima mi avevano avvertito che era in coma e ne avevano gi dichiarato la morte cerebrale. Ramon aveva tentato il suicidio il 28 ottobre, mentre era in carcere; era gi morto il 13 novembre, mentre stavo arrivando in Italia. Domanda: Quando e per quale reato era stato arrestato tuo figlio Ramon? Patty: E stato arrestato nellagosto 2001 per furto dauto. Lo hanno condannato a tre anni. Viveva a Genova e lo hanno incarcerato allistituto penitenziario di Marassi; dopo pochi mesi fu trasferito al carcere di Iglesias, in Sardegna, dove si ucciso. Domanda: Quali erano le sue condizioni a Marassi? Sei riuscito a sentirlo, in quel periodo? Patty: S, lui mi scrisse. Disse che stava male, che cominciava ad avere problemi di salute Gi a Marassi aveva tentato per due volte il suicidio con il gas; aveva inalato il gas della bombola per la cucina Mio figlio stava male, ma invece di curarlo lo hanno trasferito ad Iglesias Domanda: C per unaltra cosa di cui tu mi hai parlato tempo fa: a tuo figlio, mi dicesti, in carcere era stata diagnosticata lepilessia e prendeva delle medicine per quello. Aveva mai mostrato dei sintomi, in precedenza? E questo tipo di informazioni sul suo stato di salute ti arrivarono solo da lui o anche da personale medico del carcere? Patty: Non aveva mai mostrato sintomi di epilessia; io ho il ricordo di mio figlio come di un ragazzo pieno di vita Che gli avessero diagnosticato lepilessia e che gli dessero dei farmaci per quello lho saputo sempre e solo da lui, dalle sue lettere. Certo, fui sorpresa del fatto che il personale dellospedale dove mio figlio era morto dicesse invece che Ramon non era epilettico Domanda:

Tu mi hai detto che ad un certo punto tuo figlio, dopo aver tentato il suicidio per due volte, da Marassi fu trasferito al carcere di Iglesias. Ad Iglesias come cambiano, se cambiano, le sue condizioni, sia dal punto di vista della salute che dal punto di vista del suo morale? Patty: Lui diceva che l non veniva curato. Che loro non si preoccupavano del fatto che stava male. Tornando ai nostri contatti, mio figlio mi scrisse una lettera firmandosi con un nome falso (Michael Chavez), quando ancora era in carcere a Marassi. Io risposi intestando la lettera al nome corretto (Ramon Carrasco Retamal) ma la lettera mi torn indietro perch a Marassi non risultava alcun detenuto con quel nome. In seguito lui mi rispose Mamma, perch mi hai scritto con quel nome?!. Allora io gli ho risposto seguendo le sue indicazioni Per questa una cosa che non ho mai capito, perch lui avesse deciso di dare un nome falso Lui mi disse che in parte era perch non aveva il passaporto, e soprattutto perch non voleva che il suo vero nome venisse infangato, compromesso da questa storia. Uscito dal carcere avrebbe voluto rifarsi una vita, con il suo vero nome pulito. Provai ancora ad insistere Per piacere, figlio mio, d a quelli del carcere quale il tuo vero nome! Perch devi mentire su questo? Lui mi rispose di lasciarlo in pace e di non intromettermi; mi disse che ero sempre preoccupata solo per la storia di quel nome Io volevo andare al Consolato, quando venni a sapere che Ramon era malato, ma mio figlio mi scrisse in una lettera di non andare al Consolato, perch forse sarebbe stato rimpatriato in Cile. Domanda: Nelle sue lettere cosa ti raccontava della sua vita in carcere? Tu quante volte sei riuscito a contattarlo, e come? Tramite lettere o ci furono anche telefonate? Patty: Telefonate no, mai. Non aveva il permesso per telefonare a casa. Sulle sue condizioni, fu proprio in una lettera che mi disse di essere sempre pi depresso e che a Marassi aveva tentato per due volte di uccidersi, con il gas. Risposi a quella lettera implorandolo di non fare altre sciocchezze, dicendogli che a casa lo pensavamo sempre e che lo aspettavamo Dopo tre mesi lo mandarono in Sardegna, per scontare il resto della pena. Dopo altri sette mesi fu riportato a Genova, per il processo dappello; mio figlio sperava di ottenere i domiciliari o di poter scontare la restante pena in Cile, ma la risposta fu negativa. Ricordo che mio figlio mi raccont che in quel breve periodo di ritorno a Marassi le guardie lo tenevano sotto controllo costantemente, perch l aveva tentato due volte il suicidio; e che a Marassi non lo volevano, probabilmente proprio perch l aveva gi tentato di ammazzarsi. Domanda: Sempre riguardo ad eventuali differenze fra Marassi ed Iglesias: In Sardegna cambia la situazione, riguardo ai vostri contatti? Riesci a telefonargli? Patty: No, anche in Sardegna le telefonate sono impossibili, ma proseguono le lettere. Domanda: Lui ti dice qualcosa sulle sue condizioni? Ti parla ancora dei suoi propositi di suicidio? Patty:

S. C una lettera, che in questo momento non ho ( in mano allavvocato). In quella lettera dice che vuole suicidarsi e che disperato perch dopo lappello non lo hanno rimandato in Cile; che gli mancano le forze e che continua a cadere a terra. Domanda: Una domanda purtroppo dolorosa ma inevitabile: come hai saputo del suicidio di Ramon, e cosa hai potuto ricostruire dei suoi ultimi giorni? Patty: Un mese prima della sua morte mi scrisse una lettera; diceva che era molto triste e che avrebbe voluto vedere la sua famiglia. Che non ce la faceva pi, che non aveva pi forze Per mi diceva di non piangere, che sapeva che continuavo a piangere, ma che prima o poi sarebbe riuscito a tornare da me, in Cile. Mi diceva che sentiva che stava diventando pazzo; che cominciava a parlare da solo, a sognare morti che gli venivano a parlare, a sognare di morte Che era sempre solo, perch il suo compagno di cella (un altro cileno) lavorava in carcere, ed aveva degli orari per cui non lo vedeva mai In quella cella solo due persone! Non so perch non labbiano portato in una cella con altre persone, o in infermeria Non lhanno aiutato, hanno aspettato che sammazzasse Mio figlio ormai non era pi lucido, si sentiva. Diceva che non riusciva pi a chiudere le palpebre Non so, io penso che ormai fosse la sua immaginazione malata a fargli credere certe cose Domanda: Tu hai detto che tuo figlio stesso sentiva che la sua salute mentale era a rischio. In un altro momento mhai raccontato che ad Iglesias furono le stesse guardie carcerarie a bollarlo come il pazzo, che ridevano di lui Vorrei che fossi tu a raccontare questo aspetto della storia di Ramon. Patty: S, mio figlio mi scrisse in unaltra lettera che la polizia carceraria era inumana. Lo chiamavano il pazzo, e per questo lui non voleva pi uscire dalla cella (neanche in corridoio), perch tutti ridevano di lui, e questo non lo sopportava Quando era gi morto ho conosciuto un signore, un barista di quelle parti, che mi disse che le guardie, l, si ubriacano in continuazione; che chiedevano ai carcerati di procurargli foto pornografiche o foto delle loro fidanzate nude in cambio di sigarette o vino Domanda: Tornando agli ultimi momenti di Ramon: mi racconti come e quando sei venuta a sapere del suicidio? Patty: Mio figlio ha tentato il suicidio alluna di pomeriggio del 28 ottobre scorso. Io lho saputo 10 giorni dopo. Mi telefon mio fratello, che vive in Italia. Cerca di stare tranquilla ho una brutta notizia Tuo figlio si impiccato. E in coma e ne hanno gi dichiarato la morte cerebrale. Fu mio fratello a dirmi che era successo dieci giorni prima. Io non riuscivo a crederci, e non riuscivo a capire perch fosse passato cos tanto tempo. Al carcere non hanno avvisato nessuno, rispose mio fratello. Mi disse che avevano cercato Lisa, la convivente di Ramon: i carabinieri le avevano mandato un telegramma lotto novembre, dicendole che doveva contattare con urgenza il carcere di Iglesias, ma senza dare altre spiegazioni.

Domanda: E lavvocato di Ramon? Anche a lui non furono date notizie in quei primi dieci giorni? Patty: No, neanche lavvocato Tambuscio sapeva nulla. La prima notizia arriv lotto di novembre con quel telegramma La ragazza di Ramon chiam subito il carcere di Iglesias, per chiedere notizie, ma le dissero che Ramon non era pi l, e di chiamare subito lospedale. Quando seppe che Ramon era gi in coma anche Lisa era disperata, e si domand perch nessuno le avesse detto niente, prima. Domanda: Sembra tutto assurdo ed ingiustificabile, ma lamministrazione penitenziaria come spiega quel ritardo? Patty: Lo giustifica sempre col fatto che Ramon aveva dato false generalit. In carcere per avevano sicuramente un registro della corrispondenza dei detenuti; avevano ben presenti gli indirizzi di chi aveva scritto a Ramon, era impossibile che non sapessero chi avvisare, indipendentemente dal fatto che Ramon fosse registrato sotto falso nome. Le guardie avevano di sicuro gli indirizzi e i numeri di telefono miei, di Lisa e dellavvocato di Ramon. Domanda: Tu quando arrivi in Italia? Patty: il 12 novembre, dopo aver raccolto i soldi necessari per il biglietto aereo, sono partita da Talcahuano per Nizza. Io arrivo a Nizza e poi ad Imperia, ma perdo la coincidenza per Genova. Il 13 novembre Ramon muore in ospedale Il 14 arrivo a Genova e vengo a sapere che Ramon non c pi Domanda: Sei mai riuscita a parlare con personale del carcere? Patty: Ho parlato con la signora Caterina, unassistente carceraria. Fu lei a venire a prendermi allaeroporto. Mi disse in maniera sbrigativa che dovevo dare lautorizzazione per cremare il corpo. Io non capii subito cosa intendesse. Caterina mi spieg che per mandare il corpo in Cile ci volevano molti soldi, e che era molto pi conveniente farlo cremare. Mi disse che se autorizzavo subito la cremazione ci potevano pensare loro alle spese per un funerale dignitoso. Io gli risposi che di un funerale dignitoso non mimportava nulla! Quello che volevo sapere era come era morto mio figlio Caterina mi rispose che di spiegazioni ne avevano date gi abbastanza; che il carcere non aveva nessuna colpa, e che il Magistrato aveva gi archiviato linchiesta perch era tutto chiaro, si era trattato di un normale suicidio Domanda: Tu hai sentito il Magistrato in quei giorni? Direttamente o tramite lavvocato Tambuscio? Patty: No. E anche Tambuscio seppe della morte di Ramon con grande ritardo. Quando lo

sentii mi fece le condoglianze e mi offr tutto il suo aiuto, e mi conferm che anche lui non era stato avvertito tempestivamente del gesto di Ramon. Domanda: Tornando a Caterina, che ti d queste spiegazioni molto generiche. Ti dice che linchiesta gi archiviata: quindi tu ora sei gi in possesso degli effetti personali di tuo figlio? Patty: No, al momento non ho nulla; tutto ancora in mano al Magistrato. Quando parlai con Caterina e le dissi che volevo parlare col giudice mi rispose che non era importante, che il caso era gi chiuso. Un avvocato in Sardegna, in contatto con Tambuscio che di Genova, gli disse per che il caso NON ERA CHIUSO Che se avevano detto cos a me era solo perch io non insistessi con altre richieste. Penso che questo sia stato fatto per difendere lamministrazione del carcere, per evitargli problemi Domanda: Mi viene spontanea una domanda: pur essendo ignorante in queste procedure, se un caso di suicidio attiva linteresse di un Magistrato penso che la prima cosa da fare sia lautopsia Tu per mi dicevi che non stata disposta lautopsia Patty: S, anche a me sembrava naturale. Sono anche queste risposte che mi attendevo: se mio figlio prendeva delle pastiglie, se queste possono avere influito sulla sua salute, fisica e mentale Ma cosa successo a Ramon nessuno me lo vuole dire. Alle mie richieste stato risposto sempre e solo no, non si pu fare No, lautopsia non si pu fare perch non ci sono fondati motivi; no, avere le lettere e gli effetti personali di mio figlio non possibile, perch il Magistrato ad avere tutto Domanda: Ci sono altre cose che ti senti di dire rispetto a quella che stata la tua accoglienza, per cos dire, in Italia? Patty: Sono stata ospitata presso la Caritas per quattro giorni. Dopo quei quattro giorni Caterina mi disse che non potevano pi ospitarmi, che tanto non cera niente da fare per mio figlio, se non firmare per la cremazione e andarmene... Io mi misi a piangere. Volevo restare l, non mi rassegnavo. Volevo vedere chiaro in quello che era successo Ma Caterina mi ha ripetuto che l non potevo pi stare. Io mi domandavo il perch di quella insistenza. La Caritas non dovrebbe essere cos; la carit lo so anchio cos: la carit amore, non quello Lei mi disse che se proprio non volevo la cremazione, lunico aiuto che poteva darmi la Caritas era pagarmi la bara per portare il corpo in Cile Sarebbe triste se, dopo averlo detto, non facessero neppure quello Domanda: A me sembra molto importante il discorso dellisolamento in cui stato tenuto tuo figlio: il suicidio di Ramon mi sembra dipendere moltissimo dalle condizioni in cui vissuto in carcere. Ma vorrei che tu mi dicessi cosa significato PER TE vivere un anno e mezzo senza avere contatti con tuo figlio, e se hai mai riflettuto sul fatto che se anche tu fossi arrivata in Italia prima, quando era ancora vivo, probabilmente non avresti potuto vederlo Non potervi parlare, non potervi dare conforto reciproco, cosa significato per

te? Patty: Ricordo i primi tempi in cui Ramon era arrivato in Italia: mi telefonava in continuazione. Cercava di andare avanti in questo nuovo Paese, anche se diceva che non era facile trovare opportunit di lavoro in Italia, per quelli come lui che non avevano il permesso di soggiorno, e che non poteva neppure tornare a casa perch non aveva soldi per il biglietto aereo. Da quando entrato in carcere non ho pi potuto sentire la sua voce E questo mi mancava, molto Se a mio figlio fosse stata concessa la possibilit di telefonare anche dal carcere, sarebbe stato diverso; perch sentire la voce della tua famiglia molto importante. Con le lettere diverso: le lettere tardano dieci, quindici giorni Se lui mi avesse detto con la sua voce che era cos disperato da pensare al suicidio avrei potuto dirgli qualcosa per farlo desistere Avrei potuto dirgli almeno quanto gli volevo bene, forse sarebbe bastato Domanda: Vuoi dire qualcosa per finire questa intervista, lasciare un tuo messaggio a chi ci sta ascoltando? Patty: S. Vorrei dire qualcosa a quelli che comandano le carceri in Italia, a quelli che stanno attenti solo allordine nelle carceri; a quelli che lavorano in quellambiente: che devono pensare anche al lato affettivo dei detenuti. Vorrei dire a questi signori che anche loro hanno dei figli e i figli crescono, e noi non sappiamo a quali scelte li pu portare la vita. Io ho guardato il vostro modo di vivere, i vostri bambini, e so che siamo tutti uguali Io Ramon ricordo come lho allevato, lo ricordo come un ragazzo allegro e pieno di vita Io dico che la vita qualcosa che Dio ti d ed Dio che ti deve togliere. Ci sono le leggi, loro dicono Io dico che le leggi si possono cambiare: che chi ha il potere per cambiarle deve preoccuparsi anche della salute mentale dei detenuti, non solo di dar loro da mangiare tutti i giorni. Devono dare un aiuto anche psicologico a quei ragazzi, non solo rinchiuderli in una cella, con due persone, con una sola ora al giorno per uscire in cortile Perch adesso che successo a me io non trovo le parole per dire quanto mi fa male la morte di mio figlio Ora sono qui, in un paese straniero, senza soldi, e spero solo che qualcuno mi aiuti per lunica consolazione che mi rimasta: riportare il corpo di mio figlio in Cile. In una bara, ma riportarlo dalla sua famiglia, non lasciarlo qui Mi hanno detto di stare zitta, ma io non sto zitta, io voglio la verit. Perch so che l, in quel carcere dove morto mio figlio, si sono uccisi anche altri ragazzi, troppi L succede qualcosa di strano, e la giustizia non fa nulla. E allora voglio fare qualcosa io, non solo per mio figlio, ma anche per gli altri che si sono ammazzati, l *** Abbiamo scelto di aprire questa inchiesta con lintervista a Patty, madre di Ramon. Le sue parole ci sono sembrate la migliore introduzione possibile a questo nostro viaggio nel mondo delle carceri italiane, un viaggio che non ha la pretesa di mostrare un quadro esaustivo di quel mondo, ma il solo scopo di amplificare un grido di dolore e di allarme troppo sommesso e che fino ad oggi giunto ad orecchie distratte. Il caso di Ramon ci sembrato emblematico. Ne siamo venuti a conoscenza praticamente per caso: persino gli organi di controinformazione on line, sempre attenti e sensibili a queste tematiche, non ne hanno dato notizia; il suo nome non figura neppure tra le statistiche dei suicidi nelle carceri che un sito come www.ristretti.it (lodevolmente

impegnato da anni nel documentare le condizioni di vita nelle carceri italiane, e dal quale abbiamo attinto molte informazioni utili per la nostra ricerca) tiene costantemente aggiornate. E bene precisare che nelle nostre parole non c alcuna critica n ai siti di controinformazione n a ristretti.it (che anzi ringraziamo per la mole di dati a cui abbiamo potuto attingere per la nostra ricerca): il silenzio sulla vicenda di Ramon non da imputare certo a loro distrazione o superficialit. La verit molto pi complessa ed inquietante: il ragazzo cileno rappresenta un simbolo di quellumanit sommersa che affolla le nostre carceri; un mondo che resta troppo distante proprio da quella societ civile alla quale le carceri dovrebbero guardare con attenzione, nellottica di un futuro reinserimento dei detenuti. Che la nostra societ sia strutturata in classi una verit contestabile solo da chi sceglie di non vedere la realt quando scomoda. Che questa strutturazione si rifletta, in modo anche pi rigido, in un microcosmo quale il carcere appare altrettanto naturale Chiunque abbia il coraggio e la voglia di guardare a quel microcosmo lontano e scomodo pu dunque immaginare che anche nelle carceri esistono cittadini di serie A e di serie B. Ma se con quel coraggio e quella voglia riusciamo ad andare oltre la superficie del problema carceri ci accorgeremo che la stratificazione sociale va ben pi a fondo. Esiste una serie C di detenuti, e anche oltre Potremmo parlare, come nel caso di Ramon, di una sorta di desaparecidos allitaliana. Di uomini che in carcere non vengono privati della sola libert, ma pure dei diritti fondamentali che vanno garantiti ad ogni uomo in quanto soggetto di diritti, indipendentemente dalle colpe di cui si pu essere macchiato. Detenuti che vivono in uno stato di totale isolamento dal mondo e dai propri affetti, che possono ricevere visite o fare telefonate con estrema difficolt Se la retorica vorrebbe che il carcere abbia compiti non solamente punitivi, ma anche finalizzati al recupero ed al reinserimento dei soggetti nella societ, la realt appare molto diversa. Ed nostra opinione che la societ civile stia accettando supinamente, o addirittura approvando in modo strisciante, il giro di vite che negli ultimi anni si voluto dare al sistema carcerario italiano. Il clima di insicurezza e di precariet in cui viviamo, in gran parte alimentato ad arte dai media e da certe forze politiche, ci fa forse sembrare che il semplice e rigido isolamento di chi ha sbagliato sia un prezzo accettabile (o addirittura necessario) per ottenere maggiore sicurezza. Che poi questa riduzione dei diritti dei detenuti concretizzi davvero una maggiore sicurezza resta tutto da dimostrare. Sembra invece che quella riduzione dei diritti si traduca in unulteriore brutalizzazione dei detenuti, con conseguenti minori possibilit di futuro reinserimento degli stessi nella societ. *** IL CASO MARCELLO LONZI di Francesco Barilli L11 luglio 2003, al carcere Le Sughere di Livorno, moriva Marcello Lonzi, 29 anni, detenuto con ancora pochi mesi di pena da scontare. Secondo lautopsia la morte sarebbe avvenuta per cause naturali (infarto), ma quasi subito sono nati forti dubbi sulla versione ufficiale. Su denuncia della madre del detenuto, il PM Roberto Pennisi apr un fascicolo contro ignoti, per omicidio: la morte di Marcello sarebbe avvenuta, secondo la denuncia, in seguito ad un violento pestaggio, come evidenzierebbero pure le foto dellautopsia. In data 10 dicembre 2004 il GIP ha per accolto la richiesta di archiviazione presentata dal PM, escludendo ipotesi diverse dalle cause naturali per il decesso. Del caso Lonzi ci siamo gi occupati, pubblicando una lettera firmata da Sergio Segio

(Gruppo Abele di Milano), Patrizio Gonnella (Coordinatore nazionale di Antigone), Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti di Firenze), Ornella Favero (Ristretti Orizzonti). La trovate qui: http://www.ecomancina.com/lonzi.htm E con viva convinzione che aderiamo allappello finale di quella lettera, in cui si chiedeva la fattiva collaborazione dei media nel seguire una vicenda che, al di l del provvedimento di archiviazione, presenta molti aspetti a dir poco inquietanti. Forniamo il nostro contributo con unintervista a Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi. Pisa, 22 gennaio 2005 intervista a Maria Ciuffi Domanda: Quando fu arrestato Marcello, e per quale reato? Maria Ciuffi: Fu arrestato il 3 gennaio 2003, per tentato furto. Lo portarono in Questura, dove fu anche picchiato Tengo a precisare che su questo aspetto non mi sono mai soffermata pi di tanto: forse vero che al momento dellarresto aveva bevuto e che fece resistenza, per cui certe conseguenze possono essere comprensibili Ma il punto un altro, come ho gi detto altre volte ad altri giornali: mio figlio non era un santo, ma non doveva morire in carcere. Aveva preso una condanna per 8 mesi, aveva ancora pochissimo da scontare; presto sarebbe entrato in una comunit, ed aveva tutta la vita davanti Domanda: Dal 3 gennaio, momento dellarresto, fino al giorno della sua morte, tu riuscisti a vedere tuo figlio in carcere? Maria Ciuffi: No, mai. Domanda: Ma ti furono posti degli ostacoli alle visite o ci furono altri motivi? Maria Ciuffi: Ti dico la verit: allinizio io e Marcello ci scrivevamo spesso, ed era lui a non volere mie visite, temeva che io ne soffrissi troppo. Poi, dopo molte insistenze, fu lui a dirmi di andare; un giorno mi recai a Livorno, e trovai in attesa di una visita a mio figlio anche lo zio di Marcello e la sua compagna: ci dissero per che in quel momento mio figlio era a colloquio con la sua convivente. Provai ad insistere: io venivo da Pisa, la convivente era anche lei detenuta, per cui mi sembrava naturale che Marcello potesse vedere noi, mentre il colloquio con la convivente poteva avvenire in un momento successivo, ma il rifiuto degli addetti fu fermissimo; ricordo che ci fu anche un breve alterco con le guardie, a causa delle nostre insistenze. In sostanza non riuscii mai a vederlo: pochi giorni dopo quel tentativo di visita lui era morto. Domanda: Nelle lettere che ti aveva inviato cosa ti raccontava della sua vita in carcere? Maria Ciuffi: Mi scriveva che alle Sughere non si trovava bene; che aveva continue discussioni con le guardie carcerarie, che lo avevano gi messo diverse volte in isolamento.

Domanda: Ma questi alterchi con le guardie fino a dove arrivavano, stando alle sue lettere? Ti parl mai di maltrattamenti? Maria Ciuffi: Penso che i problemi fra lui e le guardie fossero caratteriali. Devi sapere che io glielo avevo sempre detto: Marcello, tu se vai in carcere ci muori. Lui aveva un carattere che non poteva sopportare la reclusione... Per quel che voglio dirti questo: per quanto ho potuto sapere in seguito da altri detenuti, Marcello non si era mai comportato male con le guardie. I problemi nascevano quando lui faceva delle richieste e il personale penitenziario gli negava le risposte, o gliele faceva sospirare. Ovviamente sto parlando di cose importanti, non di richieste banali; penso allorario delle terapie. Da quanto ho capito, per farti un esempio, loro se ne fregavano se tu dovevi prendere il metadone ad una data ora, e magari passavano con ore di ritardo Ed chiaro che in quel momento nasce la protesta del detenuto e la conseguente reazione delle guardie. Domanda: Veniamo ora, purtroppo, allaspetto pi doloroso: tuo figlio muore l11 luglio. Tu quando vieni avvertita? Maria Ciuffi: Il giorno dopo. Alle 13,20 circa. Domanda: E come venne giustificato o spiegato quel ritardo? Maria Ciuffi: Guarda, a dire il vero la cosa ancora pi terribile che io non fui avvertita ufficialmente DA NESSUNO, neppure al pomeriggio del giorno successivo Da me non vennero n carabinieri, n questura, n mi telefon il personale del penitenziario Io lo venni a sapere dalla zia di mio figlio. E anche lei fu avvertita verso le 10 del mattino successivo al decesso. Ti racconto un episodio che pu chiarirti ancora meglio il clima di quei momenti. Io conoscevo, gi prima della morte di Marcello, Maurizio Silvestri, giornalista di cronaca de Il Tirreno. Lui conosceva sia me che mio figlio, ma non sapeva che Marcello portava il cognome del padre (Lonzi) e non il mio (Ciuffi). Maurizio lo vidi il 12 luglio, e mi disse che gi dalle 22,00 del giorno precedente nella redazione del Tirreno circolava la voce che un ragazzo era morto in carcere; tanto vero che, prima di chiudere ledizione del giornale, avevano lasciato spazio su una pagina per inserire la notizia, e aspettavano la telefonata dal carcere, per avere dettagli. La telefonata arriv alle 23,20 e Silvestri si rec alle Sughere; nei primi momenti, mi disse, si parlava di un suicidio, poi di un infarto, e mi raccont che trov in corso una durissima protesta da parte dei detenuti della sesta sezione (cosa sempre smentita dal direttore del carcere). Quindi gi da quella sera il nome del ragazzo morto era di dominio pubblico (tanto vero che il mio amico giornalista mi avrebbe potuto avvertire, se solo avesse potuto collegare il cognome di Marcello a me). Ma nessuno pens di chiamare me o qualcuno della famiglia, fino al giorno dopo. E nessuno ha mai giustificato, neanche successivamente, quel ritardo; e questo nonostante io sia di Pisa e gli altri familiari addirittura di Livorno, vicino al carcere Domanda:

E tu ti sei fatta unidea sul perch di quel ritardo? Maria Ciuffi: Di cose, sulla morte di mio figlio, ne ho pensate tante, e ci torneremo in seguito Sul ritardo mi sono fatta questa idea: che lui sia addirittura morto prima, fra le 17 e le 18. Non potendolo portare fuori, hanno aspettato la sera, e tutti gli altri ritardi vengono di conseguenza. Io penso che Marcello quella sera non abbia neppure cenato. Infatti mi sono sempre chiesta perch abbiano rifiutato di eseguire gli esami tossicologici, nonostante avessero prelevato alcuni organi vitali proprio a quello scopo: malgrado una nostra esplicita richiesta di esecuzione, quegli esami non sono stati mai eseguiti, e gli organi prelevati sono sempre a Pisa, bench io abbia chiesto che mi siano resi. Domanda: Tornando allimmediatezza dei fatti: tu vieni a sapere della morte di Marcello; nei primi momenti si parla di suicidio, poi di decesso naturale. Come reagisci, in quelle ore? Maria Ciuffi: Mi precipitai subito da Pisa al carcere di Livorno. Lipotesi di suicidio, conoscendo mio figlio, mi sembrava totalmente irreale; e pure linfarto, in un ragazzo giovane e in salute, mi destava dubbi enormi. Era il pomeriggio del 12 luglio, quando arrivai alle Sughere; ricordo che mi lasciarono fuori in attesa per pi di unora. Io non mi intendevo affatto dei meccanismi o delle gerarchie del carcere; volevo parlare con qualcuno che mi spiegasse cosera accaduto, ma tutti si sottraevano alle mie richieste. Finalmente, verso le 14,30, mi portarono in direzione. Chiesi di vedere il corpo di mio figlio, ma mi risposero che non era possibile, perch il corpo si trovava gi allesterno del carcere e stavano facendo lautopsia Anche questa, a pensarci ora, una cosa molto strana: nessuno mi aveva avvisato, nessuno mi aveva detto che era mio diritto fare assistere allautopsia un medico di mia fiducia. Pi tardi mi dissero che dovevo essere io a pensarci. Ma come ci dovevo pensare?! In quel momento, dopo che neppure mi avevano avvertito?! Mio figlio riuscii a vederlo solo il giorno successivo, 13 luglio, composto nella bara. Il giorno dopo lo seppellirono. Domanda: Quando hai visto il corpo ti sono venuti subito i dubbi sulla versione ufficiale? Hai visto le ferite? Maria Ciuffi: Ti dir un particolare che mi rimasto impresso. Io ero fuori, in attesa che lo componessero nella bara. Uscirono dalla sala due addetti che lavevano vestito. In quellatrio non ero sola, per cui loro non fecero caso alla mia presenza: non potevano sapere che ero la madre di Marcello, e parlottavano fra loro; sentii che dicevano: hai visto che buco aveva nella testa, quello?. Quando mi avvicinai per chiedere spiegazioni se ne andarono subito, senza rispondermi. Un altro particolare tragico che ricordo che, quando lo vidi nella bara, aveva una striscia di sangue che emergeva sul petto, dalla camicia bianca; e non fui la sola a vederla, quella striscia di sangue Mi sembrava totalmente innaturale Per, per tornare al senso della tua domanda, a dirti il vero non pensai subito alle guardie. Allinizio pensai ad una lite con qualche detenuto. Il momento cruciale venne in seguito, quando venni in possesso del referto dellautopsia con relative foto; mostrai il tutto a Silvestri, il giornalista del Tirreno di cui ti ho parlato. Vedendo le foto lui me lo disse subito: cerano vere e proprie striature viola sulla pelle; quelli erano i segni di botte,

date con un manganello o con un bastone. In quei frangenti fui avvicinata anche dallavvocato di mio figlio. Nel suo ufficio mi disse chiaramente che Marcello era stato picchiato. Io gli chiesi se sapeva il nome dei detenuti che lavevano fatto. Lui mi guard stupito: Ma quali detenuti?!, mi disse, sono state le guardie, mentre era in isolamento. Aggiunse che a dargli quella notizia erano stati 4 suoi assistiti, detenuti nella sesta sezione, quella di Marcello, e che quei quattro erano disposti a parlare col Magistrato. Ma poi di quelle testimonianze non vidi pi nulla Domanda: C un momento in cui hai deciso di parlare tu con altri detenuti? Maria Ciuffi: Molti di loro vennero spontaneamente a cercarmi, quando uscivano dal carcere. Mi ha fatto piacere, certo, ma alla fine quando gli chiedevo di andare a dire le stesse cose al Magistrato si tiravano indietro. Se c una cosa che ho imparato dalla mia vicenda che lomert non solo, come si dice, una prerogativa del sud; a volte per menefreghismo, a volte per paura, ma lomert c anche qui da noi, eccome se c! Pensa anche allarchiviazione successiva: basata essenzialmente su quello che ha dichiarato il compagno di cella di Marcello. Lui disse che le guardie erano accorse subito, che era presente un medico e che Marcello fu prontamente soccorso Il punto che quella stessa persona, una volta uscita dal carcere, mi ha raccontato una versione ben diversa: mi disse che aveva dovuto urlare per pi di mezzora e praticargli lui la respirazione bocca a bocca, e che quando arrivarono le guardie non cera nessun medico Domanda: E a proposito dei maltrattamenti in generale al carcere Le Sughere cosa ti dicevano quei detenuti? Maria Ciuffi: Da quanto mhanno raccontato erano unabitudine. A volte avveniva per punizione, a volte in seguito a banali discussioni: qualche guardia magari aveva bevuto e alla prima discussione con un detenuto prendeva il malcapitato e lo portava via per pestarlo Domanda: Veniamo ad un aspetto solo apparentemente secondario nella tua vicenda. Tu, ad un certo punto, decidi di non accontentarti delle versioni ufficiali, e chiedi che le autorit approfondiscano quanto accaduto. E questa mi sembra una richiesta pienamente naturale e legittima, alla quale anche lamministrazione penitenziaria dovrebbe sentirsi in dovere di rispondere Ho saputo che, invece, tu sei stata oggetto di iniziative discutibili ed al limite dellintimidazione; penso soprattutto ad una lettera, che ho vista pubblicata su Indymedia, in cui si parla di contatti da te cercati per inscenare azioni dimostrative davanti al penitenziario. Volevo sapere qualcosa di pi sullargomento. Maria Ciuffi: Devi sapere questo: io allinizio ero completamente sola; non solo umanamente, ma pure nelle mie rivendicazioni. Poi una sera mi arriv una telefonata da un altro giornalista del Tirreno; mi disse che il giorno successivo cera il processo a Paolo Dorigo, e che ci sarebbe stata pure una manifestazione. Mi disse che anche in quelloccasione si protestava per pestaggi e maltrattamenti subiti in carcere: io decisi di andare, e mi presentai col carteggio dellautopsia di mio figlio. Trovai diversi giovani, principalmente di centri sociali (cerano i ragazzi del Godzilla di Livorno, ma anche tanti

che venivano da Pisa, Bergamo, Milano). Gli mostrai le foto, gli parlai del mio caso, ed ottenni subito la loro solidariet. Cera anche lavvocato Trupiano: fu in quelloccasione che lo conobbi e lui mi offr la sua assistenza (in modo totalmente spontaneo e disinteressato, e di questo voglio ringraziarlo di cuore). Poi devi sapere che io, periodicamente, porto un mazzo di fiori fuori dal carcere. La prima volta andai da sola (e dovetti pure discutere con le guardie: chiesero se avevo il permesso del Comune per lasciare i fiori sul suolo pubblico); lanno successivo furono proprio i ragazzi dei centri sociali a dirmi che non sarei pi dovuta andare da sola. E questo che voglio dirti: grazie a quei ragazzi io non ero pi sola, e questo probabilmente ha dato fastidio a qualcuno Tu pensa che la lettera di cui tu parli io non lavevo neppure vista direttamente: lho scoperta tra le carte del fascicolo su Marcello. Ed una lettera assurda: si sostiene, in sostanza, che io cercherei appoggi e sostegno nellarea anarco-insurrezionalista. In realt io devo dire innanzitutto che non si tratta di terroristi, ma di ragazzi che mi hanno offerto aiuto e solidariet spontaneamente, senza che io li cercassi o proponessi loro delle iniziative. E, tengo a precisare, per me la vicenda di Marcello non una questione politica, ma solo una ricerca della verit su quanto accaduto. Domanda: Immagino che per te sia difficile uscire dalla dimensione personale della vicenda di Marcello, per penso che tu (seguendo il caso di tuo figlio, parlando con altri detenuti eccetera) ti sia fatta anche unidea del carcere pi in generale Maria Ciuffi: Sicuramente s, ed unimpressione orribile. Se posso parlare bene di un carcere, per quella che la mia esperienza, posso farlo parlando della struttura di Lucca. Molto umani coi detenuti e anche coi loro familiari; l c rispetto e comprensione, mentre a Pisa o a Livorno Tu pensa che ora anche il mio attuale compagno in carcere. In un primo tempo lo mandarono proprio a Livorno. Ricordo che, ad un colloquio, hanno fatto una vigliaccata che non scorder mai. Ci misero a sedere ad un tavolino; lui mi disse: stai tranquilla, ma ora guarda alle mie spalle: quelle sono le famose celle di isolamento, quelle dei pestaggi. Mi avevano messo l affinch io potessi vedere. Io guardavo le celle e mi dicevo che era in una di quelle che avevano picchiato mio figlio Mi interessai subito per un trasferimento del mio compagno, e lo mandarono a Lucca, dove (come ti dicevo) le condizioni di vita dei detenuti sono migliori. Comunque anche il mio compagno, durante la sua permanenza a Livorno, ha scoperto alcune cose interessanti su Marcello. Mi raccont di un detenuto che ebbe una discussione con le guardie; gli intimarono di uscire dalla cella, e lui rispose: s, cos mi fate quel che avete fatto a Lonzi. Il mio compagno, durante lora daria, si avvicin a quel detenuto (ovviamente senza presentarsi e senza dire che sapeva chi era Marcello), chiedendo cosa fosse successo a quel certo Lonzi. Quel detenuto rispose: lhanno menato e lhanno ammazzato; poi, ovviamente, anche questo ragazzo ha ritrattato tutto. Domanda: Mi rendo conto che difficile farti questa domanda Ma, dopo larchiviazione, hai ancora speranze nella Giustizia? Ed hai speranze, parlando pi in generale, nelle istituzioni (so che il caso di tuo figlio arrivato anche in Parlamento, attraverso alcune interrogazioni a cui il ministro Castelli ha risposto in modo a dir poco vago)? Maria Ciuffi: Te lo dico col cuore: io prima nella Giustizia ci credevo, moltissimo. Ora no,

assolutamente. Poi tieni conto che, da quando sono entrata in questo mondo, oltre alla storia di mio figlio io ho potuto vedere tante cose. Ho visto che chi ha i soldi ottiene i permessi, i privilegi, pi rispetto nel carcere... Io invece non arriver mai a sapere la verit; o, per meglio dire, non vedr mai riconosciuta ufficialmente la verit che so gi. Mio figlio lhanno picchiato fino ad ammazzarlo, questo lo so; quello che vorrei sapere il chi e il perch. Vorrei guardare in faccia queste persone e chiedergli il perch di tutta quella violenza No, nella giustizia non posso pi credere. Quando hanno archiviato il procedimento lho detto subito: me lhanno ammazzato unaltra volta. Per quanto riguarda Castelli: il Ministro parl di lesioni che Marcello aveva riportato al momento dellarresto Certo, mio figlio quando entrato in carcere aveva un ematoma al ginocchio e un taglio, ma erano ferite banali e dovute alla colluttazione al momento dellarresto, quindi SEI MESI PRIMA della morte. Io al ministro Castelli ho scritto, ma non mi ha risposto. Ho scritto anche a Ciampi, il cui ufficio invece, correttamente, mi ha risposto promettendo interessamento ma senza che quella lettera avesse un seguito pratico Ma ti voglio raccontare un episodio che secondo me spiega bene la situazione. Tempo fa mi proposero una fiaccolata in memoria di Marcello. Se ne interessarono i ragazzi di Pisa, quelli del Godzilla, e quelli di Rifondazione/Livorno, arrivammo anche ad un paio di contatti con lARCI, sempre a Livorno. Il responsabile dellARCI giunse a dirmi: lei per mi assicura che nessuno poi se ne esca con slogans offensivi tipo secondino assassino?. Io restai a dir poco sorpresa: non sono il capo di quei ragazzi come facevo a dare unassicurazione del genere? Allora il responsabile dellArci mi disse che non poteva darmi il suo appoggio: se succedeva qualcosa con che faccia, mi disse, avrebbe potuto tornare dai responsabili del carcere, con cui aveva sempre contatti? Questo, mi sembra, era il punto, e glielo dissi. Se lui (che entrava ed usciva liberamente dal carcere) aveva timore reverenziale verso la direttrice e le guardie, come pensava potessero vivere i detenuti? Quali limiti possono esistere per persone che vivono in un rapporto di inferiorit palese rispetto allamministrazione del carcere? Inutile aggiungere che la fiaccolata non fu fatta Domanda: Ma, immagino, questo non vuol dire che tu ti fermi nella tua battaglia Maria Ciuffi: Guarda, io lo dissi sinceramente al Dott. Pennisi: non provi ad archiviare; avevo solo quel figlio, e non ho pi nulla da perdere No, non lascio correre una cosa cos. E troppo grossa, non da me *** A proposito del seguito che potr avere la vicenda, riporto quanto ha affermato lavvocato Vittorio Trupiano: Il figlio di Maria, per la storia di cui suo malgrado stato protagonista, ora patrimonio di tutta l'umanit. Io di questa turpe storia giudiziaria sono stato anche testimone per cui, con o senza Maria, nessuno mi impedir di portarla avanti al C.S.M., alla Corte Europea, alla Commissione antitortura in forza a questa, e davanti ai giudici di Genova competenti a giudicare i loro colleghi di Livorno se qualcuno li denuncia penalmente. Ringrazio Maria Ciuffi e lAvvocato Vittorio Trupiano per la pazienza e la disponibilit che mi hanno concesso. Gli auguro che la loro battaglia di verit e giustizia possa avere pieno successo; e questo sia per quanto concerne il risalto mediatico che merita la vicenda, sia per quanto attiene i risultati pratici presso le sedi competenti. ***

UN ALTRO CARCERE E POSSIBILE? di Francesco Barilli e Francesca Frizzi Maniglio Da un articolo del Magistrato Giovanni Tamburino (fonte: www.ristretti.it): Il corrispondente canadese del nostro Dipartimento penitenziario si chiama Servizio Correzionale del Canada, in sigla S.C.C. Nei documenti che il S.C.C. diffonde in patria e allestero, la sua missione fondamentale viene descritta con queste parole: Il Servizio correzionale del Canada, quale parte del sistema della giustizia penale e nel riconoscimento del primato del diritto, contribuisce alla protezione della societ incitando i delinquenti a diventare cittadini rispettosi delle leggi, nel tempo in cui esercita su di essi un controllo ragionevole, sicuro e umano. Solo belle parole? Non crediamo Non crediamo che quelle parole vogliano dire che il carcere in Canada sia una specie di paradiso terrestre; di sicuro non esiste un solo sistema penitenziario in cui il carcere sia qualcosa di diverso da unesperienza difficile, sia per chi lo subisce sia per chi ci lavora. Ma quelle parole testimoniano un approccio al problema carcere distante anni luce da quello italiano. Da noi il carcere visto solo come una sorta di pattumiera dove la societ smaltisce i propri rifiuti. I diritti dei carcerati sono visti come diritti di serie B, o comunque qualcosa di sacrificabile per ottenere una (presunta) maggiore sicurezza per la societ. In Canada, restando alla enunciazione di principio del S.C.C., quei diritti non sembrano dimenticati, anzi!, risultano centrali nella gestione del mondo dei detenuti. E il carcere sembra avere una missione ben pi alta che quella dello smaltimento dei rifiuti della societ Ma davvero utopistico pensare che un modello di carcere pi umano sia inapplicabile da noi? Le esigenze di una maggiore sicurezza sono davvero incompatibili con il rispetto dei diritti fondamentali dellindividuo? In questa sezione affronteremo proprio questo argomento, grazie ad unintervista al professor Franco Della Casa, docente di diritto penitenziario allUniversit di Genova. Genova, 14 marzo 2004 intervista al professor Della Casa Domanda: Una domanda generica, ma che mi sembra inevitabile per aprire la nostra chiacchierata: come giudica le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane rapportate a quelle negli altri paesi cosiddetti civili? Prof. Della Casa: Per quanto riguarda le condizioni di vita dei detenuti in Italia direi che, a partire dalla riforma del 1975, c stato un progresso non solo sul piano normativo, ma anche a livello di strutture; nel senso che alcune strutture ottocentesche sono state via via sostituite da altre di concezione pi moderna (anche se devo dire che larchitettura delle carceri moderne pu risultare, per certi aspetti, pi disumana di quella delle vecchie strutture). Facendo un paragone con altri ordinamenti che abbiano un grado di evoluzione paragonabile a quello italiano, direi che dal punto di vista normativo la situazione italiana si colloca in una fascia alta della classifica; mentre dal punto di vista delle condizioni materiali restano ancora dei progressi da realizzare; anche se leggendo storie di "cattiva detenzione" che provengono da Paesi quali Francia o Gran Bretagna ritengo che, tutto sommato, lItalia si collochi in una posizione pi avanzata. Se estendiamo lanalisi agli USA il discorso diverso; nel senso che negli Stati Uniti (ferma restando una serie di limitazioni molto intense verso i soggetti ritenuti ad alta pericolosit sociale) esistono strutture logistiche migliori. Per fare un esempio, credo che

al lettore che segua questa materia non sar sfuggito che Silvia Baraldini, pur essendo molto contenta di essere rientrata in Italia ad espiare il resto della pena inflittale negli USA, faceva notare che dal punto di vista delle attivit risocializzanti aveva subito un regresso rispetto alla situazione vissuta in America. Tutto questo, ovviamente, rispetto agli ultimi tempi di detenzione negli USA, in cui la Baraldini ha vissuto una vita carceraria migliore rispetto a quella incontrata poi a Rebibbia, e non certo rispetto al primo periodo di detenzione, quando era ristretta in un carcere di massima sicurezza. Domanda: Abbiamo aperto la nostra inchiesta con la storia di Ramon, ragazzo cileno suicidatosi nel carcere di Iglesias dove scontava una pena per furto dauto. Nella sua storia molte cose lasciano perplessit. Fra queste ce n una di cui abbiamo parlato anche nellintroduzione: la mancanza di notizie apparse sui media, anche su quelli alternativi e molto attenti a queste tematiche. Lei ritiene che i dati (gi comunque allarmanti) su suicidi e/o morti sospette nelle carceri italiane siano attendibili, o si tratta di cifre sottostimate? Prof. Della Casa: Il problema degli atti di autolesionismo e, a maggior ragione, quello dei suicidi allinterno delle carceri, siano essi tentati o consumati, davvero molto grave Non possiamo ritenere che i dati ufficiali siano esatti, ma sottostimati. Una delle ragioni principali per cui si verifica questa cattiva circolazione delle notizie data dal fatto che il carcere nasce e vegeta come istituzione separata. Uno dei requisiti fondamentali che sta alla base del suo mantenimento proprio questa separazione; e quando parlo di separazione non mi riferisco solo allaspetto fisico (quindi i muri, le sbarre che impediscono di evadere), ma anche a quel muro (invisibile ma altrettanto consistente quanto i muri di cemento) che impedisce la circolazione delle notizie dallinterno allesterno. Per quanto riguarda il problema dei suicidi, uno studioso che si interessato di questo aspetto stato Luigi Manconi, il quale recentemente ha pubblicato sulla rivista "Politica del diritto" un articolo ricco di indicazioni. Sono state ripetutamente presentate su questo tema anche alcune interrogazioni parlamentari, ma la risposta politica ufficiale stata una difesa dufficio dellAmministrazione Penitenziaria che in sostanza questa: vero che il tasso di suicidi in carcere pi alto rispetto a quello rilevato tra la popolazione non detenuta, ma questo sarebbe da rapportare alla tipologia di persone che finiscono nel carcere. Una simile difesa dufficio parte da questo assunto: il carcere su questo non c' dubbio - funziona come una sorta di discarica sociale, per cui i soggetti detenuti presenterebbero una maggiore "predisposizione" al suicidio. Per rimane il fatto che il tasso di suicidi nella popolazione carceraria incomparabilmente pi alto rispetto a quello presente nella popolazione non detenuta Domanda: C un altro aspetto nel caso di Ramon che mi ha sollevato grande indignazione: le limitazioni subite per quanto concerne diritti alle visite e alle telefonate. Credo che anche quelle limitazioni abbiano contribuito a rendere insostenibile per il ragazzo la propria vita nel carcere, spingendolo al suicidio. A livello di questi diritti (telefonate, visite ecc.) come siamo giudicabili, nel paragone con altri paesi europei o comunque di cultura occidentale? E come siamo giudicabili riguardo allequit con cui consentiamo di esercitare questi diritti (paragonando la condizione dei detenuti di nazionalit italiana con quella degli stranieri)? Chiedo questo perch, perlomeno dal caso di Ramon, viene il sospetto che i detenuti stranieri nelle nostre carceri ottengano questi diritti con molte difficolt in pi rispetto a quelle incontrate dai colleghi di nazionalit italiana

Prof. Della Casa: Per parlare dei diritti dei detenuti, da un punto di vista puramente teorico dovremmo cominciare col fare una distinzione allinterno del carcere fra coloro che sono imputati (e godono ancora della presunzione di non colpevolezza) ed i gi condannati. Da un punto di vista teorico, dicevo, perch in realt la maggior parte degli istituti ammassa indistintamente al proprio interno gli imputati e i condannati, i detenuti con basso grado di pericolosit sociale e quelli con pericolosit medio/alta. Questo un primo dato importante, perch spiega la confusione che si crea allinterno: di fatto le esigenze di sicurezza in un dato carcere vengono misurate in base al soggetto pi pericoloso ospitato in quel dato carcere; e questo si ripercuote negativamente su persone che potrebbero senzaltro godere di una detenzione pi aperta e con maggiori diritti. Il problema dei diritti dei detenuti a mio avviso importantissimo; anche perch ritengo che in Italia ci si sia concentrati prevalentemente su quei detenuti che possono uscire dal carcere grazie alle misure alternative, e ci si sia disinteressati un po troppo delle condizioni di vita di quei soggetti che (per una ragione o per laltra) in carcere ci devono rimanere, e conseguentemente sono sottoposti a tutta una serie di pesanti limitazioni. Per quanto riguarda i diritti dei detenuti, possiamo distinguere due livelli nel nostro sistema penitenziario. Il primo quello del riconoscimento legislativo dei diritti della persona privata della libert personale: da questo punto di vista la nostra legge penitenziaria risente della sua data di nascita, il 1975, anno in cui su questo tema cera una sensibilit sicuramente inferiore rispetto ad oggi. Conseguentemente le norme che prevedono delle situazioni soggettive in capo ai detenuti sono state formulate in termini non cogenti per le autorit carcerarie, ma lasciano a tali autorit ampi margini di discrezionalit. In altre parole, gi nel linguaggio usato dal legislatore notiamo un tono ben poco tassativo al riguardo: non si dice a Tizio VA riconosciuto il diritto di, ma si usano espressioni del tipo a Tizio PUO ESSERE consentito di. Accanto a questo primo dato va tenuto altres presente che la legislazione penitenziaria come un gioco di scatole cinesi: abbiamo una legge formale (si tratta di un importante conquista risalente alla riforma del 1975); ad un livello inferiore c il regolamento desecuzione, che contiene una normativa di dettaglio rispetto alle singole previsioni legislative; al di sotto del regolamento desecuzione abbiamo poi il regolamento interno di ogni singolo carcere: fonte di grado inferiore, dalla quale per dipendono i concreti connotati della pena detentiva in quella determinata struttura carceraria. Se intervistato, un soggetto che sia stato ristretto in istituti diversi non dir mai che esiste UNA pena detentiva, ma parler della pena detentiva scontata nel carcere A, di quella scontata nel carcere B, e via di seguito. E questa stratificazione normativa, dalla Legge al regolamento desecuzione fino al regolamento interno, genera inevitabilmente problemi di confusione, di sovrapposizione. Intendo dire che per lo studioso non c problema a capire che la legge gerarchicamente superiore al regolamento desecuzione, che a sua volta superiore al regolamento interno, ma nella prassi quotidiana delle carceri non infrequente che i rapporti vengano sovvertiti. Fermo restando questo dato di fatto, allinterno della popolazione detenuta ci sono poi delle sottocategorie per le quali le restrizioni dei diritti sono ancora pi evidenti. Nel senso che a parte le restrizioni derivanti da situazioni oggettive (come laver commesso un reato di particolare gravit: ad esempio, sequestro di persona a scopo di estorsione) esistono delle limitazioni che non hanno la loro ragion dessere nella pericolosit del detenuto, ma derivano dal suo appartenere ad una categoria, per cos dire, svantaggiata. Tra queste categorie possiamo menzionare certamente le donne, che sono svantaggiate perch rappresentano una percentuale molto esigua della popolazione detenuta, ed il carcere non dimensionato sulle loro esigenze. E, accanto

alle donne, unaltra componente che ha una consistenza statistica rilevante quella rappresentata dai detenuti stranieri. Questi si trovano in una situazione oggettivamente diversa da quella degli italiani: generalmente non hanno accanto a s una famiglia ad assisterli, e di conseguenza vengono spesso trasferiti nelle carceri sulle isole, proprio perch si ritiene che questo possa costituire un peggioramento delle condizioni per un italiano, mentre per uno straniero si ritiene che questo non sia peggiorativo delle sue condizioni. Insomma, possiamo dire che lo straniero abbia una detenzione particolarmente afflittiva; da un lato, perch per lui lottenimento delle misure alternative molto difficoltoso (per ragioni che vedremo in seguito); dallaltro lato, perch queste situazioni oggettive di cui parlavo non vengono compensate con concessioni che attenuino limpatto delle limitazioni a cui "fisiologicamente" sottoposto. Faccio solo un esempio: se un detenuto straniero, per compensare la sua distanza dalla famiglia gli si potrebbe concedere un maggior numero di telefonate, e, nel caso di un detenuto sprovvisto di mezzi economici per fare telefonate allestero, si potrebbe arrivare ad accordi con i rispettivi Paesi o riconoscergli la gratuit per un certo numero di telefonate. Questo non avviene, ed solo uno degli elementi per cui gli stranieri vivono una condizione di detenzione molto diversa e molto pi afflittiva rispetto a quella degli italiani. Domanda: Siccome stiamo parlando delle condizioni di vita nelle carceri, vorrei fare un passo indietro: allinizio di questa intervista lei mi diceva che, anche se pu sembrare paradossale, alcune strutture vecchie spesso risultano tecnicamente ideate e strutturate per consentire condizioni di vita pi umane rispetto a carceri pi recenti. La cosa mi ha colpito perch si tratta delle stesse parole usate, un paio di settimane fa, da un ex detenuto con esperienze di detenzione in svariati carceri. In quel momento a quella affermazione non ho dato troppo peso, ma sentire formulata la stessa osservazione da lei mi spinge a chiederle un breve approfondimento su questo aspetto, seppure marginale alla nostra inchiesta. Prof. Della Casa: Il discorso questo: a mio avviso gli architetti che si occupano di edilizia penitenziaria progettano la funzionalit della struttura rispetto alle astratte esigenze di una corretta esecuzione della pena detentiva (ammesso che questo scopo venga raggiunto), e non rispetto alle esigenze di chi dovr vivere in quella data struttura. Per cui mi stato riferito che la vita per chi si trova in carceri costruite negli anni pi recenti finisce con lessere pi disumanizzata; ad esempio perch il colore assolutamente dominante il grigio (per questo e per altri numerosi e analoghi motivi si parla di "deprivazione sensoriale"); oppure perch vengono realizzati spazi in cui lindividuo si perde, spazi che non favoriscono la socializzazione Insomma, ho limpressione che gli architetti che progettano queste strutture non tengano in sufficiente considerazione la qualit della vita degli individui che dovranno esservi ospitati, ma solo parametri rigorosamente "tecnici" e/o economici. Domanda: Tornando a discorsi pi importanti rispetto alla nostra inchiesta: lei ha parlato di discrezionalit dei direttori delle carceri nelle varie strutture. Non sarebbe il caso che i diritti dei detenuti venissero salvaguardati attraverso listituzione di un organismo super partes? Per fare un esempio, mi sembra paradossale che un detenuto che, in ipotesi, lamenti un torto da parte di una guardia carceraria, debba sperare di vedere riconosciuta la propria ragione dalla sola rettitudine morale del direttore, ossia dello stesso soggetto

che collabora strettamente con lapparato di custodia e che, sempre in ipotesi, magari ha avallato quello che, a torto o a ragione, il detenuto ritiene essere stato un sopruso subito. Prof. Della Casa: Direi che la domanda sul come tutelare i diritti dei detenuti centrale. Nel senso che possiamo avere dei testi legislativi anche molto avanzati, ma se restano lettera morta non servono a nessuno. Limportante avere una legge avanzata, certo, ma ancora pi importante che questa legge preveda dei meccanismi di controllo sul riconoscimento effettivo dei diritti stabiliti dalla stessa. Da questo punto di vista lItalia ha istituito la figura di un Magistrato, il quale in teoria ha il compito di intervenire laddove possono essersi verificate violazioni dei diritti dei detenuti. Quindi il sistema sembrerebbe poter funzionare, perch il detenuto non ha di fronte solo lamministrazione penitenziaria (nella figura del direttore), ma ha la possibilit di rivolgere reclami ad un Giudice, che gli offre garanzie di imparzialit di giudizio. Questo sistema, per, ha funzionato solo in parte, per una serie di ragioni che si intrecciano fra loro e che difficile sintetizzare. Una delle ragioni principali questa: nel sistema ideato dal legislatore questo Magistrato doveva avere una frequentazione assidua del carcere, parlare direttamente con i detenuti, partecipare in modo continuativo alla vita del carcere su cui doveva vigilare. Questo non avvenuto, e una delle ragioni che il Magistrato, come formazione culturale, un giurista, e pu ritenere svilente occuparsi di questioni che nellambiente detentivo divengono invece di primaria importanza, quali possono essere la qualit del cibo, le condizioni igieniche delle celle, il fatto che lacqua nelle docce sia fredda o che il numero delle docce sia scarso rispetto alla popolazione detenuta. In secondo luogo, il Magistrato che constatava la violazione di un diritto del detenuto non aveva i mezzi per intervenire direttamente e fare eseguire la propria decisione, ma doveva semplicemente indirizzare una relazione informativa ai vertici dellamministrazione penitenziaria, che avrebbero dovuto provvedere di conseguenza. Sennonch nella stragrande maggioranza dei casi i vertici dell'amministrazione penitenziaria, pur sollecitati, sono rimasti inerti: ecco quindi un secondo fattore che (unito a quella scarsa propensione del Magistrato alla frequentazione di luoghi come le carceri) sta alla base di uninsufficiente tutela dei diritti allinterno delle carceri. Proprio partendo da questa situazione di fatto, sono in discussione al Parlamento alcune proposte di legge che convergono verso un obbiettivo: quello di istituire una nuova figura di controllore allinterno delle carceri, che sarebbe il Difensore Civico delle persone private della libert personale. Parlo di persone private della libert personale in quanto questo Difensore Civico avrebbe diritto di accedere NON SOLO alle carceri, ma anche a quei luoghi ove vengono detenuti in attesa di espulsione i cittadini stranieri, o a quei luoghi ad esempio, le c.d. "guardine" - ove vengono mantenuti (gi in stato di privazione della libert personale) i soggetti in attesa di essere trasferiti in carcere. Questo Difensore Civico avrebbe il compito di intervenire PREVENTIVAMENTE, e di svolgere una azione di MEDIAZIONE tra custodi e custoditi al fine di scongiurare il verificarsi di quelle situazioni in cui si potrebbe configurare la violazione dei diritti del detenuto. Quindi, listituzione della figura del Difensore Civico (di nomina parlamentare), con compiti di mediazione e di catalizzatore di dialogo fra le due fondamentali componenti carcerarie, dovrebbe garantire dei passi in avanti in questo settore, analogamente a quanto accaduto in altri Paesi (quali Gran Bretagna e USA) dove questa figura ha prodotto buoni risultati. E potrebbe rappresentare pure un incentivo per il Magistrato di Sorveglianza, al fine di rilanciare quel ruolo di garante che gli stato affidato dal legislatore italiano del 1975.

Domanda: Sempre restando al discorso delleccessiva discrezionalit di cui godono i direttori delle carceri, vorrei affrontare ora un tema pi specifico, ossia quello delle cosiddette domandine. Ancora prima di questo lavoro mi sono interessato alla storia di Sole e Baleno, i due anarchici suicidatisi in carcere nel 1998, dopo larresto nellambito delle indagini sugli attentati alla linea TAV della Val di Susa. Un particolare che mi colp allepoca (ma che ha assunto maggiore rilevanza interessandomi al mondo carcere in generale) fu la lettera di Sole, scritta dopo il suicidio di Baleno. In quella lettera la ragazza scriveva: La galera e' un posto di tortura fisica e psichica, qua non si dispone di assolutamente niente, non si pu decidere a che ora alzarsi, che cosa mangiare, con chi parlare, chi incontrare, a che ora vedere il sole. Per tutto bisogna fare una "domandina", anche per leggere un libro.. Sulle domandine di cui parlava Sole: come possibile che il potere discrezionale dei direttori dei carceri sia cos ampio? Come possibile che una richiesta ritenuta concedibile in una data struttura sia ritenuta inaccettabile in un altro carcere? E, a tale proposito: ha qualche aneddoto curioso su qualche domandina (per usare il gergo carcerario) che sia stata respinta con motivi futili? Prof. Della Casa: La cosiddetta domandina costituisce un elemento fondamentale della quotidianit carceraria. Tutto quello che noi nella nostra vita siamo abituati a pensare come normale, allinterno del carcere diventa oggetto di una specifica concessione; cos, ad esempio: io voglio tenere in cella un personal computer alimentato a batteria? Devo fare la domandina. Voglio farmi arrivare dallesterno un cibo o un prodotto di igiene personale che non in vendita nello spaccio dellistituto? Devo fare la domandina, e cos via Quindi la "domandina" il passaggio obbligato che il detenuto deve cercare di percorrere per rendere la sua vita detentiva leggermente pi confortevole. Naturalmente queste istanze hanno come destinatario lorgano che decider sul loro accoglimento o meno: il direttore del carcere. Se non sbaglio fu Adriano Sofri a scrivere che gi nel termine "domandina" abbiamo una spia linguistica del grado di infantilizzazione del detenuto: una persona in carcere non formula richieste, ma domandine, come un bambino che si rimette ad unautorit imperscrutabile e di gran lunga superiore. Oltre a questa spia linguistica, abbiamo il fatto che queste "domandine", quando non vengono accettate, vengono il pi delle volte respinte SENZA un'adeguata MOTIVAZIONE; anzi, direi che al di l del singolo direttore illuminato, che spiega le ragioni di un determinato rigetto, le "domandine" vengono respinte con un NO secco e privo di motivazioni. Ed questo laspetto pi intollerabile per il detenuto; pi ancora che il ricevere un rifiuto, frustrante questa imperscrutabilit del potere che hai di fronte, lessere soggetto ad un'entit onnipotente che non deve giustificare le proprie decisioni. Io credo che il principio della motivazione sia un principio che noi tutti esigiamo quando ci viene opposto un rifiuto: un principio di civilt che, nel caso del carcere, viene sistematicamente disatteso. Mi chiedeva di aneddoti emblematici del sistema delle domandine. Ricordo un caso che si colloca nellepoca in cui direttore generale dellamministrazione penitenziaria era il Dottor Coiro, un Magistrato che aveva cercato di limare talune asprezze della vita carceraria, inviando tra laltro una circolare in cui si diceva che i detenuti avrebbero potuto tenere con s in cella, previa autorizzazione del direttore, piccoli animali da compagnia, che avrebbero reso meno penosa la loro vita detentiva. Tra questi animali veniva citato lesempio della vaschetta coi pesci rossi. Un detenuto (mi sembra del carcere di Alessandria), sulla scorta di questa circolare aveva rivolto unistanza proprio per ottenere una vaschetta con uno o due pesciolini rossi, e questa domandina fu

rigettata senza alcuna spiegazione delle ragioni che stavano alla base di tale rigetto. In generale il discorso che di fronte ad un rifiuto le vie da percorrere per un detenuto non sono molte: prima abbiamo parlato del Magistrato di Sorveglianza, ma non esiste il diritto a tenere in cella un pesce rosso o il diritto di tenere con s un PC Quel che intendo dire che si tratta di richieste a largo raggio, riguardanti il pi delle volte concessioni di piccola portata, che non possono essere regolamentate da un testo normativo; neppure con la pazienza di Giobbe si potrebbe compilare un testo che elencasse tutte le possibili richieste, e quindi chiaro che un margine di discrezionalit rester sempre. Una parziale soluzione al problema, a mio avviso, sarebbe quella di fare esercitare anche su queste domandine un potere di controllo da parte di un organo terzo. Domanda: Sempre dal caso di Ramon mi nata una riflessione. Unaltra cosa appare grottesca nella sua storia: la condanna a tre anni di carcere per un furto dauto Non mia intenzione discutere lentit della pena (problema che, peraltro, starebbe a monte del sistema penitenziario): quel che intendo dire che per un reato che non denota una particolare pericolosit sociale il carcere in s ad apparire totalmente inutile o addirittura controproducente (se lobbiettivo , come dovrebbe essere, il recupero del soggetto). Volevo quindi introdurre largomento delle misure alternative. Da quanto mi risulta lesigenza di alternative alla pena detentiva da tempo materia di discussione in molti stati, i cui codici gi prevedono una differenziazione di interventi, alternativi o integrativi alla limitazione della libert, quali lobbligo di prestazioni lavorative per pubblica utilit. In base alla sua esperienza: le risulta che queste alternative siano gi applicate in molti Stati e (in caso di risposta affermativa) con quali risultati? E soprattutto: quale la situazione da noi? Infine le volevo chiedere se anche in questo campo ci sia (ovviamente a parit di reato commesso) una disparit di trattamento fra italiani e stranieri, nel poter usufruire di queste misure alternative. Prof. Della Casa: Innanzitutto partirei da questa considerazione: a livello planetario si ormai convinti che il carcere debba essere la pena cui si ricorre quando TUTTE le altre possibilit sono venute meno; e anche laddove si ricorra alla pena detentiva questa, nel corso del tempo, dovrebbe subire delle attenuazioni di carattere qualitativo che consentano di ridurre i danni insiti nella sua stessa natura. Ricordo che la pena detentiva costosissima; e questo sia dal punto di vista economico (mediamente un giorno di detenzione costa allo Stato pi di 100 ), sia dal punto di vista delle lacerazioni che provoca nel tessuto sociale. Insomma, anche a livello di legislazione internazionale si conviene sul fatto che la pena detentiva deve essere compressa il pi possibile, e che al suo posto dovrebbero esistere delle misure che limitino la libert personale del condannato in maniera meno totalizzante. Le misure alternative nascono da questa consapevolezza: la pena detentiva si ritorce verso chi la espia, ma anche verso chi la infligge; nel senso che la risocializzazione attuata attraverso il carcere una contraddizione in termini; questo perch non posso risocializzare una persona tenendola in un ambiente che ha caratteristiche antitetiche rispetto a quelle dellambiente dove dovrebbe tornare a vivere quella data persona. Le misure alternative nascono anche da questa consapevolezza e attualmente sono largamente presenti in tutti gli ordinamenti evoluti. Parlare della gestione di queste misure alternative ci porta a fare innanzitutto una distinzione fra due categorie di detenuti: quella di coloro per cui esse sono una possibilit concretamente a portata di mano, e quella di coloro per cui queste alternative

restano un semplice miraggio. Nella prima fascia metterei i condannati italiani che non siano in una condizione particolarmente precaria. Parlo di un detenuto che ha adeguati supporti allesterno del carcere, che dispone di una residenza da indicare nel caso gli vengano concesse queste misure alternative, che ha un nucleo familiare che si attiver per procurargli un potenziale datore di lavoro, eccetera. Le misure alternative, infatti, vengono concesse dalla magistratura di sorveglianza proprio a quei soggetti che lasciano supporre che il loro reinserimento nella societ sia concretamente possibile (ecco perch avere a disposizione unabitazione e un posto di lavoro sono elementi di fondamentale importanza). Se partiamo da questi presupposti capiamo perch gli stranieri (che invece di solito sono catapultati da noi "selvaggiamente" e non godono di supporti esterni) sono fra coloro che ricevono pochissime misure alternative, e quando le ricevono perch, in determinati carceri, lazione del volontariato supplisce alla mancanza di supporti socio-familiari. Questa del volontariato carcerario una presenza che dovrebbe essere incrementata, anche se molto spesso il volontariato deve fare i conti con la struttura chiusa del carcere, che vede come un intruso chiunque si avvicina per operare al suo interno. Domanda: Secondo una convinzione generalizzata il sovraffollamento delle carceri praticamente un non problema, perch qualsiasi sistema carcerario tenderebbe al sovraffollamento in modo inevitabile. Questa domanda si collega alla precedente, in quanto mi risulta che, tanto per fare un esempio, in Svizzera, dove costante lutilizzo delle misure alternative, i posti-carcere siano liberi al 25%. La questione mi sembra fondamentale, perch invece in Italia, accanto al sovraffollamento delle carceri (secondo il Ministero della Giustizia al luglio 2003 avevamo pi di 56.000 detenuti presenti a fronte di una capienza stimata in 42.000 posti) abbiamo una carenza nel personale di polizia penitenziaria a disposizione, una carenza che spesso stata segnalata con preoccupazione dagli stessi organismi sindacali. Volevo un suo parere in generale su questo problema del sovraffollamento: oltre allutilizzo delle misure alternative di cui abbiamo gi discusso, quali potrebbero essere le soluzioni a tale problema? E quale il suo giudizio sul recente dibattito in Italia circa le misure svuota-carceri, che ha prodotto il cosiddetto indultino? Prof. Della Casa: Il sovraffollamento carcerario in effetti un problema che riguarda tutti i Paesi; nel senso che il carcere, nel momento stesso in cui esiste, tende ad essere sovrautilizzato. Il sovraffollamento per il carcere stato paragonato alla cancrena di un arto per una persona: qualcosa che paralizza il funzionamento e blocca listituzione stessa. Per fare un esempio di ci che comporta il sovraffollamento baster ricordare che esso significa lautomatica riduzione delle aree dedicate a spazi ricreativi, che vengono gradualmente assorbiti dallesigenza di trovare nuovi posti-letto. Significa pi ore di permanenza in cella, perch gli spostamenti dei detenuti divengono pi difficoltosi per la custodia e perch in una struttura sovraffollata c inevitabilmente una maggiore tensione allo stato latente che si ripercuote su ogni rapporto interpersonale. Insomma, il sovraffollamento una condizione deteriore che andrebbe assolutamente evitata. Andrebbe evitata ricorrendo innanzitutto ad un minore utilizzo della pena detentiva e della custodia cautelare in carcere. Quindi: anche nel corso di un processo i giudici dovrebbero usare misure cautelari diverse dalla custodia (ricordo che gli imputati in carcere si aggirano attorno al 40-45% della popolazione detenuta); e quando si giunge allirrogazione della pena bisognerebbe innanzitutto ridurre il pi possibile luso della pena detentiva per quanto concerne gli illeciti. Si parla molto di depenalizzazione, il che vuol dire che bisognerebbe lasciare colpiti da sanzione penale solo quei

comportamenti oggettivamente gravi; ma noi utilizziamo ancora il codice (penale) fascista del 1930, che prevedeva solo la pena pecuniaria e quella detentiva, irrogata con grande generosit anche per comportamenti denotanti scarsa pericolosit sociale. Quindi il problema del sovraffollamento va risolto in partenza: in carcere devono entrare meno persone, perch una volta che vi sono entrate anche il sistema delle misure alternative costituisce una valvola di sfogo insufficiente. Veniamo ora alla sua domanda sullindultino. E bene premettere che un tempo, per ridurre il problema del sovraffollamento, in Italia avevamo lo strumento dellamnistia e dellindulto. Le amnistie si succedevano periodicamente e realizzavano lobbiettivo di dare un po di respiro allapparato carcerario. Parlo di un po di respiro perch si trattava pur sempre di una misura che non agiva sulle cause del problema; e, ripeto, non intervenendo sulle cause il sovraffollamento tender sempre a riproporsi periodicamente. Ad un certo punto (legge cost. n.1/1992) stata modificata la norma costituzionale (art.79 Cost.) che prevede la concessione dellamnistia e dellindulto, introducendo lobbligo di maggioranze parlamentari qualificate per la loro concessione (due terzi di ciascuna Camera). Questa variazione ha impedito il coagularsi di maggioranze tali da arrivare alla concessione di provvedimenti generali di clemenza. Conseguentemente, negli ultimi tempi sono emerse parecchie pressioni per cercare comunque di limitare il sovraffollamento carcerario: ricordo tra le varie voci quella del Papa. Si quindi cominciato a parlare dellindultino; ossia di un provvedimento non pensato come un vero e proprio indulto (anche se indirizzato allo stesso obiettivo), che quindi non richiedeva per la sua approvazione maggioranze parlamentari qualificate, e che poteva costituire una sorta di misura alternativa camuffata, permettendo comunque luscita di un certo numero di detenuti dal carcere. Ma anche nelle fasi di studio di questo provvedimento (varato poi nellagosto 2003) abbiamo assistito ad un gioco di veti incrociati da parte di talune forze parlamentari, molte delle quali temevano di apparire, agli occhi dellopinione pubblica, come quelli che mettono fuori i delinquenti , quelli a cui non sta a cuore il principio delleffettivit della pena (principio molto reclamizzato tanto in Europa quanto al di l dell'Atlantico - che di solito garantisce sicuri vantaggi dal punto di vista elettorale). Questa situazione ha creato una sorta di paralisi nella discussione, per cui possiamo davvero dire che la montagna (ossia questo enorme parlare della necessit di un provvedimento di clemenza) ha partorito un topolino, ossia una legge tale per cui ne hanno beneficiato poche persone. E stato come somministrare ad un malato grave (il sistema carcerario italiano, con il suo sovraffollamento) un paio di aspirine Domanda: Facciamo un passo indietro: nel suo racconto mi ha colpito molto la questione delle domandine; il fatto che il detenuto veda la sua vita quotidiana totalmente in balia di quanto pu decidere il proprio direttore. Lei diceva che auspicabile linserimento di una figura di controllo imparziale, e che per praticamente impossibile stilare un regolamento che preveda la miriade di richieste che potenzialmente possono avanzare i detenuti, stabilendo per via regolamentare cosa sia possibile concedere. Questo sicuramente comprensibile, ma su questo aspetto mi restano alcune perplessit: ripenso ancora alle parole di Sole che diceva che per leggere un libro ci vuole la domandina E penso al racconto della mamma di Ramon: uno dei passaggi pi toccanti quando diceva se mio figlio era malato perch non lhanno curato?. Accostare il diritto alla lettura di un libro al diritto alla salute pu sembrare azzardato, ma quel che intendo dire che certi diritti non dovrebbero essere affidati al buon cuore o alla discrezionalit del direttore del carcere, ma dovrebbero rimanere diritti fondamentali dellindividuo, anche quando questi un carcerato. Questo mi sembra naturale per una cosa banale come la

lettura di un libro, e cos pure per un diritto ancora pi importante, come il diritto alla salute. Insomma, proprio impossibile togliere certe concessioni al meccanismo della domandina? Prof. Della Casa: Ribadisco che in alcuni settori un margine di discrezionalit resta ineliminabile. Nel senso che la legge un provvedimento generale ed astratto, che non pu prendersi carico di tutte le situazioni. Ci premesso, concordo sul fatto che a livello normativo bisognerebbe, tutte le volte che questo possibile, produrre norme chiare e tassative che eliminino qualsiasi filtro nel riconoscimento di certi diritti, che devono operare automaticamente. Nella legge penitenziaria ci sono gi settori in cui questo accade: per esempio, mentre in passato nelle carceri non poteva entrare la stampa (divieto che una volta operava indistintamente, poi per un certo periodo fu rivolto solo alla stampa politica) oggi esiste una norma che consente ai detenuti di ricevere quotidiani, libri e riviste che siano in libera vendita allesterno. Questo un diritto che pu essere limitato solo per limputato che sottoposto ad indagini (e che quindi, leggendo i giornali, potrebbe ricevere notizie utili per lui e controproducenti per linchiesta); ma anche in questo caso il Magistrato (e non la struttura penitenziaria) a stabilire eventuali limitazioni. Quel che voglio dire che nel campo dellinformazione il diritto stabilito direttamente dalla legge. Mentre gi a livello di "colloqui" abbiamo una situazione meno favorevole; perch la legge dice che devono essere mantenuti i contatti con la famiglia eccetera, ma il numero esatto delle visite o dei colloqui di cui un detenuto pu godere contenuto nel regolamento desecuzione, per cui come se scendessimo di un gradino nel livello normativo. E cos pure dicasi per altri specifici ed importanti settori. Sono quindi daccordo sul fatto che, in tutti i casi in cui questo possibile (a cominciare dal numero dei colloqui) i diritti dovrebbero essere sanciti a livello di legge e non di regolamento, in modo da diminuire il margine di discrezionalit Ma vorrei anche far notare che questo potrebbe rivelarsi per certi versi unarma a doppio taglio, perch per modificare poi qualcosa stabilito da una Legge occorre che sia il Parlamento ad intervenire, mentre lapportare varianti ad un regolamento avviene secondo procedure meno complesse. Quello che a mio avviso non funziona nel sistema unaltra cosa: il lasciare il detenuto (che nel carcere un organismo evidentemente molto pi debole dell'apparato che lo ha in carico) senza possibilit di attivare eventuali meccanismi di tutela. C una supremazia schiacciante dellapparato penitenziario rispetto al singolo detenuto. Questa situazione nella natura delle cose; credo che lo capisca bene chiunque abbia vissuto unesperienza di degenza in ospedale e abbia sperimentato sulla sua pelle lo squilibrio riscontrabile tra il degente e lo staff medico: figuriamoci la situazione di un detenuto in un carcere! Proprio per questo, il detenuto non dovrebbe mai essere lasciato senza tutela; dovrebbe essere messo in grado di attivare una serie di controlli; e questo sia per il tramite del volontariato operante in carcere (che pu essere visto anche come un canale attraverso cui si pu esercitare il controllo sociale), sia soprattutto attraverso organismi quali il Magistrato di Sorveglianza o il Difensore Civico. E penso che lesistenza stessa di questa rete di controlli potrebbe servire a scongiurare in anticipo alcuni atteggiamenti vessatori o comunque contrari alla legge che il singolo direttore o il singolo agente volessero, in ipotesi, assumere nei confronti di un detenuto. Domanda: Abbiamo accennato pi volte al volontariato, allimportanza dei volontari nelle carceri. Vorrei chiudere questa intervista con alcune sue considerazioni su questo aspetto

particolare del mondo carcere e, se possibile, con un suo messaggio generale su questo mondo, sconosciuto alla maggioranza delle persone. Prof. Della Casa: Secondo me una buona rete di volontariato sarebbe una componente importante nellattuale sistema, e potrebbe riequilibrare la situazione della vita carceraria a favore dei detenuti, supplendo a certe diffuse carenze. Attualmente questo volontariato prevalentemente di matrice cattolica, e questo un dato che, a mio avviso, andrebbe riequilibrato; non che il volontariato cattolico non vada bene, ma avere componenti pi variegate sarebbe decisamente positivo. Il fatto che non esista questa maggiore variet nel volontariato potrebbe essere letto come una sottovalutazione del settore carcerario da parte di forze che, pur essendo progressiste, hanno dimostrato storicamente una scarsa comprensione dei gravi problemi dell'istituzione carceraria. C scarsa sensibilit da parte dellopinione pubblica su questa materia. Penso a quando si era parlato del diritto alla sessualit allinterno del carcere: la prima risposta dellopinione pubblica pi o meno stata questa: beh, ma si tratta di gente che ha sbagliato adesso dobbiamo dargli anche le camere matrimoniali?. Io credo che l'impostazione corretta per stabilire la "misura" dei diritti da riconoscere al detenuto sia questa: il detenuto mantiene in carcere TUTTI i diritti non incompatibili con l'esecuzione della pena detentiva. Il diritto alla sessualit non ha nulla di incompatibile con la pena detentiva; negarlo ha uno scopo meramente punitivo. Secondo molti chi va a finire in carcere un criminale a cui danno vitto e alloggio gratuiti, per cui pu essere contento e non stare troppo a lamentarsi o a pretendere altro. Salvo che succeda qualcosa di eccezionale che vada a smuovere i "buoni" sentimenti e susciti la giusta commozione. E facile ottenere solidariet da parte dellopinione pubblica se si presenta ad essa il singolo caso "umano", ma il problema carcere non sta solo nel singolo detenuto che si suicida, ma anche nel soggetto che al suicidio ci ha pensato cinque-sei volte senza poi arrivare a commettere quel gesto Io penso che il carcere non dovrebbe essere qualcosa di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella societ civile. Il carcere non dovrebbe essere qualcosa che allontaniamo e confiniamo nellangolo pi oscuro della nostra coscienza, ma qualcosa che fa parte della nostra societ, unistituzione per il momento necessaria che dovremmo sforzarci tutti di migliorare. Perch il carcere non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, un luogo utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe meglio un impegno civile, costante e continuo. *** I FANTASMI DELLE CARCERI di Sonia Benedetti Sono migliaia i detenuti nelle carceri italiane; uomini e donne che, allinterno di quelle mura, vengono annullati dalla societ come persone; cos diventano fantasmi! E questi scomodi fantasmi hanno tante storie da raccontare; sono storie che parlano di violazione, di discriminazione, di intolleranze, di negazione, di sofferenze dalle quali, spesso, questi uomini e queste donne trovano un solo sollievo: la MORTE! Infatti (come dice Adriano Sofri) la morte in carcere un altro modo per evadere! Sempre pi suicidi nelle carceri italiane. E sono aumentati pure gli episodi di

autolesionismo. Macabre statistiche di cui ci occuperemo ora (sempre grazie al costante monitoraggio dei casi realizzato dal sito www.ristretti.it) e che in fondo ci parlano solo di una realt molto semplice: di un carcere che non funziona come istituzione. I SUICIDI Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e spesso in istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Il numero maggiore di suicidi avviene: -nel Sud e nelle isole -nel reparto G14 (infermeria) di Rebibbia (RM) -nel Nord: -carcere Marassi (GE) reparto malattie infettive -carcere S.Vittore (MI) C.O.C. (reparto dosservazione per tossicodipendenti) -O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) I motivi che portano a questo ultimo gesto estremo del detenuto sono: -le condizioni di isolamento -i trasferimenti -i ricoveri in psichiatria dove il paziente viene legato al letto attraverso cinghie ai polsi e alle caviglie e imbottito di sedativi -perdita della dignit sociale del detenuto in attesa del processo (e non solo): le persone nel momento in cui vengono indagate sono immediatamente associate, da tutta la societ, al crimine che presumibilmente hanno commesso -la qualit di vita allinterno degli istituti penitenziari, resa inadeguata dalla mancanza di operatori, da unassistenza sanitaria inefficiente, dal sovraffollamento (al 31 gennaio 2003, nelle 205 carceri italiane erano presenti 56250 detenuti, di cui 2509 donne. Vi sono per in totale 205 istituti, che hanno una capienza di 38878 uomini e 2446 donne, per un totale di 41324 posti) - il timore del reinserimento nella societ al termine della pena Circa il 31% dei deceduti costituito da tossicodipendenti; per quanto riguarda let: -circa il 36% ha unet compresa tra i 20 e i 30 anni -circa il 28% ha unet compresa tra i 30 e i 40 anni Il Regolamento Penitenziario allart.77 prevede che il tentativo di suicidio in carcere punito disciplinarmente (come avviene per lautolesionismo, il tatuaggio e il piercing) in quanto infrazione per negligenza nella pulizia e nellordine della persona o della camera attraverso sanzioni decise dal Consiglio di disciplina quali: richiamo, esclusione dalle attivit, isolamento; e in quanto infrazione disciplinare questo comporta la perdita dello sconto di pena per buona condotta (liberazione anticipata, nonostante il codice penale non consideri reato il tentativo di suicidio). ASSISTENZA SANITARIA DISASTRATA Oltre 100 detenuti lanno muoiono per cause naturali nelle carceri italiane; a volte la causa ufficiale : -un infarto -un malanno trascurato o curato male -malattie croniche che portano ad un lungo deperimento -scioperi della fame.

Lart.1 del Decreto Legislativo 230/99 sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libert, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali. Lart 146 del Codice Penale prevede il rinvio obbligatorio dellesecuzione della pena quando il condannato affetto da A.I.D.S. conclamata, o da grave deficienza immunitaria, o da unaltra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione. Lincompatibilit si verifica quando la persona in una fase della malattia cos avanzata da non rispondere pi (secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici particolari in carcere. Lart. 147 del Codice Penale prevede il rinvio facoltativo dellesecuzione della pena per chi si trova in condizioni di grande infermit fisica. La legge non dice nulla per definire meglio il concetto di grave infermit fisica. Detenuti tossicodipendenti e malati Stando alla Informativa urgente del Governo su un documento riguardante la situazione nelle carceri, illustrata dal ministro della Giustizia alla Camera dei deputati il 3 ottobre 2002, i reclusi affetti da HIV sono almeno 1401, di cui 192 con AIDS conclamata; circa 15000 sono affetti da virus epatici; sono sempre pi numerosi i soggetti con forti disagi psichici; un terzo della popolazione carceraria costituito da persone tossicodipendenti. Al 30 giugno 2002, risultavano 15698 detenuti tossicodipendenti, 856 alcoldipendenti, 1552 in trattamento metadonico. Alla stessa data HIV erano 1401 (di cui 145 donne): 885 asintomatici, 324 sintomatici, 192 affetti da malattie indicative di AIDS. Questi sono numeri che evidenziano la preoccupante situazione presente nelle carceri italiane, nelle quali intanto si verificano forti tagli ai fondi per le cure mediche e al personale specializzato. Secondo dati del luglio 2002, gli assistenti sociali in organico dovrebbero essere 1630, mentre i presenti sono 1235 (-395); gli educatori previsti in organico sono 1376, i presenti sono 557 (-819); psicologi: dei 95 previsti, risultano essere presenti soltanto in 4 (-91). Si riscontrano carenze anche per il corpo di polizia penitenziaria rispetto allorganico. In servizio 42781 agenti di polizia penitenziaria, oltre a 7046 unit di personale amministrativo e tecnico (dovrebbero essere 10025). Inoltre capita spesso che al carcere di destinazione di un detenuto non venga spedita la cartella clinica relativa. Ne consegue la sospensione forzata della terapia, lannullamento dei risultati raggiunti e il rischio di andare incontro a gravi conseguenze. E da segnalare inoltre come linfermit psichica non rientri tra i motivi del possibile differimento della pena. Quando linfermit accertata nel processo limputato viene prosciolto per vizio di mente e, invece della condanna, subisce linternamento nellOspedale Psichiatrico Giudiziario; se un condannato impazzisce durante la detenzione (o rende manifesta una malattia mentale preesistente) laspetta comunque il ricovero forzato in un O.P.G. Questa differenza di considerazione fra malattia fisica e malattia mentale deriva dal fatto che si ritiene che la prima, indebolendo fisicamente il soggetto, renda il detenuto meno pericoloso per la sicurezza sociale e che, al contrario, la malattia mentale rappresenti un elemento di maggior pericolo.

MORTI PER CAUSE NON CHIARE E PER OVERDOSE Questa categoria pu essere divisa in due gruppi; del primo fanno parte tutti quei casi nei quali la causa della morte non circostanziata a sufficienza dallinformazione (ossia quei casi dove luso di termini generici quali malore, arresto cardiocircolatorio, ecc. chiarisce ben poco) e i casi di overdose, provocata da droghe, da psicofarmaci e alcool, dal gas delle bombolette da camping. Nel secondo gruppo rientrano i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone dombra ed incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino episodi di maltrattamenti ad opera di agenti o violenze da parte di altri detenuti. ALCUNI DATI E STORIE ANNO 2003 43 suicidi 9 morti a causa di unassistenza sanitaria disastrata 8 morti per cause non chiare 6 morti per overdose ANNO 2002 43 suicidi 14 morti a causa di unassistenza sanitaria disastrata 12 morti per cause non chiare 3 morti per overdose ANNO 2001 70 suicidi 6352 episodi di autolesionismo 852 tentati suicidi ANNO 2000 61 suicidi 6788 episodi di autolesionismo 892 tentati suicidi ANNO 1999 53 suicidi 6536 episodi di autolesionismo 920 tentati suicidi Grazie allinchiesta Morire di carcere dossier 2002-2004, sempre realizzata da ristretti.it e che vi invitiamo caldamente a leggere integralmente (da tale dossier sono estratti i precedenti dati), vi presentiamo di seguito alcuni casi, che abbiamo ritenuto emblematici, di morti nelle carceri italiane. SUICIDIO - 5 maggio 2002, Carcere di Marassi (Genova). Fabio B., di 38 anni, residente a Sestri, si uccide nel Centro Clinico del carcere di Marassi. Le guardie carcerarie hanno trovato il detenuto impiccato con la cintura dei

pantaloni usata come cappio. Era stato arrestato la sera del 15 febbraio dello stesso anno nella casa dei suoi genitori, con i quali aveva avuto una violenta lite. Sarebbe stata una lettera della fidanzata a farlo cadere in una depressione ancora pi profonda di quella che gi lo affliggeva (lo ha rivelato il suo compagno di cella): dopo aver letto la missiva, si sarebbe chiuso in un mutismo assoluto. I tentativi di farlo parlare non avrebbero avuto successo. Questo stato il terzo suicidio, in cinque mesi, a Marassi e il secondo in due giorni nel Centro Clinico della Casa Circondariale. MORTE PER CAUSE NON CHIARE - 13 luglio 2002, Carcere di Cagliari. Luca Saba, 31 anni, muore in cella dopo una settimana dallarresto. La madre andata al colloquio, ma Luca non poteva esserci: Suo figlio morto, non lo sa?, cos lhanno liquidata sul portone di Buoncammino, a Cagliari. C voluto larrivo dellavvocato per saperne di pi: Il detenuto deceduto per arresto cardiocircolatorio. Ma nonostante il fisico debilitato, le sue condizioni generali erano buone. Mai avuto problemi cardiaci, n fastidi che potessero in qualche modo segnalare larrivo di un infarto. OVERDOSE - 8 marzo 2003, Carcere di Aurelia (Roma). Manuela Contu e Franca Fiorini, rispettivamente di 42 e 37 anni, muoiono per overdose. Le trovano abbracciate, in un lettino della loro cella, che non danno segni di vita: lallarme scatta immediatamente, ma ormai non cera pi nulla da fare. Manuela Contu, di Roma, aveva avuto in passato dei legami con la banda della Magliana e da tre anni era ospite della sezione femminile di Aurelia, per scontare una pena per spaccio di sostanze stupefacenti. Franca Fiorini, di Sezze, era in carcere per furto da circa due anni. La mattina dell8 la Contu ha ricevuto la visita di Leofreddi, luomo da cui aveva avuto un figlio. Nella casa di Leofreddi stata trovata una lettera della Contu, con tutte le istruzioni per fare entrare due grammi di eroina in carcere. Sia la cella che le due donne, dopo il colloquio con luomo, sono state perquisite. Non stato trovato nulla. SUICIDIO - 12 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova). Santo R., 50 anni, si uccide ingerendo una massiccia dose di tranquillanti. Luomo, accusato di avere violentato una famigliare, non riusciva a parlare con un magistrato: questo sarebbe il motivo che lo ha portato al gesto suicida. ASSISTENZA SANITARIA DISASTRATA - 5 aprile 2003, Carcere di Poggioreale (Napoli). Mariano Maestrino, 35 anni, muore per un collasso cardiaco. Si tratta del secondo detenuto deceduto a Poggioreale in poco pi di due settimane e sulla sua fine avrebbe influito negativamente la carenza di cure appropriate. Il 26 marzo Maestrino, sofferente di sovrappeso e che proprio per questo accusava problemi cardiaci e respiratori, aveva partecipato alludienza per la sospensione della pena, richiesta per il suo delicatissimo stato di salute. La sua obesit non aveva per influito sul regime carcerario, tant vero che fino al suo ricovero nel centro diagnostico terapeutico della casa circondariale di Poggioreale era rimasto in regime carcerario ordinario. SUICIDIO - 5 maggio 2003, Carcere di San Vittore (Milano). Chamorro Morocho, 30 anni, ecuadoriano, viene arrestato il 3 maggio, per aver ucciso la moglie e ferito il figlio, investendoli con lauto. Il 4 maggio luomo, nella visita di routine dello psicologo, non dichiara propositi autolesivi, ma il medico, come per ogni protagonista di delitti famigliari, dispone comunque massima sorveglianza, con controlli ravvicinati. Il detenuto risulta malato di tubercolosi, ma per mancanza di celle idonee viene rinchiuso in una stanza di fortuna, ricavata nella sala dattesa (cella

del reparto nuovi giunti). Il pericolo di contagio ne imporrebbe lisolamento sanitario, ma in quella piccola cella con i materassi a terra sono ammassati altri nove detenuti stremati dallafa. Il 5 maggio lecuadoriano si impicca nel bagno con una stringa delle scarpe. (Dopo due mesi di accertamenti, la procura non si limita ad escludere qualsiasi responsabilit degli agenti, per la mancata sorveglianza dellarrestato, ma elogia la direzione per linnegabile attenzione al problema dei suicidi, fino a concludere che i problemi oggettivi di San Vittore sono tanto gravi da mettere in dubbio perfino lobiettivo minimo della sopravvivenza: Le condizioni di sovraffollamento e la cronica mancanza di mezzi in cui versa il carcere rendono sostanzialmente impossibile attuare una politica di reale ed efficace prevenzione degli atti autolesivi e dei suicidi () Si tratta di condizioni di detenzione non degne di un Paese civile. Lo stesso direttore di San Vittore spiega che la capienza massima del carcere di 800 detenuti, mentre la media ordinaria di 1600 reclusi.) ASSISTENZA SANITARIA DISASTRATA - 13 agosto 2003, Carcere di Catanzaro. Emiliano Mosciaro, 47 anni, muore di peritonite. Stava scontando una pena di sette anni di carcere. Il 4 agosto telefona alla madre, per dirle che non si sente bene e che le cure dei medici del carcere non funzionano. Emiliano soffre di crisi depressive e quei dolori addominali, che accusa da qualche giorno, sono forse scambiati per effetti di qualche forma di somatizzazioni. Il giorno dopo la telefonata alla madre Emiliano viene trasferito durgenza allOspedale di Catanzaro, su richiesta di un medico esterno che lo ha visitato in carcere. Troppo tardi, la peritonite ormai in stato di necrosi avanzata. *** ALTRE STORIE DI ORDINARIA INUMANITA di Francesco Barilli e Sonia Benedetti Fino ad ora abbiamo trattato (direttamente con le interviste a Patty e a Maria Ciuffi, o indirettamente grazie alla rielaborazione di dati estrapolati da ristretti.it) casi particolarmente drammatici ed eclatanti. Ma forse la realt del carcere italiano pu essere meglio rappresentata nella sua ordinaria inumanit proprio da storie che, fortunatamente, non sono sfociate in epiloghi tragici. Abbiamo cercato persone che avessero voglia di raccontare le loro storie ordinarie di carcere, e cominciamo il nostro racconto con la vicenda di Ivan Zancolich, una vicenda breve ma significativa, proprio perch narrata da una persona che non avrebbe mai pensato di affrontare lesperienza carceraria, e che quindi pu fornire un punto di vista diverso su quella realt. A seguire lesperienza di E.G., ex detenuto che ci ha chiesto di mantenere lanonimato. Padova, 14 gennaio 2004 intervista a Ivan Zancolich Domanda: Vorrei che fossi tu ad introdurre la tua storia e a spiegare come e perch sei finito in carcere. Ivan Zancolich: Mi chiamo Ivan Zancolich, sono uno psicologo e da qualche anno lavoro nel sociale. La vicenda che mi ha portato in carcere piuttosto allucinante, a mio avviso. Lavoro in una comunit di minori, e devi sapere che in questo ambiente ci sono delle procedure e

servizi particolari, tra cui il cosiddetto pronta accoglienza. Con questo servizio i minori presi in flagranza di reato vengono portati proprio in comunit di questo tipo e non in carcere (ti ricordo che per legge i minori di 14 anni non possono essere detenuti). Queste comunit non hanno lobbligo di trattenerli con la forza; la prassi che ho potuto constatare nel periodo in cui ho lavorato in quella comunit era questa, in estrema sintesi: i ragazzini arrivano, si compilano le carte per laccettazione, ma quando vogliono uscire dalla comunit nessuno li pu trattenere; lunico obbligo a capo del personale quello di fare un fax alla sede centrale della comunit, che poi attiver a sua volta le procedure con Questura e Tribunale. Bene, la sera dell8 dicembre 2003, arrivano due minori scortate dai cc, dopo aver disbrigato le pratiche per laccettazione, concedo loro di fare una telefonata a casa dopo la quale mi dicono di aver ricevuto indicazioni dai genitori che vogliono che tornino a casa. Cos le bambine lasciano la comunit. Poi succede un fatto strano: le bimbe rientrano in comunit dopo poco, molto spaventate dicendo di essere seguite da due brutti ceffi, che poi scoprir essere uomini dellarma. Allora esco a controllare e in effetti si ferma una macchina con a bordo due uomini che si qualificano come Cc e quando dico loro chi sono e cosa sto facendo mi salutano e mi lasciano andare. Ah, le bimbe mi avevano chiesto di portarle in stazione e stavo per farlo, ma lincontro coi cc mi aveva lasciato perplesso, quindi giro la macchina e faccio rientro in comunit. Qui le bimbe richiamano a casa, perch nel frattempo le avevo convinte a rimanere presso la comunit, ma i genitori non lo consentono, cos se vanno da sole a piedi verso la stazione. Dopo pochissimo tempo tornano i carabinieri e mi chiedono delle minori, dico loro ci che successo ma evidentemente, non conoscendo bene queste prassi, hanno ritenuto che io avessi commesso il reato di abbandono di minori. Beh, tutto in realt pi complicato, ma per sommi capi questa la storia. La cosa assurda, dal mio punto di vista, che io sono stato arrestato mentre stavo semplicemente facendo il mio lavoro. Domanda: Indipendentemente da quella che vedremo in seguito essere la tua storia di carcere, tu ti senti mancante in qualche aspetto (a livello di procedure amministrative, intendo)? Mi hai parlato, per esempio, dellobbligo di un fax Ivan Zancolich: In realt le cose sono un po pi complesse. Nella prassi operativa di tutti i giorni, con 7 o 8 ragazzini da gestire, ci possono essere dei ritardi nelloccuparsi di un adempimento burocratico quale pu essere il fax. Comunque, a questo proposito, ci tengo a precisare che io in quel periodo ero in prova e supervisionato da un altro operatore pi anziano, che avrebbe potuto/dovuto in qualche modo tutelarmi e spiegare a chi di dovere come erano andate le cose. E se non poteva farlo a titolo personale, poteva intervenire la Comunit. E questo non avvenuto per nulla. Domanda: Torniamo a quella che lesperienza pi direttamente attinente la nostra inchiesta. Vieni quindi tradotto in carcere: dove? Ti viene subito spiegato il motivo per cui vieni tratto in arresto? Ivan Zancolich: Da Mestre, dove sono stato arrestato, dopo il disbrigo delle prime procedure (impronte digitali, foto ecc.) sono stato tradotto al carcere di Santa Croce di Venezia, dove arrivo a mezzanotte. L vengo accettato dalle guardie carcerarie. Passa unaltra oretta di procedure (perquisizione ecc.) e alle tre di notte entro in quella che sar la mia casa

per i successivi tre giorni. Una cella con sei compagni, di circa 20 metri quadrati. Domanda: In quei tre giorni hai potuto parlare con qualcuno? Ivan Zancolich: Alla fine dei tre giorni s; ho parlato con lavvocato perch era arrivato il PM per interrogarmi. Domanda: Per i primi tre giorni quindi nessuno venuto a sentire le tue ragioni, la tua versione dei fatti? Ivan Zancolich: No. La prima persona che vedi con il potere di scarcerarti il PM Devo dire che tutte queste procedure di legge me le hanno insegnate i miei compagni di cella, io ero totalmente a digiuno delle procedure burocratiche inerenti quel mondo Mi hanno spiegato loro che ci sono 48 ore entro le quali la persona fermata vede il PM; se questo non ti rilascia ci sono altre 48 ore entro le quali dovrebbe venire ad interrogarti il GIP e decidere leventuale scarcerazione. A me andata bene, come ti dicevo, perch il PM ha deciso di scarcerarmi senza porre altre limitazioni (tipo obbligo di firma, arresti domiciliari o cose del genere). Domanda: C una cosa che mi lascia perplesso: tutta la tua accoglienza mi sembra approssimativa (come atteggiamento della amministrazione carceraria nei confronti di un nuovo arrivato, intendo): tu vieni inserito in un mondo totalmente alieno per te, eppure nessuno a livello ufficiale ti spiega quali sono i tuoi diritti e i tuoi doveri, le dinamiche allinterno del carcere, le mille cose spicciole che costruiscono la quotidianit di vita nel carcere. E poi: dellavvocato mi hai gi detto. Ma in quei tre giorni hai avuto altri contatti con lesterno? La tua compagna Valentina, i familiari, intendo Ivan Zancolich: Solo i compagni di cella mi spiegano come ci si deve comportare, quali sono le prassi da seguire, cos lufficio matricola, tanto per dire Io ero totalmente alloscuro di queste procedure interne. Sono loro che mi danno tutte le informazioni necessarie. Per quanto riguarda altri contatti con lesterno: no, non ne ho avuti; perch quando vieni arrestato non puoi parlare con nessuno finch non vedi il PM, perch ci sarebbe la possibilit di inquinamento delle prove. E questa devo ammettere che mi sembra una prassi comprensibile. Lunico contatto che si pu avere, e solo in entrata, sono i telegrammi. Valentina mi mand un telegramma con il nome dellavvocato da nominare (chiaramente nel momento in cui ero stato arrestato non avevo un avvocato di fiducia, non avevo mai pensato di poterne avere bisogno). Domanda: Tutta la tua esperienza in carcere deve esserti sembrata estranea e ostile rispetto al tuo modo di vivere consueto, ma c qualcosa che ti ha colpito particolarmente? Ivan Zancolich: Beh, tutto particolare e curioso, perch allinterno del carcere si creano delle dinamiche particolari, quasi fosse un mondo totalmente a s. Non riesco ad isolare un

singolo aspetto che mi abbia colpito in particolare. Anche perch tu prova ad immaginare come pu sentirsi uno che viene preso e portato in carcere mentre sta lavorando, e senza sentire in coscienza di aver fatto nulla di male! Non riesco, insomma, a focalizzare un solo aspetto. Posso dire che quello che pi mi rimasto di questa esperienza stato il contatto con gli altri carcerati. Perch tu arrivi l dentro e sei come un bambino, non sai niente di quel mondo, e quella sar, per i giorni successivi, la tua famiglia. Ti consolano, ti dicono come muoverti Questa la cosa che mi ha colpito di pi. Ma io penso di essere stato molto fortunato ad incontrare persone cos umane, che mi hanno aiutato a superare quei momenti. Domanda: Quindi tu, per quanto hai potuto vedere nella tua limitata esperienza, non hai vissuto esperienze ostili; non hai visto episodi di nonnismo o forme di sopraffazione fra i detenuti, ma hai vissuto anzi un ambiente di accoglienza Ivan Zancolich: Guarda, il nonnismo credo proprio che esista anche nel carcere, anche in base a quanto mi hanno detto i miei compagni di cella. Furono le stesse guardie carcerarie, dopo aver espletato tutte le formalit per la mia accettazione, a dirmi che mi avrebbero messo in una cella di definitivi, ossia persone che hanno gi avuto la condanna e sanno cosa li aspetta, per cui con un livello di ansia e di aggressivit inferiore rispetto a quello della popolazione carceraria in attesa di giudizio e che non sa ancora a quale pena andr incontro. Mi diceva un ragazzo che nelle celle dei negretti (come li chiamava lui), ossia abitate da soli extracomunitari, a volte la situazione era insostenibile. Perch questi non hanno soldi, capiscono a malapena la lingua Ripeto, so di essere stato fortunato ad essere messo in cella con persone che avevano gi consolidato le proprie dinamiche interne al carcere e sapevano gi quanto dovevano rimanere l dentro, per cui accettavano quella vita; non dico che laccettavano serenamente, ma se ne facevano una ragione. Chi l e non parla litaliano, non ha un avvocato, non ha soldi, non sa bene quali siano le sue prospettive Beh, credo che per quella gente la realt sia molto pi dura Domanda: Volevo chiedere una cosa alla tua compagna, Valentina. Abbiamo sentito come ha vissuto la sua storia Ivan. Abbiamo detto che la sua stata unesperienza aliena. Ma penso che il termine aliena o estranea possa definire anche la tua esperienza Per cui volevo sapere la tua storia: come e quando hai saputo dellarresto, quali sono state le tue reazioni eccetera. Valentina: Io vengo a sapere dellarresto il giorno stesso, alla mezzanotte dell8 dicembre. Doveva essere una serata tranquilla, ricordo che avevamo in programma di vedere la seconda puntata de La meglio giovent. Ivan doveva arrivare verso le nove e mezza di sera. Alle dieci e mezza ho cominciato a preoccuparmi: so che alla Comunit pu sempre succedere qualche imprevisto, ma lui in questi casi mi chiama sempre; e poi quando ho provato a chiamarlo non rispondeva al cellulare. Ad un certo punto ho chiamato anche la sede della comunit, ma mi hanno risposto genericamente che cera stato qualche contrattempo e che non dovevo preoccuparmi. Dopo pochi minuti mi telefona un Commissario che mi dice la sto chiamando per notificarle larresto di Ivan Zancolich. Io in quel momento non riuscivo a realizzare laccaduto, pensavo addirittura ad uno scherzo di qualcuno della comunit, e mi sono fatta ripetere il suo nome un paio di volte.

Sono il commissario D., dei carabinieri di Cessalto Tra laltro devi sapere che Ivan lavora a Marghera, mentre Cessalto in provincia di Treviso, per cui non riuscivo a capire cosa potesse essere successo. Chiedo quindi informazioni pi precise al commissario, che mi risponde Zancolich stato arrestato per abbandono di minore. A quel punto ho richiamato la Comunit, ma loro non ne sapevano nulla. Ed a qui che cominciata una vicenda che posso solo definire, per quel che mi riguarda, assolutamente kafkiana. Non ho dormito tutta la notte. La mattina dopo ho telefonato ad un amico per raccontare la storia. Ero sconvolta, era la prima volta che mi capitava di dover assistere una persona arrestata. Pu sembrare assurdo, ma ricordo che ho pensato che la vicenda non doveva essere tenuta segreta, ma che era talmente assurda che dovevo far sapere la notizia a pi persone possibili. Quindi, dopo aver chiamato questo mio amico e dopo aver trovato un avvocato per Ivan, ho chiamato la Comunit, che mi ha lasciato completamente a piedi Devi sapere che si tratta di una IPAB; un istituto di matrice religiosa che ha un sacco di comunit satelliti (sia per il recupero di minori, sia di richiedenti asilo), quindi una comunit molto nota e influente nellambiente. Probabilmente non sapevano bene neppure loro come erano andati i fatti, ed hanno pensato bene di scaricare tutta la responsabilit su Ivan e di dirmi che loro, in ogni caso, non potevano farci nulla. Poi c laspetto finanziario (pagare lavvocato eccetera): io ho solo una borsa di studio e Ivan faceva loperatore in prova, per cui anche laspetto economico poteva diventare un problema. Devo dire che abbiamo avuto massima solidariet dagli amici, dai compagni che ci sono stati vicini, dallassociazione per cui avevamo lavorato in passato entrambi, per cui non mi sono sentita sola La cosa peggiore che non potevo comunicare con lui. In quei momenti ti vengono in mente le cose pi banali, le esigenze che poteva avere Ivan e che io non potevo soddisfare. Per esempio, Ivan miope e porta le lenti a contatto, e pensavo a come potevo fargli avere gli occhiali perch non poteva stare con le lenti per tanti giorni. Non sapevo se avesse soldi con s, sicuramente non aveva indumenti per cambiarsi E io mi sentivo impotente, non sapevo cosa potevo fare per lui, e questa stata la cosa peggiore, per me. Domanda: Tornando ad Ivan: dopo questa brutta avventura hai avuto anche ripercussioni negative a livello lavorativo? Ivan Zancolich: Beh, chiaramente non me la sono pi sentita di tornare in quella Comunit Altre ripercussioni non le so e non le posso ancora sapere, perch la storia ancora troppo fresca. Sto cercando un altro lavoro, sempre nel mio campo, e gli articoli denigratori che sono usciti sui giornali in quei giorni (cose allucinanti, del tipo mandava a rubare le bambine zingare invece di educarle) non so cosa potranno portare nel mio futuro. In questo caso spero che la memoria della gente sia breve, per cui spero che articoli apparsi solo per due-tre giorni non lascino il segno. Domanda: Una domanda che estranea alla nostra inchiesta, ma che mi sorge spontanea vista lassurdit della tua storia: pensi che dietro al tuo arresto possa esserci stata qualche manovra strana nei tuoi confronti? Ivan Zancolich:

Sinceramente penso di no. Non credo ci sia stato un disegno per incastrarmi. Credo semplicemente che i carabinieri di Cessalto non conoscessero bene le procedure operative che sono allordine del giorno e ben conosciute dai tribunali dalle questure e da chi opera in questi settori. Penso che quei carabinieri abbiano vissuto un senso di frustrazione nel portare quelle bambine alla Comunit e nel ritrovarsele dopo una settimana a rubacchiare in giro Quindi credo che abbiano fatto partire una loro indagine autonoma e che la sfortuna cosmica abbia voluto che ci finissi di mezzo io, loperatore che stava seguendo proprio quel caso. Valentina: Rispetto alle prassi e al lavoro in questo settore volevo aggiungere una cosa. Il fatto che la gestione di servizi di questo tipo (comunit di minori, nel nostro caso) non avvenga tramite strutture pubbliche, ma venga lasciata a soggetti privati o semi-privati comporta a mio avviso anche una minore tutela dei lavoratori. Ivan si trovato in questa situazione e nessun ente ha voluto/potuto tutelarlo. Anche perch in questo campo non ci sono leggi o regolamenti precisi, ma solo prassi consolidate di queste comunit che vengono poi condivise dai soggetti pubblici che gravitano attorno a questa realt (tribunale, comune di Venezia ecc.). I carabinieri di Cessalto probabilmente non erano a conoscenza di questa prassi; per cui anche dal punto di vista legislativo ci sono lacune e scollegamenti fra apparati che invece dovrebbero dialogare ed interagire. Per cui immagino che se invece dei carabinieri di Cessalto Ivan avesse incontrato quelli di Marghera le cose sarebbero andate diversamente, perch questi ultimi conoscono gi bene questa realt e sanno come comportarsi Domanda: Volevo soffermarmi sullaspetto pi puramente umano ed emozionale: cosa hai provato quando sei stato arrestato e quali sono state le tue reazioni a livello emotivo in quei tre giorni? Ivan Zancolich: Quando mi hanno arrestato la mia reazione stata di incredulit. Devo avergli risposto qualcosa tipo ma state scherzando?!. Successivamente non ho avuto un crollo emotivo, ho sempre cercato di mantenermi lucido e razionale. Ho cercato di capire se cera il modo di dare le spiegazioni giuste ai carabinieri, magari mettendoli in contatto con laltro operatore alla comunit, per era tutto inutile. A quel punto, quando ho capito che la decisione dellarresto era irrevocabile, ho smesso di parlare e mi sono semplicemente sottoposto alle procedure per la traduzione in carcere L per l non ci credevo, mi sembrava solo un brutto sogno Il brutto viene quando entri in cella. Le prime 24 ore emotivamente sono state davvero brutte. Non riuscivo a parlare con nessuno perch mi veniva il magone; mi sentivo vittima di un torto enorme Le emozioni non riesco a descrivertele bene Una sensazione di impotenza, di sopruso subito, di rabbia, di preoccupazione per chi stava fuori (perch sapevo che anche per loro sarebbe stato un colpo molto duro) E poi preoccupazione per me, per il futuro, perch io lavoro con i minori ed un lavoro che amo molto, ed ho pensato che in seguito allarresto magari non avrei pi potuto lavorare con i minorenni, con i bambini Tutto un turbinio di sensazioni, non mi possibile isolarne una Domanda: Volevo chiederti unultima cosa. Mi hai detto che per alleviare questa tua brutta esperienza ti servito molto laver trovato contatti umani significativi con i tuoi compagni di cella: sono poi proseguiti una volta che hai riacquistato la libert, o stata

unesperienza confinata a quei soli tre giorni? Ivan Zancolich: No, lesperienza non finita l. Anche perch io sento un dovere di riconoscenza verso queste persone e i contatti continuano tramite lettere. Loro in quei giorni (visto che eravamo vicini a Natale) mi hanno chiesto se potevo mandargli delle cartoline che poi loro avrebbero spedito a parenti ed amici, e questo lho fatto con piacere: ho comprato buste e cartoline natalizie e gliele ho spedite. Poi ho cercato di aiutare economicamente uno di quei ragazzi, che sotto quellaspetto era messo molto male. Ma sono cose che mi sembrano naturali: cos come loro hanno aiutato me in quei momenti, le piccole e poche cose che potevo fare per loro da fuori le ho fatte e le far volentieri. E adesso continuo questo rapporto epistolare (specie con uno di loro, un ragazzo che deve farsi dentro un bel po di tempo), perch ho capito che per loro importante scrivere e ricevere lettere, avere un contatto con chi sta fuori, con chi vive la libert, con chi vive il mondo: ricevendo una sua lettera come se una parte di quel mondo libero ti entrasse in carcere E poi lopportunit di scrivere e di esternare i sentimenti importante in quellambiente. Molti mi dicevano che diventa difficile farlo in un ambiente chiuso ed aggressivo come il carcere. Riuscire a comunicare difficile quando non hai neppure la libert per fare quattro passi dentro il carcere, per cui ti devi inventare mille scuse per farti un giro e cos fermarti a parlare con chi sta facendo le pulizie Poi, ripeto, io ho visto solo una realt, e credo sia stata la migliore che potesse capitarmi in quel frangente, perch tutto sommato in quella cella laria che si respirava era quella di una comunit , di una piccola famiglia Loro una sera me ne parlarono proprio cos: Qui la famiglia siamo noi. Se non ci aiutiamo, io con te e tu con me, se non ci passiamo le sigarette quando siamo senza o non ci diamo una mano luno con laltro, che fine facciamo, visto che siamo nella stessa barca? *** 25 febbraio 2004 intervista a E.G. Domanda: Quando sei stato incarcerato per la prima volta? E, in seguito, quali sono state le tue esperienze nei penitenziari italiani? E.G.: Il 25 aprile 1975, per detenzione e spaccio stupefacenti. Poi, sempre quellanno, a luglio, ancora per detenzione e spaccio. Poi tante altre volte, o per roba o per furti. Di carceri ne ho visti tanti. Cremona, Brescia, Mantova, San Vittore, Opera, Busto Arsizio, Gallarate, Brescia, Bologna, Reggio Emilia, Piacenza, Massa Carrara, Pisa, Livorno Domanda: Immagino che avrai trovato esperienze e contatti umani molto diversi in questi anni. C qualche cosa che ti ha colpito particolarmente, sia riguardo al rapporto fra detenuti, sia riguardo al rapporto con gente che lavora nel carcere (agenti, volontari ecc.)? E.G.: Guarda, posso dirti che tra i detenuti ho visto sempre molta solidariet. Le cose che non vanno bene, quelle che non si devono fare Beh, si sanno subito. Certi soprusi tra detenuti io li ho visti solo nei film americani.

Domanda: Tu dici: prepotenze fra detenuti non ne ho viste E.G.: Beh, un attimo: ne ho viste, ma ho visto anche le conseguenze che subiva chi, fra i detenuti, commetteva quelle prepotenze ai danni di altri: scattava sempre la solidariet. Domanda: Okay. Ma soprusi da parte di guardie carcerarie nei confronti dei detenuti, invece? E.G.: S, ne ho visti. Si trattava sempre di episodi commessi in modo che dopo si potesse imboscare tutto. Non ti dico di cose eclatanti, ma di botte s, tante. Ho visto gente picchiata di brutto. Domanda: E per quali motivi? E.G.: I motivi? Beh, di versioni ce ne sono sempre due: quella del carcerato e quella della guardia! Qualche botta lho presa pure io. Ricordo di una volta che avevo chiesto una pastiglia per il mal di testa e non me la portavano. Allora cominci a lamentarti dopo mezzora Poi dopo unora. Dopo due ore cominciano a volare le parole, poi ti lascio immaginare Domanda: E gente che si ammazzata in carcere ne hai vista? E.G.: S. Ma pochi e sempre a cose fatte. Atti di autolesionismo s, tantissimi Per, ti dir, credo che se uno vuole morire si ammazza e basta. Gli atti di autolesionismo spesso sono un modo per attirare lattenzione su di s; un modo disperato per dar forza a certe richieste. Domanda: Parlami dei contatti con lesterno: visite telefonate E.G.: Ci sono i colloqui e le telefonate stabilite per legge ogni mese. Se non sbaglio adesso sono cinque colloqui al mese, pi tre telefonate di sei minuti luna, sempre al mese. Poi dipende dal tuo comportamento: se non hai ammonizioni o roba del genere possono concederti qualche colloquio in pi Poi dipende anche dal carcere; in un penale hai qualcosa in pi. Ti ricordo che esistono due tipi di carceri. In quello circondariale ci vai appena arrestato, poi c il processo e se prendi una condanna consistente non puoi stare in quel tipo di carcere. Nel penale, insomma, ci vai se hai preso una condanna definitiva di una certa entit; e l hai qualche agevolazione in pi. Domanda: Immagino che, nelle tue esperienze di carcere che si snodano lungo quasi trentanni, avrai notato che la percentuale di carcerati extracomunitari aumentata moltissimo.

E.G.: S, adesso saremo attorno al trenta per cento o gi di l Domanda: Il trattamento riservato loro analogo a quello riservato agli italiani? E.G.: Beh, il trattamento dovrebbe essere uguale. Poi si recita a soggetto: c lagente che ce lha con i detenuti in generale, quello che odia i marocchini, quello per cui tutti sono uguali... Poi, chiaro, se guardi lordinamento, i diritti sono diritti, e dovrebbero essere garantiti per tutti. Domanda: Hai mai visto direttori di carceri prendere provvedimenti nei confronti di guardie che avessero commesso abusi nei confronti dei prigionieri? E.G.: S, la direttrice che era al carcere di Cremona fino ad un po di tempo fa. Lei guardava dove era il torto e dove la ragione, e se era il caso difendeva il detenuto. In linea generale, tieni conto innanzitutto di una cosa: nel carcere c il direttore, s, ma c anche un maresciallo, un responsabile delle guardie; ed lui il responsabile della sicurezza nel carcere. Il direttore conta pi del maresciallo, chiaro, ma la sicurezza ce lha in mano questultimo, e se lui dice che una certa guardia si comportata in un certo modo per motivi superiori di sicurezza, perch altrimenti poteva succedere unevasione, una rivolta o cose del genere Beh, la scusa per lagente gi trovata, e il direttore pu dire quello che vuole! Insomma, se una guardia fa qualcosa di male ad un carcerato per avere ragione ce ne vuole; se invece sei tu che fai qualcosa di male ad una guardia, sei mesi in pi di galera te li becchi subito Sei mesi me li sono presi pure io, in quel modo Domanda: Cosa avevi fatto? E.G.: Gli avevo tirato una bottiglia in testa. Mi aveva esasperato A me sembrava di avere ragione, ma i sei mesi me li sono beccati subito. E sono finito a Busto Arsizio, in un punitivo. Domanda: La nostra inchiesta rivolta soprattutto a chi in carcere non c mai stato e ne ha unidea vaga e magari pensa che le carceri italiane siano, come disse il Ministro Castelli, hotel di lusso. Ti senti di dire qualcosa, al proposito? E.G.: Alberghi di lusso gi, lo disse a Cagliari, in visita al Buoncammino Beh, lasciando stare le provocazioni, ti dico che uno che in carcere non c mai finito deve preoccuparsi innanzitutto di non andarci!!! Ma se ci finisci dentro (ed pi facile di quanto si possa pensare) devi innanzitutto preoccuparti di capire come ci si deve comportare, l. Convivere con altra gente, con la testa diversa dalla tua, non semplice anche fuori; ma in carcere di problemi ce n anche di pi Ma se non sei un bastardo qualcuno che ti dia una mano, l, lo troverai. Fra i detenuti troverai come una societ del mutuo

soccorso interno. Insomma, se ci finisci dentro, non contare tanto sul tuo avvocato, ma cerca di capire innanzitutto laria che tira e cosa bene e cosa non bene fare, l dentro *** IL CARCERE VISTO DA di Francesco Barilli In questa sezione vedremo di affrontare il mondo carcere assieme a chi ha vissuto questa realt dallaltra parte della barricata (direttori di istituti, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria), o assieme a chi il carcere lha conosciuto come detenuto, ma ha deciso (sia durante che dopo lesperienza detentiva) di impegnarsi in prima persona nel difficile tentativo di migliorare le condizioni di vita nelle carceri, o comunque di denunciare le innumerevoli storture di questa istituzione. Apriamo questa parte della nostra inchiesta con una testimonianza che rientra nella seconda possibilit; la testimonianza di Sergio Segio, dellAssociazione SocietINformazione. Si tratta di un personaggio gi noto per i lettori che si sono interessati delle problematiche carcerarie; per quelli che non lo conoscessero, rimandiamo alla sua prima risposta, che costituisce anche una presentazione della sua esperienza umana e del suo impegno civile. Di seguito potete trovare un contributo che rientra nellesperienza di chi il carcere lo conosce bene dopo averci lavorato per molti anni, sempre impegnato nellobbiettivo di costruire un carcere migliore e pi umano. Si tratta di Luigi Pagano, a lungo direttore di San Vittore e oggi Provveditore regionale delle carceri lombarde. Ringraziamo di cuore Sergio Segio e Luigi Pagano per la pazienza e la disponibilit che ci hanno concesso. Milano, 2 luglio 2004 intervista a Sergio Segio Domanda: I media che parlano di lei spesso partono con una presentazione comune, parlando quasi con curiosit di Sergio Segio, ex terrorista che in seguito, allinterno del carcere, ha scoperto limpegno sociale a fianco dei detenuti. Al di l della banalit della definizione, come maturata dentro di lei la decisione di questo impegno civile? Sergio Segio: Potr forse scandalizzare qualcuno, ma limpegno sul/contro il carcere un tratto di continuit nella mia biografia individuale e politica. Nei primissimi anni Settanta militavo in Lotta continua che, unico tra i gruppi dellallora sinistra extraparlamentare, aveva un forte intervento di sostegno ai detenuti. In seguito, con Prima linea, lorganizzazione armata che fondammo a met degli anni Settanta, la critica contro listituzione totale carcere si fece ancor pi radicale. Successivamente, ho scontato complessivamente una pena di 22 anni. Pur se ho maturato da tempo una convinzione nonviolenta, conoscere dallinterno la prigione ha rafforzato la mia visione critica di questa istituzione, la cui funzione sempre pi identificabile quale quella di contenitore di povert, sostituto autoritario alle politiche di welfare. anche per questo, oltre che per solidariet umana verso chi vive lesperienza della prigionia, che da anni svolgo attivit di volontariato sui temi del carcere e della giustizia. Sono stato per molti anni responsabile del Gruppo Abele per queste problematiche, faccio parte del direttivo della Conferenza nazionale volontariato giustizia e di Forum

Droghe. Ma lattenzione e impegno su questa difficile problematica attraversa anche le mie altre attivit pubblicistiche e di ricerca. Uno dei capitoli del Rapporto sui diritti globali, promosso da una rete di associazioni (CGIL, ARCI, Antigone, Legambiente, Coordinamento nazionale comunit di accoglienza), che curo e realizzo annualmente attraverso il centro studi della mia associazione, SocietINformazione, dedicato proprio al carcere e alle giustizia. Mi scuso per aver citato le cose che faccio, ma per dire che mi pare vi sia da parte mia linearit e non folgorazione al riguardo. Del resto, anche da dentro le carceri, con i miei compagni, alla met degli anni Ottanta avevamo sviluppato una forte dialettica con i parlamentari, ma anche gli enti locali, per promuovere la riforma, che poi venne varata nel 1986, e per una maggior apertura e comunicazione tra interno ed esterno. In ogni modo, credo che il carcere sia e debba essere considerato, non a s stante, ma come un capitolo delle politiche sociali. Quindi, limpegno sul carcere per me parte di un pi complessivo impegno contro lesclusione e per una maggior giustizia sociale. Domanda: Uno degli aspetti che pi colpisce nel carcere questo: la presenza di un alto tasso di recidivi. Molti attribuiscono questa recidivit a una predisposizione naturale di quei soggetti verso il crimine: mi sembra una spiegazione, oltre che banale, molto comoda. In questo modo, infatti (attribuendo cio questo mancato recupero alla semplice predisposizione al crimine) si nasconde il fallimento del carcere come istituzione che dovrebbe tendere al recupero del detenuto. Secondo lei cosa manca al carcere (come istituzione) affinch si possa parlare davvero di una struttura che tende al futuro reinserimento dei soggetti nella societ? Sergio Segio: Il fallimento reale ed evidente. Alcuni, la destra, ne traggono una considerazione di impossibilit. Ad esempio, AN ha depositato il 28 aprile 2004 una proposta di legge, primo firmatario Cirielli, che tende addirittura a modificare larticolo 27 della Costituzione, a favore di una concezione della pena come deterrenza ed esemplarit. In sostanza, come pura e semplice ritorsione sociale o, pi crudamente ma realisticamente, come vendetta, come incapacitazione selettiva delle fasce sociali pi a rischio e meno integrate. Esattamente come avviene negli USA, dove ormai con oltre 2 milioni di persone in carcere e altri 5 milioni sottoposte a controllo penale esterno (probation, libert sulla parola, ecc.), si raggiunto un impressionante primato. In quel Paese il 12,9% dei giovani neri, di et compresa tra i 25 e i 29 anni, in carcere. Tra i bianchi della stessa fascia det, la percentuale dell1,6%. insomma evidente la funzione di contenitore e di ghetto in cui rinchiudere chi disturba. Cifre cos imponenti, peraltro, falsano anche i dati sulloccupazione e la stessa platea elettorale, perch si tratta di milioni di persone che di fatto o per legge non possono votare. Il carcere, in particolare negli ultimi decenni, diventato un deposito di quelli che il criminologo abolizionista Nils Chistie ha efficacemente definito nemici perfetti, vale a dire di quei soggetti e gruppi sociali facilmente stigmatizzabili e da sempre oggetto di processi di esclusione: tossicodipendenti, immigrati, senza dimora, giovani delle periferie urbane, ecc. Dunque, il penitenziario al contempo un modello sociale incapacitativo e un business che naturalmente tende a incrementare se stesso. LItalia dichiaratamente e da tempo indirizzata a unemulazione di tali logiche. Sia sul versante dellipertrofia del sistema che del business. Il ministro Castelli, inaugurando recentemente un nuovo carcere in Campania, a SanAngelo dei Lombardi (ci sono voluti 19 anni per costruirlo) ha

annunciato che 23 nuove strutture carcerarie saranno realizzate nei prossimi 10 anni. Costo previsto 1,7 miliardi di euro! (di cui 1,2 di fondi pubblici). Per il programma ordinario di edilizia penitenziaria, istituito con la legge 1133/1971 sono stati sinora stanziati (sino alla finanziaria del dicembre 2001) ben quasi 3 miliardi di euro. Insomma, cifre enormi, che non risolvono alcun problema e che di fatto vengono sottratte a politiche sociali, alla prevenzione e reinserimento, che diversamente potrebbero avere grande efficacia dal punto di vista anche del contenimento del crimine e dellabbattimento della recidiva. Deve essere chiaro che questo significa tolleranza zero, come dimostra lesperienza della citt di New York che di tali politiche stata la culla allinizio degli anni Novanta, quando in 5 anni ha quasi raddoppiato il budget della polizia, portandolo allequivalente di oltre 5.000 miliardi di lire (quattro volte tanto gli stanziamenti invece concessi agli ospedali pubblici) e aumentandone gli organici di 12.000 unit; nello stesso periodo, il budget dei servizi sociali stato decurtato di un terzo, con la perdita di 8.000 operatori. In virt di questi spostamenti di risorse, dallo Stato sociale si passati allo Stato penale, dove il carcere diventa semplicemente un contenitore. In realt, la recidiva la spia di una contraddizione insanabile. Il carcere non la medicina bens la malattia. Nella visione rieducativa e correzionalistica, il contatto con la societ visto come medicina che recupera e rieduca il deviante. Al contempo, tale medicina viene prima traumaticamente negata mediante la separazione forzata e linternamento e, poi, irragionevolmente centellinata e diluita sino a rendere inefficace il principio attivo del farmaco. Diversamente, leziologia del male che ha portato al crimine, se indagata, quasi sempre rivelerebbe nel singolo individuo un deficit pregresso di socialit e di opportunit: cio di quanto, di nuovo, gli viene negato in forza e nelle forme della pena reclusiva, aspettandosi - o fingendo di attendersi - che ci possa contribuire alla sua guarigione, che si possa cio reinserire senza aver prima mai inserito ma, allopposto, emarginato. La stragrande maggioranza della popolazione detenuta proviene dai ceti sociali pi svantaggiati, economicamente e culturalmente. Il sistema penale e penitenziario, insomma, conserva una logica e caratteristiche, ma anche una funzione, di classe. Basti guardare al grado di istruzione: sui 54.237 detenuti in carcere al 31 dicembre 2003, infatti, 457 risultavano laureati, 2.277 con diploma di scuola media superiore, 1.953 con diploma professionale, 20.570 con licenza di scuola media inferiore, 15.102 con quella di scuola elementare, 3.423 privi di titolo di studio, 767 analfabeti (per 9.688 il dato non stato rilevato). Per quanto invece riguarda la situazione lavorativa precedente alla carcerazione, solo 13.953 risultavano avere una precedente occupazione, 13.791 erano disoccupati, 1.405 in cerca di occupazione, 350 erano casalinghe, 452 studenti, 328 ritirati dal lavoro, 9 in servizio di leva, 493 di altra condizione, mentre per 23.456 il dato non era stato rilevato. Se non si pone mano ai nodi che queste cifre sottolineano il reinserimento rimane una parola vuota. Ma questa questione e deficit che riguarda non tanto listituzione carcere quanto la responsabilit politica, le istituzioni allesterno, che devono investire in politiche sociali, in opportunit sul territorio, in percorsi di inclusione. Domanda: Avendo vissuto il carcere in prima persona credo che lei si sia reso conto, oltre che del disagio dei detenuti (di cui fino ad ora abbiamo parlato abbondantemente nella nostra inchiesta), anche della vita di operatori, agenti di polizia penitenziaria, e di tutta lumanit che gravita attorno al mondo-carcere. Credo che anche queste persone condividano, seppure in forme e per motivazioni diverse, il disagio del carcere, e volevo sapere, in base alla sua esperienza, quale sia la sua impressione sulla vita quotidiana di queste persone. In altre parole: esistono, a suo avviso, delle lacune nellistituzione-carcere che

rendono in qualche modo difficile la vita anche a chi nel carcere opera quotidianamente? Sergio Segio: indubbio che il degrado e il disagio connesso a una gestione disastrosa e disastrata dellamministrazione penitenziaria si ripercuotono in primo luogo sui reclusi ma anche e contemporaneamente su chiunque vive e lavora in carcere. Ad esempio, laltra faccia del sovraffollamento il carico di lavoro ulteriore ed eccessivo che grava su un numero di operatori che, diversamente, sono gi cronicamente sotto organico. Anche qui valgano alcune cifre: per quanto riguarda le sedi dirigenziali, la presenza effettiva di 69 unit su un organico complessivo di 385 posti; su 204 istituti 49 risultano privi di direttore titolare. Gli educatori sono tradizionalmente la cenerentola del sistema: 558 su un organico previsto di 1.376. Ancora peggio la situazione degli psicologi e, in generale, del personale sanitario. Migliore lorganico degli agenti di polizia penitenziaria: 42.781, oltre a 7.046 unit di personale amministrativo e tecnico (ma dovrebbero essere 10.025). Pur se mal distribuito, il numero degli agenti decisamente superiore alla media degli altri Paesi. Ma nel loro caso il disagio viene dalle condizioni di lavoro, rese difficoltose dai problemi strutturali, nonch da quelle abitative. E, ancora di pi, c un problema di formazione insufficiente, per non dire inesistente. Domanda: Tornando al suo impegno nel carcere: quale stata liniziativa o lesperienza che pi la rende orgoglioso di quel suo impegno civile? Sergio Segio: Su un problema cos difficile e trascurato da tutti, sinistra e movimenti compresi, le cose che si fanno sono sempre insufficienti e quasi mai portano a risultati concreti e duraturi. Sul carcere, del resto, vale la legge non scritta che per fare le riforme, per migliorare la situazione occorrono decenni, mentre per le controriforme, le chiusure, bastano pochi mesi: un paio di fatti di cronaca nera e qualche campagna allarmistica sui media. Anche la campagna per lindulto-amnistia e per il piccolo Piano Marshall per le carceri che, assieme ad altri, promossi nel 2000, in occasione del Giubileo, ma che continu incessantemente per 3 anni, non ha portato ai risultati auspicati. Il gioco dei veti incrociati, un cinico ping-pong che quasi tutte le forze politiche misero in campo, mand deluse le aspettative. Lindulto alla fine non si fece e anche il piano Marshall non pot decollare perch, nonostante le promesse che ottenemmo dallallora governo Amato e dal centrosinistra di inserimento di apposite risorse nella Finanziaria 2001, la fine anticipata della legislatura e, di nuovo, la disattenzione se non indisponibilit di gran parte del Parlamento, port il tutto su un binario morto. Pure, credo che quella lunga campagna e le tante iniziative che portammo avanti, riuscendo a coagulare un cartello di forze composto da tutte le maggior organizzazioni sindacali, del volontariato, della cooperazione sociale e delle piccole imprese, sia comunque servita a togliere dallisolamento e dallinvisibilit le problematiche penitenziarie e a gettare le basi, anche allinterno, di una maggior coscienza e capacit di rivendicare diritti e cambiamento. A quella nostra proposta, peraltro, e a proposito della domanda precedente, aderirono anche i maggiori sindacati della polizia penitenziaria, che si dichiarano a favore dellindulto-amnistia e del piano Marshall, come precondizione per laffrontamento dei problemi strutturali del sistema. Fu un risultato non da poco, che ha contribuito a cambiare un po anche la loro cultura e le spinte corporative.

Domanda: Volevo un suo parere in generale su uno dei problemi che, quando si parla di questo mondo, ricorre pi frequentemente: il sovraffollamento. Oltre ad un utilizzo pi intenso delle misure alternative, quali potrebbero essere le soluzioni a tale problema? E quale il suo giudizio sul recente dibattito in Italia circa le misure svuota-carceri, che ha prodotto il cosiddetto indultino? Sergio Segio: Lindultino, ribattezzato dai detenuti insultino, stata una vera e propria truffa. Sia perch, come avevamo inascoltati da subito denunciato, non avrebbe portato nessun beneficio: chiunque conosca la materia sapeva bene che quella legge non avrebbe potuto fare uscire un solo detenuto in pi, semmai qualcuno in meno, di quanti sarebbero comunque usciti con le misure alternative gi in vigore. I dati lo hanno poi dimostrato. Come ha recentemente dichiarato il vicecapo dellamministrazione penitenziaria Di Somma, Appena 4.000 detenuti sono stati liberati: esattamente la met rispetto alle previsioni. Altro che svuotamento delle carceri. Fatto sta che oggi siamo di nuovo tornati a superare i 56.000 detenuti a fronte di 42.000 posti. Esattamente come prima dellindultino. Quello che Di Somma non dice che gran parte dei 4000 usciti, sarebbero usciti comunque in affidamento al servizio sociale, una misura alternativa gi esistente e assai meno vessatoria delle norme introdotte dallindultino. Laltro motivo per cui parlo di vera e propria truffa che si spacciato per provvedimento di clemenza quello che, come giustamente e autorevolmente ha commentato Emilio Santoro, docente universitario di Firenze e direttore del Centro di documentazione Laltro diritto, era in realt un provvedimento antirecidiva ispirato a una logica puramente repressiva. Peraltro e in verit, se lindultino sicuramente ha rafforzato la logica repressiva, attraverso il sistema rigidissimo di controlli e prescrizioni che ha introdotto, diversamente non ha avuto n poteva avere efficacia antirecidiva, la quale ha bisogno di sostegno al reinserimento socio-lavorativo non di controllo poliziesco. Affossata, grazie a quella legge-truffa, ogni ipotesi di indulto-amnistia, ora il problema del sovraffollamento diventato ancor pi esplosivo. Le soluzioni possibili stanno s in una rivitalizzazione delle misure alternative, ma anche in un progetto serio di depenalizzazione. Rivolto per non gi ai reati economico-ambientali e a beneficio dei pi forti, come temo questo governo e lattuale commissione per la riforma del codice penale vogliano perseguire, bens a quelle leggi ingiuste che, da sole, producono la gran parte delle carcerazioni: in primo luogo la legge sulle droghe (che per giunta Fini e il governo vorrebbero peggiorare, rendendo le pene pi pesanti, da 6 a 20 anni, colpendo anche il consumo personale ed equiparando droghe leggere e pesanti), ma anche le norme sullimmigrazione. Domanda: La scarsa conoscenza delluniverso penitenziario porta spesso lopinione pubblica a pensare che le carceri siano quasi degli alberghi di lusso, come infelicemente sintetizz il ministro Castelli in visita al Buoncammino di Cagliari un paio di anni fa. A questo proposito mi viene in mente il prof. Della Casa, docente in diritto penitenziario, il quale ha amaramente detto: il carcere non dovrebbe essere qualcosa di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella societ civile. il carcere non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, un luogo utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe meglio un impegno civile, costante e continuo.. Nella visione distorta, distratta e parziale che

lopinione pubblica ha del carcere, quali sono, a suo avviso, le colpe della politica, e quali quelle dei media? Sergio Segio: Le responsabilit sono indubbie ed enormi. La politica ha laggravante di legiferare su una materia come questa che spesso non conosce e non vuole conoscere. Ma tra media e politica (di centrodestra cos come di centrosinistra) in questi anni si costruito un sistema di gioco di specchi, che ha fatto della strumentalizzazione della paura e dellenfasi securitaria un paradigma culturale e una centralit politica che ha reso il carcere un valore, una panacea per qualsiasi problema e contraddizione sociale. A differenza del professor Della Casa, temo che del carcere non si parli e non ci si interessi neppure in occasioni di eventi che dovrebbero commuovere. Basti vedere la cappa di silenzio che nasconde i suicidi e le tante morti evitabili che succedono nelle celle (13 nel solo mese di giugno 2004). O basti pensare che, nonostante lapposita legge varata nel marzo 2001, in carcere continuano a esserci i bambini e le loro madri. E nessuno o quasi ne vede e dice lo scandalo. Le logiche, le politiche e la cultura della tolleranza zero, la criminalizzazione delle povert hanno prodotto una devastazione culturale e morale anche a sinistra e hanno corroso la capacit di commozione dellopinione pubblica. E si tratta di guasti per riparare i quali occorreranno decenni. Il ministro Castelli esprime, magari in maniera pi rozza, un sentimento di egoismo sociale e di concezione dei poveri e degli emarginati quali, appunto, nemici da allontanare e rinchiudere, che appartiene a pezzi non indifferenti di opinione pubblica e delle stesse forze politiche. Domanda: Trovandomi ad intervistare ex detenuti mi spesso sembrato naturale e scontato chiedere quale fosse stato il primo impatto con lingresso in carcere. Mi sembra ugualmente naturale chiederlo a lei, seppure con sfumature diverse: nel senso che questa domanda sul primo impatto si impernia generalmente sulla sorpresa (un uomo generalmente non si aspetta di finire in carcere, o perlomeno spera di non finirci mai), mentre con lei mi sembra giusto un approccio diverso. Senza voler rivangare un periodo della sua vita del quale credo non voglia parlare, immagino che un uomo come lei avesse messo in preventivo che il carcere poteva essere unesperienza probabile, se non inevitabile. Quale stato, quindi, il suo primo impatto con il carcere, nel confrontare la realt con ci che fino a quel momento aveva solo immaginato? Sergio Segio: Per me sempre valsa la convinzione che un rivoluzionario che non stato in carcere non un buon rivoluzionario. E in ogni caso anche prima delle scelte, che ora giudico sbagliate, di radicalizzazione armata che mi portarono in carcere, pur se per periodi ben pi brevi, lesperienza della carcerazione era abbastanza consueta e connessa alle lotte operaie e studentesche della fine anni sessanta-inizio settanta e, come dicevo, gi presente come area di intervento e militanza dentro Lotta continua. Dunque, nessuna sorpresa. Certo il carcere speciale della fine anni settanta e degli anni ottanta era sensibilmente diverso e ben pi disumano di quello precedente. Ci sono molti carceri assai diversi, ancora oggi. Variano da regione a regione, da regime a regime. In ogni modo, la qualit della vita in carcere mi si passi lossimoro - non dipende tanto dalle strutture fisiche quanto dal tipo di gestione e dagli input politici che a essa vengono dati. ***

Milano, 11 settembre 2004 intervista a Luigi Pagano Domanda: Come ho gi detto nellintervista a Sergio Segio, incontrando ex detenuti mi spesso sembrato naturale chiedere, per prima cosa, quale fosse stato il primo impatto con lingresso in carcere. Mi sembra ugualmente naturale partire in modo analogo con lei, seppure con sfumature diverse: nel senso che questa domanda sul primo impatto si impernia (nel caso di un detenuto) sulla sorpresa. Per un uomo come lei che si trova (immagino in giovane et) ad avere il primo incarico come direttore di un carcere, credo invece che questo primo incarico voglia dire innanzitutto il confrontare la realt dei fatti con la teoria che fino a quel momento si studiata. Quale stato, quindi, il suo primo impatto con il carcere? Luigi Pagano: Il primo approccio stato catastrofico Nel senso che mi ero laureato in Legge nel 1977, con una tesi in antropologia criminale ed uno studio sul sistema della probation, ossia sulle esperienze allestero di applicazione di misure esterne al carcere. Da poco tempo queste misure (parlo della cosiddetta "messa in prova", della semilibert ecc.) avevano cominciato a prendere piede pure in Italia, dopo che nel 75 era stata varata la Legge di riforma dellordinamento penitenziario, in cui si parlava anche della necessit del rapporto fra il carcere e la societ esterna. E invece nel 1979 mi ritrovai a Pianosa, unisola dellarcipelago toscano, in un carcere con sezioni di massima sicurezza: era lantitesi di quanto avevo studiato e teorizzato E poi erano gli anni del terrorismo, di problemi che avevo studiato ma con cui ora mi trovavo a confrontarmi quotidianamente I primi giorni furono davvero difficili; poi, mi dissi, quello era il mio lavoro, e da allora molte cose sono cambiate Domanda: Lei stato per molto tempo direttore del carcere di San Vittore. Un carcere da sempre rinomato, ma che rimasto sotto i riflettori nel periodo di tangentopoli, quando ai detenuti classici si mescolata la novit dei colletti bianchi. La cosa ovviamente ha destato clamore: ricordo distintamente che in quel periodo si torn a parlare (in modo in parte strumentale) di sovraffollamento e degli altri problemi carcerari. Questo ha prodotto qualcosa di positivo nella realt di San Vittore? E, sempre a proposito di colletti bianchi: ci furono difficolt riguardo la convivenza fra questi ed i detenuti normali? Luigi Pagano: La presenza dei colletti bianchi non poteva cambiare assolutamente nulla Poi, le dir, non del tutto corretto parlare di un loro numero massiccio: le presenze giornaliere, rapportate alla popolazione totale del carcere, erano in realt poche. La Giustizia in generale in quel momento era nellocchio del ciclone e giornalmente sotto lattenzione dei media. Basta ricordare le traversie che interessarono le proposte dei Ministri Conso e Biondi, in quel periodo Quindi la presenza di detenuti eccellenti non poteva cambiare niente, perch qualsiasi provvedimento sarebbe apparso come funzionale ad una certa categoria di persone. Ma se parliamo di sovraffollamento mi sembra che si debba sottolineare innanzitutto un fatto: allepoca di tangentopoli esistevano le stesse leggi in vigore oggi; se le applicassimo (o, per meglio dire, se potessimo applicarle) il problema del sovraffollamento sarebbe inferiore. Lopinione pubblica si interessa di questo problema solo in certi momenti, ma in realt si tratta di una questione che da sempre preoccupa lAmministrazione Penitenziaria. Tornando alla presenza dei colletti bianchi, direi che NON SOLO la loro presenza non

poteva cambiare nulla, ma non so neppure cosa avrebbe potuto cambiare; ripeto: gi in quel momento avevamo a disposizione molte Leggi che avrebbero perlomeno potuto limitare il sovraffollamento. Anzi, per paradosso forse leffetto stato linverso, per il detenuto comune in genere. Tanto per farle un esempio banale, il ragionamento di fondo era questo: se la Giustizia non risparmia nemmeno i privilegiati, quale garanzia o tutela in pi potevano esserci per il piccolo tossicodipendente, tanto per dire? Il carcere appartiene da sempre a certe categorie storiche, e questo non cambi certo con tangentopoli. Per lopinione pubblica pu esserci stata limpressione contraria, ossia che mani pulite avesse avuto delle conseguenze serie anche riguardo la composizione della popolazione penitenziaria; ma per le categorie sociali che storicamente affollano le carceri non cera nulla di nuovo. Tanto vero che i detenuti comuni (e qui vengo alla seconda parte della sua domanda) non si mescolavano pi di tanto con quelli di tangentopoli. I detenuti comuni intuivano, in parole povere, che per i colletti bianchi si trattava di un momento di passaggio, che era impensabile rimanessero in carcere per lunghi periodi e si integrassero col resto della popolazione detenuta. Le faccio un esempio concreto: in genere, per una sorta di legge non scritta, chi parla in carcere (intendo dire chi fa dei nomi, chiamando in correit altri imputati) non viene visto di buon occhio e deve essere isolato dagli altri: le chiamate di correo non sono gradite agli altri detenuti, sono considerate un tradimento. Invece gli imputati di mani pulite (nonostante le numerosissime chiamate di correit) vivevano tranquillamente allinterno dei penitenziari. Dico tranquillamente nel senso che, passato il primo periodo, i detenuti comuni concessero molta solidariet agli eccellenti, mantenendo per sempre un certo distacco Sembrava che la popolazione carceraria consueta accogliesse i nuovi arrivati capendo che queste persone stavano provando unesperienza totalmente inattesa e traumatica, e gli concedesse la propria solidariet; una solidariet magari distaccata, ma mai segnata da disprezzo. E devo dire pure che molti colletti bianchi hanno trovato pi solidariet allinterno che non allesterno del carcere; Sergio Cusani il caso pi conosciuto, ma le assicuro che molte persone, una volta tornate in libert, continuarono a mantenere contatti con i detenuti comuni, offrendo loro tutto laiuto possibile. Domanda: La nostra inchiesta nata dal caso di Ramon, ragazzo cileno suicidatosi nel carcere di Iglesias. Un aspetto che ci ha particolarmente colpito nella sua storia quello delle limitazioni da lui subite per quanto concerne diritti a visite e telefonate; limitazioni che crediamo abbiano contribuito a spingere il ragazzo alla disperata scelta del suicidio. Rivolgo quindi anche a lei alcune domande fatte al prof. Della Casa: a livello di questi diritti (telefonate, visite ecc.) come siamo giudicabili, nel paragone con altri paesi europei o comunque di cultura occidentale? E come siamo giudicabili riguardo allequit con cui consentiamo di esercitare questi diritti (paragonando la condizione dei detenuti di nazionalit italiana con quella degli stranieri)? Analogamente, volevo chiederle se detenuti italiani e detenuti stranieri ricevano un uguale trattamento riguardo la concessione delle misure alternative. E, in caso di risposta negativa, quali sono i motivi per cui agli immigrati queste alternative alla pena detentiva vengono riconosciute con pi difficolt? Luigi Pagano: Innanzitutto direi che come sistema legislativo lItalia non teme paragoni con altri Paesi. Abbiamo la Legge penitenziaria, la Gozzini, la Simeone, la Legge sulle donne madri, quella sullAIDS Abbiamo un panorama normativo valido, che dice esplicitamente che il carcere dovrebbe essere unextrema ratio, una soluzione cui ricorrere quando tutte le

altre misure risultano inapplicabili Eppure, paradossalmente, abbiamo un costante aumento dei detenuti. Ma se andiamo a vedere che tipo di detenuti affollano le nostre carceri cominciamo a capire meglio la situazione, e cominciamo a capire pure perch le misure alternative, che dovevano servire anche da valvola di sfogo dei penitenziari, non sono servite allo scopo. E questo nonostante attualmente il numero di soggetti in misura penale esterna sia pi o meno analogo a quello dei soggetti che abbiamo internamente al carcere. Il problema questo: abbiamo un ottimo sistema normativo, ma parametrato sul detenuto comune italiano. Ossia su un soggetto che in qualche modo ha una casa ed una famiglia, e che un lavoro potenzialmente pu trovarlo Per cui per le pene mediobrevi (inferiori ai tre anni) questo soggetto-tipo le misure alternative riesce ad ottenerle. Invece gli stranieri per la maggior parte sono irregolari. La logica delle misure alternative questa: larresto domiciliare lo concedi a chi ha un domicilio certo allesterno; il lavoro allesterno lo dai a chi ha gi un lavoro (o una prospettiva concreta di lavoro): per questo lo straniero, non potendo vantare questo tipo di condizioni, spesso non riesce ad accedere alle misure alternative. A questo punto, per risolvere almeno parzialmente il problema, non si deve intervenire sul sistema penale (come qualcuno pensa o finge di pensare), ma sulle condizioni sociali allesterno, che favoriscono questo tipo di problema, o ne rendono difficile la soluzione. Arriviamo ora al discorso telefonate e visite: anche qui c un problema di limitazioni, vero. Cominciamo per col dire che un minimo di controllo ci deve essere, su questi contatti. Moltissimi detenuti sono clandestini, il che vuol dire che non si hanno notizie su di loro dalle ambasciate, non si hanno a disposizione documenti identificativi validi, eccetera. Molte volte dunque difficile valutare quale sia il reale tasso di pericolosit di queste persone, e vedere quindi per chi e fino a che punto sia ragionevole porre limitazioni e per chi sia invece inutile ed ingiusto. Le racconto un episodio: quattro anni fa un gruppo di 8 persone tent unevasione da San Vittore. Era implicato come capo del tentativo un detenuto che lavorava nel carcere, un addetto alle pulizie. Seppi solo successivamente che quelluomo (che si era presentato come volenteroso e che godeva della fiducia di tutti allinterno dellIstituto) era implicato in grossi traffici di droga E solo un esempio, ma le assicuro che non raro scoprire che persone che sono in carcere per un furto hanno alle spalle carriere criminali notevoli ed allarmanti E chiaro che la presenza in carcere di molti stranieri fonte di problemi. Esistono aspetti che allesterno possono sembrare banali, insignificanti, ma che nella realt quotidiana di un penitenziario sono importantissimi. Penso al cibo: adesso ci siamo adeguati, con men appositi per chi professa la fede islamica, ma allinizio le assicuro che questo era un grosso problema, di cui non si capiva appieno la valenza culturale o religiosa Per non parlare della lingua; e quando parlo della lingua non intendo solo un ovvio problema di traduzione, ma parlo di un modo di esprimersi diverso dal nostro. Il problema di capire che a volte discussioni a voce alta non erano il segno di una rissa, ma un modo naturale di comunicare; il problema di capire che a volte gli stranieri imparavano come prima espressione italiana una bestemmia, e anche qui si innescavano banalmente dei conflitti Non dobbiamo dimenticare che nel carcere si concentrano determinate fette della societ, e che il fenomeno della stigmatizzazione finisce col farti sentire diverso e negativo rispetto a chi sta allesterno. Vede, in fondo nel carcere si crea una riproduzione limitata ed in negativo della societ, con le sue contraddizioni e le sue difficolt di integrazione. E le peculiarit dellambiente contribuiscono a rendere la situazione ancora pi deteriorata.

Domanda: Mi sembra evidente che nel sistema penitenziario lamministrazione (direttore pi custodia) abbia una supremazia schiacciante rispetto al detenuto. Questa, voglio precisarlo, non una critica, ma una constatazione sulla natura delle cose. Il prof. Della Casa, a tale proposito, ripone molta fiducia nellintroduzione del Difensore Civico, come figura super partes che costituirebbe un elemento di mediazione fra custodi e custoditi. Volevo conoscere le sue valutazioni su questa nuova figura. Luigi Pagano: Io sono scettico Torniamo a quanto dicevo in precedenza: se lei va a vedere il sistema di garanzie presente nella Legge lo trova gi valido; non sono le Leggi ad essere inadeguate: il punto che non sono applicate o che, per meglio dire, si creano le condizioni per cui diventano inapplicabili. Esistono gi figure che hanno reali poteri per intervenire a tutela del detenuto: il giudice comune, il magistrato di sorveglianza, il TAR La figura del Difensore Civico esiste gi, nei Comuni per esempio, ma non che funzioni molto; figuriamoci in un ambiente come quello carcerario Una figura del genere come la costruisci? Con quali poteri di incidenza? Come la integri con un sistema di garanzie che gi allo stato attuale non funziona NON per mancanze legislative? Un Difensore Civico, necessariamente con poteri limitati, potrebbe servire da mediatore, certo Per poi ci deve essere qualcuno che risponde alle esigenze dei detenuti. Domanda: Quando si parla di carcere, uno dei discorsi che ricorre pi frequentemente quello sul sovraffollamento, di cui abbiamo gi parlato in questo nostro articolo. Ripeto dunque a lei una domanda che ormai mi esce automatica: oltre ad un utilizzo pi intenso delle misure alternative, quali potrebbero essere le soluzioni a tale problema? E quale il suo giudizio sul recente dibattito in Italia circa le misure svuota-carceri, che ha prodotto il cosiddetto indultino? Luigi Pagano: Lindultino non poteva produrre nessun serio effetto. In definitiva si trattato di un atto di cortesia verso lappello del Papa, e nulla pi. Ma in realt anche un indulto o unamnistia non sarebbero serviti a nulla. Si torna sempre al concetto di cui parlavamo prima: per risolvere il problema carcere ci vuole un intervento innanzitutto della societ esterna. Bisogna far s che la societ esterna dimostri una sensibilit pi attenta e meno episodica verso il carcere. Svuotare le carceri senza creare le condizioni di accoglienza nella societ significa mandare allo sbaraglio le persone; significa aumentare (direttamente o indirettamente) la conflittualit sociale, e comporta unonda di ritorno senza precedenti Torniamo al discorso precedente sulle misure alternative: trovo assurdo che con tutte le misure alternative alla detenzione gi esistenti non si riesca a creare una valvola di sfogo per le carceri. Anche con una misura specificamente indirizzata allo svuotamento dei penitenziari cosa succederebbe? La maggior parte dei detenuti stranieri hanno subito condanne per reati minori, hanno pene brevi, e quindi costituirebbero la maggior parte dei beneficiari: dopo una misura seriamente svuota carceri dove andrebbero? Io penso fosse molto meglio lidea proposta da molte associazioni, Gruppo Abele in testa, che si interessano di questi problemi quotidianamente: adottiamo un detenuto. In altre parole, queste persone devono uscire perch alla base c un serio progetto di reinserimento. Dovrebbe essere la societ a dare una mano al carcere. Svuotare i penitenziari senza che la societ sia prima attrezzata significa, ripeto, mandare allo

sbaraglio delle persone, che finiranno inevitabilmente col tornare in carcere Le cito un dato: noi abbiamo avuto lultima amnistia nel 1990. San Vittore contava circa 2000 presenze e si ridusse a 1300 per tornare in beve tempo allo stesso numero di presenze Il carcere non la risoluzione dei problemi sociali: il carcere un problema sociale da risolvere. Da risolvere con misure preventive, innanzitutto; investendo maggiormente sulle ASL o sulle comunit (se pensiamo alla tossicodipendenza), o su tutte le Associazioni che si interessano seriamente di inserimento nel mondo del lavoro Le misure alternative alla detenzione vanno bene, ma sono sempre una misura a posteriori: bisogna invece lavorare sulla prevenzione. Io dico sempre che prima di arrivare allart. 27 della Costituzione Italiana (quello sulla responsabilit penale e sul divieto di trattamenti penali contrari al senso di umanit), dovremmo rileggerci bene lart. 3 (quello che dice che compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libert e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana) e cominciare ad applicarlo. Domanda: Ho letto, grazie al sito ristretti.it, un interessante articolo di Roger Matthews (Centre for crimonology, Middlesex University) sullesperienza in Gran Bretagna e negli USA di parziale privatizzazione delle carceri. C un aspetto nellintervento di Matthews che mi ha preoccupato: secondo lautore Limpatto pi significativo della privatizzazione stato lo sviluppo di un sistema carcerario pi impersonale ed automatizzato. Questa strategia si presta ad una politica di inabilitazione dei detenuti e di pura custodia, con scarsa incentivazione allo sviluppo di programmi riabilitativi . Gli imprenditori privati hanno poco interesse alla rieducazione dei detenuti e alla riduzione dei tassi di recidiva. Mi sembrato giusto introdurre anche questo argomento perch trovo unallarmante analogia sulle riflessioni che facevamo sulla filosofia imperante da noi circa un carcere meramente punitivo, i cui obbiettivi di recupero vengono in subordine rispetto alle esigenze di ordine e sicurezza: secondo lei la strada della privatizzazione (anche parziale) sbagliata in ogni caso, oppure potrebbe essere un modello da seguire, seppure con particolare attenzione e con particolari correttivi rispetto al modello proposto in Gran Bretagna e negli USA? Le chiedo questo perch ultimamente anche il Ministro Castelli ha cominciato a parlare di una possibile e parziale privatizzazione delle carceri in Italia. Luigi Pagano: Non credo, ma mia considerazione personale, che quello della privatizzazione sia un obbiettivo primariamente perseguito dal Ministero. La privatizzazione di certi servizi, invece, potrebbe essere un discorso interessante; specie se parliamo di affidamento di alcuni servizi a cooperative di detenuti. Il rischio di una privatizzazione totale quello a cui accennava lei, la possibilit che il privato possa, anche in buona fede, avere come obiettivo pi il proprio utile che il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti o il percorso di reinserimento sociale, fatto che potrebbe portare a storture e ad eccessi In Italia non credo esistano le condizioni per una privatizzazione. E, francamente, resto convinto che, anche per questioni di principio, lesecuzione penale debba essere affidata in via esclusiva allo Stato. Domanda: Restando allaspetto pi grave del problema carceri, ossia allelevato numero di suicidi e di atti di autolesionismo: in base alle statistiche di ristretti.it il fenomeno appare diffuso

in tutte le strutture penitenziarie italiane, ma in alcune di queste i casi si presentano con una frequenza ancora pi preoccupante. Al di l del fatto che ogni caso sarebbe da approfondire singolarmente, le risulta che ci siano dei buchi neri nelle strutture penitenziarie italiane, ossia istituti di pena in cui il fenomeno dei suicidi (o delle morti sospette) sia riconducibile proprio a condizioni particolarmente inumane o degradanti? Luigi Pagano: Credo che il carcere in s sia una grossa tentazione, perch fatalmente lascia luomo abbandonato a se stesso, cella, monastero, penitenza, penitenziario, linguaggio, termini comuni e questo innesca dinamiche difficili da affrontare, perch riguardano la dimensione individuale e difficilmente si possono trovare soluzioni applicabili indistintamente a tutti. Ultimamente come Amministrazione Penitenziaria stato creato un gruppo di studio proprio per cercare di affrontare e prevenire questo fenomeno. Ma ci rendiamo conto che difficile trovare la causa del suicidio: per ogni caso c una dimensione individuale che incide pesantemente. Bisogna riconoscere che non esiste la possibilit di andare realmente a capire cosa sta succedendo nella testa di ogni persona: ogni individuo talmente unico che pu succedere in ogni momento, tanto per fare un esempio, larrivo di una notizia avversa che lo stato detentivo (gi di per s frustrante) amplifica nellanimo di quel dato individuo e funziona da detonatore. Il discorso che dal momento del suo ingresso in carcere una persona non ha pi la sua vita precedente, ma unaltra vita. E significativo che il fenomeno dei suicidi interessa spesso non chi gi abituato alla vita del carcere, ma soggetti che trovano particolarmente traumatico lapproccio con la nuova realt. E chiaro, allora, che larticolazione di tutta una serie di attenzioni pu avere effetti positivi, un po come quando si butta un sasso nello stagno e le onde vanno a cerchi concentrici, perch leffetto positivo raggiunga tutti i detenuti anche quello che non conoscerai mai. Forse solo empirismo, non si potr creare una realt scientifica, ma il criterio sembra funzionare se vero che questo anno c stata una tendenza generale allabbassamento del numero dei casi; parlando di San Vittore, che ovviamente una realt che conosco bene, ad esempio, abbiamo avuto un solo caso. E chiaro: lobbiettivo deve essere quello di arrivare a nessun suicidio, ma il risultato sin qui ottenuto significa comunque che, anche in questo campo, prestare attenzione al fenomeno in fase preventiva funziona Sicuramente una vita diversa,poi, in carcere potrebbe limitare il fenomeno. Io non credo alle carceri modello, lo trovo utopistico, ma un carcere che citerei come esempio quello di Bollate. Nel senso che si tratta di un Istituto nato per rendere concretamente migliore la qualit di vita al suo interno; nato pensando PRIMA a creare certe condizioni di vita (trattamento, lavoro, ecc.) e DOPO alle regole vere e proprie del carcere. Io credo infine, ma banale come pensiero, che se il detenuto viene impegnato in una serie di attivit positive alla fine ha un ritorno favorevole anche la societ. Diminuiscono i costi sanitari (perch a volte questi costi non sono dovuti, come si potrebbe pensare, a patologie preesistenti, ma alle caratteristiche intrinseche del carcere stesso), aumentano le possibilit di un reinserimento futuro, eccetera Per la gente deve capire prima questo (e torniamo ad un discorso che abbiamo gi fatto): il carcere non unisola a s, ma fa parte della societ, e quindi necessario un maggiore interesse alla risoluzione delle sue problematiche. Il carcere deve funzionare come trattamento, ai fini della riduzione della pericolosit sociale di certi soggetti; il carcere visto come luogo di punizione, dove ci si limita a far passare il tempo per detenuti, non serve a nulla Anzi, diventa unistituzione costosa per la societ, che rischia di creare

criminalit (invece di diminuirla), e dove si innescano dinamiche negative che portano allelevato numero dei suicidi eccetera. Se il carcere esiste, deve esistere allinterno di un contesto sociale che lo accetta, lo conosce e partecipa alla sua vita perch ne riconosce lutilit. Tante volte sento parlare di inasprimento delle misure repressive, di carcere duro, di massima sicurezza: si tratta di realt che abbiamo gi sperimentato. Fino al 1975 esisteva gi il carcere come certi vorrebbero tornasse; i Vallanzasca, i Turatello e tutta una serie di grandi criminali, sono nati proprio allinterno di quella realt. Il sistema attuale sembra non funzionare, vero, ma bisogna ammettere che non ci si mai sforzati di farlo funzionare. Per esempio con tutte le collaborazioni e le interazioni fra Enti Locali che andavano attivate. Oggi si parla molto di federalismo, di decentramento di certe funzioni; la Sanit competenza della Regione, la formazione professionale competenza della Provincia: quindi necessaria la loro collaborazione se, ripeto, come naturale sia il carcere fa parte della societ E poi bisogna studiare pene diverse: assurdo detenere nella stessa struttura persone che devono scontare poche anni, se non mesi, e persone condannate allergastolo. Non dico che non si debbano punire i reati minori, ma bisogna studiare altre pene NON come semplice alternativa alla detenzione, ma IN VIA PRIMARIA, arrivando ad un sistema che sia pi elastico e reattivo, con una pena che sia costruttiva e che in questo modo pensi non solo al colpevole ma anche alla vittima. Capisco che questo pu sembrare paradossale, ma trovo che lattuale sistema non restituisca nulla, n alla vittima n alla societ, se non un qualche senso di rivalsa e di vendetta. Le faccio un esempio banale: se uno ha rubato in un supermercato forse meglio farlo lavorare per un paio di mesi in quel supermercato, piuttosto che metterlo in carcere per lo stesso periodo Domanda: Una curiosit finale: parlando con ex detenuti ho trovato alcune preoccupanti analogie nei loro racconti. Ad esempio tutti descrivono come particolarmente angosciante il proprio primo impatto col carcere; ma soprattutto tutti dicono di aver appreso da altri detenuti le regole di comportamento interne dellistituto penitenziario. Io penso che sia normale che lingresso in carcere per una persona sia traumatico, ma proprio per questo riterrei naturale che sia lamministrazione penitenziaria ad occuparsi dellimpatto psicologico sui nuovi arrivati. E questo specialmente perch, secondo i dati estrapolati da ristretti.it, risulta che i suicidi riguardano spesso soggetti giovani e/o appena entrati in carcere. Questo servizio di prima accoglienza o di assistenza psicologica verso i nuovi arrivati esiste nelle carceri italiane? E, nel caso in cui esista, quali sono a suo avviso i motivi per cui non funziona adeguatamente? Luigi Pagano: In realt il servizio esiste, e cos pure lattenzione per i nuovi arrivati, perch come dicevo in precedenza conosciamo la delicatezza dellinserimento nei primi momenti. A San Vittore abbiamo pensato intenzionalmente di utilizzare per questo servizio non soltanto il volontariato esterno, ma gli stessi detenuti, proprio per la loro conoscenza gi approfondita della vita carceraria. Il nuovo arrivato, dal suo ingresso in matricola e per i primi dieci/dodici giorni, oltre ad essere sottoposto a visite mediche e psicologiche viene seguito da un volontario, che lo affianca e lo segue per questo periodo. A dire il vero i suicidi non interessano solo i nuovi arrivati, ma si collocano anche in momenti successivi, proprio perch sempre possibile che si inneschino quelle situazioni imprevedibili di cui parlavamo prima (larrivo di una notizia sgradita, il cui effetto negativo viene amplificato dal trovarsi in un ambiente ostile come quello del carcere). Per chiaro che il momento dellingresso delicato, e che a volte basterebbe

un po pi di sensibilit e di attenzione per evitare certi episodi E fermo restando che la soluzione al problema non semplice; perch vero che bisogna sforzarsi di far s che i nuovi arrivati si adattino al carcere, ma anche vero che il carcere vive di paradossi: uno di questi che pi ti adatti alla vita in carcere pi ti sar difficile il momento del reinserimento nella societ esterna E qui torniamo al discorso sullimportanza del rapporto con la societ: io credo che lopinione pubblica deve decidersi e dire quale carcere vuole. Se lopinione pubblica partecipasse maggiormente al mondo carcere, e non solo sullonda emotiva di certi momenti, sarebbe buona cosa. Non possibile che lopinione pubblica si schieri in termini teorici in un dato momento e poi basti un episodio a farle cambiare orientamento. Invece, a fronte magari di tanti casi di detenuti che escono e si reinseriscono, trovano lavoro eccetera, si enfatizza magari il caso di chi, appena uscito dal carcere, commette un crimine magari peggiore di quello per cui era stato condannato. Ed ecco che lopinione pubblica, che prima chiedeva misure svuota carceri, torna a chiedere pi rigore e severit *** LOSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO di Carlo Del Grande gennaio 2005 intervista al dottor Adolfo Ferraro, direttore dellOPG di Aversa Domanda: Il luogo in cui ci troviamo non un carcere, n pu essere definito propriamente un ospedale, perch il ricovero non volontario. Pu dirci cos' un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG)? Ed in cosa differisce dalle pi comuni case circondariali? Adolfo Ferraro: Innanzitutto i soggetti in opg sono internati, e non detenuti (come avviene in un carcere), ovvero sia sottoposti ad una misura di sicurezza psichiatrica, in quanto giuridicamente ritenuti incapaci dintendere e di volere e socialmente pericolosi nel momento in cui hanno commesso unazione delittuosa. Lincapacit dintendere, in senso psichiatrico forense, viene intesa come la valutazione nel soggetto della capacit di capire il valore o il disvalore dellazione che si trasforma in delitto; lincapacit di volere valuta invece la capacit di autodeterminarsi nellevitamento o meno dellazione delittuosa. Nel momento in cui sono presenti questi elementi di incapacit, viene riconosciuta nel reo una condizione di non imputabilit, quindi non viene applicata una pena, ma, appunto, una misura di sicurezza che pu essere di due, cinque o dieci anni a seconda della gravit del reato commesso. Essa prevede un periodo di internamento allinterno di una struttura come lopg, che non un carcere in senso stretto per la presenza di questo tipo di ospiti con i consequenziali significati, e non un ospedale in senso stretto perch non sempre c nel paziente, come dicevi, la volont di essere internati. E una sorta di TSO (trattamento sanitario obbligatorio), come quelli che vengono messi in pratica nelle strutture psichiatriche del territorio, prolungato nel tempo finch non si riduce la pericolosit sociale del soggetto, ovvero la possibilit che questi possa ripetere lo stesso tipo di azione delittuosa per gli stessi motivi precedenti. Domanda: Quanti OPG ci sono in Italia?

Adolfo Ferraro: Gli OPG in Italia sono 6. 5 fanno parte dellAmministrazione Penitenziaria e sono Aversa (il pi antico, fondato nel 1876, in provincia di Caserta), Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Montelupo Fiorentino (Firenze) e Reggio Emilia. Il sesto a Castiglione delle Stiviere (Mantova), ma una struttura dellA.S.L. locale che ha da anni una onerosa convenzione con il Ministero della Giustizia e riceve un certo numero dinternati. In tutta Italia glinternati sono circa 1200. Domanda: Avete problemi di sovraffollamento? Adolfo Ferraro: Ci sono strutture come quella di Napoli che sono molto piccole ed anguste perch la maggior parte di esse sono state recuperate da vecchi edifici nati con diversi scopi, come conventi, caserme di cavalleria, antichi palazzi nobiliari e simili. Questo di Aversa sempre stato un OPG ed ha delle strutture organizzate ad evitare i rischi del sovraffollamento, che comunque presente, in quanto vi sono alcuni reparti chiusi per ristrutturazione (saranno in funzione tra breve). In ogni caso, anche adesso, riusciamo a mantenere gli spazi vitali per ognuno deglinternati. Domanda: In un OPG cura e pena sono gli elementi portanti: in che modo possono trovarsi in equilibrio? E, se cos non fosse, su quale linea siete orientati qui? Adolfo Ferraro: Lidea che stiamo portando avanti da 6-7 anni quella di uno spostamento verso laspetto sanitario rispetto a quello custodialistico del significato dellistituto. Nellambiguit di fondo dellistituzione il concetto di cura rispetto a quello di custodia tendono spesso a sovrapporsi, e sembra quasi che custodire rappresenti gi di per s una forma di cura, il che non reale, o almeno non in senso stretto. E evidente che nellambito di questa condizione ambigua c la necessit di fare una scelta, che noi riteniamo essere quella di una sanitarizzazione dellistituzione, primo passo verso un superamento concreto dellistituzione cos come veniva intesa: privilegiare quindi laspetto sanitario piuttosto che quello custodialistico e questo devessere realizzato non solo dando una formazione pi completa alle figure sanitarie dellistituto (infermieri, medici, vari consulenti, psichiatri), ma anche dandone una sanitaria agli altri operatori che lavorano nella struttura, compresa la polizia penitenziaria, che c e che, se formata adeguatamente, d dei contributi che possono essere di supporto e di aiuto a quelli sanitari. Domanda: In un istituto di pena per cos dire "comune" il personale costituito per la maggior parte da guardie carcerarie. Chi si occupa della sicurezza in un OPG e che tipo di formazione ha? Adolfo Ferraro: La sicurezza dellistituto viene affidata al corpo di polizia penitenziaria, ma evidente che un poliziotto penitenziario che lavora in un carcere ha regole assolutamente diverse da quelle che vi sono in un OPG. Di ci ci eravamo gi resi conto in passato e questa consapevolezza ha acquisito maggiore consistenza negli ultimi anni, tanto che da circa 3 anni stiamo realizzando, con lIstituto Superiore degli Studi Penitenziari (di competenza

del Ministero della Giustizia), corsi periodici di formazione per polizia penitenziaria e non solo. I progetti sono finalizzati alla formazione della polizia penitenziaria che lavora in questi istituti, e fornisce conoscenze di natura giuridica ma anche sanitaria; ad esempio, 2 anni fa abbiamo promosso un corso di formazione, che chiamammo Le ali ai letti, a cui hanno partecipato la polizia penitenziaria, glinfermieri e i medici, e che ha portato alleliminazione, allinterno della struttura, dei letti di contenzione: questo un istituto in cui non si pratica la contenzione fisica, condizione che, c da dirlo, nei servizi di salute mentale territoriali una prassi comune. Non condividiamo questo aspetto brutale del contenimento, anche se siamo consapevoli che esistono vari tipi di contenzione, dalla farmacologia alla psicologica, ecc. Il fatto che non condividiamo tutto ci che in qualche modo umilia il corpo . Siamo infine riusciti a fare s che la polizia penitenziaria acquisisse delle conoscenze tali da potersi disporre, nei confronti di un paziente nel momento di una sua crisi potenzialmente aggressiva in modo da non arrivare a produrre altre esasperazioni che inevitabilmente innestano catene di aggressivit subita/espressa, tanto da arrivare alla fine alla necessit di ricorrere alla coercizione fisica del paziente. Se a monte riusciamo a far s che si costruisca un approccio pi sano, pi tranquillizzante da parte degli operatori, non si arriva a questo. Ed quello che sta succedendo ormai da un anno. Domanda: Si parla spesso (e giustamente) del disagio dei detenuti, ma anche operatori, agenti di polizia penitenziaria, e in generale tutta lumanit che gravita attorno al mondo-carcere credo condivida, seppure in forme e per motivi diversi, il disagio del carcere. Vorrei sapere, in base alla Sua esperienza, quale sia la Sua impressione sulla vita quotidiana di queste persone. Adolfo Ferraro: Il disagio nella vita quotidiana c, inevitabilmente, perch per gli operatori che lavorano qui sicuramente un lavoro duro, con pochi mezzi e spesso senza garanzie per nessuno, ed per questo che in certe situazioni si sono raggiunti in passato e si potrebbero raggiungere ancora degli eccessi. Proprio perch un lavoro pi duro ti costringe ad assumere delle forme di autodifesa dalla brutalit e dalla violenza e ci crea altra brutalit e violenza. Io credo che chi lavora in un OPG debba essere considerato un professionista e un professionista di per s uno che risolve i problemi. E per risolvere i problemi c soprattutto il bisogno di conoscerli. Il disagio dellistituzione si supera nel momento in cui non esistono pi comunicazioni errate tra medico-guardiadetenuto-internato-malato, in cui chiaro a tutti, con una interpretazione sistemicorelazionale, che il comportamento di un elemento produce comportamenti di conseguenza da parte di altri elementi. Se c un tentativo di abbassare il livello di tensione, fatto attraverso formazione, conoscenza, colloquio, modalit espressive recepite, un certo tipo di tensione sicuramente si abbassa. Inoltre, nella consapevolezza che si deve riconoscere e gratificare il lavoro degli operatori, stiamo portando avanti proposte per cui chi lavora in un OPG possa avere degli incentivi economici maggiori rispetto a chi lavora negli istituti penitenziari carcerari. importante, per, che tutti capiscano che si lavora per lo stesso scopo che anche, giocosamente, quello di cambiare il mondo. Perch la possibilit di cambiare il mondo c, se cominciamo a cambiare noi stessi, naturalmente. Il che significa nel caso specifico anche apportare una sorta di reingegnerizzazione: trasformare un oggetto in un altro oggetto di uguale importanza. Se diciamo: Questo non un carcere, ma una struttura in cui si cura, si parla, ecc., diamo altra importanza alla cosa ed allo stesso tempo motiviamo le persone che ci lavorano ad avere un ruolo, una figura, una gratificazione maggiore. I

risultati si vedono. chiaro che per ottenere ci occorrono anni: allinizio, anni fa, stata molto dura, perch molti, soprattutto della polizia penitenziaria, erano convinti di lavorare in un carcere e non volevano spostarsi da questo concetto. Quella era la loro formazione basata sul concetto non ho nessun bisogno di crescere, perch ci che so mi basta. Riteniamo che in realt c sempre da imparare e da studiare , ed a chi non aveva tale impostazione abbiamo chiesto di adattarsi o di andarsene. Una parte si adattata, unaltra parte andata via. Domanda: Che tipi di reato hanno compiuto le persone che si trovato in un OPG? Adolfo Ferraro: Il 46-47% dei soggetti internati qui hanno commesso un reato definito bagattellare, cio estremamente lieve, con periodi non superiori ai 2 anni dinternamento. La maggior parte dei reati sono contro la persona, e per gran parte lievi come il maltrattamento in famiglia, ma vi sono soggetti che hanno commesso omicidi, anche molto gravi; ma sempre in relazione di una condizione psicopatologica di base. Domanda: Come si svolge una giornata-tipo di una persona che vive in un O.PG.? Quali sono le attivit volte alla guarigione/riabilitazione della persona? Adolfo Ferraro: Le stanze dei reparti sono aperte dalla mattina alle 7 fino alla sera alle 21/22:30, il 20% deglinternati ha unattivit lavorativa interna, come pulire i giardini, trasportare merci e pacchi, e sono regolarmente retribuiti con un regolare stipendio: sono naturalmente i soggetti in migliori condizioni psichiche. Unaltra parte, circa il 40% impegnato nelle cosiddette attivit trattamentali e riabilitative: queste attivit tendono alluso terapeutico di manifestazioni espressive e si tenta di superare lazzeramento della personalit prodotto dalla malattia e dalla sua istituzionalizzazione. Si tratta di attivit di vario impegno espressivo, che partono da quelle pi morbide come lArea Verde (spazio verde in cui gli animali presenti vengono accuditi dagli internati che partecipano a tale attivit), passando per il Laboratorio di Colore (dove trovano spazio le capacit espressive in relazione alluso del colore ), quello di Musicoterapia, fino ad arrivare allo psico-dramma, che la tecnica terapeutica pi impegnativa a causa del coinvolgimento emotivo che rende pi dura lesperienza. Molti nostri internati, ad esempio, vengono da una cultura contadina e recuperare le loro origini serve a recuperare loro stessi: lArea Verde ha proprio questa funzione. Coltivare 8000 mq di terreno, riprendere contatto con gli animali che sono circa 400, di cui alcune specie in via di estinzione forniteci da WWF e dalla Legambiente, permette di farli riavvicinare alle cose che avevano e che sanno riconoscere. In istituto sono internati, ad esempio, dei soggetti che provengono dalla Sardegna, e che erano pastori: avere delle pecore, ritrovare il gregge, tosarle, parlarci perfino, serve a farli riavvicinare a qualcosa che avevano perso. Domanda: Cosa accade una volta scontata "la pena"? La persona pu tornare a casa, ad una vita per cos dire "normale"? Adolfo Ferraro: Quando termina la misura di sicurezza si va a rivalutare la pericolosit sociale, cio ci si accerta che il soggetto sia in condizione di poter evitare per il futuro atti delittuosi,

basandosi non solo sulle condizioni psichiche, ma anche sulle strutture su cui possono contare; molte volte la dimissione per non possibile, in quanto noi cerchiamo di curare, mentre guarire pu essere decisamente pi complesso ed a volte impossibile. Quando cio, alla scadenza della misura, ci sono delle strutture sociali (familiari, il Servizio Sanitario Nazionale, strutture di accoglienza o comunit) che possono farsi carico del soggetto nel seguirlo e curarlo, non vi sono problemi alla dimissione. Quando questo non accade il magistrato di sorveglianza, da cui giuridicamente dipende linternato, costretto a prorogare la misura di sicurezza. E unazione dolorosissima, che tra laltro crea un ingorgo enorme allinterno degli OPG. Noi abbiamo circa il 40% deglinternati che sono in proroga di misura di sicurezza che potrebbero tranquillamente uscire da qui oggi stesso, ma fuori non c nessuno che li accolga. Noi li sistemiamo in reparti particolari, senza polizia penitenziaria, in cui si autogestiscono e cercano di vivere, per quanto possibile, una situazione da liberi. Per, fin quando i servizi non sono in grado di stabilire un piano dazione, lingorgo si crea. Per eliminarlo, gi da 2-3 anni, abbiamo iniziato a proporre allAssessorato Regionale Campano (ma recentemente se n firmato uno anche con lAbruzzo) per lorganizzazione di protocolli dintesa con i servizi di salute mentale dei vari territori nazionali: nel momento in cui linternato appartenente ad un dipartimento di salute mentale arriva nel nostro istituto, noi avvertiamo quel dipartimento e creiamo unequipe mista (psichiatri interni ed esterni allOPG), che segue landamento del paziente allinterno della struttura e lo accompagna anche fuori, in strutture preparate dove pu essere alloggiato e seguito. Il punto doloroso che non tutti i dipartimenti di salute mentale sono pronti a questo: su 13 ASL della Campania, solo 3 hanno firmato i protocolli dintesa. Le altre si sono defilate. Domanda: Vorrei alcune Sue considerazioni su un aspetto particolare del "mondo carcere" (sempre riferito alla dimensione "particolare" degli OPG): il volontariato. Adolfo Ferraro: Negli ultimi anni entra nellOPG una quantit di persone a cui prima lingresso era interdetto, e tra questi i volontari (ma anche i tirocinanti in psicologia, gli specializzandi in psichiatria, laureandi in varie branche etc. ), persone dotate delle giuste competenze: molti lavorano allinterno dellOPG, molti altri allesterno. A proposito di questi ultimi, indicativo il progetto che stiamo conducendo con la locale CARITAS che sta organizzando alloggi esterni, in vicinanza dellOPG, per ospitare glinternati quando escono o i loro parenti che vengono in visita. Domanda: Lei, che all'interno di una realt carceraria, vedr certamente dei problemi e delle disfunzioni. Non crede che parlandone di pi si potrebbero affrontare con maggiore efficacia? Perch, secondo Lei, si parla cos poco di questo mondo? Adolfo Ferraro: Credo che se ne parli troppo poco perch questo uno scheletro nellarmadio, utilizzabile solo se lambiguit di fondo permane. Cos lOPG mantiene la funzione di una specie di contenitore per tutti i fallimenti della psichiatria e della giustizia, garantendo che nel momento in cui ci sono necessit di liberarsi di sensi di colpa collettivi, lOPG funge da spauracchio da tirar fuori al momento giusto. E questa una condizione a cui non ci vogliamo adattare, non fossaltro che per tutelare i soggetti che qui sono internati. Le nostre iniziative (dal sito www.opgaversa.it, ai convegni di studio, alla sensibilizzazione dei giovani che vengono in istituto a studiare e a formarsi) lo

dimostrano. Credo che se si riuscisse a comprendere meglio il linguaggio della malattia mentale, molta gente qui dentro non ci arriverebbe. Riteniamo che lOPG una struttura che deve essere superata inevitabilmente e che devono essere reinserite nel tessuto sociale le persone che inutilmente sono qui internate. Cos dei 1200 internati attualmente presenti in tutti gli opg di Italia, ne rimarrebbero al massimo 200 di soggetti realmente pericolosi. E un passo da fare con molta calma, perch ritengo che la eventuale chiusura brusca di queste strutture non risolverebbe il problema, ma ne creerebbe altri. Per risolvere il problema OPG, bisogna capire chi deve stare realmente qui dentro: su un numero ridotto di persone avremmo maggiore e migliore possibilit di prenderle in carico, viceversa diventa molto pi difficile svolgere un ruolo ed una funzione che compete alla struttura. *** YA FUCKING BASTA di Francesca Frizzi Maniglio Abbiamo aperto questa nostra inchiesta sul mondo delle carceri italiane con la storia di Patty. E vogliamo chiuderla allo stesso modo La storia di Patty ha una valenza che trascende il livello personale; una storia che ci ha aperto gli occhi (come speriamo abbia fatto per voi) su una realt di soprusi, di diritti negati, di disparit di trattamento fra cittadini. Eccovi dunque questo commento che venne scritto a caldo, pochi giorni dopo aver preso contatto con Patty: abbiamo pensato di proporvelo perch un commento ancora molto attuale e dal quale, in fondo, sono nate le idee per questa inchiesta. *** Non sono un operatore sociale, non lavoro nelle carceri e in carcere non ci sono mai finita, n ho mai avuto occasione, qui in Italia, di andarci per trovare un amico. Eppure occasioni se ne sono gi presentate. Ma in Italia non si pu. Ho abitato per sei anni negli USA (dal 95 al 2001) e l ho vissuto pi da vicino la condizione dei carcerati, in quanto questi, a differenza dei detenuti italiani, non sono isolati dalla societ civile come succede da noi, hanno il diritto di ricevere visite e di fare telefonate. Ho avuto modo di andare a trovare pi di una persona e di avere un costante contatto telefonico ed epistolare. Patty, cos si fa chiamare la giovane mamma di Ramon Enrique, vuole gridare il suo dolore; e il suo grido mi ha definitivamente svegliata da un torpore che durato fin troppo a lungo. Patty, venuta dal Cile nemmeno un mese fa, per scoprire che suo figlio morto come un cane abbandonato, vuole gridare il suo dolore a tutta Italia Chi osa fermarla? Io la incoraggio: grida mamasita, grida perch non sei sola, abbiamo bisogno di ascoltare il tuo grido di dolore, aiutaci tu a capire, a farci capire, a farli capire. Chi lavora come operatore, spesso rassegnato allo status quo ogni giorno vede il dolore, i soprusi, le piccole ingiustizie quotidiane e forse non ci non crede pi che le cose possano cambiare, perch tutti i giorni vive e vede situazioni di questo tipo, ma dobbiamo crederci per poter vincere, dobbiamo vincerla questa battaglia, la situazione pu e deve cambiare proprio perch ha mietuto e continua a mietere un numero assurdo di vittime. Gli operatori, gli assistenti sociali ci aiuteranno a contattare persone, raccogliere testimonianze, racconti, esperienze, il vissuto. Ma lasciate a noi la grinta di sognare un carcere diverso, riformato, umanizzato, possibile, necessario, indispensabile. Puntiamo il dito sulle carceri americane e sulla loro pena di morte (GIUSTAMENTE!),

eppure noi, nel nostro paese, permettiamo che dei ragazzi per reati minori (spesso spinti a compierli per situazioni di povert, per mancanza di alternative) muoiano sepolti vivi. E dire sepolti vivi non una forzatura o unesagerazione, ritengo invece che sia il nocciolo del problema! In Italia i detenuti sono in un continuo stato di isolamento dal mondo, se poi capita che sia uno straniero (e qual la percentuale di stranieri nelle carceri italiane?) lisolamento ancora pi totale. In USA quando non ricevi una telefonata per pi di 10 giorni da un carcerato sai il perch: in isolamento, idem vale per le visite lisolamento messo in pratica come castigo per cattiva condotta e in questo caso niente visite, si va in the hole, nel buco. Ma in Italia i carcerati sono sempre in isolamento, sono sempre in punizione: possono telefonare e ricevere visite solo dai familiari (perch mai?) e solo se in possesso di un regolare permesso di soggiorno! Come a dire: se non hai famiglia, o se sei immigrato, impiccati pure! Perch tanto qui dentro sei sepolto vivo! NON ESISTI PIU! Se Patty fosse arrivata in tempo per Ramon Enrique, non le avrebbero concesso la visita molto probabilmente! Perch tutto questo? Perch brutalizziamo cos chi ha sbagliato? Perch questa forma di tortura costante e micidiale? Perch? La detenzione non implica lisolamento, eppure da noi in Italia sembrano essere sinonimi. Accenno a questo problema perch quello che ho potuto toccare con mano e ritengo che sia una delle cause dellelevato numero di suicidi. Inoltre se vogliamo cambiare le cose dobbiamo assolutamente fare delle richieste specifiche, che partano dalle esigenze della vita di tutti i giorni, denunciando gli abusi ai diritti umani, i diritti fondamentali della persona. Anche chi ha compiuto un crimine e rimane un soggetto di diritti, una persona, un essere umano. Non pi ammissibile che: i detenuti in quanto a regole siano in balia dei direttori del carcere, che non esista un regolamento di tutela dei diritti dei detenuti uguale per tutti gli istituti, che le morti in carcere non facciano notizia, che Amnesty International abbia dichiarato che in Italia nelle carceri vengono violati i diritti umani. Non ammissibile che tutto ci continui a succedere giornalmente senza che si levi forte e chiaro un BASTA da parte della societ civile. Occorre informare e sensibilizzare lopinione pubblica, stimolare i parlamentari, umanizzare il problema, prescindendo dal colore politico. Qui stiamo parlando di diritti umani!!! Cose specifiche, esempi, una lista degli abusi e dei rispettivi diritti che dovrebbero essere tutelati anzich infranti in continuazione. Il diritto ad essere curati, il diritto alla salute, il diritto a non essere sepolti vivi, il diritto per gli immigrati ad essere trattati come gli altri detenuti! Quale pu essere il nesso tra riabilitazione e isolamento dal mondo? Quale se non un abbrutimento della persona? Una tortura gratuita e ingiustificata? I diritti fondamentali DEVONO essere uguali per tutti, il diritto a essere curati, a telefonare e ricevere visite inclusi, perch queste privazioni sono letali e i suicidi ne sono la conferma! Perch per chi ha compiuto reati non violenti anzich il carcere e lisolamento (che nulla hanno di riabilitativo ma anzi accrescono odio, risentimento, emarginazione e comportamenti devianti) non si pone come alternativa lo svolgimento di lavori socialmente utili da compiere nel territorio (manutenzione e pulizia dei parchi, pulizia delle strade) come avviene nei paesi civili, affiancando ai carcerati, nello svolgimento di questi lavori, assistenti sociali che lavorino fianco a fianco con questi ragazzi, permettendo attraverso la frequentazione di modelli positivi di percorrere un autentico percorso riabilitativo e di integrazione? Patty nel suo funesto viaggio a Iglesias ha saputo che prima di Ramon altri due ragazzi nel giro di pochi mesi si erano tolti la vita. Nemmeno un mese dopo la morte di Ramon, il

30 novembre si impiccato Gabriele Pasceddu, un 35enne, in un carcere di Cagliari, anche lui in carcere per reati minori. E chiss quanti altri nomi sfuggono alle cronache! Uniamo le forze, iniziamo il tam tam, la situazione delle carceri italiane il peggio che abbiamo in questo paese, grida vendetta al cospetto di Dio. Si tratta della violazione dei diritti umani fondamentali! Ya basta! Facciamo s che la morte di Ramon non sia stata vana. Uniamoci al grido di dolore di Patty e di tutti quelli che da dentro non possono gridare, non possono parlarci, non possono comunicare con lesterno se non attraverso il gesto estremo. Io alzo il mio grido contro una situazione intollerabile, disumana che non pu e non deve pi continuare. Unite anche voi il vostro grido al mio e a quello di quanti hanno collaborato e collaboreranno in questa inchiesta! Facciamolo ahora, adesso. Da adesso. Tutti. Per vincere la battaglia per i diritti umani nelle carceri italiane. *** Intervista (o sarebbe meglio dire, chiacchierata) a Emilio Santoro, professore associato di Filosofia del diritto nella Facolt di Giurisprudenza dell'Universit di Firenze, direttore del centro di documentazione L'altro diritto, incentrato sui temi dell'emarginazione sociale, della devianza e del carcere. Fra le sue pubblicazioni "Carcere e societ liberale" (edito da Giappichelli). di David Santi, per Ecomancina.com

David Santi.: Al giorno doggi diffusa la convinzione, lanciata negli anni 70 da intellettuali di sinistra, che il carcere come misura rieducativa non funzioni, abbia fallito la sua missione. Ci nonostante listituzione carceraria ancora presente. Quali sono le sue vere o nuove funzioni? Emilio Santoro: Bisogna sempre intendere cosa rieducazione voglia dire, cosa non voglia dire; se il carcere doveva essere lo strumento di trasformazione di un sottoproletariato urbano in operai per le fabbriche, non ha mai funzionato, non stato cos nell800 non stato cos nel 1900. Abbiamo vissuto invece un carcere del welfare state che ha avuto una funzione sicuramente non di rieducazione, fortunatamente, ma di reinserimento sociale, nel senso che per alcuni tipi di soggetti il carcere del dopo la Gozzini in Italia stato un carcere che ha svolto e concentrato un certo numero di risorse e di attenzioni su persone socialmente marginali che nella loro vita non avevano mai avuto una concentrazione di risorse; questo un pochino ha funzionato. Soprattutto la misura dellaffidamento ha avuto una certa importanza. Oggi il carcere qualcosa di completamente diverso, oggi il carcere un grande contenitore della marginalit sociale; basta prendere le statistiche della popolazione detenuta, quasi il 40% sono migranti, quasi tutti irregolari, un terzo circa sono tossicodipendenti; normalmente nelle grandi citt le carceri sono un centro di permanenza temporanea per i migranti, una grossa comunit terapeutica coattiva per i tossicodipendenti, ma anche spesso e volentieri il primo centro daccoglienza per i senza fissa dimora; spesso e volentieri la prima corsia psichiatrica, cio trovi pi

sofferenti psichici nelle carceri che non altrove Quindi veramente il carcere ha assunto un ruolo quasi di pattumiera sociale, di contenimento di un disagio altrimenti incontenibile. Credo che la grossa funzione su cui il carcere si gioca la sua vita e la sua ragion dessere, in Italia come in molti Paesi europei, soprattutto quello dei migranti, cio la cerniera tra la permanenza in Italia e lespulsione di moltissimi migranti. Se passa il progetto Fini sulle tossicodipendenze diventer anche questa laltra funzione; per ora soprattutto i migranti. I tossicodipendenti hanno una rilevanza grandissima, per il carcere divide ancora con fatica, non lha ancora metabolizzato, mentre il meccanismo sulla gestione dei migranti veramente ormai un meccanismo oliato, e questa la funzione sociale che oggi il carcere ha. D.S.: Si pu quindi dire che il carcere divida la popolazione in due grandi classi, chi ha i diritti e chi no? E.S.: Io direi che la divisione gi stata fatta, che il carcere listituzione che gestisce chi non ha i diritti; non il carcere che divide. Il carcere istituzione di stigmatizzazione oggi lo poco, poco o niente; casomai la divisione gi stata fatta, abbiamo gi deciso chi non ha i diritti e ne affidiamo appunto al carcere la gestione. Casomai, di nuovo, serve per stigmatizzare i migranti, tra i migranti irregolari ma buoni, quelli che si adattano a lavorare in nero, non fanno "casino" e accettano qualsiasi condizione di lavoro, e quelli irregolari che devono essere destinati allespulsione perch protestano, brontolano, e via dicendo; l il carcere serve a distinguere le cose. D.S.: Quindi una teoria del "Border control" la Bauman? E.S.: S e no, cio, vero c un controllo dei confini, per secondo me non tanto una funzione di controllo dei confini, se per controllo dei confini intendiamo anche chi li dirige e li sorveglia e via dicendo; secondo me il carcere non svolge questa funzione. Il carcere pi una macchina che riprocessa chi abbiamo gi controllato e gi sistemato; secondo me affidare al carcere una funzione attiva, forte, oggi, non ha molto senso. Il carcere unistituzione in qualche senso residuale, nel senso che con la fine delle grandi discussioni sul reinserimento sociale, sulla Gozzini e via dicendo, in Italia il carcere e la cultura penologica hanno perso ogni funzione di guida, per cui il carcere si trova a doversi riadattare, reinventare a seconda di chi gli viene scaricato addosso; dargli una sua autonomia, una sua capacit di gestione, di individuazione di una sua propria funzione, secondo me in questo momento non corretto, non corrisponde ai fatti Se uno va a parlare con gli operatori penitenziari, dai direttori agli educatori, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria, nessuno di loro esercita una funzione forte, cio non esiste una politica del carcere. Al carcere vengono scaricati addosso un milione di problemi e deve fare i salti mortali per gestirli, e naturalmente li deve gestire poich altrimenti perde la sua ragione dessere. D.S.: Quindi in definitiva un cambiamento del paradigma punitivo lei lo vede con lapprovazione della legge Gozzini? E.S.: No, non che c un cambiamento; la legge Gozzini sicuramente lattuazione in Italia del carcere del welfare state. Il carcere del welfare state arriva in Italia con la Gozzini, 1986, e ha una vita in effetti brevissima in senso pieno perch nel 91/92 i decreti dopo luccisione di Borsellino e Falcone bloccano immediatamente la cosa, per fino alla Simeone del 98, con un andamento un po sinusoidale, il carcere del welfare

state sicuramente vivo e presente; questo dico a livello di cultura, penso ai dibattiti sugli educatori, alla creazione del centro servizio sociale per gli adulti, a uno sviluppo di una certa cultura penologica in Italia che molto legata alla scuola di Baratta, alla rivista "La questione criminale" prima e poi "Dei delitti e delle pene", o si pensi a Salvatore Verdi. E finito un dibattito che ha coinvolto operatori, esperti, e che ha coinvolto anche parte della cittadinanza del carcere; ha avuto il suo canto del cigno con la legge Simeone del 98 e poi finito, ed finito perch il carcere, se forse riuscito grazie allaffidamento terapeutico, al Testo Unico del 90, alla legge Gozzini, a gestire i tossicodipendenti, non stato capace di rielaborare cultura per gestire gli immigrati, che oggi rappresentano la stragrande maggioranza dellutenza del carcere; e poi alla fine degli anni 90 e allinizio del 2000 abbiamo un nuovo paradigma, si avverte che il carcere cerca di adattarsi e trovare una sua funzione. La Gozzini segna il momento di un carcere attivo che discute sulla sua funzione e cerca di imporre la sua funzione alle altre istituzioni, abbiamo la cultura della magistratura di sorveglianza, e anche le polemiche fra magistratura di sorveglianza e magistratura ordinaria. Con linizio del 2000 tutto questo cambia profondamente. D.S.: Si pu dire che siamo in scia agli americani e agli inglesi, con i dovuti distinguo E.S.: Con molti distinguo, si, siamo in scia agli americani e agli inglesi D.S.: Quella che Garland chiama la "tarda modernit" E.S.: Io non ci credo molto a questa analisi di Garland molto culturale, molto incentrata sul cambiamento del rapporto vittima offensore e tutto il resto. Siamo di fronte a una trasformazione del mercato del lavoro molto potente e ad una trasformazione dellidea di cittadinanza molto forte che ha sconvolto e sta sconvolgendo tutto, tutto il nostro modo di vivere, e in cui la stessa idea di cittadinanza e anche di coesione sociale, cio dei fattori di integrazione sociale, molto cambiata; noi abbiamo avuto per tutto l800 e per la prima parte del 900 la cittadinanza basata sullidea che il lavoratore fosse il cittadino, poi con gli anni 50 e 60 comincia ad affermarsi una cittadinanza di tipo keynesianofordista, in cui il consumo pi che il lavoro che fa il cittadino e lintegrazione nella cittadinanza. Oggi siamo in una fase di recessione, ci rendiamo conto che una cittadinanza basata sul consumo non possibile, che non integrazione ma disintegrazione, che un meccanismo integrativo che richiede sempre maggiori domande che ne lo stato sociale ne il meccanismo fordista riesce ad affrontare. Questa grande trasformazione sicuramente scoppiata prima negli Stati Uniti, poi arrivata in Europa nellInghilterra della Tatcher e sta arrivando in Italia, ma non una questione di modelli, una questione che via via che si integra un mercato del lavoro e dei capitali finanziari fatti in una certa maniera, la societ lo deve rincorrere, i singoli Stati non hanno grande capacit di governo; non so se a livello di Unione Europea ci sia la forza di governare una cosa di questo genere, sicuramente non c laccordo per farlo in questo momento; discutibile se a livello comunitario ci sia la forza, cio ci siano le dimensioni per provare a governare; siamo di fronte a quelle cose che Carpoliani vedeva tanti anni fa in cui lo Stato invece di governare si sente di dovere diventare ancillare rispetto alle funzioni del mercato, e il carcere uno dei pezzi dello Stato che ne risente di pi D.S.: Uno smantellamento del welfare state e una riorganizzazione dello Stato come E.S.: Ma guarda che questo successo in Inghilterra e negli Stati Uniti, per questo dico

poi non la strada; in Italia non sta succedendo questo, e forse nemmeno in altri Paesi europei; stiamo assistendo ad un restringimento del welfare state e non ad un suo smantellamento, cio il welfare state diminuisce gli utenti; se vuoi una politica di tipo vittoriano-edwardiana, cio diamo il welfare state a chi se lo merita, e il carcere in questo senso gestore di un welfare state tutto particolare, si prende in carico chi non se lo merita; una concezione dei diritti come qualcosa che non spetta appunto per diritto in quanto membro della comunit, ma come qualche cosa che si d o si toglie a seconda che uno se lo merita o no. D.S.: Intellettuali come Foucault e Hulsman dalla critica allistituzione carceraria arrivavano ad una critica al sistema penale in generale, cio al diritto di punire; lei cosa ne pensa? E.S.: Sicuramente Foucault critica le modalit di punire, ma io credo che difficile dire che Foucault si ponga il problema del diritto di punire, non credo si sia mai immaginato potesse esistere una societ in qualsiasi forma senza la punizione D.S.: Diceva "non spetta a noi dirvi come ci dovete punire", in quanto appunto criticando la societ e il sistema di dominio E.S.: Si, appunto in un gioco che era "agonistico"; come dire in ogni societ c una punizione, in ogni societ bisogna opporsi alla punizione D.S.: In quanto dalla parte dei dominati e non dei dominanti. E.S.: In quanto dalla parte dei dominati, per sapendo bene che un gioco agonistico di potere in cui quando chi si oppone vince comunque punir e ci sar qualcun altro che si opporr, per cui pensare che Foucault si immagini una societ senza punizione non mi sembra corrispondente alle cose che lui dice, pensa, fa. Si immagina una lotta sulla punizione, questo mi sembra realistico, cio ogni volta che il potere viene esercitato fondamentale contrastare questa idea, per immaginarsi che esista un potere che venga esercitato e non faccia presa sul corpo e sulle anime delle persone sarebbe unutopia. Per cui io continuo a dire che questa dimensione importantissima, cio la dimensione di critica, di lotta, di sorveglianza sulle modalit in cui la pena viene esercitata, ma non la pena, anzi, il potere viene esercitato; la pena in quanto oggi momento pregnante, ancora il momento in cui lo Stato prende direttamente il corpo delle persone, per cui il momento decisivo di tutto il sistema di meccanismi di potere che ci sono, per cui fondamentale criticarla Da questo a dire si critica il diritto di punire Io questo salto non lo faccio. E in questo senso mi convince Luigi Ferrajoli quando dice stiamo attenti alle societ che non hanno pene formalizzate, non hanno un diritto di punire formalizzato, perch possono essere molto peggio di quelle con un diritto di punire formalizzato. Una pena che non si nasconde meglio di un controllo diffuso che non assume laspetto della pena. Per cui prima di contestare il diritto di punire Unaltra cosa dire se ci possiamo immaginare una societ senza carcere Oggi direi di no; possiamo immaginarci societ con carceri diverse, con carceri con funzioni diverse, con carceri che guardano ad una popolazione completamente diversa. Io oggi mi sentirei di dire che il 60 / 70% delle persone che sta in carcere in Italia non ci dovrebbe stare, ma non mi sentirei di dire che esiste un altro sistema di punire quel 20 / 30% di persone che resterebbero comunque nelle carceri; penso che un carcere fatto in maniera seria, a norma di legge, un carcere che sia privazione della libert e non distruzione della vita, sia comunque un metodo di punizione pi garantista di molti altri che ci possono venire

in mente rispetto a questo 20 / 30 % che potrebbe essere i rapinatori, i grandi trafficanti di droga, la mafia, la corruzione politica e amministrativa e finanziaria C un 20 / 30 % di "delinquenti", gente che sceglie di vivere in questa maniera e che inquina i rapporti di potere, per cui penso che per questo 20 / 30 % di 55000 persone, comprese quelle in attesa di giudizio, o dei 25000 - 30000 definitivi, probabilmente un totale di 10000 persone, non si possa pensare di gestire socialmente come tossicodipendenti, immigrati, sofferenti psichici, senza fissa dimora che invece dovrebbero essere gestiti assolutamente con interventi di tipo sociale. Che ci sia un gruppo di 10000 persone che ha commesso dei reati per cui c una reazione della societ, unautodifesa, e dire che ci immaginiamo altri metodi, io non ne ho altri pi garantisti del carcere liberale cos come stato pensato, e avrei paura di metodi diversi, nel senso che secondo me rischiano di diventare una violenza forte sulle persone, non qualcosa che garantisca queste persone, che hanno commesso reati, ma che i loro diritti ce li hanno e continuano ad avere. David Santi *** Ramon e gli altri un lavoro realizzato per Ecomancina.com da (in ordine alfabetico): Francesco Barilli Sonia Benedetti Carlo Del Grande Francesca Frizzi Manigilio David Santi

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