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Stato nella sfera economica e nella dinamica dei relativi rapporti è alla base
E PARTECIPAZIONI STATALI
Enti locali, società partecipate, Cassa Depositi e Prestiti, economie car-
cerarie, imprese confiscate e abbandonate, procedure concorsuali, respon-
sabilità degli enti da reato e apparato giurisdizionale alcuni snodi di
intervento a partire dai quali organizzare i rapporti economici su basi par-
ECONOMIA MISTA
E PARTECIPAZIONI STATALI
Ragioni, prospettive e orientamenti per un sistema
di impresa pubblica nel terzo millennio
IN COPERTINA
MARCELLO LEONCINI (FIRENZE, 1905 – VENEZIA, 1990)
SANTA MARTA – PERIFERIA VENEZIANA (1954)
9X16 CM.
TECNICA MISTA SU CARTA
COLLEZIONE PRIVATA, TREVISO
4
INDICE
Ringraziamenti ............................................................... » 19
5
- Galassia IRI: panettoni di Stato e altri spettri ......... Pag. 59
Dove partire:
- Procedure concorsuali, mutualismo, carceri
e rieducazione, imprese confiscate e responsabilità
degli enti da reato
▪ Iniziativa politica, giustizia riparativa e apparato
giurisdizionale ................................................................. » 67
▪ Prossima fermata, utopia: autogestione, procedure ...... » 74
concorsuali e imprenditorialità
Dove arrivare:
- Ambiente, democrazia economica e dimensione
nazionale come spazio di azione politica, note
per un ripensamento del modello economico
▪ Usciamo dalla riserva! ................................................. » 95
6
AD ANDREA, ULISSE E MAX
7
INTRODUZIONE: ECONOMIA MISTA,
ATTUALITÀ DI UN ORIZZONTE
9
particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su
larga scala»1. Difficile pensare a qualcosa di più umiliante e dramma-
ticamente chiaro nel circostanziare l’assenza di alternative all’interno
del combinato sistemico UE/euro.
Parole, quelle della missiva, non usate a caso guardando al merito
dei quesiti perché, se ai fini della propaganda il referendum è stato
identificato con il tema ‘acqua’ (servizio idrico integrato, più precisa-
mente), il primo di essi riguardava i ‘Servizi pubblici locali di rile-
vanza economica’, dunque acqua ma anche trasporti, rifiuti e
potenzialmente altro (produzione elettrica decentrata, ad esempio…):
una partita in termini sistemici enormemente più ampia e deflagrante
sul piano degli equilibri economici interni in riferimento alle possibi-
lità di estrazione di profitti da parte del capitale privato; non a caso
Deutsche Bank, in un rapporto sulle privatizzazioni in Europa del di-
cembre 2011, definiva il referendum «un ostacolo» (hurdle)2.
A parere di chi scrive quel frangente è stato uno dei due momenti
di concreta incrinatura dell’ordine giuridico europeo, una fase nella
quale il rifiuto nei fatti di un determinato assetto istituzionale ed eco-
nomico ha assunto i caratteri non già della testimonianza e del movi-
mento di opinione nobile ma drammaticamente ininfluente, ma ha reso
visibile una dinamica concretamente in grado di modificare i rapporti
di forza storicamente sussistenti creando un ‘senso comune’ e un oriz-
zonte collettivo diverso e alternativo rispetto a quello dominante.
Se si fosse continuato su quella strada, la collisione con le direttrici
mercatiste di derivazione europea sarebbe stata inevitabile.
Altrettanto sarebbe successo in esito al referendum del luglio 2015
in Grecia contro il memorandum imposto dalla troika (BCE-UE-FMI):
anche in quel caso si è raggiunto l’acme di un percorso estremamente
interessante che dapprima ha dato vita a Syriza, la coalizione della si-
nistra radicale, su base orizzontale fra le forze promotrici, sintetizzando
dei punti di convergenza non scontati e, ancor più importante, un me-
todo di lavoro e organizzazione che non pretendesse l’annullamento
bensì il superamento delle sue componenti e sensibilità nella prospet-
tiva di un livello di unità e convergenza in grado di porsi come alter-
1
https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano-
091227.shtml
2
https://ilsimplicissimus2.files.wordpress.com/2012/01/deutsche-bank.pdf
10
nativa credibile alla monocultura della crisi rappresentata dagli altri
partiti del proscenio politico greco.
Un’aggregazione in grado di proporsi e di parlare alla società greca
piegata dalle cure austeritarie e dalla recessione nella sua multiforme
pluralità, adattando al concreto contesto nazionale le rivendicazioni
sintetizzate nei quaranta punti prima3 e nel ‘programma di Salonicco’
poi, compiendo la scelta non scontata di formare una coalizione con un
movimento conservatore, i Greci Indipendenti, rompendo quindi gli
argini di una prospettiva ‘di bandiera’ per porsi la sfida del governo
nella consapevolezza che, per incidere nei processi politici, a tale pas-
saggio non è possibile sottrarsi4.
Insomma, una risposta non formulare e dogmatica ma concretamente
calata nelle dinamiche storiche e politiche che ha portato alla vittoria del
‘NO’, la posizione espressa dal partito, in tutte le circoscrizioni della
Grecia.
A quell’esperienza occorre guardare con interesse anche per la ca-
pacità di radicamento nel tessuto sociale di una soggettività di alter-
nativa in un contesto a capitalismo maturo, mantenendo un approccio
comunque connotato sul piano della collocazione e dell’appartenenza,
3
Cfr. Francesco Labonia, Grecia/La sovranità di Syriza, in Indipendenza, n.
32, p. 17; Angelo Mastandrea, Mense e cliniche, le trincee di Syriza, in il ma-
nifesto, 17 dicembre 2014; Fulvio Massarelli, La forza di Piazza Syntagma,
2013, Milano, AgenziaX; Matteo Pucciarelli Mutualismo vs austerità: il se-
greto del successo di Syriza https://archivio.micromega.net/mutualismo-vs-
austerita-il-segreto-del-successo-di-syriza/; Stavros Stavrides, Spazio comune.
Città come commoning, 2022, Milano, AgenziaX; Antonio Di Siena, Memo-
randum, una moderna tragedia greca, 2020, L’antidiplomatico editore.
Per completezza documentale e approfondimento multidisciplinare sull’evolu-
zione della crisi greca si rinvia al blog (in francese) del sociologo Panagiotis
Grigoriou www.greekcrisis.fr
Per approfondimenti video Laboratorio Grecia a cura di Jacopo Brogi https://lab-
greece.org/it/ e Il più grande successo dell’euro https://vimeo.com/122331366
4
In particolare vedasi Dario Romeo, Marxismo occidentale e questione nazio-
nale, in Indipendenza, n. 45, p. 39: «in Occidente i comunisti non si sono mai
dovuti confrontare con l’esercizio del potere e la gestione del governo. Non
hanno quindi dovuto confrontarsi con scelte che implicassero compromessi,
gradualità, strategie di lungo periodo, arte della diplomazia, considerazione
per la geopolitica, sviluppando così in molti casi concezioni di carattere mas-
simalista, idealista e, nella loro radicalità, fondamentalmente astratte.»
11
fatto questo che differenzia in modo netto l’esperienza greca dalla –pe-
nosa– parabola del Movimento Cinque Stelle in Italia.
Non solo le istituzioni rappresentative, dunque, ma anche il sindacato,
le mense, gli ambulatori popolari, le vertenze locali, i media indipendenti
e la controinformazione, l’autogestione e l’autoimpiego, le lotte e i boi-
cottaggi, il mutualismo, il consumo critico e i gruppi di acquisto, gli or-
dini professionali: esperienze che hanno indicato la necessità di abbinare
una maggioranza nelle istituzioni di prossimità e nelle assemblee elettive
con una maggioranza sociale nei corpi intermedi, un passaggio quest’ul-
timo ineludibile –e spesso sottovalutato– nella prospettiva di creare i ne-
cessari rapporti di forza per un rifiuto dell’ordine unico neoliberista. Chi
crede che sia sufficiente ‘avere i numeri’ in Parlamento per reggere l’onda
d’urto della reazione, sbaglia grandemente: l’alternativa va costruita in
tutta la società, in ogni articolazione sovraindividuale.
Comprendere quale sia il livello di unità possibile, le vertenze su cui
convergere, gli snodi di accumulo delle forze così come la capacità di
conglobare ed elaborare ambiti di intervento apparentemente margi-
nali (questioni di genere, nonviolenza e disarmo, ambiente e antispe-
cismo…) nel quadro di una cultura di governo saranno alcune delle
sfide che l’ondata recessiva in essere ci porrà con urgenza. Proprio su
tale ultimo aspetto è importante aprire una riflessione evidenziando
come le lodevoli rivendicazioni settoriali (movimenti, comitati etc..)
devono necessariamente inserirsi in una prospettiva di società, in
un’idea di mondo e, non da ultimo, in un’organizzazione che tali
istanze porti avanti sul piano dell’azione politica.
Entrambi i momenti politici summenzionati, pur nella loro indi-
scutibile importanza, hanno fallito innescando una restaurazione
ancor peggiore della stagione che li ha preceduti, sia in Italia che in
Grecia5, così come ha fallito il movimento no global all’inizio degli
anni Duemila e ogni istanza rivendicativa degli ultimi anni (indi-
gnados, movimenti antiausteritari, scioperi climatici, Occupy Wall
Street…). Certo, l’assenza di un blocco geopoliticamente e strategi-
5
«L’esperienza della sconfitta del 2015 è stata devastante per tutti.[...] Tutta-
via, quello che voglio sottolineare è che la nostra sconfitta non è stata così im-
portante come quella del popolo greco, perché c’è stato un momento in cui le
cose in Grecia sarebbero potute andare in modo diverso e questa opportunità
è andata persa.» Intervista a Jason Kostopoulos dal sito poterealpopolo.org
https://poterealpopolo.org/intervista-jason-kostopoulos-koe-atene/
12
camente alternativo a quello occidentale-capitalista ha avuto un peso
dirimente ma è anche necessario domandarsi se dietro tale esito sot-
tostiano altre motivazioni: è convinzione di chi scrive che l’assenza
di una visione alternativa e strutturale con riferimento all’impresa
pubblica6 e al ruolo dello Stato nella vita economica sia l’elemento
di carenza ‘originario’ di tali prospettive ed è da tale intuizione che
il ciclo di lavori qui approdato ha tratto origine saldando tale filone
d’indagine e i correlati articoli sulla rivista Indipendenza con l’atti-
vità di ricerca collaterale alla tesi di laurea, ormai risalente di oltre un
lustro, resa possibile dalla non scontata disponibilità dei proff. Mauro
Trivellin e Carola Pagliarin, rispettivamente relatore e correlatrice, e
discussa il 16 luglio 2014 nell’Università degli Studi di Padova con
il titolo La sovranità impositiva nel crepuscolo dello Stato nazionale
nonché, da ultimo, con gli spunti contenuti nel blog (chininodi-
stato.wordpress.com) che curo.
Rivendicare diritti sociali, istanze emancipative e prospettive pere-
quative senza una chiara analisi del ruolo dello Stato nella vita econo-
mica e del rapporto Stato-mercato in termini propositivi è, per chi
scrive, una prospettiva senza sbocco.
Il neoliberismo si è affermato come fenomeno storico nel Cile di Pi-
nochet, divenutone un vero e proprio laboratorio con tutto il ben noto
portato di repressione violenta, omicidi di Stato, espropriazione delle
risorse della collettività. Ancora una volta non è un caso perché, nel
Paese latinoamericano, sempre con le forme della democrazia bor-
ghese, si era affermata una coalizione di governo plurale guidata da
Salvador Allende che aveva varato un coraggioso piano di interventi
socialmente emancipativi. Un fatto inaccettabile per quello che era ed
è ancor oggi considerato il giardino di casa della potenza imperialista
per antonomasia, gli Stati Uniti d’America.
La conclusione di tale parabola, quindi, dovrà avvenire per il tra-
mite di un movimento di massa di rifiuto: un sentiero stretto che ad
oggi è l’unico percorribile.
6
Nota terminologica: nel testo, salvo diversa specificazione, si utilizzerà
l’espressione impresa pubblica facendo riferimento alle modalità di ripensa-
mento delle partecipazioni statali nel solco della prospettiva partecipativa e di
democrazia economica che si individua in questa pubblicazione, non già quindi
alla public company di matrice anglosassone ad azionariato diffuso.
13
Scopo di questo lavoro non è quello di restituire dignità e riabilitare
un passato, quello dell’impresa pubblica, oggetto di un revisionismo li-
quidatorio che assume i tratti della damnatio memoriae e dell’icono-
clastia per larga parte veicolate da una vulgata giornalistica al soldo
delle forze economiche antagoniste naturali di qualsiasi prospettiva in
questo senso, quanto piuttosto abbozzare i tratti di una linea d’indi-
rizzo necessaria per l’oggi e per il futuro. L’auspicio è quello di fornire
degli spunti in grado di superare una prospettiva classicamente ‘stata-
lista’ così come, altrettanto, l’adesione a un modello incentrato sui
‘beni comuni’ che chi scrive reputa insufficiente nel merito e critica-
bile nel metodo perché rischia di approdare a prospettive che, pur di su-
perare la dimensione statuale, attribuiscono la centralità ad una
dinamica organizzativa a base privatistica legittimando, fra l’altro,
quella ‘sussidiarietà’ verticale e orizzontale che è nei fatti uno dei vet-
tori di affermazione, in termini di cultura istituzionale, del modello
neoliberista stesso.
Il ‘socialismo al contrario’ tutto privatizzazione degli utili e socia-
lizzazione delle perdite è un fatto politicamente inaccettabile, come è
inaccettabile che i ceti territorialmente vincolati e onerati della gran
parte del carico fiscale debbano di fatto finanziare i processi di ‘ri-
strutturazione’ degli operatori economici transnazionali per il tramite
di ammortizzatori sociali, incentivi, defiscalizzazioni.
Chi scrive, dunque, ha l’ambizione di contribuire a portare nel di-
battito la centralità della nozione di ‘economia mista’ con l’impresa
pubblica come elemento strutturale e sistemico, assumendo che non
esistano comparti ontologicamente privati. Tale prospettiva è dunque
in radice slegata dalla supplenza ancillare alla ‘crisi’ o ai processi di ri-
strutturazione come fra l’altro è accaduto in esito alla pandemia da
Covid 19 con il mai nascosto intendimento di poter gestire tutto in at-
tesa del ‘com’era, dov’era’ riproponendo ricette, rapporti di forza e pa-
radigmi economici del ‘prima’ nel tentativo di dar corso a una
‘restaurazione 2.0’ e riportare così indietro le lancette della Storia, al
più peggiorando impatto ambientale e decostruendo ulteriormente ogni
dimensione collettiva. Insomma se qualcosa deve cambiare, sarà in
peggio.
Allo stato ci troviamo in un momento di chiusura di un ciclo storico
iniziato 150 anni fa con la Comune di Parigi e l’esperimento degli opi-
fici nazionali (Ateliers nationaux) come prospettiva di intervento pub-
14
blico emancipativo nel tessuto economico7, sulle cui ceneri articolare
una proposta non parolaia per una ridefinizione dei rapporti economici,
tenendo presente un ulteriore elemento di complessità nell’analisi, cioè
la constatazione che non tutto ‘il pubblico’ sia esente da critiche come
non tutto il ‘privato’ debba essere rifiutato in termini apodittici.
È evidente che gli apparati e le articolazioni pubbliche sono non di
rado i garanti delle rendite parassitarie e della sclerotizzazione di que-
sto fallimentare modello di sviluppo nonché il braccio armato a difesa
del blocco economico dominante (si pensi al paradigmatico esempio
della militarizzazione della Val di Susa nella quale grandi opere, espro-
pri e modello speculativo si saldano con la repressione operata dalla
macchina pubblica) quando non addirittura i fautori del deterioramento
delle condizioni materiali del lavoro e della deindustrializzazione,
come recentemente accaduto con l’operazione Alitalia/ITA Airways,
inquietante precedente di intervento pubblico ‘al contrario’ nel quale lo
Stato si è prestato a compiere il lavoro sporco su delega del capitale
estero e sotto dettatura della Commissione Europea.
Altrettanto esperienze quali le comunità energetiche, le città in tran-
sizione, segmenti dell’artigianato, della microimpresa, della finanza
etica, del consumo critico/alternativo e del mutualismo stanno con-
cretamente e fattivamente contribuendo a mitigare se non proprio a
contrastare gli effetti delle dinamiche oggi egemoni alimentando pe-
raltro una vitalità civile cui occorre prestare la massima cura anche sul
piano dell’organizzazione politica, sperimentando modelli organizza-
tivi alternativi a quelli dominanti8: qualsiasi visione manichea è quindi
da abbandonare, così come schematizzazioni formulari legate ai soli
assetti proprietari e regimi dominicali.
Va poi evidenziato che, se l’assistenzialismo si indirizza in forme ab-
normi nei confronti degli operatori economici multinazionali destinatari
della possibilità di operare nei mercati globali mediante elusione fiscale
e sussidi indiretti settoriali e non, arbitraggio sui fattori della produzione
7
In particolare si veda Luciano Curreri, La Comune di Parigi e l’Europa della Co-
munità?, Quodlibet, Macerata, 2019
https://www.youtube.com/watch?v=XlGkEbtXmGQ presentazione con Alessan-
dro Barbero https://www.youtube.com/watch?v=0_yg6sBTnZw
8
Per una rassegna su questi temi si rinvia a www.italiachecambia.org e www.co-
munivirtuosi.org
15
non da ultimo attraverso forme lavoristiche ‘pirata’, una prospettiva di
economia mista per essere proponibile deve essere anche credibile: si cer-
cherà quindi di non indulgere ad alcuna logica di ingenua prospettazione
di scenari arcadici, pittoresche utopie ed esperienze che per legittima
scelta rifiutano l’orizzonte presente. Viceversa chi scrive ritiene che non
debbano essere forniti alibi al blocco dominante. Occorre dimostrare che
un’alternativa è materialmente possibile e percorribile su vasta scala e in
termini sistemici; è quindi proprio la nozione di impresa pubblica come
‘sistema’ che si intende declinare come orizzonte strategico.
A partire da tali constatazioni occorre pensare al ‘come’ circostan-
ziare l’impresa pubblica, definirne i tratti, perché essa è in realtà un fe-
nomeno nuovo; non dunque la ‘proprietà privata dei partiti di governo’,
come ebbe modo di definirla Ugo Mattei in un incontro a Treviso9,
quanto una nuova prospettiva di democrazia economica su basi parteci-
pative ed emancipative, tenuto conto che la rivendicazione di una ‘pub-
blicizzazione’ di comparti genericamente ritenuti ‘strategici’ sia un
sentiero insoddisfacente partendo dall’assunto che non è valutabile ex
ante cosa possa diventare ‘strategico’ e, soprattutto, la preservazione
della continuità aziendale anche in comparti di consumo o di massa può
essere essenziale per la tenuta del tessuto economico d’insieme, in par-
ticolare in un contesto come quello italiano caratterizzato dalla presenza
dei distretti manifatturieri. Il punto dunque è evitare una prospettiva pu-
ramente enunciativa e sostanzialmente nominalistica rispetto al ruolo
pubblico nel circuito economico.
In questo senso l’avvento della globalizzazione e la contestuale li-
beralizzazione dei movimenti dei fattori della produzione, in partico-
lare i capitali, ha mutato la tradizionale conflittualità fra lavoro
autonomo e salariato nonché fra capitale e lavoro, dovendosi incen-
trare il conflitto fra componenti territorialmente vincolate e non; ancor
più in sintesi, fra grande e piccolo10.
9
Spazi per la cultura bene comune, incontro pubblico con Ugo Mattei e il Tea-
tro Valle, venerdì 3 maggio 2013, Treviso, Fondazione Benetton Studi e Ricer-
che www.fbsr.it/agenda/spazi-per-la-cultura-bene-comune/
10
Vale la pena evidenziare che la nozione di ‘piccola-media impresa’, fatta pro-
pria in sede comunitaria, attiene a realtà fino a 250 dipendenti; ciò ben chiarisce
come volutamente si giochi sulla nozione di ‘piccola impresa’ sovrapponendola
alla ‘microimpresa’, che invece sviluppa ricavi fino a 2 milioni di euro e impiega
fino a 10 dipendenti (cfr. Raccomandazione 2003/361/CE).
16
Pensare e organizzare l’alternativa è un’esigenza non più procra-
stinabile in un mondo dominato da un divario crescente fra le aree geo-
grafiche e all’interno delle società del mondo a capitalismo maturo,
caratterizzato da crescenti sprechi di risorse e dall’accumulo sover-
chiante di rifiuti. Estendendo queste battute ho ripreso un celebre di-
scorso di Thomas Sankara all’ONU in cui definisce i pasti occidentali
«così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel11»,
un’immagine in cui si racchiudono tutte le sperequazioni dei rapporti
Nord-Sud del Mondo ma anche l’attualità del depauperamento nelle
società occidentali che sta rigettando vastissimi strati della popolazione
nell’indigenza strutturale e nell’impossibilità di sovrintendere degna-
mente ai basilari bisogni esistenziali (si pensi solo alla diffusione del
cibo spazzatura fra i ceti meno abbienti). A tutto ciò si affianca un di-
scorso pubblico che, accettando il lusso da vertigine, parafrasando San-
kara, di una ristrettissima cerchia di persone addossa la responsabilità
di un collasso ambientale ed economico a chi sopravvive con il proprio
reddito, dipendente o autonomo che sia chiedendo nuove rinunce, tagli
e sacrifici.
L’auspicio con cui questo lavoro vede la luce è di contribuire a
un’opera di ‘alta divulgazione’ indirizzata anzitutto ai quadri di quel-
l’organizzazione politica che oggi non c’è come dovrebbe e che chi
scrive auspica di poter contribuire a veder nascere ed evolvere in un
soggettività di massa indirizzata alla costruzione di un’alternativa.
Alberto Leoncini
Autunno 2022
11
Discorso del 4 ottobre 1984 www.unica.it/static/resources/cms/documents/Di-
scorsodiThomasSankara.pdf
17
RINGRAZIAMENTI
Formalizzare in una pubblicazione gli esiti di un percorso di studio
e analisi con la solennità che, bene o male, ciò comporta implica una
domanda a monte sulla propria identità culturale, storica e politica:
l’opportunità di formarmi nell’ambiente accademico padovano mi ha
concesso il privilegio di essere discendente degli studenti che, l’8 feb-
braio 1848, insorsero contro gli austriaci segnando una delle pagine
più alte del Risorgimento in Veneto, fatto che ben si salda nelle radici
della mia città, Treviso, definita nelle motivazioni per il conferimento
della Medaglia d’Oro al Valor Militare il 13 aprile 1948 «centro atti-
vissimo del Risorgimento Nazionale12». Un ringraziamento particolare
ai proff. Mauro Trivellin e Carola Pagliarin per la fiducia accordatami
ai tempi della stesura della mia tesi di laurea La sovranità impositiva
nel crepuscolo dello Stato nazionale discussa il 16 luglio 2014, in par-
ticolare per la già ricordata libertà concessami nell’attività di ricerca.
È altresì doveroso ricordare i seminari del corso di ‘Fondamenti del
diritto europeo’ della prof.ssa Silvia Viaro nei quali ha preso le mosse
il mio studio sui beni pubblici e l’opera di Paolo Maddalena.
A monte del percorso accademico è doveroso menzionare anche
l’importanza, nella mia formazione, degli studi compiuti al Liceo Clas-
sico Antonio Canova di Treviso i cui stimoli, in particolare nelle ma-
12
Riporto per completezza: Fiera delle sue tradizioni di libertà che già ne fe-
cero centro attivissimo del Risorgimento Nazionale; supremo baluardo della
Patria sulle rive del Piave nella guerra 1915-1918; sollevò dalle sventure dell’8
settembre 1943 la fiaccola della resistenza; eccitò alla lotta contro il tedesco
invasore; organizzò le prime schiere armate della pianura e della montagna;
fu per tutto il periodo della dominazione straniera, l’anima di una resistenza in-
domabile di popolo e di brigate partigiane, spiegando energie combattive e ca-
pacità direttive in tutta la regione veneta. Dilaniata nelle carni dei suoi figli
caduti davanti ai plotoni d’esecuzione nemici; distrutta nei suoi edifici; ba-
gnata nelle sue piazze dal sangue di vittime innocenti, lasciò alla storia d’Ita-
lia 248 caduti e 144 feriti partigiani; 10.261 internati e deportati politici; 1600
uccisi e 350 feriti per bombardamenti e il ricordo delle epiche gesta della sua
insurrezione, allorché il popolo, accorso tra le rovine di 3783 case distrutte,
combatté al fianco dei partigiani, unito a loro in un unico slancio di fede e di
libertà. Settembre 1943 - aprile 1945. Data del conferimento: 13/04/1948.
www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/18424
19
terie d’elezione, non posso che ricordare con l’importanza che meri-
tano.
A Indipendenza, rivista e associazione, felice luogo di connubio fra
riflessione teorica e organizzazione, agli amici della redazione e ai soci,
simpatizzanti e sostenitori il più affettuoso ringraziamento non da ul-
timo per aver avuto la bontà di ospitare questa mia fatica nella collana
bibliografica.
Questo lavoro è l’approdo di ricerche, scambi, informazioni, con-
fronti, suggestioni e analisi dipanatisi in molti anni ed è altresì debitore
del rapporto umano, conviviale e culturale con amici che, in forme e
modi diversi, hanno contribuito a questa mia fatica e che è doveroso da
parte mia menzionare senza ordini né gerarchie; ciascuno di loro non
mancherà di comprenderne i motivi sentendo in qualche modo proprio
questo mio lavoro: Arianna Mestriner, Jari Padoan, Federica Bardini,
Vincenzo Elviretti, Alessandra Alice Zorzi, Eleonora Betto, Cristina
Zezza, Martina Vriz, Bruno Manelli, Caterina e Chiara Boschetti, Ma-
riavittoria Leone, Federica Betteti, Elisabetta Uccello, Giovanna
Agrimi, Edoardo Scaggiante, Michele e Maria Cristina Geronazzo, Al-
berto Tortelli, Fabrizio Zampieri, Luciano Curreri, Federico e Sara De
Nardi, Maria Ester Nichele, Giuseppe e Laura Maranto, Nunzio e
Maria Rabbito, Francesco e Monica Mosca, Erika Brighitta Collura,
Mara Canzian.
20
CONTESTO, SCENARIO E QUADRO ISTITUZIONALE:
COM’È E COME DOVREBBE ESSERE
13
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/2018/06/10/prima-repub-
blica-la-genesi-della-razionalita-strategica-della-crisi/
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/2017/04/21/trentennio-
glorioso-prima-repubblica-e-altre-magiche-creature-per-una-critica-ragionata-
al-bestiario-sovranista/
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/2017/02/12/unione-europea-
una-razionalita-strategica-geopolitica-delle-crisi/
14
per una disamina analitica si rinvia a Francesco Silva (a cura di) Storia del-
l’IRI, vol. III, I difficili anni ’70 e i tentativi di rilancio negli anni ’80, Laterza,
Bari, 2013, in particolare pp. 167 ss. e 382 ss.
21
tura di governo e una radicata alfabetizzazione istituzionale ma ciò at-
tiene sempre alla prospettiva della deterrima comparatio non certo a
fantasiose ‘allegorie del buon governo’, meno che mai a una cesura netta
fra le linee d’indirizzo politico della Prima e quelle della Seconda Re-
pubblica. Una voce non certo amica, quella di Roberto Gualtieri, nel ri-
costruire i tratti storici del ‘vincolo esterno’ lo definisce «uno strumento
politico che operò all’interno di un confronto tra diverse opzioni presenti
nelle classi dirigenti italiane»15 di qui, evidentemente, la necessità di
considerare il manganello sovranazionale come principale strumento per
il disciplinamento interno e per la risoluzione su prospettive antisociali
del conflitto distributivo, svuotando e degradando al puro nominalismo
i diritti sociali introdotti con la Costituzione in un quadro normativo e or-
dinamentale formalmente invariato.
Allo stato attuale il rachitico perimetro pubblico può essere circo-
scritto a una platea di società partecipate in quota minoritaria, alla
Cassa Depositi e Prestiti, alle società municipalizzate e controllate da
enti pubblici territoriali o periferici, al Consiglio Nazionale dell’Eco-
nomia e del Lavoro oltre ovviamente agli enti pubblici istituzionali
che, in quanto soggetti capaci di allocare delle risorse (per quanto li-
mitate…), possono essere considerati a pieno titolo in una prospettiva
di riorientamento delle opzioni sistemiche.
La priorità d’azione deve dunque essere quella di segnare una diffe-
renza qualitativa fra la proprietà privata e quella pubblica mediante l’av-
vio di un percorso di ‘legalità costituzionale’16 che prenda le mosse
dall’obbligo di una presenza dei lavoratori nei consigli di amministrazione
delle società a partecipazione pubblica con pari diritti rispetto agli altri
membri, in ossequio all’art. 46 della Costituzione: «Ai fini della eleva-
15
Roberto Gualtieri, L’Europa come vincolo esterno in L’Italia nella costru-
zione europea. Un bilancio storico (1957-2007) a cura Piero Craveri e Antonio
Varsori, Milano, 2009, Franco Angeli, p. 318.
16
Chi scrive è ben conscio che la Costituzione in vigore sia profondamente mu-
tata rispetto all’articolato licenziato dalla Costituente; in termini generali è a
quel testo che si farà riferimento essendo netta l’opposizione alla modificazione
intervenuta, in particolare, con la riscrittura del Titolo Quinto (l.cost.le 3/2001)
e la ridefinizione dei rapporti Stato/autonomie locali. Per quanto più specifica-
mente attiene al campo dei rapporti economici gli articoli richiamati, essendo
rimasti ad uno stato puramente enunciativo, sono pressoché invariati nel loro
testo.
22
zione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della
produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collabo-
rare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Come Indipendenza abbiamo articolato una proposta in questo
senso su ATAC, nel quadro della campagna di controinformazione av-
viata a partire dal referendum cittadino del novembre 201817 per la
messa a gara del trasporto pubblico locale a Roma, declinando tale
prospettiva nella vertenza nell’ottica di un ulteriore avanzamento ri-
spetto ad ABC Acqua Bene Comune, la municipalizzata di Napoli che,
in ossequio al referendum del giugno 201118, è stata trasformata in
azienda speciale con meccanismi statutari di controllo popolare e che
ad oggi è l’esperimento più avanzato per dimensioni e massa critica di
rimodulazione degli assetti di controllo sui servizi pubblici essenziali,
non senza dimenticare esperienze di comunità più ridotte.
Nella prospettiva di dare attuazione all’art. 43 della Costituzione, si
tratta di impresa «a preminente interesse generale» che dunque può
essere affidata a «comunità di lavoratori o di utenti»: non si tratta che
di ‘partecipare’ a ciò di cui dobbiamo riappropriarci e che formalmente
già ci appartiene.
Posta in premessa la proprietà pubblica, abbiamo dunque l’ambi-
zione di declinare forme e modelli nuovi di gestione imprenditoriale,
accettando la sfida di togliere le rendite al parassitismo politico così
come agli oligopoli privati. Ritornando al caso di Atac abbiamo saldato
tale rivendicazione di democrazia economica con la necessità, già pro-
spettata dalla FIOM-CGIL19, di creare un polo pubblico per la produ-
17
L’intera documentazione della campagna è reperibile su https://peratacservi-
ziopubblico.wordpress.com; Indipendenza ha preso parte al coordinamento per
il NO al referendum.
18
Delibera 942 del 23 settembre 2011 per la trasformazione di ARIN S.p.A. in
Acqua Bene Comune. Statuto disponibile
www.abc.napoli.it/allegato/Azienda/allegato_1191_Statuto.pdf in particolare
art. 41 sul Comitato di Sorveglianza.
Si veda anche https://democratizingwork.org/ e l’edizione italiana Manifesto
del lavoro, Roma, Castelvecchi, 2022. Filippo Belloc, Fabio Landini, Demo-
crazia industriale e rappresentanza, in il manifesto, 20 agosto 2022, p. 15.
19
www.fiom-cgil.it/net/index.php/auto-componentistica/azienda-italiana-au-
tobus/6231-industria-italiana-autobus-de-palma-fiom-polo-pubblico-risultato-
dei-lavoratori-ora-tutti-al-lavoro
23
zione di autobus in grado di rimpiazzare gli obsoleti parchi mezzi delle
imprese del trasporto pubblico locale chiudendo quindi una filiera
orientata alla conversione ecologica e alla qualità della vita nelle città.
Una proposta declinata su un’iniziativa particolare, certo, tuttavia in
grado di esprimere una linea d’indirizzo capace di dare concretezza sto-
rica alla prospettiva costituzionale. La nomina politica degli organi api-
cali e direttivi va affiancata da una componente paritetica espressione
delle maestranze che designino i soggetti tributari delle deleghe ammi-
nistrative e va inscritta nel quadro di un sistema di controllo di gestione
e dell’attribuzione di poteri ispettivi alle comunità degli utenti: questi i
meccanismi chiave per una nuova fase di democrazia economica. Nello
stesso solco e nella medesima filiera produttiva si inserisce l’interes-
sante vertenza promossa attorno allo stabilimento ex GKN di Campi
Bisenzio (Firenze) che mira, oltre alla sottrazione di un complesso
aziendale alla speculazione, a riorientare la produzione e la reindu-
strializzazione del sito verso una prospettiva di democrazia economica
e sostenibilità ambientale nella quale il ‘pubblico’ assuma una conno-
tazione collettiva ed emancipativa. In questo senso non si può che rin-
viare alle riflessioni contenute nel quaderno collettaneo Un piano per
il futuro della fabbrica di Firenze, dall’ex GKN alla fabbrica social-
mente integrata20 che puntualmente descrive la prospettiva di ricon-
versione e integrazione produttiva con il tessuto sociale e le istituzioni,
non da ultimo con riferimento alla ricerca applicata: non si può che au-
spicare che tali spunti possano essere oggetto di ulteriori convergenze
e iniziative politiche.
Accanto alla riscrittura su basi partecipative degli statuti, è evidente
che per fare tutto ciò servono risorse ed è cosa nota che ogni iniziativa
minimamente critica rispetto ai vincoli contabili derivanti dalle politi-
che decise in sede europea è stroncata sul nascere. Ancora una volta la
Costituzione ci fornisce uno spunto di grande attualità: l’azionariato
popolare e il prestito obbligazionario rivolto ai cittadini.
Il collasso del sistema creditizio e le perniciose linee d’indirizzo co-
munitarie (bail in, con il demenziale meccanismo di sostanziale com-
partecipazione del rischio fra risparmiatori e impresa creditizia) di fatto
hanno dato luogo a uno dei più vasti espropri senza indennizzo che la
20
Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze, dall’ex GKN alla fabbrica
socialmente integrata, Milano, 2022, Fondazione Feltrinelli, quaderno 46
24
storia italiana ricordi, evidenziando quale sia la centralità dell’art. 47
della Costituzione, laddove si enuncia la tutela del risparmio come
bene costituzionalmente protetto; ebbene tale articolo consta di un se-
condo comma secondo cui «[la Repubblica] favorisce l’accesso del ri-
sparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta
coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi
complessi produttivi del Paese».
Raccogliere e garantire il risparmio non vuol dire solo evitare
quanto è successo in anni recenti, significa promuovere un controllo
popolare sull’allocazione delle risorse mediante l’erogazione del cre-
dito, dando una prospettiva industriale anzitutto alle imprese e alle fi-
liere che da queste dipendono e subordinando tale sostegno all’avvio
di percorsi di coinvolgimento per le comunità, i loro bisogni e i lavo-
ratori.
C’è un equivoco che va fugato e cioè la sussistenza di una con-
trapposizione ontologica di interessi tra soci privati e soci pubblici lad-
dove vengano avviate iniziative imprenditoriali di natura innovativa
perché il miglioramento dei risultati di esercizio di per sé non può che
essere un fatto apprezzato da tutta la compagine dei soci; piuttosto ciò
potrebbe essere l’embrione di una classe gestoria di ‘samurai’21 come
fu definito il migliore ceto direttivo dell’impresa pubblica nel secondo
dopoguerra per la capacità di immedesimarsi in un progetto econo-
mico-sociale che trascendeva il mero svolgimento di un’attività lavo-
rativa inserendosi in una più ampia progettualità collettiva.
Potrebbe casomai porsi un problema di drenaggio di utili da parte di
soggetti in particolare esteri ormai largamente presenti negli azionariati
delle imprese a partecipazione pubblica, non senza tener presente che,
sempre in un’ottica di fase, la generazione di utili di esercizio potrebbe
fornire risorse agli enti azionisti per finanziare altre, ulteriori, iniziative
politicamente rilevanti nei termini auspicati in queste pagine.
21
Franco Amatori, Un profilo d’insieme, l’età dell’IRI, in Franco Amatori (a
cura di), Storia dell’IRI, vol. II, Miracolo economico e ruolo dell’IRI, Bari,
2013, p. 22. Un fatto peraltro che impone interrogativi ben più ampi sui mec-
canismi di selezione della classe dirigente: «Una riedizione virtuosa (almeno
per Parigi) del capitalismo di relazione, fatta di manager cresciuti assieme nei
ranghi dell’Ena, la scuola di pubblica amministrazione nazionale» così in un
articolo sul ruolo dello Stato nell’economia francese Ettore Livini, Il padrone
francese, in la Repubblica, 15 luglio 2013.
25
Si è richiamato il testo costituzionale con particolare riferimento ai
rapporti economici e occorre esplicitare anche una riflessione di cor-
nice per sgombrare il campo da un equivoco: se è vero che l’articolato
costituzionale potrebbe essere, in astratto e in termini speculativo-ac-
cademici, suscettibile di miglioramenti, va tenuto presente un dato po-
litico di realtà e cioè la drammatica debolezza in termini di rapporti di
forza di ogni istanza emancipativa e quindi il carattere intrinsecamente
regressivo della retorica sulle ‘riforme’.
A tacere di qualsiasi considerazione di merito sull’attuale ceto po-
litico e sulla sua capacità tecnico-redazionale, il punto sostanziale è
che il compromesso costituzionale –la ‘rivoluzione promessa’– è co-
munque il frutto di uno schieramento politico e di una temperie nella
quale le componenti progressiste, pur con molteplici sensibilità e arti-
colazioni, erano largamente predominanti per non dire egemoni. Chi
sostiene oggi –e nel quadro dato– istanze di revisione e modifica della
Costituzione, compie nei fatti il lavoro sporco per il blocco dominante
atteso che, nell’attuale frangente, l’attuazione di quella prospettiva è in
concreto la linea d’intervento politico più avanzata sostenibile sia in
termini di idea di società sia, soprattutto, in termini di articolato nor-
mativo evocabile: ipotesi di superamento su basi maggiormente radi-
cali sono semplicemente al di fuori della realtà22.
26
nione pubblica generalista, scarsissima visibilità e, quando è entrato
nel dibattito pubblico, è stato per darne un’immagine di relitto tra-
mandato da un’altra epoca.
Un’atrofizzazione che non può essere semplicemente spiegata con
il generale ridimensionamento della rappresentanza, basti pensare al-
l’esempio delle amministrazioni provinciali che di fatto continuano a
esistere ma senza più legittimazione elettorale diretta, quanto perché si
è deliberatamente scelto di obliterare l’idea di una rappresentanza isti-
tuzionale delle categorie economiche, a partire dal lavoro salariato, ma
senza escludere –anzi!– il mondo datoriale. A ciò aggiungasi che difetta
integralmente una sede per la rappresentanza istituzionale anche, e non
da ultimo, del nuovo ‘lavoro povero’ come, tra l’altro, è sovente quello
intellettuale nelle sue varie articolazioni.
Sarebbe un grave errore, nel ridisegno degli assetti di politica eco-
nomica, obliterare la parte datoriale, ciò in particolare alla luce del
fatto che Confindustria non è più l’espressione unica del mondo im-
prenditoriale. Primarie imprese ne sono uscite e in ogni caso garantire
un quadro di relazioni industriali trasparenti e concretamente in grado
di mediare interessi intrinsecamente contrapposti è esigenza non elu-
dibile nell’auspicato rinnovamento istituzionale e nella rinnovata cen-
tralità della contrattazione collettiva di primo livello e nazionale, la
sede per tale nevralgica funzione non può che essere il CNEL.
La già citata proposta di democrazia economica per Atac, quindi,
s’inscrive nel tentativo di ampliare gli spazi di partecipazione dei cit-
tadini-lavoratori il cui ruolo nella politica non può, evidentemente, li-
mitarsi alla sola dimensione elettorale ma deve necessariamente
coinvolgere anche gli indirizzi economici e gli assetti di governo anche
nelle imprese. Ecco quindi che una sede rappresentativa per le istanze
economiche e in senso lato lavoristiche diventa un’esigenza centrale in
un tessuto istituzionale che si vorrebbe rinnovato e non ‘riformato’,
come invece la vulgata dominante ossessivamente pretende.
Si tratta quindi di dare effettiva voce alle categorie economiche al
di là della retorica e delle passerelle mediatiche in una sede di con-
fronto istituzionale eletta appunto sulla base di raggruppamenti eco-
nomici e categoriali in grado di dare concretezza alla tutela del lavoro
in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Costituzione), cui an-
drebbero affiancate le strutture permanenti, e tutt’oggi mancanti, per il
coordinamento delle iniziative economiche che in queste pagine si cal-
27
deggeranno con particolare riferimento alle economie carcerarie, al
riuso sociale e collettivo di beni e aziende confiscate, all’autogestione
e recupero di unità produttive e cespiti abbandonati. Tali ambiti s’in-
scrivono per loro natura in una terra di mezzo fra l’attività di impresa,
l’attività istituzionale e l’apparato giurisdizionale e dovranno essere
destinatari di apposite strutture nei ministeri di riferimento. È tuttavia
è fuori di dubbio che la sede permanente per declinarne le linee d’in-
dirizzo di politica economica e incentivarne l’affermazione non possa
che essere, in una prospettiva di ridisegno istituzionale, il CNEL.
È altrettanto pacifico che il CNEL dovrà fungere anche da sede per
processi di democrazia economica e nazionalizzazione quale punto di
snodo, in particolare, per la riscrittura degli statuti sociali delle imprese
e per il coordinamento dei percorsi di transizione e democrazia eco-
nomica avviati a ogni livello. Si tratta dunque di soddisfare l’esigenza
di una sede pubblica per catalogare, studiare, mappare, analizzare e ri-
produrre le più avanzate esperienze nel campo dell’organizzazione
economica e imprenditoriale, sia pubblica che privata, valorizzando le
multiformi esperienze già oggi concretatesi in una prospettiva di si-
stematizzazione e replicazione verso rapporti di produzione e scam-
bio articolati su basi nuove.
28
dizioni storiche di rifiuto del modello dominante stante l’assoluta irri-
formabilità di tale ordinamento e la strutturale impossibilità di dar
corso a iniziative collettivamente emancipative nel quadro sistemico
UE/euro.
Attac Italia ha da tempo avviato una serie di importanti e condivi-
sibili campagne24: contro il TTIP, per la Società della Cura, per l’acqua
bene comune e, per quanto ora interessa, per la socializzazione della
Cassa Depositi e Prestiti con l’icastico motto ‘riprendiamoci la cassa!’,
allo stato fra le più avanzate iniziative politiche nella prospettiva del
contrasto al modello dominante.
La convergenza operativa dunque non può che indirizzarsi sull’av-
vio di un’azione ‘dall’alto’ sul piano della necessaria creazione rap-
porti di forza, che oggi non sussistono, nell’ottica di una vasta
riacquisizione al perimetro pubblico di imprese, ambiti di competenza
e servizi. Sarebbe però un imperdonabile errore pensare che un’astratta
azione di vertice possa essere sufficiente per trasformare il modello
economico. Una contestuale azione ‘dal basso’ è altrettanto ineludi-
bile, anche e non da ultimo per ricostruire quella dimensione collet-
tiva che attiene anzitutto al senso di appartenenza a una comunità
politicamente organizzata e a una dimensione sovraindividuale, aspetti
che dovrebbero costituire prerequisiti per l’esercizio dei diritti di cit-
tadinanza ma, in concreto, all’esito della temperie egemone, sono tut-
t’altro che da dare per scontati.
Prendendo le mosse da una campagna nazionale per la presentazione
di delibere consiliari finalizzate alla socializzazione della Cassa Depo-
siti e Prestiti nei termini già prospettati da Attac, va affiancata a un’ini-
ziativa politica rivolta alla trasformazione delle società partecipate e
municipalizzate in aziende speciali di legalità costituzionale mediante il
coinvolgimento delle rappresentanze sindacali e dell’associazionismo
territoriale, inserendosi nelle crepe del sistema, in particolare sfruttando
a vantaggio delle istanze qui sostenute la famigerata riforma del Titolo
V della Costituzione e il principio di sussidiarietà introdotto nei seguenti
termini all’art.118 della Costituzione così come riscritto nel 2001
24
www.attac-italia.org/campagne/; www.attac-italia.org/socializzazione-cassa-
depositi-e-prestiti/; www.attac-italia.org/storia-ed-evoluzione-di-cassa-depositi-e-
prestiti/ vedasi anche Luca Martinelli e Antonio Tricarico, La posta in gioco,
Altreconomia, Milano, 2013
29
(l.cost.3/2001): «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni
favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per
lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio
di sussidiarietà». Tale principio implica che l’intervento pubblico debba
ritrarsi quando la stessa funzione può essere svolta dal privato (sussi-
diarietà orizzontale) e che l’esercizio del potere pubblico deve svolgersi
nella struttura di governo più vicina al cittadino che sia in grado di as-
solverlo efficacemente (sussidiarietà verticale). Dunque, pur censurando
tale intervento normativo, nella fase contingente esso potrebbe fornire un
addentellato a favore delle ragioni che qui si vogliono sostenere, contri-
buendo a quel rifiuto collettivo dell’ordine dominante: è dunque il mo-
mento di pensare a una ‘sussidiarietà oppositiva’.
L’iniziativa politica dovrebbe quindi muovere da atti di indirizzo
delle assemblee amministrative e legislative (consigli regionali, par-
lamento) per trasformare le partecipate sulle basi qui sommariamente
descritte. Ciò, peraltro, avrebbe l’innegabile pregio di snidare il peloso
opportunismo tanto delle sinistre istituzionali quanto la spolveratura
popolareggiante delle destre, costringendo le prime ad assumere una
posizione rispetto a proposte concretamente in grado di porsi in con-
flitto con il blocco padronale e le seconde con le istituzioni sovrana-
zionali.
Su queste basi potrebbe avere davvero un rilievo politico dirimente
l’iniziativa Riprendiamoci il Comune che mira ad abbinare la socia-
lizzazione della Cassa Depositi e Prestiti con il rifiuto dell’austerità
contabile a partire dagli enti locali aggregando un pluriverso di sog-
gettività attorno a tali rivendicazioni25.
Rivendicare ‘il pubblico’ come è sempre stato è un vicolo cieco che
sconterebbe decenni di monocultura mediatica e, comunque, la neces-
sità di declinarlo sulla base delle linee d’indirizzo proprie della tem-
perie dominante: uscire dalle secche del trito discorso pubblico sul
malgoverno è quindi necessario così come lo è non prestare il fianco
ad alcun equivoco rispetto a possibili connivenze o convergenze con
gli interessi clientelari e parassitari di un ceto politico che è stato, da
sempre, il miglior alleato nonché l’attivo promotore dell’integrazione
europea e del vincolo esterno come strumento di disciplinamento in-
terno.
25
https://riprendiamociilcomune.it/
30
È dunque necessario non fornire alibi alle classi dirigenti interne
così come articolare una proposta alternativa e non nominalistica per
il sistema delle partecipate e, più in generale, dell’impresa pubblica. Va
detto anzi chiaro: peggio della spartizione clientelare c’è solo l’attri-
buzione di spazi d’intervento al ceto politico che sulle privatizzazioni
ha sguazzato e lucrato.
Il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti nel ridisegno complessivo
del sistema di governo e gestione delle società partecipate e di scopo
va raccordato in particolare alla garanzia dei prestiti obbligazionari
come specifico strumento di finanziamento per queste ultime e al-
l’azionariato popolare che si intende promuovere nel quadro della ri-
scrittura degli statuti e dei meccanismi di governo: è necessario
contemperare non solo la destinazione degli impieghi, dunque, ma
anche la tutela per la platea dei piccoli investitori che intendono sot-
trarre le proprie allocazioni finanziarie al circuito della speculazione
privata per destinarlo all’equo finanziamento delle imprese pubbliche,
saldando il riuso sociale del risparmio con l’avvio di percorsi di de-
mocrazia economica e gestione partecipata.
31
lia nell’attuale quadro di rapporti di forza politici ed economici; ciò
peraltro, al netto del fatto che il Regno Unito è una potenza nucleare e
un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
quindi un attore dal diverso peso geopolitico.
Il disciplinamento dei ceti subalterni italiani doveva essere attuato
spuntando le armi di intervento e allocazione pubblica, ma anche atti-
vando meccanismi di controllo in ambiti politicamente sensibili, come,
tra gli altri, l’esercizio del diritto di sciopero; da qui, ad esempio, la
nascita della Commissione di Garanzia sugli scioperi nei servizi es-
senziali (CGSSE), una delle tante entità ‘indipendenti’ proliferate con
gli anni Novanta26. Si è trattato quindi del preludio a quel ‘pilota au-
tomatico’ di cui anni dopo avrebbe parlato con esemplare chiarezza
l’ineffabile Mario Draghi per descrivere l’indifferenza al colore poli-
tico di governi e parlamenti rispetto ai diktat euroatlantici.
32
ciali della vita economica e, conseguentemente, anche nei confronti delle
masse, la cui condizione lavorativa ed esistenziale, ridotta spesso alla
mera sussistenza biologica, è drammaticamente assimilabile alla servitù
della gleba. D’altra parte la spartizione della sfera economica da parte dei
grandi operatori avviene prescindendo totalmente dalle istituzioni de-
mocratiche: un vero e proprio vassallaggio economico rispetto al quale
si scende a cascata nella catena di controllo.
Un processo di queste proporzioni avrebbe potuto essere oggetto
di critica e dibattito nell’opinione pubblica, ove partiti o movimenti
l’avessero assunto come tema di denuncia: ecco quindi la creazione e
lo sviluppo delle ‘autorità’ e ‘agenzie’ ‘indipendenti’27.
Interessante notare come, nel ben noto processo di rimodulazione
del linguaggio, in cui la ‘flessibilità’ maschera la precarietà e i ‘privi-
legi’ descrivono i diritti, appare normale che la filiera della dipendenza
si serva di autorità ‘indipendenti’ per costruire il proprio assetto giuri-
dico-economico.
Di tali enti a livello divulgativo si parla poco, anzi l’industria del-
l’indignazione giornalistica, sempre pronta a denunciare ‘sprechi’,
‘caste’ e ‘cricche’ di ogni tipo e a ogni livello, non le ha mai prese di
mira. Non è difficile dare una spiegazione: le campagne stampa sono
orchestrate dai proprietari dei media allineati proprio per delegittimare
le strutture pubbliche e per accrescere il ruolo dei ‘tecnici’, che altro
non sono se non il braccio operativo delle oligarchie economico/ban-
carie cui i sopraccitati media fanno capo28.
Parlare di ‘autorità’ e ‘agenzie’ indipendenti significa far riferi-
mento a strutture tutt’altro che economiche, tutt’altro che trasparenti e
tutt’altro che democratiche, non avendo appunto alcuna legittimazione
27
«Le autorità si collocherebbero infatti al di fuori delle costituzioni nazionali
e, in quanto strumenti diretti dell’amministrazione comunitaria, dovrebbero
rispondere solo ai princìpi dell’ordinamento comunitario» in Marco Cuniberti,
Autorità indipendenti e libertà costituzionali, Giuffrè, Milano, 2007, p. 63.
28
Interessante notare come si esprime Antonio Catricalà da presidente del-
l’Autorità per la concorrenza e il mercato: «Dobbiamo avere fiducia nella pos-
sibilità che la stampa serva a diffondere un’idea di concorrenza, un’idea di
competitività e anche di meritocrazia che, probabilmente, ancora non è abba-
stanza radicata in Italia» da Autorità indipendenti e non autoreferenziali in
Luigi Paganetto (a cura di), Authorities, imparzialità e indipendenza, Donzelli,
Roma, 2007, p. 21.
33
elettiva. Con buona pace, peraltro, della retorica sullo ‘Stato minimo’,
tanto cara ai pretoriani del neoliberismo.
Il presupposto teorico che giustifica l’esistenza di tali istituzioni è
l’arcisentito passaggio dallo ‘Stato imprenditore’ allo ‘Stato controllore,
regolatore e arbitro’, come se la proprietà dei mezzi di produzione e del
relativo capitale fosse un fatto secondario e accidentale. Il presupposto
storico è, invece, il processo di asservimento del Paese ai vincoli eurou-
nitari, del quale un passaggio poco ricordato è l’accordo Andreatta/Van
Miert (all’epoca, 1993, commissario alla concorrenza), che pretese la li-
quidazione dell’IRI in cambio dell’ingresso dell’Italia nell’euro. Vale la
pena riportare una descrizione dell’evento fatta da Mario Monti: «Nel
corso degli ultimi anni, la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia
si è accompagnata a un processo di dismissione di partecipazioni pub-
bliche tra i più intensi dei Paesi industrializzati […]. La Commissione
[Europea, NdR] non può che apprezzare questi sviluppi di cui, peraltro,
è stata la promotrice, con l’accordo Andreatta/Van Miert. Secondo quel-
l’accordo, l’IRI ha dovuto terminare le sue attività entro il 30 giugno
2000. Il rispetto di tale termine è stato essenziale per la credibilità stessa
del Paese […]. Tuttavia, la chiusura dell’IRI non coinciderà con la
scomparsa del sistema italiano delle partecipazioni statali […]. La pro-
prietà pubblica, infatti, oltre a condizionare la gestione imprenditoriale
con obiettivi talora in conflitto con il conseguimento dell’efficienza pro-
duttiva, impedisce che venga esercitata sui comportamenti d’impresa la
disciplina del mercato per il controllo proprietario»29.
Interessante notare che, analogamente al divorzio tra Banca d’Italia e Te-
soro del 1981, di cui lo stesso Andreatta era stato protagonista, si è trattato
di una decisione assunta al di fuori delle sedi istituzionali e da qualsiasi
scansione procedimentale idonea ad attribuirvi una pur formale legittimità,
senza –manco a dirlo– alcuna forma di coinvolgimento dell’opinione pub-
blica. Entrambi i passaggi hanno demolito due gangli vitali della politica
economica: il finanziamento della macchina statale e l’impresa pubblica.
Non credo sia eccessivo evocare l’immagine del colpo di Stato ponendosi
infatti un enorme problema di legittimazione a disporre, essendosi tale pro-
cesso collocato al di fuori di qualunque dibattito democratico.
29
Mario Monti, Concorrenza e regolazione nell’Unione Europea, in Giuseppe
Tesauro, Marco D’Alberti (a cura di), Regolazione e concorrenza, il Mulino,
Bologna, 2000, pp. 83-84.
34
In tale contesto, la più puerile delle illusioni consiste nel ritenere che
la filiera economica che ha voluto le privatizzazioni possa, una volta
conseguito tale risultato politico, volere anche dei contropoteri in grado
di metterne davvero in discussione la posizione di rendita acquisita.
30
Marco D’Alberti e Alessandro Pajno (a cura di), Arbitri dei mercati, il Mu-
lino, Bologna p. 25. Ancora, sul ramo telecomunicazioni: «Nel novembre del
2005 il Commissario europeo Viviane Reding ha riconosciuto che “il livello di
liberalizzazione delle telecomunicazioni italiane è uno dei più avanzati d’Eu-
35
circa 300 tra le più influenti multinazionali, abbia in più occasioni rap-
presentato l’importanza di procedere allo sviluppo delle autorità indi-
pendenti. Un attivismo interessato dal fatto che l’esistenza di autorità
indipendenti implica da un lato un completamento del processo di pri-
vatizzazione dei settori vitali delle economie di interi Paesi, dall’altro
l’esautoramento della politica dal loro governo nella fase successiva,
quella della ‘liberalizzazione’: «È sotto la pressione degli interessi di
operatori economici globali, rappresentati ad esempio da USCIB e di-
fesi ad esempio dagli USA, che si riduce il margine di manovra degli
Stati nazionali, le cui autorità, in quanto rappresentative degli inte-
ressi di comunità politiche “locali”, devono cedere il passo a regola-
tori che sono più neutrali proprio perché meno rappresentativi. È per
impulso di organismi sovranazionali incaricati di promuovere e di di-
fendere l’apertura dei mercati nazionali, come la Commissione euro-
pea, che i legislatori domestici perdono sempre più significative quote
di quel potere di disciplinare l’organizzazione amministrativa, che, sul
piano interno, è loro riservato da disposizioni costituzionali, quali
l’art. 97 della Costituzione italiana»31.
In tale solco con esemplare chiarezza si esprime il costituzionalista
Roberto Bin, circostanziando null’altro che una razionalità strategica
delle crisi, più volte indicata da Indipendenza32: «Il mercato impone le
regole alla politica. Ben si capisce allora il cosiddetto deficit democra-
tico che la Comunità europea non è mai riuscita a colmare, che affetta
vistosamente il WTO e qualsiasi autorità internazionale da cui dipende
il funzionamento del mercato globale: non è affatto un incidente di per-
corso, un difetto destinato a trovare presto un rimedio; è invece un “ele-
mento progettuale”, senza il quale il progetto non sarebbe realizzabile,
ropa”. Ed in effetti nel nostro mercato operano imprese egiziane, cinesi, in-
glesi, svedesi, a parità di condizioni.» Corrado Calabrò, Regolazione e inizia-
tiva in Luigi Paganetto (a cura di), Authorities, imparzialità e indipendenza,
Donzelli, Roma, 2007, p. 101.
31
Stefano Battini e Giulio Vesperini, L’indipendenza del regolatore nazionale im-
posta dal diritto europeo e globale, in Marco D’Alberti e Alessandro Pajno (a cura
di), Arbitri dei mercati, il Mulino, Bologna p. 64, saggio disponibile in internet su:
http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/Batt/Battini_Vesperini_per-
Rassegna-20_10_09.pdf
32
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/2017/02/12/unione-europea-una-
razionalita-strategica-geopolitica-delle-crisi/
36
non funzionerebbe.[…] Le cosiddette Autorità amministrative indipen-
denti sono un modello in scala di questo progetto: sono ispirate dal-
l’idea esplicita di portare la politica fuori dalla regolazione del mercato.
[…] perché la regolazione dello specifico segmento di mercato verso
cui si rivolge la competenza del soggetto regolatore è generalmente par-
tecipata e condivisa dagli operatori economici che agiscono il quel seg-
mento. […] l’aspetto più rilevante è che questo fenomeno non si limita
a delimitare l’àmbito di vigenza delle norme imposte dal potere politico
agli operatori di mercato, ma agisce persino nel senso opposto, di im-
porre cioè le “regole di mercato” al potere politico. È il “mercato” a
dettare l’agenda della politica»33.
Si può quindi individuare una strutturale incompatibilità tra autorità
indipendenti e stato di diritto. In un suo testo sostanzialmente elogia-
tivo, l’amministrativista Marcello Clarich così si esprime: «Le autorità
indipendenti investite di poteri normativi (di regolazione), ammini-
strativi e quasi-giurisdizionali si pongono infatti in controtendenza ri-
spetto al moto plurisecolare che ha portato a differenziare le funzioni
pubbliche. La teoria della separazione dei poteri costituisce, insieme
con i principi della sovranità popolare, della supremazia della legge
e del principio di legalità, uno degli assi portanti dello Stato costitu-
zionale di diritto post rivoluzione francese”34». Insomma, a restaurare
l’ancien régime, sogno proibito di ogni reazionario, non c’è riuscito il
Congresso di Vienna ma ci sta riuscendo l’Unione Europea!
33
http://www.robertobin.it/ARTICOLI/Trento06.htm
34
Marcello Clarich, Autorità indipendenti, il Mulino, Bologna, 2005, p. 8.
37
in tale contesto che si forma politicamente la classe dirigente della si-
nistra (PCI, PSI, gruppi extraparlamentari) che si riconvertirà al mo-
dello oggi dominante, divenendone il terminale politico. Molti
potrebbero essere gli esempi, sceglierò Pier Luigi Bersani perché,
come noto, è diventato il ‘liberalizzatore’ per antonomasia. In un suo
saggio così si esprime: «Ad esempio, l’esperienza delle partecipazioni
statali e delle grandi nazionalizzazioni, in una fase storica in cui i ca-
pitali privati erano insufficienti a garantire uno sviluppo economico
adeguato e in cui la struttura sociale imponeva un intervento deciso,
ha consentito di avviare grandi processi di modernizzazione del Paese
[…]. Tuttavia, per quanto le ragioni siano tramontate, io credo che
dobbiamo combattere ancora con le tracce e le presenze a volte so-
stanziali di queste realtà precedenti […]. Abbiamo una ragione in più
che sollecita il cambiamento: mi pare che ormai si convenga tutti nel
dire che la famosa ‘fase due’ del dopo-euro possiamo battezzarla fase
di competitività del sistema; il che pone il problema dei costi di si-
stema e delle riforme»35. Termina poi la riflessione, dopo aver descritto
le magnifiche sorti progressive di liberalizzazioni e privatizzazioni:
«Concludo dicendo che nei prossimi mesi dobbiamo lavorare sui ser-
vizi pubblici locali, sulle professioni, sul gas e su altro. Io spero che in
termini di privatizzazioni e liberalizzazioni i prossimi uno o due anni
ci consegneranno ulteriori novità, ulteriori sorprese. Credo veramente
che succederà, comunque me lo auguro»36.
Appare quindi evidente che il processo di privatizzazione, applau-
dito con beata incoscienza quando non esplicitamente promosso anche
dalla quasi totalità del mondo ‘progressista’, implica, accanto a pro-
blemi economici, anche la modifica del perimetro pubblico e del suo
assetto, con particolare riferimento alla possibilità di articolare delle ri-
vendicazioni per i ceti che tale modello subiscono: la stessa nefasta
idea di criticare le ‘privatizzazioni nei settori strategici’ come una sorta
di ridotto è una delle più colossali capitolazioni culturali mai concre-
tatesi da parte delle forze della ‘sinistra radicale’, le quali, assunta
35
Pier Luigi Bersani, Regolazione e concorrenza: le prospettive per l’Italia, in
Giuseppe Tesauro, Marco D’Alberti (a cura di), Regolazione e concorrenza, il
Mulino, Bologna, 2000, p. 230.
36
Pier Luigi Bersani, Regolazione e concorrenza: le prospettive per l’Italia, in
Giuseppe Tesauro, Marco D’Alberti (a cura di), Regolazione e concorrenza, il
Mulino, Bologna, 2000, p. 236.
38
l’egemonia mercatista di derivazione comunitaria, hanno abdicato a
qualsiasi ipotesi di promozione della piena occupazione attraverso po-
litiche pubbliche di intervento nella vita economica anche nei settori
merceologici aperti alla concorrenza capitalistica, ponendosi quindi in
un’ottica di antagonismo alla stessa.
Il risultato pratico è stato che il massimo di critica –a quelle latitu-
dini formulato– alle privatizzazioni può riassumersi con privatizza-
zioni sì, ma non così, a voler scrivere un epitaffio alle sinistre
governiste variamente declinate. Queste non hanno colto come lo Stato
sia ‘per definizione’ un concorrente delle imprese, se intende attuare i
diritti: garantire in via universalistica –o quasi– servizi e prestazioni
erode gli spazi di intrapresa economica nei rispettivi settori, si pensi
alle cliniche e scuole private o alla previdenza e alle assicurazioni
orientate al profitto. Su tali temi si è espressa con esemplare chiarezza
Federica Guidi, all’epoca ministro dello sviluppo economico, con un
lungo trascorso personale e familiare in Confindustria, durante l’as-
semblea annuale dell’associazione, tenutasi il 29 maggio 2014 a Roma:
«L’Italia ha bisogno di un ampio disegno di politica industriale che ri-
fugga però da ogni velleità dirigista. Lo Stato stabilisce le regole e ne
assicura il rispetto, ma la libera concorrenza deve essere alla base
dell’economia. Lo Stato deve creare le condizioni per la concorrenza,
non fare concorrenza alle imprese»37.
Le autorità indipendenti sono un tassello essenziale di questa asse-
rita garanzia della libera concorrenza e non si possono certo biasi-
mare le forze padronali quando perseguono i loro interessi, quanto
piuttosto chi a tali prospettive dovrebbe opporsi, lasciando la prover-
biale volpe a guardia del pollaio.
37
http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/interventi/2014_05_
29_assemblea_confindustria_def.pdf , video https://www.youtube.com/watch?
v=LmA0uIdwte8
39
mascherato– per fare macelleria sociale e già questo fatto dovrebbe
dar da pensare sul fatto che snodi cruciali per la vita di un Paese siano
strutturalmente appannaggio di tale categoria per il tramite delle auto-
rità indipendenti.
Va però chiarito un punto: i partiti e il relativo sottobosco avevano
una vera e propria riserva di caccia nell’apparato parastatale per clien-
tele, assunzioni di comodo, ‘poltrone’ ai ‘signori delle tessere’, quindi
appare strano che vi abbiano rinunciato senza batter ciglio votando e
approvando le privatizzazioni di massa. In fin dei conti ciò andava
anche contro il loro parassitario interesse.
Occorreva una contropartita e le autorità e agenzie indipendenti
sono servite ottimamente a tale scopo: dare un contentino a tutta la ple-
tora di figure che ruotano nell’orbita della politica con un vantaggio,
cioè la già citata omertà da parte dei media, per cui quello che avviene
all’interno delle autorità non viene stigmatizzato agli occhi dell’opi-
nione pubblica, mentre durante la prima repubblica erano frequenti gli
attacchi ai ‘carrozzoni’ statali e parastatali.
Le nomine politiche che una volta venivano compiute nelle grandi
compagini societarie pubbliche, oggi vengono effettuate nei ranghi
delle autorità indipendenti, con il risultato che la collettività ha perso
la proprietà e il controllo, astratto e concreto, di imprese e infrastrut-
ture ma ha mantenuto pressoché inalterata la pletora di sottobosco po-
litico/affaristico in ‘quota governativa’. Questo per quanto riguarda gli
esponenti interni agli organi apicali e dirigenziali delle autorità ammi-
nistrative. Vi è un altro preoccupante dato: è estremamente difficile,
per non dire impossibile, avere contezza di come i soggetti controllati
si relazionino ‘informalmente’ con i soggetti ‘controllori’. Non di-
mentichiamoci che si tratta di oligopoli con pochi operatori o di sog-
getti di dimensioni talmente grandi rispetto ai quali i profili ‘di
relazione’ sono centrali.
A ciò aggiungasi un altro plateale fallimento delle autorità indi-
pendenti, che secondo la narrazione egemone dovrebbero tutelare e
garantire il ‘mercato’ e il suo ‘corretto funzionamento’: si tratta del
rapporto con le lobby, cioè i gruppi di pressione organizzati in termini
più o meno leciti che mirano a influenzarne l’operato, descritto nella
letteratura specialistica come «rischio di cattura». La lobby, per defi-
nizione, mira ad acquisire i cosiddetti ‘beni posizionali’, cioè a rica-
varsi posizioni di rendita a scapito della concorrenza. Ora, il dibattito
40
sulla ‘regolamentazione’ dei gruppi di interesse, tanto a livello comu-
nitario38 quanto nazionale che, da ultimo e per quanto ora ci interessa,
a livello di autorità indipendenti è la dimostrazione che l’assetto isti-
tuzionale in essere non è orientato a un generico, asettico e neutrale
‘ordine’, quanto al particolare e interessato soddisfacimento di certi
determinati interessi e della filiera che li promuove. Anche a volersi
confrontare su tale terreno, è evidente che le capacità di mobilitazione
di mezzi, leciti e illeciti, di una multinazionale è ben diversa rispetto a
quella di una organizzazione non governativa o non profit, tanto più se
sganciata, come dovrebbe essere, dai finanziamenti dei grandi gruppi
industriali e finanziari. Questo per replicare a chi intenderebbe con-
trapporre «l’attivismo del terzo settore» ai colossi capitalistici.
Anche su questo tema va registrata l’imbarazzante incapacità della
sinistra nel promuovere non solo una battaglia contro le lobby, quanto
e soprattutto una battaglia per riportare la ricomposizione dei fisiolo-
gici conflitti distributivi e allocativi alla luce del sole e nelle sedi che
dovrebbero occuparsene, cioè le aule parlamentari e gli enti di rappre-
sentanza di interessi contrapposti, tra cui ricordo il Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro (CNEL)39.
La grande vittoria del modello euroatlantico egemone si è concre-
tata nell’espellere dai parlamenti non solo i pensieri critici, ma anche
la gestione in tale sede del conflitto distributivo, per cui i ceti subalterni
non hanno una rappresentanza politica. Anche se l’avessero, le deci-
sioni sono comunque sottratte alle assemblee elettive. Si è trattato in
38
«Il 30% dei parlamentari europei che hanno lasciato la politica attualmente
lavora per organizzazioni iscritte nel registro delle lobby europee. Per gli ex
commissari UE la percentuale sale al 50%. E dal 2014, 26 ex deputati sono
stati assunti da società di consulenza stabilite a Bruxelles. Almeno il 20% dei
lobbisti ha lavorato in precedenza per le istituzioni europee e nel caso di Goo-
gle la quota supera la metà. Infine, un terzo degli ex commissari europei lavora
nel settore privato: Uber, ArcelorMittal, Goldman Sachs, Volkswagen, Bank of
America, Merril Lynch…» da Transparency: più controlli su dirigenti UE, in il
manifesto, mercoledì 1 febbraio 2017, p. 12, questo edificante quadretto valga
anche per chi ciancia di una ‘moralizzazione’ che deriverebbe dall’adesione al
progetto di integrazione europea…
39
Istituzione che, per una curiosa eterogenesi dei fini, gli italiani hanno sco-
perto con il dibattito sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi, fortunatamente
bocciata in sede di referendum nel dicembre 2016.
41
sintesi di una sterilizzazione del ruolo dei partiti di massa e, quindi,
della carica emancipativa del suffragio universale. D’altra parte è cosa
nota che il processo di integrazione europea veda un genetico spregio
per il consenso delle collettività nazionali, ridotte a parco buoi di con-
sumatori in messianica attesa delle magnifiche sorti progressive trac-
ciate dagli ottimati che di tale processo sono i promotori.
Per provvedere alla nomina delle strutture apicali delle autorità in-
dipendenti, sussistono sostanzialmente quattro meccanismi: la desi-
gnazione governativa, la designazione da parte dei presidenti delle
Camere, la designazione governativa con parere delle commissioni
competenti e la nomina parlamentare. Il dato di fondo è che la dialet-
tica maggioranza/opposizione è un elemento fortemente recessivo nella
designazione dei componenti che complessivamente sono molto più
attratti nell’orbita governativa.
La letteratura scientifica è molto estesa su ‘pro e contro’ di ciascun
meccanismo. Il dato di fatto è che, in ogni caso, il cittadino-elettore e
‘beneficiario’ dell’attività dell’autorità indipendente non ha alcun po-
tere di organizzazione né strumenti finalizzati a controllare ed espri-
mere un giudizio di merito sull’operato delle stesse, tanto più che anche
la nomina parlamentare si riduce nei fatti solo ad una contrattazione tra
la maggioranza e le principali forze di opposizione.
L’attività delle autorità indipendenti non è però indifferente alla
‘vita quotidiana’, indirizzandosi su ambiti rispetto ai quali tutti ab-
biamo una sensibilità, se non altro perché paghiamo le bollette delle
utenze o l’assicurazione dell’auto, dovendo peraltro provvedere al
mantenimento di tali strutture. Premettendo che quasi sempre le auto-
rità indipendenti incamerano le sanzioni che comminano agli opera-
tori che controllano, è possibile riscontrare due grandi modalità di
sostentamento per tali enti, cioè l’autofinanziamento e l’eterofinan-
ziamento. Quest’ultimo, molto semplicemente, vuol dire che i costi di
funzionamento e struttura sono coperti dalla fiscalità generale, come
qualsiasi ente pubblico, con buona pace della ‘razionalizzazione’ e dei
‘tagli’, che naturalmente colpiscono sempre scuola, sanità, pensioni e
42
spesa sociale. Non si comprende, se non alla luce delle vere finalità
per le quali le agenzie indipendenti sono state create, come mai i ca-
pitoli di spesa direzionati a queste realtà non sia mai stato oggetto di
iniziative di critica, almeno tanto quanto lo sono state le spese delle
altre istituzioni a partire da quelle rappresentative.
Più articolato è il tema dell’autofinanziamento perché, nella narra-
zione dominante, significa che chi paga l’autorità sono i soggetti con-
trollati o, per dirla in modo più raffinato, il finanziamento si attua con
«l’acquisizione di risorse sul mercato di competenza», senza cioè gra-
vare sulla finanza pubblica, insomma. La questione assume tratti poco
convincenti per vari motivi, anzitutto perché non è dato comprendere
come possa esservi una concreta ‘terzietà’ quando si viene direttamente
finanziati da chi si deve controllare, ma al di là di questo il punto più
rilevante è che si tratta, in effetti, di un prelievo fiscale occulto: per fi-
nanziare enti pubblici (le autorità indipendenti) i controllati (società
oligopolistiche) scaricano il costo sull’utenza cui erogano servizi o ce-
dono bene: oltre il danno la beffa. Trattandosi peraltro di una presta-
zione patrimoniale cui gli enti controllati sono obbligati, la stessa
dovrebbe essere coperta dalla riserva di legge, come qualsiasi imposta,
cioè istituita e regolamentata con una legge ordinaria del Parlamento
secondo quanto richiesto dall’art. 23 della Costituzione40. Poco conta
che nominalmente la prestazione patrimoniale sia corrisposta dagli
operatori economici, perché i ricavi degli operatori stessi sono generati
da quanto corrisposto dall’utenza dei mercati regolamentati, che si
trova a dover finanziare enti che non elegge né può influenzare in
modo politicamente significativo, ingenerando quindi una palese frat-
tura del nesso tassazione/rappresentanza, caposaldo di ogni ordina-
mento liberale. Un sistema fiscale che, ancora una volta, non ha nulla
da insegnare al feudalesimo.
40
https://www.astrid-online.it/static/upload/protected/tofi/tofinanziamentoau-
thoritiesASTRID19dicembre2008_versione-sito.pdf
43
denti è ‘venduto’ come positivo sviluppo alla luce dell’esistenza di
nuove generazioni di diritti: i diritti di prima generazione (libertà dallo
Stato) nascono con gli ordinamenti liberali (processo pubblico con giu-
dice terzo, riserva di legge in materia fiscale, riserva di giurisdizione
in materia di libertà personale, libertà di associazione, segretezza della
corrispondenza…); quelli di seconda (libertà nello Stato o diritti di pre-
stazione) si affermano in modo organico con il costituzionalismo del
secondo dopoguerra e ricomprendono i diritti oggi sotto attacco dalla
filiera euroatlantica (assistenza sanitaria, istruzione, previdenza pub-
blica…); quelli di terza afferiscono alla sfera internazionalistica (con-
trollo sulle risorse, diritto all’ecosistema sano, pace, sviluppo) e alle
singole categorie (donne, infanzia, portatori di handicap…); vi sono
poi quelli di quarta generazione (privacy, bioetica e autodetermina-
zione, identità digitale, accesso alla rete internet…). Questo ‘nuovi-
smo’ lascia abbastanza perplessi essenzialmente per un motivo: a ben
vedere tali diritti non sono altro che corollari e attualizzazioni delle
prime due, fondamentali, categorie. È evidente che sia un controsenso
istituire un garante per l’infanzia in un quadro in cui viene pesante-
mente minata l’efficienza operativa e la dotazione economica dei tri-
bunali per i minorenni e delle strutture diffuse per l’inclusione delle
marginalità con particolare riferimento alle famiglie con bambini, così
come è proprio il tipo di modello economico che impone la previdenza
complementare anziché quella pubblica, quindi la necessità di ‘con-
trollarla’ è figlia delle opzioni economiche e di welfare in essere, non
certo di mutamenti antropologici. Ancora, chiunque può essere d’ac-
cordo nel garantire e sostenere i disabili o le donne vittime di violenza,
tratta e sfruttamento, ma si tratta sempre di risolvere un conflitto di-
stributivo su risorse che mancano in ragione del modello politico/eco-
nomico e delle scelte allocative perseguite fideisticamente negli ultimi
trent’anni. È poi paradossale che in un’epoca in cui i diritti sono ovun-
que messi in discussione e rappresentati come obsoleti ‘privilegi’, si
speculi sull’esistenza, di fatto puramente accademica, di nuove posi-
zioni da salvaguardare.
Una chiosa è necessaria anche con riferimento alle questioni ‘di ge-
nere’: il dato di realtà con cui occorre fare i conti è che l’avanzamento
nelle rivendicazioni sociali e collettivamente emancipative traina di
per sé anche il miglioramento della condizione femminile e in ogni
caso di ogni minoranza o sensibilità; per converso, l’assoggettamento
44
alle logiche dominanti non comporterà mai nulla più della cosmesi: in
questo senso è icasticamente efficace il film Bordertown41, non un ca-
polavoro ma comunque uno spaccato molto efficace di cosa siano le
maquiladoras, le fabbriche cacciavite sorte in Messico all’esito del
trattato di libero scambio NAFTA (1994) che ha fatto da prototipo per
tutti gli altri trattati mercatisti a regìa USA (TTIP, CETA etc…), in par-
ticolare con riguardo alla condizione della donna, il cui valore è ben
minore di quello di un oggetto. Insomma, nel quadro della monocul-
tura capitalista qualsiasi prospettiva di ‘liberazione’ sganciata dai rap-
porti economici è destinata al fallimento nella migliore delle ipotesi,
quando non a costituire un elemento di frammentazione e parcellizza-
zione del dissenso.
Come si è visto, ciò che occorre fare è rovesciare la narrazione po-
litico-ideologica egemone, che cerca di contrapporre un nuovo ‘buono’
in assoluto a un vecchio anacronistico e fuori dalla storia: si tratta di
un’operazione di rimozione culturale che ha investito in modo partico-
larmente pregnante e intenso l’esperienza dell’impresa pubblica e delle
partecipazioni statali: «L’alto tasso di ideologizzazione della società
italiana, il primato della politica (e dei partiti) sull’amministrazione e
su tutte le sue propaggini (banche pubbliche, enti del parastato, USL,
etc..), l’insofferenza nei confronti delle ‘forme vuote’ della democrazia
liberale e del sistema dei pesi e dei contrappesi, il mito dello Stato prov-
videnza e la diffidenza nei confronti del mercato e di tutto ciò che è pri-
vato: questi e altri ingredienti hanno costituito l’humus dominante fino
ad anni recenti […]. Inoltre, la Costituzione italiana non ha agevolato
il compito. Infatti, essa sembra non lasciare spazio a poteri pubblici
(diversi dal potere giudiziario assoggettato solo alla legge) slegati dal
circuito politico-amministrativo»42. Ciò che oggi nemmeno la ‘sinistra’
propone più, era patrimonio condiviso non tanto di forze ‘antisistema’,
quanto anche di partiti moderati o conservatori come la Democrazia
Cristiana, pur se con diverse declinazioni. Abbiamo assistito, negli anni
Novanta, a una vera e propria opera di deformazione delle opinioni pub-
bliche che, trasformate –dalla televisione– da pubblico in elettorato e
nell’assenza di forze politicamente significative che ambissero a rap-
presentare un orizzonte diverso rispetto a quello dominante assumen-
41
USA, 2006, regia di Gregory Nava.
42
Marcello Clarich, Autorità indipendenti, il Mulino, Bologna, 2005, p. 57.
45
done invece in toto linguaggio, temi e prospettive d’analisi, hanno tri-
butato accondiscendenza politica a questo tipo di modello. Un orizzonte
collettivo in cui si ripropongono istituti feudali e si riporta in auge una
società oligarchica e timocratica, esautorando, accanto al suffragio uni-
versale, i meccanismi di partecipazione delle masse a qualunque pro-
spettiva di determinazione degli indirizzi economici. Appare quindi
evidente che, nella prospettiva di un riorientamento economico e orga-
nizzativo del rapporto pubblico/privato in termini antitetici a quelli ege-
moni, l’abolizione della ‘autorità’ e ‘agenzie’ indipendenti dovrà essere
assunto come prioritario tema strategico, atteso che tali enti sono espres-
sione diretta, sia culturale che operativa, della filiera della dipendenza
estera.
46
media, cioè quella fascia di popolazione in condizioni sufficienti da
non dover sopravvivere con la messe di prodotti destinati agli strati
più bassi della popolazione ma non abbastanza per potersi rifornire
dalle nicchie che servono i vincitori della globalizzazione. A ciò si è
giunti polarizzando la ricchezza con l’adesione ai dettami del neolibe-
rismo: privatizzazioni con correlati tagli occupazionali, esternalizza-
zioni e chiusure in nome del mercato, tagli alla sicurezza sociale che
hanno reso necessario dirottare risorse e quote di reddito per l’acqui-
sto di servizi essenziali alla sopravvivenza (sanità, scuola, previdenza
sociale complementare…) dando vita a nuove catene di estrazione del
profitto per gli oligopoli privati. A questo si è aggiunta l’adesione al-
l’euro, conio sopravvalutato per i nostri fondamentali macroeconomici
e quindi un’autentica palla al piede nei mercati internazionali che ha
reso necessaria la svalutazione interna, meglio nota come taglio dei
salari, senza contare ovviamente la speculare convenienza relativa dei
beni prodotti in aree le cui ragioni di cambio ci sono sfavorevoli. Non
da ultimo l’aggravio fiscale per le classi territorialmente vincolate (la-
voro subordinato, una significativa fetta del lavoro autonomo e delle
micro/piccole imprese) accompagnato dalla contestuale deregolamen-
tazione per i grossi operatori economici, sia nei settori tradizionali che
delle nuove tecnologie (commercio elettronico), frutto delle libertà di
circolazione dei capitali e di stabilimento garantita dall’ordinamento
dell’Unione Europea: una lotta impari, tanto più che una rilevante fetta
dei meccanismi elusivi e delle tecniche di arbitraggio sui fattori della
produzione sono pienamente legali.
Un accenno va poi svolto ai meccanismi distributivi dei beni e
merci che entrano nelle nostre vite: se i colossi del commercio elet-
tronico hanno segnato gli ultimi anni, vi è da dire che da perlomeno due
decadi la grande distribuzione organizzata è colonizzata da multina-
zionali estere o da loro controllate. Accanto alle spinte liberalizzatrici
di matrice eurounitaria c’è un altro aspetto che ha dato la stura al pro-
liferare dei centri commerciali facenti capo a tali operatori, ovverosia
la crisi della finanza pubblica locale che ha indotto molti enti locali a
monetizzare il proprio territorio tramite gli oneri di urbanizzazione (gli
importi dovuti per procedere a costruzioni e ampliamenti edilizi) e le
opere compensative a teorico ‘beneficio’ della comunità, poco importa
se ciò ha contribuito a scaraventare il piccolo commercio in una crisi
al momento irreversibile. Cosa questo sistema lasci nel tessuto di una
47
comunità è sotto gli occhi di tutti: lavoro malpagato, precario e sosti-
tuibile, servizi ancillari al massimo ribasso (si pensi alla logistica), as-
sortimento dei prodotti nelle mani di un oligopolio di fornitori,
anch’essi strozzati da condizioni di acquisto capestro con conseguente
sparizione del tessuto produttivo locale.
Il paradosso di questa nuova fase del consumismo è che ha com-
pletamente interrotto quella pur criticabile circolarità fra investimenti,
produzione e consumo che aveva trainato lo sviluppo del secondo do-
poguerra per diventare, invece, un meccanismo di drenaggio di risorse
dall’economia italiana a quelle estere.
La gogna dell’autarchia
48
un’autodeterminazione alimentare, politica, energetica, doganale-
commerciale, monetaria43… in una parola: nazionale, sono da soste-
nere –se lo sono e se non sono considerate troppo poco ‘romantiche’–
soltanto se lontane e ininfluenti per gli attuali rapporti di forza nel-
l’Occidente a capitalismo maturo.
Basti solo considerare che perfino una figura ormai ridotta a una
sorta di santino laico buono per tutte le occasioni come Gandhi abbia
combattuto una vita per l’emancipazione dal dominio coloniale orga-
nizzando, fra l’altro, il boicottaggio dei filati inglesi. Questi estraevano
dalle colonie la fibra grezza e ne imponevano il riacquisto nei posse-
dimenti come l’India lucrando sulla trasformazione in madrepatria. Il
filatoio domestico (charka) fu uno degli strumenti per perseguire l’au-
todeterminazione rendendolo funzionale alla lotta politica. Autarchico
anche lui?
Insomma, siamo in un mondo in cui è ‘autarchico’ promuovere il
contingentamento e la regolamentazione degli scambi, ma è –eviden-
temente– ‘progressista’ scegliere prodotti dell’altro capo del mondo,
realizzati in condizioni di semischiavitù alimentando una filiera di
sfruttamento e sopraffazione.
C’è poi una drammatica superficialità sui rischi per la salute umana
di questo atteggiamento: non si contano analisi e inchieste sui rischi per
la salute in ambiti come l’agroalimentare, i giocattoli o il tessile44. Al-
trettanto noto è il fatto che il tratto caratteristico del sottosviluppo sia
43
Curioso notare che se il franco CFA viene considerato in maniera abbastanza
esplicita come espressione del neocolonialismo francese in Africa, l’integra-
zione monetaria europea incardinata su binari palesemente liberisti e mercan-
tilisti appare ancor oggi come una sorta di conquista progressista… Sul punto
si rinvia all’intervista di Blandine Sankara, Con il nostro cibo cambia l’Africa,
in l’extraterrestre supplemento a il manifesto, 22 ottobre 2022, p. 4.
44
Senza pretesa di esaustività si segnalano:
http://www.abitipuliti.org/report/quanto-e-vivibile-labbigliamento-in-italia/
http://www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie/a_tavola_con_ansa/2018/11/18/a
gricoltori-in-piazza-contro-linvasione-di-riso-asiatico-_7f6f2f9e-2a16-4af1-
abae-86181d1659a0.html; www.greenme.it/vivere/speciale-bambini/29600-
bambola-ftalati. Quanto ai risvolti ambientali dell’attuale sistema di scambi si
segnala, fra gli altri, il dossier della campagna Stop EU/Mercosur che ben ana-
lizza i risvolti ambientali dell’accordo con danni in particolare nella foresta
amazzonica https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2021/12/4348c-report-
mercosur-def.pdf
49
l’adesione a una monocultura: è difatti sufficiente un qualche fattore
esterno che ne incrini la domanda (pandemia, nel caso emblematico
del turismo nelle città d’arte o restrizioni negli scambi internazionali
derivanti da politiche commerciali) o l’offerta (parassiti delle colture,
fenomeni naturali… ipotesi in prospettiva sempre più frequenti in ra-
gione degli sconvolgimenti climatici) per precipitare intere aree nel-
l’impossibilità di sostentarsi. Evidentemente, considerare queste
dinamiche come parte di un problema complessivo è anch’esso un ri-
proporre retaggi del ventennio. Con altrettanta disinvoltura, poi, l’ap-
parato politico-mediatico che fino a un minuto prima aveva sostenuto
l’esasperato allungamento e la parcellizzazione delle catene del valore
ha riesumato l’autarchia contestualmente all’insorgere del conflitto fra
Russia e Ucraina utilizzando toni da ‘oro alla patria’ per legittimare
iniziative di sostegno al blocco atlantico: è evidente quindi che l’evo-
cazione di un ‘fascismo storico’ sia ormai uno dei più plateali artifici
lessicali per delegittimare una prospettiva alternativa, salvo ‘scaval-
carlo a destra’ non appena le contingenze delle classi dominanti lo ren-
dano necessario.
Non è tutto; dalla fine del ‘boom economico’, il dibattito sul rap-
porto produzione industriale-ambiente è stato sostanzialmente pola-
rizzato su due posizioni: gli ‘industrialisti’, che nel nome della difesa
dei ‘posti di lavoro’ nei fatti prestavano il fianco alle pratiche a dir
poco disinvolte del padronato accettando condizioni che mettevano
a serio rischio i lavoratori stessi e gli abitanti delle zone dove sorge-
vano i siti produttivi, e gli ‘ambientalisti’ che, pur avanzando riven-
dicazioni nel merito condivisibili, nei fatti tiravano la volata alle
forze neanche troppo occulte che puntavano, come in effetti è suc-
cesso, a deindustrializzare l’Italia. I risultati sono sotto gli occhi di
tutti: siamo riusciti ad assommare inquinamento e vastissime aree da
bonificare con la desertificazione produttiva. È quindi palese che oc-
corra cambiare approccio: il presupposto da tener presente è che, al
deterioramento delle condizioni materiali e nella percezione collet-
tiva di assenza di alternative lavorative, l’ambiente e la sua tutela
vengono giocoforza percepiti come ‘un lusso’ da sacrificare o quan-
tomeno da retrocedere nella scala delle priorità. Emblematico in que-
sto senso il caso delle industrie ex pubbliche nel Sud Italia (ILVA a
Taranto, raffinerie siciliane e sarde…): la vera sfida è, quindi, quella
di garantire una qualità di vita migliore su vasta scala, promuovendo
50
la ricerca scientifica e tecnologica, l’efficienza, la riduzione degli
sprechi delle risorse, metodi di produzione più prossimi e sosteni-
bili.
Senza però rivendicare come direzione strategica il ritorno a una
prospettiva di cosiddetta ‘matrice industriale completa’, i circuiti di
approvvigionamento alternativo (filiera corta, riuso, gruppi di acqui-
sto…) rimarranno relegati a nicchie destinate a chi se li può permettere
e compie contestualmente una determinata scelta di consapevolezza.
Solo riconsegnandoci la possibilità di produrre quanto ci occorre, si
potranno creare le premesse perché l’unico posto di lavoro, magari
malsano e malpagato, non sia più visto come unica àncora per il so-
stentamento proprio e del proprio nucleo familiare in un contesto di
completa desertificazione produttiva, rendendo quindi necessitata l’ac-
cettazione di qualsiasi compromesso con la salute, la dignità e le con-
dizioni di lavoro.
Il ridimensionamento occupazionale conseguenza del ‘risana-
mento’ successivo a ogni privatizzazione che rispetti i sacri crismi
dei dogmi neoliberisti ha, oltre che una valenza economica, una for-
tissima valenza politica mettendo nell’angolo le forze sindacali che
non possono più adempiere al loro ruolo fisiologico45, cioè quello di
tutelare e migliorare le condizioni dei salariati, ma sono costrette a
‘strappare’ condizioni ‘meno peggiori’ per chi dal mondo del lavoro
viene espulso, senza alcuna reale possibilità di incidere su quella
scelta a monte.
È evidente che la forza ricattatoria del padronato si fondi sul fatto
che non sia più possibile far valere la minaccia di nazionalizzazioni, ac-
quisizioni dirette o aiuti distintamente applicabili optando per pro-
spettive di gestione delle crisi ritenute maggiormente meritevoli sul
piano sociale. Va poi evidenziato che la ragionieristica conta dei ‘costi’
di tali interventi non tiene conto del fatto che i sussidi gravino su fi-
scalità e parafiscalità e che la chiusura di un’impresa fa venir meno un
45
Sul punto si rinvia all’intervista di Mimmo Porcaro, Parla Mimmo Porcaro.
Questione nazionale, sinistre, Unione Europea, USA in Indipendenza 37/2014
p. 30 in cui, in particolare, egli afferma: «Democratizzare l’Europa è impossi-
bile, così come è impossibile democratizzare la globalizzazione perché en-
trambe –come ripeto da tempo– mentre si costituiscono, distruggono proprio il
soggetto che dovrebbe democratizzarle, ossia il movimento dei lavoratori, la
sua forza, la sua unità.»
51
soggetto passivo d’imposta e si ripercuote a cascata sull’indotto: le pri-
vatizzazioni sono, quindi, uno dei più formidabili metodi per disarti-
colare l’azione collettiva.
Il rilievo politico dei processi di privatizzazione, tuttavia, non si ar-
resta qui perché è pienamente coerente con la strategia egemone il fatto
di ampliare quanto più possibile la platea di soggetti che vivono di sus-
sidi, cioè, essenzialmente, di trasferimenti monetari finanziati con la fi-
scalità o la parafiscalità46. In questo senso va criticata quella ‘retorica
del reddito’, molto radicata nelle forze che puntano a superare il capi-
talismo, in base alla quale si dovrebbe garantire un reddito su base uni-
versalistica. Vi sono sicuramente delle frange di popolazione che non
sono occupabili per oggettivi motivi di salute, età o altre specificità, ma
non è in alcun modo accettabile abdicare a un’iniziativa politica di ri-
qualificazione sistematica della forza lavoro e accettare l’orizzonte cul-
turale che assume la tecnologia come fattore di de-occupazione
intrinseco come se a monte non vi fosse un conflitto distributivo e or-
ganizzativo. Tutto ciò obliterando completamente le gigantesche esi-
genze di lavoro in tutti i comparti del perimetro pubblico:
dall’assistenza alla scuola e formazione, alla tutela dell’ambiente, pas-
sando per la giustizia e la sicurezza, giusto per citare alcuni macroam-
biti.
52
tamponassero: è stata costruita una grande narrazione che sostanzial-
mente si fondava sull’assunto della necessità di riorientare la creazione
del valore dai tradizionali settori industriali ad altri comparti: agricol-
tura, artigianato, servizi, ‘multinazionali tascabili’ e turismo.
Si tratta, per ciascuno di tali segmenti, di un artificio retorico.
L’agricoltura è ostaggio delle nefaste politiche comunitarie scritte
sotto dettatura dei desiderata dei paesi del Nord Europa, altrettanto
è esposta alla concorrenza quanto gli altri settori (si pensi a produ-
zioni tipiche del nostro Paese come olio, riso, agrumi…), strozzata
dalla grande distribuzione, come sopra abbiamo visto, che sostan-
zialmente azzera le rese per i produttori diretti, dietro il ricatto del-
l’approvvigionamento presso mercati più convenienti e con l’utilizzo
seriale di meccanismi speculativi come l’asta a doppio ribasso. Non
solo, le colture tradizionali subiscono l’ulteriore aggressione da parte
delle monoculture intensive imposte dall’agrobusiness delle multi-
nazionali di sementi, fertilizzanti e antiparassitari che, nei fatti, rie-
scono a influire in modo estremamente pervasivo sulle opzioni
agricole.
Anche nei picchi più acuti della crisi che stiamo vivendo, una delle
cicliche filastrocche dei media è che vi siano migliaia di posti vacanti
nell’artigianato rifiutati però dai giovani, non più adusi a seguire tali per-
corsi. Posto che ciò sia vero e che si tratti di impieghi con una prospet-
tiva di solidità e crescita professionale, va detto che, al di là della retorica
sull’eccellenza del nostro artigianato, sul fatto che all’estero lo invidiano
e sulle nostre abilità in questo ambito, ben poco di concreto è fatto per
creare un vivaio permanente di giovani da avviare a una prospettiva pro-
fessionale di questo tipo, anzi, perfino censurabili iniziative come l’al-
ternanza scuola-lavoro puntano proprio a formare lavoratori massificati,
fungibili e sostanzialmente funzionali al modello economico proprio
della grande impresa in cui il prestatore d’opera è solo un ingranaggio.
Va ricordato che l’artigianato è l’unica forma di organizzazione econo-
mica, assieme alla cooperazione mutualistica, ad avere un’esplicita men-
zione e copertura in Costituzione (art. 45), quindi la sua promozione è
un ben preciso obbligo derivante dalla nostra Carta. Resta da capire come
ciò sia possibile continuando la fideistica adesione ai dettami mercatisti
euroatlantici, tanto più se, come abbiamo visto, la dinamica dominante
è quella di una proletarizzazione della popolazione che certo non avrà le
risorse per rivolgersi agli artigiani.
53
Fa d’accompagno il variegato mondo dei ‘servizi’: bacino di espan-
sione per finte cooperative, agenzie interinali e, da ultimo, per piatta-
forme della gig economy. Vi è da dire che molti di questi comparti in
realtà riempiono vuoti che dovrebbero essere coperti da servizi pub-
blici: si pensi all’ambito socioassistenziale (assistenza anziani e inva-
lidi, asili, personale ausiliario in scuole e ospedali, centri di assistenza,
termali e di riabilitazione…) e a quello degli impianti sportivi e ri-
creativi. Più che un’espansione di ‘nuove’ opportunità lavorative,
quindi, si è trattato di una ritrazione del perimetro pubblico e della sua
capacità d’intervento; difatti, negli ambiti sopra menzionati, ci sarebbe
bisogno di ben altri livelli di servizi e numero di addetti.
Con l’espressione ‘multinazionali tascabili’ si fa riferimento a quei
‘campioni’ del manifatturiero spesso a conduzione familiare che, no-
nostante tutto, riescono a sopravvivere e a cui si deve, oggettivamente,
il relativo ‘galleggiamento’ dell’Italia nell’ultimo decennio: imprese
capaci di ritagliarsi nicchie di mercato, settori merceologici, mercati di
sbocco in grado di farle sopravvivere alla ‘tempesta perfetta’. Al di là
della retorica ‘dell’eccellenza’, mai nascosta dalla classe politica, nei
fatti funzionale alla legittimazione del sacrificio del nostro apparato
produttivo, c’è uno snodo di fondo da rilevare: si tratta di operatori
economici che non si pongono sul piano della produzione di massa,
ma forniscono un bacino di clientela, sia esso interno o estero, co-
munque relativamente ridotto. Proprio qui si situa il problema: per tutti
gli anni Novanta una delle accuse mosse al mondo delle imprese è stata
quella di non concentrarsi a sufficienza sulle produzioni ‘ad alto valore
aggiunto’, esattamente come oggi si favoleggia di ‘industria 4.0’, smart
manifacturing e ‘terziario avanzato’ in un contesto in cui si continua a
morire e rimanere invalidi nei cantieri edili, nell’agricoltura, per ma-
lattie professionali e in svariati altri modi collegati al mondo del la-
voro. Quali siano queste fantomatiche produzioni miracolose non è
dato sapere, perché in quegli stessi anni le imprese dell’elettronica di
consumo (Mivar, Brionvega, Olivetti, per citarne alcune fra le più note,
senza pretesa di esaustività) furono falcidiate dalle dinamiche merca-
tiste dominanti e, fra l’altro, non si considera che con la spinta osses-
siva verso l’internet delle cose (IoT, internet of things) si vincolano
alla filiera del capitalismo delle piattaforme segmenti economici via
via più vasti: spesso sfugge che i contratti di licenza per software, pro-
grammi e servizi in rete (compresa l’archiviazione dati in cloud) sono
54
predisposti in via del tutto unilaterale e priva di strumenti di tutela giu-
risdizionale effettiva.
In altri termini le chiavi dell’apparato economico produttivo o quan-
tomeno vasti ambiti dell’attività di impresa (dalla gestione dei paga-
menti e dei flussi di cassa, alla promozione/marketing digitale, alla
gestione del portafoglio clienti…) vengono consegnate a multinazio-
nali che, volontariamente, si sottraggono a qualsiasi giurisdizione o
comunque a qualsiasi rimedio effettivo su basi quantomeno formal-
mente paritarie e rispetto alle quali si può avere un contegno puramente
adesivo con riferimento alle condizioni dei servizi offerti. Inutile evi-
denziare che questo sia un fatto esiziale per realtà economiche micro-
piccole che possono essere sottoposte a qualsiasi ‘angheria digitale’
(blocchi e limitazioni anche da remoto dei servizi o della fruizione di
contenuti digitali tramite piattaforma come una pagina social media
fino ai servizi di pagamento senza contante) con la stessa facilità con
cui si spegne un interruttore. Attraverso questa lente si può leggere in
modo chiarissimo la già richiamata contraddizione oggi dominante del
sistema capitalistico, quella fra grande e piccolo, fra territoriale e trans-
territoriale.
Su questa cornice va costruita tanto la risposta politica quanto
l’orizzonte delle rivendicazioni da articolarsi per tutelare chi subisce
questo stato di cose venendo espropriato, appunto, di sempre maggiori
spazi di libertà di espressione e, potenzialmente, anche di organizza-
zione economica, accesso al mercato e altri fondamentali diritti di
rango costituzionale, di fatto sottoposti al potere di veto implicito di un
oligopolio di fornitori (provider) con l’oscuramento e la distruzione di
pagine e siti in senso lato ‘scomodi’: il negoziato politico con gli ope-
ratori esteri –in riferimento alle condizioni di erogazione di servizi nel
mercato italiano– e la più estesa acquisizione delle infrastrutture e si-
stemi digitali (dalle reti di telecomunicazione ai server di archivia-
zione, ai sistemi di pagamento digitale) da parte dello Stato –come ente
esponenziale degli interessi generali e al di fuori di una logica di pro-
fitto– sono questioni imprescindibili in una prospettiva di liberazione
e riorientamento del Paese, sottoponendo tutte le fasi dell’attività in
rete al controllo giurisdizionale a tutela dei fondamentali diritti collet-
tivi: dalla segretezza della corrispondenza alla libertà di opinione e ini-
ziativa politica a lato, ovviamente, delle libertà della sfera economica
la cui compressione è paradossalmente più accentuata da parte di ope-
55
ratori privati che dai pubblici poteri. Un fatto, quest’ultimo, che apre
importanti motivi di riflessione sulle caratteristiche assunte dal capi-
talismo rispetto alla congerie di servizi tecnologici e telematici offerti
in via unilaterale e adesiva.
Va poi evidenziato che ha dell’incredibile che non sia stata oggetto
di un dibattito pubblico la gravità di un fatto banale: la rinuncia pres-
soché completa alle produzioni di massa, sulle quali l’Italia pur era
riuscita a costruire un tessuto imprenditoriale ad alta intensità di la-
voro, sposando invece l’innovazione come valore astratto e apodittico
e trasformandola in un artificio semantico per veicolare una prospet-
tiva regressiva, come se fosse pensabile un sistema economico in cui
si rinuncia a produrre la gran parte dei beni necessari, nella quotidia-
nità, per il proprio mercato interno di riferimento: si pensi solo ad og-
getti tecnologicamente semplici come i vestiti, il cui mercato è ormai
egemonizzato dalle logiche devastanti del fast fashion foriero di pe-
santissimi impatti sociali, lavorativi e ambientali.
Tanto più si parla di ‘innovazione’ quanto più crescono lavori ‘po-
veri’, su tutti la filiera della logistica e dei servizi alla persona, il cui
più icastico esempio sono i servizi di consegna a domicilio (rider) privi
di qualsiasi prospettiva di emancipazione individuale.
56
scala47. È quindi necessario lavorare per un sistema pubblico di vendita
dell’offerta ricettiva sulla rete che possa rivelarsi maggiormente con-
veniente per operatori e turisti, così come reintrodurre strutture pub-
bliche di ricezione come gli Aerhotel, Ferrhotel e alberghi per la
gioventù.
La gran parte degli operatori del trasporto (aereo, crocieristica, au-
tobus a lunga percorrenza) fanno anch’essi capo a grandi operatori
esteri e nemmeno il trasporto ferroviario è esente da tale stato di cose:
Nuovo Trasporto Viaggiatori, che opera come concorrente di Trenita-
lia sull’alta velocità con il marchio Italo, è proprietà di un fondo sta-
tunitense (GIP, Global Infrastructure Partners) e buona parte delle
tratte internazionali fra il Nord Italia e i Paesi circonvicini nonché prin-
cipali mercati di arrivo turistico (Svizzera, Austria, Germania) sono
gestite dalle ferrovie di quei Paesi o dalle loro filiali italiane.
In tale poco confortante quadro si innesta il fatto che il turismo di
massa stia arrecando pregiudizi pesantissimi ai centri che ne sono de-
stinatari, rendendo praticamente impossibile la vita ai residenti, sia sul
piano economico (aumenti dei prezzi e asservimento delle attività eco-
nomiche ai bisogni turistici) che della quotidianità, compromettendo
non di rado la stessa integrità artistica e urbanistica delle vestigia e dei
centri storici48 (atti vandalici, sovraffollamento, collasso della nettezza
urbana).
La risposta, spesso e volentieri, è quella di puntare a un turismo di
élite con elevate possibilità di spesa, visto che il patrimonio culturale
‘vale’, nella vulgata dominante, in quanto permette di estrarvi profitti:
espressioni come ‘il petrolio dell’Italia’ e i ‘giacimenti culturali’ di-
cono tutto. Oltre a essere eticamente discutibile, il vero problema è
che, fuori dai circuiti più battuti dalle orde del turismo organizzato,
centinaia di borghi, città, villaggi e comprensori non riescono ad arti-
colare uno sviluppo turistico alternativo e sostenibile. È quindi evi-
47
https://www.agi.it/cronaca/news/2021-06-10/guardia-di-finanza-scoperta-maxi-
evasione-fiscale-booking-12865809/, https://www.startmag.it/economia/booking-
evasione-fiscale/. Fra l’altro le dinamiche dell’indicizzazione e della prospettazione
al pubblico dell’offerta commerciale sottostanno alle stesse logiche di dipendenza
proprie del capitalismo delle piattaforme, con il rischio tutt’altro che teorico di fa-
vorire certi operatori in danno di altri.
48
Per un approfondimento: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Einaudi, To-
rino, 2014.
57
dente che, se si volesse davvero puntare ad un turismo diverso, e tale
dovrà certamente essere un obiettivo di un’Italia auspicabilmente li-
berata dal dominio euroatlantico, si dovrebbe avviare un grande piano
di sviluppo turistico-culturale dei piccoli/medi centri italiani, spesso
autentici scrigni di tesori. In tale solco, un ulteriore asse su cui è ne-
cessario intervenire con un piano nazionale di sviluppo è quello del
cosiddetto turismo lento (itinerari a piedi, ciclovie …) nonché per una
socializzazione dei lidi balneari, puntando a forme di gestione coope-
rative sotto il controllo diretto delle amministrazioni locali, rompendo
quindi con la logica dello sfruttamento estrattivista che caratterizza il
meccanismo delle concessioni così come quello delle gare comunita-
rie.
Imprescindibile è inoltre l’intervento sulla mobilità ferroviaria, non
solo sulle reti ad alta velocità, quanto su tutta quella connettività ca-
pillare che va dalle reti periurbane e regionali fino ai collegamenti fer-
roviari fra i centri relativamente minori. In questo senso un rilievo
strategico dovrebbe essere riassegnato al segmento dell’InterCity:
un’offerta di trasporto economico, relativamente rapido e in grado di
collegare da punto a punto i piccoli/medi centri, con formule specifi-
che per famiglie, scolaresche, studenti... Va ricordato, peraltro, che il
trasporto su rotaia è la modalità di locomozione terrestre più ecoso-
stenibile ed anticiclica sul piano economico (per le necessarie infra-
strutture a rete) oggi disponibile49.
In una prospettiva di ridisegno dei rapporti economici e dell’orga-
nizzazione collettiva, non può poi essere eluso il tema della naviga-
zione, in particolare interna ed insulare: con la privatizzazione di
Tirrenia, avviata dal governo Berlusconi nel 2008, ci troviamo nel-
l’incredibile situazione per cui i collegamenti con una delle più estese
regioni italiane, la Sardegna, sono completamente delegati a un car-
tello di imprese private50. Tale aspetto non si esaurisce di certo con lo
sviluppo turistico e il caso sardo è il più emblematico, ma il medesimo
discorso vale per buona parte delle isole e arcipelaghi del Paese. A dire
il vero il vero Tirrenia è stata l’ultima compagnia ad essere privatizzata
49
Nuovamente si rinvia a quanto elaborato per la campagna ‘Per Atac servizio
pubblico’ https://peratacserviziopubblico.wordpress.com/
50
http://www.ansa.it/sardegna/notizie/2018/10/02/tirreniasardegna-si-appella-
a-toninelli_b86d0522-71f0-4ea7-b173-a8aa9f75881a.html
58
del perimetro della ex Finmare, la società del gruppo IRI nel cui alveo
erano conferite le imprese di navigazione, dopo Italia Navigazione,
Llyod Triestino e Adriatica. Un epilogo in cui il processo di integra-
zione federale europea ha avuto un ruolo determinante con esiziali esiti
per quanto attiene l’atrofizzazione del tessuto portuale interno, la sa-
lute complessiva della filiera della navigazione e il relativo risvolto
occupazionale. L’intensità di lavoro e il portato tecnologico riconnesso
al comparto della navalmeccanica riveste, nella struttura morfologica
ed economica italiana, un ruolo imprescindibile; tuttavia molti cantieri
navali del perimetro Fincantieri, in particolare al Sud, hanno indiriz-
zato la propria destinazione produttiva sulle navi da crociera e mili-
tari, marginalizzando la produzione di traghetti il cui rimpiazzo, anche
in un’ottica di sostenibilità ambientale, diventa oggi uno snodo per ga-
rantire essenziali diritti di cittadinanza.
59
sta nel mezzo; è stato chiaro, in tal senso, il ministro Patuanelli (Svi-
luppo Economico) il 6 settembre 2020 al cenacolo dei potentati eco-
nomici, il Forum Ambrosetti di Cernobbio51. Dopo aver incensato le
magnifiche sorti progressive dello scenario europeo, ha concluso l’in-
tervento in questi termini: «Lo Stato non può essere soltanto arbitro
[…]: le grandi trasformazioni degli assetti produttivi credo che deb-
bano essere indirizzate da una grande governance pubblica che dia le
linee di indirizzo; questo non significa che lo Stato fa l’imprenditore,
questo significa che lo Stato nelle filiere produttive interviene per raf-
forzare il trasferimento nella catena del valore, perché l’accesso alla
tecnologia sia garantito anche alle microimprese che lavorano nelle fi-
liere […] lo Stato non può stare in Alitalia per vent’anni, [è] chi ne
affronta una crisi aziendale e ne accompagna la fuoriuscita».
Ciò non prima di aver premesso e rassicurato gli astanti, semmai ne
fossero preoccupati, che non vi è alcuna intenzione di ricreare l’IRI o
formule analoghe perché «non dobbiamo usare gli strumenti del pas-
sato per affrontare le sfide del futuro», come se le dinamiche di sfrut-
tamento, desertificazione industriale, aumento delle diseguaglianze,
svalutazione del lavoro, proletarizzazione di vasti strati della società
fossero qualcosa di ‘nuovo’.
Se è grottesco riproporre un “dov’era, com’era”, tanto più alla luce
del fatto che le criticità (clientelismo, malversazioni…), che hanno se-
gnato quell’esperienza, hanno poi fornito il destro alle forze oggi do-
minanti per giustificarne la liquidazione, altrettanto è chiaro che il
ripudio dell’esperienza delle partecipazioni statali è ormai assurto a
formula liturgica: guai a entrare in rotta di collisione o anche solo in
concorrenza –a parole tanto amata– con il profitto privato anche lad-
dove esso si generi con rendite parassitarie alle spalle della collettività
(in particolare nel campo delle concessioni: dalle autostrade alle fonti
termali e minerali passando per le fonti energetiche) o su diritti pri-
mari delle persone: sanità, ma anche previdenza sociale complemen-
tare, per citare due esempi macroscopici, senza dimenticare le
privatizzazioni-svendita anche in campo industriale degli anni ‘80-’90-
2000 (Telecom, banche pubbliche, assicurazioni, Autogrill, Cirio, Alfa
Romeo, aeroporti, Ente Tabacchi e l’elenco potrebbe continuare a
lungo, purtroppo).
51
https://www.youtube.com/watch?v=1UHUjQXkDNA (min. 15 ss.).
60
Se dunque ricostruire l’IRI è necessario, pur in termini diversi da
come esso si è caratterizzato, certamente ciò non è sufficiente per de-
clinare una nuova stagione di impresa effettivamente pubblica, poiché
a esso dovranno affiancarsi meccanismi di apprensione, gestione e or-
ganizzazione specialmente orientati alle imprese piccole e medie. Ciò
che va stigmatizzato è la totale mancanza di coraggio e visione pro-
spettica dell’attuale ceto politico in riferimento all’intervento pubblico
nel mercato: una imbarazzante ritrosia laddove si presti attenzione agli
stellari profitti di multinazionali estere e capitalismo delle piattaforme,
i cui ricavi e utili sono sideralmente aumentati in concomitanza con la
pandemia, nel mentre le società più o meno ‘nazionalizzate’ sono de-
stinatarie solo di progetti di privatizzazione e di scoordinati interventi
al di fuori di qualsiasi organicità e logica di integrazione di sistema.
Sono da tempo convinto che l’ansia per le privatizzazioni sia guidata,
accanto alla creazione di occasioni di lucro e di rendita per il capitale pri-
vato, anche dall’intento di evitare l’affermazione di qualsiasi ipotesi al-
ternativa nella gestione delle imprese e delle allocazioni economiche in
termini difformi rispetto a quelli egemoni: queste cosiddette classi diri-
genti anelano e non aspettano altro che di deresponsabilizzarsi e abdicare
a ogni contributo attivo nella definizione dei rapporti economici. Prima
che un fatto economico, essa è dunque una tara culturale: nel 1982 viene
istituito l’ISVAP, Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di
Interesse Collettivo, nel quadro dell’affermazione delle ‘autorità indi-
pendenti’; nel 2012, con decorrenza dal 1 gennaio 2013 (governo Monti),
esso diventa IVASS, Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni. Un cambio
di nome in cui scompare il termine ‘private’ perché ciò assumerebbe che
possano esserci, in via di principio, assicurazioni ‘pubbliche’. Una rimo-
zione che deve riguardare anche il nome, l’ipotesi, il concetto financo in
comparti come appunto le assicurazioni in cui, vigendo obblighi di legge
(si pensi all’assicurazione auto), si crea un mercato oligopolistico in grado
di drenare masse enormi di denaro alla collettività.
Se possono essere tollerate e magari perfino encomiate imprese pri-
vate che promuovono politiche di inclusione, sostenibilità ambientale,
welfare integrativo, attenzione alla conciliazione dei ritmi lavoro-fami-
glia52 sotto l’ombrello della ‘responsabilità sociale dell’impresa’, ciò non
52
Si veda in particolare la disciplina delle c.d. ‘società benefit’ di cui alla L.
208/2015 (legge di stabilità 2016) commi 376-384.
61
può diventare qualcosa di istituzionalmente previsto e strutturalmente
perseguito. Il nemico non sono ‘gli sprechi’ quanto il pericolo dell’af-
fermazione sistemica di un modello di organizzazione economica alter-
nativo a quello predatorio e vessatorio dominante: il massimo che viene
concesso è dunque il paternalismo più o meno rimodernato.
D’altra parte la retorica di un apparato pubblico ‘leggero’ sostenuta
in termini diffusi nel ceto politico (e non solo) italiano si scontra con
il vero volto di linee d’indirizzo pronte a sostenere l’esproprio del ri-
sparmio e del patrimonio immobiliare privato attraverso una tassazione
che colpisce anche i proprietari di case pur gravati da eterni mutui ipo-
tecari, giungendo a evocare financo la ‘militarizzazione dei cantieri’53
per le grandi opere e dimostrando come nei fatti l’apparato pubblico sia
strumentale alla realizzazione degli interessi di cui tali forze sono
espressione, legittimi ma tutt’altro che neutri e tutt’altro che orientati
a un orizzonte collettivamente emancipativo.
Lo sconquasso derivante dalla pandemia Covid 19 e la necessità
‘nei fatti’ di dover avviare politiche pubbliche di sostegno al tessuto
economico si sta direzionando in piena continuità con le scelte degli ul-
timi decenni: privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite,
intervento pubblico in un’ottica supplente e solo finché l’operazione ri-
sulti in perdita per la collettività e, non da ultimo, ritrazione del peri-
metro pubblico non appena possibile, o anche prima. Da manuale il
caso del Monte dei Paschi di Siena: portata al dissesto da folli opera-
zioni di investimento e malversazione nel primo decennio degli anni
2000 tanto da creare un buco grossolanamente stimabile in 45 miliardi
di euro, la Banca è oggi sotto il controllo pubblico visto che la sua in-
solvenza, date le dimensioni di ‘banca sistemica’, avrebbe innescato
una crisi bancaria in Italia e, a propria volta, un probabile sconquasso
tale da poter concretamente mettere in crisi il sistema-euro. Non è un
caso che Valdis Dombrovskis, approvando il piano di ricapitalizza-
zione pubblica abbia affermato: «In ogni caso, le soluzioni che sono
state messe in atto dovrebbero proteggere la stabilità finanziaria in
Europa e ridurre l’onere a carico dei contribuenti»54.
53
https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2022/07/25/i-14-punti-del-patto-
repubblicano-di-calenda-bonino-e-della-vedova_3f54f261-8a30-48ff-a87a-
177639b4e5b2.html
54
https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_17_1905
62
Paternalismo nei confronti dei contribuenti a parte, è il quadro siste-
mico europeo che stava a cuore alla Commissione, non certo la tutela dei
piccoli risparmiatori di cui è stata fatta carne di porco senza batter ciglio
in molte altre occasioni (popolari venete, Banca Etruria, Carife etc..).
Non tutto il male vien per nuocere –verrebbe da dire– se, con il col-
lasso economico in atto, si potesse contare su una banca pubblica, tanto
più che i principali Paesi europei, a partire dalla Germania, hanno a tut-
t’oggi una rilevantissima presenza pubblica nel settore creditizio. Niente
affatto, il 10 agosto 2020 –sotto Ferragosto, secondo la più classica delle
operazioni alla chetichella da Prima Repubblica– il Tesoro (a guida Ro-
berto Gualtieri) ha chiesto di porre il tema della privatizzazione del MPS
«alla prima seduta utile»55 del Consiglio dei Ministri. Già a luglio, tutta-
via, si susseguivano indiscrezioni sulla privatizzazione nei tempi in ori-
gine programmati della Banca: «L’accelerazione del Tesoro sul dossier
sarebbe motivata anche dalla volontà del governo di dare un segnale a
Bruxelles in un momento nel quale sul tavolo della concorrenza Ue sono
in arrivo le carte di altri interventi statali pesanti e –per le casse pubbli-
che– onerosi, da Alitalia alla ex Ilva»56. Insomma, l’assioma è non indi-
spettire Bruxelles, cascasse anche il mondo. Certo, che al vertice di
Unicredit, in prima fila per l’acquisizione, sia stato messo Pier Carlo Pa-
doan, ex ministro già deputato del PD per il collegio di Siena, è una coin-
cidenza da malpensanti.
Non si creda che la critica a questa ennesima genuflessione sia qual-
cosa da rivoluzionari: «Per il futuro del Monte dei Paschi di Siena esi-
stono diverse soluzioni, ma è preferibile per ora che la banca resti
pubblica. Lo Stato fino ad ora ha già speso 7 miliardi di euro ed un’ac-
celerazione della privatizzazione potrebbe comportare ulteriori esborsi
di denaro pubblico lasciando molti dubbi. Una eventuale aggregazione,
infatti, oltre a creare un danno sul versante occupazionale specie nelle
città di Siena e Firenze, provocherebbe l’immediata sparizione di un
marchio storico, quello della prima banca nata in Italia» così Lando
Maria Sileoni, segretario della FABI, il sindacato dei bancari57.
55
www.reuters.com/article/mps-privatizzazione-fonti-idITL8N2FX3UP
www.startmag.it/economia/ecco-come-il-mef-si-svenera-per-mps/
56
www.nextquotidiano.it/monte-paschi-di-siena-addio-del-tesoro-bpm/
57
https://finanza.lastampa.it/News/2020/10/30/mps-sileoni-per-ora-resti-pub-
blica-+privatizzazione-lascerebbe-molti-dubbi/MTI3XzIwMjAtMTA
tMzBfVExC
63
Si potrebbero poi citare Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca
i cui attivi sono stati ceduti in ragione di 0,50 euro cadauna (1 euro
complessivo) a Banca Intesa saltando non solo qualsiasi ipotesi ‘con-
correnziale’ ma soprattutto una prospettiva di regionalizzazione sul
modello delle Landesbank tedesche, con buona pace delle “23 materie”
che Luca Zaia rivendica ogni piè sospinto per l’ottenimento della ‘au-
tonomia differenziata’ quando già oggi casse di risparmio, casse rurali,
aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e
agrario a carattere regionale sono materie di competenza concorrente
fra Stato e regioni (art. 117 Costituzione) e dunque nulla avrebbe im-
pedito perlomeno un’iniziativa politica in questo senso, se vi fosse dav-
vero una genuina attitudine a contrastare le dinamiche eurounitarie con
l’intenzione di ampliare il protagonismo economico della Regione,
specie in un contesto caratterizzato dalla netta predominanza dell’im-
presa micro-piccola. Ciò a ulteriore riprova che la retorica dei ‘territori’
è in realtà strumentale alla promozione della differenziazione centri-
fuga auspicata dalla cultura del cannibalismo economico di cui la Lega
è, non da oggi, espressione.
Non solo. Il Veneto è luogo di nascita e sede tutt’ora a Padova di
Banca Etica che, per esteso convincimento e al netto delle contraddi-
zioni proprie di un istituto di credito nel quadro sistemico dato, è co-
munque un modello e uno spunto per il riorientamento delle opzioni di
gestione del credito su basi mutualistiche, solidaristiche, di democrazia
economica con un occhio allo sviluppo di filiere pulite e sostenibili.
Ritengo sia importante guardare a quell’esperienza anche, e non da ul-
timo, per l’attenzione riposta dalla banca al tema della forbice retribu-
tiva, il coefficiente che indica il rapporto tra il salario più basso e quello
degli organi apicali. Esso si è enormemente dilatato nel corso degli ul-
timi decenni e, a fianco della retorica sui ‘costi della politica’, si sottace
completamente l’esplosione delle retribuzioni degli alti dirigenti del-
l’impresa privata. Si tratta di un problema che non può né deve essere
delegato ‘al mercato’ per due ordini di ragioni: la prima è che molte
delle imprese erogano servizi in mercati imperfetti o in condizioni di se-
mimonopolio non di rado provenendo da processi di privatizzazione; la
seconda che, stante il principio generale della contabilità per il quale
tutti i ricavi servono a coprire tutti i costi. Tali emolumenti sono pagati
comunque dalla collettività che tali beni acquista costituendo nei fatti
una forma di redistribuzione verso l’alto della ricchezza.
64
È un modello cui guardare con interesse in termini prospettici,
anche per il collegamento creato da quest’ultima con Fiare Etica, filiale
basca che si radica in un contesto politico-sociale particolarmente caro
alla cultura politica di Indipendenza, nel quale l’organizzazione ri-
vendicativa sul piano sociale affianca l’attenzione al contesto di rife-
rimento sul piano amministrativo (enti locali), sindacato, attività
ricreativo-organizzative (herriko tabernas) e mondo dello sport.
Il tema dell’accesso al credito assume un rilievo centrale anche sul
piano del contrasto all’usura58 al cui dramma sociale si affianca il dre-
naggio di enormi quantitativi di danaro, versati a titolo di interessi per
prestiti nei fatti irredimibili, deviati verso le organizzazioni criminali
e costituenti allo stato una delle più copiose fonti di finanziamento per
tali sodalizi; di qui un ulteriore profilo di urgenza per la creazione di
un istituto di credito pubblico in grado di sovrintendere a tale funzione
secondo precise esigenze e priorità collettive59.
Come già evidenziato in riferimento alla Cassa Depositi e Prestiti,
è evidente che i gangli del credito siano uno snodo essenziale, in par-
ticolare in una prospettiva di fase, per gestire lo sganciamento dal mo-
dello dominante e per fornire le necessarie risorse al finanziamento in
un frangente ad esso successivo.
Insomma, se si vuole pensare a un’alternativa, gli spunti non man-
cano; ciò che manca è la volontà politica di darvi corso se il riscontro
fattuale delle politiche industriali pubbliche è l’incredibile vicenda Ali-
talia/ITA Airways, inquietante mutazione nella quale un’impresa a to-
tale partecipazione pubblica ha creato precedenti di inaudita gravità
per quanto riguarda discriminazione sul lavoro (venendo peraltro san-
zionata nelle aule di giustizia), esternalizzazioni al massimo ribasso
(vicenda call center Covisian), deroga alla disciplina sul trasferimento
58
Per una panoramica sulle dimensioni del fenomeno si rinvia a https://www.in-
terno.gov.it/it/stampa-e-comunicazione/dati-e-statistiche/relazioni-annuali-
comitato-solidarieta-vittime-dellestorsione-e-dellusura
www.libera.it/documenti/schede/usura_il_bot_delle_mafie_2012.pdf
59
proposte in questo senso sono peraltro state formulate dalle organizzazioni Bloco
de Esquerda e in Portogallo e Podemos in Spagna con particolare riferimento agli
istituti ricapitalizzati dalla mano pubblica in seguito alla crisi 2008-2009
https://programa2019.bloco.org/capitulo-2/11-a-economia-para-toda-a-
gente/161-uma-banca-publica-e-estrategica.html https://podemos.info/en/ma-
teria/banca-sistema-financiero-deuda/
65
d’azienda in danno ai prestatori d’opera ma, se possibile ancor più
grave, strutturale inettitudine a una qualche forma di politica indu-
striale con una base di razionalità. Si è puntato non solo alla privatiz-
zazione come obiettivo dichiarato, ma a una privatizzazione alle
peggiori condizioni possibili per il socio pubblico, nel mentre il com-
parto del trasporto aereo è totalmente colonizzato da operatori dalla
più che discutibile etica d’impresa, se si pensa che una delle rivendi-
cazioni sindacali in RyanAir, ormai il primo operatore del comparto
in Italia, è la fornitura di acqua potabile (!) agli equipaggi60.
Alcune battute vanno poi dedicate a ILVA, la famigerata acciaieria
di Taranto, che può essere presa a simbolo della colonizzazione eco-
nomica del Sud Italia. Un impianto del quale, ormai è evidente, l’ap-
parato produttivo italiano non può fare a meno e rispetto al quale
l’intervento pubblico –senza qui tornare sul tema della privatizzazione
del 1995– è stato tardivo, maldestro e parziale. Certamente nessuno si
illude che un’acciaieria di quelle dimensioni possa essere ‘a impatto
zero’, né chi scrive ha le competenze per valutare sul piano tecnico le
soluzioni maggiormente efficienti per mitigarne le devastanti conse-
guenze sulla popolazione. C’è però un dato di fatto per cui, dopo aver
celebrato i dieci anni dal sequestro dell’area a caldo nel 2012, che già
interveniva su una situazione più che incancrenita, la neghittosità del
ceto politico ad assumere un intervento pubblico diretto e ‘marziale’,
con ben precise linee d’indirizzo sia economico sia ambientale, palesa
le responsabilità che la nostra classe dirigente si è assunta a ogni li-
vello. Si è speso, si continuerà a spendere per l’intervento attraverso In-
vitalia, ma soprattutto per arginare le drammatiche conseguenze sulla
popolazione locale e sull’ambiente, senza uno straccio di prospettiva
di direzione sociale dell’iniziativa pubblica.
60
www.dissapore.com/notizie/ryanair-niente-cibo-e-acqua-per-lequipaggio-
scatta-lo-sciopero/
66
DOVE PARTIRE:
- PROCEDURE CONCORSUALI E MUTUALISMO, CARCERI E RIEDUCA-
ZIONE, CONFISCHE E RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI DA REATO
67
Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana62, dei tribu-
nali penali internazionali e delle commissioni parlamentari d’inchiesta:
la ricostruzione di quello che può essere a pieno titolo definito come
un economicidio programmato e scientemente organizzato su vasta
scala dovrà essere compiuta attraverso un organo ad hoc con adeguate
competenze tecniche e la necessaria cultura politica nella prospettiva
di promuovere una funzione autenticamente riparatrice e ripristinato-
ria dei disastri causati dagli ultimi decenni di liberismo galoppante.
Essenziale in tali fasi sarà il ruolo dell’apparato giurisdizionale sotto
vari aspetti: di fronte a tale scenario esso appare anacronisticamente
obsoleto, un’autentica spada di latta per la cronica mancanza di risorse
non solo organizzative e materiali quanto, e forse di più, intellettuali.
Un apparato repressivo tarato sul ruolo individuale nell’attività crimi-
nale senza strumenti davvero efficaci per il contrasto su vasta scala al
crimine in campo informatico, ambientale ed economico, ambiti nei
quali il ruolo centrale è assunto da organizzazioni e cartelli, spesso
transnazionali, nei quali il contributo dell’individuo è sostanzialmente
marginale rispetto ai danni cui la collettività deve porre rimedio attra-
verso lo strumento penale.
Questi sodalizi raccolgono e allocano immense risorse monetarie,
a questo proposito l’esperienza dell’antimafia e la contestuale istitu-
zione di una Procura Nazionale non può essere limitata, come pure è
stato proposto, al perseguimento degli incidenti sul lavoro63 quanto
essa dovrebbe assorbire l’attività di indagine e repressione contro tutto
il crimine economico nelle sue articolazioni, il caporalato e l’evasione
contributiva. Tale potrebbe essere uno strumento per aggredire l’intero
62
L’esempio del Sud Africa degli anni Novanta è stato forse il più noto di crea-
zione di una commissione per la ricostruzione, in un’ottica non strettamente
punitiva, dei crimini e delle efferatezze del regime di apartheid, finalizzata a
una ricomposizione per quanto possibile conciliativa delle atrocità di quella
fase.
63
www.anmil.it/comunicati-stampa/processi-per-morti-sul-lavoro-troppo-lunghi-
serve-una-procura-nazionale/ ;
www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/
quotidiano/2022/02/12/sicurezza-lavoro-governo-parlamento-arrivano-segnali-
attenzione;
www.filodiritto.com/sicurezza-sul-lavoro-e-listituzione-di-una-procura-
nazionale
68
ciclo dell’economia illegale: dalle sue fonti agli impieghi nel tessuto
economico con strutture permanenti di supporto consulenziale e peri-
tale in grado di indagare le pieghe dei bilanci, i flussi di cassa, le ar-
chitetture societarie e i meccanismi di abuso del diritto, nonché le
ramificazioni settoriali e territoriali dei sodalizi criminali.
In altri termini e mai come ora, la ‘questione nazionale’ assume una
ineludibile centralità: l’idea di reprimere determinati reati su base na-
zionale è probabilmente il massimo livello di efficienza oggi raggiun-
gibile e attuabile. Ciò evidentemente non può prescindere dalla
cooperazione giudiziaria inter/nazionale ma l’avocazione, il coordina-
mento interdistrettuale centralizzato, la predisposizione di linee guida
operative omogenee e, ovviamente, una accresciuta soglia di dotazioni
tecnologiche ed economiche possono costituire il presupposto per un
cambio di passo nell’attività repressiva del crimine economico, infor-
matico e ambientale. Non va poi dimenticato che la libera circolazione
dei capitali che il processo eurofederalista garantisce e l’integrazione
monetaria (euro) hanno enormemente aiutato le operazioni del crimine
di stampo mafioso: «La moneta unica ha aiutato le operazioni di rici-
claggio. […] Al costo di cambio bisognava aggiungere il costo di in-
termediazione. L’euro, che ha banconote di valore più alto rispetto al
dollaro americano, è diventata la valuta preferita dai trafficanti in-
ternazionali di droga», queste le lapidarie parole di Nicola Gratteri64.
Il profilo repressivo delle responsabilità in particolare penali dei
singoli resta tuttavia monco laddove non vengano ripensati in termini
profondi istituti tra cui, in particolare, la confisca: tale istituto, previ-
sto in via generale all’art. 240 C.P.65, concerne essenzialmente l’ac-
quisizione da parte dello Stato di ciò che ha costituito il prezzo, il
prodotto o il profitto di un reato, sia in via diretta che per equivalente
(per esempio il denaro derivante dalla vendita di una partita di stupe-
facente).
La grande intuizione di Pio La Torre, promotore della l.646/1982
nota come Rognoni-La Torre, fu di comprendere e tradurre in termini
normativi il fatto che la malavita di stampo mafioso potesse essere
combattuta solo colpendola sul piano patrimoniale. È proprio la capa-
cità economica che fa lievitare per il sodalizio criminale le possibilità
64
Nicola Gratteri, La malapianta, Mondadori, Milano, 2010, p. 132.
65
Anche dall’art. 19 D.Lgs. 231/2001 in riferimento a quanto infra.
69
di delinquere, unita ovviamente alla disponibilità di manodopera ri-
cattabile in ragione delle note criticità lavorative in particolare nel no-
stro Mezzogiorno.
Tale legge ha avviato una stagione di confische ‘speciali’ e setto-
riali, dotando l’apparato repressivo di uno strumento che costerà la vita
al suo ispiratore. È chiaro che la confisca può diventare un formidabile
strumento per l’ampliamento della sfera pubblica, in particolare sul
piano economico-produttivo, laddove sia adeguatamente accompa-
gnata da strutture e professionalità in grado di gestire in modo efficace
l’ablazione dal sistema del crimine e la reimmissione nel circuito del-
l’economia pulita.
Il nostro ordinamento ha poi introitato gli istituti di moralizzazione
della vita d’impresa; in particolare, con il D.Lgs. 231/2001, viene ar-
ticolata la responsabilità degli enti da reato mediante una sanzione sul
piano economico, sussistendone le condizioni e qualora il reato con-
cretatosi sia inserito nel catalogo dei cosiddetti ‘reati-presupposto’,
alle compagini i cui preposti pongano in essere contegni alle mede-
sime rimproverabili (cosiddetto corporate crime). C’è tuttavia un dato
che ne evidenzia la profonda debolezza e la piena aderenza alla tem-
perie ideologica dominante, cioè che fra le sanzioni previste (art. 9
D.Lgs. 231/2001) non vi sia la nazionalizzazione, l’unico strumento
in grado di incutere un concreto timore per gli operatori economici
coinvolti in tali contegni. Nessuna misura di tipo ablativo è prevista o
ipotizzata né, nella redazione dei modelli organizzativi, si prevede l’ar-
ticolazione di iniziative di democrazia economica o distribuzione del
potere gestorio come fatto strutturale. Non potrebbe essere altrimenti;
l’assunto di base è sempre nel senso di risolvere i problemi all’interno
delle logiche proprie del capitalismo.
È chiaro che, in una prospettiva di superamento critico di tali stret-
toie, si renderà necessario fare comunque tesoro dell’attività dottrinale
e giurisprudenziale maturata in questo ventennio, ma inserendo la re-
sponsabilità degli enti da reato in una cornice profondamente diversa,
quella di un sistema di economia mista che contempli anche prospet-
tive di collettivizzazione degli assetti proprietari, naturalmente per
quelle ipotesi in grado di creare delle gravi conseguenze sull’ordine
pubblico economico promuovendo contestualmente, come meccani-
smi preventivi dell’illecito dell’ente, controlli diffusi, decentrati e ba-
sati su pratiche di effettiva democrazia economica.
70
Ad oggi, misure come la confisca nelle sue varie declinazioni o isti-
tuti di responsabilità degli enti da reato si inseriscono in un contesto de-
privato completamente di qualsiasi ipotesi di politica industriale
pubblica e di programmazione economica, con il risultato che la col-
lettività lesa dal reato di fatto viene anche deprivata di fattivi strumenti
riparatori: lo stesso riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati, pur es-
sendo un importante traguardo, è largamente insufficiente se l’oggetto
della confisca non sia un singolo bene immobile o un terreno, quanto
una compagine più complessa.
Il risultato pratico è un drammatico deficit gestionale di tali beni
pur faticosamente appresi, specie per quanto riguarda le organizzazioni
aziendali e le imprese, giacché qualsiasi provvedimento della magi-
stratura innesca la sofferenza degli affidamenti bancari e comporta,
troppo spesso, l’insolvenza con un duplice drammatico risultato: da
un lato la perdita occupazionale e di avviamento, dall’altra il messag-
gio simbolico sulla base del quale sotto il tallone del malaffare c’è il
lavoro, con lo Stato c’è l’insolvenza. Un fatto devastante in luoghi a ra-
dicata infiltrazione mafiosa66, poiché consolida il ricatto del lavoro e la
forza dissuasiva di omertà e intimidazione che a tutt’oggi restano il
più potente meccanismo di consenso per le organizzazioni criminali, in
particolare di stampo mafioso, tanto per i prestatori d’opera subordi-
nata quanto per le imprese vincolate nelle catene di fornitura e nelle
condizioni di accesso al mercato.
Si rende quindi necessario che, accanto all’attività sul piano re-
pressivo, si affianchino strutture di sostegno alla creazione di cordate
mutualistiche e, comunque, per salvaguardare la continuità aziendale;
ciò, in particolare, mediante apposite linee di credito pubblico, non-
ché attraverso l’imprescindibile ausilio degli ordini professionali –in
particolare di notai, commercialisti e avvocati– che dovrebbero for-
nire le professionalità in grado di accompagnare le realtà sottratte al
crimine organizzato lavorando per la loro socializzazione e transizione
al circuito dell’economia legale e virtuosa.
Il contrasto al crimine economico, quindi, non può prescindere da
una politica industriale pubblica e dal sostegno ai circuiti di consumo
che assumono la legalità come asse qualificante (cfr. rete AddioPizzo)
66
Per ogni approfondimento statistico si rinvia al database https://aziendecon-
fiscate.camcom.gov.it/odacWeb/home https://benisequestraticonfiscati.it/
71
mediante una chiusura della filiera fra produzione, trasformazione e im-
missione in commercio, secondo modalità che tengano conto dell’inte-
resse pubblico alla continuità aziendale: questa sarà la sfida
dell’antimafia nel terzo millennio e si giocherà in maniera determinante
sul piano dei rapporti economici. Raccordare l’attività repressiva del cri-
mine economico con la reimmissione e la valorizzazione a fini sociali di
quanto oggetto di confisca o nazionalizzazione nei termini sopra richia-
mati, implica la necessità di una cultura dell’intervento pubblico molto
più sviluppata di quanto non sia stato fatto finora. Sia chiaro, nessuno
sminuisce l’importanza –anche simbolica– di aprire presìdi pubblici o
servizi per la collettività in immobili confiscati alla criminalità organiz-
zata o di creare imprese e organizzazioni aziendali che tali beni sfrut-
tano per creare occasioni di lavoro: è già un enorme passo in avanti, ma
ciò deve diventare un fenomeno su vasta scala e soprattutto in grado di
prendere in carico anche le situazioni più articolate; in tale direzione il
primo passo dovrebbe essere l’istituzione di una delega in ogni comune
alla gestione dei beni confiscati e l’adozione di un regolamento comu-
nale ad hoc, sulla base di linee guida nazionali, articolando il riuso so-
ciale e ipotizzando al contempo un doppio binario fra le situazioni più
operativamente semplici demandate ai comuni e quelle più complesse
sul piano organizzativo e gestorio da attribuire ad articolazioni territoriali
dello Stato con una prospettiva di coordinamento e di intervento cen-
trale. La cultura del riuso sociale, dunque, deve diventare un fatto strut-
turale in particolare nel Nord Italia, dove l’infiltrazione della malavita
organizzata anche di stampo mafioso è oggetto di una vera e propria ri-
mozione collettiva, nonostante da oltre un trentennio si registrino verità
giudiziarie di indubbio segno.
Il fondamento lavoristico del nostro patto costituzionale trova una
paradossale esclusione nell’universo carcerario giacché, per circa i 2/3
la popolazione in vinculis è esclusa da percorsi di reinserimento lavo-
rativo e qualificazione professionale67: l’esperienza ha ormai insegnato
che essi sono ineludibili per la prevenzione delle recidive e per dare ef-
67
www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-deten-
zione/lavoro-e-formazione-professionale/. Va evidenziato che una parte consi-
stente della popolazione carceraria è dipendente dall’amministrazione carceraria
stessa. Cfr.
www.collettiva.it/copertine/diritti/2022/06/01/news/le_tutele_del_lavoro_in_ca
rcere-2147624/.
72
fettivo seguito a quella funzione rieducativa della pena che pure la Co-
stituzione pretende. Ad oggi la platea di soggetti da coinvolgere è nel-
l’ordine delle decine di migliaia di persone. L’offerta di occasioni di
lavoro all’interno delle carceri è, pertanto, uno snodo di primaria im-
portanza nel ridisegno del sistema sanzionatorio: implica l’investi-
mento in macchinari e strumenti, il necessario coinvolgimento delle
professionalità in grado di insegnare e formare, la messa a disposizione
dei mezzi tecnici, l’organizzazione distributiva dei prodotti e la relativa
promozione nel circuito del consumo. Un’impresa dunque che sia pub-
blica nella sua genesi e nella sua struttura in grado di relazionarsi con
le realtà di categoria e con i distretti industriali in termini propositivi.
Essa potrebbe caratterizzarsi come un fattore in grado di preservarne
i tratti e i saperi peraltro come potenziale iniziativa specifica di tutela
e valorizzazione dell’artigianato, sempre in un’ottica attuativa del det-
tato costituzionale.
Ciò che allo stato manca, in termini sistemici, è l’idea del circuito
carcerario come un fenomeno economico: esso è senz’altro un’istitu-
zione repressiva i cui tratti sono espressione della potestà punitiva; tale
prospettiva non è sufficiente laddove si assuma la necessità di una pro-
fonda trasformazione del mondo della restrizione, nella prospettiva di
rieducare alla convivenza civile, riaffermando la centralità dell’indi-
viduo. Se questo è l’orizzonte, declinare un raccordo permanente tra i
ministeri della Giustizia, dello Sviluppo Economico e dell’Economia
è il primo passo per ripensare all’organizzazione degli istituti di pena,
operando per incrinare il diaframma fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ –tratto ti-
pico di tutte le cosiddette ‘istituzioni totali’– a partire dal contesto eco-
nomico e dallo scambio che con quest’ultimo può essere avviato sulla
base delle esigenze del mondo delle imprese, ma anche sui bisogni di
una collettività cui il lavoro nel carcere può dare soddisfazione: l’or-
ganizzazione produttiva nei luoghi di restrizione non deve dunque es-
sere un fatto contingente o episodico.
Difficilmente si può pensare a qualcosa maggiormente in grado di
esprimere la legalità, anche sul piano simbolico, del lavoro regolare
equamente retribuito e quindi la remunerazione ossequiosa dei con-
tratti collettivi è probabilmente una delle più icastiche rappresentazioni
del contributo del singolo, di ogni singolo, all’organizzazione econo-
mica collettiva, costituendo il più potente messaggio di alternativa al
mondo della delinquenza.
73
Allo stato è utopistico pensare per il carcere un percorso analogo a
quello di ‘apertura’ avvenuto con i manicomi che, nel solco della sta-
gione del rinnovamento politico-culturale degli anni ’60-’70, ha poi
portato a un loro superamento; tuttavia, il lavoro e l’organizzazione di
impresa possono essere uno strumento per inserire il carcere in una co-
munità non solo sul piano fisico, quanto e soprattutto come istituzione
espressione di una cultura della legalità e dei valori che una collettività
intende coltivare a partire dal fondamento lavoristico, contrastando la
delinquenza ma anche riorganizzando l’agire economico.
68
http://www.nextstoputopia.com, fabbrica visitata anche da Naomi Klein. Sul
tema, di recente, Angelo Mastandrea, Lavoro senza padroni, Baldini&Castoldi,
Milano, 2015.
74
Il ruolo dell’apparato giudiziario e il suo raccordo con il mondo
economico vede un ulteriore ambito di prossimità nei fallimenti e nelle
procedure concorsuali riconnesse alla crisi di impresa: se è vero, infatti,
che i casi nei quali si è dato corso a operazioni di workers buyout (riac-
quisto da parte dei lavoratori dell’impresa) sono già ora svariati e non
di rado di successo, è altrettanto vero che questo tipo di operazioni si
sono servite in larga parte degli strumenti giuridico-economici comuni
e non hanno mai riguardato le ‘grandi crisi’ di cui si è parlato negli ul-
timi anni, i cui ‘tavoli’ ministeriali si sono sempre conclusi con una
capitolazione per le ragioni del lavoro, della collettività e dell’interesse
pubblico.
Il dato di fatto da considerare è che i complessi industriali operano
come ruote dentate all’interno di una filiera più articolata, a monte e a
valle e, inoltre, l’organizzazione non sempre è facilmente riadattabile,
convertibile e riscattabile nei confronti di proprietà o di procedure vin-
colate agli stretti margini della normativa.
Il tema del riacquisto da parte dei lavoratori è oggetto di una pub-
blicistica piuttosto copiosa, così come a seguire ci occuperemo dei pro-
fili espropriativi per i percorsi di recupero di cespiti abbandonati ivi
comprese le unità produttive. Alcune considerazioni vanno però svolte
sugli snodi di intervento pubblico in riferimento ai fenomeni di ‘crisi
di impresa’.
Il passaggio della ‘crisi’ di impresa è particolarmente interessante
sul piano delle opzioni politiche perché consente di poter dar corso a
una serie di iniziative per l’organizzazione economica. La prima e più
importante è sicuramente un’attività di riconsegna alla collettività, e in
primis alla classe lavoratrice, dei cespiti d’impresa e dell’organizza-
zione aziendale, laddove ve ne siano i margini; la seconda è quella di
perseguire il crimine economico e, quindi, le condotte di imprenditori
e amministratori, dediti a ‘spolpare’ le attività prima di avviarle allo
stato di dissesto.
Se le contingenze di mercato possono oggettivamente essere un fat-
tore d’innesco di fenomeni di crisi d’impresa, è altrettanto vero che
non sono rari gli episodi di svuotamento e disinvestimento organizzati
e scientemente pianificati; dunque, per tali ipotesi, si rende necessaria
la predisposizione di meccanismi di allerta e controllo preventivi affi-
dati alla classe lavoratrice e alla sua organizzazione, nel quadro della
tutela dell’ordine pubblico economico: iniziative e operazioni manife-
75
stamente antieconomiche devono essere oggetto di verifica e cogni-
zione cautelare, con finalità inibitoria, da parte degli apparati giurisdi-
zionali la cui legittimazione spetta ai soggetti interni all’organizzazione
aziendale, ma estranei agli assetti proprietari: i lavoratori, appunto.
Non è più accettabile sentire storie sulla chiusura seriale di reparti, di-
smissioni di produzioni e occultamento di attivi aziendali, senza che si
possa intervenire se non a dissesto ultimato, tanto più che spesso tali
condotte sono così macroscopicamente evidenti, da non lasciare adito
a dubbi su quali siano le intenzioni della proprietà.
Ad oggi strumenti di allerta sulla crisi d’impresa e di tutela ‘dal
basso’ sono del tutto assenti e andrebbero invece costruiti, sempre nel
quadro di un ridisegno delle relazioni industriali: è necessario ricono-
scere alla classe lavoratrice diritto e legittimazione giudiziale per agire
a tutela del proprio posto di lavoro, con presìdi effettivi finalizzati a
scongiurare operazioni che, costituendo sovente anche fattispecie di
reato all’esito della dichiarazione di fallimento, interessano poi la col-
lettività nel suo insieme. Evidentemente non si può ricondurre il mec-
canismo di allerta sulla crisi d’impresa a un mero catalogo di indicatori
finanziari né lasciare prive di rimedi condotte che possono condurre al-
l’insolvenza escludendo il ceto dei salariati dagli strumenti di tutela.
D’altra parte, sul piano tecnico, la celerità procedurale introdotta dallo
Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970) ha dimostrato che, potenzialmente,
se si vuole rendere oggetto di cognizione giudiziaria una condotta, ciò
può avvenire anche in tempi assai ridotti. Tali presìdi, pertanto, sareb-
bero a tutela del lavoro, ma anche dell’ordine pubblico economico nel
suo insieme.
Va poi evidenziato che, a livello centrale, manca del tutto un ente
dedicato alla gestione delle crisi d’impresa come fenomeno generale e
unitario, salvo appunto il penoso ruolo del Ministero dello Sviluppo
Economico e dei suoi ‘tavoli’, in grado di coordinare e gestire tali si-
tuazioni sul piano della risposta politico-amministrativa; esso dovrebbe
essere oggetto di delega perlomeno a un sottosegretariato da distac-
care presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. In una
prospettiva di rinnovamento dei rapporti sociali, ciò non potrebbe che
accompagnarsi all’organizzazione e alla promozione dei processi di
autogestione e recupero di unità produttive mediante lo sviluppo di
collaborazioni con soggetti privati, associazioni di categoria, sinda-
cati, comitati, enti locali.
76
- MUNICIPALISMO, INIZIATIVA ECONOMICA E PATRIMONIO PUBBLICO:
PER UNA NUOVA CULTURA DELL’AZIONE POLITICA
77
movimento). Giova ricordare che una presenza nelle istituzioni, oltre
a garantire una visibilità in sé, permette comunque di avere un accesso
privilegiato a strutture (spazi, mezzi di divulgazione, utenze…) utili a
diffondere temi e istanze politiche.
L’ipotesi municipalista può peraltro godere di un importante alleato
cioè, paradossalmente, quel meccanismo elettorale che ha espulso le si-
nistre dalle istituzioni: come noto, la legge elettorale dei comuni è ca-
ratterizzata da una spiccata carica maggioritaria; quindi, nei luoghi dove,
per una serie di ragioni e contingenze, si riescono a modificare anche di
poco i rapporti di forza strettamente numerici, è possibile diventare forza
di governo. È un meccanismo certamente discutibile ma, in una pro-
spettiva tattica, può essere foriero di momenti di affermazione utili per
l’avanzamento delle istanze di trasformazione politica e sociale.
Nella prospettiva di ‘correggere la rotta’ è opportuno svolgere delle
riflessioni su delle oggettive criticità manifestatesi e, soprattutto, enu-
cleare i tratti di una vera ‘alternativa’ nei pur compressi margini, eco-
nomici e di finanza pubblica, oggi presenti.
69
Sul legame questione nazionale, questione sociale e autonomie locali si ram-
menta l’esperienza del Venezuela nel quale gli slogan comuna o nada e inde-
pendencia, comuna y socialismo hanno sintetizzato la centralità della
dimensione municipalista nell’incedere del percorso verso il ‘socialismo del
XXI secolo’ cfr. https://poterealpopolo.org/delicato-fiore-comunas/
78
Il dato più eclatante in proposito è che non si sia dato vita a un co-
ordinamento unitario e permanente degli eletti, tanto di minoranza
quanto di maggioranza, e dei membri delle giunte. Pochi o tanti che
siano, l’assunzione di una prospettiva di questo tipo avrebbe implicato
il mettere da parte le interminabili discussioni e distinguo per concen-
trare l’attenzione su temi concreti e passi da seguire nei rispettivi ter-
ritori e ruoli, ora come maggioranza ora come opposizione con chi ci
sta, prescindendo dalle etichette di partito, facendo circolare e scam-
biando informazioni su opzioni amministrative, esperienze, rivendica-
zioni e idee.
Tale potrebbe essere un efficace antidoto alla fisiologica disartico-
lazione dell’agire politico: accanto a quanto di collegato è stato evi-
denziato nel primo capitolo, medesimo discorso potrebbe farsi in
materia di autogoverno e quindi di modifiche degli Statuti comunali,
ad esempio riconoscendo la centralità degli usi civici (pascoli, legna-
tico, valli di pesca…) o degli strumenti partecipativi, quali le delibere
popolari. Temi questi che devono assumersi come irrinunciabili per
una sinistra di alternativa; va ricordato che, anche a proposito di pro-
blemi concretatisi a ogni latitudine e conseguenti alle politiche oggi
dominanti, quali ad esempio le chiusure di presìdi sanitari territoriali,
scuole, tribunali e uffici postali, sportelli bancari, tagli al trasporto pub-
blico locale specie verso le periferie, non sono state fornite risposte
unitarie non da ultimo perché manca la cinghia di trasmissione delle
istanze che era propria della forma partito e dell’organizzazione sin-
dacale.
Si tratta quindi di assumere degli snodi qualificanti per una pro-
spettiva politica nazionale, declinandoli a livello locale, ricercando
quindi dal basso la massa critica necessaria per modificare i rapporti di
forza.
Va invece registrato che, purtroppo, le sedi e occasioni di confronto
hanno avuto carattere sostanzialmente episodico70 e comunque non si
70
Si menzionano senza pretesa di esaustività: Un’altra musica in comune tenutosi a
Pisa nei giorni 22-23-24 novembre 2013, che ha radunato rappresentanti di liste di
alternativa da varie parti d’Italia; il convegno sul municipalismo tenutosi a Napoli
il 19 maggio 2016, del quale dà conto lo stesso giorno Giso Amendola; Una massa
critica per il comune, il manifesto, p. 11 (audio disponibile su: http://www.exasilo-
filangieri.it/napoli-europa/); la tavola rotonda Civismo e democrazia: l’alternativa
parte dalle città tenutosi a Roma (Garbatella) nel quadro de ‘La festa della sinistra’
79
è trattato di iniziative assunte dalle dirigenze politiche all’interno di
un percorso organico di radicamento e ricerca della trasversalità a par-
tire, almeno, dagli enti locali.
Ritenere che, nell’attuale quadro di rapporti di forza, un’ammini-
strazione locale o, ancor peggio, un gruppo consiliare di opposizione,
senza un partito con una solida base parlamentare alle spalle, possa
anche minimamente incidere in determinazioni politiche di una qual-
che rilevanza è indice di una incapacità d’analisi preoccupante, se rap-
portata con l’urgenza con la quale si rende necessario formulare le
istanze politiche di opposizione al modello dominante.
il 29 giugno 2016. Due momenti di confronto, il 14 luglio 2016, si sono avuti presso
la Municipalità di Marghera (Comune di Venezia), presieduta da Gianfranco Bettin,
con Luigi de Magistris e Ada Colau (alcaldesa di Barcellona) dal titolo Città ribelli
per cambiare l’Europa; la sera stessa allo Sherwood Festival di Padova: Confede-
rare le autonomie: i territori della ribellione [video disponibili in rete]; più di re-
cente La politica in comune incontro delle liste di alternativa tenutosi l’8 e 9 ottobre
2016 a Sesto Fiorentino (Firenze).
80
salariale viene accompagnato dalla carota dell’ampliamento delle pre-
rogative delle aree territoriali subnazionali. «L’Europa stessa è chiamata
a valorizzare la dimensione regionale, come vettore di integrazione»71,
così Sergio Mattarella nel corso della celebrazione per il cinquantesimo
anniversario delle prime elezioni regionali (1970-2020). Non è un caso
che l’Unione Europea promuova la formazione di articolazioni territo-
riali transnazionali, le ‘euroregioni’ appunto. Si tratta anche in questo
caso di un’opzione mirante a svuotare le prerogative statuali nel nome
della ‘competizione tra territori’ e della creazione di una asserita ‘omo-
geneità’ tra aree geograficamente contigue: se l’integrazione sovrana-
zionale è il meccanismo di disarticolazione delle prerogative dello Stato
nazionale verso l’alto il federalismo-regionalismo ne è corollario e de-
clinazione sul piano istituzionale interno72. Non solo. Le politiche au-
steritarie hanno di per sé fomentato quella retorica della ‘coperta corta’
che è, non da oggi, argomento cardine delle forze autonomiste e seces-
sioniste nel loro ruolo di utili idioti del blocco europeo le quali intercet-
tano il disagio oggettivamente sussistente a valle del suo generarsi, senza
minimamente censurare il livello che tali politiche ha promosso, quello
sovranazionale appunto. A tale stato delle cose occorre quindi replicare
in termini politicamente convincenti.
La nostra attenzione alla dimensione ‘civica’ o ‘municipalista’ deve
esserci proprio perché siamo un’organizzazione a vocazione nazio-
nale: la volontà di organizzare il mutamento dei rapporti di forza nello
specifico contesto storico-politico italiano impone necessariamente di
avere chiaro quali ne sono la struttura e le radici.
Se è vero che la tradizione municipale assume una spiccata conno-
tazione storica al Nord e al Centro Italia, è pur vero che, anche in ter-
mini simbolici, la stessa permei l’intera storia italiana.
Il sopraccitato versetto del ‘Canto degli Italiani’, nostro inno na-
zionale, richiama l’episodio di Legnano (1176) quando i comuni uniti
sconfissero l’invasore Federico Barbarossa come espressione di uno
spirito quantomeno unitario, se non compiutamente nazionale.
71
https://www.quirinale.it/elementi/49450
72
Indipendenza promuove una campagna tematica in opposizione al cosiddetto
regionalismo differenziato fin dal 2017 concorrendo a costituire con altre realtà
il Coordinamento per il ritiro di qualunque autonomia differenziata. La rasse-
gna dei contenuti e degli interventi può essere seguita sul sito https://noregio-
nalismodifferenziato.home.blog/
81
Declinare un’agenda politica di alternativa municipale implica in
modo imprescindibile avere chiara la filiera di vincoli che, a cascata,
si ripercuotono sugli enti locali. Un percorso di riflessione di grande in-
teresse è quello proposto da Paolo Maddalena nel suo recente Gli in-
ganni della finanza73 in cui l’autore, a partire da un’articolata analisi
pluridisciplinare sulle tappe e le ragioni dell’affermazione del modello
liberista, cerca contestualmente di tracciare una prospettiva di risolu-
zione politica di tali problemi; politica nel senso proprio di ‘collettiva’,
‘sovraindividuale’ atteso che la parcellizzazione degli individui rende
oggi estremamente complesso radicare una proposta rivendicativa. Il
testo si pone in continuità esplicita con il lavoro di Paolo Berdini Le
città fallite, i grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, sem-
pre per i tipi di Donzelli e di cui Maddalena stesso firma l’introdu-
zione; due monografie che si integrano efficacemente sondando piani
prospettici complementari. A tal proposito può citarsi, a mo’ di cer-
niera74, il tema della cementificazione, un’autentica piaga che sta let-
teralmente distruggendo le nostre aree urbane e periurbane. Attribuire
la colpa alla lobby dei palazzinari coglie solo uno spicchio del pro-
blema, perché gli asfissianti limiti di finanza pubblica, cui sono co-
stretti gli enti locali, rendono pressoché necessitata la linea del
‘mattone libero’ nella prospettiva di incamerare i riconnessi oneri di ur-
banizzazione cannibalizzando il territorio.
Sia Berdini che Maddalena citano Giorgio La Pira e Adriano Oli-
vetti come esempi di lungimirante e coraggiosa politica di pianifica-
zione urbanistica, sviluppo del welfare urbano e accrescimento del
benessere collettivo. Bisogna dire che, pur nella loro diversità, quelle
figure sono state delle stelle cadenti nel firmamento politico-econo-
mico italiano del secondo dopoguerra. Sia chiaro, non che la loro im-
pronta a Firenze e Ivrea non desti ancor oggi ammirazione; tuttavia,
dopo quest’ultimo trentennio di disastri, ciò di cui abbiamo necessità
è una politica di trasformazioni su vasta scala. È però il caso di rian-
nodare il filo rosso che lega le molteplici esperienze del ‘socialismo
municipale’ con l’esigenza improcrastinabile di concretizzare fin da
ora un nuovo modello di sviluppo, a partire da esperienze ‘pilota’ e da
declinazioni nuove di quanto ci è giunto in eredità da quella stagione.
73
Paolo Maddalena, Gli inganni della finanza, Donzelli, Roma, 2016.
74
Maddalena, Gli inganni, ivi, p. 141.
82
Fu proprio Giorgio La Pira a dare un impulso imprescindibile alla
nascita e allo sviluppo della Centrale del Latte di Firenze75, sia per ap-
provvigionare la città dopo le restrizioni della guerra sia per garantire
agli allevatori del Mugello, posti in un contesto morfologico logisti-
camente disagiato, uno sbocco per la loro produzione. Le centrali del
latte sono state un tassello fondamentale del ‘socialismo municipale’
e non è difficile comprenderne l’importanza oggi, con una filiera pie-
gata dal sistema delle ‘quote’ comunitarie e dalla concorrenza delle
grandi zoopoli.
Rispetto per le condizioni di lavoro (sicurezza, tutela previdenziale
e sindacale etc…) lungo tutta la filiera produttiva subordinando la for-
nitura all’applicazione rigorosa dei contratti collettivi di lavoro; be-
nessere animale con garanzia delle migliori condizioni possibili
evitando ogni sofferenza inutile per i bovini ancor oggi drammatica-
mente diffuse e documentate sia da inchieste indipendenti76 che da
parte delle autorità pubbliche; riduzione e dei residui di lavorazione, in
particolare sondando la possibilità di avviare la produzione di biogas
dagli scarti zootecnici e con la necessità di promuovere politiche di
benessere animale, ormai pretese dalla sensibilità collettiva, sono le
linee d’indirizzo che abbiamo articolato nella nostra proposta all’esito
della decisione giudiziaria che ha riconosciuto il Comune di Roma
come il legittimo titolare della quota di maggioranza della Centrale del
Latte di Roma, al termine di una pluridecennale controversia giudi-
75
www.fondazionelapira.org/portfolio-articoli/giorgio-la-pira-e-il-piano-latte/
76
https://www.essereanimali.org/2022/04/indagini-allevamenti-corsorzio-grana-
padano-online/. Certamente vanno affrontati, in questa sede lo si farà solo tangen-
zialmente, i risvolti distruttivi delle filiere zootecniche tanto per quanto riguarda
l’assorbimento di terre coltivabili per la coltivazione di foraggi e pascoli, senza di-
menticare le sofferenze che quotidianamente si consumano nel ciclo degli alleva-
menti intensivi e dei mattatoi e i profondi interrogativi etici che ad esse si
riconnettono, ma anche economici e politici saldandosi tali problemi con i diritti del
lavoro e la tutela dell’ambiente nel quadro delle catene di fornitura che, su scala glo-
bale, alimentano deforestazione e malnutrizione di vaste porzioni della popolazione
mondiale. Si rinvia, tra l’altro, all’analisi svolta da Ernesto Burgio e in più occasioni
divulgata anche attraverso Indipendenza https://associazioneindipendenza.wor-
dpress.com/2021/06/06/ernesto-burgio-pandemia-sindemia-e-indipendenza/;
www.ilfattoquotidiano.it/2022/10/08/aviaria-gli-allevamenti-intensivi-sono-bombe-
ecologiche-a-orologeria/6832196/
83
ziaria dipanatasi tra la giustizia amministrativa e quella civile ordina-
ria che prende le mosse dalla violazione del divieto di cessione infra-
quinquennale prevista dall’originario bando di privatizzazione del
1996 (giunta Rutelli)77.
Tali iniziative si inscrivono nelle proposte sopra ricordate per Atac
e per Farmacap78, la società delle farmacie municipali di Roma il cui
rilancio del ruolo pubblico della farmacia comunale o partecipata dal-
l’ente pubblico trae ispirazione dal progetto redatto da chi scrive Ruolo
e prospettive per le farmacie comunali elaborato in particolare per Far-
macia Trevigiana S.p.A., partecipata al 20% dal Comune di Treviso.
Ancora, fu sempre La Pira a intervenire in maniera determinante
presso Enrico Mattei per la soluzione della crisi delle Fonderie del Pi-
gnone, divenuta poi Nuovo Pignone Industrie Meccaniche e Fonderia
77
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/2022/06/16/roma-centrale-
del-latte-unopportunita-di-intervento-politico/
78
Cfr. in particolare Fabrizio Mezzo, Farmacap, crisi indotta e attacco alla sa-
lute pubblica, in Indipendenza n. 51 p. 9 «garantire da subito l’operatività or-
dinaria e i livelli occupazionali, rifinanziare subito l’Azienda Speciale
comunale Farmacap consolidandone il patrimonio a partire dall’acquisizione
degli immobili aziendali, rilanciare l’attività, verificare e monitorare la strut-
tura dei costi e la loro inerenza agli effettivi bisogni dell’impresa e avviare un
piano di risanamento che non sia ‘tagli, spezzatino e privatizzazione’ ma che
punti all’ampliamento dei servizi offerti, all’integrazione con il servizio sani-
tario pubblico, al rilancio dell’immagine e della comunicazione (sia in rete che
in termini di radicamento nelle aree e quartieri di riferimento) e, ancor di più,
sul ruolo pubblico dell’azienda: contrasto alla povertà sanitaria collaborando
attivamente con il terzo settore e il volontariato, sostegno alle fasce deboli e alle
loro esigenze nonché alle professioni sanitarie nell’incontro domanda/offerta,
sviluppo in economia e a costi minori delle preparazioni galeniche di base, am-
pliamento dei servizi offerti, sensibilizzazione ed educazione sanitaria in una
prospettiva di prevenzione e attenzione alla salute nel suo significato più com-
pleto in una direzione di prossimità atteso il palese fallimento della logica
‘ospedalocentrica’ che ha guidato le linee d’indirizzo nella sanità degli ultimi
anni». Occorre inoltre ricordare l’esperienza del Chinino di Stato che ebbe un
ruolo centrale nella diffusione di un rimedio essenziale per la lotta alle febbri
malariche e la cui distribuzione calmierata fu una fondamentale misura di sa-
lute pubblica così come il ruolo dell’Istituto Farmaceutico Militare, altro snodo
di ineludibile centralità nel ripensamento delle dinamiche di produzione e rea-
lizzazione dei preparati farmaceutici tra cui, tra gli altri, i farmaci plasmaderi-
vati attraverso la raccolta effettuata nei centri trasfusionali pubblici.
84
S.p.A., integrata nell’Eni. La società si è affermata come leader nella
produzione di sistemi per la movimentazione di gas e petrolio, oggi –
superfluo ricordarlo– privatizzata e parte del gruppo USA (sic!) Ge-
neral Electric: un episodio che oggi ha del fantascientifico.
Non ho potuto che pensare a quelle vicende e a quanto lontani siano
quei modelli leggendo, ad esempio, della vertenza sulla privatizzazione
di Seribo, la ex società controllata del Comune di Bologna che prov-
vedeva alla refezione per le collettività. Nonostante le mobilitazioni
dei lavoratori e l’opposizione di sindacati e partiti della sinistra, l’am-
ministrazione non ha desistito dalla scelta: evidentemente oggi è troppo
ambizioso anche solo provare a imprimere una direzione strategica su
temi come l’educazione alimentare, la lotta agli sprechi e la filiera corta
assumendoli come parte della propria azione amministrativa79. Non
solo, nel furore liquidatorio di questi anni, tutto quello che ha rappre-
sentato l’eredità dell’amministrazione locale virtuosa delle forze pro-
gressiste in Italia centrale deve essere mandato in soffitta nel nome
della fideistica adesione ai princìpi di governo della filiera euroatlan-
tica: mercato, liberalizzazioni, privatizzazioni e dismissioni.
Questo è l’unico orizzonte possibile e ipotizzabile, ma è anche la ri-
nuncia al riformismo, da intendersi come modulazione rispetto al-
l’evoluzione delle società dei temi e dei problemi, ed è anche su quel
versante che tali operazioni vanno smascherate e denunciate.
85
verno deve declinarsi anche in altre articolazioni istituzionali e aggre-
gative, nella prospettiva di riattivare i corpi intermedi con un contributo
teorico specifico. È un tema che occorre porsi come prioritaria azione
di contrasto al modello neoliberista, il cui presupposto di affermazione
storica è l’isolamento e la segregazione dell’individuo: direzionare
ogni spazio di agibilità politica disponibile al rifiuto dei vincoli eu-
rounitari dovrà quindi essere una priorità ineludibile, prestando atten-
zione a saldare fra loro piani diversi dell’organizzazione collettiva.
Nel quadro della crisi della rappresentanza e del generalizzato spae-
samento di tante individualità ormai deprivate dei corpi intermedi in
grado di organizzarne istanze e aspirazioni, è divenuto uno spazio
d’azione molto frequentato quello relativo alle decisioni allocative dei
singoli, tanto con riguardo ai regimi alimentari seguiti (vegano, vege-
tariano, macrobiotico…) quanto con riferimento alle scelte di consumo
in ogni ambito.
Non si intende negare l’importanza delle strategie individuali, della
dimensione etica nelle scelte allocative, della forza dell’esempio e della
testimonianza, ma esse vanno con attenzione contestualizzate, anzi-
tutto per non perdere di vista il fatto che la narrazione di autocolpevo-
lezza è esattamente una delle tecniche persuasive fatte proprie
dall’apparato mediatico-istituzionale per legittimare il deterioramento
delle condizioni materiali di vita in un malriposto anelito egualitario.
Il livellamento è, chiaramente, verso il basso e verso l’indigenza, nel
mentre alle ristrette cerchie delle classi dominanti vengono concessi
comportamenti che sono un autentico schiaffo sia, naturalmente, alle
popolazioni del Sud del mondo ma anche ai sacrifici imposti a lar-
ghissimi strati di popolazione occidentale: aerei privati e turismo spa-
ziale, megayacht, bracconaggio e safari, supercar e fuoriserie, ville e
piscine e la lista potrebbe continuare a lungo. La divaricazione è tal-
mente netta che si può tranquillamente parlare di universi paralleli: i
ceti più benestanti della società sono comunque incommensurabil-
mente più ‘poveri’ della cerchia dominante.
Limitarsi al terreno delle scelte economiche implica l’accettazione
degli strumenti che il modello dominante concede: dalla dimensione
politica della cittadinanza a quella economica del consumo, nella quale
il soggetto esiste in quanto consuma e non in quanto individuo con una
visione valoriale, politica, sociale a tutto tondo, in tal modo riprodu-
cendo le divaricazioni sociali. Chi ha maggiori possibilità economiche
86
può incidere di più rispetto a chi ne ha di meno, rendendo vieppiù dif-
ficile rovesciare i rapporti di forza. Insomma, il ‘voto con il portafo-
glio’ accetta in toto il perimetro culturale ed economico imposto dal
modello dominante.
La riorganizzazione su basi politiche non può che basarsi su un su-
peramento inclusivo di tale approccio, in particolare per quanto attiene
al tema del mutualismo80: è indiscutibilmente importante guardare a
esperienze come le leghe operaie e le cooperative che sono state una
tappa fondamentale dell’organizzazione del lavoro salariato e nella for-
mazione dell’autocoscienza di classe a cavallo fra XIX e XX secolo;
occorre tuttavia interrogarsi anche sui margini di concreta percorribi-
lità di forme organizzative che non possono né devono essere il suc-
cedaneo dei diritti negati, perché tali pratiche si inseriscono in un
contesto istituzionale e ordinamentale ben diverso, in quanto succes-
sivo all’esperienza dei partiti di massa e all’affermazione, almeno teo-
rica, dei diritti sociali.
Un ambulatorio popolare non dovrà né potrà mai sostituire la ri-
vendicazione di presìdi sanitari territoriali di qualità e accessibili, così
come la politica culturale non può essere delegata nel lungo periodo a
iniziative destinate a esaurire la propria spinta propulsiva, come è ac-
caduto con la celebre occupazione del Teatro Valle di Roma all’indo-
mani del voto referendario del giugno 2011.
Restringendo il campo di analisi, la rottura con le dinamiche eco-
nomico-consumeristiche dominanti va dunque costruita da parte di una
nuova soggettività di alternativa, ipotizzando un’iniziativa su due
fronti: il boicottaggio e l’organizzazione di sistemi alternativi per la
fornitura di beni.
Va premesso che, seppur fortemente ridimensionato dalla pro-
nuncia della Corte Costituzionale 84/1969, il boicottaggio resta in
astratto penalmente rilevante ex art. 507 C.P. e non vi è dubbio che
il cartello delle multinazionali che si stanno spartendo il mercato ita-
liano non mancherà di utilizzare lo strumento repressivo penale per
contrastare una qualsiasi iniziativa su vasta scala finalizzata a una
loro marginalizzazione. Il dato comunque da tenere presente è che
combattere la colonizzazione economica che stiamo subendo dovrà
necessariamente passare anche dall’organizzazione di canali alter-
80
Salvatore Cannavò, Mutualismo, Edizioni Alegre, Roma, 2018.
87
nativi di distribuzione e approvvigionamento attraverso gruppi di ac-
quisto e centri di distribuzione: si deve insomma offrire un’alterna-
tiva. ‘Dove’ approvvigionarsi e dove destinare la propria domanda
di beni e servizi è quindi un tema ineludibile, tanto per i singoli e le
aggregazioni spontanee quanto per l’apparato pubblico: organizzare
campagne di boicottaggio e, in generale, di rifiuto per il capitalismo
delle catene (affiliazione commerciale o franchising) e delle piatta-
forme implica sottrarre fette di portatori di interesse (stakeholder) a
tali imprese e significa, in termini di principio, togliere la ragione
stessa per la quale tali entità esistono, ridimensionandone, ad esem-
pio, anche l’appetibilità sul piano azionario: un fatto non secondario
per compagini che elevano l’attrattività finanziaria e la redditività a
feticci. Occorre operare affinché i bisogni cui provvedono (mangiare,
ottenere beni, ricevere merci, fruire dell’energia, vestirsi…) siano
soddisfatti in maniera parallela, quale ulteriore declinazione di quella
‘sussidiarietà oppositiva’ di cui si è detto, senza alimentare il cartello
di imprese che, drenando la nostra capacità reddituale, ci riducono ad
una nuova servitù della gleba perpetrando un modello che fagocita le
risorse del pianeta81.
Accanto al green procurement82, vale a dire all’acquisto di beni pro-
dotti e realizzati nel rispetto dell’ambiente, andrebbero affiancati mec-
canismi premiali per le imprese che vogliano contrattare con la
pubblica amministrazione laddove queste sviluppino, tra l’altro, poli-
tiche di partecipazione dei lavoratori agli organi gestori nei termini già
descritti.
È dunque necessario direzionare la domanda sia pubblica che pri-
vata verso opzioni allocative diverse rispetto alle attuali perché, di-
versamente, rimarremo tutti immersi nelle contraddizioni insolubili
che l’attuale organizzazione economica e di consumo ci impone, al-
l’interno della quale permangono profondi e radicali vincoli di ap-
provvigionamento presso filiere non eticamente accettabili.
81
Con l’ondata inflattiva che ha investito l’area europea si segnala, ad esempio,
la proposta avanzata nella primavera 2023 da parte del movimento spagnolo
Podemos per la creazione di una catena di supermercati pubblici battezzata Pre-
cios justos (Prezzi giusti).
82
Primo tentativo di inserimento della sostenibilità ambientale negli acquisti
della pubblica amministrazione (cfr. in particolare d.lgs n. 50 del 18 aprile 2016
art. 34).
88
Patrimonio pubblico, istituzioni e soggettività di alternativa
89
l’utilità generale, meno che mai lo può fare l’amministratore in carica;
eppure, abbiamo accettato come naturali contegni che, ove calati nella
nostra dimensione abitativa, sarebbero degni del teatro dell’assurdo.
Se da un lato, modificati i rapporti di forza, si renderebbe necessa-
rio far luce sui processi di privatizzazione nei termini già descritti, a
partire dall’oggi può essere declinato un nuovo strumento per la rie-
spansione della sfera pubblica a partire da un oggettivo problema, che
si può definire neolatifondismo, vale a dire l’abbandono di aree, com-
plessi, edifici e compendi immobiliari da parte di una proprietà ricon-
ducibile quasi sempre a grandi conglomerati economici, fondi di
investimento, società di intermediazione immobiliare e finanziarie. Un
fenomeno spesso correlato alle privatizzazioni che si sono non di rado
accompagnate allo scorporo—tramite società dedicate—del patrimo-
nio immobiliare delle società collocate sul mercato, con l’ottica di rea-
lizzare e occultare plusvalenze. Vi è, naturalmente, molto di più della
sola dimensione economica dietro tali scelte: basti solo pensare al
grande centro direzionale Alitalia alla Magliana (Roma), che appare
oggi abbandonato, divelto e saccheggiato dopo l’operazione ‘capitani
coraggiosi’ del 2008 e che può davvero rappresentare –anzitutto come
fatto simbolico– cosa implichi l’opera di distruzione del sistema del-
l’impresa pubblica.
Evocare il latifondo è tutt’altro che un retaggio del passato anche in
campo agricolo; basti pensare al fenomeno dell’accaparramento di
vaste aree coltivabili (land grabbing) che colpisce anche il nostro
Paese e che si pone in contrasto con l’efficiente sfruttamento dei
suoli83. Tuttavia è il caso di estendere tale modalità di intervento ai ce-
spiti dismessi o comunque in senso lato abbandonati, in particolare con
riferimento alle imprese che avviano processi di delocalizzazione. Già
in una prospettiva sostanzialmente liberale, pur con coloriture corpo-
rative, il nostro codice civile, entrato in vigore nel 1942, si preoccupa
di disciplinare tale ipotesi prevedendo sostanzialmente un potere abla-
83
È necessario in questo senso richiamare la disposizione costituzionale che di
contrasto al latifondo si occupa, ossia l’art. 44: «Al fine di conseguire il razio-
nale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone
obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata […] promuove […] la tra-
sformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la pic-
cola e la media proprietà».
90
tivo all’art. 83884. Si tratta di una norma di centrale importanza sistemica
e di totale irrilevanza operativa: l’applicazione dei princìpi costituzionali
a quest’ultima successivi la renderebbero superflua, essendo pacifica la
possibilità di interventi pubblici diretti anche in assenza di abbandono da
parte del titolare; essa, tuttavia, costituisce uno spunto di grande interesse
per fornire un addentellato normativo a provvedimenti amministrativi fi-
nalizzati alla sottrazione di tali cespiti ai proprietari inerti, nell’ottica di
una loro destinazione a beneficio della collettività.
Paolo Maddalena ha estesamente analizzato la lettura costituzio-
nalmente orientata di tale disciplina civilistica, che condivisibilmente
viene definita di ‘valore ordinamentale’85: dall’abbandono (derelictio)
o al disinteresse del proprietario, laddove si affianchi un contegno ope-
roso e attivo dei consociati e delle istituzioni che ne esprimono gli in-
teressi, deriva un vero e proprio potere ablativo che declina un’ulteriore
modalità per articolare la ‘sussidiarietà’ in una prospettiva di contrasto
alle linee d’indirizzo dominanti incalzandone le contraddizioni.
Tale apparato normativo può tornare utile in particolare in due fasi,
quella più generale di riappropriazione collettiva e quella della con-
tingibilità e dell’urgenza legata a operazioni ai limiti del lecito per pro-
muovere chiusure e delocalizzazioni: la centralità di tale prospettiva
nel conflitto proprio delle relazioni economiche, si coglie con chia-
rezza in relazione al tema del riuso sociale dei beni abbandonati e, in
particolar modo, delle imprese che avviano processi di delocalizza-
zione produttiva, scaricando sul tessuto socioeconomico di riferimento
84
Codice Civile, Art. 838 (Espropriazione di beni che interessano la produ-
zione nazionale o di prevalente interesse pubblico) «Salve le disposizioni delle
leggi penali e di polizia, nonché [le norme dell’ordinamento corporativo e] le
disposizioni particolari concernenti beni determinati, quando il proprietario
abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interes-
sano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze
della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte
dell’autorità amministrativa, premesso il pagamento di una giusta indennità. La
stessa disposizione si applica se il deperimento dei beni ha per effetto di nuo-
cere gravemente al decoro delle città o alle ragioni dell’arte, della storia o
della sanità pubblica».
85
Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, Roma
2014 p. 105, sui medesimi temi anche Paolo Maddalena, La disciplina costitu-
zionale della proprietà contro la crisi finanziaria, in Il Ponte, anno LXIX, n.
11/12, novembre/dicembre 2013, pp. 74-75.
91
ingentissimi costi economici, sociali e ambientali. Organizzare l’ini-
ziativa di contrasto alle delocalizzazione mediante strumenti ablatori
e affiancare i processi di recupero di unità produttive è, per quanto ri-
guarda i temi oggetto di questo lavoro, l’ambito dirimente per pro-
muovere logiche economiche alternative a quelle imposte sino ad ora.
La saldatura fra mondo del lavoro, mondo delle professioni ed
enti locali/poteri amministrativi è la chiave per rivendicare, nel
senso tecnico-giuridico del termine, l’apprensione dei cespiti e delle
unità produttive abbandonate, in particolare con una prospettiva di
democrazia economica. Certamente occorre chiarire senza equivoci
che ciò implica un conflitto, implica che i rappresentanti delle isti-
tuzioni non si limitino agli ordini del giorno e a presenziare con le
fasce tricolori alle fiaccolate davanti alle fabbriche vuote: occorrono
provvedimenti amministrativi e occorrono soprattutto strutture di
sostegno a tali pratiche a livello centrale sia sul piano del prevedi-
bile contenzioso giudiziale con le proprietà, sia sul piano dell’azione
politica sul piano legislativo. La tutela delle ragioni collettive, tra-
mite strumenti ablativi in danno del latifondo urbano e industriale,
può costituire un percorso di declinazione del socialismo munici-
pale nel terzo millennio, attraverso la preservazione e il rilancio di
attività e servizi economici, promuovendo la democrazia economica,
la distribuzione del potere gestorio, la predisposizione di meccani-
smi solidaristici e la destinazione alla funzione sociale dei cespiti
abbandonati.
Va naturalmente affrontato il tema degli indennizzi, che pure sono
previsti dalla norma e in ogni caso dalla tutela costituzionale della
proprietà privata. Si è ormai giunti, attraverso il decisivo contributo
della giurisprudenza sovranazionale, a una tutela per il proprietario
espropriato per ragioni di pubblica utilità che sostanzialmente si so-
vrappone al valore di mercato del bene. Tale principio, in realtà, è
stato sostenuto anche con argomenti di natura costituzionale assolu-
tamente fondati e coerenti con le logiche di sistema. Il punto fonda-
mentale è che le due fattispecie sono profondamente diverse:
nell’ipotesi espropri per pubblica utilità non ci troviamo di fronte a
un proprietario che si disinteressa del proprio cespite ma subisce il
pubblico potere; nel caso del neolatifondismo o comunque di inizia-
tive di chiusura, delocalizzazione, dismissione è lo stesso proprieta-
rio che abdica al proprio diritto e ciò non può che assumere un rilievo
92
dirimente laddove si debba discutere di un’indennità86. In questa ac-
cezione andrebbe interpretata la locuzione di rinvio (in quanto ap-
plicabili) alla generale disciplina dell’esproprio per pubblica utilità
di cui all’art. 56 disp.att. C.C..
86
In una prospettiva comparatistica si può richiamare il caso della Fralib, im-
presa recuperata da Unilever, il cui compendio è stato acquistato a 1 euro dalla
municipalità di Marsiglia, cfr. Angelo Mastandrea, Francia, vincono i frali-
biens, in il manifesto, 16 giugno 2014, p. 16.
93
DOVE ARRIVARE:
- AMBIENTE, DEMOCRAZIA ECONOMICA E DIMENSIONE NAZIONALE
COME SPAZIO DI AZIONE POLITICA, NOTE PER UN RIPENSAMENTO DEL
MODELLO ECONOMICO
87
motto dell’edizione 2015 della Fiera 4 Passi, manifestazione annuale dedi-
cata al commercio equo e agli stili di vita orientati alla sostenibilità organiz-
zata a Treviso, fin dal 2005, dalla Cooperativa Pace&Sviluppo.
88
BUR, Milano, 2015, pp. 617-618.
95
Su questo versante si colloca la mia critica a segmenti del movi-
mento antispecista e animalista del quale non manco di riconoscere il
pregio, ma che troppo spesso è indulgente nei confronti di imprese tut-
t’altro che ‘etiche’ per un ossequio formale a determinate opzioni com-
merciali, censurando nel contempo il perseguimento di percorsi di
transizione che, seppur non ottimali, sono sicuramente un migliora-
mento rispetto alla realtà concreta delle cose.
È quindi impellente la necessità di dialogare e proporre l’alternativa
a tutta la società, senza altezzosità, snobismi e compiacimenti. Per tor-
nare alla metafora, non può essere sottaciuta la forza di un’icona pop
o nazionalpopolare nel veicolare messaggi e contenuti così come nel-
l’influenzare l’orizzonte collettivo: sono tutt’altro che un estimatore
dei Simpson, ma il dato politico con cui fare i conti è che la scelta ve-
getariana di Lisa, in una ormai celebre puntata del 1995, è stata un epi-
sodio in grado di arrivare a un numero sideralmente più elevato di
persone e di penetrare nella dimensione di massa rispetto a ogni altro
contenuto elaborato da un movimento di opinione, raggiungendo per
giunta le fasce di popolazione meno politicizzate.
La costruzione di un orizzonte collettivo diverso da quello egemone
e dalla ineluttabilità che lo accompagna deve essere perseguita senza ri-
trosie nella prospettiva di poter avere accesso a ogni tribuna e soprat-
tutto a quelle generaliste, mediatiche e non, per estendere quanto più
possibile le platee di riferimento dei messaggi89. Può non piacere ma è
un dato di realtà, specie dovendosi necessariamente rivolgere a nuove ge-
nerazioni che hanno un approccio culturale mutato, che non può essere
liquidato con superficialità: per chi oggi ha vent’anni, l’integrazione mo-
netaria, l’assenza di garanzie sociali, la regressione nei diritti sociali e di
cittadinanza sono elementi che fanno parte dell’orizzonte esistenziale
fin dalla nascita. A fronte di tale accresciuta complessità nella composi-
zione sociale e nella definizione di un blocco sociale di riferimento, è an-
cora più necessario infrangere la destinazione dei messaggi a frazioni e
segmenti della società contrastando l’idea di articolare l’iniziativa poli-
89
Mutato quanto vi è da mutare, queste riflessioni derivano dall’interesse, ormai
risalente, per la figura e l’opera di Emilio Salgari quale autore in grado di com-
piere uno straordinario lavoro di alfabetizzazione, sprovincializzazione e for-
mazione dell’identità nazionale. Cfr. in particolare Alberto Leoncini, Frammenti
di un discorso avventuroso, ilcorsaronero X, 2009.
96
tica attraverso iniziative extraistituzionali in rete (petizioni, tweetstorm,
mailbombing…) o al di fuori di essa con una connotazione fortemente
settoriale senza una prospettiva politica d’insieme.
Per tutte queste ragioni è necessario riflettere sul combinato effetto
di scala di azione politica e livello incrementale di trasformazione at-
tuata: in concreto, ridurre i danni delle dinamiche dominanti su vasta
scala può creare risultati molto più tangibili di una divaricazione fra i
contegni delle masse e le opzioni perseguite dalle avanguardie. Ri-
vendicare una filiera etica nel cibo, in grado di garantire a tutti un’ali-
mentazione sana, legata alla stagionalità, rispettosa delle naturali
capacità di rigenerazione delle risorse e della biodiversità, a moderato
impatto ambientale e senza sfruttamento del lavoro è un’opzione de-
cisamente migliore di promuovere una riserva, appunto, ultraortodossa
in un contesto che va in tutt’altra direzione, in una spirale di sprechi,
deterioramento qualitativo, filiere impattanti fondate sullo sfruttamento
della natura e del lavoro, nel quadro di un’offerta massificata e uni-
forme allineata sulle opzioni più deteriori imposte dalle grandi catene
della distribuzione e della ristorazione90.
Una riflessione che deve ricomprendere anche il gradualismo, cioè
la capacità politica di procedere per fasi su di una prospettiva di tran-
sizione: se la rottura con l’ordine giuridico-politico euroatlantico e ca-
pitalista è l’indiscussa prospettiva strategica, sul piano tattico non può
essere sottovalutata la necessità di decostruirne il consenso e svuotarne
i tratti distintivi. In altri termini si tratta di distinguere tra ciò che si
vorrebbe fare e ciò che, nel concreto quadro di rapporti di forza stori-
camente dato e nella contingenza in essere, è possibile realizzare come
risultato materiale dell’azione politica: qualsiasi iniziativa collettiva,
per avere una prospettiva di successo, deve necessariamente uscire dai
circoli di opinione. È una presa d’atto dura, ma occorre chiarire senza
ipocrisie che nella ‘sfera laica’, mutuando una locuzione penalistica, si
renderà necessario scontrarsi con una consolidata temperie di disinte-
resse, disaffezione e qualunquismo rispetto a ogni iniziativa di orga-
nizzazione politica, paradossalmente più radicata negli strati di
popolazione più fragili, meno culturalmente attrezzati e più esposti alla
macelleria sociale imposta dalle classi dominanti estere e italofone.
90
Cfr. Tobias Leenaert, In viaggio per Veganville, Milano, 2021, Edizioni
Sonda.
97
Collocare prospetticamente le rivendicazioni sul piano degli effetti
attesi è dunque essenziale: accanto alla retorica delle riforme che ab-
biamo contestato con la prospettiva del ‘rinnovamento’, è necessario
contestare la retorica delle ‘sfide globali’, divenuta un gigantesco alibi
per le classi dirigenti al soldo dei segmenti più obsoleti del capitali-
smo, che puntano alla preservazione delle proprie rendite parassitarie
(sussidi indiretti e sfruttamento dei beni pubblici), così come lo è il
confinamento dei pensieri critici alla dimensione testimoniale, alla ri-
serva appunto, attorno alla quale prolifera un mondo stravolto ed espro-
priato replicante la dinamica patita dai nativi nelle terre di conquista.
La questione nazionale si pone quindi come essenziale livello di
mediazione per l’organizzazione sovraindividuale: «mai come adesso,
risulta chiaro che vincerà la partita chi capirà prima degli altri e si at-
trezzerà prima. Perché non è vero che, siccome la crisi è globale, bi-
sogna agire tutti insieme o non ne vale la pena. È esattamente il
contrario: ognuno deve agire nel proprio pezzo di terra (sia essa l’Ita-
lia o l’Europa) subito, perché non c’è nulla di più contagioso e valido
politicamente che l’esempio»91. Il tema ambientale va quindi assunto
come dirimente tema politico, senza equivoci, affiancando al rifiuto
del paradigma egemone una posizione costruttiva nel discorso pub-
blico. Strettamente avvinto ai temi che ci occupano in queste pagine è
il movimento globale per il disinvestimento dalle fonti fossili (fossil
fuel divestment movement)92 che spinge per la dismissione delle parte-
cipazioni azionarie e dei finanziamenti alle realtà che operano nelle
fonti non rinnovabili: è evidente che senza una politica positiva di in-
vestimento in fonti energetiche alternative, nell’approvvigionamento
energetico di comunità, nello sviluppo della ricerca scientifica e tec-
91
Michele Fumagallo, Da catastrofe a cosmologia, le nove parole chiave del
collasso, in l’extraterrestre supplemento de il manifesto, 10 marzo 2022, p. 7
https://ilmanifesto.it/da-catastrofe-a-cosmologia-le-nove-parole-chiave-del-
collasso
92
Si veda il rapporto Banking on climate chaos per notare la piena sovrapponibilità
degli attori protagonisti della determinazione delle linee d’indirizzo antipopolari e i
soggetti finanziatori della filiera del fossile https://www.bankingonclimatechaos.org/;
https://www.greenpeace.org/italy/storia/15804/clima-intesa-sanpaolo-e-unicredit-
ancora-in-prima-fila-per-sostenere-lindustria-fossile/ cfr. anche Naomi Klein, Il
mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima, Feltrinelli, Milano,
2021.
98
nologica, nel miglioramento della resa energetica e nel contestuale
sganciamento dalle fonti fossili, l’eventuale dismissione dei pacchetti
pubblici di ENI ed ENEL sarebbe solo l’ennesimo regalo alla specu-
lazione privata.
Non si può dunque pensare né di aderire ad un ambientalismo neo-
luddista e ingenuamente arcadico, né ovviamente di accettare quanto
oggi dobbiamo subire. D’altro canto, il fatto che ci siano forze interne
al capitalismo che sostengono movimenti ‘ambientalisti’, i quali nei
fatti tirano la volata a un deterioramento su vasta scala delle condi-
zioni materiali di vita di larghi strati della popolazione, senza mettere
in discussione i divari e le disuguaglianze crescenti, non deve stupire:
è un fenomeno speculare e sovrapponibile al finanziamento da parte
del padronato dei ‘sindacati gialli’ nel conflitto novecentesco e conse-
quenziale all’emersione del conflitto capitale/ambiente come corolla-
rio di quello fra capitale e lavoro. Come servivano ‘sponde’ per
frammentare il fronte del lavoro salariato, così oggi ne servono per
marginalizzare e ridicolizzare chi contesti la perpetuazione di un mo-
dello che si basa sulla razzia delle risorse comuni, sulla distruzione del
pianeta e sullo sfruttamento del lavoro.
La riduzione dell’impronta antropica in ogni ambito è quindi una
necessità strutturale di una società riorientata su basi nuove e tale pro-
spettiva è intrinsecamente in opposizione alla concezione di tutela am-
bientale come ambito circoscritto e come fatto esclusivo, con la logica
della riserva appunto: non siamo sulla stessa barca e le rinunce non
sono tutte uguali. Come non si intendono fornire alibi al parassitismo
politico e alle classi dirigenti che ci hanno portato dove siamo, così
non intendo confinare l’articolazione della mia prospettiva all’angusto
spazio retorico della decrescita e dell’indiretta o surrettizia legittima-
zione di una qualsivoglia forma di livellamento verso il basso della
qualità della vita, sostenendo piuttosto un riposizionamento basato cer-
tamente sulla sobrietà, ma in grado di coniugare benessere diffuso e
buona occupazione. Il sistematico disinvestimento e il drammatico ab-
bandono delle infrastrutture per il benessere collettivo93 (scuola, al-
loggi popolari ma anche reti energetiche efficienti, acquedotti che non
disperdono l’acqua, reti fognarie e di depurazione, centri di riciclo per
93
Cfr. Marco Bersani, La rivoluzione della cura. Uscire dal capitalismo per
avere un futuro, Alegre, Roma, 2023.
99
i rifiuti, trasporti pubblici, lotta al dissesto idrogeologico, presìdi sa-
nitari di prossimità…) dimostra come l’austerità, veicolata tramite l’in-
tegrazione europea, sia un’opzione di strutturale composizione del
conflitto distributivo a favore delle classi dominanti: alla sfrenata opu-
lenza dissipatrice di queste ultime si affianca la gran parte della popo-
lazione cui vengono negate esigenze di base per una collettività che
voglia dirsi civile, abbassando progressivamente la qualità della vita.
100
CONCLUSIONI: ESCURSIONI E SORTITE LUNGO
IL SENTIERO NIDI DI RAGNO
94
Per un approfondimento su questi temi si rinvia al capitolo Treblinka in Maria
Giacometti, Balthazar: ovvero, perché il male?, ETS, Pisa, 2022, p. 197. Il ri-
ferimento è all’eterna Treblinka di cui parla Charles Patterson nell’omonimo
libro (Editori Riuniti, 2015).
95
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/rivista-indipendenza/
101
dovrebbe aver chiarito che lo sganciamento dal carro del mercantilismo
tedesco (euro/UE) e dell’imperialismo bellicista statunitense (NATO),
lungi dal rappresentare istanze ‘rivoluzionarie’ sono in realtà i pre-
supposti minimi per garantire alla nostra comunità nazionale l’incolu-
mità: un fatto di mera sopravvivenza.
Si è cercato in queste pagine di prestare attenzione in termini tra-
sversali alle nozioni di sistema e di struttura, sull’assunto che orga-
nizzare un apparato industriale pubblico non possa avere esiti
favorevoli, se non affiancato a un’idea di società e a un’istanza di tra-
sformazione, fuori da ogni spontaneismo. Certamente è essenziale
mappare e monitorare ogni intuizione ed esperienza innovativa; tutta-
via, senza un apparato di sostegno, esse non potranno mai essere re-
plicate in termini sistemici e coordinati. Ciò apre alla necessità di
tenere presente il ruolo della rappresentanza politica, intesa non solo
come sede per far valere le istanze qui promosse ma anche, e conte-
stualmente, per beneficiare di quei mezzi burocratici per organizzarne
l’attuazione: uffici, segreterie, sedi, accessi ai contributi sono fattori
essenziali; di qui la necessità di attualizzare la lezione di Palmiro To-
gliatti sull’entrismo e sulla necessità di inserirsi negli apparati istitu-
zionali a ogni livello con un’organizzazione di quadri dotata delle
competenze tecniche e di una contestuale formazione politica, per dare
concretezza a tali linee d’indirizzo.
Ho mutuato il titolo di queste conclusioni da quello utilizzato per la
mia tesi di laurea con l’intendimento di voler idealmente collegare
l’epilogo di due tappe, la ricerca per la conclusione degli studi univer-
sitari e questa monografia, con una delle più belle immagini che la let-
teratura italiana del secondo dopoguerra ci ha regalato: la prospettiva
storica delle vicende dei singoli, le contraddizioni insite in ogni movi-
mento che abbia l’ambizione di organizzare l’agire collettivo e anche
una certa vicinanza fra la generazione che ha subìto l’oppressione na-
zifascista e l’attuale. Appartengo ad una classe anagrafica che è uscita
dall’adolescenza conoscendo solo un orizzonte recessivo, regressivo e
di deflazione salariale, senza alcuna effettiva prospettiva esistenziale
collettiva che non fosse la precarietà, unico collante sovraindividuale.
Tutto ciò nel quadro di un’inedita inversione di rotta, cioè la fine del
miglioramento incrementale delle condizioni materiali di vita fra una
generazione e un’altra. Oggi è necessario esigere e rivendicare –dopo
anni di sacrifici, studi e vessazioni– accanto alla propria emancipa-
102
zione il compito di assumere un ruolo che non sia l’indulgenza ai gio-
vanilismi né la questua di spazi individuali e collettivi. A tale dinamica
chi scrive intende contribuire: ci è stato già sottratto troppo tempo ed
è ora di smetterla di abituarsi alla retorica del migliore dei mondi pos-
sibili. Per queste motivazioni si è cercato di affiancare all’analisi l’am-
bizione di suggerire e declinare degli spunti, per avviare un’iniziativa
politica che, per quanto impervia, possa definirsi concretamente per-
corribile nel tentativo di articolare una proposta attorno alla quale rior-
ganizzare forze, idee e iniziative o, quantomeno, attivare in merito un
dibattito che porti a esiti ulteriori e migliori, poiché è evidente che le
sfide che si presentano innanzi non ammettono alcun avventurismo né
improvvisazione, necessitando viceversa del più meticoloso studio teo-
rico e della più rigorosa organizzazione.
Assumere una prospettiva che miri a contrastare senso comune e
pigrizia intellettuale è il tentativo che si è cercato di portare avanti in
queste pagine: quale ne sia il risultato, tale fronte di impegno è da col-
tivarsi a prescindere dall’efficacia argomentativa di queste battute. Sap-
piamo che dobbiamo ricostruire un nuovo modo di stare insieme e di
essere società, ma la mole di macerie è soverchiante e ciò che posso au-
spicare è di aver dato un piccolo contributo per capire da dove ripar-
tire, da dove riprendere il filo.
L’ossatura concettuale di questo lavoro era stata oggetto di un pro-
getto di dottorato di ricerca bocciato in diversi atenei; non ho mai avuto
dubbi sull’importanza trattati in questa sede tant’è che, pur tra varie
difficoltà organizzative e logistiche, i tratti essenziali di ciò che avevo
in testa diventano –in ritardo– accessibili, magari in maniera meno ele-
gante ma la sostanza è quella che avete fra le mani: laddove mai essi
entrassero a qualche titolo nel dibattito pubblico nei termini che io qui
tratteggio, avremmo una nuova, ennesima, riprova che «la storia del-
l’umanità è piena di eterodossie, eresie, opinioni di minoranza che si
sono poi rivelate utili» come candidamente evidenziò Michele Serra96
nel legittimare le iniziative governative in materia di lasciapassare ‘sa-
nitari’. Ciò evidentemente non per merito mio, quanto per la natura
stessa delle dinamiche storiche e collettive. Forse non sarà così, forse
siamo davvero a una ‘fine della storia’, ma chi intenda rivendicare un
ruolo di direzione politica delle forze di alternativa non potrà esimersi
96
Michele Serra, Rivoluzione a costo zero, in la Repubblica, 26 marzo 2021.
103
dall’assumere prospettive impopolari –termine non a caso sovente e
impropriamente sovrapposto ad ‘antipopolari’– nel tentativo di tra-
smettere messaggi in grado di tratteggiare prospettive differenti, insi-
nuare dubbi e modificare i tratti del discorso pubblico.
La ‘fiaccola della resistenza’ –per tornare alla medaglia d’oro tre-
vigiana– andrà nuovamente sollevata. Prima, però, dovremo accen-
derla e adesso il nostro compito è quello di preservare gelosamente la
fiammella per farlo. Noi ci siamo!
104
Bibliografia essenziale
105
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2022.
106
INDICE DEI NOMI
107
Mastrandrea Angelo 11n, 74n, Settis Salvatore 57n
93n Sileoni Lando Maria 63
Mattarella Sergio 81 Silva Francesco 21n
Mattei Enrico 84 Stravrides Stavros 11n
Mattei Ugo 16 e n Tesauro Giuseppe 34n, 38n
Mestriner Arianna, 20 Togliatti Palmiro 102
Mezzo Fabrizio 84n Tortelli Alberto 20
Monti Mario 9, 34 e n, 39, 61 Tricarico Antonio 29n
Mosca Cerina Monica 20 Trichet Jean-Claude 9
Mosca Francesco 20 Trivellin Mauro 13, 19
Nava Gregory 45n Uccello Elisabetta 20
Nichele Maria Ester 20 Van Miert Karol 34, 112
Olivetti Adriano 54, 82 Varsori Antonio 22n
Padoan Jari, 20 Vesperini Giulio 36n
Padoan Pier Carlo 63 Viaro Silvia 19
Paganetto Luigi 33n, 36n Vriz Martina 20
Pagliarin Carola 13, 19 Zaia Luca 64
Pajno Alessandro 36n Zampieri Fabrizio 20
Panagiotis Grigoriou 11n Zezza Cristina 20
Patterson Charles 101n Zorzi Alessandra Alice 20
Patuanelli Stefano 60
Pinochet Ugarte August José
Ramón 13, 26n
Porcaro Mimmo 51n
Pucciarelli Matteo 11n
Rabbito Nunzio 20
Rabbito Onos Maria 20
Reding Viviane 35n
Renzi Matteo 41
Rognoni Virginio 69
Romeo Dario 11n
Rutelli Francesco 84
Saba Umberto 101
Salgari Emilio 96n
Sankara Blandine 49n
Sankara Thomas 17
Scaggiante Edoardo 20
Serra Michele 103
108
XI ASSEMBLEA. TESI DI “INDIPENDENZA”
SU
INTERVENTO PUBBLICO E MODELLO ECONOMICO
109
pressione: dall’efficienza energetica degli edifici, a traghetti più effi-
cienti per collegare le isole, passando per i mezzi pubblici per le nostre
città e la rete ferroviaria in particolare regionale, fino al ripensamento in-
frastrutturale e costruttivo delle opere pubbliche (reti idriche, fognarie e
di depurazione...). Potenzialmente infiniti sono gli ambiti nei quali in-
tervenire e sviluppare possibilità di lavoro pulito e legale.
110
Il sigillo sulla liquidazione dell’industria pubblica è stato poi posto
con gli accordi Andreatta/Van Miert (1993), rispettivamente ministro
del Tesoro e commissario europeo alla Concorrenza, tramite i quali si
è scientemente programmato il più vasto e articolato programma di
privatizzazioni mai attuato in un Paese dell’occidente europeo, para-
gonabile solo a quello di Margaret Thatcher, al di fuori di qualsiasi di-
battito democratico financo formale. Accanto al divorzio fra Banca
d’Italia e Tesoro, che vide protagonista lo stesso Andreatta, è sicura-
mente lo snodo di politica economica più rilevante dell’ultimo quarto
del ventesimo secolo, nella prospettiva di consegnare mani e piedi il
Paese all’integrazione monetaria europea.
Riteniamo che gli snodi irrinunciabili per un riorientamento del si-
stema economico siano da un lato l’impresa pubblica nei tratti qui cir-
costanziati ed il controllo pubblico sul movimento dei capitali e dei
tassi di interesse tanto sul debito pubblico che su quello privato (co-
siddetta repressione finanziaria). Certamente tali leve, che devono es-
sere inserite in una rinnovata politica doganale, commerciale e fiscale,
sul piano delle trasformazioni di paradigma sono imprescindibili.
111
1. prevedere la presenza di lavoratori eletti nei consigli di ammini-
strazione e in tutti gli organi collegiali direttivi, favorire l’azionariato
dei dipendenti nelle imprese, prevedere fattivi e concreti strumenti per
il recupero e la riconversione delle imprese da parte delle maestranze;
112
6. gestire in modo efficiente e produttivo le confische da reato,
tanto per i reati comuni che per quelli di stampo mafioso, garantendo
la reimmissione rapida di tali beni nella disponibilità della collettività
mediante apposite deleghe e assessorati permanenti dei comuni inca-
ricati di individuare e controllare i soggetti beneficiari e destinatari
nonché i progetti economici e sociali da sviluppare;
113
cipative e democratiche. Data tale cornice, gli assetti gestionali pos-
sono senz’altro essere devoluti a corpi intermedi e organizzazioni so-
vraindividuali su base decentrata, mediante meccanismi di controllo
sia istituzionali che partecipativo-collettivi.
Tali principi possono declinarsi nei più svariati ambiti: dal credito
con il rilancio di crediti cooperativi e casse rurali, alla produzione ener-
getica con lo sviluppo di comunità energetiche basate sulle fonti rin-
novabili fino allo sviluppo del turismo lento mediante cooperative o
gruppi di acquisto di terreni per il recupero di borghi e località abban-
donate, nonché con la municipalizzazione degli stabilimenti balneari
affidati a cooperative di lavoratori da affiancare alla tutela delle con-
cessioni di piccole imprese o a conduzione familiare, previ accerta-
menti da parte dello Stato delle singole situazioni.
Occorre prestare grande attenzione alla retorica dei ‘beni comuni’
anzitutto perché essa spesso maschera una pregiudiziale antistatale del
tutto inaccettabile, fornendo nei fatti una sponda alle frange del capi-
talismo che, pur di preservarne la struttura di fondo, prefigurano un’ac-
centuazione delle dinamiche privatistiche.
Non vi è dubbio che vi siano risorse materiali e immateriali (aria pu-
lita, acqua marina e potabile, energia solare, suolo fertile, ricerca scien-
tifica e tecnologica, paesaggio, beni culturali e architettonici…) che
debbono essere fruibili e al servizio della collettività umana nel suo
insieme; altrettanto, però, va riaffermata la potestà normativa e legi-
slativa dello Stato su tali ambiti.
Fatte tali premesse di cornice, specifici ambiti già oggetto di usi ci-
vici (diritti di pascolo, legnatico, valli di pesca, appezzamenti pubblici a
uso agricolo…) potranno essere oggetto di specifici interventi per la loro
tutela e fruizione collettiva nel rispetto della preservazione degli speci-
fici equilibri ambientali e rigenerativi. Non di rado, su tali ambiti, si con-
centrano rendite parassitarie e depauperamento del patrimonio collettivo
che dovranno essere combattute proprio con un intervento pubblico di-
retto: valga in questo senso il solo esempio dell’industria di imbottiglia-
mento dell’acqua minerale che corrisponde dei diritti (royalties) ridicoli
se non puramente simbolici agli enti pubblici, immettendo nel mercato
enormi quantità di plastica usa e getta che poi la stessa collettività deve
farsi carico di gestire, smaltire e trattare.
Un riorientamento del modello economico che combatta la plastica
usa e getta, ponga fine al saccheggio del nostro enorme patrimonio di
114
acque minerali e termali, contrasti le multinazionali che controllano
tale mercato, non potrà che passare attraverso un intervento gestito
dallo Stato; diversamente, qualsiasi proclama sui ‘beni comuni’ e sul-
l’affrancamento dalla plastica non resterà che un auspicio per anime
belle.
115
3. Dovranno essere digitalizzati e resi fruibili gli archivi audiovisivi
della RAI, nonché create piattaforme cinematografiche pubbliche a
domanda.
V. Il quadro istituzionale
116
borazione normativa sia di primo che di secondo livello (regolamenti,
protocolli, accordi collettivi) nelle materie di competenza in grado di
garantire un confronto fattivo e leale fra le categorie economiche, so-
ciali e i corpi intermedi (sindacati, associazioni datoriali, associazioni
di categoria etc…).
117
canismo della gara e consentendo così il risparmio di spese di aggiu-
dicazione, pubblicità, lobbying, garanzie contro fallimenti e procedure
concorsuali che hanno portato a un vero e proprio cimitero di opere
incompiute ad ogni latitudine.
Indipendenza
(XI Assemblea, Roma, 8 ottobre 2022)
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Stampa: Legatoria Corti di Fabrizio Salvatore
Via F. Ozanam, 110 - 00152 Roma
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