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Storia e Società

Emanuela Scarpellini

La stoffa dell’Italia
Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Editori Laterza
© 2017, Gius. Laterza & Figli

www.laterza.it

Prima edizione giugno 2017

Edizione
1 2 3 4 5 6
Proprietà letteraria riservata
Anno Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
2017 2018 2019 2020 2021 2022
Questo libro è stampato
su carta amica delle foreste

Stampato da
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-581-2762-9

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parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche
ad uso interno o didattico.
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a disposizione i mezzi per fotocopiare,
chi comunque favorisce questa pratica
commette un furto e opera
ai danni della cultura.
Questo libro è dedicato a mia madre Irma,
con infinito affetto
PREMESSA

Il più antico poema epico che conosciamo, apparso in Mesopo-


tamia oltre quattromila anni fa, narra le imprese del mitico re Gil-
gamesh. E anche quelle del suo amico Enkidu, creato da una dea
da un pizzico di argilla come eroe selvaggio e primigenio, del tutto
ignaro della società umana. Enkidu era forte come il dio della guer-
ra, il suo corpo era aspro e coperto di pelo arruffato, i suoi capelli
lunghi e ondeggianti come quelli di una donna. Si nutriva di erbe e
di latte come gli animali selvatici e si recava alle pozze d’acqua per
bere insieme alle gazzelle. E quando vedeva le trappole preparate dai
cacciatori di Uruk, le distruggeva, per proteggere i suoi pari. Terro-
rizzati, i cacciatori si recarono dal potente re Gilgamesh, che li fece
accompagnare sulla via del ritorno da una prostituta sacra. Questa
si appostò vicino alle pozze d’acqua, e quando vide Enkidu giacque
con lui per sei giorni e sette notti, insegnandogli l’arte dell’amore.
Alla fine l’eroe volle fare ritorno alle sue colline, ma le gazzelle lo
sfuggirono, non riconoscendolo più, e lui stesso si sentì debole e len-
to rispetto a loro, perché i pensieri avevano preso posto in lui. Allora
tornò indietro. La donna lo accolse con parole di conforto. Divise
le sue vesti, lo ricoprì, e lo portò in mezzo agli umani come se fosse
un dio. Enkidu mangiò pane e bevve vino per la prima volta, e ne
fu contento. Poi lisciò e pettinò il suo pelo arruffato, ungendosi con
olio. Infine indossò vesti da uomo ed era così bello da sembrare uno
sposo. Si mise quindi alla caccia di lupi e leoni, dicendo ai pastori
di dormire in pace, perché quella notte avrebbe fatto lui la guardia.
Enkidu, l’eroe della natura, era divenuto umano1.
Gli antichi non avevano dubbi sul significato degli abiti. Vestirsi è
l’ultimo atto del percorso iniziatico che porta il semidio ferigno a di-

1 L’epopea di Gilgameš, a cura di N.K. Sandars, Adelphi, Milano 1986, pp. 86-92.
­viii Premessa

venire un eroe umano, unendo alla sua incomparabile forza l’attri-


buto della bellezza. L’abito appare come segno caratteristico della
differenza tra mondo degli uomini e mondo degli animali. Per noi,
abitanti del ventunesimo secolo, questo ruolo culturale non sem-
pre è chiaro. Quando pensiamo ai vestiti, magari pensiamo alla
moda, agli abiti nelle vetrine, alle modelle in tv e sui social media,
a forme e colori che cambiano da una stagione all’altra. L’effica-
cia e la pervasività della comunicazione mediatica sembrano avere
sommerso tutti gli altri significati. Eppure questi non sono spariti.
Perché, a pensarci bene, una persona vestita in un certo modo ci
fornisce indirettamente vari messaggi: ci parla del suo status socia-
le, delle sue scelte culturali, del suo lavoro, ci ricorda il suo genere,
l’età, a volte il gruppo di appartenenza, persino le sue preferenze
politiche, sportive, musicali (stampate magari su magliette o felpe).
Solo che spesso questo significato culturale del vestire è un po’
nascosto, sfuggente, complicato da decifrare in società complesse
come le nostre. Ma è sempre là, strettamente legato ai codici di
valore sviluppati storicamente da una comunità. Per questo il pri-
mo passo per capire lo sviluppo della moda in un dato periodo è
cercare di afferrarne prima il senso culturale profondo.
Ma è solo il primo passo, appunto. Gli oggetti quotidiani di
cultura materiale sono infatti particolari: sono ricchi di significati
culturali e allo stesso tempo hanno una loro fisicità, devono esse-
re fabbricati. E quindi dicono molto contemporaneamente sia su
valori e simboli di una società, sia sugli aspetti economici e tecnici
legati alla loro produzione. In altre parole, è come se fossero la ma-
terializzazione fisica di una cultura. Perciò gli abiti sono differenti
anche a seconda delle forme di organizzazione economica che li
producono. E allora potremmo notare nel vestito che abbiamo di
fronte alcune peculiarità della produzione italiana contemporanea.
Peculiarità che derivano da una sofisticata struttura che ha origine
in diffuse capacità sartoriali, nella presenza di laboratori e piccole
imprese che popolano i distretti, nelle capacità innovative di alcune
grandi industrie e nell’estro di due generazioni di stilisti. Cerchere-
mo così di fare luce su di un “mistero”: come e perché è nata una
moda italiana, quando nessuno se lo sarebbe mai aspettato? Come
sono riuscite Roma e Firenze prima, ma soprattutto Milano poi, a
imporsi come capitali della moda globale? E perché questo è avve-
nuto in un certo momento storico? E infine, pensando al futuro, è
Premessa ix

un successo passeggero o poggia invece su basi solide per cui si può


guardare avanti con una certa fiducia? Il nostro viaggio nella moda
cercherà di dare risposte a queste domande.
Ma gli abiti ci parlano anche di tecnologia. Ammirando un’au-
tomobile d’epoca, oltre al piacere di osservare un bell’oggetto re-
trò, abbiamo ben presenti i grandi miglioramenti tecnici avvenuti
nel tempo. Ebbene, lo stesso vale per l’abbigliamento. I vestiti dei
nostri nonni o bisnonni erano fatti di semplici fibre naturali, che
però avevano molti limiti. Intanto erano più rigidi e pesanti, con
stoffe tessute meno finemente, erano poco elastici, non si tinge-
vano dei mille colori che usiamo ora, potevano sbiadirsi con l’uso
e i lavaggi, non traspiravano, non erano impermeabilizzati o anti-
macchia, facevano molte pieghe, non si asciugavano mai e alla fine
tenevano meno caldo, o freddo, dei capi di oggi. Anche qui, un
occhio attento vedrebbe facilmente il risultato prodotto da nuove
fibre e materiali, lavorazioni innovative, processi di stampa e rifi-
nitura una volta impensabili. Insomma, i nostri abiti odierni sono
veri e propri manufatti tecnologici. E anche di questo andremo al-
la scoperta, considerato il ruolo giocato dalle produzioni italiane.
E poi incontreremo la politica, la rivoluzione giovanile, lo
sport, la globalizzazione, la rete, la finanza e altro ancora, perché
un po’ tutto si intreccia con il vestire. La speranza, alla fine, è di
scoprire il vasto mondo che si cela dietro alle immagini patinate e
riuscire a guardare alla moda italiana con occhi diversi.

Questo libro è frutto di vari anni di ricerche in biblioteche specia-


lizzate, centri di ricerca, archivi di impresa e di stilisti, sparsi in Italia
ed Europa, e di lavoro sul campo con interviste e osservazioni. Per le
ricerche negli Stati Uniti, una speciale menzione va al Center for the
History of Business, Technology, and Society di Hagley, in particolare
a Roger Horowitz, e al Lemelson Center for the Study of Invention
and Innovation dello Smithsonian Institution di Washington, soprat-
tutto ad Art Molella, per il supporto ricevuto. Ma molti sono gli enti
e soprattutto le persone incontrate che hanno fornito aiuti, consigli,
spunti utili per il lavoro. A tutti va un ideale ringraziamento.
A Paolo, infine, come sempre, un grazie del tutto speciale.

Milano, aprile 2017 E.S.


LA STOFFA DELL’ITALIA
STORIA E CULTURA DELLA MODA DAL 1945 A OGGI
I

I SIGNIFICATI CULTURALI DEL VESTIRE

1. La funzione sociale ovvero abiti e classi

“Nella vita di una società i misteri più profondi stanno in


superficie”1. Così il rivoluzionario Aleksandr Zinovev iniziava un
suo scritto, con una considerazione che sembra perfetta per la moda.
Perché l’abbigliamento è davvero una chiave, forse insospettata, per
comprendere la cultura di una società. Tanto che per capire come
e perché sia nata una moda italiana, e perché abbia avuto successo,
dobbiamo prima esplorare i misteri di cui parla Zinovev. Se è vero
infatti che l’abbigliamento è profondamente intessuto dei valori cul-
turali di una società, allora il suo sviluppo non si può comprendere
senza avere prima decodificato il suo significato simbolico – e pro-
prio da qui allora partiremo.
Mancia e vivi a gustu to’, causa e vesti a gustu d’autru (mangia e
bevi a gusto tuo, calza e vesti a gusto degli altri), dicono in Sicilia.
Il proverbio coglie bene l’aspetto forse più evidente che emerge da
una qualunque fotografia di abiti: vestirsi ha un forte significato so-
ciale. Il nostro abbigliamento rivela molte cose di noi, già al primo
sguardo, dal momento che viviamo in una collettività organizzata e
strutturata secondo regole precise (abbigliamento compreso).
Questo aspetto aveva già attirato l’attenzione di grandi studiosi
oltre un secolo fa: ad esempio, il sociologo tedesco Georg Sim-
mel scelse la moda come paradigma per spiegare i meccanismi più
profondi della società moderna. Noi tendiamo a imitare gli altri,

1 A. Zinovev, Gli effetti di un sistema, introduzione a K. Chenkin, Il cacciatore

capovolto. Il caso Abel, Adelphi, Milano 1982, p. 1.


4 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

per il nostro bisogno di appartenenza a un determinato gruppo


sociale; allo stesso modo, vogliamo anche distinguerci e affermare
la nostra individualità, staccandoci in parte dal gruppo. In questa
irrisolta ambivalenza di imitazione/differenziazione c’è la chiave
per comprendere la moda, e anche tutto l’agire umano. In pratica,
questo comporta che le persone appartenenti a un certo gruppo so-
ciale si vestano secondo canoni simili, in modo da distinguersi dagli
altri gruppi, salvo alcune peculiarità individuali; le classi sociali
inferiori tendono a imitare tali comportamenti – ma nel momento
stesso in cui certe forme vengono fatte proprie da tutti, allora le
classi superiori le abbandonano e ne cercano di nuove, così il ciclo
ricomincia. È la base della teoria del trickle down, delle tendenze
che scendono dall’alto verso il basso, delle “mode di classe”, come
dice Simmel2.
Vestirsi seguendo certe regole è visto quindi come parte integran-
te delle forme di “cerimoniale” che sono alla base delle relazioni
umane3. Ma perché è così importante questa apparenza? Un altro
grande studioso di fine secolo, questa volta un economista ameri-
cano, Thorstein Veblen, nel suo tentativo di disegnare un quadro
complessivo della nuova società emersa dalla Rivoluzione industria-
le, dedica alla moda un intero capitolo del suo libro. Il potere e
la ricchezza non bastano da soli per guadagnarsi prestigio sociale:
devono essere mostrati. E allora cosa c’è di meglio che un vestito
di lusso? Si esibisce la propria agiatezza, sfoggiando un consumo
inutile e vistoso, “ostentativo” appunto; e si dimostra anche con le
fattezze dell’abito che non si è costretti a lavorare ma ci si dedica al
divertimento, al leisure (basta indossare scintillanti scarpe di verni-
ce, abiti immacolati, cappelli ingombranti, oppure vestiti adatti più
a sport elitari che al lavoro)4. Un guardaroba adeguato prevedeva
anche quattro o cinque cambi al giorno, per essere perfetti in ogni
occasione: passeggiata in città, sport, tè pomeridiano o visita da ami-
ci, ristorante, feste di gala e teatro d’opera.

2 G. Simmel, La moda (1905), in Moda e metropoli, Piano B Edizioni, Prato 2012,

pp. 9-12.
3 H. Spencer, The Principles of Sociology, vol. 2, D. Appleton and Company, New

York 1898 (1876), Part IV. Ceremonial Institutions.


4 T. Veblen, The Theory of the Leisure Class (1899), Macmillan, New York 1915,

pp. 36, 167-171.


I. I significati culturali del vestire 5

Questo era diventato tanto più importante quanto più la vec-


chia società divisa in ceti rigidamente distinti era sparita e nuove
improvvise ricchezze avevano stravolto l’equazione che da sempre
informava la struttura sociale: il rango equivale alla ricchezza. Per
non sbagliare, per secoli le leggi suntuarie avevano fissato meticolo-
samente il tipo di abiti, le stoffe, i gioielli, persino i colori che ogni
ceto era autorizzato a portare. Basta fare un giro nei musei e osser-
vare i tanti ritratti di nobili o alto-borghesi, con i loro fastosi abiti di
seta, velluto, pizzi e merletti, decorati con nastri, ricami e ghirlande
e arricchiti di gioielli e con le loro sofisticate acconciature, e confron-
tarli poi con i rari quadri che ritraggono popolani, con spogli vestiti
di cotone, dai colori smorti, mal tagliati e mal cuciti, per capire che
erano due mondi diversi, incommensurabili, incomunicabili. Con il
tempo, tutto questo finì. Nelle moderne metropoli gli stili si confon-
devano ed era più difficile far vedere agli altri la propria ricchezza,
vecchia o nuova. Ecco allora che il vestirsi poteva ristabilire in modo
appropriato le distanze sociali.
Certo, una volta era più semplice e si riconosceva il rango di una
persona a distanza. Ora invece il gioco è più complicato, sottile. Ma
– ci avverte Veblen – per funzionare deve essere altrettanto decodi-
ficabile agli occhi di chi osserva.
Se volessimo iniziare il nostro viaggio alla scoperta della moda
e dell’abbigliamento degli italiani a partire dagli anni Cinquanta e
primi Sessanta, cosa scopriremmo? Troveremmo un riscontro ri-
spetto a questi temi sociali? Assolutamente sì. Le foto che risalgono
a questo periodo dipingono un quadro dove le differenze sociali
sono evidenti: la prima deduzione che un osservatore potrebbe fare
è proprio che i vestiti possiedono una forte connotazione gerarchi-
ca. Esistono vari elementi che ci dicono questo. In primo luogo,
la qualità degli abiti: osservando per esempio alcune fotografie dei
passanti per strada e altre che ritraggono uomini a una festa (ap-
paiono sullo sfondo di una fotografia scattata alla cantante Maria
Callas a Ischia nel 1957), si notano le stoffe pregiate e il taglio
perfetto degli abiti di questi ultimi, la stiratura, le camicie bianche
immacolate, le cravatte strette e ben annodate, il fazzoletto che
esce dal taschino e così via5. E lo stesso vale naturalmente per le

5 Archivio storico Alinari, Maria Callas ad Ischia durante un ricevimento, foto

Istituto Luce, DAD-S-000021-0062, Ischia 1957.


6 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

donne. Sono tutti elementi, questi, che mancano in tutto o in parte


nelle foto dei comuni passanti.
In secondo luogo ci sono gli accessori. Scriveva la giornalista
Colette Rosselli, autrice con lo pseudonimo di Donna Letizia di
un galateo di grande successo: “Sono gli accessori, guanti, borset-
ta, profumo, che denunciano prima di tutto l’eleganza della vera
signora”6. In un’altra fotografia della Callas del 1956, la cantante è
ritratta seduta, con indosso una lucida pelliccia di visone, un cap-
pellino ricoperto di fiorellini bianchi a cascata contornati da una
veletta, una collana (che appena si intravede), orecchini pendenti
di brillanti, lunghi guanti bianchi e un trucco sottolineato. L’insie-
me suggerisce un’immagine molto sofisticata. Non si può vedere la
borsa (da sempre elemento di grande rilievo nell’abbigliamento, da
coordinare rigorosamente con le scarpe) e neppure sentire il profu-
mo, se c’era. Ma ci basta.
Gli accessori sono elementi importanti nella costruzione so-
ciale del vestire anche se a volte non sono elementi molto costosi;
il loro significato è soprattutto simbolico. Prendiamo il cappello.
Di origini antichissime come protezione per il capo, in pelliccia
o pelle di animale, ha conosciuto uno sviluppo incredibile nei
secoli, assumendo le forme più svariate: cuffie, tocchi, calotte,
caschi, berrette, bibi, toque, cilindri, bombette, chepì, turbanti,
colbacchi, tricorni, pagliette7; morbidi o rigidi, sobri o carichi
di piume, nastri e ornamenti; alti o schiacciati, rigidi o morbidi,
con falde ampie o strette, e praticamente di tutte le pelli e tessuti
immaginabili: da semplici protezioni, i cappelli sono diventati
segnali di status e riconoscimento. Non a caso sono spesso raf-
figurati negli scudi araldici di nobili ed ecclesiastici8; e sempre
non a caso un cappello, precisamente un berretto frigio (por-
tato nell’antica Roma dagli schiavi liberati, e quindi simbolo di
libertà), divenne uno degli emblemi della Rivoluzione francese.
Tornando agli anni Cinquanta, per gli uomini di classe medio-

6 Donna Letizia (C. Rosselli), Il saper vivere di Donna Letizia (1960), Rizzoli,

Milano 2007, p. 239.


7 Sulla terminologia riguardante i cappelli, e la moda in generale, vedi G. Sergio,

Parole di moda. Il “Corriere delle Dame” e il lessico della moda nell’Ottocento, Franco
Angeli, Milano 2010 (in particolare il glossario finale).
8
Cappello, s.v., Enciclopedia Treccani online, http://www.treccani.it/enciclope-
dia/cappello.
I. I significati culturali del vestire 7

alta era il regno dei cappelli morbidi di feltro con cupola floscia,
tipo il modello Homburg che il principe Edoardo d’Inghilterra
aveva lanciato nel 18909; mentre operai e popolani indossavano al
massimo semplici berretti o baschi. Ugualmente le donne di alta
classe avevano un fornitissimo guardaroba di cappellini piccoli e
preziosi, da mettere nelle serate di festa e a teatro (come quello
che indossa la Callas) oppure ornati con mille fiori, nastri, veli,
pizzi, accessori fantasiosi; e ancora ampi cappelli a tesa larga. Ma
non erano per tutte, come ricorda Alessandra: “le belle signore
[...] portavano il cappello. Mi piaceva guardarle; [erano] tutti
a falda larga”10. Già, perché per le altre donne, salvo occasioni
davvero speciali, il copricapo era dato da semplici cuffie o fazzo-
letti di varie fogge, oppure da niente del tutto. Dunque, un solo
sguardo alla testa diceva molto. Ma perché questa importanza del
cappello? È facile rispondere pensando alla particolare rilevanza
che il capo ha rispetto al corpo: la copertura e l’ornamento del
capo sono immediatamente visibili. Molti cappelli sono ampi, e
ciò conferisce visibilità; sono molto decorati, e ciò conferisce pre-
stigio (dovuto alla ricchezza); sono molto alti, e ciò conferisce au-
torità (legata al pregio sociale dell’altezza). Ed è inutile ricordare
che l’oggetto che per eccellenza incarna l’idea di potere e regalità
è proprio un ornamento del capo, la corona. Per questo stesso
forte significato simbolico, coprirsi il capo è un segno importante
nella pratica di molte religioni; in questo caso però il copricapo
deve essere modesto, perché rappresenta un segno di rispetto e
sottomissione alla divinità.
La copertura legata al culto più diffusa era certamente il velo.
Nelle cerimonie religiose, e in generale dentro una chiesa, le donne
dovevano essere coperte, possibilmente non da vistosi cappelli ma
da semplici veli. Sempre. Fa impressione constatarlo oggi, in un pe-
riodo in cui il velo è diventato simbolo della condizione della donna
musulmana, ed è al centro di feroci battaglie politiche. Ma la verità
è che il velo o il panno in testa hanno accompagnato da sempre la
donna nella cristianità: segno di pudore, onorabilità, ceto sociale,
stato civile. Per secoli il capo della donna è stato uno dei luoghi

9G. Berengan, Favolosi cappelli, Maurizio Tosi Editore, Ferrara 2007.


10Intervista ad Alessandra P.A. nata nel 1928, effettuata a Roma nel luglio 2014
da G. Incalza.
8 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

di creazione di significati sociali, e ha mantenuto una forte conno-


tazione religiosa. Un giudizio consapevole sulle polemiche odierne
dovrebbe tenere conto anche del posto che il velo ha avuto in Occi-
dente fino a pochi decenni fa11.
Un altro accessorio che ci ha colpito nella fotografia della Callas
sono i guanti: di stoffa bianca e lunghissimi. La storia dei guanti
è antica quanto quella dei cappelli (ne sono stati trovati esempla-
ri nelle tombe dei faraoni), e altrettanto interessante. Dapprima i
guanti erano di pelle di vari animali; in genere corti e solidi, tal-
volta senza dita, adatti per i lavori manuali, l’addestramento degli
animali (falconieri in testa), il combattimento; erano più leggeri
e decorati per le classi nobili. Dal XV secolo divennero di moda
anche i guanti di stoffa (seta, velluto, cotone, lino, spesso lavorati
a merletto), che permettevano maggiore fantasia di colori e forme,
riprendendo l’uso di ricami con fili d’oro e d’argento e l’inseri-
mento di pietre preziose. Più tardi si diffusero i guanti lunghi e dal
Rinascimento in poi vi fu la mania di indossare guanti profumati,
Italia e Francia in testa. Una cosa è certa: i guanti erano fondamen-
tali nell’abbigliamento. Per gli uomini lo erano perché dal medio-
evo facevano parte della cerimonia di investitura: simboleggiavano
l’onore personale e il legame stretto tra sovrano e cavaliere. Ecco
perché si poteva usare come simbolico gesto di sfida il “lancio del
guanto” (magari nella forma del guanto d’arma metallico). Per le
donne lo erano perché divennero simboli di status ed eleganza. Ad-
dirittura erano indossati non solo all’esterno, ma anche all’interno
delle case, e usati per mangiare, fare colazione, ricevere (in questo
imitate presto da molti gentiluomini). In pratica, non se li toglie-
vano quasi mai, semmai li cambiavano per adattarsi alla situazione
(alcune usavano anche sottilissimi guanti di pelle bianca per dor-
mire di notte, per mantenere le mani morbide e delicate)12. Di qui
molti proverbi, a volte giunti fino a noi, ad esempio, sul modo di
trattare con attenzione e raffinatezza (“in guanti bianchi”), a volte
persi nel tempo (come “usare i guanti gialli”, i più costosi a inizio
Novecento, talvolta usati fuori luogo dai nuovi ricchi). Certo è che

11 M.G. Muzzarelli, A capo scoperto. Storie di donne e di veli, il Mulino, Bologna

2016, pp. 7-17, 181-193; F. El Guindi, Veil: modesty, privacy and resistance, Berg,
Oxford-New York 1999.
12 V. Cumming, Gloves, Batsford, London 1982.
I. I significati culturali del vestire 9

la simbologia del guanto era ancora decisamente chiara negli anni


Cinquanta nell’attribuire prestigio sociale.
Oltre a qualità e preziosità degli abiti e ai vari accessori, c’è un’al-
tra categoria speciale, che potremmo definire come “moderni bla-
soni”. Si tratta di elementi che indicano chiaramente l’appartenenza
all’alta società, non solo per il loro significato simbolico, ma per
un valore di mercato che li mette fuori dalla comune portata. Un
esempio di “moderno blasone” è la pelliccia – proprio come quella
di visone che indossa la cantante nella foto citata. All’uso antichis-
simo di calda ricopertura, già dal medioevo si sovrappone quello di
ornamento di lusso: ermellino, vaio o petit-gris (scoiattolo nordico)
e volpe erano le più pregiate, adatte a re e nobili; ad esse in seguito
si aggiunsero le pelli dei grandi felini, simbolo di forza e regalità.
Il ceto medio-alto, che pure aspirava ad ammantarsi di pelli, si ac-
contentava di animali più comuni, come agnelli, cani, gatti, lepri,
scoiattoli, lupi e praticamente tutte le specie che capitavano sotto
mano. Con il passare del tempo le pellicce assunsero le fogge più
disparate, spesso non presentandosi più come solo indumento com-
pleto, ma sotto forma di fodere, cappelli, mantelli, manicotti, bordu-
re, cappucci. Sempre però erano segno di grande pregio e ricchezza.
La forza ostentativa di tali indumenti fece sì che essi si adattassero
poco al moderno “sobrio” abito maschile: cominciarono a limitarsi
ai colli dei cappotti, furono ancora esibite da qualche eccentrico
dandy (come Gabriele D’Annunzio), ma poi sostanzialmente spari-
rono. La stessa forza ostentativa le impose invece nell’abbigliamento
femminile novecentesco come massimo simbolo di ricchezza. Negli
anni Cinquanta non c’è signora che si rispetti che non sfoggi la sua
pelliccia e film e rotocalchi sono pieni di queste immagini13. Di pas-
saggio, al di là del significato sociale, notiamo che questo è solo un
aspetto del complesso rapporto tra esseri umani e animali che trova
una fondamentale espressione nell’abbigliamento e si manifesta in
molti modi.
Tutto ciò ci ricorda una cosa importante: se molti elementi del
vestirsi sono contingenti e passeggeri, molti altri vengono da molto
lontano e si sono stratificati nel tempo.

13 A. Municchi, Signore in pelliccia dal 1940 al 1990, Zanfi, Modena 1993; Id.,

L’uomo in pelliccia, Zanfi, Modena 1988.


10 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

2. Maschile o femminile?

Passato e presente, retaggi antichi e forme attuali. Anche per le


differenze di vestiario tra i generi si può dire la stessa cosa. Già,
perché se un’altra cosa emerge con assoluta chiarezza dalle imma-
gini storiche e non che abbiamo davanti agli occhi è la diversità di
abiti tra uomini e donne. È tanto ovvio che non serve neanche dirlo,
tanto chiaro che molti pensano sia questa una delle prime funzioni
dell’abbigliamento. Per analizzare questo aspetto, la cultura visuale
è fondamentale. Ma quali fonti vanno privilegiate?
Apriamo una parentesi. Un po’ tutti gli studi e i manuali che par-
lano di moda utilizzano le immagini pubblicate sulle riviste, e a volte
i film e le pubblicità. Sono fonti ricche, abbondanti e facili da repe-
rire; ma scontano il problema di essere una rappresentazione della
realtà filtrata dai media. Era proprio così in effetti? Per ricercare una
diversa angolazione, possiamo decidere di privilegiare altre risorse:
gli album fotografici privati, ad esempio, cioè le migliaia e migliaia
di immagini che le famiglie hanno scattato e conservato gelosamen-
te come loro memoria. Materiali una volta difficili da reperire, ma
che ora grazie alla rete fioriscono tutti intorno a noi. Certamente
sono anch’essi forme di rappresentazione secondo i correnti canoni
culturali e artistici14. Ma hanno un enorme vantaggio: sono un’au-
torappresentazione che viene dal basso, e non calata dall’alto; sono
l’immagine scelta e realizzata direttamente dai consumatori stessi, e
non importa se ci sono limiti tecnici. Dal punto di vista storico, sono
preziosissimi e, insieme alle interviste dirette, ci aiutano a ricostrui­
re la società da un punto di vista diverso, quello dei protagonisti,
per così dire. Per questo useremo spesso le foto private come guida
nel nostro viaggio, segnalandone la fonte, perché i lettori possano
ritrovarle e anzi costruirsi un autonomo percorso alla scoperta di
un patrimonio ricchissimo ma ancora poco valorizzato. E forse è
questo il modo migliore per illustrare la nostra storia. Cominciamo
dunque subito, da foto “quotidiane” che ci mostrano una normalis-
sima giornata festiva.

14 Cfr. ad esempio: G. De Luna, G. D’Autilia e L. Criscenti (a cura di), L’Italia del

Novecento: le fotografie e la storia, vol. 2, La società in posa, Einaudi, Torino 2006, in


part. i contributi di M. Ridolfi e S. Salvatici; Familia. Fotografia e filmini di famiglia nel-
la Regione Lazio, a cura di G. D’Autilia, L. Cusano e M. Pacella, Gangemi, Roma 2009.
I. I significati culturali del vestire 11

In una domenica d’estate degli anni Cinquanta vediamo ritratta,


a passeggio per il corso di Avellino, la famiglia di Luciano. Una foto
li mostra tutti schierati: Luciano al centro, con un completo scuro
giacca-pantaloni, camicia bianca, cravatta e occhiali da sole; a brac-
cetto la moglie, che indossa un elegante vestito forse nero con bordi
di pizzo bianco, un ampio cappello pure bianco, guanti e borsa a
busta scuri. Al loro fianco ci sono i bambini: un maschietto con
una camicia bianca e i pantaloncini corti che dà la mano al padre;
due bambine con vestitini fantasia a lato della madre15. Una bella
famiglia davvero. E una famiglia che, come tutte le altre, rispetta le
differenze di genere nel vestire.
Ma da dove vengono queste differenze così attentamente osser-
vate, per evitare il rischio di cadere nel biasimo sociale? E cosa si-
gnificano?
Certamente l’uso di marcare il genere con l’abbigliamento è an-
tichissimo ed è legato all’idea stessa del corpo che abbiamo. Senza
andare troppo indietro, si può notare come fino al XIV secolo le
differenze non fossero poi così grandi: le vesti ricche, lunghe fino a
terra e colorate che indossava Dante non erano poi così diverse da
quelle che metteva l’amata Beatrice. Ma intorno alla fine del medioe-
vo, al vestito drappeggiato si sostituisce l’abito tagliato e cucito (resta
solo l’ampio mantello a testimoniare il prestigio dei tessuti ricchi e
avvolgenti). Da quel momento il corpo delle donne cominciò a esse-
re sottolineato diversamente, con particolare allusione ai riferimenti
sessuali/erotici, con bustini stretti e l’uso delle gonne, mentre gli
uomini passarono a strette tuniche (farsetti), calzoni corti e calza-
maglie. Nei secoli successivi l’idea culturale del corpo della donna
si allontanò sempre più da quella del corpo maschile, e così fecero i
vestiti. Nell’Ottocento gli abiti femminili si trasformarono in piccoli
monumenti decorati, con stecche, busti e complesse impalcature per
garantire una forma quasi a mongolfiera, mentre gli uomini semplifi-
cavano la loro figura con pantaloni e marsine lunghe e attillate.
Alla fine dell’Ottocento, Veblen osservava con interesse e curio-
sità l’abbigliamento delle donne che vedeva in giro e si chiedeva:
ma perché è così diverso, scomodo e adornato? I cappelli ampi im-

15 La signora elegante, primi anni ’50, in Archivio fotografico “Avellino: la memo-

ria visiva del ’900”, http://www.avellinesi.it. Le foto citate in questo paragrafo sono
tratte per lo più dalla sezione “Passeggio”.
12 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

pedivano loro di vedere bene, le scarpe lucide con i tacchi alti “alla
francese” non permettevano movimenti rapidi e sicuri, le gonne che
si trascinavano a terra rallentavano il passo, i capelli lunghi erano
scomodi e difficili da tenere e – peggio di tutto – il corsetto rigido era
dannosissimo per la salute, una vera e propria mutilazione per il cor-
po. Per Veblen il motivo era chiaro. Le donne portavano agli estre-
mi il costume ostentativo, indossando abiti vistosi, costosi, sempre
nuovi e che di fatto impedivano qualsiasi forma di lavoro. In questo
modo esse dimostravano indirettamente la ricchezza del capofami-
glia con una forma di consumo vicario; il loro mondo principale era
quello della casa, la loro funzione quella di fare da ornamento per
l’uomo, vista la loro dipendenza economica16.
Simmel, che scrive più o meno in quegli stessi anni, è meno rigi-
do. Se è vero che la donna ha rivestito da secoli una posizione sociale
debole, allora questo spiega perché essa preferisca rimanere su un
terreno socialmente approvato, evitando di esporsi troppo come in-
dividuo e ricercando invece comportamenti accettati. La moda offre
un campo ideale: è possibile muoversi in un ambito del tutto sicuro,
ma allo stesso tempo sbizzarrirsi con forme e stili diversi e sempre
nuovi. In pratica, la moda rappresenta per le donne una forma di
compensazione per le mancate soddisfazioni nella vita professionale;
qui esse esprimono la loro individualità e creatività pur restando
sempre all’interno di canoni ben definiti e accettati di femminilità17.
A questo va aggiunto anche il fattore legato alla sessualità e all’eroti-
smo, per cui il vestito, mentre nascondeva, a volte suggeriva le forme
al di sotto, in un sottile gioco di seduzione a volte più potente della
nudità stessa (per l’ultimo Baudrillard, è proprio la seduzione il vero
segno distintivo delle società contemporanee, con la loro enfasi sul
consumo e lo spettacolo)18.
Fra parentesi, c’è un altro elemento che ricorre in queste prime,
importanti analisi sulla moda. E cioè il suo carattere ambiguo. Per
molti è uno spettacolo affascinante. È un segno del nuovo che avan-
za, della voglia di trasformarsi, degli incessanti mutamenti legati alla
vita stessa, quasi un simbolo della modernità di fronte a un passato
statico. Dall’altra intimorisce. Il suo flusso vitale sembra convertirsi

16 Veblen, The Theory of the Leisure Class cit., pp. 171-182.


17 Simmel, La moda cit., pp. 30-33.
18 J. Baudrillard, Della seduzione (1979), SE, Milano 1997, p. 42, passim.
I. I significati culturali del vestire 13

nel suo opposto, nella morte: Benjamin parla di “sex appeal dell’i-
norganico”, Leopardi, già prima, fa dialogare la Moda e la Morte
come se fossero sorelle19. Il nuovo ha molte facce.
Con questi pensieri in mente, torniamo a osservare la famiglia di
Luciano. Sicuramente alcuni di questi significati si sono “incarnati”
nei tessuti, per così dire, si sono sedimentati a formare la nostra
concezione di quello che va bene per gli uomini e per le donne.
Indirettamente ci spiegano anche perché sono così diffusi, e sono in
parte presenti ancora oggi, alcuni dei più tenaci stereotipi riguardo
alla moda: in primo luogo, che essa sia “una cosa solo per donne”;
in secondo luogo, che sia un fatto frivolo e superficiale, lontano dal
mondo del lavoro e dalle occupazioni serie – con l’implicita conse-
guenza che un uomo posato non dovrebbe occuparsene.
Comunque, per tornare alle nostre fotografie, notiamo che ci so-
no altri dettagli interessanti che parlano di distinzione. L’abbottona-
tura, per esempio: con i bottoni a destra per l’abito di Luciano e del
figlioletto, a sinistra per la moglie e le figlie. In parte questa usanza
sembra derivi dalle uniformi militari. Poiché la maggioranza delle
persone e quindi dei soldati è destrorsa, le armi sono portate sul lato
sinistro del corpo; l’abbottonatura che vede la sovrapposizione del
lembo della giacca sul lato destro eviterebbe possibili intralci. Va
anche detto però che è molto antica la credenza che il lato destro del
corpo sia maschile, quello sinistro femminile20. Poi ci sono i colori. È
facile osservare come gli uomini portino colori più scuri (idealmente
grigio), le donne colori più chiari e fantasie, e su questo torneremo.
Ma ci sono addirittura colori specifici per i sessi, come sappiamo:
sicuramente quando sono nate le bambine di Luciano sono appar-
si fiocchi rosa sul portone di casa, mentre per il bambino è stato
esposto un fiocco azzurro. È anche questa una storia che viene da
lontano. Pastoreau ci ricorda che vi fu una sorta di scambio di colori
a partire dal XVI secolo: nel medioevo il blu era il colore preferito
dalle donne (perché era il colore della Vergine, con il manto azzurro
del colore del cielo), mentre gli uomini indossavano il rosso (simbolo

19 W. Benjamin, I “passages” di Parigi (1982), vol. I, Einaudi, Torino 2010, p. 84;

G. Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte (1824), in Operette morali, Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1979.
20 M. Sahlins, Cultura e utilità. Il fondamento simbolico dell’attività pratica (1976),

Bompiani, Milano 1982, p. 188.


14 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

di potere e guerra). Poi le cose si invertirono e gli uomini passarono


al più sobrio blu (con alcune eccezioni come cardinali e cavalieri),
mentre le donne passarono al rosso, permesso ormai solo a loro21.
C’è di più. Gli abiti tendono a disegnare un profilo geometrico
nello spazio. È possibile vedere nel taglio e nelle linee maschili la
sottolineatura di una forma squadrata, con angoli marcati (ad esem-
pio le spalle imbottite), che evidenzia un ideale triangolo rovesciato
rappresentato dal petto – un effetto accentuato dall’uso di stoffe
pesanti e relativamente rigide. Gli abiti femminili tendono invece
a disegnare un profilo con linee morbide e arrotondate, con scolli
rotondi, gonne ampie e un uso di tessuti più leggeri e soffici (tipica di
questi anni Cinquanta, grazie alla cintura che stringe in vita, una de-
licata forma a clessidra). È interessante notare come tali effetti siano
decisamente più visibili nella foto di modelle e modelli presenti sulle
riviste che in quelle tratte dalla quotidianità, quasi si trattasse di un
idealtipo a cui tendere. Marshall Sahlins ha notato acutamente che
cerchiamo di rappresentare in maniera oggettiva il mondo intorno
a noi usando riferimenti geometrici e spaziali: la politica si divide in
sinistra e destra, la posizione sociale è alta o bassa, le persone sono
diritte o storte, ecc. Allo stesso modo, l’abito maschile è disegnato
diritto e squadrato, perché tale è la rappresentazione geometrica e
simbolica del genere maschile; l’abito adatto alle donne è invece pie-
no di curve e rotondo, perché così è visto il corpo delle donne, in una
perfetta correlazione tra l’elemento materiale (la stoffa) e l’elemento
simbolico (il genere)22. Dunque nella nostra foto familiare noi rico-
nosciamo la visualizzazione materiale e geometrica della simbologia
che contraddistingue i sessi.
Ma i corpi umani non sono naturalmente, anatomicamente dif-
ferenti a seconda del genere? Sembrerebbe una cosa evidente che
vi sia­no diversità oggettive. La storia ci insegna però che l’immagine
del corpo è culturalmente costruita e le “differenze oggettive” pos-
sono essere interpretate in modo disuguale; le stesse vicende così va-
rie dell’abbigliamento ne sono una prova evidente. È ancora Sahlins
che ci avverte di stare attenti a non cadere nella “trappola naturali-
stica”, pensando che vi sia un modo naturale e oggettivo di intendere

21 M. Pastoreau, D. Simonnet, Il piccolo libro dei colori, Ponte alle Grazie, Milano

2011, pp. 31-32.


22 Sahlins, Cultura e utilità cit., pp. 188-194.
I. I significati culturali del vestire 15

il corpo una volta per tutte23. La percezione stessa di corpo non è


cambiata nel tempo? E ancora, la stessa idea di cosa sia naturale, nel
senso di biologicamente determinato e non aggiunto artificialmente,
non è essa stessa una costruzione culturale?24 Insomma, il semplice
tentativo di capire le ragioni delle differenze tra abiti maschili e fem-
minili ci ha portato molto lontano.
Abbiamo detto degli abiti femminili; e quelli maschili? Qual è la
storia del completo che indossa Luciano? Il classico completo in tre
pezzi da uomo (giacca, gilet, pantaloni), spesso semplificato in due
pezzi, ha almeno due secoli di storia, con radici che partono dall’on-
data democratica e ugualitaria seguita alla Rivoluzione francese; o
anche da più lontano, se si considera il diktat imposto alla sua corte
da re Carlo II d’Inghilterra nel 1666, tornato sul trono dopo i puritani
di Oliver Cromwell. Esattamente come per le donne, il successo di
questa proposta risiede nella sua capacità di vestire il “corpo cultu-
rale” degli uomini. In questo caso, vi contribuirono diversi fattori. In
primo luogo, un ideale di razionalità illuminista, di morale e sempli-
cità contrario a inutili lussi e sprechi; in secondo luogo, una spinta
verso abiti adatti ai luoghi di lavoro, nelle tenute agricole e con il
tempo anche nelle nuove manifatture che fiorirono con la Rivoluzio-
ne industriale; in terzo luogo, la forza dell’ideale di costume borghese
che univa mascolinità, lavoro e sobrietà di contro a modi nobiliari
ispirati a lusso, ozio e sospetta effeminatezza. E non mancarono ac-
centi nazionalisti, nella proposta di un business suit inglese di contro
ai modelli sfarzosi che la corte di Francia diffondeva in tutta Europa
(con grande soddisfazione delle manifatture di lana inglesi che non
potevano competere con i raffinati capi di seta estera)25.
Il modello base dell’abbigliamento formale da uomo, formatosi
grazie a queste molteplici spinte, ha conosciuto una grande stabilità
nel tempo, tanto da fare pensare a molti che non si possa parlare di
una vera moda maschile. Ma è stato osservato che questo abbiglia-
mento è molto moderno e ha rappresentato un grande progresso per
i tempi, quasi anticipando un design contemporaneo, e perciò non

23 Ivi, p. 193.
24 L. Negrin, The self as image, in The Fashion History Reader: Global perspectives,
a cura di G. Riello e P. McNeil, Routledge, London 2010, pp. 504-505.
25 D. Kuchta, The Three-Piece Suit and Modern Masculinity: England, 1550-1850,

University of California Press, Berkeley-London 2002.


16 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

ha avuto bisogno di molti cambiamenti26. Simmel potrebbe aggiun-


gere che se è vero che l’uomo gode di prestigio in società (anche)
come rappresentante di un certo status sociale e professionale, e se
il completo classico è di fatto la divisa e il segno visibile dell’appar-
tenenza a questo status, perché mai uno dovrebbe abbandonarlo o
cambiare tale look?27
Per molto tempo l’interpretazione dominante dello stile maschile
è stata ispirata da uno psicologo, John Flügel, che negli anni Trenta
suggerì che dietro al sobrio vestito maschile c’era una repressione
voluta del narcisismo, per cui gli uomini avevano abbandonato la
pretesa di essere “belli” grazie a vestiti lussuosi e sgargianti, gioielli
e accessori decorativi (come era invece stato in passato), lasciando
tutto questo alle donne e sublimando questa tensione nello sport o in
una contemplazione edonistica della donna. Era la “grande rinuncia
maschile”28. Oggi non si parla più di perdita o rinuncia ma si osser-
va invece come lo stile abbia seguito precise motivazioni culturali,
sociali e anche politiche29. Non è certo un caso che la tendenza di
fondo dell’ultimo secolo sia stata quella di un avvicinamento tra la
moda maschile e femminile, tra alti e bassi. A partire dal secondo
Ottocento, quando era massima la distanza tra vesti per le donne
(viste come delicate, impulsive, irrazionali, romantiche) e vesti per
gli uomini (forti, posati, razionali, pratici), si passò attraverso la sem-
plificazione dei vestiti femminili del primo Novecento, dopo grandi
mutamenti sociali e tecnologici; seguì l’uso generalizzato di uniformi
con le guerre; e si finì con l’approdo in massa nel mondo del lavoro
del secondo Novecento, con l’adozione di tute, camici e comple-
ti anche da donna. Significativamente tutto questo avvicinamento
consistette per lo più nell’adozione di stilemi o indumenti maschili

26 A. Hollander, Sex and Suits: The Evolution of Modern Dress, Knopf, New York
1994.
27Simmel, La moda cit., p. 33.
28J.C. Flügel, Men and their Motives. Psycho-Analytical Studies, Kegan Paul, Lon-
don 1934.
29 P. McNeil, V. Karaminas, Introduction: The field of Men’s Fashion, in The Men’s

Fashion Reader, a cura di P. McNeil e V. Karaminas, Berg, Oxford 2009, pp. 2-4;
C. Breward, The Hidden Consumer: Masculinities, Fashion and City Life. 1860-1914,
Manchester University Press, Manchester 1999; P. Jobling, Man Appeal: Advertising,
Modernism, and Menswear, Berg, New York-London 2005; M. Zakim, Ready-Made
Democracy: A History of Men’s Dress in the American Republic, 1760-1860, University
of Chicago Press, Chicago 2003.
I. I significati culturali del vestire 17

da parte delle donne30. Senza considerare poi che tutta la storia è


costellata di vicende di maschere e travestimenti da un genere all’al-
tro, che giocano o sfidano questa rigida divisione di ruoli31. La storia
della moda è un bello specchio dei mutamenti sociali.
Non è peraltro del tutto vero che l’abbigliamento maschile sia ri-
masto statico per due secoli. Anche se la struttura di base non mutava,
le stoffe usate, i colori, il taglio, i risvolti, le lunghezze si sono evoluti
notevolmente: l’attenzione era più sui dettagli che su nuove proposte
d’insieme. Prendiamo un accessorio centrale, la cravatta. Si ritiene che
la moderna cravatta sia nata con Luigi XIV, quando decise di adottare
lo stile dei mercenari croati (hrvat) che indossavano una specie di fou-
lard rosso annodato intorno al collo, sembra come segno scaramanti-
co contro una possibile decapitazione in battaglia32. Pur cambiando
forma e lunghezza, la cravatta continuò ad essere presente nell’abbi-
gliamento elegante, soprattutto nella sua versione annodata a farfalla
(già pronta). Il collo è una parte particolarmente delicata ed esposta
del corpo umano, e quindi una sua protezione era consigliata; nello
stesso tempo, è una parte molto visibile e persino erotica per molti, e
quindi va sottolineata. La moderna cravatta lunga di oggi deriva senza
soluzione di continuità dalle molte versioni precedenti e, come queste,
segnala incontrovertibilmente la formalità e l’eleganza del completo
(oggi soprattutto in occasioni di lavoro o mondanità). È da notare co-
me il cravattino abbia conservato con ancora più forza le connotazioni
di distinzione aristocratica rispetto alla cravatta lunga: lo si indossa
con i vestiti da sera e in occasioni importanti, altrimenti stona, è visto
quasi come un’ostentazione. Alcuni camerieri, in particolare coloro
che hanno la gerarchia più alta e sono in contatto direttamente con
il pubblico, vestono un completo formale con giacca nera o bianca
e cravattino, per sottolineare la formalità del loro ruolo33. Dunque
Luciano non ha certo sbagliato quando ha scelto la sua cravatta per la
passeggiata domenicale.

30 Hollander, Sex and Suits cit.; L.F.H. Svendsen, Filosofia della moda, Guanda,

Parma 2006, pp. 45-47.


31 Travestimenti e metamorfosi. Percorsi dell’identità di genere tra epoche e culture,

a cura di L. Guidi e A. Lamarra, Filema, Napoli 2003; J.H. Johnson, Venice Incognito:
Masks in the Serene Republic, University of California Press, Oakland 2011.
32 R. Schields, A tale of three Louis: Ambiguity, masculinity an the bowtie, in «The

Men’s Fashion Reader», 1, I, 2009, pp. 108-116.


33
Ibid.
18 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Per una cosa che è rimasta, altre sono scomparse. Come i tacchi
alti maschili. A lungo le élite ostentarono scarpe con tacchi alti, segno
visibile del fatto che uomini e donne della nobiltà potevano permet-
tersi di camminare poco. Se le donne indossavano preziose scarpe di
stoffa molto decorate, gli uomini curavano che le loro scarpe di stoffa
o cuoio si intonassero con i vestiti, e ciò valeva in particolar modo
per i tacchi, ben visibili. È famoso il decreto imposto da Luigi XIV
(sempre lui, che era attentissimo alla sua immagine e alle regole della
corte di Versailles che era un modello per tutta Europa)34, per cui solo
il Re Sole e i membri della corte potevano indossare tacchi alti rossi
– lo stesso re metteva usualmente scarpe a tacco squadrato alte fino a
dieci centimetri. Una certa influenza fu esercitata anche dalle calzature
militari a tacco alto, comuni soprattutto in Medio Oriente, molto utili
ai cavalieri durante il combattimento. Comunque, anche questa moda
cadde in disuso sotto le critiche degli illuministi, che la accusarono di
creare problemi di salute e comunque di essere una forma artificiosa
che la semplificazione generale degli abiti maschili non poteva più
tollerare. Verso la fine del Settecento sparirono dunque i tacchi alti
maschili, mentre quelli femminili, salvo la parentesi della Rivoluzione
francese, diventarono alti, sottili e sinuosi per arrivare a rappresentare
nel Novecento un vero e proprio simbolo di femminilità ed erotismo35.

3. Classi di età e riti di passaggio

Si può dire che i temi della riproduzione dello status sociale e


delle differenze di genere rappresentino grandi forme di suddivi-
sioni della società, proiettate plasticamente nelle forme degli abiti.
Esistono però altre forme di divisione legate alla dimensione del
tempo, che vanno a sovrapporsi alle prime, nel senso che possono
riguardare tutti a seconda dei momenti della vita.
Una prima distinzione molto importante riguarda l’età. Infatti le
varie differenziazioni di genere che abbiamo visto sopra si applica-

34P. Burke, La fabbrica del re Sole, Il Saggiatore, Milano 1993.


35P. McNeil, G. Riello, Camminando per le strade del Settecento: la scarpa nel
secolo dei Lumi, in Scarpe. Dal sandalo antico alla calzatura d’alta moda, a cura di G.
Riello e P. McNeil, Angelo Colla, Vicenza 2007, pp. 69-79; E. Semmelhack, Donne,
potere e tacchi a spillo, ivi, pp. 171-187.
I. I significati culturali del vestire 19

no pienamente solo alle persone di età adulta, o comunque dopo la


pubertà. Prima i bambini appaiono come esseri neutri, non ancora
maturi per adattarsi alle loro future funzioni sociali e sessuali. Ma co-
me si devono vestire allora i bambini? Con forme specifiche pensate
per l’infanzia o in modo simile agli adulti oppure un po’ e un po’? A
seconda delle epoche, sono state adottate tutte le possibili soluzioni.
Prima dell’Ottocento i bambini piccolissimi erano vestiti uguali, sen-
za distinzione di genere, con una semplice tunica lunga oppure con
gonna, corpetto e grembiulino; poi, dopo i tre/quattro anni, erano
abbigliati in piccolo esattamente come gli adulti, in modo da farli
abituare al loro ruolo sociale. Durante l’Ottocento si svilupparono
nuove correnti di pensiero che videro l’infanzia non come una sem-
plice preparazione alla maturità, l’età che conta davvero, ma come
una fase autonoma e creativa, contrassegnata da preziosi valori che
poi si perderanno (purezza, serenità, ingenuità) – un antesignano
famoso ne fu Jean-Jacques Rousseau. L’età infantile doveva essere
quindi contrassegnata anche visivamente in modo diverso. Ecco al-
lora che dopo i primissimi anni di indifferenziazione, dove anche i
maschietti erano vestiti con tuniche e gonne, i bambini si ritrovarono
ad avere un loro abbigliamento specifico, più semplice e informale
per essere liberi di muoversi e giocare36. Perciò, arrivando agli anni
Cinquanta, vediamo nella nostra foto il piccolo figlio di Luciano che
indossa una camicia e calzoncini corti alle ginocchia con le bretelle
(se fosse vissuto un po’ prima, magari avrebbe sperimentato un com-
pletino alla marinara); e le sue figliolette vestite con semplici e como-
di vestitini sopra al ginocchio con le scarpe basse. Sempre all’interno
degli album fotografici di famiglia dell’archivio avellinese, troviamo
un’altra foto, questa volta in un interno domestico, dove due fratel-
lini sono in piedi, seri e sull’attenti, e guardano diretti l’obiettivo. A
sinistra, la piccola Giuseppina indossa un vestitino corto a quadretti,
con colletto bianco, calzette bianche e sandali chiusi; al suo fianco
l’ancora più piccolo Modestino ha un completino con pantaloncini
corti, camicia bianca con ampio colletto, e sopra una piccola casacca;
ai piedi, come la sorella, calze bianche e sandali chiusi37.

36 K. Calvert, Children in the House: The Material Culture of Early Child­ hood,
1600-1900, Northeastern University Press, Boston 1992; E. Ewing, History of
Children’s Costume, B.T. Batsford, London 1977.
37 Famiglia di Pietro I.: mia sorella Giuseppina e mio fratello Modestino, in Archivio
20 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Non vediamo purtroppo i colori, ma possiamo scommettere che


in molte foto di bambini piccoli sono spesso presenti i colori “mar-
catori” di genere: rosa e azzurro. Questo, salvo il primissimo periodo
di vita, quando i piccoli hanno un solo colore caratterizzante: il bian-
co. Numerose altre foto, come quelle della famiglia dell’avvocato
Antonio, sempre di Avellino, non lasciano dubbi sull’uso di candidi
abitini o tutine per i piccoli dal battesimo in poi (successori delle
strette fasce che si usavano un tempo per i neonati)38.
Il colore bianco rappresenta infatti in molte civiltà, anche africa-
ne e asiatiche, il colore della purezza e dell’innocenza, ed è associato
tipicamente al primissimo periodo della vita. Ma ritorna in qual-
che modo anche nella simbologia dell’età più avanzata (il bianco
dei vecchi) fino alla rappresentazione dei morti, come è sottolineato
dall’uso del bianco per il lutto in vari paesi asiatici. In un certo sen-
so, come ha notato Pastoreau, la vita parte dal bianco, attraversa un
cromatismo di colori, e ritorna al bianco39.
Abbiamo parlato di anziani. Questo è un altro segmento della
vita che impone regole di abbigliamento molto rigide, di cui è im-
portante parlare perché spesso viene trascurato. Sempre negli anni
Cinquanta, e sempre a passeggio per il centro, troviamo anche la
mamma e la nonna dei due fratellini Giuseppina e Modestino. La
loro mamma Maria indossa un tailleur, con scarpe alte di corda,
cappellino e borsetta; al suo braccio c’è nonna Giuseppina, che in-
vece veste tutta di nero: nero il cappotto, e decisamente più lungo,
sotto il polpaccio; nero l’abito; neri i guanti; nera la borsa; nere le
scarpe basse40. È elegante, ma il suo abbigliamento monocromatico
contrasta con quello di tutte le persone che ha intorno, segnala la dif-
ferenza. E lo stesso vale per la mamma anziana a cui si accompagna
Carmine uscendo dalla Messa: tutto nero e niente fronzoli41. Passata

fotografico “Avellino”. Le foto citate in questo paragrafo sono tratte per lo più dalla
sezione “Famiglie”. Su questo genere fotografico cfr. De Luna, D’Autilia, Criscenti,
L’Italia del Novecento cit., vol. 3, Gli album di famiglia.
38 La famiglia dell’avvocato Antonio L. e di Lalage G., in Archivio fotografico

“Avellino”.
39 Pastoreau, Simonnet, Il piccolo libro dei colori cit., pp. 42-47.
40 Famiglia di Pietro I.: nonna paterna Giuseppina e mamma Maria a spasso in

Piazza Libertà ad Avellino (anni ’50), in Archivio fotografico “Avellino”.


41 Famiglia Carmine D. (A messa, anni ’50), in Archivio fotografico “Avellino”. Cfr.

su usi di altre culture riguardo agli anziani P. Corrigan, The Dressed Society: Clothing,
the Body and Some Meanings of the World, Sage, London 2008, pp. 59-61.
I. I significati culturali del vestire 21

una certa età, tutte le donne si vestono di nero, come dopo un lutto
(che forse c’è stato tempo prima), quasi a segnalare un atteggiamento
di distacco e arretramento dalla vita attiva – anche se questo uso ri-
sulta più accentuato nelle regioni meridionali, mentre altrove si nota
una generica preferenza per i colori scuri. Quasi inutile osservare che
al contrario gli uomini anziani non cambiano il loro modo di vestire
nel tempo: le fotografie di uomini a passeggio o in casa non denota-
no mutamenti significativi, salvo anche qui una certa tendenza alla
sobrietà, ai colori scuri, a presentarsi più coperti. Va anche detto,
e anche questo è un dato significativo dei valori culturali correnti,
che il gruppo degli anziani è quello meno rappresentato nell’intera
raccolta fotografica. Comunque il nero simboleggia soprattutto la
sobrietà e la moralità e ha un diretto riferimento alle leggi suntuarie,
alla rinuncia al lusso (rappresentato dai colori accesi), alla serietà che
deriva dall’esperienza (il nero è anche il colore dell’autorità).
Oltre al raggruppamento in classi di età, i nostri vestiti segnano
visivamente anche il passaggio attraverso momenti speciali della vita.
A volte si tratta di un cambiamento fisico da uno stato all’altro (come
nella pubertà o nella gravidanza, che in molte culture sono spesso as-
sociate a tabù o speciali prescrizioni); altre volte segnala importanti
momenti sociali, come nel matrimonio. Sempre però indicano uno
stato di transizione delicato, un momento liminare, per cui in quel
momento si è diversi dagli altri membri della comunità, e questo va
comunicato.
Guardando le foto dell’archivio di Avellino, non ci sono dubbi su
quali siano i passaggi simbolici importanti, che spesso si identificano
con cerimonie religiose. Oltre alla nascita e quindi al battesimo di
cui abbiamo detto, numerose sono le fotografie di prima comunione
e cresima, che ne costituiscono un proseguimento ideale, condivi-
dendone anche la simbologia (abito bianco per tutti, con diversità
di fogge tra i generi). Ma come è ricordato il momento di crisi e
transizione per eccellenza, quello dell’adolescenza? Il momento su
cui gli antropologi hanno versato fiumi di inchiostro, descrivendo
iniziazioni spettacolari all’insegna di riti dolorosi, prove di coraggio,
pitture e tatuaggi, digiuni e segregazioni? Ebbene questo evento è
poco marcato nell’Italia degli anni Cinquanta. Certo, in questa fa-
se avviene l’abbandono dei vestiti da bambini a favore di quelli da
adulti, ma ciò avviene con gradualità e senza una cerimonia che lo
sancisca simbolicamente. Ci possono essere varie spiegazioni per
22 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

questo: il crescente ruolo della domesticità nel XX secolo, e quindi


la tendenza a dare maggiore peso al lato privato e familiare rispetto a
quello pubblico, preferendo scelte individuali a cerimonie imposte;
l’allungamento dell’età infantile che si fonde senza soluzione di con-
tinuità nell’adolescenza; l’ingresso ritardato e flessibile nel mondo
del lavoro e così via. È curioso notare però come una cerimonia di
grande importanza come la prima comunione avvenisse tradizional-
mente verso i dodici/quattordici anni, considerata l’età della ragione
(ma anche l’età della pubertà); solo nel 1910 un decreto di Pio X
stabilì di anticiparla ai sette anni42. L’uso antico comportava di fatto
una sovrapposizione tra i due eventi, che poi è andato perduto.
Ma non ci sono dubbi su quale sia l’evento più importante, quello
più fotografato, quello che non manca praticamente mai negli album
di famiglia: il matrimonio. Ecco allora, dalle nostre istantanee avelli-
nesi, Tonino e Carmelina sorridere felici nei loro abiti da cerimonia
in mezzo ai genitori; Anna e Amerigo posare davanti alla chiesa tra
molti parenti, in prima fila i bambini, dietro gli adulti; Pasquale e
Rita camminare per le vie del centro, con i passanti che si girano a
guardare; Marianna ballare felice con il suo novello sposo in una sa-
la; e infine, in uno scatto del 1956, due sposi ritratti seduti sui sedili
posteriori di una macchina bianca, con il vestito di lei che quasi non
ci entra, mentre seduti dal davanti occhieggiano i genitori43. L’elenco
potrebbe proseguire a lungo. Ovviamente questo non ci sorprende,
dato il ruolo centrale che la costituzione di una nuova famiglia rive-
ste nella nostra società. Come non sorprende la scenografia tipica di
queste foto, in genere opera di professionisti che privilegiano pose
standard44. Il matrimonio possiede da sempre una complessa ritua-
lità che riguarda tutto: la preparazione, il ricevimento degli ospiti, la
cerimonia vera e propria, il pranzo seguente, i regali ricevuti, i fiori,
il viaggio di nozze – e guai a sbagliare! Non per nulla, costituisce in

42 Quam singulari, decreto della Sacra congregazione della disciplina dei sacra-

menti, 8 agosto 1910.


43 Le foto in ordine di citazione sono: La famiglia A.; Matrimonio Anna D. e Ameri-

go P., 1959; La famiglia di Pasquale P. e Rita M., commercianti; La famiglia di Marianna


D.; Nozze 1955, in Archivio fotografico “Avellino”.
44 E. Grazioli, I generi fotografici tra realtà e finzione, in De Luna, D’Autilia,

Criscenti, L’Italia del Novecento, vol. 2 cit., pp. 243-298; M. Fugenzi, L’evoluzione del
mezzo tecnico, in Storia d’Italia, Annali 20. L’immagine fotografica 1945-2000, a cura
di U. Lucas, Einaudi, Torino 2004, pp. 667-700.
I. I significati culturali del vestire 23

genere il capitolo più grosso dei manuali di buone maniere. Il vestito


gioca una sua parte importante.
Nelle fotografie descritte sopra, lo sposo appare sempre con un
abito serio e molto elegante, scuro (probabilmente nero o grigio o
magari blu) con cravatta per lo più chiara (forse grigio argento);
non ci sono tight, abiti troppo impegnativi. In pratica, si tratta di un
elegante vestito da cerimonia, tanto che nelle foto di gruppo a volte
non è facile distinguere lo sposo al primo colpo. Non così per la
sposa. È la vera protagonista e spicca incredulamente su tutti, con il
suo prezioso abito bianco, lungo, ricco di pizzi, veli, strascichi, con il
velo (ovviamente) e con il bouquet di fiori, dimostrando così indiret-
tamente anche la posizione sociale della famiglia. L’aspetto più carat-
teristico dell’abbigliamento da sposa è il suo riferimento univoco al
colore bianco. Ma non è sempre stato così. Fino al Rinascimento, l’a-
bito era di materiali ricchissimi come seta, damasco e pelliccia, ed era
di svariati colori caldi e vivaci; nel Settecento dominarono preziosi
ricami e colori pastello; solo dall’Ottocento iniziò la moda degli abiti
bianchi. La spiegazione principale è il riferimento agli aspetti religio-
si della cerimonia, e quindi all’idea di purezza, verginità e sacralità
legate al colore bianco45. Ma ci sono altre possibili concause. Qual-
cuno attribuisce addirittura al blocco navale di Napoleone nel 1806
l’effetto di avere interrotto nel continente l’importazione di stoffe
pregiate e coloranti provenienti dalla Gran Bretagna, favorendo la
moda del vestito bianco, di gran voga con lo stile impero. Certo è che
più tardi, nel 1840, le spettacolari nozze in abito bianco della regina
Vittoria d’Inghilterra con il principe Alberto costituirono un vero
e proprio modello per l’intera alta società46 (in Italia forse un ruolo
simile l’ebbe Margherita di Savoia, prima regina d’Italia). Emerge
qui il ruolo dei monarchi, e in generale dell’aristocrazia, come punto
di riferimento del costume, o meglio, visto che parliamo di mode, di
trend setter. Infine c’è forse una motivazione di carattere culturale,
legata al significato simbolico del cromatismo. Nel momento in cui
il nero si stabilizzava come colore associato al lutto e alla morte, ecco

45 M. Canella, Paesaggi della morte, Carocci, Roma 2010, pp. 117-121. Cfr. in

contrasto gli usi nuziali descritti in Wedding dress across cultures, a cura di H.B. Foster
e D.C. Johnson, Berg, Oxford 2003.
46 G. Hayter, The Marriage of Queen Victoria, 10 February 1840 (olio su tela),

1840-42.
24 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

allora che il suo contrario, il bianco, doveva designare la vita. Con


un problema: che l’opposizione bianco-nero è moderna, in quanto
anticamente non erano visti come colori contrastanti più di altri (le
antiche scacchiere, giunte dall’India dove erano rosse e nere, diven-
tano nell’Europa medievale bianche e rosse, come attestano molte
antiche raffigurazioni). Quello che forse contò di più fu l’invenzione
della stampa, che impose l’opposizione cromatica bianco-nero come
standard per la comunicazione e anche come dualismo culturale47.
L’ultimo dei grandi riti di passaggio, per i quali serve un abito spe-
ciale, è quello della morte. Questo è vero non solo e non tanto per il
morto stesso, quanto per i partecipanti al rito. È significativo che nel
nostro vasto campione di fotografie non ci siano scatti al riguardo. Se
il matrimonio e la vita vanno esposti, la morte va nascosta, allontanata,
separata. È questo un processo culturale che si verifica dal Settecento,
quando avviene una scissione tra il mondo dei vivi e quello dei morti:
questi ultimi vengono rimossi culturalmente e allontanati fisicamente
dalle città in appositi spazi lontani, prima inesistenti, i cimiteri – men-
tre in precedenza erano sotterrati dentro le chiese o in luoghi vicini48.
La ritualità qui si estende anche oltre la cerimonia, e le donne devono
apparire velate ancora a metà Novecento: il coniuge sopravvissuto, a
maggior ragione se si tratta della vedova, è tenuto a indossare gli abiti
completamente neri del lutto stretto per un periodo di sei mesi (per
la vedova comprensivi di veletta), ai quali seguono altri tre mesi di
mezzo lutto, che ammette altri colori come il grigio e per le donne il
viola e talvolta persino il bianco (una volta c’era anche il cosiddetto
quarto di lutto)49. In questo modo i parenti stretti si distinguono dalla
comunità e segnalano la loro vicinanza con il mondo del defunto, dal
quale poi lentamente si distaccheranno. Il cambio finale degli abiti
con l’abbandono di quelli da lutto simboleggia il pieno ritorno alla
normalità. Del resto l’atto di indossare un vestito nuovo come segno
del passaggio da una condizione di vita a un’altra, spesso inteso come
atto di purificazione, si ritrova in molte culture diverse50.

Pastoreau, Simonnet, Il piccolo libro dei colori cit., pp. 86-87.


47

Canella, Paesaggi della morte cit., pp. 16-18.


48
49 Gibus (M. Serao), Saper vivere (norme di buona creanza), «Il Mattino», Napoli

1900, pp. 209-215.


50 E. Cerulli, Vestirsi spogliarsi travestirsi. Come quando perché, Sellerio, Palermo

1999, p. 121.
I. I significati culturali del vestire 25

Una curiosità per finire: nonostante la sfarzosità, i gioielli non


sono ammessi nel matrimonio, salvo un filo di perle o un piccolo
dono del fidanzato. L’idea è quella di non distogliere l’attenzione
dal simbolo centrale, l’anello della fede, segno di un vincolo tra gli
sposi risalente almeno ai romani (quando però era in ferro e non
era portata sempre). Semmai il dono prezioso è il pegno d’amore
di finanziamento, che però non va portato durante la cerimonia re-
ligiosa. Nel lungo periodo del lutto invece, soprattutto in passato,
non si rinunciava ai gioielli, ma si portavano “gioielli funerari”, che
avevano la particolarità di essere completamente neri, grazie all’u-
tilizzo di materiali come il gaietto, una forma di lignite, e dall’Ot-
tocento anche vetro e smalto neri. Si andava così dal seicentesco
memento mori, un ciondolo a forma di bara che talvolta si poteva
aprire mostrando uno scheletro all’interno, o che aveva teschi come
decorazione, per passare a medaglioni che contenevano una ciocca
di capelli del defunto o un suo ritratto, fino a vere e proprie parure
di gioielli neri51. Il simbolismo della morte era molto diffuso, sia per
preservare la memoria sia con funzioni talismaniche: gli ornamenti
attuali a forma di teschio e ossa, interpretati spesso come moderni
segni di provocazione, hanno in realtà una storia molto antica.
Lungi dal rappresentare usi o tradizioni frivole, la simbologia
legata all’abbigliamento rivela dunque tratti profondi del modo di
pensare le varie fasi della vita e la morte di uno specifico periodo
storico.

4. Le segmentazioni orizzontali: professioni e cultura

Guardando l’abito e seguendo le faglie di classe, genere, età e


condizioni sociali, si poteva dunque immaginare con una buona ap-
prossimazione la situazione di un individuo. Ma nel periodo che
stiamo osservando, gli anni Cinquanta e Sessanta, la situazione è
ancora più complicata. Intanto la composizione delle “classi” sta
rapidamente cambiando con il cosiddetto miracolo economico. In
dieci anni, dal 1951 al 1961, la ristretta élite in cima rimane stabile
(2 per cento della popolazione totale), la fascia operaia sale rapida-

51 A. Black, Storia dei gioielli, De Agostini, Novara 1973, pp. 162, 207-208.
26 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

mente e vale più di un terzo della popolazione, il mondo agricolo si


contrae, la classe media invece cresce fino a rappresentare quasi un
altro terzo del totale52. La struttura sociale si è deformata e allargata
al centro. Inoltre, all’interno di questi ceti, si creano nuove articola-
zioni, nuovi gruppi. A parità di reddito, si osservano comportamenti
diversi. Come delineare queste ulteriori divisioni che si verificano
orizzontalmente, per così dire, all’interno di una stessa classe?
Uno dei più sofisticati studiosi della società del tempo, il socio-
logo francese Pierre Bourdieu, suggerisce di guardare le condizioni
pratiche di esistenza delle persone. E per cominciare, di non limitarsi
a pensare in termini di ricchi e poveri o di scala sociale ma verificare
sul campo come si distribuiscono i vari tipi di capitale che uno può
possedere: quello economico vero e proprio, quello culturale e, in
misura minore, quello sociale, legato cioè alla propria rete di relazio-
ni. Il risultato è che i vari gruppi sociali possono essere immaginati
come su una mappa, basata soprattutto sulle coordinate del capitale
economico e di quello culturale, con molte possibili combinazioni. La
cosa più interessante per noi è che ogni posizione corrisponde a un
certo stile di vita, a un certo gusto specifico nei consumi. Così, più o
meno con redditi simili, in Francia i maestri elementari amano visita-
re monumenti e castelli, sono iscritti a una biblioteca e preferiscono
pittori come Utrillo; i quadri intermedi del commercio e le segretarie
vanno matti per Alain Delon, la Rapsodia in blu e i Beatles; i tecnici
preferiscono l’operetta, e così via. In pratica ogni gruppo elabora pro-
prie strategie, gusti e modi di pensare (habitus), che vengono preco-
cemente assimilati da ogni individuo grazie all’educazione familiare o
istituzionale53. E tutto questo si riflette puntualmente nel vestiario54.
I repertori fotografici di cui disponiamo sono ricchissimi di im-
magini di operai e, un po’ meno in verità, di impiegati55. Non ci sono
dubbi: come in Francia, anche in Italia è pienamente confermata la
regola di divisione tra le due categorie: tute blu e colletti bianchi –

52 P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali (1974), Laterza, Roma-Bari 1988, pp.

156-157.
53 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), il Mulino, Bologna

2001, in particolare pp. 73-78, 119-135. Le inchieste sociologiche citate nel libro sono
state svolte negli anni Sessanta e Settanta in Francia.
54 Ivi, pp. 209-215.
55
Uno dei più ricchi database è quello della Fondazione Archivio Audiovisivo del
Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), a cui si fa riferimento in questa parte.
I. I significati culturali del vestire 27

abbigliamenti tanto marcati da essere divenuti simboli diffusi di due


mondi, a prescindere dal reddito effettivo. In verità, salvo che nelle
grandi fabbriche, non sempre i lavoratori sono davvero in tuta; ma è
comunque riconoscibile un semplice vestito da lavoro, con pantoni
larghi, camicia colorata, maglie; per le donne, vestiti semplici e molto
spesso grembiuli e camicioni. Fuori dalla fabbrica, l’abbigliamento
è pure informale, con giubbotti e più raramente giacche. Gli im-
piegati si caratterizzano invece per l’immancabile completo giacca-
pantaloni, la camicia bianca e la cravatta, e d’inverno il cappotto
elegante (le impiegate per vestiti curati, tailleur, camici e anch’esse
cappotti)56. Più complessa l’immagine dei lavoratori autonomi, deci-
samente sottorappresentati fotograficamente. Gli artigiani adottano
nel complesso un codice di vestiario molto simile a quello operaio.
I commercianti si differenziano al loro interno: nelle attività di mag-
giore pregio come gioielleria e vendita di abbigliamento si vestono
come gli impiegati e curano molto l’immagine esterna; nei negozi
più poveri, soprattutto alimentari, sono vicini agli operai57. Non va
dimenticato peraltro che in questa fase l’industria italiana è ancora in
via di sviluppo, per cui i negozianti svolgono nel retrobottega anche
molte mansioni manuali per la preparazione dei prodotti (pulitura e
taglio delle merci, imbottigliamento, ecc.)58.
Emerge qui un’altra fondamentale funzione degli abiti, quella di
rappresentare le professioni. Gli abiti da lavoro acquistano nel tem-
po un ruolo crescente, anche grazie alla valorizzazione dell’etica del
lavoro che le classi borghesi contrappongono con successo a quella
dell’ozio tipica della nobiltà. È facile per noi riconoscere subito dal
vestito operai, impiegati, alti dirigenti, pompieri, preti, impiegate,
infermieri, medici, cuochi. Il loro dress code è il primo biglietto da
visita59. Come si è formato? La prima risposta che viene in mente è

56 Cfr. le foto di lavoratori negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto quelle

sul posto di lavoro, in Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico,


http://www.fotopromemoria.it.
57 Cfr. ad esempio Gli artigiani della Trinità, anni ’60; Via F. Tedesco, una salumeria

degli anni ’50; I gioiellieri R., anno 1956; Ferrovieri, anni ’60; Impiegati del banco di
Napoli, 1966; Impiegati della Coldiretti, anni ’50, in Archivio fotografico “Avellino”.
58 E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, La-

terza, Roma-Bari 2006, pp. 75-80.


59
T. Edwards, La moda. Concetti, pratiche, politiche, Einaudi, Torino 2012, pp.
171-177.
28 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

che sia funzionale al tipo di attività. Così la tuta degli operai permette
ogni tipo di movimento, è robusta e resiste agli strappi, non teme le
macchie; quella da pompiere è ignifuga e molto protettiva. Ma nella
maggioranza dei casi il legame con la funzione è labile o non esiste e
inutilmente si cerca di dare una spiegazione razionale a usi inveterati.
Roland Barthes ha parlato di “false funzioni” a questo proposito60:
a cosa “serve” un completo giacca e cravatta? La verità è che anche
i vestiti da lavoro si sono creati nel tempo e sono ricchi di signifi-
cati simbolici. Così è per il bianco delle professioni sanitarie, che
simboleggia l’igiene, come anche nel caso dei cuochi, la cui divisa è
arricchita dalla caratteristica toque blanche, berretta floscia di origi-
ni antiche, innalzata per distinzione nell’Ottocento sul modello del
cilindro. O ancora per l’abito scuro degli ecclesiastici, che rimanda
all’idea di sobrietà, serietà, penitenza.
Ovviamente la funzione professionale si intreccia con la rappresen-
tazione dello status sociale, visto che nei mestieri si riflette una chiara
classificazione gerarchica, con i lavori manuali meno qualificati alla
base su su fino al vertice con i mestieri più pregiati e retribuiti, spesso
legati a posti di potere. Con un corollario: visto che gli uomini hanno
da sempre ricoperto cariche importanti e di comando, hanno anche
indossato per secoli abiti più ricchi delle donne. Solo in epoca mo-
derna, come si è visto, la situazione è cambiata (almeno per gli abiti).
Quali parametri sono alla base di queste distinzioni? In alcuni
casi, come abbiamo detto, si sono costruiti nel tempo una foggia, un
colore e degli accessori tipici che consentono un’immediata identifi-
cazione. Prendiamo però il caso paradigmatico e non semplice da cui
siamo partiti, la differenziazione tra impiegati e operai. Come hanno
osservato molti studiosi, qui opera un binomio primario: formale/
informale. Da una parte abiti tagliati geometricamente, perfetti, sti-
rati, tendenzialmente un po’ rigidi nel loro insieme, che danno forma
al corpo; dall’altra abiti, sciolti, che cadono seguendo le linee del
corpo. È come se le regole della società si fossero incarnate nelle
forme dei vestiti e disegnassero un’identità più o meno soggetta al
rispetto delle convenzioni sociali, o se vogliamo più o meno attenta
alle forme. Antropologi come Mary Douglas non hanno dubbi: il
corpo è un’immagine della società e quindi segue le sue stesse regole;

60 R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strut-

turale (1967), Einaudi, Torino 1970, pp. 266-270.


I. I significati culturali del vestire 29

per questo la formalità si addice a ruoli alti, strutturati, pubblici e


che comportano distanza sociale; l’informalità si addice a ruoli meno
definiti, bassi, privati61. E per questo dunque gli impiegati adottano
completi giacca e cravatta, che non sono comodi ma segnalano la lo-
ro completa integrazione sociale; mentre gli operai si sentono meno
strutturati socialmente e si vestono in maniera più rilassata – anche
se questo comporta per questi ultimi, e in generale per i mestieri
bassi, un “cambio di registro” in occasione di festività e cerimonie.
Ecco che allora anche gli operai si sentono in dovere di piegarsi mag-
giormente alle norme sociali e indossare abiti più formali ed eleganti,
dando vita ad un altro binomio: lavoro/festa62. Gli italiani del tempo
erano molto consapevoli di tali ulteriori divisioni e del segnale che
un tipo di vestito mandava rispetto alla propria professione, a giudi-
care dai database fotografici.
Più si sale di classe e di mestiere, più formalità, rigidezza e ov-
viamente ricchezza appaiono evidenti. Il massimo si ha con i vertici
del potere. Chissà se molti italiani degli anni Cinquanta e Sessanta
avevano ancora in mente i sovrani Savoia, ritratti sempre fieri, rigidi,
carichi di onorificenze e quasi sempre in uniforme militare (mol-
to amata dai regnanti, anche per la posa guerresca che suggerisce:
era spesso fatta cucire molto stretta, soprattutto al giro manica, con
l’effetto di spingere il busto in avanti)63. Ma è un effetto universale,
questo ricercato dal potere.
C’è un altro elemento che possiamo ricordare riguardante la di-
stinzione e che spesso è ignorato. Cosa hanno in comune gli abiti
talari del clero, i raffinatissimi tight, gli abiti lunghi delle signore
alle feste di gala, i vestiti bianchi del matrimonio e in generale gli
abiti di taglio estremamente elegante per le cerimonie? L’arcaismo.
Sono tutti vestiti che traggono una forte legittimazione dal fatto di
essere tradizionali, riprendere nelle loro forme mode che erano mol-
te diffuse un tempo e oggi sono rare. Gli abiti lunghi fino ai piedi
da donna e ancora più da uomo erano tipici dell’antica nobiltà; il
tight era usato dai gentlemen per cavalcare nell’Ottocento e così via.

61 M. Douglas, Natural Symbols: Explorations in Cosmology, Vintage Books, New

York 1973, pp. 98-100.


62 Sahlins, Cultura e utilità cit., pp. 183-184.
63 Cfr. ad esempio il ritratto Vittorio Emanuele II di Savoia, olio su tela, autore

ignoto, ca. 1840-50.


30 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Utilizzarli ora significa distinguersi dagli altri e affermare un’ideale


continuità con un glorioso passato. Se è vero che la storia nobilita,
allora più l’abito è tradizionale più acquista pregio socialmente.
In conclusione, c’è un ultimo aspetto importantissimo. E cioè
quello estetico. Già, perché vestirsi vuol dire anche soddisfare un
proprio piacere. Simmel diceva che c’è un impulso generale in tutti
noi ad adornarci con un bel vestito o un prezioso accessorio o un
gioiello. È una cosa che facciamo in primo luogo per noi stessi, per
farci notare, ma anche altruisticamente per gli altri, perché doniamo
un piacere estetico. È come se la sfera di influenza che irradiamo
intorno a noi (Simmel la considera quasi una radioattività umana)
si allargasse e si intensificasse grazie all’ornamento. La nostra perso-
nalità ne è rafforzata64. Insomma, l’esperienza estetica che si prova
tramite abiti e accessori belli e non comuni è fondamentale per i
nostri rapporti e per noi stessi. Ma qui sorgono le complicazioni
sociali. Per tornare a Bourdieu, egli ritiene che esista un’estetica
popolare, tipica dei gruppi poco dotati di capitale culturale, per cui
è bello ciò che è semplice, ciò che si esprime con gli stessi codici
della vita di tutti i giorni e non è reso oscuro da astratti formalismi.
Al contrario, le classi molto dotate di capitale culturale mostrano un
vero atteggiamento estetico, distaccato dall’ordinario, interessato
alla ricerca formale, al punto da provare “disgusto per il facile”, cioè
per quello che è subito accessibile, visto come infantile e primiti-
vo65. Un vestito sgargiante e con tanti accessori, ad esempio, potreb-
be piacere molto per la sua visibilità al primo gruppo, ma sarebbe
considerato decisamente kitsch e volgare dal secondo, attratto in-
vece da abiti con forme sofisticate e colori sobri (la forma vince sul
colore). Insomma, il gusto sembra dipendere dalla posizione sociale
e culturale e si configura come una forma di distinzione. Ora, anche
senza tirare in ballo la storia delle teorie estetiche, forse tale analisi
è un po’ estrema. Per limitarci al solo campo dell’abbigliamento,
dopo avere analizzato migliaia di fotografie, non c’è dubbio che esi-
stano grandi differenze di gusto estetico anche all’interno di gruppi
omogenei, persino dentro una stessa famiglia o tra compagni di
studio, cosa che crea la varietà che è sotto gli occhi di tutti.

64 G. Simmel, Sulla psicologia dell’ornamento (1908), in Id., Sull’intimità, Arman-

do, Roma 1996, pp. 105-117.


65 Bourdieu, La distinzione cit., in part. pp. 29-32, 53-60, 492-496.
I. I significati culturali del vestire 31

Chissà se alla fine non ci mettiamo i vestiti assecondando soprat-


tutto il nostro gusto personale!
In conclusione tutto quanto detto sopra ci porta a dire che il
vestirsi riveste profondi significati sociali, culturali e anche religiosi
nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Conoscere le regole è un
prerequisito importante per integrarsi nella società. Gli abiti sotto-
lineano con forza lo status sociale e le gerarchie esistenti, prima di
tutto, e poi lo iato tra i generi, il ruolo dei mestieri, il significato del
capitale culturale, il valore attribuito alle diverse età, il peso di alcuni
momenti particolari della vita, i molti tabù scritti e non scritti che
regolano il comportamento. In una parola, sono codici che aiutano a
rendere intellegibile la società seguendo precise classificazioni. Clas-
sificazioni, lo abbiamo già detto, che possiamo immaginare come
divisioni verticali e orizzontali, sottoinsiemi, intersezioni. Se c’è un
elemento che emerge dal quadro complessivo è l’idea di dare ordine
e senso a tutto. Ordine prima di tutto, dunque. Un ordine forma-
tosi nel tempo e capace di strutturare una collettività. Questo non
vuole dire che le differenziazioni siano statiche e non siano possibili
attraversamenti e ibridazioni; tuttavia in questa fase storica è questo
l’aspetto che sembra prevalente ed è quello che ci aiuta di più a ca-
pire chi siano le persone dietro alle fotografie.
II

LA MODA DELLA NUOVA ITALIA (1945-1965)

1. Tra ricostruzione e miracolo

Forse era vero, forse era un sogno. Girare libera in quella città piena
di vita, luci e profumi le dava come nuova vita. Era piena di energia, piena
di voglia di fare, anche cose strane, pazze. Come guidare per la prima
volta quel curioso scooter lasciato in strada dal suo nuovo amico. Non ci
pensò due volte: ci saltò sopra e lo mise in moto. E via! I corti capelli al
vento, un foulard a righe intorno al collo, la camicetta bianca a manica
corte, la gonna beige stretta in vita e poi giù vaporosa fino ai polpacci,
e i bei sandaletti appena comprati. Pronta per l’avventura. Certo, non
era facilissimo guidare nel traffico di Roma ma lei era felice: “Com’è
divertente!” gridò all’amico salito al volo in qualche modo sul sellino di
dietro. Travolgendo pedoni e bancherelle, con uno slalom temerario tra
macchine, autobus e motociclette, si lanciò spericolata nelle vie del cen-
tro, sfrecciando in via del Teatro Marcello, in Largo di Torre Argentina
e infine attraverso Piazza Venezia, inseguita da moto e camionette della
polizia. Una corsa pazza ma bellissima, che la giovane principessa termi-
nò in un Commissariato di Polizia per cercare di spiegare le sue prodezze.
(Vacanze romane, diretto da W. Wyler, Usa 1953)

Si dice che a volte le opere artistiche vedano più lontano di tante


analisi. Magari ciò è vero anche per il messaggio che ci trasmette
questo film, che lancia una giovanissima Audrey Hepburn a fianco
del già famoso Gregory Peck, e che ha enorme successo sia negli
Stati Uniti sia in Italia. La storia è nota. La protagonista è una gio-
vane principessa stanca di recitare ruoli ufficiali, indossando vestiti
elegantissimi e formali, e anela a liberarsi dai paludamenti materiali
e morali. Si lancia così in una pazza avventura per le strade di Roma
dove è in visita e dove conosce un giornalista americano del quale si
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 33

innamora. I suoi primi atti di libertà sono quelli di lasciare gli abiti
ufficiali, per indossare gonna e camicetta più informali, comprarsi
un paio di sandaletti e tagliarsi i lunghi capelli per adottare una pet-
tinatura più sbarazzina. Alla fine tutto termina però, la principessa
rientra nei ranghi, assume di nuovo il suo ruolo, i suoi lussuosi vestiti
e lascia la sua fiamma. Ma capiamo che ora è cambiata, che quella
folata di libertà ha lasciato un segno indelebile nella sua persona.
In Italia – potrà sembrare paradossale – in molti potevano rico-
noscersi in questa storia. Le tensioni che percorrono la società già
negli anni Cinquanta e con più forza negli anni Sessanta raccontano
di una discrepanza tra le mete indicate dalla politica (i ranghi uffi-
ciali) e le aspirazioni di molte fasce sociali. Tanto che è la cultura
popolare a farsi spesso interprete di queste spinte fuori dalle righe,
mentre cambiamenti della moda segnalano una forte spinta verso il
mutamento sociale, a cominciare da fasce tradizionalmente escluse
dalla grande politica, come le donne e i giovani.
I cambiamenti in realtà erano già iniziati, piano piano, dal basso.
L’abbigliamento ne era una prova. Abbiamo visto il significato so-
ciale e culturale degli abiti, proprio con riferimento ad alcuni capi
di questi anni. Ma come era composto un abbigliamento completo?
E soprattutto, chi c’era dietro alla sua realizzazione?
Per capire meglio questi aspetti, proviamo a fare un immaginario
salto all’indietro nel tempo, per ritrovarci nella spaziosa camera da
letto di una famiglia di classe media, proprio di fronte a un grande
armadio chiuso, che potrebbe svelarci molti segreti1. Questo armadio
è di legno chiaro, precisamente di acero impiallacciato, e presenta
cinque ante con specchi centrali; è ben squadrato e poggia su gambe
sottili. Partiamo dalle porte di destra, che aprendosi mostrano una
sezione di abiti appesi, maschili e femminili. Quelli maschili sono
cinque completi invernali e cinque estivi, dai colori grigio e fumo di
Londra oppure a quadretti o spezzati. La figura che disegnano è quel-
la di un uomo dalle spalle ampie e ben sottolineate dalle imbottiture,

1 La descrizione di questo e dei successivi armadi è realizzata grazie alle risposte

di un’ampia inchiesta con questionari semi-strutturati, integrata da interviste mira-


te, svolta nell’autunno 2014. Oltre a ciò, sono state realizzate ulteriori interviste. Di
particolare utilità per la ricchezza di informazioni quelle dell’A. con G. Bertasso nel
2015; nel caso specifico il riferimento è soprattutto all’intervista del 13 ottobre 2015 a
Milano. Per la famiglia a cui si fa qui riferimento, cfr. le interviste a Raimondo B. nato
nel 1932 e Concetta A. nata nel 1933, raccolte da A. Bonanno nel 2014.
34 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

petto largo in primo piano, segnato da larghi revers e vita poco accen-
tuata, e un taglio doppiopetto o monopetto a tre bottoni. I pantaloni
sono diritti con una o nessuna pince. Il modello è quello tradizionale,
nato con un occhio all’eleganza di Londra, ma i riferimenti ideali qui
sono probabilmente gli attori di Hollywood e i personaggi famosi
che appaiono sui rotocalchi. La loro fattura parla chiaro: sono stati
cuciti da un sarto, dopo un’accurata scelta della stoffa, e veniamo a
scoprire – da una ricevuta lasciata in un angolo – che ogni abito è
costato 6000 lire. Uno o due di questi forse sono stati comprati già
confezionati, e a rigore sono fatti ugualmente bene per un costo ap-
pena superiore. Una discreta scelta, dunque, non sorprendente, visto
l’aumento dei consumi di abbigliamento che si è registrato in Italia
nel boom economico: dopo le ristrettezze della guerra, ci si è potuti
finalmente comprare vestiti e scarpe nuovi, nello stesso momento in
cui si firmavano le cambiali per acquistare la televisione, il frigorifero
e magari la prima macchina. Ora anche il vestito di qualità e di fattura
classica era entrato nel guardaroba, proprio come richiedevano le
regole della buona società. La vita era davvero cambiata.
Ma passiamo agli abiti della moglie. Se i vestiti per lui sottolinea-
no una certa linea di mascolinità, quelli per lei fanno altrettanto per
la femminilità. Ecco allora appesi vari abiti a tinta unita, pois, fiori,
anche sbracciati. Qui le caratteristiche sono la sottolineatura del seno
abbondante e di una vita molto stretta, ottenuti con l’ausilio di cor-
setti e guêpière, oltre a una gonna ricca e a pieghe, così che ne esce
una silhouette quasi a clessidra. Ci viene subito in mente il vestito che
abbiamo visto in Vacanze romane, come pure le figure di molte attrici
del tempo, come Sofia Loren e Gina Lollobrigida – senza contare il
riferimento al New Look di Christian Dior. Per certi versi, era una
decisa reazione alle limitazioni della guerra, quando gli abiti erano
spesso simili a uniformi e si risparmiava ogni centimetro di stoffa. A
guardare bene, non manca anche una certa varietà: si vedono anche
abiti con una linea più dritta e semplice, da portare con la cintura. Le
stoffe sono il cotone, la lana, il taffetà. Resistono, notiamo, i cappotti
pesanti e gli impermeabili tipici degli anni precedenti. Nella parte
centrale dell’armadio, sopra una cassettiera, pendono altri abiti corti:
ecco vari tailleur eleganti tipo Jackie O e alcune gonne plissettate.
Anche qui tutto fatto a mano, in base ai figurini, da una sarta o in casa.
In un cassetto, spuntano le camicette da abbinare: bianche oppure
a fiori di cotone o seta, ornate da collettini di pizzo. In un altro, si
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 35

vedono sottogonne per dare volume ai vestiti e biancheria (acquistata


in negozi specializzati). In altri cassetti ancora, ecco calze e biancheria
per lui, acquistate nei grandi magazzini. Sono tutti capi che verranno
molto usati, perché tailleur, gonne e camicette sono dei classici, si
portano per varie stagioni – e non parliamo poi dei capi maschili,
praticamente uguali da un anno all’altro.
Nella parte di sinistra dell’armadio, infine, tutta a ripiani, distin-
guiamo, oltre ad abiti da lavoro per il marito, pullover e camicie
comprate nei negozi della città: l’ideale per il tempo libero, per an-
dare al cinema o in piazza. E certo nelle scatole in basso ci saranno
borsette, cappelli, guanti, cinture e vari altri accessori per lei (senza
dimenticare le scarpe riposte da qualche altra parte: decolleté op-
pure allacciate, con tacco medio). Insomma, un bel guardaroba, in
parte comprato, in parte cucito da sarti, in parte creato o adattato
con quella che sentiamo ronzare in cucina: una macchina da cucire
Singer – uno dei simboli del miracolo economico. Ma ovviamente
dietro ai capi visti nell’armadio c’è molto di più: un intero settore
industriale di grandi tradizioni, ora in piena trasformazione.

2. La cultura materiale: il ruolo del tessile

Gli oggetti di cultura materiale, come sappiamo, hanno la duplice


valenza di avere un sostrato simbolico e una consistenza fisica. Di qui
le loro peculiarità. Prendiamo gli abiti. Abbiamo visto quanti e quali
significati possano assumere da un punto di vista sociale e culturale,
tanto da sembrare dei veri e propri testi da leggere per capirne il si-
gnificato (questo è almeno il tentativo fatto da molti studi semiotici,
sulla scia dell’esempio di Roland Barthes). Nello stesso momento in-
carnano però anche le conoscenze tecniche ed economiche tipiche
della società che li produce, in maniera caratteristica e riconoscibile.
Il rapporto fra questi due aspetti non è univoco. Gli antropologi
hanno spesso osservato come una sofisticata organizzazione sociale
e un complesso sistema religioso possano convivere con una grande
semplicità e povertà nella vita materiale – almeno secondo i para-
metri occidentali2. Va detto che lo sviluppo sistematico della scienza

2 Cfr. in proposito le osservazioni in C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), Il Sag-

giatore, Milano 2011, p. 209.


36 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

e della tecnica, a fini di potenza, è stato visto da molti come un


elemento caratteristico della cultura occidentale; è grazie ad esso
che l’Europa e l’Occidente avrebbero conquistato una posizione di
preminenza nel mondo (anche se alla lunga c’è il pericolo che la
tecnica stessa instauri un suo dominio). Comunque, in generale, si
può ritenere che la scienza e la tecnologia siano parte integrante dei
valori culturali di una certa società, e vengano sviluppati o meno a
seconda degli stimoli ambientali e del valore che rivestono agli occhi
delle persone. Lo stupore dell’antropologo non è quindi del tutto
giustificato. In particolare, riguardo agli abiti, questo vuol dire che
non basta parlare in astratto del vestito come simbolo, ma bisogna
capirlo anche come oggetto in sé, con le sue specifiche materiali,
perché nella pratica quotidiana le persone possono scegliere o fab-
bricare un abito o un accessorio solo entro il ventaglio di oggetti che
una certa società offre in concreto.
Una conseguenza di queste considerazioni è che dovremmo pen-
sare all’abito come a un manufatto avanzato. Un vestito moderno
racchiude infatti in sé materiali e tecniche di produzione tecnologi-
camente sofisticate, evolutesi nel corso di secoli. Per comprendere
meglio questo aspetto, perché non seguiamo l’avventurosa storia di
un vestito? Magari possiamo prendere il bel completo indossato da
Luciano nella sua passeggiata ad Avellino: un classico giacca-panta-
loni, camicia e cravatta. Così forse potremo proseguire la nostra ana-
lisi e capire meglio come la società degli anni Cinquanta e Sessanta
si rispecchi in un certo tipo di abbigliamento.
Cominciamo dal vestito. Non possiamo appurarlo dalle fotografie,
ma possiamo inferire con una certa dose di certezza, sulle base delle
statistiche, che il suo completo è di lana. Eccoci allora al primo passo:
un bel gregge di pecore che pascola beatamente in qualche vallata,
forse del Regno Unito, o magari in Argentina, in attesa della tosatura.
Quando questa avviene, almeno una volta all’anno, ecco pronta una
montagna di pelo soffice e spumosa, che andrà venduta per essere tra-
sformata in filo. Qui c’è il primo problema, perché non è un’operazio-
ne semplice. Prima bisogna pulire la lana dalle impurità, poi si passa
alla battitura e quindi alla cardatura (anticamente fatta proprio con i
cardi spinosi e poi con tavolette piene di chiodi) per rendere parallele
le fibre. Per le fibre più lunghe e pregiate si può procedere invece alla
pettinatura: il filato pettinato è più morbido, leggero e meno peloso
di quello cardato. Tutto questo è solo la preparazione: ora bisogna
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 37

torcere la fibra per farne un filato. Questo fu per moltissimi secoli il


lavoro delle donne, svolgere il filo e arrotolarlo intorno a un fuso, poi
diventato arcolaio. Un lavoro lento e paziente, fonte di ispirazione per
innumerevoli immagini e leggende, a cominciare da quella più famosa:
le Parche (Moire per i greci). Figlie di Zeus e di Notte, le tre dee che
sovrintendevano alla vita di tutti gli uomini avevano un solo compito:
filare. Cloto era la vera filatrice e filava i giorni dei mortali; Lachesi era
colei che svolgeva il filo e quindi distribuiva i destini; Atropo tagliava
il filo quando era ora, e quindi causava la morte. L’immagine della
filatura come simbolo della vita stessa, dispensata dalle donne, permea
da sempre la cultura occidentale.
Poi un giorno cambiò tutto. Nel 1769 l’inglese Richard Arkwright,
ispirandosi anche al lavoro di altri, creò un filatoio azionato dalla for-
za idraulica; successive invenzioni permisero di migliorare la resa di
questa nuova velocissima macchina che torceva la fibra grazie a rulli
rotanti (in verità il suo primo utilizzo fu con le più resistenti fibre di
cotone, solo dopo fu adattata anche alla lana). Il risultato fu che la
quantità di filato prodotta crebbe enormemente e i costi precipitaro-
no (già prima del 1800 per produrre 45 kg di filato ci volevano solo
135 ore, contro le 50.000 di prima!)3. Non solo. Le macchine pro-
ducevano un filo continuo molto più uniforme, sottile e resistente di
quello che era possibile fare a mano, adattandosi quindi a molteplici
usi. Fu l’inizio di una rivoluzione – anzi della Rivoluzione, quella
industriale. Ecco allora che un successore di queste prime macchi-
ne, magari un moderno filatoio ad anello, dotato di centinaia di fusi
che girano ad alta velocità in contemporanea, è pronto a produrre
dalla lana grezza il filato pettinato che serve per l’abito di Luciano,
arrotolandolo su rocche. Finalmente!
Secondo passo. Ci troviamo ora in una grande fabbrica, rumo-
rosa e piena zeppa di enormi macchinari in perenne movimento,
fittamente allineati su diverse file sino a occupare tutto lo spazio del
grande capannone. Davanti a ogni macchina c’è un lavoratore, anzi
una lavoratrice. In effetti siamo di fronte a grandi telai, per quello
che è forse lo stadio più rilevante dell’intero processo: la tessitura,
tanto che l’imprenditore tessile è il vero dominus della situazione. Se

3 J. Mokyr, The Lever of Riches. Technological Creativity and Economic Progress,

Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 96-99.


38 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

la filatura era stata importante per la Rivoluzione industriale, la tes-


situra è il vero cuore della trasformazione delle società occidentali e,
insieme alla meccanica, è la protagonista del cambiamento nel bene e
nel male (non dimentichiamo che quando Friedrich Engels pubblicò
nel 1845 la sua famosa opera di denuncia della drammatica condi-
zione operaia, descrisse in particolare proprio le fabbriche tessili)4.
L’invenzione del telaio meccanico di Edmund Cartwright nel 1785
aprì una nuova fase in quella che può essere considerata una delle
più antiche attività umane (il più antico tessuto ritrovato, a Cayonu
nella Turchia orientale, risale al 7000 a.C.); un’attività ricchissima di
miti e leggende, come quella dell’abilissima tessitrice Aracne (tra-
sformata per invidia da Atena in ragno) o quella della tela mai finita
di Penelope. O come la spettacolare rete di Indra di cui parla la
mitologia hindu: potente dio guerriero, Indra vive in un magnifico
palazzo sul monte Meru, al centro del mondo, da dove si irradia una
rete che si espande per tutto l’universo e che ha un gioiello dai mille
riflessi ad ogni incrocio di fili, così che ognuno si rispecchia in tutti
gli altri in perfetta armonia e in una completa interrelazione5.
Forse non molti hanno potuto vedere la splendente rete di Indra.
Invece, i risultati della tessitura meccanica erano sotto gli occhi di
tutti. Le stoffe erano cambiate in vari modi: in quantità, grazie alla
velocità di produzione, e questo aveva permesso di inondare i merca-
ti con prodotti a basso prezzo, soprattutto di cotone, finalmente alla
portata di tutti; in qualità, perché le macchine creavano trame fitte
e omogenee anche con filati finissimi, producendo in serie tessuti di
pregio prima riservati alle élite (e talvolta molto difficili da fare a ma-
no); in varietà, perché i telati seguivano una grande varietà di sche-
mi, da quelli classici ortogonali (dove i fili orizzontali della trama si
incrociano regolarmente con quelli verticali dell’ordito) a quelli ad
armatura diagonale (come per il denim) o a raso o anche operati, cioè
arricchiti da disegni grazie all’introduzione del telaio Jacquard nel
1801. Con le stoffe era cambiato anche il modo di lavorare: le nuove
macchine avevano bisogno di molta energia per funzionare e la stan-
dardizzazione richiedeva molti più controlli sulla produzione, per

4 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), in K. Marx e F.

Engels, Opere complete, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1972.


5 F.H. Cook, Hua-yen Buddihsm. The jewel net of Indra, University Park-Penn-

sylvania State University, State College 1977, p. 2.


II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 39

cui era meglio concentrare il lavoro in un unico luogo, la fabbrica. Il


tessile abbandonava così le case e i piccoli laboratori e si spostava in
grandi unità produttive6. Non sempre però, perché spesso piccole
botteghe e attività a domicilio continuarono a sussistere accanto alle
grandi fabbriche, e questa sarà a lungo una caratteristica importante
soprattutto in Italia.
Ma a proposito, dove ci troviamo? Ci sono tre grandi poli pro-
duttivi nel settore laniero. Il primo è in Veneto, dove sono attivi
Alessandro Rossi, che a Schio sviluppa una fabbrica modello sia per
la modernità degli impianti sia per la gestione aziendale, difendendo
anche nell’arena politica le ragioni degli imprenditori protezionisti
contro il libero scambio; e Gaetano Marzotto a Valdagno, altro gran-
de innovatore, specializzato nella produzione di fini tessuti cardati
e pettinati. Il secondo centro è in Piemonte, nella zona di Biella.
Qui sono molti i nomi da ricordare, alcuni dei quali centrali per la
storia del settore: Sella, Piacenza, Reda, Rivetti, Zegna e Loro Pia-
na. Una rappresentanza straordinaria, che non per niente diventa
promotrice della prima associazione laniera in Italia. Il terzo polo è
in Toscana, a Prato. Qui però la lavorazione è differente, in quanto
non si pratica la filatura e tessitura, ma la rigenerazione meccanica
della lana a partire dagli stracci. Si tratta di un prodotto di minore
valore di mercato, fornito da una miriade di laboratori e piccole fab-
briche (un vero proto-distretto), con l’unica eccezione della grande
fabbrica impiantata da Ermanno Kössler, uno dei tanti imprenditori
e dirigenti esteri che vennero a lavorare in Italia nelle prime fasi
d’industrializzazione7. Bene, ora ci sembra chiaro: ci troviamo in
Veneto, e stiamo osservando un telaio pronto a utilizzare il filato
che già conosciamo, prodotto forse in una fabbrica vicina o forse
addirittura qui in un altro reparto (le grandi fabbriche a volte prefe-
riscono accentrare tutte le operazioni). Ne esce un tessuto pettinato,
morbido e fitto, con un peso contenuto rispetto alle tipiche stoffe del
dopoguerra, l’ideale per un bel completo da uomo.

6 Mokyr, The Lever of Riches cit., pp. 99-103; G. Berta, L’Italia delle fabbriche.

La parabola dell’industrialismo nel Novecento, il Mulino, Bologna 2014; F. Amatori, A.


Colli, Impresa e industria in Italia. Dall’unità ad oggi, Marsilio, Venezia 2003.
7 A. Castagnoli, E. Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani, Einaudi, Torino

2003, pp. 100-111. Nel settore laniero, al di fuori dei poli indicati, si segnalavano varie
altre imprese, come la Filatura di Grignasco di Silvio Bozzalla e, nel Sud, le imprese
di Giuseppe Gatti. Ivi, pp. 254-255.
40 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Terzo passo. Il nostro tessuto è bello ma ha un aspetto un po’


grezzo. Infatti deve passare ora al processo di nobilitazione o finissag-
gio. Questi termini indicano tutti i vari processi di tintoria, stampa e
rifinitura, aspetti importantissimi agli occhi del consumatore, perché
conferiscono immediatamente una specifica caratteristica alle diffe-
renti pezze. Quest’ultima fase ha conosciuto importanti progressi nel
Novecento, legati da una parte allo sviluppo dell’industria chimica
per la realizzazione di colori brillanti e resistenti nonché di prodotti
che garantissero lucentezza, impermeabilità, ingualcibilità, resistenza
ai lavaggi, ecc.; dall’altra legati allo sviluppo di perfezionati sistemi
meccanici di stampa dei tessuti (di cui pioniera fu l’impresa mila-
nese De Angeli-Frua). Sotto ai nostri occhi il tessuto ha finalmente
acquistato un bel colore grigio e un aspetto rifinito e lucente. Ecco
che viene avvolto su lunghi tubi di cartone, mentre un’addetta della
fabbrica appone un’etichetta in alto e prepara la pezza per il trasporto
su camion fino alla più vicina stazione ferroviaria, da dove inizierà
un viaggio verso i principali centri urbani. Quanto lavoro per creare
il tessuto del futuro abito di Luciano, e siamo ancora a metà strada.
E la camicia? Bene, possiamo dire che la camicia di Luciano ha
seguito gli stessi passaggi iniziali. Con alcune differenze, però. In
primo luogo è sicuramente composta di cotone al cento per cento,
e questo vuol dire che ha iniziato il suo viaggio molto lontano, pro-
babilmente nei campi di cotone americani, dove la materia prima
grezza è stata raccolta e imbarcata verso l’Europa e l’Italia8. Qui ha
conosciuto le fasi di filatura e tessitura che abbiamo visto, semmai
in modo ancora più rapido ed efficiente. I cotonifici italiani sono in-
fatti fra le imprese più grandi e meccanizzate del tempo, ponendosi
davvero all’avanguardia del mondo tessile in tutti i sensi, in grado
di soddisfare l’intero fabbisogno nazionale di tessuti di cotone, così
come avveniva anche per la lana (si importavano però le materie pri-
me, soprattutto il cotone dagli Usa, e alcuni prodotti finiti di pregio).
Il trend che vede l’industrializzazione italiana svilupparsi a mac-
chia di leopardo è vero anche in questo caso: la protagonista assoluta
ora è la Lombardia, che già nel 1911 fa registrare da sola la metà dei
fusi e dei telai in tutta Italia. Qui operano alcune vere e proprie di-

8 Per i mercati di importazione delle materie prime cfr. G. Federico, S. Natoli, G.

Tattara, M. Vasta, Il commercio estero italiano. 1862-1950, Laterza, Roma-Bari 2011,


pp. 2-3, 40.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 41

nastie imprenditoriali. Come la famiglia Cantoni, stabilitasi nell’Alto


milanese vicino al fiume Olona, che crea in poco tempo la più grande
e moderna impresa del settore; o la famiglia Ponti, attiva nella stes-
sa zona con risultati non minori in termini di quantità e qualità di
produzione; oppure i Crespi, nel bergamasco, che arrivano a creare
una propria centrale idroelettrica per alimentare le fabbriche (oltre
a comprare il «Corriere della Sera»). I cotonieri si distinguono per la
modernità dei loro impianti, per l’attenzione alla manodopera (con la
creazione di villaggi operai) e infine per un’accorta politica di allean­
ze politiche e matrimoniali. Esperienze non meno importanti sono
quelle dei Caprotti di Monza, di Bernocchi a Castellanza e poi anche
varie altre (Oltolina, Cattaneo, Schapira, Bellani, oltre a Bassetti e
Bellora per l’arredo). Uscendo dalla Lombardia, troviamo grandi
imprese in Piemonte (Chiesa, Mazzonis), Toscana (Pontecorvo), Ve-
neto (Jesurum), Emilia-Romagna (Lampugnani), Campania (Bauer,
Siani, oltre a un nutrito gruppo di imprenditori svizzeri)9. Abbiamo
capito. Ecco dunque che anche il cotone per la nostra camicia, filato,
tessuto e tinto di candido bianco in un grande stabilimento a nord di
Milano, è pronto per essere spedito in giro per l’Italia.
Insomma nei decenni Cinquanta-Sessanta, dopo la crisi della se-
conda guerra mondiale e la ripresa del primo dopoguerra, anche gra-
zie agli aiuti americani del Piano Marshall10, la produzione di filati
e tessuti di lana e, a un livello quantitativamente più alto, di filati e
tessuti di cotone continua la sua lenta e costante ascesa, iniziata con
successo ai tempi dell’unità (se è vero che già a fine Ottocento l’inte-
ro comparto tessile valeva ben il 6 per cento dell’export mondiale)11.
Per avere un’idea, basti pensare che la produzione di tessuti in co-
tone in Italia aveva raggiunto 100 mila tonnellate già nel 1922, per
salire fino a 145 mila nel 1940, alla vigilia della guerra; cifra che sarà
uguagliata solo nuovamente nel 1949 e conoscerà un nuovo record

9 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 111-116, 252-
254.
10 E. Merlo, Moda italiana. Storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, Marsilio,

Venezia 2003, pp. 76-83; D.W. Ellwood, L’Europa ricostruita: politica ed economia tra
Stati Uniti ed Europa occidentale, 1945-1955, il Mulino, Bologna 1994.
11 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., p. 442; A. Carreras,

Un ritratto quantitativo dell’industria italiana, in Storia d’Italia, Annali 15. L’industria,


a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti e L. Segreto, Einaudi, Torino 1999, pp.
242-244.
42 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

nel 1963, con 202 mila tonnellate – un andamento che la pone in Eu-
ropa occidentale appena dopo Germania e Francia, anche se molto
lontano dal paese leader, la Gran Bretagna. Una storia abbastanza
simile a quella della produzione laniera, sia pure su cifre inferiori,
che registrò 45 mila tonnellate nel 1938, per arrivare, dopo la caduta
e ripresa per via della guerra, a 77 mila tonnellate nel 196312 (Tabella
1). Schematizzando, dopo una veloce fase di ripresa ed espansione
seguita alla guerra, e durata fino al 1952, le imprese tessili continuano
a crescere, anche se più lentamente rispetto ad altri settori industriali
(non dimentichiamo che storicamente rappresentavano il secondo
comparto occupazionale dopo la locomotiva del metalmeccanico),
cercando di contrastare la crescente concorrenza internazionale con
politiche di concentrazione e automazione13.
Mancherebbe ancora la cravatta, preziosa per il suo tessuto di
seta – ed è una storia particolare, tutta italiana. Ma lasciamola da
parte, per il momento, perché dobbiamo seguire il viaggio dei nostri
tessuti fino a Luciano.

3. Confezione e vendita agli inizi della produzione di massa

Siamo ad Avellino. Ci prepariamo a seguire Luciano e sua moglie


che hanno deciso di comprare un vestito nuovo per lui. Ecco che si
dirigono con decisione verso un negozio molto bello e grande che
ha come insegna “Telerie, biancheria, corredi da casa”. Negozi come
questi si trovano in tutte le grandi città, spesso nelle vie centrali, e
riforniscono i consumatori di tutti i tipi di tessuto nonché degli unici
prodotti che già a fine Ottocento erano confezionati in serie, e cioè
la biancheria per la casa (tovaglie, lenzuola, asciugamani, ecc.) e la
biancheria intima da uomo e da donna – in altre parole, i prodotti
tessili considerati meno di pregio. E le rivendite non erano certo
poche. Una dettagliata indagine del 1957 ci segnala che i negozi

12 Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia, 1861-1975, Roma 1976, p.

94; B.R. Mitchell, International Historical Statistics, Europe 1750-2005, Palgrave,


Basingstoke-New York 2007, pp. 561-579.
13 G. Pescosolido, Industria e artigianato, in Annali dell’economia italiana, vol.

1946-1952, t. 2, Ipsoa, Milano 1982, p. 88; ivi, vol. 1959-1964, t. 2, Ipsoa, Milano
1982, pp. 121-124.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 43

legati al tessile sono il secondo grande gruppo di rivendite, dopo


gli alimentari. Ben 41 mila sono i negozi di biancheria, maglieria e
calze; oltre 30 mila quelli specializzati in tessuti; e solo 13 mila quelli
che vendono abiti già pronti (senza dimenticare 25 mila botteghe di
calzature e 20 mila gioiellerie e bigiotterie) – ai quali vanno aggiunti,
con numeri inferiori, cappellerie, pelliccerie, negozi di articoli da
viaggio, di articoli sportivi e gomma, tessili per arredamento. Un
vero esercito specializzato di 175 mila negozi14.
Quello che abbiamo di fronte ora ad Avellino è un tipico esempio
del settore. Il negozio ha alte vetrine, affiancate da vetrinette più pic-
cole, tutte ugualmente strapiene di merci in esposizione. La nostra
coppia si dirige verso un lato del negozio, dove si trovano alti armadi
con cassetti e soprattutto ripiani su cui sono allineati scatole e rotoli
di stoffe di tutti i tipi e colori. Vediamo Luciano scegliere con molta
cura il tessuto che desidera – guarda caso è proprio la pezza di lana
grigia che conosciamo bene! Osservandolo, ci viene in mente come
sia cambiata nel tempo la gerarchia delle percezioni: noi avremmo
giudicato la stoffa soprattutto in base alle sue qualità estetiche di co-
lore, lucentezza, disegno del tessuto, con eventualmente in aggiunta
la garanzia di qualità rappresentata dal nome del produttore. Luciano
invece è attento a toccarla, ne valuta il peso, la trama, la resistenza,
la “mano”, cioè l’impressione che suscita al contatto. In altre parole,
il senso del tatto ha una sua importante funzione, mentre noi ci affi-
diamo quasi solo alla vista – figli ormai di una società dell’immagine.
Comunque, Luciano ha deciso e prende tre metri di stoffa, a 5600 lire
al metro (non poco: un metro vale quasi quanto un paio di scarpe e
costa il doppio di una stoffa da donna). Ma il vestito completo è fatto
per durare vent’anni e quindi ne vale pena. Paga ed esce per andare
diritto verso un laboratorio di sartoria. Lo seguiamo anche qui.
All’interno del laboratorio incontriamo il suo sarto di fiducia. Ci
troviamo in una grande stanza con varie finestre, tre lunghi tavoli al
centro e due ampi armadi addossati alle pareti. Sul tavolo più gran-
de distinguiamo tutti gli strumenti del sarto: vetro, forbici, gessetti,
ritagli di carta e di stoffa; vicino agli altri tavoli alcune lavoranti cu-
ciono a mano o con macchine da cucire. Il sarto si avvicina a salutare
Luciano e si prepara per realizzare la prima importante fase del suo

14 Istat, Annuario statistico del commercio interno 1957, Roma 1959, p. 42.
44 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

lavoro: la misurazione e realizzazione del modello. In realtà per un


classico abito da uomo, come vuole Luciano, non ci sono tanti spazi
per la fantasia; anzi si seguono regole molto precise (sarebbe diverso
nel caso di un vestito da donna, per il quale bisognerebbe invece
ispirarsi ai modelli pubblicati dalle riviste specializzate o ai figurini
che richiamano i favolosi modelli dell’alta moda di Parigi).
Il sarto comincia a prendere le misure: girovita, spalle, circonfe-
renza torace, lunghezza pantaloni, interno gambale e così via. Anche
se la sua sartoria non è famosa, questo artigiano è molto orgoglioso
del suo lavoro e ha i suoi segreti, alcuni dei quali ispirati alla grande
tradizione dei sarti napoletani. Il vestito che ha in mente è un clas-
sico: giacca che scende a coprire il bacino, ampi risvolti, due spac-
chi laterali, manica morbida e lunga fino a metà palmo della mano;
per i pantaloni, modello con le pinces e risvolto in fondo di quattro
centimetri. Salutato Luciano, il sarto si mette subito all’opera con
la tracciatura, per tratteggiare su stoffa i vari pezzi; in realtà, per le
parti più complesse disegna prima su carta e poi applica i cartamo-
delli sulla stoffa e procede al taglio. Questa è la parte più difficile e
ci vuole una mano esperta. Per tutte queste operazioni ci vorranno
almeno dieci ore di lavoro, comprese almeno due prove sul cliente.
Una volta tagliate le parti, si passa alla seconda fase, quella della
cucitura. Questa è un’operazione lunga ma non difficile tecnicamen-
te; quindi il sarto affiderà il cucito alle sue lavoranti, che dovranno
prima imbastire e, dopo le prove, cucire definitivamente. Almeno al-
tre venti ore (in totale la realizzazione costerà più del doppio rispetto
alla stoffa). Il sarto fruga ora negli armadi e salta fuori di tutto: nastri,
fettucce, merletti, lustrini, passamanerie, cordoni, alamari, elastici,
spille e molto altro (non per niente, c’era un settore produttivo fio-
rente specializzato in questi accessori). Ecco, ha trovato quello che
cercava per completare l’abito: bottoni, imbottiture e fodera (buoni
materiali, del valore di 3 mila lire). Ora è tutto pronto e inizia il lavo-
ro. Nel giro di due o tre settimane Luciano avrà il suo abito, perfetto
e su misura. Era ora!
Ma Luciano avrebbe potuto scegliere altre vie per avere il suo
vestito? In altre parole, non poteva comprarlo già pronto? Sì e no.
L’industria della confezione esisteva da tempo in Italia ma era molto
limitata. È proprio nel periodo del miracolo economico, in parti-
colare dal 1958 al 1963, che il comparto conobbe una prima forte
espansione, un po’ in tutti i settori. Conoscerà una battuta d’arresto
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 45

momentanea solo nel 1964-65, con la crisi economica generale. In-


teressante è la dinamica degli occupati: nel 1961 nell’abbigliamen-
to/calzaturiero c’erano 514 mila addetti (con un trend espansivo)
in ben 181 mila esercizi – a confronto con i 600 mila addetti (in
contrazione) del settore tessile, che però lavoravano in sole 44 mila
imprese (Tabella 1). Le esportazioni confermano questo trend di
sviluppo: nel 1955, ad esempio, il settore abbigliamento esportava
per 38 miliardi di lire contro ai 176 miliardi del tessile (meno di un
quarto in proporzione); dieci anni dopo, nel 1965, il vestiario salì a
265 miliardi di lire rispetto ai 553 miliardi del tessile (circa la metà).
I mercati esteri si confermano un po’ sempre gli stessi: la Germania,
in vari settori, seguita dagli Stati Uniti per i tessuti di lana e cotone
e in parte l’abbigliamento, e poi la Francia15. Più variegata la situa-
zione delle importazioni, che comprendono materie prime e in parte
ridotta manufatti finiti, e quindi provengono da un ventaglio più
ampio di paesi, con quelli europei in genere comunque preminenti.
Questi dati evidenziano un’opposizione nel mondo produttivo: da
una parte un’industria tessile capital intensive con grandi fabbriche
(ma non solo) concentrate geograficamente e avanzata tecnologia;
dall’altra un’industria della confezione labour intensive, composta
da uno stuolo di piccole imprese, laboratori e lavoranti a domicilio,
abbastanza diffusa su tutto il territorio e relativamente arretrata tec-
nologicamente. A parte i sarti, che basavano la qualità del prodotto
sulla loro competenza e manualità personale, le piccole imprese della
confezione erano decisamente poco organizzate e avanzate dal punto
di vista tecnico. Le imprese principali erano concentrate a Torino
e Milano ed erano specializzate in biancheria da uomo (compresa
la camiceria) e da donna, oltre che in alcuni capi specifici da uomo
come gli impermeabili (prodotti anche a Genova e Empoli) – più
prodotti maschili, dunque, perché si riteneva fossero meno variabili
come modelli e perché la produzione in tempo di guerra aveva fatto
maturare un’esperienza specifica (dopotutto il trench si era diffuso
proprio nelle trincee della prima guerra mondiale)16. C’è da stupirsi
se i consumatori ritenessero che gli abiti già pronti fossero di scarsa
qualità rispetti a quelli sartoriali e quindi adatti solo a persone con

15 Istat, Annuario statistico italiano 1956, Roma 1957, p. 297; Id., Annuario stati-

stico italiano 1961, Roma 1962, pp. 294-302.


16 Merlo, Moda italiana cit., pp. 50-64.
46 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

poche esigenze, magari di fuori città? Quindi Luciano non avrebbe


mai preso un vestito già fatto, considerati i molteplici significati socia-
li e professionali legati all’abito, come abbiamo visto in precedenza.
E tuttavia, come detto, proprio in quegli anni Cinquanta stava
prendendo il via una piccola rivoluzione. Mentre i sarti da uomo
guardavano con ammirazione ai modelli inglesi, magari quelli pro-
dotti a Londra nella raffinata Savile Row, e i sarti da donna sospira-
vano con invidia pensando ai favolosi abiti proposti dall’alta moda
di Parigi, gli industriali guardavano all’America. Lì da tempo aveva
preso forma un’industria dell’abbigliamento pronto non solo per
l’intimo e i semplici capi da lavoro o bambino ma adatta per abiti
da uomo e da donna. Un’industria che si basava ancora molto sul
lavoro manuale ma aveva introdotto nuovi macchinari per il taglio,
la cucitura e la rifinitura, e soprattutto modelli basati su operazioni
e taglie standardizzate. Il centro di produzione del nuovo abbiglia-
mento ready to wear, pronto da indossare, era la popolosa Seventh
Avenue di New York, chiamata “il mercato” (ma si sarebbero potuta
chiamare anche “la giungla”, come osserva Nancy L. Green)17. Qui
si concentravano industrie piccole e grandi per produrre – anche
grazie a manodopera immigrata, italiani in primo piano – un nuovo
tipo di abbigliamento dalle forme semplici, comodo, “sportivo” co-
me si cominciava a dire, venduto con successo grazie a nuove forme
di “marketing” (altra novità)18.
Fra i primi a muoversi in Italia è il Gruppo Finanziario Tessile
(Gft), nato nel 1930 dalla fusione dei Lanifici Rivetti del biellese
e da una pioniera delle confezioni, la Donato Levi di Torino. I tre
giovani eredi Rivetti nel 1954 ritengono che il modello di consumo
americano si possa espandere in futuro un po’ ovunque e decidono
di lanciarsi nel settore della confezione pronta. Fanno arrivare dagli
Usa nuovi macchinari e persino esperti tecnici italo-americani per
migliorare la qualità produttiva. Ma i modelli? Una ricorrente lamen-
tala dei consumatori era che gli abiti pronti vestivano male – e ave-
vano ragione, considerato che non esistevano misurazioni statistiche
degli italiani (salvo alcune prese ai soldati di leva) e soprattutto delle
italiane: come impostare allora le taglie giuste? I Rivetti prendono

17 N.L. Green, Ready-to-Wear and Ready-to-Work: A Century of Industry and Im-

migrants in Paris and New York, Duke Univerity Press, Durham-London 1997, p. 44.
18 Ivi, pp. 44-51.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 47

una decisione drastica e organizzano una rilevazione fisiognomica a


tappeto su ben 25 mila persone. Ne ricavano uno schema raffinato
che dà vita a 120 possibili taglie: finalmente ognuno avrebbe trovato
la sua! L’ultimo passo è quello di fare conoscere adeguatamente i
nuovi prodotti: da qui l’idea di creare un marchio apposito per la
linea uomo, Facis (venduta nei negozi Marus), più tardi affiancato
dalla linea di lusso Sidi, e uno per la linea donna, Cori19. E via molta
pubblicità, su riviste e più tardi anche in televisione, basandosi sul
logo disegnato da Armando Testa di un uomo elegante che corre con
sottobraccio un vestito (nel 1959 l’elegante abito invernale da uomo
Gardena in pura lana pettinata anche della pregiata razza cheviot,
“120 taglie – tutti i colori”, costa 29.800 lire, un prezzo che avrebbe
potuto far riflettere anche Luciano)20.
Non troppo lontano, ad Alba, di lì a poco anche i Miroglio si mi-
sero in luce. In origine negozianti di tessuti, divenuti poi produttori
di seta, iniziarono nel 1955 a produrre semplici capi a prezzi concor-
renziali (1000 lire una vestaglia). In seguito crearono un loro marchio,
Vestebene confezioni femminili, che raffigurava un’elegante donna
con vestito a strascico, affermandosi definitivamente negli anni Ses-
santa producendo capispalla, cioè cappotti, giacche e simili, oltre
che abiti nelle nuove fibre sintetiche dove c’era meno concorrenza.
Ma la palma del primato spetta alla Marzotto. La grande impresa
di Valdagno decise infatti di diversificare la sua produzione anche
nell’abbigliamento a partire dal 1951, con il marchio Fuso d’Oro,
sfruttando le potenzialità offerte dalla sua produzione tessile. Come
per gli altri, gli inizi non furono facili, e ci volle quasi un decennio
per una crescita tale da giustificare la creazione di nuovi stabilimenti
specializzati e iniziare un percorso che la vedrà protagonista in molti
campi. In altri casi, la spinta venne da un’attività commerciale. Così
fu per i fratelli Mario e Giannetto Lebole, toscani, che aprirono nel
1956 un negozio di tessuti ad Arezzo per poi fondare un’impresa
di abbigliamento – passata presto nell’orbita della Lanerossi – che

19 G. Berta, Appunti sull’evoluzione del Gruppo GFT, Gruppo Gft, Torino 1989,

pp. 16-17, 49-51. Le prime misurazioni antropometriche generali furono promosse


poi dall’Ente italiano della moda: cfr. Le misure antropometriche della popolazione ita-
liana: l’abbigliamento delle classi giovani dai 6 ai 19 anni, Franco Angeli, Milano 1979.
20 A. Testa, Poster pubblicitario Facis, 1959, in Facis Sidi Cori. Un’analisi condotta

sui fondi dell’archivio storico sulla grafica e la pubblicità dal 1954 al 1979, Gruppo Gft,
Torino 1989, p. 76.
48 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

avrà in pochi anni migliaia di dipendenti, soprattutto donne, e si farà


conoscere grazie a un logo originale: una silhouette maschile fatta
con un metro da sarto, con al braccio un vestito elegante (come dire,
tradizione sartoriale e moda). Il mantovano Luigi Bianchi proveniva
invece da una tradizione sartoriale di alto livello, al punto che tra i
suoi clienti aveva avuto personaggi come Edoardo di Windsor; ma
presto egli mise a frutto la sua fama per creare un’azienda di confezio-
ni e un marchio di successo (dal 1939): Lubiam, reclamizzato anche
in questo caso ovunque, con una grande L che ricordava i revers di
una giacca. Infine altre due innovative esperienze vennero da Reg-
gio Emilia, dove Achille Maramotti fondò la Max Mara, impresa di
grandi dimensioni e di vocazione internazionale fin da subito, attenta
sia alla produzione che alla commercializzazione; e da Perugia, dove
gli eredi di Luisa Spagnoli, famosa fra le due guerre per i suoi capi
in angora, rilanciarono l’azienda potenziando il reparto confezioni
accanto a quello di maglieria. Né mancarono vari altri nomi con un
retroterra più commerciale, come San Giorgio (impermeabili), Het-
temarks, Rosier; o anche le camicerie di Levra a Varese e Pancaldi
a Bologna. Da segnalare infine l’originale iniziativa di Federico A.
Legler che, oltre a una fiorente attività produttiva nel bergamasco,
fondò una delle prime organizzazioni di vendita di abbigliamento
per corrispondenza, la Vestro21. Tutte marche ormai rigorosamente
contrassegnate da loghi ben fatti ed etichette sui capi, che segnano un
passaggio importante per il riconoscimento da parte del consumato-
re, che si focalizza con il tempo più sulla confezione che sul tessuto.
Quello che spicca in questo quadro è che la confezione italiana
conosce a partire dagli anni Cinquanta una crescita impetuosa in
qualità e quantità, per cui l’abbigliamento “pronto” diviene sempre
più una realtà diffusa, prima per gli uomini e poi per le donne. Nel
giro di un decennio le cifre della produzione salgono, creando una
concentrazione nelle regioni già forti nel tessile, e in particolare in
Lombardia, che nel 1958 si conferma la regione che produce più
abiti confezionati in quasi tutte le tipologie, seguita dal Piemonte22.
In sostanza, si crea un asse Torino-Milano sul fronte industriale, se-

21 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 386-391, 388-
390.
22 I. Paris, Oggetti cuciti. L’abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli

anni Settanta, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 153-154.


II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 49

gnato però da una forte concorrenza anche istituzionale. A Torino si


muove dal 1946 l’Ente italiano moda (erede di un istituto creato nel
fascismo), che organizza due grandi mostre di moda nel 1946 e nel
1949 con la presenza di numerose sartorie italiane, a dimostrazione
dei numeri della città piemontese come centro della moda in Italia.
Milano risponde nel 1949 con la costituzione del Centro italiano
della moda e con un boicottaggio di fatto delle iniziative torinesi23.
Più tardi i due centri si organizzano anche con le loro fiere specia-
lizzate: il Samia (Salone mercato internazionale dell’abbigliamento)
a Torino dal 1955 e il Mitam (Mercato internazionale del tessile per
l’abbigliamento e l’arredamento) a Milano dal 1957. La moda indu-
striale italiana nasceva con troppe capitali.
La rivoluzione che abbiamo visto è frutto solo in parte dei produt-
tori: sono cambiati i consumatori. Siamo infatti negli anni del miracolo
economico, e questo vuole dire che si è verificata una forte crescita del
reddito disponibile per le famiglie; vuol dire spostamento di emigrati
dal Sud al Nord e dalle campagne alle città, e quindi formazione di
un nuovo potenziale mercato di consumatori; vuol dire immissione di
uomini in molti lavori impiegatizi (per i quali è d’obbligo il completo
giacca-pantalone, come abbiamo visto nelle fotografie in precedenza)
e anche crescente presenza sul lavoro di giovani donne, che pure
sono tenute a vestirsi in maniera appropriata. E perché no, forse c’è
anche il fascino del nuovo, della velocità, dell’immediato, che sembra
pervadere città ora piene di traffico, luci e persone in movimento, e
quindi non si ha più voglia di aspettare settimane per un vestito o un
accessorio, lo si vuole subito. I vestiti non sono più pensati come “be-
ni durevoli”, da riciclare, rattoppare, usare fino alla morte, ma oggetti
di consumo da cambiare con frequenza e acquistare in quantità prima
impensabili. Nel 1964 le famiglie italiane arrivarono a spendere, per
la prima volta, oltre 2000 miliardi in abbigliamento, quasi come per
la casa e come un quinto della spesa per alimentari24. In circa 12 anni,
dal 1951 al 1963, la spesa per l’abbigliamento raddoppia (Tabella 2).

23 A. Merlotti, I percorsi della moda made in Italy (1951-2010), in Enciclopedia

italiana di scienze, lettere ed arti, VIII Appendice, Il contributo italiano alla storia del
pensiero, a cura di V. Marchis e F. Profumo, vol. III, Tecnica (1950-2000), Istituto
dell’Enciclopedia italiana, Roma 2013, pp. 630-640.
24 N. Rossi, A. Sorgato, G. Toniolo, I conti economici italiani: una ricostruzione

statistica, 1890-1990, in «Rivista di storia economica», 1, X, febbraio 1993, p. 34.


50 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Il vestire prendeva un suo posto dignitoso nel ventaglio delle spese.


E un discorso del tutto similare si potrebbe fare per il settore pelle e
calzature, che conosce una rapida espansione grazie sia ai consumi
interni sia all’esplosione dell’export25.
In sostanza, l’industria della confezione negli anni Cinquanta e
Sessanta si sviluppa rapidamente guardando al consumo di massa,
per rispondere alla crescente domanda di beni di consumo anche
nel settore tessile-abbigliamento. Se ancora nel 1953-1954 solo il 25
per cento degli uomini e l’11 per cento delle donne dichiaravano
di comprare abiti pronti (il resto era cucito da sarti, usato o auto-
prodotto), circa dieci anni dopo, nel 1965, si calcolava che la quota
del confezionato fosse ormai salita al 56 per cento, con un fatturato
quadruplicato e una crescente quota destinata all’esportazione26. In-
somma, l’industria della confezione si era consolidata e non mancava
di allettare i clienti con sempre nuovi modelli, anche grazie alle con-
sulenze che alcune industrie cominciavano a chiedere a sarti famosi:
il Gft si avvalse per alcune sue linee già dal 1958 dei disegni di Biki
(proprio quella che vestiva la Callas) e altre imprese collaborarono
con nomi famosi almeno per alcuni modelli27.
E qui dobbiamo aggiungere un ultimo elemento, per il quale ci
aiuterà ancora Luciano. Perché ora che ha avuto il suo abito nuovo,
vuole accompagnarlo con una bella camicia. All’inizio aveva pensa-
to di farla fare come al solito dalla sua camiciaia, ma poi sua moglie
gli aveva chiesto di accompagnarla a Napoli per fare spese. Eccoli
dunque entrambi a Napoli, precisamente davanti alla sede della
Rinascente. I grandi magazzini sono un tassello importante per la
nostra storia. Perché tutto il lavoro a monte di filatura, tessitura,
confezione non avrebbe senso se non ci fosse un efficace canale di
distribuzione e vendita. L’Italia degli anni Cinquanta è caratteriz-
zata nel settore tessile, e non solo, da un fitta rete di piccoli nego-
zi e pochi grandi empori nei centri urbani. E non sempre questi
negozi, spesso piccoli e con due vetrinette stracolme di prodotti,

25 Pescosolido, Industria e artigianato cit., p. 94; Annali dell’economia italiana, vol.

1959-1964, t. 2 cit., pp. 133-155.


26 Paris, Oggetti cuciti cit., pp. 96-97.
27 E. Merlo, When fashion met industry. Biki and Gruppo Finanziario Tessile (1957-

72), in «Journal of Modern Italian Studies», 1, 20, 2015, pp. 92-110; Id., Moda e
industria 1960-1980, Egea, Milano 2012.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 51

sono capaci di attrarre i clienti. Ma il discorso è diverso per i grandi


magazzini. Qui a Napoli, dove per decenni aveva operato anche il
grande magazzino dei fratelli Mele (“Massimo buon mercato”), ora
è la Rinascente a fare da richiamo. Fin dal suo primo apparire (i
fratelli Bocconi la fondano nel 1877 a Milano), il grande magazzino
incide profondamente sul mercato. Grazie a grandi edifici, son-
tuosi interni e una ricchissima esposizione di merci, oltre al prezzo
fisso e all’ingresso libero, aveva creato un vero e proprio nuovo
modello di vendita. E gli abiti pronti, in questa lussuosa cornice,
avevano ricevuto una forte spinta di immagine ed erano divenuti
più popolari, anche grazie alle vendite per catalogo (la Rinascen-
te aveva persino un’impresa di produzione tutta sua, l’Apem)28.
Anche se la quota di mercato dei grandi magazzini non era molto
elevata, il loro impatto mediatico fu fondamentale.
Luciano è sorpreso dalla quantità di camicie che si estendono
davanti ai suoi occhi. Ma il suo occhio esperto non fatica a vedere
le differenze: nel tessuto, nelle sfumature di colore e nei partico-
lari, come i polsini (con o senza gemelli?) e soprattutto il colletto
(da misurare rigorosamente in pollici, secondo l’uso inglese): stretto
con punte dritte (all’italiana), aperto (alla francese), pin-collar (fer-
mato con spille), club (arrotondato), wing-collar (con alette piegate
all’esterno) – c’è persino quello “sportivo” con i bottoncini, button-
down. Luciano sceglie una camicia classica bianca, di medio peso,
con colletto all’italiana (prodotta da una primaria impresa torinese,
con avanzati macchinari, nel tempo standard di 22 minuti – un otti-
mo livello produttivo, anche se il consumatore non lo sa)29.
Ci siamo alla fine. Luciano esce soddisfatto. Ha la sua camicia
e il suo vestito, anche se ha dovuto aspettare un po’ e spostarsi per
avere esattamente quello che voleva. Noi invece abbiamo fatto viaggi
molto più lunghi e faticosi per seguire l’intero processo produttivo
dei suoi abiti, ma abbiamo la soddisfazione di avere capito un po’ di
più la complessa struttura del mondo tessile italiano.

28 F. Amatori, Proprietà e direzione. La Rinascente 1917-1969, Franco Angeli, Mi-

lano 1989; E. Papadia, La Rinascente, il Mulino, Bologna 2005.


29 Paris, Oggetti cuciti cit., pp. 65-67.
52 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

4. Roma e Firenze, primo asse dell’alta moda italiana

Il paesaggio dell’abbigliamento era dunque multiforme. Si par-


tiva dal più umile sarto a domicilio o dal più misero laboratorio
per spostarsi verso fabbriche con produzioni sempre più sofisticate,
per qualità e materiali impiegati. Come percorrendo un nastro di
Möbius all’apparenza sempre uguale, ci si poteva ritrovare in am-
bienti produttivi completamente diversi. Già, perché le foto di Lu-
ciano e della Callas sono sì contemporanee, ma raccontano storie
(anche di vestiti) ben diverse. La diva Callas era certamente cliente
del segmento più alto ed elitario dell’abbigliamento, l’alta moda.
Qui il pensiero corre subito a Parigi, che, almeno da metà Ot-
tocento (di solito si parte dal successo del sarto inglese trapiantato
Charles F. Worth), era sede di un vero e proprio sistema della moda.
Questo aveva i suoi punti di forza nella qualità artigianale, nel pregio
dei tessuti e nella formidabile immagine della moda parigina, ed era
strettamente regolamentato dalla Chambre Syndacale de la Haute
Couture dal 1868. Ben pochi erano i sarti ammessi in questo ristretto
club, così come pochi e prestigiosi erano i loro clienti sparsi per il
mondo (ogni abito era un carissimo pezzo unico fatto su misura).
Ma l’immagine della haute couture travalicava il suo significato in
termini economici e si riverberava su tutta la produzione francese: è
come se agisse da straordinario veicolo di promozione, grazie a nomi
come Jean Patou, Coco Chanel e poi Christian Dior, Pierre Cardin
e molti altri ben noti. Inoltre essa aveva fissato dei punti fermi di
riferimento: grande prestigio sociale del sarto (creava lui ora i mo-
delli invece di fabbricare un vestito su ordinazione del cliente come
una volta), andamento stagionale della moda diviso in due stagioni
all’anno; sfilate e passerelle dei nuovi abiti da presentare in maniera
spettacolare nell’atelier stesso o all’esterno30. Ben differenziato era
il restante mondo sartoriale (moyenne e petite couture) o, ancora
peggio, il nascente mondo degli abiti confezionati.
Anche in Italia in realtà esistevano importanti case di moda, an-
che se non godevano certo della fama delle star parigine, al cui stile

30 R. Arnold, Il significato dell’alta moda nella storia della moda, in Moda. Storia

e storie, a cura di M.G. Muzzarelli, G. Riello e E. Tosi Brandi, Bruno Mondadori,


Milano 2010, pp. 54-62; V. Steele, Paris Fashion. A Cultural History (second edition),
Berg, Oxford-New York 2006.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 53

imperativo finivano in qualche modo per soggiacere. Le grandi sar-


torie italiane si concentravano soprattutto a Roma, un po’ a Firenze e
Milano, e a Napoli per gli abiti maschili. Era comunque Roma, negli
anni Cinquanta e Sessanta, a vantare il maggior numero di atelier e
a puntare in modo specifico sull’alta moda.
La capitale nel dopoguerra stava vivendo un momento speciale.
Grazie alla presenza di una lunga e diffusa tradizione sartoriale e
avendo alle spalle una storia di grandi sarti che servivano una clien-
tela di politici, diplomatici e turisti d’élite, la città poteva schierare
molti nomi importanti. Come Emilio Federico Schuberth, formatosi
nella sartoria Montorsi, famoso per abiti di gran lusso; l’atelier Ca-
rosa, guidato dalla principessa Giovanna Caracciolo Ginetti; Alber-
to Fabiani, noto per i suoi capispalla; Roberto Capucci, apprezzato
per le sue originali creazioni geometriche; Fernanda Gattinoni, con
esperienze presso Chanel e Ventura di Milano; e poi le due forse più
note: Simonetta Colonna di Cesarò, pure di casata nobiliare, che
univa il suo fascino personale a uno stile moderno, attenta anche
alla “moda boutique”, cioè a capi un po’ meno esclusivi riprodotti
artigianalmente in piccole quantità; e le sorelle Fontana, originarie
di Parma, rinomate per il loro impeccabile taglio, che divennero fa-
mose come sarte dei divi (a cominciare da Tyrone Power che scelse
Roma e i loro abiti per sposarsi)31. Ad esse si accompagnavano sar-
torie da uomo del calibro di Brioni (creata da Nazareno Fonticoli e
Gaetano Savini), Angelo Litrico e soprattutto Domenico Caraceni.
È interessante notare che molti grandi sarti lavoravano in quella
che stava diventando una zona specializzata nel lusso, tra via Condot-
ti e via Frattina, creando quindi una precisa geografia dell’alta moda.
Ma la loro influenza si estendeva anche ad altri luoghi, a cominciare
da via Veneto, centro di quella mondanità che presto Fellini avrebbe
immortalato nella Dolce vita. Tutto ciò era parte della fascinazione
che suscitava la Roma del dopoguerra, grazie alle sue architetture,
all’ostentazione del lusso e al fascino di una vita da godere attimo per
attimo (salvo risvolti noir come nel caso dell’omicidio Montesi)32. Un
clima che attrasse la cinematografia americana interessata a girare

31 C. Capalbo, Storia della moda a Roma. Sarti, culture e stili di una capitale dal

1871 a oggi, Donzelli, Roma 2012, pp. 127-131.


32 S. Gundle, Death and the dolce vita: the dark side of Rome in the 1950s, Canon-

gate, Edinburgh 2011.


54 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

colossal storici negli ambienti originali e a bassi costi (Quo Vadis,


Elena di Troia, Ben Hur) o anche a sfruttare un’affascinante ambien-
tazione “esotica” per storie romantiche (La contessa scalza, oltre al
già ricordato Vacanze romane). Presto si formò un efficace binomio
cinema-moda, con le grandi sartorie che creavano abiti per le star del
cinema, sia dentro ai film che nella vita esterna, e la moltiplicazione
di sartorie teatrali specializzate (come quella di Umberto Tirelli)33.
Su questa stessa scia si sarebbe affermata presto una seconda gene-
razione di creativi, a cominciare da Irene Galitzine, inventrice del
“pigiama palazzo” e di tessuti innovativi, per proseguire con Renato
Balestra, le sorelle Fendi e Valentino Garavani34.
Nel complesso uno sviluppo buono ma lontano dal glamour di
Parigi (e oltretutto si sarebbe profilato da metà anni Sessanta il de-
clino della Hollywood sul Tevere). La creazione di un ente organiz-
zativo specifico per Roma nel 1949, il Comitato della moda, non
mutò la situazione.
Il rilancio venne da un’altra capitale della moda, Firenze. È il 12
febbraio 1951, data simbolo per la moda italiana. Il barone Giovanni
Battista Giorgini, singolare figura di appassionato d’arte, collezionista
e buyer per i grandi magazzini americani d’alta gamma, organizza nella
sua residenza di Villa Torrigiani una sfilata con nove case d’alta sarto-
ria (cinque di Roma: Schuberth, Simonetta, Sorelle Fontana, Fabiani,
Carosa; quattro di Milano: Marucelli, Veneziani, Noberasco, Vanna)
e quattro case di “moda-boutique”: quella del marchese Pucci di Fi-
renze, del sarto Avolio di Milano, della Tessitrice dell’Isola (baronessa
Gallotti di Capri) e della maglieria Mirsa (marchesa Olga di Grésy
del novarese). Inoltre sono presentate varie collezioni di accessori. Le
sfilate con 180 modelli durano tre giorni e terminano con una grande
festa a cui partecipa l’aristocrazia fiorentina35. Cosa c’è di speciale? Sfi-
late, passerelle, mostre e feste non erano certo una novità. Ma qui c’è

33 Capalbo, Storia della moda a Roma cit., pp. 132-137; S. Gundle, Hollywood

Glamour and Mass Consumption in Postwar Italy, in «Journal of Cold War Studies», 3,
4, 2002, pp. 95-118; E. Paulicelli, Framing the self, staging identity: clothing and Italian
style in the films of Michelangelo Antonioni (1950-1964), in The Fabric of Cultures:
Fashion, Identity, and Globalization, a cura di E. Paulicelli e H. Clark, Routledge,
London-New York 2009, pp. 53-72.
34 Capalbo, Storia della moda a Roma cit., pp. 154-158.
35
S. Stanfill, Introduction, in The Glamour of Italian Fashion Since 1945, a cura di
S. Stanfill, V&A Publishing, London 2014, pp. 8-29.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 55

qualcosa di diverso: è una riuscita operazione di marketing e di comu-


nicazione della moda italiana. All’evento partecipano infatti vari buyer
di grandi magazzini statunitensi e affermate giornaliste di moda (noi
diremmo opinion leader). Giorgini promuove così l’immagine com-
plessiva di una moda italiana con un suo profilo originale, differente
da quello francese, caratterizzata da alta qualità sartoriale e da eccel-
lenti materiali, e bassi costi (un abito di Noberasco costa tra i 25 e i 40
dollari, un vestitino di cotone fatto a mano della Tessitrice dell’Isola
dai 9 ai 12 dollari, decisamente poco rispetto agli standard parigini)36.
Inoltre lega indissolubilmente la nuova moda italiana all’immaginario
della tradizione di arte e cultura di Firenze: non a caso, quasi tutte
le fotografie delle modelle sono riprese sullo sfondo di monumenti
celebri. Come dire che vi è una precisa continuità tra passato rinasci-
mentale e presente, continuità che rende uniche le creazioni italiane.
Inoltre è molto sottolineata la presenza aristocratica, sia fra i creatori
di moda sia tra le indossatrici (tutte nobili, abituate a portare abiti
impegnativi, visto che non esistevano ancora modelle professioniste).
Nasce così un’immagine originale di glamour italiano. Il successo è
immediato, sia in termini di vendite sia di entusiasti articoli sulla stam-
pa italiana e americana, tanto che alla successiva manifestazione in
luglio Giorgini inviterà 15 case di moda e avrà come pubblico ben 300
buyer, trovando in breve importanti sponsor nei principali produttori
tessili italiani, da Rivetti a Snia viscosa37.
Lo sfondo fiorentino non era certo casuale. La Toscana era da
tempo una delle protagoniste della scena, grazie alle produzioni di
abbigliamento, concentrate tra Firenze e Pisa, e ancor più di pel-
letteria e cuoio. La peculiarità di queste produzioni era la qualità
artigianale, che faceva frequenti riferimenti stilistici e tecnici alla glo-
riosa tradizione del passato. Come era per Salvatore Ferragamo, che
nel 1927 aveva creato a Firenze una calzoleria da donna cercando di
unire stile tradizionale e soluzioni innovative. Come quando brevet-
tò i modelli in materiali poveri come rafia e sughero tra le due guerre,
o le scarpe antitorsione per bambino, o ancora i modernissimi sanda-
li trasparenti fatti con filo di nylon da pesca – uno stile che trovò una
completa affermazione negli Stati Uniti, dove divenne il “calzolaio

36 V. Pinchera, La moda in Italia e in Toscana. Dalle origini alla globalizzazione,

Marsilio, Venezia 2009, p. 30.


37 Ivi, p. 36.
56 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

delle dive”. O come Guccio Gucci, che dal 1921 produceva raffinati
articoli per equitazione e di pelletteria che ebbero grande successo
internazionale a partire dagli anni Sessanta, con prodotti divenuti
iconici come i mocassini e i foulard. O ancora, per passare all’abbi-
gliamento, come il marchese Emilio Pucci, uno dei protagonisti delle
sfilate fiorentine, oltre che della vita aristocratica locale, che ideò
nuovi tessuti leggerissimi in seta e fibre sintetiche dai pattern ispirati
alla pittura antica o ad artisti contemporanei, e fu pioniere della mo-
da boutique per lo sport (famosi i suoi completi da sci, i costumi da
bagno e gli abiti di seta che non facevano pieghe)38. Ma al di là dei
singoli nomi, era il tessuto di piccoli e piccolissimi produttori sparsi
sul territorio o coagulati in alcuni insediamenti storici a costituire
la vera forza produttiva dell’area (nel 1961 era la seconda regione
d’Italia per numero di imprese nei settori moda, dopo la Lombardia,
e la terza per numero di addetti, dopo Lombardia e Piemonte)39.
L’iniziativa fiorentina non fu però gradita ai sarti romani, che nel
1953 decisero di disertare quasi tutti le sfilate di Giorgini e fondare
nel 1954 il Centro romano per l’alta moda italiana, ritenendo che fosse
Roma ad avere in mano le carte migliori per essere la capitale della
moda. Per tutta risposta, Giorgini si fece promotore nello stesso anno
del Centro di Firenze per la moda italiana. Se a ciò si aggiungono gli
enti già attivi a Milano e soprattutto Torino e, dal 1962, il Centro me-
diterraneo della moda creato a Napoli, si ha un’idea della complicata
geografia istituzionale che si era creata. E qui emerge un problema
endemico del settore, la forte conflittualità non solo tra case produt-
trici, come ci si può aspettare, ma anche tra cluster geografici. Una
conflittualità nociva alla lunga per tutti, tanto che faticosamente alla
fine si giunse a un accordo generale per creare un organismo unitario
sul modello francese: fallito un primo tentativo per una Camera sinda-
cale della moda nel 1958, visto che comprendeva solo Roma e Firenze,
si passò alla Camera nazionale della moda nel 1962, comprendente
tutti, organismo che si rivelò capace di stipulare importanti accordi
con grandi industrie tessili e di confezione40.

38 Ivi, pp. 288-301.


39 Ivi, pp. 139-144; 155-171; cfr. anche E. Merlo, F. Polese, Costruire una capitale
della moda: Milano, le premesse ottocentesche, il risveglio degli anni Cinquanta, in «An-
nali di storia dell’impresa», 19, 2008, pp. 49-108.
40 Merlo, Moda italiana cit., pp. 94-99.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 57

In conclusione, questa storia dell’asse dell’alta moda è istruttiva,


con i suoi chiaroscuri, anche perché ci ricorda altri due importanti
attori del sistema moda. Il primo è costituito dagli intermediari com-
merciali, che svolgono una funzione a volte poco visibile ma fonda-
mentale. In Toscana, ad esempio, vi era una forte concentrazione di
buying office, attivi fin dagli anni Venti, che agivano da uffici acqui-
sto per l’estero dapprima per l’artigianato e poi per l’abbigliamento,
orientando in maniera significativa l’export. In molti casi, fu la loro
azione a surrogare le carenze organizzative del settore e a comporre
la frammentazione dei produttori. E furono ancora loro ad attivare
importanti contatti soprattutto con i compratori del Nordamerica.
Non è certo un caso che Giorgini provenisse da questo retroterra41.
Di conseguenza, dobbiamo pensare alla fase della distribuzione co-
me più lunga e complessa di quanto appaia a prima vista.
L’altro protagonista è dato dagli organismi istituzionali. Si è visto
che nel caso italiano, più che un intervento diretto dello Stato, fu l’i-
niziativa sindacale di categoria a fare da protagonista, spesso suppor-
tata da enti locali. Era chiara a tutti la funzione centrale di un ente di
coordinamento che potesse fare da ponte e collegamento tra le varie
sezioni della filiera come anche tra i diversi comparti geografici. In un
sistema frammentato come quello italiano, questa delicata operazione
fu particolarmente importante e alla fine si rivelò molto fruttuosa.
Cosa dire per concludere? Forse che questa organizzazione pro-
duttiva, con le sue molteplici geografie e “capitali”, sembra rispec-
chiare i valori profondi che abbiamo visto informare i significati so-
ciali del vestirsi. È infatti una società, questa degli anni Cinquanta e
Sessanta, che apprezza ciò che è solido e concreto, e quindi dà più
importanza alle fasi produttive del sistema moda, quelle che creano
manufatti: tessuti, in primo luogo, e poi abiti. Le fasi “a valle”, come
la distribuzione e la pubblicità, appaiono in questo contesto meno
rilevanti. E anche se non mancano segni di trasformazione, questa
struttura ha solide radici nel passato.
Una delle opere più famose di Paul Klee, Angelus Novus, è stata
descritta da Walter Benjamin come il ritratto dell’angelo della sto-
ria42. Questa figura guarda fissamente da un lato, verso il passato

41 R. Marcucci, Anibo e made in Italy. Storia dei buying offices in Italia, Vallecchi,

Firenze 2004; Pinchera, La moda in Italia e in Toscana cit., pp. 237-239.


42 P. Klee, Angelus Novus, dipinto, 1920.
58 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

ormai trascorso con tutto il suo carico di detriti, e vorrebbe forse


fermarsi a ricostruire e a guarire, ma è sospinta da un incessante ven-
to tumultuoso verso il futuro, a cui volge le spalle43. Se in effetti uno
guarda quest’opera, al Museo d’Israele a Gerusalemme o almeno
attraverso le sue riproduzioni, resta perplesso: l’inquietante angelo
dai tratti modernisti osserva qualcosa di lontano in una postura un
po’ rigida, le ali distese, il volto grande è sproporzionato, la bocca
aperta. Difficile riconoscervi l’interpretazione data da Benjamin. Ma
forse il critico voleva mandarci un messaggio, sotto l’influsso dei
drammatici avvenimenti che stava vivendo: non si può mai tornare
indietro perché la nostra vita è in continua trasformazione, spinta
verso un futuro che può essere capito però solo con uno sguardo che
riconosca il passato.
Forse dovremmo cogliere allora il suggerimento di Benjamin per
comprendere meglio alcuni importanti aspetti del mondo della mo-
da, e, prima di proseguire, provare a fare un breve salto all’indietro,
nel periodo tra le due guerre.

43 W. Benjamin, Tesi sulla filosofia della storia, IX (1940), in Id., Angelus Novus.

Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 80.


III

FLASHBACK: LA MODA IN CAMICIA NERA

1. Vestire autarchico

Seduto sulla poltrona del lussuoso atelier, le gambe accavallate da un


lato, con il suo inappuntabile completo doppiopetto, con il papillon e il
foulard nel taschino forse un po’ eccentrici, il commendatore interrompe
con fastidio l’impiegato che gli si avvicina per preannunciargli i nuovi
modelli della sartoria Rossi di Milano. “Mon Dieu! Che stonatura, che
fastidio fisico: Milano!” I suoi occhi invece si illuminano quando vede
entrare raffinate modelle con vestiti dalle ricche bordature, tailleur neri
con risvolti di pelliccia bianca, tanto da esclamare rapito: “Guardi qui,
guardi qui: Parigi!” Ma l’impiegato insiste: “Lei non mi fa parlare, sono
questi i modelli di Milano”. Il viso del commendatore cambia di colpo
espressione e, assicuratosi incredulo che sia tutto vero, osserva ora gli
stessi abiti con disgusto: “Oh, mi pareva...”.
Il direttore della Maison Printemps di Torino alla lunga pagherà cara
la sua esterofilia. Mentre si svolge la tormentata storia d’amore – a lieto
fine, naturalmente – tra una delle sue mannequin e un calciatore della
nazionale, egli sarà licenziato dalla nuova proprietaria, proprio quella
della sartoria di Milano, tra l’altro zia del calciatore, che imporrà il bando
a ogni esotismo e la valorizzazione del lavoro italiano. Lieto fine dunque
per i giovani innamorati e per il nuovo stile italiano.
(Contessa di Parma, diretto da A. Blasetti, Italia 1937)

È con questa storia che uno dei registi cinematografici più in vista
del tempo, Alessandro Blasetti, promuove nel 1937 uno dei dettati
del regime fascista: creare una moda italiana. E lo fa con un film
con attori italiani, sceneggiatori italiani (tra i quali Mario Soldati) e
ovviamente vestiti italiani, rigorosamente provvisti del marchio di
garanzia e forniti da note sartorie di Torino. Inutile dire che gli sforzi
60 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

del regime non ebbero successo. La storia insegna che non basta pro-
grammare lo sviluppo a tavolino e poi propagandarlo per cambiare
le cose: troppi fattori culturali, sociali ed economici vi confluiscono.
La moda ne è un esempio. E tuttavia, nonostante gli scarsi risultati, il
periodo tra le due guerre è importante per comprendere gli sviluppi
successivi e merita quindi un approfondimento.
Per cominciare, da dove arriva l’idea di una “moda italiana”?
Al di là di un certo nazionalismo favorevole alle produzioni locali,
collegato alla presenza di un settore tessile molto sviluppato, forse
la prima importante icona di una moda italiana fu Margherita di
Savoia, la prima regina d’Italia. Sposa di Umberto nel 1868, fin da-
gli inizi mostrò un carattere deciso e un suo stile particolare, di cui
l’abbigliamento era parte integrante. Non si può parlare ancora di
una vera moda italiana, ma i suoi ricchissimi vestiti bianchi o comun-
que chiari, anche dopo il lutto, pieni di trine, arricchiti da preziose
spille e soprattutto da immancabili numerosi giri di perle crearono
un modello da imitare per l’aristocrazia, e un’immagine da amare
e rispettare per il popolo. Appassionata di montagna e automobili,
politicamente conservatrice, fu sempre attenta alla sua immagine e
al rapporto con i sudditi, che da parte loro la amarono molto, de-
dicandole monumenti, poesie (Carducci), rifugi di montagna (sul
Monte Rosa), dolci, una rivista («Margherita. Giornale delle Signore
italiane» dell’editore Treves), una famosa pizza, strade in varie città e
molto altro. Per un periodo si parlò di vera e propria voga del “mar-
gheritismo”. In ogni caso, il lusso del suo abbigliamento fu parte in-
tegrante dell’immagine di regalità che la regina volle costruire per la
casa Savoia, e i suoi particolari vestiti e gioielli furono forse il primo
esempio di un riconoscibile “stile italiano” per oltre cinquant’anni.
Ma c’erano anche spinte di altro tipo, ben incarnate in un’altra
donna d’eccezione, Rosa Genoni. Appassionata di politica e di moda,
la giovane sartina di Tirano (presso Sondrio) aveva studiato l’orga-
nizzazione dell’abbigliamento a Parigi, ed era convinta che si potesse
replicare anche in Italia. Esistevano infatti straordinarie tradizioni sti-
listiche e produttive a cui ispirarsi, a cominciare da quelle del Rina-
scimento, e c’erano tutte le potenzialità per creare un abbigliamento
originale e tutto italiano. E doveva essere una moda democratica: bi-
sognava fare dialogare l’arte come fonte di ispirazione con la tecno-
logia come metodo di produzione. In altre parole, Rosa Genoni era
a favore della produzione di massa di qualità in un’epoca in cui non
III. Flashback: la moda in camicia nera 61

esisteva proprio, almeno in Italia. E non si limitò a perorare le sue cau-


se nell’agone pubblico, ma per oltre vent’anni, dal 1905, insegnò alle
ragazze operaie milanesi la storia del costume e tenne lezioni pratiche
di sartoria, biancheria e modisteria presso la Società Umanitaria; visitò
vari corsi professionali in Europa; ricevette premi internazionali per
le sue creazioni; si spese sempre per i diritti delle donne e dei meno
fortunati1. Insomma, se la moda italiana doveva esistere, doveva essere
per tutti – ben lontana quindi dai fasti dei Savoia.
C’era poi chi pensava che la moda italiana dovesse essere arte,
provocazione, dinamismo, ardimento, fosforescenza: i futuristi. A
partire dal 1914 Tommaso Filippo Marinetti e i suoi seguaci lancia-
rono una serie di manifesti sui vestiti, che testimoniano un interesse
non passeggero. Il primo fu Giacomo Balla, che compilò un decalo-
go dei colori dove ognuno aveva una versione passatista (deprimen-
te, monotona, mortuaria) e una versione futurista (gioiosa, ridente,
spirituale); così al verde passatista, “fegatoso” e che sviluppa invidia
e sospetti, si oppone un verde futurista, eccitante, divertente e che
“giovanilrinfresca”. C’è un unico colore senza il suo antitetico, il
nero. Questo è solo passatista: “vecchioso: catafalcoso, macchione,
lento, getta tristezza ovunque”2. Cambierà idea. Negli anni Venti e
Trenta seguiranno proclami sull’abbigliamento maschile e femmi-
nile, per alcuni versi innovatori e quasi preveggenti, come quan-
do esaltano l’originalità e la personalizzazione di abiti e accessori,
nonché l’uso di materiali atipici come stagnola, alluminio, canapa,
tela da imballaggio, gomma (ma anche, in verità, vetro, maioliche,
pelle di pesce, gas, piante fresche, animali viventi)3. Né mancarono
proposte interessanti come quella di un “abito universale” e cioè
una tuta polivalente ricavata da un unico pezzo di cotone, disegna-
ta da Thayaht. In generale però le loro proposte di abiti sagomati
stranamente, giacche policrome, cravatte di metallo, cappelli tattili
o luminosi non ebbero proprio seguito4.
Voci diverse, quindi, che invocavano genericamente uno stile ita-

1 E. Paulicelli, Rosa Genoni. La Moda è una cosa seria. Milano Expo 1906 e la

Grande Guerra, Deleyva, Monza 2015.


2 G. Balla, Azione dei colori (1914), in Id., Scritti futuristi, Abscondita, Milano

2010, p. 21.
3 Volt [V. Fani], Manifesto della moda femminile futurista, in «Roma Futurista»,

29 febbraio 1920.
4
E. Crispolti, Il futurismo e la moda: Balla e gli altri, Marsilio, Venezia 1986.
62 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

liano senza alcun coordinamento, più segni di una sensibilità che si


stava sviluppando che di un effettivo cambiamento. Forse la svolta
decisiva ci fu con la prima guerra mondiale. Allo scoppio del con-
flitto, e con più forza mano a mano che la guerra si faceva più dura e
drammatica, l’onda di patriottismo che pervase l’Italia, come un po’
tutti i paesi, si riversò anche sul settore moda, presentando l’acquisto
di capi italiani come un piccolo dovere morale, al quale erano chia-
mate soprattutto le donne. Non solo. Le sofferenze imposte da un
conflitto che non si era mai visto prima ispirarono a tutti il desiderio
di semplicità e austerità: in momenti simili, lussi, sprechi e frivolezze
dovevano essere messi al bando. Anche per motivi pratici: in primo
luogo, materiali come il cuoio, le pelli e la seta scarseggiavano perché
requisiti per usi militari, limitando le tradizionali produzioni di vesti-
ti e scarpe; in secondo luogo, perché Parigi in guerra non poteva più
fornire né gli abiti né i figurini tanto richiesti dalle sartorie, e quindi
ci si doveva ingegnare per forza con modelli nostrani, più o meno in
linea con lo stile francese. Anche negli anni seguenti, i mutamenti na-
ti con la guerra pesarono: abiti lunghi fino a terra, strascichi, merletti
e fiori, vitini da vespa, capelli enormi e decoratissimi, tutto sparì. La
Belle Époque finì per sempre. Sostituita da cosa?
Le immagini del tempo mostrano donne e uomini ormai diversi.
Alcune foto della famiglia Necchi Campiglio degli anni Trenta pre-
sentano le signore a passeggio con semplici tailleur stretti e lunghi fi-
no al polpaccio, impreziositi da spille, camicette ricamate, cappellini
portati di sbieco e scarpe décolleté bicolori. Gli uomini prediligono
invece i completi doppiopetto, sempre con camicia bianca e cravatta
in tinta; solo in vacanza si permettono di togliere la cravatte, mentre
le donne al loro fianco indossano vestiti senza maniche5. Tutti ele-
ganti ma sobri.
In realtà, a uno sguardo più generale, quello che davvero colpi-
sce in questo periodo è la presenza ossessiva di divise. Non solo nei
raduni oceanici, ma per strada e sui luoghi di lavoro le uniformi si
sprecavano. E non parliamo delle divise civili che le varie catego-
rie professionali adottavano da tempo come segno distintivo, ma di
quelle militari e soprattutto di partito. Nell’ultimo caso il completo

5 Archivio Fai, Fondo Villa Necchi Campiglio, Album 00, Amici 1929-1962, foto

nn. 7 e 8, settembre 1935, e n. 9, Salsomaggiore settembre 1940.


III. Flashback: la moda in camicia nera 63

era fisso: giacca lunga con cinturone e bandoliera, con sotto camicia
e cravatta, e poi calzoni infilati negli stivali di pelle, guanti e infine,
elemento originale, il fez, copricapo ripreso dagli arditi. Tutto rigo-
rosamente nero. Spesso queste divise erano realizzate in orbace, un
tessuto pesante e ruvido che si otteneva dalle capre sarde. È fin trop-
po facile dedurre da questa diffusione il desiderio del fascismo di
militarizzare e disciplinare la società. L’uso della divisa ha senz’altro
il ruolo di disciplinare i soggetti che la portano, nello spirito come
nel corpo che ne è l’espressione sociale esterna; per via della costri-
zione rappresentata dalla conformità del completo, uguale per tutti
e senza possibilità di minime variazioni individuali, sottolinea infatti
la sottomissione a un principio generale comune. Nello stesso tem-
po però la divisa separa chi la indossa dalla collettività, sottolinea i
legami speciali all’interno del gruppo, favorisce sentimenti di solida-
rietà6. Lo si vede dalle tante foto di gruppo dei fascisti: distaccandosi
dai disprezzati borghesi con i loro abiti grigi ma anche dai militari
con le divise tradizionali, loro, con un’uniforme trasgressiva, tutta
nera e con il fez, si riconoscevano orgogliosamente come un gruppo
speciale. Inoltre la divisa disegnava un certo tipo di corpo maschile,
che metteva in evidenza il torace (ampio e definito da spalline per
squadrare le spalle) e comportava una certa rigidezza, forzando un
po’ la postura per farla risultare ben eretta – nell’Ottocento addirit-
tura si cucivano le divise più strette per irrigidire e fare risaltare il
petto maschile e si portavano pantaloni con fettucce sotto ai piedi
per tenerli belli dritti7. Anche dalle divise passò la costruzione di un
immaginario fascista.
Ma cosa indossavano le persone nella vita quotidiana? Per ren-
dercene conto concretamente, immaginiamo nuovamente di poter
tornare indietro nel tempo e trovarci in una casa di lavoratori a metà
degli anni Trenta8. Una volta individuata la stanza da letto dei geni-
tori, un po’ scura e monumentale, eccoci di fronte all’oggetto che ci

6 L.B. Arthur, Dress and social control of the body, in Religion, dress and the body,

Berg, Oxford-New York 1999, pp. 1-7; J. Craik, Uniforms Exposed: From Conformity
to Transgression, Berg, Oxford-New York 2005.
7 E. Hackspiel-Mikosch, Uniforms and the creation of ideal masculinity, in The Men’s

Fashion Reader, a cura di P. McNeil e V. Karaminas, Berg, Oxford 2009, pp. 121-124.
8 Come in precedenza, la descrizione di questo armadio è stata scritta in base ai ri-

sultati un’ampia inchiesta con questionari semi-strutturati e interviste mirate (autunno


2014). Di particolare utilità per questo caso l’intervista con G. Bertasso del 13 ottobre
64 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

interessa: un grande armadio in noce. È imponente, squadrato, alto


due metri e ha tre ante, quella centrale con specchio. Sotto le ante,
presenta tre grandi cassetti. Da una rapida ricognizione intorno, già
notiamo un primo elemento che ci colpisce: non ci sono altri armadi
in casa, questo basta per tutta la famiglia (tovaglie e lenzuola sono
riposte a parte in un cassettone). Capiamo subito che ci aspetta uno
spettacolo diverso da quello che abbiamo visto in precedenza.
Apriamo l’anta di sinistra. È chiaramente lo spazio destinato al
marito. Qui troviamo due eleganti completi, uno estivo e uno inver-
nale, dal taglio ampio e comodo. Le giacche hanno spalle larghe im-
bottite e ampi revers, sono doppiopetto; i pantaloni sono molto lar-
ghi e con le pinces. Disegnano chiaramente un’immagine maschile di
decoro, compostezza e anche abbondanza, vista la quantità di stoffa
impiegata in un’epoca di ristrettezze. A fianco c’è un impermeabile
(il famoso trench) e un pesante cappotto lungo, dal taglio vagamente
militare. Su un ripiano in alto sono allineate due camicie bianche, a
fianco di un cappello floscio di feltro; da una gruccia sull’anta pen-
dono varie cravatte e due cinture. Sul ripiano in basso vediamo ben
piegati indumenti da lavoro: pantaloni, camiciotti e grembiuli, oltre
a due grossi maglioni. Alcuni di questi mostrano abili segni di ricu-
citure, a riprova del loro uso intenso, al contrario degli “abiti della
festa” indossati solo la domenica e nelle occasioni speciali.
Passiamo adesso alla parte centrale, un po’ più ampia, che è riser-
vata alla moglie. Qui si trovano alcuni vestiti in tinta unita o stampati
con motivi floreali, in cotone o rayon, e due tailleur con giacchette
dalla vita ben segnata. Ci sono capi accuratamente ricamati, sulle ta-
sche e sul colletto, e con volant (gli abiti per la domenica). Notiamo
anche due o tre gonne, lunghe oltre il polpaccio, strette o plisset-
tate; un paio di camicette bianche e altrettante di delicate fantasie,
e due golfini. A fianco di alcuni grembiuli, anche qui pendono un
impermeabile e un cappottone scuro, con ampi revers. La forma de-
gli abiti, abbandonata ormai la silhouette filiforme degli anni Venti,
sottolinea la naturale posizione della vita e lascia trasparire le curve
del corpo, forse un rimando alla sottolineatura della femminilità e
maternità tanto cara al regime. Ovviamente niente pantaloni. Sul

2015. Per la famiglia a cui si fa qui riferimento, cfr. le interviste a Raimondo B. nato nel
1932 e Concetta A. nata nel 1933, raccolte da A. Bonanno nel 2014.
III. Flashback: la moda in camicia nera 65

ripiano in alto, dentro a scatole, alcuni cappellini di feltro e stoffa,


due borsette con manici corti di bachelite, fazzoletti e foulard.
Da dove viene questa roba? Salvo i vestiti più belli, in particola-
re da uomo, affidati a un sarto professionista, praticamente tutto il
resto è fatto in casa dalla madre e dalle figlie più grandi. La madre
comprava la tela e da quella cuciva vestiti per tutte le figlie, di diversa
taglia e fattura; gli abiti più belli, per la festa, si ricavano invece dalle
lenzuola della dote, impreziositi da ricami e merletti fatti a mano.
Maglioni e golfini erano ottenuti da lana comprata o filata dai cuscini
e poi lavorata ai ferri. Qui ne spicca uno di colore ciclamino: da dove
viene, visto che ai tempi non c’erano maglie colorate? È un segreto
di casa: si immergeva il maglioncino appena fatto in acqua bollente
insieme a fogli di carta velina rossa, e voilà! L’inventiva non ha limiti.
Anche la biancheria intima derivava da un’unica pezza di cotone o
flanella bianca, tagliata e cucita a seconda dei bisogni. Tutti i capi,
insomma, avevano una lunga storia. Non parliamo poi di quelli im-
portanti, come i cappotti. A volte nascevano come divise militari,
modificate sia per uomo sia per donna; poi passavano da un figlio
all’altro e quando diventavano davvero troppo logori, venivano ri-
voltati (era facile capirlo guardando l’occhiello). Insomma, grazie
anche a stoffe robuste, non si smettevano mai. Tutto era riparato,
riciclato, riusato. Dicevamo che molta stoffa era ripresa da uniformi
militari dismesse – durante la guerra si ricicleranno anche i palloni
frenati, usati per ostacolare il volo degli aerei a bassa quota: la loro
tela gommosa era ideale per gli impermeabili di tutta la famiglia; e
c’erano poi i paracadute in seta, trasformati in capi fini per uomo
e donna, o le tende da campeggio, ottime per camicie e grembiuli.
Il vero problema erano le scarpe. Costavano tanto e non durava-
no mai abbastanza, anche perché si andava tanto a piedi. Così si ri-
correva a tutte le tecniche: quelle “buone” per gli adulti erano tenute
da conto, protette e riparate a tutti i costi; per i bambini si usavano
rinforzi metallici per punte e tacchi su robusti scarponcini; per il
lavoro e tutti giorni addirittura si confezionavano zoccoli con base in
legno e tomaia in stoffa oppure pianelle con base in cuoio, gomma o
altro materiale riciclato e sopra tessuto. La misura giusta era spesso
un optional. Le calzature erano riparate così tanto che, accanto al
calzolaio vero e proprio che costruiva e aggiustava le scarpe, c’era il
ciabattino, specializzato in rattoppi e risuolature.
Passiamo all’anta di destra, dove si trovano i capi per bambini:
66 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

camicette, golfini, pantaloncini corti o alla zuava (per i maschietti


fino ai 16 anni), vestitini per le femminucce (tutti della stessa stof-
fa), grembiuli scolastici, con tanto di fiocco rosa o azzurro, e poi ci
salta all’occhio una piccola camicia nera e un berretto con pompon:
certo per i saggi di ginnastica di un piccolo balilla, come imposto dal
regime. Infine, dai cassetti alla base, saltano fuori biancheria intima,
calze, sciarpe e piccoli accessori.
Tutti i vestiti di casa in un armadio che oggi forse basterebbe
a una persona sola: è questo forse il dato saliente del periodo. Si
possiedono solo i vestiti che servono, in un’ottica generale per cui i
consumi sono limitati e compressi da una diffusa povertà. Così tutto
è pensato per durare e per proteggere dalle intemperie, a cominciare
dalle lane calde e pesanti, per riparare dai lunghi inverni con poco
riscaldamento. Le stoffe sono in buona parte naturali (lana e coto-
ne) ma in certi capi appaiono le prime fibre artificiali, poco costose.
La funzione di protezione è centrale. Infine i vestiti, pur nella loro
sobrietà, mantengono un tratto dignitoso e signorile, sono sempre
in ordine, stirati, puliti e, soprattutto, tutti fatti a mano da sarte ca-
salinghe o abili professionisti.
Certo, noi abbiamo visitato una casa di lavoratori; ben diversa
sarebbe stata la situazione in una famiglia alto-borghese o aristocra-
tica. Qui gli abiti maschili, magari in principe di Galles, avrebbero
guardato ai modelli hollywoodiani di attori famosi come Clarke Ga-
ble e Cary Grant. Le donne avrebbero guardato a Greta Garbo o
attrici simili come modelli di riferimento, indossando raffinati abiti
cuciti con il taglio sbieco, introdotto da Madeleine Vionnet, e sfog-
giato cappotti con colli di volpe o anche vertiginosi abiti da sera
provenienti direttamente dalle maison di Parigi. L’eleganza guardava
sempre lontano.
Se questa dunque era la situazione, come poteva agire il fascismo
per creare una moda italiana, invocata da produttori e giornalisti? La
strategia adottata fu perfettamente in linea con la condotta del regime
in altri campi. Terminata la fase di assestamento al potere, dalla metà
degli anni Venti iniziò un’azione di controllo e riorganizzazione delle
varie branche produttive, sotto l’insegna formale del corporativismo.
In sostanza, la parola d’ordine era quella di creare organismi in cui
fossero presenti rappresentanti delle associazioni produttive e che
fossero in grado di orientare le scelte. Una soluzione “industriali-
sta”, in primo luogo, che avrebbe dovuto portare con sé una rinasci-
III. Flashback: la moda in camicia nera 67

ta creativa. Nel pieno del dibattito sulla nuova forma dell’economia


corporativa, nel 1932, ecco allora che un decreto crea a Torino (tra il
disappunto dei produttori milanesi) l’Ente autonomo per la Mostra
permanente nazionale della moda, di cui fanno parte le associazio-
ni degli industriali e dei commercianti, la ex Camera di commercio,
due banche e la Città di Torino, oltre a rappresentanti del ministero
delle Corporazioni. L’ente doveva coordinare tutte le attività legate
al settore e organizzare due mostre all’anno per presentare i prodotti
italiani (la prima fu nell’aprile 1933)9. È evidente che il regime aveva
sì un occhio al corporativismo fascista ma anche uno all’organizza-
zione francese. Ma certo senza conseguire risultati paragonabili, tan-
to che nel 1935, sulla spinta della proclamata autarchia, si decise di
trasformarlo in Ente nazionale della moda, dotato di più ampi poteri.
Il nuovo ente si preoccupò di censire le sartorie primarie, risulta-
te trecento, e rilasciare loro una “marca di garanzia”, un talloncino
triangolare con il logo stilizzato eMn, a riprova dell’italianità di stile
e materiale (e c’erano multe salate se non si garantiva un certo nume-
ro di capi italiani). Molto attivo, organizzò sfilate sponsorizzate dagli
industriali tessili e mostre (importante quella sulla moda autarchica
nel 1940), convegni e dibattiti, “ispirò” tutta una nutrita serie di
giornali femminili (circa una quarantina, tra i quali spiccavano per
raffinatezza «Lidel» di Lydia De Liguoro e «Bellezza» con Giò Ponti
come collaboratore), commissionò un Commentario dizionario ita-
liano della moda che traduceva la corrente terminologia della moda,
per lo più in francese, con termini italiani e persino dialettali – e
risultati spesso ridicoli10. Ma la moda italiana stentava ad affermarsi
e il prestigio culturale delle produzioni francesi rimaneva ben saldo.
La “signora elegante” nel fascismo continuò a guardare a Parigi;
tutte le altre avevano i loro bravi problemi a tirare avanti, a casa o
magari al lavoro, e guardavano questo mondo da lontano, al massi-
mo attraverso qualche fotografia su una rivista o l’immagine patinata
delle attrici nei film hollywoodiani.

9 S. Gnoli, La donna l’eleganza il fascismo. La moda italiana dalle origini all’Ente

Nazionale della Moda, Edizioni del Prisma, Catania 2000, pp. 43-44, 57-65.
10 Ivi, pp. 89-99; A.M. Ruggiero, L’immagine della donna italiana nelle riviste fem-

minili durante gli anni del Fascismo, in «Officine della storia», 9, aprile 2013, http://
www.officinadellastoria.info.
68 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

La battaglia sullo stile in nome del nazionalismo era perduta11.


Ma altri aspetti meritano una riflessione per le loro conseguenze nel
lungo periodo. A cominciare dal mondo della produzione.

2. Abiti ed ecosistema

Uno degli aspetti più affascinanti del vestire è che illumina i no-
stri rapporti profondi con l’ambiente. Ci racconta cioè come noi
umani abbiamo intessuto legami di collaborazione, sfruttamento ma
anche coevoluzione con molte specie animali e vegetali.
I nostri più antichi progenitori avevano imparato a cucirsi abiti
di pelli d’animale con aghi fatti d’osso; nel Paleolitico superiore pro-
babilmente già fabbricavano stringhe, reti, ceste e semplici forme di
cappelli e proto-vestiti, come mostrano le “Veneri paleolitiche”, sta-
tuette femminili dai tratti sessuali molto accentuati ritrovate in varie
zone d’Europa (che datano appunto tra 27.000 e 20.000 anni fa)12. La
grande rivoluzione agricola che trasformò i cacciatori-raccoglitori
nomadi in coltivatori stanziali fu spinta dal bisogno di assicurarsi
fonti di cibo più ampie e sicure – ma anche materiali tessili adeguati.
Gli animali smisero di fornire solo pelli e carne occasionalmente in
seguito alla caccia, ma fornirono latte, pelli, carne e pelo in maniera
continuativa grazie all’allevamento. E il primo animale a essere ad-
domesticato (dopo il cane), quello più importante di tutti, presente
in tutti i miti fu uno solo: la pecora.
Docile e di piccola taglia, eccellente produttrice di latte e di car-
ne, la pecora ha un prezioso vello di calda lana che può essere ta-
gliato una volta all’anno e che molto presto si imparò a utilizzare
prima come feltro e poi come filato e tessuto (i primi furono forse
i sumeri)13. La sua lana fu tanto apprezzata che molti allevamenti
si specializzarono per ottenerne di migliore qualità, con due precisi

11 E. Paulicelli, Fashion under Fascism. Beyond the Black Shirt, Berg, Oxford-New

York 2004, pp. 75-76, 142-143.


12 O. Soffer, J.M. Adovasio, D.C. Hyland, The “Venus” Figurines: Textiles, Baske-

try, Gender, and Status in the Upper Paleolithic, in «Current Anthropology», 4, 41,
2000, pp. 511-537.
13
D.R. Headrick, Technology: A World History, Oxford University Press, Oxford
2009, pp. 5, 27-28.
III. Flashback: la moda in camicia nera 69

obiettivi: una fibra più fine e lunga, un colore più bianco possibile
(in origine, il colore era spesso tendente al marroncino-rossastro). La
pecora si diffuse così quasi ovunque, anche se non era presente in
America dove c’erano invece lama e alpaca (la lana di questi ultimi,
finissima, era riservata alle classi più elevate, ad esempio tra gli In-
cas). La capra, che pure forniva un vello prezioso, non poté rivaleg-
giare. La storia culturale conserva perciò profonde tracce di questo
ruolo preminente in rapporto agli uomini. Lo zodiaco che è giunto
a noi dopo molti passaggi (proveniente ancora dalla Mesopotamia)
non ha dubbi a mettere il poderoso ariete nella prima posizione,
quella corrispondente alla rinascita della primavera; gli Argonauti
greci mostrarono tutto il loro valore impadronendosi in Colchide
del favoloso vello d’oro, appartenuto a un mitico montone; nella
tradizione ebraica la figura dell’agnello sacrificale, una volta effetti-
vamente immolato nel tempio, assunse un ruolo centrale divenendo
simbolo dello stesso figlio di Dio.
Per inciso, va ricordato che nell’Italia moderna era in piena fio-
ritura anche la produzione di cuoi e pellami, per restare sull’utilizzo
di prodotti animali. All’inizio del Novecento, in particolare, c’era
stata una forte spinta grazie a nuove macchine e nuovi prodotti che
semplificavano e velocizzavano la concia tradizionale. Nel 1911 il
censimento segnalava la presenza di 30 mila laboratori, più nume-
rosi e con un giro di affari superiore a quello dell’abbigliamento.
Anche in questo caso, le pelli provenivano in minima parte dall’Italia
ma erano importate da Asia, Africa e America, e quindi lavorate
per potere rifornire le industrie produttrici di articoli di consumo,
soprattutto valigie, borse e calzature, ma anche articoli industriali,
come molti tipi di cinghie. Diffusi in tutta Italia, questi laboratori
si concentravano spesso in zone specializzate: in Campania, dove
fioriva l’industria dei guanti; nelle Marche e in Lombardia (Varese,
Vigevano), importanti poli calzaturieri; in Toscana, per rifornire va-
ligerie e produttori di accessori in pelle14.
Per ritornare ai tessuti, va detto che quelli più antichi proveni-
vano invece dal regno vegetale15. Il lino, prima di tutti. Molto in uso

14 A. Castagnoli, E. Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani, Einaudi, Torino

2003, pp. 120-122.


15 I. Good, Archaeological Textiles: A Review of Current Research, in «Annual

Review of Anthropology», 30, 2001, pp. 209-226.


70 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

nell’antico Egitto per gli abiti dei ricchi e per gli involucri dei morti,
era abbastanza facile da ottenere. Bastava mettere a bagno i lunghi
steli della pianta e si ottenevano fibre flessibili e lucenti, molto adatte
per i climi caldi. L’unico problema è che non era facile colorarle e
quindi si usava abbinarvi ornamenti molto colorati – non è un ca-
so che la gioielleria egizia sia ancora oggi ricordata per la maestria
nell’uso dei colori. Il lino era anche utilizzato per i suoi semi, così
come un’altra pianta, la canapa, più robusta, era usata per molteplici
scopi dai tessuti ai cordami e alla carta. Solo molto più tardi essa
fu abbinata culturalmente principalmente al suo uso sotto forma di
medicinale e droga. Ma il re della fibre tessili fu certamente un fiocco
bianco e delicato che in origine cresceva spontaneamente in India
e nel Centro e Sudamerica: il cotone. Non è difficile identificare un
ristretto numero di piante che ha avuto un’importanza fondamen-
tale nel corso della storia, tanto da giustificare rotte commerciali,
causato guerre, fondato o minato poteri consolidati (a iniziare dalle
spezie). Fra queste c’è certamente il cotone. Conosciuta e lavorata
da almeno tremila anni, questa pianta ha una notevole resa, produce
fibre facili da lavorare, si tinge facilmente, è leggera ma resistente e si
è rivelata particolarmente adatta alla produzione meccanizzata. Già
molto diffusa nel medioevo in varie parti del mondo, Cina compresa,
fu uno dei prodotti centrali su cui si basò la prima Rivoluzione in-
dustriale, soprattutto nella Gran Bretagna che si riforniva di materia
prima in India; e fu per le piantagioni di cotone che aumentò la tratta
di schiavi verso l’America, accrescendo la concorrenza con il Nord
industriale e la rivolta morale contro la schiavitù che furono alla base
della guerra di secessione negli Stati Uniti. Ancora oggi, è la pianta
tessile più diffusa a livello globale16.
E l’Italia come entra in questa lunga storia? Il suo ruolo fu quasi
sempre quello di paese trasformatore, anche guardando indietro: la
produzione di materia prima locale esisteva ma non era in genere di
elevata qualità. In compenso, come si è visto, ci si specializzò in tutte
le successive fasi della lavorazione, al punto da fare del paese un fon-
damentale punto di riferimento per la produzione tessile. Con una
importantissima eccezione. Perché se il re dei tessuti era il cotone, se

16 G. Riello, Cotton: The Fabric that Made the Modern World, Cambridge Univer-

sity Press, Cambridge 2013.


III. Flashback: la moda in camicia nera 71

si parla di quantità, il re, o meglio, la regina per la qualità fu sempre la


seta. È ben noto che l’origine della seta fu in Cina, circa tremila anni
fa, e la leggenda narra di come l’imperatrice Xi Ling-shi scoprisse il
segreto del baco dopo che un bozzolo le era caduto in una tazza di tè
bollente: il sottile e resistente filo che si svolgeva non finiva mai, tanto
da ricoprire un intero giardino. Il filo era bellissimo, incredibilmente
lucente, morbido, sottile, facile da tingere con tinte vivaci, davvero
adatto ad abiti regali. Anche se questa storia fu creata posteriormen-
te, è certo che il segreto fu custodito per millenni, pena la morte, e si
diffusero in Occidente varie leggende sulla seta, creduta una pianta
che fioriva in un favoloso Eden, custodita da gelosissimi guardiani.
E la via della seta si affermò come la rete commerciale internazionale
forse più rilevante per centinaia d’anni. Solo verso il VI secolo i bachi
furono contrabbandati in Occidente e da qui diffusi ovunque. L’Italia
si distinse presto per l’eccellenza delle sue produzioni, fin dal medio-
evo e poi nel Rinascimento e oltre. Riguardo al periodo moderno che
qui più ci interessa, il ruolo della seta è centrale per due motivi.
In primo luogo, in Italia vi era una fortissima produzione di seta
greggia e anche di prodotto lavorato e semilavorato. Per decenni
la seta costituì di gran lunga la voce più importante dell’export di
molte aree e arrivò da sola al 30 per cento del valore totale. Persino
dopo che la malattia della pebrina aveva intaccato molto la produ-
zione, il 1913 registrò un suo export pari al 20 per cento del totale,
con oltre mezzo milione di allevatori concentrati in Lombardia, Pie-
monte e Veneto17. Basti pensare che già nel 1900 l’Italia era arrivata
a produrre oltre 5000 tonnellate di preziosa seta greggia e riuscì a
mantenere un tale livello produttivo, tra alti e bassi (crisi passeggere
e guerra mondiale) per trent’anni, fino al 1930, quando inizierà il
suo declino18 (Tabella 3). Un simile flusso di denaro costituì una base
economica decisiva per il successivo decollo industriale, una sorta di
accumulazione primaria di ricchezza. Un secondo elemento, come
è stato suggerito, riguarda la diffusione di fattori culturali favore-
voli allo sviluppo19. Spieghiamoci meglio. La produzione della seta

17 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 24-25.


18 Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia, 1861-1975, Roma 1976, p. 94;
G. Federico, S. Natoli, G. Tattara, M. Vasta, Il commercio estero italiano 1862-1950,
Laterza, Roma-Bari 2011, p. 48.
19 L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989.
72 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

è complessa e comprende alcune operazioni tipicamente agricole e


altre tipicamente industriali. È come se gettasse un ponte tra mondo
agricolo e mondo industriale, abituando molti operatori a pensare
al mercato, sia all’inizio della filiera, quando i contadini producono
per integrare i loro magri redditi, sia alla fine, quando i produttori
organizzano rapporti e contatti finanziari per esportare i prodotti
all’estero. In pratica, si forma un’attitudine orientata a una produ-
zione “moderna” che può essere considerata il primo vero passo in
direzione dell’industrializzazione20.
In Italia questo processo vide comparire precocemente importanti
fabbriche, soprattutto nell’Ottocento, in particolare nel triangolo Mi-
lano-Como-Bergamo. Per cominciare, vi erano gli stabilimenti baco-
logici che si occupavano di selezionare microscopicamente il migliore
seme-bachi, produttivo e resistente alle malattie (Giovanni Tranquilli,
Giovanni Battista Imberti, Giovanni Giavazzi). Era il turno quindi dei
contadini, che allevano i bachi su ripiani di legno nelle stalle o anche
nelle case (perché dovevano stare al caldo), dando loro da mangiare
foglie di gelso, fino a quando in giugno, dopo quattro mute, i bachi si
avvolgevano in un bozzolo: ecco il momento di raccoglierli in ceste di
vimini, che venivano pesate, pagate e inviate alle filande. Da notare,
per inciso, che la cura dei bachi era in genere compito di donne e
bambini. Nella marea di piccole filature e torciture, che si occupavano
della fase successiva e quindi scaldavano i bozzoli e li svolgevano in
un filo continuo, emersero all’inizio del Novecento grandi filande, a
volte con già un secolo di vita, come quelle di Alberto Keller, Pietro
Gavazzi, Pietro Bonacossa e molte altre. Più avanzate tecnologica-
mente erano infine le tessiture, che avevano adottato speciali sistemi
di meccanizzazione, fra le quali si distinguevano quelle di Edoardo
Stucchi, Giuseppe Carcano, Pio ed Egidio Gavazzi21. Insomma, la seta
per l’Italia rappresentò a lungo davvero un “filo d’oro”22. E la preziosa
cravatta di seta di Luciano, che avevamo ricordato descrivendone il
vestito, non è solo un segno di raffinata eleganza: è un simbolo della
ricchezza manifatturiera del paese.

20Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 24-29.


21G. Federico, Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla Restaurazione alla
grande crisi, Marsilio, Venezia 1994, pp. 14-69; Castagnoli, Scarpellini, Storia degli
imprenditori italiani cit., pp. 102-105.
22 Federico, Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta cit.
III. Flashback: la moda in camicia nera 73

Questa era dunque la situazione tra le due guerre. Ma fu proprio


in quel momento che si verificarono alcuni cambiamenti rivoluzio-
nari. È chiara l’inveterata tendenza umana a manipolare piante e
animali per i propri bisogni; ma il sogno era svincolarsi dai limiti im-
posti dalla natura e creare tessuti in maniera del tutto indipendente.
Era un sogno realizzabile? Nell’epoca della rivoluzione scientifica
sembrò di sì. E alcuni passi decisivi spalancarono le porte a fonda-
mentali cambiamenti nel rapporto tra natura e cultura.

3. La rivoluzione della chimica

Ovviamente si partì dalla seta. Riprodurre in altro modo la fibra


più pregiata e ricercata facendo affidamento sulle nuove conoscenze
sviluppate dalla chimica fu il primo obiettivo. L’idea era di partire dal
costituente fondamentale delle fibre tessili, e cioè la cellulosa (anche
la bava del baco da seta in fondo era formata a partire dalle foglie di
gelso), e riuscire a lavorarla. Dopo vari tentativi, fu Hilaire de Char-
donnet, amico di Louis Pasteur, a ideare nel 1884 un metodo per
produrre “seta artificiale”. Egli partì dal processo già noto per cui la
cellulosa immersa in un solvente (acido nitrico e solforico) diveniva
nitrocellulosa; questo composto era poi pressato in una piastra con
microfori, da cui uscivano sottili filamenti lucenti. Alla grande Espo-
sizione universale di Parigi del 1889 i visitatori poterono ammirare
fra le tante meraviglie, sulle quali spiccava il capolavoro di ingegneria
in ferro della Tour Eiffel, anche una macchina di sua invenzione che
tesseva questi fili miracolosi e produceva una stoffa simile alla seta ma
realizzata dall’uomo23. C’era solo un inconveniente e non da poco: i
filamenti erano molto infiammabili. Per questo si continuò a lavorare
per perfezionare il sistema o, meglio, cercare un altro solvente. Co-
me riuscirono a fare nel 1891 due giovani chimici britannici, Charles
F. Cross e Edward J. Bevan, che inventarono un procedimento più
semplice e sicuro per ottenere fili artificiali da un composto chiamato
viscosa; ad essa si affiancarono altre fibre meno diffuse a base di cel-
lulosa ottenute con procedimenti diversi (bemberg, acetato).

23 Le fibre intelligenti. Un secolo di storia e cinquant’anni di moda, a cura di M.

Garofoli, Electa, Milano 1991, pp. 13-16.


74 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Tutti questi procedimenti furono inventati a fine Ottocento ma


i prodotti divennero di uso comune solo a partire dagli anni Venti.
E non con l’originario nome di “seta artificiale” ma come “rayon”,
come stabilirono nel 1924 i produttori americani prima ed europei
poi per evitare l’idea di un succedaneo inferiore. E per questa novità
alcune imprese (Bemberg italiana e più tardi Orsi Mangelli o Omsa)
pensarono a un mercato nuovo: non una concorrenza nel consolida-
to settore dell’abbigliamento, ma una specializzazione nella maglie-
ria (magari tessuto insieme a lana o cotone) e soprattutto nell’intimo
(agli inizi il rayon era stato impiegato per lo più per realizzare rica-
mi). Qui una spinta fondamentale venne dalle calze da donna. Da
sempre usate in cotone o lana, solo per le signore più ricche in seta, le
calze in rayon rappresentarono una grande novità che incise profon-
damente nel costume. Nel momento in cui l’abbigliamento diveniva
più funzionale e anche le gonne femminili si accorciavano per como-
dità, le gambe ricoperte dalle sofisticate calze di rayon, trasparenti e
lucide, ebbero un grandissimo successo. Le gambe velate divennero
un punto fermo nella costruzione dell’abbigliamento femminile ed
entrarono nell’immaginario collettivo24. In sostanza si creò un nuovo
mercato di massa, prima inesistente, molto attento al lato estetico an-
cor più che a quello di protezione (considerata la delicatezza del filo
di rayon). Di qui una lenta accettazione verso l’adozione del rayon
anche per abitini e camicette fruscianti e leggere, spesso con colori
accesi o fantasie floreali tipiche dei più accreditati prodotti in seta.
E ciò anche grazie a continui miglioramenti produttivi – agli inizi i
consumatori lamentavano che camicette e vestiti in rayon fossero
troppo lucidi, ruvidi al tatto, problematici nel lavaggio (“a volte si
strappavano, di notte facevano le scintille” ricorda uno di loro)25. Si
può dire che fu un importante passo verso la democratizzazione del
lusso, dovuta all’incontro fra tecnologia e mercato.
L’Italia fu in primo piano in questo processo. Una forte spinta
venne da una spericolata figura di industriale, Riccardo Gualino.
Piemontese, nella sua lunga carriera si lanciò in ardite operazioni in
settori molto diversi: cominciò con il commercio internazionale di
legname, si dedicò poi al trasporto marittimo transatlantico, cercò di

24 Ivi, pp. 22-28.


25 Intervista dell’A. con Gianni B., Milano 13 ottobre 2015.
III. Flashback: la moda in camicia nera 75

realizzare un polo produttivo specializzato in dolci (l’Unica), fondò


la casa di produzione cinematografica Lux; infine si interessò alla
chimica, sia per prodotti agricoli e di consumo, sia – ed è quello
che ci interessa – per il nuovo settore delle fibre artificiali. Qui nel
1919 investì cospicue risorse per riconvertire la sua Snia (Società di
navigazione italo-americana) in un’impresa specializzata nella pro-
duzione del rayon, acquisendo impianti preesistenti e creandone di
nuovi. Il successo fu immediato e clamoroso. Già nel 1925 l’Italia era
il secondo produttore mondiale di rayon dopo gli Stati Uniti, gran
parte del quale era esportato (per consumi interni invece il paese era
soltanto al quinto posto)26. Un primato europeo che durerà fino al
1937, quando la Germania accelererà, confermando una situazione
che durerà a lungo (muterà in parte nel secondo dopoguerra, ma
solo fino agli anni Settanta, con l’inserimento della Gran Bretagna)
(cfr. ancora Tabella 1).
La nuova industria era moderna, capital intensive, ben finanziata
grazie a intrecci tra industriali e banche, fortemente votata all’inno-
vazione e decisamente internazionalizzata. Non proprio tipica nel pa-
norama tessile. Così quando il regime fascista nel 1927 proclamò la
rivalutazione della lira a “quota 90”, fu proprio Gualino a inviare una
dura lettera di protesta a Mussolini, a nome degli industriali esposti
sul fronte dell’esportazione. Il duce non gradì. Pochi anni dopo, iso-
lato dalla Confindustria, Gualino fu arrestato e inviato per alcuni anni
al confino27. Il suo posto al comando della Snia fu preso da France-
sco Marinotti, altra figura interessante, formatasi nel commercio con
l’Unione Sovietica. Marinotti risanò la Snia, che accusava una forte
sovrapproduzione anche per via della crisi seguita al 1929, rilancian-
dola con un nuovo prodotto: il fiocco, cioè una fibra di rayon tagliata
corta, particolarmente adatta a essere tessuta insieme alle fibre natu-
rali o addirittura a sostituirle del tutto. Nel 1934 la Snia produceva
il 60 per cento di fiocco a livello mondiale e gli impianti tornarono a
produrre a pieno ritmo28. Nel 1935 la Snia iniziò a produrre anche un

26 A. Colli, Fibre chimiche, in Storia d’Italia, Annali 19. La moda, a cura di C.M.

Belfanti e F. Giusberti, Einaudi, Torino 2003, p. 509.


27 F. Chiapparino, Riccardo Gualino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Trec-

cani, Roma 2003, vol. 60, pp. 172-178.


28 M. Spadoni, Francesco Marinotti, in Dizionario Biografico degli Italiani, Trecca-

ni, Roma 2008, vol. 70, pp. 550-554.


76 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

sostituto della lana derivato dalla caseina del latte, il lanital, inventato
da Antonio Ferretti: un filato morbido e caldo, solo meno resistente
della lana (sarà ripreso nel dopoguerra come merinova). E alla Snia
si affiancavano altre importanti realtà produttive, come la Rhodiaseta
della Montecatini, la Soie de Châtillon, la Cisa e varie altre29.
Al regime non sembrava vero di vedere un simile cambiamento
epocale proprio allora, grazie a innovazioni tecnologiche a cui anche
l’Italia aveva in qualche misura contribuito. Nell’ottica di una po-
litica protezionistica, e dal 1935 apertamente autarchica, sembrava
la quadratura del cerchio. I settori tessili italiani andavano bene da
sempre sul lavorato e semi-lavorato, ma dovevano importare gran
parte delle materie prime. Ora si prospettava la possibilità di pro-
durre autonomamente le fibre. E così si delineò con chiarezza la
politica del regime, al di là delle molte affermazioni propagandisti-
che: favorire le industrie italiane e soprattutto promuovere i nuovi
filati artificiali. La strategia fu chiarissima. Nel 1937 e 1938 furono
firmati “volontariamente” accordi per cui gli imprenditori cotonieri
e lanieri si impegnavano a utilizzare ingenti quantità di fibre artifi-
ciali nelle loro produzioni; nel 1939 si fissò addirittura per decreto
l’obbligo di utilizzare in ogni tessuto di lana e cotone un minimo
del 20 per cento di filato prodotto in Italia, naturale o artificiale che
fosse. Nello stesso tempo, le fibre artificiali erano sostenute da dazi
protettivi nei confronti della concorrenza estera30.
E i consumatori? Il loro ruolo fu ritenuto di secondo piano. Cer-
to non mancarono iniziative per pubblicizzare i nuovi prodotti, sia
cavalcando l’italianità (erano i tessili dell’indipendenza) sia magnifi-
candone le caratteristiche. Disegni e manifesti dei principali produt-
tori apparvero regolarmente sui giornali femminili e non mancarono
campagne e rassegne, fra cui quella già citata della Mostra autarchica
del 1940. Si può dire che molti degli sforzi per promuovere la moda
italiana siano intrecciati a questo tipo di promozione. Ecco, que-
sto forse è il punto centrale per valutare le campagne del fascismo,
poiché il vero obiettivo del regime fu lo sviluppo del settore tessile
industriale, in tutte le sue componenti, e quindi stimolare la produ-
zione migliorando la bilancia commerciale. Il segmento più a valle,

29 Colli, Fibre chimiche cit., p. 498.


30 M. Spadoni, Il gruppo Snia dal 1917 al 1951, Giappichelli, Torino 2003.
III. Flashback: la moda in camicia nera 77

quello dei consumatori finali, era in fondo accessorio e relativamente


meno importante. Certo, era senz’altro opportuno che i clienti ac-
cettassero i nuovi prodotti e in generale i prodotti italiani – ma era
meglio controllare a monte il settore, sostenendo marchi di qualità,
imponendo multe alle sartorie, obbligando i produttori a utilizzare
filati nazionali, creando enti che seguivano strettamente le direttive
del regime. In sostanza, il fascismo fallì nell’operazione di creare una
moda italiana ma fu efficace su un altro piano, quello industriale, nel
rafforzare e diversificare il settore produttivo.
È dunque su quest’ultimo piano, più che su quello dello stile,
che vanno considerati gli effetti a lungo termine di questo periodo.
Ma la storia delle nuove fibre in questo periodo non finisce qui. Più
o meno negli stessi anni, al di là dell’Atlantico, un colosso delle pro-
duzioni chimiche decise di lanciarsi in una grande sfida, alla ricerca di
una nuova fibra miracolosa completamente fabbricata dall’uomo. Per
questo fece a un brillante chimico di Harvard una proposta allettante:
stipendio raddoppiato, moderni laboratori a disposizione, una nutrita
squadra di ricercatori, un sacco di soldi da investire nella ricerca di
base, tutto il tempo necessario. Condizioni che ben poche altre im-
prese avrebbero fatto, anche in seguito. Il proponente era la DuPont,
il destinatario dell’offerta Wallace Carothers, l’anno il 1928. Dopo la
realizzazione di vari materiali intermedi, nel 1935 il team di Carothers
ottenne un successo strepitoso, sintetizzando un super-polimero (po-
liammide) che ad alte temperature diventava una sostanza viscosa, che
poteva quindi passare in una filiera con buchi, dando origine a fila-
menti sottili subito asciugati da un getto caldo e poi stirati. Questi fili
erano particolarmente flessibili ma anche molto resistenti, trasparenti,
idrorepellenti e davvero adattabili a molteplici usi (e costavano poco).
Era il nylon, la prima fibra sintetica, cioè completamente creata in labo-
ratorio. Nel 1938 la DuPont iniziò a produrre varie merci in nylon, da
piccoli oggetti come gli spazzolini da denti a merci industriali; durante
la guerra si sarebbe specializzata nel produrre paracaduti – tra l’altro,
la sostituzione della seta con il nylon fu accelerata dall’embargo posto
alle importazioni di prodotti giapponesi. Un aspetto da notare è che
la diffusione presso i consumatori passò ancora una volta dalle calze
femminili. La DuPont aveva iniziato a produrne alcune, in via speri-
mentale, pensando potessero essere usate come prodotto medico; ma
le donne che abitavano nei dintorni, a Wilmington, si accorsero subito
della bellezza e qualità del prodotto e presero d’assalto le farmacie
78 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

locali – solo una prova generale di quello che sarebbe successo dopo
la guerra, quando la DuPont riprese a fabbricare prodotti civili, e le
rivendite di calze di nylon furono assediate da code di lunghe ore. An-
cora una volta furono i consumatori a indicare la strada. Ma non fu una
storia del tutto a lieto fine. Carothers non poté vedere i risultati del suo
lavoro. Non era uno scienziato secondo i classici stereotipi. Soggetto a
gravi crisi depressive da tempo, autoconvintosi di avere fallito in tutti
i suoi obiettivi, nell’aprile del 1937 prese una stanza in un albergo di
Filadelfia e si suicidò bevendo una soluzione di cianuro31. Ancora oggi
forse non è conosciuto come merita. Ma il “suo” nylon era destinato a
grandi sviluppi (fu prodotto anche in Italia su licenza già dal 1939)32. Se
fra le due guerre il rayon regna sovrano, nel secondo dopoguerra sarà
la produzione di nylon ad accelerare, tanto che negli anni Sessanta la
famiglia delle nuove fibre sintetiche (di facile produzione e derivate da
carbone o petrolio) supererà quella delle fibre a base di cellulosa (che
richiede l’impiego di polpa di alberi o altre basi vegetali)33.
Abbiamo parlato finora di fibre. Ma questo periodo vide fiorire
in Italia altre proposte. Una delle più innovative fu quella della Pi-
relli, nata nel 1872 per produrre articoli in gomma. L’albero della
gomma, l’Hevea brasiliensis, era ben conosciuto dalle antiche po-
polazioni mesoamericane che lo chiamavano legno piangente (cahu-
chu) e lo utilizzavano non solo per il famoso e spietato gioco della
palla ma per produrre svariati oggetti. Nel 1820 lo scozzese Charles
Macintosh scoprì che la gomma, cioè il lattice rappreso della pianta,
si poteva sciogliere a caldo nella nafta e poi stendere facilmente su
un tessuto, rendendolo perfettamente impermeabile. Una piccola
grande scoperta che migliorò di colpo il comfort quotidiano. Questa
strada fu seguita anche dalla Pirelli, che puntò le sue fortune sulla
produzione di cavi per comunicazione e poi sui pneumatici, ma vi

31 M.E. Hermes, Enough for one lifetime: Wallace Carothers, inventor of nylon,

American Chemical Society and the Chemical Heritage Foundation, York 1996.
32 Le fibre intelligenti cit., p. 43.
33 Le informazioni qui riassunte sono tratte dalla ricca collezione di documenti

sullo sviluppo e la promozione del nylon da parte dell’impresa DuPont e sulla figura
di W.H. Carothers contenuta presso l’Hagley Museum and Library. Cfr. in particolare:
DuPont Company Product Information photographs, 1895-1968; DuPont Company
Textile Fabrics Department videotapes, photographs, slides and promotions, 1918-
2004; David A. Hounshell and John K. Smith research notes for Science and Corpo-
rate Strategy, 1903-1986.
III. Flashback: la moda in camicia nera 79

affiancò sempre una produzione di abbigliamento in gomma. Già


nell’Ottocento produceva tacchi e suole, come ci ricordano bellis-
simi poster dove raffinate coppie indossano scarpe con suole Pirelli
o soprascarpe o ancora prima tacchi di protezione (famosi quelli
“Stella”)34. Alcuni di questi impiegavano gomma vulcanizzata, cioè
riscaldata con l’aggiunta di zolfo (brevetto di Charles Goodyear),
operazione che la rendeva più dura e resistente. Nel 1937 Vitale Bra-
mani realizzò con questo materiale le prime suole a “carrarmato” per
alpinisti (le Vibram, dal suo nome). Nel frattempo la Pirelli si dedicò
a tessuti, mantelli e soprabiti impermeabili, come mostrano i detta-
gliati listini prezzi conservati nell’archivio aziendale35. Un bozzetto
precedente la Grande guerra mostra due militari, uno a piedi e uno
a cavallo, con ampi impermeabili lunghi fino alle caviglie, con uno
spacco centrale dietro, cintura in vita e ampio cappuccio36; molto
numerose sono poi le immagini di signore eleganti a passeggio con
impermeabili colorati (e perché no, con una moderna automobile
sullo sfondo)37; in un altro bozzetto due ombrelli in vetrina parlano
tra loro: il primo si lamenta che sono lì a impolverarsi da quattro anni
e nessuno li compra, il secondo risponde che, per forza, è perché ci
sono impermeabili perfetti e a buon mercato come quelli Pirelli38. E
non mancano abiti da lavoro, accessori in gomma e tenute per vari
sport – un settore, questo, che si sarebbe molto espanso nell’imme-
diato secondo dopoguerra con costumi da bagno in Lastex di sua
produzione. Insomma la grande ditta milanese riuscì a espandere la
gamma di prodotti di abbigliamento disponibili per i consumatori,
soprattutto in direzione del versante funzionale e sportivo39.

34 Archivio storico Pirelli, Bozzetti di G. Restellini per pubblicità delle suole e dei

tacchi Pirelli, anni 1920-25.


35 Archivio storico Pirelli, Listini prezzi per tessuti impermeabili – Listini prezzi di

soprabiti e mantelli impermeabili, anni da 1880 a 1900. Vari documenti sono reperibili
online sul sito http://search.fondazionepirelli.org/pirelli.
36 Archivio storico Pirelli, Loviano, Bozzetto per pubblicità degli impermeabili Pi-

relli, 1910-1914.
37 Archivio storico Pirelli, G. Muggiani, Bozzetto per pubblicità degli impermea-

bili Pirelli, 1920-25; G. Tabet, Bozzetto per pubblicità degli impermeabili Pirelli, 16
novembre 1929.
38 Archivio storico Pirelli, D. Bonamini, Bozzetto per pubblicità degli impermeabili

Pirelli, 4 maggio 1925.


39 L’Archivio storico Pirelli conserva una ricca documentazione, consistente in

documenti relativi alla produzione e alla vendita, fotografie e manifesti pubblicitari


dei prodotti qui illustrati.
80 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Se dovessimo trarre una prima conclusione a questo punto, non


possiamo che sottolineare la centralità di questo periodo per lo svilup-
po delle industrie tessili, sia nelle componenti più tradizionali sia in
quelle più innovative legate alla chimica. Il periodo tra le due guerre
è fondamentale nel gettare le basi per lo sviluppo successivo. Certo,
molte imprese saranno pesantemente danneggiate durante i bombar-
damenti della seconda guerra mondiale e riprenderanno in pieno solo
dal 196040. Così come l’industria della seta risentirà pesantemente del-
la concorrenza delle nuove fibre man-made e nel dopoguerra perderà
definitivamente il suo ruolo. Ma è in questi anni che la solidità strut-
turale del sistema produttivo conosce una svolta decisiva.

4. La mano e la macchina: sarti e attrezzi

La «Tribuna illustrata» del marzo 1938 ricorda Gabriele D’An-


nunzio, appena scomparso, con una copertina che lo ritrae dominare
la scena in primo piano. Volto concentrato e fisso lontano, il poeta
è ritratto con un lungo e abbondante giaccone nero con collo di
pelliccia, un pugnale infilato nella cintura, l’ampio colletto bianco
della camicia che sporge da sotto, guanti bianchi. Sullo sfondo, alcu-
ni aerei in volo e una bandiera azzurra con teste di leopardi in oro,
usata da alcuni reparti d’assalto durante l’impresa di Fiume41. In una
tale circostanza, a nessun sarebbe venuto in mente di rappresentare
il vate in una posa meno che eroica. Allo stesso modo nessuno avreb-
be mai pensato di disegnarlo in un vestito che non fosse elegante,
sofisticato, distintivo. Perché per molti versi Gabriele D’Annunzio
rappresentò un’icona di moda nel fascismo.
Fin da giovane si era esercitato in articoli giornalistici dove aveva
mostrato la sua speciale attenzione e competenza verso l’abbiglia-
mento come cronista di costume; il vestire diventò poi un segno di-
stintivo nella creazione del suo personaggio di esteta. Il suo primo
romanzo, Il piacere, attraverso le esperienze del protagonista Andrea
Sperelli trasuda l’atmosfera dell’alta società romana alla moda che
D’Annunzio aveva conosciuto come cronista. Da soldato si fece ri-

40 Le fibre chimiche, a cura della R.&S. (Mediobanca), Milano 1972, p. 18.


41 «Tribuna illustrata», copertina, 11, XLVI, 13 marzo 1938.
III. Flashback: la moda in camicia nera 81

trarre nelle sue uniformi sempre perfette (cucite apposta per lui);
nella vita civile si fece notare per un abbigliamento ricercatissimo, che
seguiva con maniacale perfezione i canoni del vestire elegante, non
mancando di aggiungere qualche elemento di trasgressione da dandy.
Per lui, che si autodefiniva un “animale di lusso”, la moda era insieme
parte integrante della ricerca estetica ed elemento di promozione del-
la sua figura pubblica. Potremmo dire che ne manipolasse abilmente
i codici, così come faceva per il linguaggio. E su vestiti, stoffe e doni
preziosi giocava la carta della seduzione con le sue amanti.
Una visita al museo del Vittoriale è illuminante e impressionan-
te. Il guardaroba di D’Annunzio che si può ammirare è sterminato,
con centinaia di capi. Si comincia con le camicie: camicie in seta in
quantità, tinta unita, righine, o in cotone con collo e polsini di seta
avorio, in tela batista operata (da utilizzare con colli aggiuntivi, rigidi
o flosci). Seguivano le giacche: di panno di lana, gabardine, spiga-
te, tweed, lana operata, grisaglia, flanella, da cavallo, frac, smoking,
profilate in seta, nere, grigie, blu, marroni, bianche – senza contare
le numerose uniformi su misura estive e invernali. A queste si abbi-
navano i pantaloni, per lo più di lana, e i gilet, spesso in piquet – e
naturalmente infinite cravatte di seta o papillon bianchi o neri. Per
protezione esterna, ecco sfilare impermeabili, cappotti in loden, lana,
gabardine, cachemire, per lo più scuri, doppio o singolo petto, con
colli di astrakan o volpe, foderati in rat musqué; giacche in pelle e
anche una pelliccia d’orso con collo in volpe rossa. Non dimentichia-
mo i cappelli: panama, flosci, berretti, bombette, cilindri, pagliette,
colbacchi, oltre a molti berretti militari – e gli amati guanti in nappa o
capretto. Una cosa a cui D’Annunzio teneva moltissimo erano le cal-
zature. Ne aveva centinaia: scarpe di tutti i tipi (in vitello, cuoio o ca-
pretto scamosciato, bianche, nere, marroni, allacciate, abbottonate, a
mocassino) e poi stivali alti di vitello, gambali in cuoio, stivaletti bassi
allacciati o abbottonati, sandali aperti in rafia o capretto, pantofole in
panno. E per la casa? Ecco accappatoi di spugna fantasia, vestaglie da
camera o da notte in seta, pigiami di seta, giacche da casa in velluto o
panno di lana. Né mancava l’attenzione all’intimo, composto per lo
più da coordinati in cotone e soprattutto in seta bianca; calze di vari
i colori, anche qui quasi sempre in seta; e fazzoletti di seta42.

42 Gli abiti di D’Annunzio sono visibili al Vittoriale degli Italiani (http://www.


82 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Una vera ossessione per i vestiti e anche una vera ossessione per la
seta. Tessuto per il quale realizzava personalmente fantasiosi disegni,
che faceva poi stampare da Paul Andrée Léonard di Milano per realiz-
zare fazzoletti e vestiti da donna da regalare. Con la stessa attenzione
curava la fattura dei vestiti e delle scarpe per sé e per le sue amate, a
cominciare da Luisa Baccara. In molti casi inviava dettagliate istruzio-
ni scritte per la realizzazione dei capi, esibendo le sue conoscenze nel
settore, senza fare poi una piega di fronte a conti decisamente salati43.
Ma a chi si affidava in questa sua ricerca di una perfezione assoluta?
Semplice, ai migliori nomi della sartoria italiana e internazionale, con
l’aggiunta di qualche negozio bene affermato. Le etichette dei suoi
abiti ci mostrano un ricco panorama, con nomi che spaziano da Mila-
no, Firenze, Roma e Venezia, fino a Parigi e Londra44.
Le scelte di D’Annunzio ci riportano all’assoluta centralità delle
figure dei sarti fra le due guerre. Molti erano famosi ed avevano
grandi sartorie da uomo o atelier da donna, e proseguiranno la loro
attività con successo nel secondo dopoguerra, come visto in prece-
denza. Ma è importante sottolineare le capacità tecniche di queste
persone, vero fondamento della qualità dell’abbigliamento italiano,
apprezzata dal vate (e non solo da lui). Molte sartorie avevano svi-
luppato una propria linea o almeno una propria specializzazione,
dando vita a vere e proprie “scuole di stile”. Il caso più noto è quello
dei sarti da uomo napoletani. La confraternita dei sartori a Napoli
era nata nel 1351 – ma, senza andare così lontano, è da fine Otto-
cento che si distinguono nomi di spicco come la famiglia Caggiula,
Alfonso De Nicola e poi Cesare Attolini (sarto di Vittorio Emanuele
III), che porranno le basi per il successo nel dopoguerra di Eugenio
Marinella, Kiton, i Rubinacci e vari altri, con un’onda lunga che an-
dò a toccare anche sarti e boutique di località turistiche come Capri,
Ischia, Positano45. Ma perché tanto successo? La qualità del taglio,
le rifiniture perfette, senz’altro, ma anche una riconoscibilità che è
giunta fino a noi. La giacca, per cominciare. È più corta, soprattutto

vittoriale.it). Molti di questi sono descritti e fotografati in Conformismo e trasgressione.


Il guardaroba di Gabriele D’Annunzio, La Nuova Italia, Firenze 1988.
43 Gabriele d’Annunzio padre dello stile italiano, Silvana editoriale, Cinisello Bal-

samo 2012.
44 Archivio del Vittoriale degli Italiani; Conformismo e trasgressione cit.
45
La creatività sartoriale campana. Abbigliamento maschile e moda mare, a cura di
M.A. Taglialatela e A. Spinelli, Arte’m, Napoli 2010.
III. Flashback: la moda in camicia nera 83

dietro, con una manica stretta e accorciata per fare uscire di più il
polsino, e dotata di un’attaccatura arricciata, con spalle senza imbot-
titura. Il risultato è un capo meno rigido del normale. Le rifiniture
sono importanti: il taschino è obliquo (a barchetta), le impunture so-
no doppie e sottili, la fodera è leggera e spesso aperta. Caratteristiche
subito riconoscibili poi sono gli ampi risvolti del collo e l’allacciatura
a tre bottoni (ma il primo va sempre portato slacciato). Quindi una
giacca raffinata ma più leggera e morbida di quella tipica della sar-
toria inglese. Un marchio di fabbrica.
Per le donne c’era maggiore varietà. Come ricordato, le grandi
sartorie guardavano soprattutto ai modelli parigini. Una volta per
diffonderli c’erano le bambole: bellissime bambole con la testa di
porcellana e che avevano un ricco corredo di abitini all’ultima moda
parigina, così che le clienti potessero vedere realizzato in pratica l’a-
bito da comprare. Ancora nell’Ottocento le bambole con sembianze
da adolescenti realizzate da aziende come la Jumeau erano richiestis-
sime; nel secolo successivo cominciarono a declinare o a trasformarsi
in giocattoli veri e propri (oggi sono oggetti da collezione venduti
a caro prezzo)46. Nel Novecento le grandi sartorie mandavano loro
rappresentanti ad acquistare i nuovi modelli alle collezioni che si
tenevano a Parigi due volte all’anno, a prezzi elevatissimi. Ma non
deve stupire: si è calcolato che nel 1929 una collezione primaria con
300 capi nuovi costasse due milioni di franchi, circa 150 milioni di
lire, una cifra davvero esorbitante47. Pochi potevano permetterselo.
Ma esistevano altre vie. In primo luogo, le riviste francesi e italiane
pubblicavano ampi resoconti, illustrazioni e fotografie delle sfilate
(pur specificando che era proibita la riproduzione) – ma era sicuro
che molti vi si ispirassero. Inoltre le riviste pubblicavano moltissi-
mi altri modelli, di fonte eterogenea (vecchi modelli, variazioni di
classici, proposte di altre sartorie) che potevano essere presi come
base – vari giornali fornivano istruzioni per la realizzazione pratica
e persino cartamodelli. C’è da dire poi, anche in questo caso, che
molte sartorie, non solo quelle primarie, avevano i loro modelli da

46 J. Peers, The Fashion Doll: From Bébé Jumeau to Barbie, Berg, Oxford-New

York 2004.
47 V. Pouillard, L’alta moda in Francia. Rotture e continuità fra le due guerre, in

«Memoria e Ricerca. Rivista di storia contemporanea», 50, 2015, p. 30. Il cambio è


calcolato sulla base dei Cambi annuali – Serie storiche di Banca Italia.
84 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

proporre, di solito presentati in bellissimi album di disegni o fo-


tografie da sfogliare: da qui si partiva per un capo personalizzato,
tagliato e cucito su misura per il cliente.
È fra le due guerre che muovono i primi passi nomi destina-
ti a diventare molto noti, come Elvira Leonardi, proveniente da
una grande famiglia milanese, “nipotina” amata da Puccini (per
via della relazione di sua nonna con il compositore). Affascinata
dal mondo parigino, Elvira crea la sua prima sartoria a Milano nel
1934 lanciandosi nel nuovo e promettente settore della biancheria
intima di lusso, rifornendo – guarda caso – Gabriele D’Annunzio,
che, dopo una sfilata di capi in seta, raso e velluto, l’aveva ribat-
tezzata Biki. Con questo nome avrà poi grande successo, aprendo
subito dopo la guerra il suo atelier storico, in via Sant’Andrea. Allo
stesso modo iniziano la loro attività Germana Marucelli, toscana
trasferitasi a Milano nel 1938, che si distinguerà per una rara capa-
cità di contaminare i temi dell’arte con quelli della moda; Fernanda
Gattinoni, nata vicino a Varese, che acquisisce una fondamentale
esperienza presso una delle più grandi sartorie d’Italia, la milanese
Ventura, per poi spostarsi nel 1935 a Roma e iniziare una sua auto-
noma attività; Jolanda Veneziani, che produce a Milano pellicce di
eccezionale fattura – apriranno la strada a molte altre subito dopo
la guerra, come Gigliola Curiel e Mila Schön, sempre a Milano, e
Roberta di Camerino a Venezia48.
Ma quante erano le case sartoriali? Il censimento del 1937-1939 ne
disegna una mappa dettagliata. L’élite dei laboratori di modisteria era
costituita da oltre 4000 esercizi, tutti artigianali, condotti per l’88 per
cento da donne, che occupavano poco più di 9000 addetti (due a testa
in media). C’era poi un gruppo di confezionisti di abiti (artigianali al
99 per cento) con 131 mila esercizi e 200 mila addetti. Ma il quadro dei
lavoratori del settore era più vasto: si fabbricavano cappelli, bianche-
ria, busti, bottoni, bandiere, guanti e scarpe in stoffa, pellicce, parruc-
che, ornamenti, oggetti di piume e paglia. Fra tutto, 169 mila esercizi,
quasi tutti artigianali (solo 2600 erano censiti come industriali), con
oltre 300 mila addetti, quasi i due terzi donne. Riguardo alle regio-

48 M. Boneschi, Le sarte milanesi del “miracolo” tra moda, industria e cultura, in

«Annali di storia dell’impresa», 18, 2007, pp. 75-103; M. Canella, Dalla sartoria al
prêt-à-porter. Le origini del sistema moda in Italia, in I consumi della vita quotidiana, a
cura di E. Scarpellini, il Mulino, Bologna 2013, pp. 62-76.
III. Flashback: la moda in camicia nera 85

ni, già sappiamo che la Lombardia era avanti, seguita da Piemonte,


Emilia, Veneto e Toscana49. A tutto ciò va aggiunta la complementare
produzione di pelli, borse e scarpe, che registrava alla stessa data 124
mila esercizi con 215 mila addetti (qui invece soprattutto uomini),
sempre con una schiacciante presenza di artigiani (solo 2800 risultava-
no industriali) e una diffusione geografica più vasta, compreso il Sud
dove spiccavano la Campania e la Sicilia50 (Tabella 4).
La vita non era però facile dentro a queste piccole imprese. Pren-
diamo le sartorie, ad esempio. Al vertice vi erano le proprietarie e
le sarte più esperte, che si occupavano delle mansioni principali, a
cominciare dal taglio; sotto di loro giovanissime lavoranti cucivano
per almeno dieci ore al giorno e una paga assai ridotta, spesso am-
massate in stanzoni male illuminati e riscaldati51.
Una prima importante conclusione da trarre a questo punto è la
notevole presenza di personale di alto livello tecnico presente nell’I-
talia del tempo. Se i modelli non erano originali, le capacità di realiz-
zazione erano ottime. Abbiamo molte indirette conferme di questa
diffusa abilità sartoriale, che perdurerà negli anni a seguire52. Uno fra
i tanti esempi sono i modelli donati da Margaret Abegg al Victoria and
Albert Museum di Londra: vestiti da giorno e da sera, realizzati su mi-
sura dalla sartoria Grimaldi quando la signora americana risiedeva a
Torino, negli anni successivi alla seconda guerra. Ebbene, questi abiti
sono realizzati con materiali di prima scelta e mostrano eccellenti qua-
lità sartoriali, e questo da parte di una sartoria non primaria o partico-
larmente nota. Dunque, la presenza e forse anche il consolidamento,
data la richiesta, di diffuse competenze sartoriali è un altro elemento
fondamentale da tenere in conto per valutare il peso del periodo tra le
due guerre nello sviluppo generale della moda italiana53.

49 Istituto centrale di statistica, Censimento industriale e commerciale 1937-1939,

vol. V, Industrie tessili, dell’abbigliamento e del cuoio, Istat, Roma 1950, p. 89.
50 Ivi, p. 123.
51 M. Bellocchio, Aghi e cuori. Sartine e patronesse nella Torino d’inizio secolo,

Centro Studi Piemontesi, Torino 2000, pp. 19-38; V. Maher, Un mestiere da raccontare.
Sarte e sartine torinesi tra le due guerre, in «Memoria. Rivista di storia delle donne»,
8, 1983, pp. 52-71; F. Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la
Camera del Lavoro (1891-1918), Franco Angeli, Milano 2007, pp. 145-152.
52 E. Tosi Brandi, Artisti del quotidiano: sarti e sartorie storiche in Emilia-Romagna,

Clueb, Bologna 2009.


53
S. Stanfill, The role of the sartoria in post-war Italy, in «Journal of Modern Italian
Studies», 1, 20, 2015, pp. 83-91.
86 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Sono moltissime le foto che ritraggono sarte e sarti al lavoro,


vicino alle finestre o in gruppo, a dimostrazione di come fossero
una presenza comune nella società del tempo. Hanno tutti in mano
ago e filo e un pezzo di stoffa oppure, molto spesso, sono vicini
a una macchina da cucire. Seduti presso il tavolino di legno con
la base lavorata in metallo sul quale è posta la cucitrice, in genere
nera e dalla forma affusolata con raffinati disegni sulla scocca, sono
attenti e concentrati sul lavoro54. Queste immagini ci ricordano
un ultimo elemento, e cioè il ruolo della tecnologia anche come
supporto del lavoro manuale. La macchina da cucire fu una pic-
cola grande rivoluzione di metà Ottocento. Abbiamo l’abitudine
di pensare che la tecnologia di massa globale sia una cosa recente,
magari nata con gli elettrodomestici, la televisione o addirittura
i pc e i cellulari – realtà del Novecento. Ma non è così. La pri-
ma tecnologia standardizzata venduta in milioni di case in mezzo
mondo fu quella della macchina da cucire, che rivoluzionò tempi e
modi di cucitura degli abiti professionali e nello stesso tempo rese
accessibili un po’ a tutti i lavori sartoriali più semplici. Nelle case
americane, dove arrivò per prima, fu il simbolo della Rivoluzio-
ne industriale che entrava nella domesticità, rivolgendosi peraltro
esclusivamente alle donne consumatrici; in questo modo, essa mirò
indirettamente a rafforzare la divisione dei ruoli all’interno della
famiglia, delineando una figura di donna capace, attiva e attenta
ai bisogni familiari. Allo stesso tempo, segnalò con chiarezza le
differenze di classe, visto che le donne operaie non potevano per-
mettersi un simile acquisto: per loro la macchina da cucire rimase
legata solo al luogo di lavoro55.
Artefice di questo primo impero tecnologico fu Isaac Singer che
nel 1851 perfezionò a New York un apparecchio rivoluzionario, ve-

54 Cfr. ad esempio tre foto di diverso periodo in Archivio storico Alinari: Labora-

torio di sartoria e pelletteria: gruppo di signore con le macchine da cucire, s.l. 1890-
1899, FVQ-F-225254-0000; Una giovane donna lavora con la macchina da cucire,
Roma 1916, CDP-A-MAL703-0039; Una donna lavora con la macchina da cucire,
Firenze 1950, CDP-A-MAL703-0037.
55 The Culture of Sewing: Gender, Consumption and Home Dressmaking, a cura

di B. Burman, Berg, Oxford 1999 (in particolare I saggi di N.P. Fernadez, T. Putnam,
N. Oddy); R. Oldenziel, M. Hård, Consumers, Tinkerers, Rebels: The People Who
Shaped Europe, Palgrave, Basingstoke 2013, pp. 29-35; P.A. de la Cruz-Fernández,
Marketing the Hearth: Ornamental Embroidery and the Building of the Multinational
Singer Sewing Machine Company, in «Enterprise and Society», 15, 2014, pp 442-471.
III. Flashback: la moda in camicia nera 87

loce e semplice da usare. Pioniere dei moderni metodi di vendita al


pubblico, dalle rate alla pubblicità intensiva, Singer creò una vera
e propria multinazionale, con succursali di produzione e vendita in
Usa, Europa, Asia (bellissimi i volantini pubblicitari con la grande
“S” di Singer e le scritte in tante lingue diverse). Anche in Italia la
Singer divenne un mito, ma non le mancarono agguerriti concorrenti
locali. Non deve stupire: il settore meccanico può essere considerato
il settore trainante fin dagli esordi dell’industrializzazione in Italia,
quello più esteso sul territorio, quello con aziende di tutte le dimen-
sioni e che forse più di altri aveva interpretato lo spirito “manche-
steriano” di un’imprenditoria diffusa dal basso.
A Pavia operava da tempo la grande Fonderia del Raccordo,
fondata da Ambrogio Necchi, che produceva attrezzature agricole,
caldaie e stufe; nel 1919 il figlio Vittorio decise di usare il know-how
esistente per produrre macchine da cucire, dapprima ispirate alle
Singer, poi via via sempre più perfezionate e anche molto curate
esteticamente (negli anni Cinquanta il modello disegnato da Mar-
cello Nizzoli venne esposto al Moma di New York). Il successo fu
tale che per imitazione un ex dipendente, Arnaldo Vigorelli, aprì nel
1933 un’analoga, ma più piccola, fabbrica a Pavia. La vera concor-
rente della Necchi fu però la Borletti di Milano, altra azienda nata
a fine Ottocento e specializzata in orologi e strumenti di precisione,
che pure si dedicò dopo la Grande guerra alle macchine da cucire
– insieme a molte altre attività di rilevo, in verità, visto che i Borletti
furono anche proprietari della Rinascente.
Tutto questo è importante perché ci ricorda come, a fianco del-
le industrie tessili e di abbigliamento vere e proprie, in Italia era
fiorente e si rafforzò fra le due guerre quello che oggi chiamiamo
meccanotessile, cioè l’industria meccanica specializzata in apparec-
chi per filatura, telai, macchine da cucire e attrezzerie sartoriali di
vario tipo. Forse era naturale che si sviluppasse tale settore, vista la
forza sia della meccanica sia del tessile. Ma certo qui c’è una carat-
teristica da notare. Se guardiamo alle grandi invenzioni o al nume-
ro dei brevetti nel meccanotessile, troviamo pochi nomi di italiani:
sembra che questa branca (ma è un discorso forse più generale) si
sia sviluppata per gradi, guardando agli esempi più avanzati, con
piccole migliorie incrementali derivate dall’esperienza. Insomma, è
un tipico esempio di innovazioni dovute al “saper fare” più che a
grandi investimenti o lunghi studi. In molti casi si trattò di adatta-
88 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

menti, anche geniali, pensati per un mercato relativamente povero e


caratterizzato da piccole imprese. Così le macchine da cucire italiane
erano più semplici, compatte e a buon mercato, ma non meno per-
formanti, delle famose pioniere Singer o delle tedesche Pfaff. Ecco il
“vantaggio dell’arretratezza”56: guardare ai leader internazionali ma
sapere fornire la risposta adeguata per un mercato ricco di manodo-
pera specializzata a basso costo ma povero di capitali da investire in
macchinari costosi57.
Il risultato fu che nel periodo fascista il rafforzamento del tessile
e della meccanica non incise affatto sulla numerosità e competenza
del piccolo esercito di sarti e sartine che operava in Italia.

5. Il corpo delle donne

Gli anni fra le due guerre mondiali furono dunque di centrale


importanza per il consolidamento dell’apparato produttivo, in tut-
ti i suoi aspetti – ma c’è di più. Si cristallizzarono alcune immagini
culturali che influenzarono profondamente la percezione di realtà
coeve, e anche successive. Centrale fu quella riguardante il corpo e
gli abiti delle donne, o meglio la loro trasformazione – cominciando
dalla sfida costituita dall’uso dei pantaloni, da tempo il simbolo più
pregnante dell’identità visiva maschile. Si sa che la prima a sfidare in
tal senso l’opinione pubblica fu l’attivista americana Amelie Bloomer,
che già a metà Ottocento usò in pubblico un modello di pantaloni da
donna, più precisamente calzoni molto ampi con sopra una gonna
corta, venendo accolta da scherno e critiche pesantissime. Il movi-
mento continuò e si espanse in vari paesi, così come fecero le critiche,
che si concretizzarono a volte in masse ostili di persone, al punto da
scoraggiare simili iniziative58. È qui che si situa dunque un’immagine
culturale caratteristica del periodo, relativa al corpo delle donne.

56 A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, To-

rino 1965.
57 M. Vasta, Innovazione tecnologica e capitale umano in Italia (1880-1914), il Mu-

lino, Bologna 1999; R. Giannetti, Tecnologia e sviluppo economico italiano 1870-1990,


il Mulino, Bologna 1998.
58
D. Crane, Questioni di moda. Classe, genere e identità nell’abbigliamento, a cura
di E. Mora, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 138-139.
III. Flashback: la moda in camicia nera 89

In Italia le cose non erano andate diversamente. L’anno clou fu il


1911, quando iniziò a comparire la gonna-pantalone o meglio jupe-
culotte. Le cronache dei giornali sono impressionanti: a Milano, due
donne sospettate di portare i pantaloni (in realtà avevano un tailleur
con gonna) furono assediate da mille persone urlanti in pieno cen-
tro e dovettero rifugiarsi in un cortile per poi fuggire a stento su
una carrozza, mentre il traffico dei tram rimase bloccato; a Torino
una donna scampò dalla folla riparandosi in una profumeria, dove
rimase rinchiusa per molte ore, anche dopo la chiusura del negozio,
prima di potere defilarsi approfittando del buio; a Catania, una don-
na in carrozza lungo il passeggio principale fu inseguita con urla e
grida e dovette allontanarsi rapidamente; e così via59. Il tutto mentre
qualche famosa attrice portava la provocazione in palcoscenico, in
mezzo alle critiche del pubblico, e sui quotidiani apparivano articoli
che spiegavano l’assoluta insensatezza dei “pantaloni femminili”60.
Cosa scatenò questa frenesia anti-pantaloni in tutto l’Occidente?
Non c’è dubbio che la Belle Époque fu un’epoca meno tranquilla di
come a volte la immaginiamo. Fu pervasa al contrario da profonde
tensioni sociali e culturali, con una inquietudine dovuta al progres-
so tecnico che trasformava profondamente il funzionamento delle
società – anche per via delle crescenti esigenze delle nuove potenze
industriali che integravano via via i ceti popolari e poi anche le don-
ne, sempre più istruite e assorbite entro le strutture lavorative. Era
alle porte un cambiamento epocale, sancito poi dalla Grande guerra.
Così, appena prima della tempesta, molti cercarono di fare argine,
cominciando da aspetti apparentemente frivoli, come il boicottaggio
di un indumento, che però aveva un significato simbolico profondo.
Foucault non avrebbe avuto dubbi, in un certo senso avrebbe
dato loro ragione. Nel senso che il potere moderno non si esercita
più come la sovranità d’antico regime, basata essenzialmente sulla
violenza e la repressione, ma attraverso una serie di micropoteri che
assoggettano direttamente le persone, plasmandone letteralmente i

59 L’equivoco di mille persone, in «Corriere della Sera», 13 marzo 1911; La “jupe

culotte” a Torino, ivi, 25 febbraio 1911; Una signora in “jupe culotte” sequestrata per tre
ore e mezza in un negozio, ivi, 31 marzo 1911; La “jupe-culotte” urlata a Catania, ivi, 20
marzo 1911. Cfr. anche 1911. Calendario italiano, a cura di L. Benadusi e S. Colarizi,
Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 123-132.
60
P. Bernasconi, La donna e i calzoni, in «Corriere della Sera», 8 aprile 1911.
90 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

corpi. Queste nuove forme di potere derivano infatti dai nuovi sape-
ri, cioè da quei discorsi creati da esperti e istituzioni per dare senso
alle cose, per convincerci di ciò che è giusto, bello, opportuno. La
società è governata non più dunque dal tremendo potere del re ma
piuttosto da tanti poteri esercitati nella quotidianità, che ci dicono
cosa fare e non fare, e modellano – l’autore avrebbe preferito il ter-
mine disciplinano – i nostri comportamenti e i nostri corpi. Di con-
seguenza la “resistenza” opposta a questi saperi non può che partire
dal corpo e dalle sue adiacenze61. Ecco perché i pantaloni indossati
dalle donne, anziché essere visti come l’ennesima bizzarria femmi-
nile, scatenarono violente reazioni: con il loro simbolismo, erano un
attacco diretto alla divisione dei ruoli all’interno della società e, in
ultima analisi, a una delle forme in cui il potere si manifestava nella
società. Del resto, anche senza scomodare famosi filosofi, il senso
del proverbio popolare su “chi porta i pantaloni in casa” non lascia
dubbi sul legame simbolico di tale indumento con il potere.
Se la prima battaglia dei pantaloni fu persa a causa dell’ostilità
incontrata, il discorso tuttavia proseguì. Anche perché si inseriva
all’interno di un movimento più vasto di riforma e semplificazione
degli abiti femminili che era iniziato in epoca vittoriana. La parti-
colarità del dress reform era che non si basava su aspetti legati alla
moda o all’estetica, ma su considerazioni di tipo sociale, medico e
morale62. Non a caso era sostenuto non solo da attiviste per i diritti
delle donne, ma da associazioni culturali e politiche di vario tipo,
maschili e femminili, e da circoli medici. Il loro principale obiettivo
polemico era soprattutto il corsetto, dopo che le gonne gonfie per via
di crinoline e panieri si erano via via assottigliate a fine Ottocento63.
La polemica contro il busto stretto non era certo nuova, considerate
le temute conseguenze sulla salute, ma ora assumeva toni diversi e
si legava al crescente discorso del controllo scientifico e medico sul
corpo. Quello che si voleva ora era ottenere corpi più efficienti, in
vista del lavoro produttivo al quale anche le donne erano chiamate,

61 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978; Id., Sorvegliare e

punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.


62 P.A. Cunningham, Reforming Women’s Fashion, 1850-1920: Politics, Health,

and Art, Kent State University Press, Kent 2003.


63 V. Steele, The Corset: A Cultural History, Yale University Press, New Haven

2001.
III. Flashback: la moda in camicia nera 91

più controllati dal punto di vista medico e igienico, più adatti alla
“modernità”64. Tutto questo si legò in qualche modo anche all’op-
posizione artificio/naturalità che si stava sviluppando in campo cul-
turale. La presentazione di una figura femminile molto artefatta, con
una silhouette modellata grazie a imbottiture, sottogonne e corsetti
– per cui sembrava una clessidra con la parte inferiore particolar-
mente rigonfia – perse progressivamente valore culturale. Ciò che
per molto tempo era stata una costruzione tipica delle élite, sofisti-
cata, ricercata e difficile da ottenere, un vero segno distintivo, ora
appariva una forzatura inaccettabile della figura “naturale”, cioè di
una linea che seguiva maggiormente le linee corporee, senza grandi
costrizioni. Il Novecento è segnato da questa ricerca continua verso
una figura naturale, libera, e di conseguenza verso un abbigliamen-
to morbido che faciliti i movimenti. E anche questo confluì nella
tendenza verso una maggiore autodeterminazione della donna nello
spazio pubblico, che iniziò a essere meno riservata e più propensa a
vedersi come soggetto sulle nuove scene della modernità65.
Se, come abbiamo detto, i primi decenni del Novecento furono
un punto di svolta fondamentale nella formazione di una diversa
figura femminile, ciò avvenne anche perché questo discorso trovò
un inaspettato campo di prova e affermazione: lo sport. Si è detto e
scritto molto sul ruolo centrale che lo sport assume nel Novecento:
si partì da esercitazioni preparatorie atletico-militari o svaghi per
raffinate élite aristocratiche per approdare in seguito a pratiche di
massa e forme di spettacolarizzazione commerciale che fanno gi-
rare fiumi di denaro. Da qualche parte, a metà di questo percorso,
si situa un’importante svolta riguardante il corpo e l’abbigliamento
delle donne.
Cominciamo dall’equitazione, per rifarci al tema iniziale. Per i
lunghi secoli in cui il cavallo fu quasi l’unico mezzo per spostarsi,
essa era ovviamente praticata da molti, donne comprese. Fino al XII

64 I. Zweiniger-Bargielowska, Managing the Body: Beauty, Health and Fitness

in Britain, 1880-1939, Oxford University Press, Oxford 2010; M. Hau, The Cult of
­Health and Beauty in Germany: A Social History 1890-1930, Chicago University Press,
Chicago 2003.
65 L. Conor, The Spectacular Modern Woman: Feminine Visibility in the 1920s,

Indiana University Press, Bloomington 2004; A. Gigli Marchetti, Dalla crinolina alla
minigonna: la donna, l’abito e la società dal diciottesimo al ventesimo secolo, Clueb,
Bologna 1995.
92 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

secolo, la cavalcatura era uguale per entrambi i generi, poi cominciò


a svilupparsi un tipo di montatura specificamente femminile, det-
ta “all’amazzone”. La cavallerizza si sedeva su di una speciale sella
mantenendo entrambe le gambe dalla parte sinistra: in questo modo,
evitava la posizione a gambe aperte sul cavallo, ritenuta scabrosa per
i suoi rimandi sessuali, e non rischiava di mostrare indumenti intimi
nei movimenti (si usavano sempre le gonne lunghe). Il vantaggio di
questo stile, per così dire, era tutto culturale e morale. Gli svantaggi
invece erano pratici: l’equilibrio era molto più precario, con rischio
di cadute; la donna non riusciva a montare e smontare a cavallo
da sola, ma aveva sempre bisogno di aiuto; le andature veloci e i
salti erano particolarmente pericolosi, tanto che si sceglievano con
attenzione solo cavalli molto docili. Il secolo d’oro di questo tipo di
equitazione, come è facile immaginare, fu l’Ottocento, quando si
impose come standard. Ma fu proprio al suo apice, verso fine secolo,
che la passione per le gare e le lunghe passeggiate cominciò a portare
alcune esponenti soprattutto aristocratiche, fra cui molte inglesi e
americane, a ripescare lo stile in arcione, adattando di conseguenza
il proprio abbigliamento, riproposto con gonna-pantalone, giacca e
cap rigido. In breve, i due stili si affiancarono e, subito dopo la pri-
ma guerra mondiale, alle competizioni agonistiche furono ammessi
entrambi. Con una inaspettata conseguenza: le prestazioni erano tal-
mente differenti, che fu necessario istituire due categorie distinte tra
donne che montavano all’amazzone o in arcione. Inutile dire che ciò
accelerò la scomparsa del sistema di monta solo femminile66.
Storie simili di femminilizzazione dello sport, con relative rica-
dute sull’abbigliamento, si possono raccontare per varie altre disci-
pline. Eredi degli abiti più semplici indossati in villeggiatura o in
viaggio, ecco apparire nuove tenute per praticare le attività fisiche
che si stavano diffondendo anche fra le donne, come canottaggio,
tennis, sci67. In montagna, ad esempio per sciare si indossavano golf,
gonna al ginocchio, calzamaglia, ma più spesso pantaloni alla zua-

66 R. Lagier, La Femme et le Cheval. Des siècles d’histoire, Hérissey, Janzè 2009; C.

Tourre-Malen, Femmes à cheval. La féminisation des sports et des loisirs équestres: une
avancée?, Belin, Paris 2006.
67 A. Gigli Marchetti, La donna, l’abito e la società dal XVIII al XX secolo, Clueb,

Bologna 1995, pp. 152-155, 198-200; Sport e stile. 150 anni d’immagine al femminile,
a cura di M. Canella, S. Giuntini e M. Turinetto, Skira, Milano 2011.
III. Flashback: la moda in camicia nera 93

va e calzettoni68. L’abbigliamento più scandaloso era quello per il


mare, dove negli anni Venti e Trenta le donne sfoggiavano costumi
interi non dissimili da quelli odierni69. Il più pionieristico era stato
quello per bicicletta, dove erano stati proposti già a fine Ottocento
pantaloni femminili da bici; qui il progresso fu rapido, se nel 1924
fu ammessa a correre al Giro d’Italia una donna, Alfonsina Morini,
detta Alfonsina Strada – si comportò benissimo e ci sorride ancora
oggi nelle fotografie, vestita con una maglia e i calzoni corti, come i
suoi compagni uomini70.
A questo punto sorge una domanda. Ma perché per lo sport sì?
Perché le critiche, certo ben presenti, non raggiunsero il livello di
acredine e di opposizione violenta che abbiamo visto per la jupe
culotte? Come è stato notato, ci sono due motivazioni principali. La
prima è legata al carattere ancora fortemente classista della società:
non è un caso che questi nuovi sport fossero praticati all’inizio qua-
si esclusivamente dalle aristocratiche e alto-borghesi. A loro erano
concessi privilegi che alle altre erano negati. Potevano fare sport
“maschili” e indossare vestiti “proibiti”, perché erano l’élite – allo
stesso modo in cui per le star del teatro e del cinema era tollerata
una vita amorosa ben più spregiudicata di quella normale. Erano i
privilegi del potere, in tutte le sue forme vecchie e nuove. La seconda
ragione è che queste pratiche avvenivano in spazi separati. Era come
se un atteggiamento un po’ licenzioso, come sciare o pedalare, fosse
concesso in villeggiatura o in vacanza, cioè in luoghi dove risultavano
parzialmente sospese le rigide regole dell’etichetta valide invece in
città. Non solo c’erano meno pericoli di contaminazione ma que-
ste eccezioni funzionavano da valvola di sfogo, erano eccezioni che
confermavano la regola71. In questo modo però le donne poterono
sperimentare atteggiamenti e abiti differenti, scoprendo nuovi ter-

68 Archivio storico Luce, A. Monteverde, Gruppo di sciatrici all’Abetone, 22-23

gennaio 1927, n. CAD-S-040005-0008; Una sciatrice in movimento, in Val Grosina,


in Lombardia, 1° gennaio 1924, n. AVQ-A-002555-0068.
69 Cfr. vari interessanti documentari dell’Archivio dell’Istituto Luce, alcuni dei

quali raccolti da L. Laurenzi, Mare e Moda. Una giornata al mare nell’Italia degli anni
trenta, http://video.repubblica.it/luce/vita-italiana. I primi costumi da bagno in tessu-
to elastico erano stati brevettati dall’americana Jantzen nel 1921. Cfr. Archives Center,
National Museum of American History, Jantzen Knitting Mills Collection, 1925-1977.
70 Cfr. alcune sue fotografie sul sito http://www.radiomarconi.com/marconi/al-

fonsina/index.html.
71
Crane, Questioni di moda cit., pp. 140-144.
94 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

ritori simbolici, con conseguenze di lungo periodo. E questi effetti


non facevano che sommarsi agli ideali di femminilità alternativi, an-
che nel vestiario, che i mass media come il cinema hollywoodiano
diffondevano72.
Se da questo movimento erano rimaste escluse le donne lavo-
ratrici (che pure a volte in sordina portavano tute o pantaloni per
svolgere certi lavori produttivi) e quelle della classe media, fu lo
stesso fascismo a fare un passo avanti. L’enfasi del regime sul cor-
po robusto e prolifico della donna e la conseguente promozione di
attività fisiche in scuole e dopolavoro diffuse ancor più la pratica
dello sport fra le donne di tutte le classi. Le numerose immagini di
saggi ginnici ci mostrano bambine e ragazze che svolgono esercizi, in
tenuta sportiva, a volte anche ridotta (sarà uno dei motivi di scontro
con le gerarchie cattoliche). Vari cinegiornali Luce ce le mostrano
mentre compongono figure coreografiche collettive; a volte sono in
gonna, camicia bianca e fazzoletto in testa, più spesso in calzoncini,
maglietta aderente, scarpe da ginnastica, proprio come i colleghi
maschi – semmai con più enfasi sul colore bianco73.
Qui, forse, siamo giunti al cuore della politica fascista, il cui so-
gno era forgiare per il futuro un uomo nuovo, antropologicamente
differente dal vecchio borghese, facendo leva soprattutto sui giova-
ni. Una politica di disciplinamento che ha importanti riflessi per il
nostro discorso. Queste manifestazioni sportive di massa hanno in
primo luogo il senso di inquadrare i giovani nelle istituzioni, nel par-
tito, in ultima analisi, nello Stato, mettendo al bando l’individualismo
liberale. È facile vedervi un tentativo di militarizzare molti aspetti
della società, come testimonia l’uso diffuso di uniformi militari e ci-
vili, come visto in precedenza. Nessuno doveva sfuggire al controllo
dello Stato, donne comprese. Ma proprio per queste ultime, il pro-
cesso si dimostrò ambiguo. Eterogenesi dei fini: la pratica sportiva
finì infatti per avere risvolti emancipatori, per dare visibilità al corpo
femminile, per innescare processi di autoaffermazione a partire da
una diversa percezione di sé che passava attraverso il corpo.

72 V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993.


73 Cfr. ad esempio Archivio storico Luce, Giornale Luce A0832, agosto 1931;
Giornale Luce B0882, 13 maggio 1936. Cfr. inoltre: de Grazia, Le donne nel regime
fascista cit.; P. Ferrara, La “donna nuova” del fascismo e lo sport, in Sport e fascismo, a
cura di M. Canella e S. Giuntini, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 209-234.
III. Flashback: la moda in camicia nera 95

Forse l’immagine simbolo di questa rivoluzione al femminile è la


gara vittoriosa di Ondina Valla alle Olimpiadi di Berlino del 1936: a
vent’anni vinse la gara degli 80 metri a ostacoli, dopo avere stabilito
il record del mondo, e fu il primo oro olimpico femminile per l’Italia.
Dopo i primi tentennamenti (dopotutto lo sport era strettamente
connesso alla costruzione dell’identità maschile), il regime fece di
lei un simbolo della nuova Italia vittoriosa, giovane e coraggiosa. Le
immagini della gara e le successive fotografie fecero il giro del paese:
presentavano una giovane sorridente, in maglietta, calzoncini corti e
aderenti, scarpe da ginnastica, capelli corti e raccolti74. Un’immagine
di ragazza semplice, in linea con le direttive del regime, ma che in
realtà racchiudeva le premesse di un profondo cambiamento. Que-
sto cambiamento culturale sarebbe venuto in piena luce solo molto
dopo – e per verificarlo, dobbiamo riprendere il filo del nostro rac-
conto là dove l’avevamo lasciato, e cioè a metà degli anni Sessanta.

74 Archivio storico Luce, Giornale Luce B0938, 19 agosto 1936.


IV

LA MODA RIVOLUZIONARIA (1965-1975)

1. Nuovi stili, nuovi ruoli: il vento di Londra

La modella lo guarda in modo serio, distaccato, quasi malinconico,


mentre il fotografo sceglie alcuni decori per la scena. Non è il tipo di donna
che fino a pochi anni prima avrebbe potuto sfondare nel mondo dei media
o dello spettacolo. Altissima (1,90), molto magra (taglia 38), capelli biondo
scuro e occhi azzurri, colpiva per lo sguardo intenso che illuminava un viso
simmetrico e allungato. Non sorrideva quasi mai – chissà se stava pensan-
do alla tragedia (vera) che aveva colpito la sua vita da bambina, quando il
padre, un aristocratico alto ufficiale, aveva partecipato nel luglio 1944 al
fallito attentato contro Hitler ed era stato impiccato. Ma forse no, forse è
solo molto concentrata sul servizio che sta per fare con uno dei fotografi
più in auge del momento, che non a caso ha scelto lei per dare vita e corpo
allo spirito della vibrante Londra degli anni Sessanta.
Si inizia. Dapprima la macchina resta ferma sul cavalletto e la modella
si muove plasticamente, incoraggiata dal fotografo. Poi la sessione si fa
più concitata. Il fotografo le si avvicina per scattare, perdendo la sua aria
un po’ annoiata, le fa primi piani, l’incoraggia di continuo, “Bene, brava,
bene così! Ancora, ancora... guarda da questa parte, molto bene, adesso
di là, benissimo!” E infine la modella si distende il terra, il fotografo le
è sopra, agitato, ossessionato, non smette mai di scattare e di parlare.
Lei si rotola per terra, nel suo abitino nero a frange, scoperto di lato,
a piedi nudi, e scuote i lunghi capelli, sembra parlare con il suo corpo.
Il fotografo è estasiato, sembra quasi un flirt amoroso tra i due. Poi di
colpo lui si allontana, stanco, e si butta su un divano a lato per riposare,
disinteressandosi del tutto di lei. La modella, ancora a terra, si alza a sua
volta, sempre senza profferire parola, si ricompone, e si ritira dall’altro
lato dello studio. Il lavoro è finito, tutto torna come prima.
(Blow-Up, diretto da M. Antonioni, Gran Bretagna-Italia 1966)
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 97

Questo famoso e pluripremiato film di Antonioni si distingue per


una raffinata ricerca estetica, lo sforzo di rappresentare i contrastati
sentimenti del protagonista, la denuncia dell’apatia di una certa so-
cietà. In verità, fece anche molto scandalo per le sue scene di nudo
integrale. Noi qui però lo ricordiamo per la sua ambientazione nel
nascente mondo della moda e per l’efficace ritratto della Swinging
London. Nel film si vedono giovani con vestiti e tagli di capelli al-
ternativi, band giovanili mod; si attraversano luoghi simbolo di una
Londra effervescente, si passa da una festa all’altra alla ricerca di
trasgressioni (compresi alcol, sesso e droga), si varcano nuovi confi-
ni. È tutto uno stile nuovo, una vera e propria rottura culturale che
parte dai giovani. E la moda vi gioca un ruolo importante. Non è un
caso che i protagonisti del film appartengano a tale mondo: la figura
del fotografo è ispirata a David Bailey, magnetica icona del mondo
fotografico e uno dei principali collaboratori di «Vogue»; la modella
è per davvero una delle prime superpagate top model della storia,
Veruschka (Vera von Lehndorff-Steinort), volto immagine degli anni
Sessanta.
Di fronte alla corazzata dell’alta moda parigina, da Londra par-
tiva una sfida inaspettata e spettacolare. Non proveniva da stilisti
concorrenti o da giornali di tendenza o da artisti affermati, ma dalla
strada, da giovani che creavano nuovi stili e nuove tendenze. Un
visitatore che in quegli anni si fosse trovato a passare da Savile Row,
avrebbe ammirato i negozi dei sarti da uomo più noti con i loro abiti
su misura dal taglio classico e perfetto, come sempre; ma se avesse
fatto una passeggiata di pochi minuti verso est, si sarebbe trovato
in Carnaby Street, circondato da tante boutique dedicate alla moda
giovane, fatta di nuovi materiali come la plastica, di colori e abbina-
menti sgargianti, di maglie e di pigiami: tutto, fuorché il completo
classico. E se si fosse spinto nella west London fino a Chelsea e
King’s Road, avrebbe anche visto negozi di moda anticonformista da
uomo e da donna, fra cui la famosa boutique Bazaar di Mary Quant,
che aveva reso celebre la minigonna, abbinata a collant colorati e
abitini geometrici – un must per i giovani di allora1.

1 La letteratura sulla Londra degli anni Sessanta è vasta; cfr. ad esempio sui temi

della moda C. Evans, Post-War Poses: 1955-75, in C. Breward, E. Ehrman, C. Evans,


The London Look: Fashion from Street to Catwalk, Yale University Press-Museum of
London, London 2004, pp. 117-137.
98 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

E in Italia? Dei nuovi movimenti si cominciò a parlare con in-


sistenza verso il 1965, quando un gruppo di beatnik si piazzò sulla
scalinata di Trinità dei Monti, scandalizzando i passanti. Avevano i
capelli lunghi sulle spalle, maglioni larghi, blue jeans attillati, cin-
turoni di cuoio, con varianti come foulard, cappelli, frange, mentre
le ragazze portavano capelli corti o cortissimi, vestiti fantasia, ma-
gliette e pantaloni2. Non facevano molto, salvo bivaccare e suona-
re la chitarra. Destarono curiosità subito e timori in seguito. E per
loro i passanti e poi la stampa trovarono una definizione semplice
e pregnante: capelloni. Sui media i toni erano in genere di pesante
presa in giro, ma presto crebbe l’allarmismo. Sfogliando i titoli di un
quotidiano dal 1965 al 1969, le azioni più frequentemente attribuite
ai “capelloni” negli articoli sono: aggressioni, occupazioni di loca-
li, violenze, rapine, spaccio di droga, resistenza all’arresto, raduni,
scritte sui muri, sparatorie, zuffe, intemperanze, dibattiti, fuga di
ragazzine per raggiungerli (con seguito di genitori disperati), orge,
corse pazze in auto rubate. Sembra un caso da manuale dei “campi
discorsivi” enunciati da Foucault, nel senso che si ricorre sistema-
ticamente a pratiche che creano il loro oggetto: in poche parole, si
monta un caso giornalisticamente e quindi si crea il problema (al
quale non mancarono prontamente di reagire forze dell’ordine e
spedizioni punitive)3.
Ai beatnik, che si ispiravano almeno in superficie al movimen-
to letterario della Beat Generation americana (Kerouac, Ginsberg
e simili), si affiancavano i ragazzi e soprattutto le ragazze ye-ye, dal
nome di una moda nata in Francia sulla scia della nuova musica pop
(per via dei frequenti ritornelli che suonavano appunto ye-ye). Qui i
modelli di riferimento erano Johnny Hallyday e Sylvie Vartan. Que-
sti giovani non erano trasandati come i beat, ma attenti al vestiario,
all’aspetto curato e le ragazze anche al trucco, da sfoggiare in balli
scatenati. Le giovani furono tra le prime a tagliarsi i capelli cortissi-

2 Archivio storico Alinari, Gruppo di beattniks seduti davanti ad un portone, Dufo-

to, Roma 1965, n. DAA-F-000567-0000; Id., Due ragazze sedute a terra davanti ad una
Fiat 500, Dufoto [Roma] 1965, n. DAA-F-000569-0000. Cfr. anche Archivio Luce,
Caleidoscopio Ciac C1767, 31 agosto 1966 (Inchiesta sui “capelloni”).
3 Cfr. ad esempio: P. Bugialli, Tempi duri per i “capelloni” che bivaccano a Trinità

dei Monti, in «Corriere della Sera», 6 novembre 1965; Spedizione punitiva a Roma
contro i “beatniks” zazzeruti, ivi, 6 novembre 1965; Incursione di genitori disperati nel
villaggio di “Nuova Barbonia”, ivi, 24 maggio 1967.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 99

mi e a indossare le minigonne. Lo scandalo fu grande. Fra le tante


raccolte fotografiche a ricordo di quegli anni, la scelta è ampia4.
Alcune foto mostrano due ragazze a spasso per Milano nel maggio
1966. Entrambe indossano una minigonna (dieci centimetri sopra al
ginocchio), un’alta cintura di pelle, una maglietta; una delle due ha
i capelli corti a caschetto, l’altra li ha lunghi e sciolti e porta grandi
occhiali da sole. Ebbene, l’interesse al loro passaggio è davvero no-
tevole. In una foto, si voltano a guardarle ostentatamente due poli-
ziotti; in un’altra, le osserva con curiosità un’intera scolaresca; nella
terza, è un gruppo di anziani a scrutarle da vicino senza ritegno. Loro
passano via indifferenti, anche a fronte dei commenti colti al volo
dal giornalista: “Non sono italiane”, “L’è roba inglese”, “Sono due
beatles”, “Sono scappate di casa”, “Forse sono uomini”, “Povere
mamme!”, “Andate a lavorare!”. Così che il giornalista conclude:
“visti i commenti e gli sguardi, non sempre benevoli, almeno per ora,
meglio riservare le minigonne per le vacanze al mare”5.
Invece a loro si sarebbero presto aggiunti gli hippie, la variante
americana del movimento beatnik (con centri al Greenwich Villa-
ge di New York e a San Francisco), con il loro corredo di vestiti
floreali e variopinti, le ispirazioni orientali, l’abbigliamento unisex
(blue j­eans, magliette, capelli lunghi, sandali) oppure, per le donne,
gonne lunghe, poco trucco e niente reggiseno, e una filosofia di vita
decisamente alternativa a quella consumista6. Le reazioni non furono
migliori.
Perché tanto spavento? Perché reazioni così forti da fare parlare
studiosi come Stanley Cohen di “panico morale”? In fondo, almeno
nei primi anni, la sfida non era giocata apertamente su di un piano po-
litico-ideologico, come avverrà dal 1968. Ma furono proprio gli stu-
diosi inglesi a capire che con un abitino e un diverso taglio di capelli si
attaccavano profondi valori culturali. Visti i significati culturali legati
al codice vestimentario, che abbiamo analizzato in precedenza, questi
atteggiamenti si configuravano come una forma ribelle di subcultura,

4 Cfr. ad esempio le fotografie presentate dall’Espresso sul portale dedicato al

1968: http://temi.repubblica.it/espresso-il68/category/foto.
5 I.V., Ecco le minigonne a spasso per Milano, in «Corriere della Sera», 28 maggio

1966.
6 Archivio storico Luce, Radar R0155, 25 ottobre 1967; ivi, Tempi Nostri T1243,

1° maggio 1972.
100 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

costruita intorno allo specifico elemento identitario dell’età. Le spie-


gazioni per la sua comparsa sono molteplici: i giovani godevano di un
benessere mai sperimentato prima e potevano permettersi consumi
propri; i nuovi mass media diffondevano rapidamente nuovi modelli
e nuovi testimonial, soprattutto attraverso una musica che non cono-
sceva barriere nazionali o linguistiche; l’educazione prolungata face-
va acquisire una maggiore coscienza di sé e al tempo stesso lasciava
molto tempo libero, facilitando aggregazioni di soli giovani; questo
crescente tempo libero, sottratto alle costrizioni tipiche del lavoro,
consentiva nuove forme di creatività; infine, si moltiplicavano i luoghi
di ritrovo per i giovani, dove sperimentare e copiare le nuove mode
(discoteche, caffè, bar e ritrovi in strada, gite)7.
Il punto centrale era che la sfida alla cultura tradizionale, con tut-
te le sue regole sociali, si materializzava in forma indiretta, attraverso
uno stile. I vari stili che si susseguirono – solo in Gran Bretagna c’e-
rano i provocatori teddy boy dallo stile neoedoardiano, a cui fecero
seguito i rockster con giubbotti in pelle e stivali da motociclista, i
sofisticati mod che amavano i vestiti su misura e la Vespa, i beatnik
dall’aria un po’ bohémien, per finire con gli estremi skinhead – una
cosa avevano in comune: costituivano una forma simbolica di resi-
stenza, spesso con un sottofondo di classe8. Studi posteriori hanno
un po’ svalutato questa interpretazione, soprattutto considerando la
transitorietà degli stili e il fatto che vari di essi siano stati risucchiati
e utilizzati dalla moda di consumo, snaturandosi9. In realtà, guar-
dando i documenti dell’epoca, non può essere sottovalutato l’effetto
shock dei nuovi stili giovanili; il fatto poi che alcuni suoi elementi
siano passati nella moda di tutti i giorni (gonne corte, blue jeans,
magliette, maglioni, scarpe da ginnastica) è in realtà il segno di un
lascito permanente, sul piano estetico e simbolico.

7 Resistance Through Rituals. Youth subcultures in post-war Britain (1975), a cura

di S. Hall e T. Jefferson, Routledge, London-New York 2007, pp. 12-20, 46-55; S.


Cohen, Moral Panics and Folk Devils: The Creation of the Mods and Rockers (1972),
Routledge, London-New York 2002.
8 D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale (1979), Costa & No-

lan, Milano 2008, pp. 58-68, 91-98.


9 D. Muggleton, Inside Subculture: The Postmodern Meaning of Style, Berg, Ox-

ford 2000; T. Polhemus, Streetstyle: From Sidewalk to Catwalk, Thames & Hudson,
London 1994. Cfr. anche The Men’s Fashion Reader, a cura di P. McNeil e V. Karami-
nas, Berg, Oxford-New York 2009, pp. 347-404.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 101

Tutto ciò ha alcune immediate conseguenze. La prima è che la


vecchia teoria trickle down della diffusione della moda, dall’alto ver-
so il basso, è insufficiente per spiegare queste nuove dinamiche. È
necessario ricorrere all’idea che esistano anche altre correnti di dif-
fusione: una prima orizzontale, per cui le mode si propagano come
scelte collettive da un gruppo sociale all’altro a qualunque livello,
e in questo modo possano espandersi con grande rapidità – cosa
che di fatto rende possibile un mercato di massa (teoria del trickle
across)10. Inoltre, proprio gli stili subculturali suggeriscono un passo
ulteriore: una spinta dal basso verso l’alto, per cui mode nate in strati
sociali inferiori o in gruppi marginalizzati possono influenzare con
successo l’intera società (teoria del trickle up)11. Ancora una volta,
dunque, la moda fornisce spunti preziosi per comprendere il fun-
zionamento sociale.
In secondo luogo, il fatto che gli stili delle subculture giovani
abbiano alla loro base il vestiario con tutti i suoi accessori da un lato,
e la musica come espressione culturale generazionale dall’altro, fa
sì che si crei un legame fortissimo tra questi due mondi. Se fino ad
allora i modelli mediatici di riferimento per la moda erano per lo più
attori cinematografici, ora sono spesso anche pop star. L’impatto di
Elvis Presley, dei Beatles e di vari gruppi rock trascende di molto il
solo aspetto musicale, per diffondere stili di vita e modi di vestire: si
pensi all’esibita spettacolarizzazione del corpo e agli eccentrici co-
stumi del re del rock’n’roll o al look anticonvenzionale e trasgressivo
tipico delle rock band12.
Infine, in terzo luogo, i nuovi stili rendono letteralmente più vi-
sibili gruppi sociali lontani dal potere, come i giovani: ne parla la
televisione, li fotografano i giornali, se ne interessa il cinema e la
gente per strada. Merito anche di scelte in apparenza superficiali, ma
con significati simbolici profondi, come detto. Prendiamo i famosi
capelli lunghi. Non si trattava solo di farsi crescere i capelli in oppo-
sizione alle norme che imponevano agli uomini capelli corti e barba
rasata. I capelli sono da sempre un elemento di grande rilievo sim-

10 La prima formulazione di tale teoria è dovuta a C. King, Fashion Adoption:

A Rebuttal to the ‘Trickle Down’ Theory, in Toward Scientific Marketing, a cura di S.


Greyser, American Marketing Association, Chicago 1963.
11 Polhemus, Streetstyle cit. (l’autore definisce il fenomeno come bubble-up).
12 J. Miller, Fashion and Music, Berg, Oxford-New York 2011, pp. 11-49, 93-99.
102 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

bolico, tanto che in varie culture africane e asiatiche vige l’obbligo di


tagliarseli in caso di lutto o farli crescere senza pettinarli se si è in una
situazione di esclusione o contaminazione (sono segno di vitalità);
presso molte comunità dei nativi americani lo scalpo, come sappia-
mo, era il trofeo più ambito e un segno di forza (i capelli lunghi e
sciolti erano un simbolo di virilità proprio dei guerrieri)13. Portare i
capelli lunghi per i giovani occidentali era come rimandare a un’idea
di naturalità opposta a una civiltà costrittiva, di riappropriazione del
corpo primigenio, di ritorno alle origini. Lo stesso vale per l’abban-
dono di vestiti rigidi e formali a favore di abiti semplici e comodi.
Per le ragazze poi la sfida era a tutto campo. Non solo i capelli era-
no cortissimi o lunghi e sciolti (mai come imponevano le vecchie re-
gole femminili: lunghi, ben pettinati e raccolti). Le donne attaccavano
regole fondamentali. Nudità: la minigonna e altri indumenti ridotti
mostravano sempre di più il corpo delle donne, contro uno dei tabù
più tenaci. Pantaloni: le ragazze indossavano pantaloni e blue jeans,
portando così a conclusione una sfida iniziata molto tempo prima
(l’ultima resistenza tentata dalle madri fu di permettere i blue jeans
solo al mare ma con la cerniera spostata pudicamente sul fianco e non
davanti – ma non durò molto). Unisex: le ragazze si vestivano come
i ragazzi, avversando la formidabile barriera che vedeva il vestito co-
me primo simbolo della differenza di genere. Trucco: molte ragazze
cominciano a truccarsi molto, soprattutto negli anni Sessanta, cosa
prima accordata alle signore dell’alta società oppure alle attrici, cioè
a persone che frequentavano la scena pubblica: ora tutte le ragazze
rivendicano un ruolo sociale e non solo familiare. In fondo, ritrovia-
mo all’opera almeno in parte il processo di rigetto dell’artificio e di
codici vestimentari “innaturali”, che costringevano forzatamente il
corpo delle donne, a favore di abiti più funzionali. Così, poco dopo,
le gonne lunghe, i pantaloni, le tute, i capelli lunghi e il rifiuto del
reggiseno tipici dei movimenti femministi degli anni Settanta conte-
starono anche per questa via un ideale di femminilità e di bellezza che
passava attraverso una costruzione tradizionalista del corpo14.

13 E. Cerulli, Vestirsi spogliarsi travestirsi. Come quando perché, Sellerio, Palermo

1999, pp. 37-38, 61, 120-123.


14 L. Negrin, The self as image, in The fashion history reader: global perspectives, a

cura di G. Riello e P. McNeil, Routledge, London 2010, pp. 504-513; Miller, Fashion
and Music cit., pp. 51-69.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 103

Non a caso, in questo periodo troveranno spazio anche le prime


istanze omosessuali per mostrarsi in pubblico con modalità più libe-
re. E forse, più che le prime manifestazioni a favore dei propri diritti,
una foto simbolo è quella scattata in una via di Roma nel 1973. Si
vede un gay a passeggio con pantaloni chiari aderenti, vita alta e ta-
glio jeans a zampa di elefante, giacchino chiaro altrettanto aderente
e in gran parte aperto sul petto nudo, dove si nota un pendente, e
una folta chioma probabilmente bionda, lunga, un po’ cotonata; ha
in mano il guinzaglio di un piccolissimo cane molto interessato a un
palo segnaletico. Il padrone passeggia tranquillo e si volta a guardare
qualcosa, altri passanti non sembrano farci molto caso15. La moda
rivoluzionaria cominciava a trasformare l’inusuale in ordinario, così
come lo street style in stile per tutti.
Tutto quello di cui abbiamo parlato troverebbe un letterale ri-
scontro nell’armadio di un giovane di quegli anni. Proviamo allora
nuovamente a guardare all’indietro, per ritrovarci nella cameretta di
una ragazza verso il 197016. La stanza non è tanto grande, forse è stata
separata per ricavare due ambienti. Di fronte a noi un armadio in le-
gno massello laccato, con le porte ricoperte di un tessuto a fiori verde
scuro. Presenta quattro sezioni, di cui due a vista ripiene di tutto e di
più: libri, dischi, quaderni, ciondoli appesi a una striscia di cuoio, una
scatola per il trucco, una borsa a secchiello. Concentriamoci sulla par-
te chiusa, che contiene gli abiti. La prima cosa che ci salta all’occhio
sono i blue jeans. Ce ne sono di vario tipo, da quelli classici scoloriti
ad altri di velluto a costine; uno, molto usato, è a vita alta e ha strappi
in vari punti (soprattutto dietro). Di sicuro, questa ragazza avrà avuto
i suoi bravi problemi a indossarli, di fronte alle resistenze dei genitori.
Nulla in confronto alle discussioni create dalle minigonne che vedia-
mo allineate, in stoffa colorata, a quadretti; una in camoscio verde

15 Archivio storico Alinari, Omosessuale a passeggio per una via di Roma, Team,

1973, n. TEA-S-001075-0006. Per una discussione sulle oscillazioni delle culture e de-
gli stili omosessuali tra gli estremi dell’effeminatezza e del machismo cfr. T. Edwards,
La moda. Concetti, pratiche, politica (2011), Einaudi, Torino 2012, pp. 158-162.
16 La descrizione anche di questo armadio è realizzata grazie all’inchiesta citata

con questionari e interviste. Di particolare utilità per la ricchezza di informazioni


quelle dell’A. con G. Bertasso nel 2015. Per il caso a cui si fa qui riferimento, cfr. le
interviste a Raimondo B. nato nel 1932 e Concetta A. nata nel 1933, raccolte da A.
Bonanno nel 2014; nonché il gruppo di interviste raccolte a Roma nell’estate 2014 da
G. Incalza.
104 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

abbottonata sul davanti – da accompagnare magari con gli alti stivali


bianchi in terra vicino all’armadio. È la moda alla Carnaby Street, che
fa impazzire i giovani, e anche i genitori, a loro modo.
Sugli scaffali si vedono poi maglioncini corti e aderenti; insieme a
magliette a T e Lacoste. Non mancano una gonna scura lunga e ampia
e una sottana-pantalone. Appesi, si notano un giaccone blu marina-
resco con i bottoni metallici e un loden fatto un po’ a mantella, che
sembra dichiarare con la sua grezza lana tirolese color foresta la sua
avversione al tradizionale cappottino ben tagliato. Non ci sorprende
osservare, dall’altro lato dell’armadio, vestiti più classici: quelli per le
grandi occasioni o forse solo quelli comprati dai genitori. Ecco allora
un vestitino bianco di tulle con la scollatura a barchetta e uno rosa di
cotone con colletto ricamato; come anche una gonna scozzese, da ab-
binare di sicuro a una camicetta bianca e da portare con calzettoni e
ballerine. Un altro mondo! E certo il dialogo tra i due non è semplice.
Approfittiamo della calma che regna in giro per sbirciare nella
cameretta a fianco, quella del fratello adolescente, come avevamo
immaginato. Nel suo armadio, simile al primo, fra un certo disordine
troviamo pure qui vari jeans, insieme a pantaloni a zampa di elefante
attillatissimi, in tela dai colori vivaci (verde, arancione, a righe sotti-
li); mentre notiamo alcune camicie a fiori o con particolari in pizzo.
Sui ripiani, T-shirt di vario tipo e maglioni in shetland. Di pesante,
vediamo un montgomery, di certo acquistato su qualche bancarella
dell’usato, e un loden (alla faccia del cappotto cammello di papà).
È la prima volta che vediamo capi uguali nel guardaroba dei due
generi. Ed è anche la prima volta che la simbologia di questi capi
sembra mettere in ombra, nei vestiti così come nella vita, due valori
fondamentali dei decenni trascorsi: l’ordine e la disciplina. Anche se
pure qui alcuni capi sembrano parlare un’altra lingua: ecco un blazer
blu insieme a pantaloni di flanella grigi, da portare con una cravatta
a righe regimental – la divisa dei bravi ragazzi, l’eleganza sognata per
loro da genitori che non se l’erano forse mai permessa.

2. L’American look

Hollywood 1953. Un giovane attore di belle speranze ottiene per


la prima volta il ruolo da protagonista, interpretando il personaggio
di Johnny Strabler, capo di una banda di motociclisti che sconvolge
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 105

la vita di una tranquilla cittadina americana. Il giovane interprete del


film Il selvaggio, Marlon Brando, diverrà famoso; il suo personaggio
di biker diverrà un’icona; i suoi vestiti (giubbotto di pelle, stivali da
motociclista, T-shirt e blue jeans) diverranno popolari come simbolo
di ribellione e anticonformismo. Dopo il film ci fu un’impennata di
vendite di tali capi, in particolare di blue jeans, che sembrarono di-
venire quasi una nuova divisa per i gruppi giovanili emarginati. Due
anni dopo James Dean in Gioventù bruciata interpreta il ruolo di
un adolescente dalla vita difficile, anch’egli rigorosamente vestito in
blue jeans, T-shirt e giubbetto, e questi abiti passano a simboleggiare
la diversità di un’intera generazione17.
Italia 1973. Il Maglificio calzificio torinese affida la pubblicità dei
suoi nuovi jeans Jesus al pubblicitario Emanuele Pirella e al fotogra-
fo Oliviero Toscani. Ne esce una campagna che farà scalpore per i
suoi espliciti riferimenti sessuali e la sua irriverenza al sacro. In un
primo manifesto, un jeans indossato con la cerniera aperta è sormon-
tato dalla scritta “Non avrai altro jeans al di fuori di me”; più tardi
seguirà un secondo poster con un mini jeans fotografato da dietro
sulla modella Donna Jordan e la scritta “Chi mi ama mi segua”. Le
polemiche furono roventi, tra proteste dell’«Osservatore romano»,
ordini di sequestro di un pretore palermitano, condanne del giurì
della pubblicità e commenti sferzanti degli intellettuali, culminati
con un articolo di Pier Paolo Pasolini che giudicò l’accaduto come
l’epifania di una nuova era, un’era che non si confrontava più con la
Chiesa ma la considerava ormai irrilevante, in nome del neocapitali-
smo e del consumismo18. Ma molti erano favorevoli, soprattutto fra
i giovani. E quel simbolo di anticonformismo quadruplicò in poco
tempo le sue vendite e la sua diffusione19.
A vent’anni di distanza, la provocazione utilizzava un po’ lo stesso
schema (o forse dovremmo dire lo stesso indumento simbolico). Questo
ci porta a integrare quanto detto sulla centralità di Londra nel proiet­tare
globalmente una nuova immagine di abbigliamento: sappiamo bene che

17 Il Selvaggio, regia di L. Benedek, Usa, 1953; Gioventù bruciata, regia di N. Ray,

Usa, 1955.
18 P.P. Pasolini, Il “folle” slogan dei jeans Jesus, in «Corriere della Sera», 17 maggio

1973. Cfr. anche G. Zincone, In vendita anche Gesù, ivi, 7 maggio 1973; Il pretore
moralista di Palermo: caccia a tutti i manifesti dei jeans blasfemi, ivi, 11 maggio 1973.
19
C. Guagnoni, Questa è la ragazza del mini-jeans che fanno scandalo, in «Corriere
della Sera», 9 aprile 1974.
106 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

i poli di diffusione in realtà furono due, da una parte la Gran Bretagna,


dall’altra gli Stati Uniti – patria, appunto, dei blue jeans.
Se è vero che l’abbigliamento è uno specchio profondo dei valori
di una società, allora non può sorprendere che gli Stati Uniti non si
riconoscessero nella moda tradizionale europea, che aveva i suoi punti
di riferimento più alti in creazioni esclusive e raffinatissime pensate
per una ristretta élite socioeconomica. La moda doveva essere invece
interclassista e antigerarchica, e quindi non rigida e formale; doveva
essere alla portata di tutti, e quindi non costosa; doveva rispecchiare
l’interesse generalizzato per lo sport, e quindi pratica; doveva ridurre
la distanza tra il codice formale degli abiti da lavoro e quello disinvolto
del tempo libero20. In una parola, una moda democratica, una moda
casual. Due furono le fonti di ispirazione per questo abbigliamento.
In primo luogo, gli indumenti da lavoro: pratici, resistenti, fatti con
stoffe robuste e solide cuciture anche a vista, in una parola più attenti
alla sostanza che alla forma. In secondo luogo, gli abiti per lo sport e
il tempo libero: comodi per effettuare ogni movimento, pratici nella
manutenzione, leggeri, dal taglio morbido e informale. Questa combi-
nazione trovò una sintesi ideale in California, dove la presenza di nuovi
e vecchi immigrati spinti dalla corsa verso l’Ovest, il clima temperato
ideale per le attività esterne e le suggestioni delle tradizioni locali (nativi
americani, messicani) confluirono nella creazione di un modello aperto
alle innovazioni, dai tratti non solo resistenti e informali, ma anche mol-
to colorati e creativi nei dettagli. La successiva diffusione di vari sport,
spesso legati al mare, portò a sviluppare abiti ispirati alla spiaggia, al
nuoto, al surf – pionieristicamente distribuiti anche all’Est da catene
come i California shop a fine anni Trenta21. Il capo casual, nelle sue
molteplici varianti, da uomo e da donna (con stili molto vicini se non
identici), divenne un punto di forza nella produzione americana, non
solo nei tradizionali grandi centri dell’Est, a cominciare da Chicago e
New York, ma anche nel nuovo polo produttivo di Los Angeles22.

20 D. Crane, Questioni di moda. Classe, genere e identità nell’abbigliamento, a

cura di E. Mora, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 196-202; R. Arnold, American
Look. Fashion and the Image of Women in 1930’s and 1940’s New York, I.B. Tauris,
London-New York 2009.
21 Cfr. Archives Center, National Museum of American History, The California

Shop Records, 1938-1942.


22
G. Votolato, American Design in the Twentieth Century. Personality and Per-
formance, Manchester University Press, Manchester-New York 1998, pp. 237-248;
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 107

I blue jeans sono il prodotto più famoso di questa svolta. Un po’


tutti conoscono la storia della nascita di questi pantaloni robustissi-
mi prodotti dal 1853 a San Francisco da Lévi Strauss per cercatori
d’oro, minatori e lavoratori manuali usando una forte tela genovese
(jeans viene infatti da Genova e indica una spessa tela di cotone blu)
e in seguito il più morbido denim (tela simile, prodotta in Francia
a Nîmes, da cui il nome). Vent’anni dopo, con il socio Jacob Davis,
furono aggiunti rivetti di rame a rinforzo delle tasche e lanciati vari
modelli (come il famoso 501), creando un brand riconoscibile con
un’etichetta di cuoio ben visibile cucita sul retro. In seguito i bottoni
lasciarono il posto a una cerniera lampo, invenzione americana di me-
tà Ottocento divenuta popolare negli anni Trenta, grazie alla facilità
di chiusura rispetto a bottoni o lacci. Nei jeans la cerniera era grande,
robusta e ben visibile, mentre nelle chiusure dei pantaloni da uomo
era di solito nascosta, ritenuta poco pudica (sarà la visionaria Elsa
Schiaparelli a usarla per prima fra le due guerre nelle sue collezioni
parigine di alta moda da donna, bene in vista, provocatoriamente
persino su abiti da sera). Inutile dire che il successo dei jeans Levi’s
indusse presto molti a imitarli, a partire dai marchi Lee, diffuso nel
Middle West, e Blue Bell (poi Wrangler), forte negli Stati orientali23.
Ma forse altri aspetti di questa storia sono meno noti. Un visi-
tatore che si attardasse nella centralissima Piazza Venezia a Roma
potrebbe visitare il Museo centrale del Risorgimento, a fianco del
Vittoriano, per scoprire cimeli sulla storia italiana. E resterebbe sor-
preso nello scoprire in una bacheca di vetro un paio di blue jeans
indossati insieme alla camicia rossa da Giuseppe Garibaldi nella
spedizione dei Mille a Marsala nel 1860. I pantaloni, di cotone az-
zurro, comodi e di taglio dritto, sono molto ben conservati e hanno
una toppa (originale) sul ginocchio sinistro. La sorpresa dovrebbe
svanire pensando che questi pantaloni in tela blu di Genova erano
prodotti proprio per la marineria e indossati comunemente a bordo
delle navi (la tela era anche usata per coprire o trasportare merci e

W.R. Scott, California Casual: Lifestyle, Marketing and Men’s Leisure Wear, 1930-1960,
in The Men’s Fashion Reader cit., pp. 153-167; Id., Dressing down: Modernism, ma-
sculinity, and the men’s leisurewear industry in California, 1930-1960, Dissertation,
University of California, Berkeley 2007.
23 U. Volli, Jeans, Lupetti, Milano 1991; Denim. Una storia di cotone e di arte, a

cura di G. Rossi, Fashion System, Milano 2012; Global Denim, a cura di D. Miller e
S. Woodward, Berg, London-New York 2011.
108 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

vele). Ecco dunque spiegati i “blue jeans di Garibaldi”, forse il paio


più antico giunto fino a noi24.
Questa storia mostra chiaramente una cosa: non è tanto il pro-
dotto in sé ad avere significato ma il prodotto investito dei significati
storico-culturali che gli attribuiamo. Insomma, parliamo di blue jeans
per il valore che hanno assunto grazie alle produzioni americane e alla
rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta; dei pantaloni az-
zurri dei marittimi genovesi non sarebbe importato molto a nessuno.
Così invece i jeans divennero un punto di riferimento della divisa an-
ticonformista finché, già a partire dalla fine degli anni Settanta, furono
inglobati nell’abbigliamento di massa da una parte e nell’alta moda
dall’altra, con i principali stilisti che facevano a gara per disegnarli.
L’altro elemento che entra nell’abbigliamento in questo periodo
è la maglietta, più precisamente la T-shirt. Si tratta di una capo di
cotone bianco, economico e semplicissimo da realizzare, anche per
via del suo taglio a T, appunto, usato come biancheria intima ed evo-
luzione delle canottiere già in uso nell’Ottocento. Hanes e Fruit of
the Loom cominciarono presto una produzione massiva. La Marina
americana le adottò come biancheria e le diffuse, ma furono soprat-
tutto le università americane e le tenute sportive a popolarizzarle.
Dopo la seconda guerra mondiale cominciò infatti l’uso di portar-
le anche come capo esterno autonomo. E presto cominciarono le
“scritte”: loghi di club, college, squadre sportive, manifestazioni di
appartenenza, provocazione, pubblicità. La T-shirt diventò parte
dell’abbigliamento casual per gli stessi motivi di praticità e versatili-
tà dei blue jeans (ed ebbe anche le stesse star come testimonial)25. È
oggi forse l’indumento più diffuso globalmente.
In conclusione, come dobbiamo interpretare questo periodo?
Sono tutti concordi nel vedere nel nuovo abbigliamento casual e
quello degli stili giovanili, in parte sovrapposti, un segno dei tempi
che cambiano: simbolo di libertà contro regole costrittive, di provo-
cazione generazionale, di rivoluzione sessuale. In realtà, guardando
questa fase sullo sfondo del lungo periodo, notiamo due cose. In pri-
mo luogo, l’accentuazione della tendenza a un vestire esteticamente
più semplice, morbido, informale e con meno costrizioni, non fa che

24Vedi il Museo Centrale del Risorgimento, Vittoriano, Roma.


25C. Taccani, I Love T-Shirt. Origine e storia di una maglietta in cotone a forma di
T, Fashion Illustrated-Cotton USA, Milano 2014.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 109

proseguire il trend già osservato della ricerca di un vestito, e quindi


di un modo di vivere il corpo, considerato più naturale e meno artifi-
cioso. Con un’interessante conseguenza. Italo Calvino nel suo famoso
romanzo Il cavaliere inesistente racconta la romantica e drammatica
storia di Agilulfo, cavaliere ai tempi di Carlo Magno. Agilulfo è fatto
però solo della sua corazza bianca, non ha un’esistenza corporea che
non sia l’armatura metallica. È questa che dà vita e forma alla sua
persona26. Ebbene, senza spingersi a tali estremi, va sottolineato in
generale quanto la forma influenzi la sostanza; nel nostro caso quanto
i vestiti casual influenzino il corpo, la postura, i movimenti, il modo di
essere nel mondo. Indossare per strada blue jeans e T-shirt o invece
un rigido completo formale oppure tenere in casa una comoda tuta
o invece un elegante abitino in qualche modo modificano i nostri
gesti, ci inducono a un atteggiamento più o meno rilassato, ci fanno
interagire diversamente con le cose. La cultura materiale espressa
dall’abito è il prodotto di una fase storica ma a sua volta interagisce
con quest’ultima e finisce per condizionarci. Il rapporto è bilaterale.
Da questo punto di vista, la diffusione di nuovi stili vestimentari di-
venterà essa stessa un elemento dinamico di cambiamento culturale.
Il secondo elemento è che siamo di fronte a un mutamento molto
profondo. Come osservano studiosi come William Scott, l’identità
personale nel capitalismo produttivo del XIX e XX secolo era in
buona parte definita dalla classe, dall’occupazione, dal genere. Per
questo tali elementi erano così importanti nel definire i codici di
comportamento e i codici del vestiario. Ma ora, a metà del XX seco-
lo, emerge chiaramente una nuova forma di capitalismo più orien-
tata al mercato e al consumo, dove l’identità è meno legata ai vecchi
canoni e invece maggiormente informata dal tempo libero, dallo
sport, da varie forme di divertimento. I nuovi vestiti non fanno che
manifestare e a loro volta rafforzare questo profondo mutamento27.
Ecco allora che gli abiti per il tempo libero tendono ad occupare
sempre più la scena pubblica, erodendo spazi ai vestiti formali per-
sino sul lavoro; ed ecco che gli abiti sportivi, segno di una nuova
sensibilità verso il proprio corpo e la natura, sono portati anche al
di fuori delle occasioni sportive nella quotidianità urbana; e che ab-

26 I. Calvino, Il cavaliere inesistente, Einaudi, Torino 1959.


27 Scott, Dressing down cit., in part. pp. 11-16.
110 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

binamenti, forme e colori rigidamente preordinati lasciano il posto a


combinazioni individuali e fantasiose; e infine che persino il canone
del genere, dal punto di vista del vestiario, perde peso, e si affacciano
indumenti unisex. Lungi dall’essere una manifestazione passeggera
di un’epoca eccentrica, gli abiti casual e giovanili si diffonderanno
rapidamente presso altri gruppi sociali e saranno inglobati nell’ab-
bigliamento di tutti i giorni, oltre che nell’alta moda, perché segno
dei nuovi tempi. Il mondo del consumo, che aveva visto la sua alba
nell’Ottocento con la nascita dei grandi magazzini e le esposizioni
universali, conosce nel secondo Novecento la sua piena maturità con
una società sempre più orientata al leisure, che non può che rispec-
chiarsi in nuovi e diversi canoni di vestiario.

3. Un mondo di colori

C’era una volta... tutte le fiabe iniziano così. E tante narrazioni


hanno come oggetto o elemento saliente un vestito o un accessorio.
Basta ricordare Cappuccetto Rosso, la fiaba che Charles Perrault ri-
prende dal folklore popolare e che vede protagonista una bambina
tanto identificata con il suo sgargiante vestitino da non avere altro no-
me. La bambina, lo sappiamo bene, attraversa il bosco e arriva dalla
nonna, che in realtà è il Lupo cattivo. Inutilmente si insospettisce per
braccia, gambe, orecchie, occhi e denti fuori misura: troppo tardi, il
Lupo la mangia. E così finisce la storia originale, pubblicata nel 1696,
che aveva lo scopo preciso di ammonire i bambini e soprattutto le
bambine a stare lontane dai lupi cattivi e sconosciuti qualunque for-
ma essi prendessero. Furono i fratelli Grimm più di un secolo dopo
a fare una versione a lieto fine, introducendo la figura del cacciatore
che salva nonna e bambina (naturalmente nella nostra epoca non può
che trionfare questa seconda versione). In Cenerentola l’attenzione
agli abiti è centrale, visti i dettagli con cui sono descritti i ricchi ve-
stiti delle sorellastre (uno di velluto rosso e ricami inglesi, l’altro con
gonna e mantello a fiori d’oro) e poi il povero abitino pieno di cenere
della protagonista, tramutato dalla fata madrina in un favoloso abito
di broccato d’oro e argento, pieno di ricami e pietre preziose, con
tanto di scarpette di vetro ovviamente. Il protagonista del Gatto con
gli stivali si serve delle sue speciali scarpe per salvarsi da un triste de-
stino (essere mangiato e finire come pelliccia di un manicotto) grazie
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 111

alla sua abilità. Più cupa la vicenda in Pelle d’asino, dove una princi-
pessa tenta di sottrarsi al matrimonio incestuoso con suo padre, il re,
chiedendogli come doni un vestito color dell’aria, uno colore della
luna, uno come il sole e infine uno fatto con la pelle di un asino che
produceva oro, anziché sterco; riuscirà a fuggire vestita con la pelle
dell’asino per condurre in incognito una vita di miseria, fino a quando
un giovane principe si innamorerà di lei e verrà riconosciuta come
la figlia perduta del re28. E ancora, per passare ad Andersen, trovia-
mo Le scarpette rosse, fiaba contro la vanità femminile che punisce
duramente la protagonista innamorata delle sue belle scarpe: queste
non smetteranno più di ballare e portarla in giro, finché sarà costret-
ta a farsi tagliare i piedi, chiedere perdono e infine volare redenta
in Paradiso29. Certo, per la nostra sensibilità alcune situazioni sono
un po’ forti, ma non dobbiamo dimenticare che queste favole erano
raccontate non solo per intrattenere ma per educare e insegnare una
morale, compresa la punizione per l’inadempienza.
Queste fiabe, che fanno parte del nostro patrimonio culturale co-
mune, ci insegnano però anche altre cose. Ad esempio il ruolo del
vestiario e, ancora di più, l’importanza dei colori. Concentriamoci
su quest’ultima. In fondo è logico che sia così, visto il profondo si-
gnificato simbolico dell’universo cromatico. Proprio questo viene in
mente dopo avere visionato decine di fotografie e filmati del periodo,
quando d’improvviso vediamo una foto diversa, speciale: è a colori!
Purtroppo l’abbondante documentazione visuale che possediamo è
in bianco e nero per la maggior parte (foto di giornali, video tv e cine,
foto private) e questo fa sottovalutare un fatto primario: la nuova
moda del periodo fu anche una rivoluzione di colori. Le preesistenti
regole dell’abbigliamento non erano meno severe nei riguardi dei
colori che nelle forme degli abiti, come si è visto in precedenza. Per
gli uomini erano molto limitative: per gli abiti da lavoro bene il blu e
il grigio (raramente altri colori, come il marrone solo d’autunno, co-
munque mai tinte vivaci); le stoffe sempre a tinta unita, salvo sottilis-
sime righine; le camicie bianche o azzurre sempre a maniche lunghe
(a maniche corte solo d’estate in occasioni informali, senza giacca);

28 Le fiabe citate sono in C. Perrault, I racconti di Mamma l’Oca (1696-97), Ei-

naudi, Torino 1957.


29 H.C. Andersen, Le scarpette rosse (1845), in Id., Fiabe e storie, Feltrinelli, Mi-

lano 2012.
112 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

le cravatte scure tinta unita o con piccolissimi motivi geometrici o a


righe; e così via. Per le donne la gamma dei colori era più ampia ma
non meno regolamentata: erano comunque escluse tinte troppo forti
e preferite quelle neutre e i mezzi toni; le tinte chiare erano ammesse
d’estate e non d’inverno; gli abbinamenti di colore erano ben deter-
minati (anche gli accessori dovevano essere cromaticamente legati
fra loro); i colori più accesi andavano di giorno e mai di sera, senza
parlare delle rigide regole per le cerimonie, quelle riguardanti i colori
per i bambini e quelle molto restrittive per le persone anziane.
Cosa ci racconta invece la fotografia a colori che abbiamo di fron-
te? È l’istantanea di una manifestazione studentesca in via dei Fori
Imperiali a Roma nel 196830. In primo piano abbiamo tre giovani che
camminano: al centro una ragazza con un giaccone rosso, pantaloni
e scarpe nere, i capelli lunghi sciolti e una bandana rossa; alza la
mano sinistra nel pugno e tiene sottobraccio a destra un amico, che
indossa blue jeans, un giubbetto stretto di tessuto bluastro sopra un
dolcevita fantasia; anche lui ha una sottile bandana rossa tra i capelli
spettinati. Alla sinistra della ragazza, un giovane le è a fianco por-
tando pantaloni marroni, maglia di lana rossa e un giubbetto aperto
di pelle, con un fazzoletto rosso slacciato che quasi sfiora i capelli
un po’ lunghi. Le espressioni sono serie, concentrate. Intorno a loro
altri giovani, altre facce, pugni alzati, bandane, giacche fantasia, cap-
potti, bandiere rosse. Sotto, il selciato scuro è lucente, è appena pio-
vuto; sullo sfondo gli alti pini verdissimi creano un forte contrasto.
Il rosso è chiaramente il colore simbolico in questa foto, tanto che
alcuni manifestanti che non indossano nulla di quel colore, portano
una bandana o un fazzoletto rosso. Insieme all’evidente significato
politico rivoluzionario e della sinistra politica, il rosso porta però altri
significati culturali non meno pregnanti: è il colore del sangue, dell’a-
more, della guerra, del fuoco, e anche un colore da sempre apprezzato
dalle classi elevate. Fa parte della triade di base che caratterizza l’uni-
verso cromatico dell’antichità occidentale, oltre che africana. Il rosso
nella nostra foto ha perciò un significato forte e che viene da lontano.
Lo stesso si può dire per il nero, molto presente in capi, scarpe e
accessori dei ragazzi – anche se in teoria il suo collegamento politico

30 Portale dell’Espresso sul 1968 cit., sezione “La contestazione (1968-1969)”, La

manifestazione, fotografia di R. Gentile /A3, Roma 1968.


IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 113

andrebbe verso la destra. Ma il nero è un colore importante nella sua


duplice tradizione: da un lato colore del lutto e della morte, e quindi
negativo; dall’altro colore dell’autorità, della serietà e quindi anche del
vestito elegante. Troviamo invece poco o niente di bianco, che pure è
un colore fondamentale (purezza, innocenza, pulizia), ma sappiamo
che i codici correnti lo riservavano a particolari cerimonie – e poi il
bianco ai nostri occhi moderni è talvolta percepito come un “incolo-
re”, uno sfondo, e quindi non degno di un guardaroba davvero colo-
rato (sicuramente poi questi studenti non vorrebbero essere confusi
con i “colletti bianchi”). Invece l’altro colore molto presente è il blu,
un colore moderno (non era usato nell’antichità e fu promosso dal cri-
stianesimo come colore del cielo, del divino, della Madonna); il blu di-
venta il colore del lavoro, con le tute operaie e gli indumenti pesanti da
cui derivano i jeans. Degli altri colori fondamentali per il cromatismo
occidentale, notiamo un solo verde, una giacca; è un colore speciale,
legato alla sorte: porta bene (come nei tavoli da gioco o come segno di
speranza) e porta male (è il colore di demoni e folletti e portava sfortu-
na nell’antichità), mentre manca il giallo, probabilmente troppo legato
a connotati negativi fin dal medioevo, come sinonimo di tradimento,
menzogna, crumiraggio (al contrario di culture asiatiche come quella
cinese, dove è tenuto in grande conto). Non mancano altre tinte, dal
marrone al viola31. In generale, gli studenti esibiscono colori forti, de-
cisi; il messaggio è dirompente rispetto ai codici cromatici imperanti
fino a pochi anni prima.
Peccato che non si vedano con chiarezza altri abiti. Si notano
però alcune stoffe fantasia e anche una a righe. Questa è un altro
aspetto da non sottovalutare, visto che nel vestiario classico capi di
più colori accostati o a righe erano banditi. E a ragione: i vestiti di
due colori o a due sezioni contrapposte furono tipici dei folli e dei
saltimbanchi medievali, perché indicavano una divisione duale dello
spirito, segnando quindi una anormalità e marginalità sociale32. For-
se questo derivava dal timore di mischiare due elementi diversi con

31 Per gli aspetti storici e culturali dei colori si fa riferimento all’opera di M. Pa-

stoureau, in particolare I colori dei nostri ricordi, Ponte alle Grazie, Milano 2011; Id.,
Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2002; Id., Nero. Storia di un colore,
Ponte alle Grazie, Milano 2008; Id., Verde. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Mi-
lano 2013. Cfr. inoltre M. Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1999.
32
R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strut-
turale (1967), Einaudi, Torino 1970, p. 150.
114 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

un risultato impuro (è scritto nella Bibbia: “Non accoppierai bestie


di specie differenti; non seminerai il tuo campo con due specie di
seme né porterai veste tessuta di due specie diverse”)33.
Le righe erano altrettanto scandalose, per taluni perfino demo-
niache e passarono direttamente a indicare vestiti di pazzi o di esclu-
si, come i carcerati. Erano un segno di confusione non esclusivo della
civiltà occidentale, se ad esempio i Tupi del Brasile, descritti da Lévi-
Strauss, rivestivano le loro urne funerarie di un fitto disegno a righe
nere, in modo da comporre un labirinto che sviasse gli spiriti maligni
in cerca di morti34. Comunque in Occidente fu nell’età moderna, dal
Settecento, che le righe furono ammesse per bambini e ragazzi, e più
tardi anche per situazioni ludiche e sportive35. I manifestanti della
nostra foto esibiscono dunque con le righe insieme la loro giovinezza
e la loro posizione fuori dai ranghi sociali ed estetici. La loro rivolu-
zione è anche quella dei colori contro gli abiti grigi.
I loro abiti raccontano però molto di più. Sappiamo come gli
oggetti di cultura materiale necessitino di più livelli di analisi: cul-
turale, in primo luogo, ma anche fisica e tecnologica. Per ottenere
abiti così colorati era stato necessario un lungo processo. Una volta i
colori vivaci non erano per tutti. Va ricordato infatti come la tintura
fosse un’operazione antichissima e per secoli si fossero utilizzati
svariati materiali organici e inorganici per tingere. Il problema è che
spesso i colori sbiadivano, soprattutto se mancava l’aggiunta di sali
come mordente, e molte tinte vivaci erano difficili e molto costose
da ottenere. Per questo i colori vivaci e forti erano da sempre as-
sociati a ricchezza e nobiltà, mentre le tinte slavate erano associate
ai vestiti dei poveri. Ancora a metà Ottocento il rosso fiammante
veniva da un piccolo insetto, la cocciniglia, portata dall’America,
che aveva da tempo sostituito le conchigliette coniche del murice
spinoso (la porpora dei romani); si usavano poi alcuni coloranti di
origine minerale (cobalto, cinabro, giallo cromo) e soprattutto una
montagna di piante e fiori vari, come le piante di indaco o guado
per il blu, il tutto importato o esportato in giro per il mondo36.

33Levitico 19,19.
34C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), Il Saggiatore, Milano 2011, p. 73.
35 M. Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Il

Melangolo, Genova 1993.


36 D. Cardon, Natural Dyes: Sources, Tradition, Technology and Science, Archetype,

London 2007.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 115

Finché nel 1856 l’inglese William Perkin, mentre cercava invano


di sintetizzare il chinino, ottenne un colore viola, il malva, la prima
tinta sintetica della storia, alla quale seguirono rapidamente altre
scoperte in Gran Bretagna e in Francia. Nel giro di pochi decenni
un nutrito gruppo di imprese tedesche si specializzò nella produ-
zione di coloranti sintetici di tutti i tipi (prodotti fianco a fianco
agli esplosivi). Grazie a investimenti mirati e al collegamento con
un efficace sistema educativo, si creò quasi un oligopolio nella pro-
duzione, e si può dire che questo ramo dell’industria chimica fosse
giunto a una prima maturità agli inizi del Novecento37. L’Italia in
questo campo non ebbe molto da dire, anche se la fitta rete produt-
tiva tessile favorì lo sviluppo di molte tintorie specializzate, e non
mancarono alcune imprese chimiche di una certa dimensione, come
l’Acna, attiva dal 1929 presso Savona ed entrata poi nell’orbita della
Montecatini. In un certo senso anche qui la chimica diede una spin-
ta alla democratizzazione, rendendo disponibile per tutti un’intera
gamma cromatica nell’abbigliamento.
Il secondo passo di questo allargamento a favore dei consumatori
fu legato allo sviluppo di nuovi prodotti sintetici. Se le fibre artificia-
li, quindi con basi cellulosiche (rayon, acetato), erano state centrali
fra le due guerre, nel secondo dopoguerra si imposero nuove fibre
derivate dagli idrocarburi che si affiancarono alla storica poliammide
(nylon). Troviamo l’acrilico (realizzato nel 1950, fibra molto leggera
e soffice adatta alla maglieria, prodotta su licenza da varie imprese
italiane), i poliesteri (1953, resistenti e poco deformabili, ideali per
l’abbigliamento sportivo, realizzati in Italia dalla Rhodiatoce della
Montecatini con il marchio Terital), i poliuretani o elastomeri (1962,
fibre estremamente elastiche per sport e biancheria) e varie altre di
minore impiego, fra cui vogliamo ricordare il polipropilene, realiz-
zato nel 1960 dalla Polymer di Terni (Montecatini) trasformando in
fibra la sostanza plastica ottenuta nel 1955 dal premio Nobel Giulio
Natta38. Queste nuove fibre furono alla base della produzione di
capi casual e sportivi, usate da sole o in combinazione con fibre na-

37 R.L. Blaszczyk, The Color Revolution, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2012.
38 F. Aftalion, A history of the international chemical industry: from the “early days”
to 2000, Chemical Heritage Press, Philadelphia 2001; S. Califano, Storia della chimica,
vol. 2, Dalla chimica fisica alle molecole della vita, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Le
fibre intelligenti cit., pp. 43-51.
116 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

turali, per la loro grande flessibilità e il basso costo. Fu un progresso


spettacolare che allargò enormemente il ventaglio della produzione.
Tra l’altro, permise nuove colorazioni, comprese quelle più lucide e
accese, che non era possibile ottenere con le fibre naturali, ad ecce-
zione della delicata e costosa seta; con il tempo la tintura si sarebbe
a volte addirittura integrata nella fase di produzione della fibra. Qui
invece l’Italia giocò le sue carte, con la Snia che nel 1970 si posizio-
nava come il sesto gruppo al mondo per le fibre artificiali con il 7,5
per cento (primo era il gruppo inglese Courtaults) e la Montedison
come decimo per quelle sintetiche con quasi il 4 per cento (settore
ampiamente dominato dal colosso americano DuPont). In questo
modo il fabbisogno interno era ampiamente coperto da questo ramo
in piena espansione, e una quota rilevante intorno al 40 per cento era
esportata39. Ancora una volta emergeva la vocazione industriale del
mondo tessile italiano. Va detto che questa evoluzione non sostituì
il mercato delle fibre tessili naturali che, anzi, negli anni Settanta
conobbe un rilancio in nome della riscoperta della natura – senza
considerare poi l’aumento di prezzo del petrolio dovuto alla crisi del
1973. Semplicemente, il mercato si allargò.
Possiamo allora completare così l’analisi della foto a colori: una
rivoluzione culturale cromatica consentita dalle nuove tecnologie.

4. Abiti e battaglie politiche

Dicembre 1971. Un sindacalista della Uil che passa vicino all’U-


niversità Statale di Milano è invitato all’interno da un gruppo di
estremisti per capire se si tratti di un “provocatore” politico; ne se-
gue un’aggressione a calci e pugni che gli provoca gravi lesioni e
la frattura di un braccio. Gennaio 1973. Un architetto attraversa
rapidamente piazza San Babila, in centro a Milano. Viene fermato
da un gruppo di giovani che pongono domande provocatorie: “Senti
compagno...”, “Leggi l’Unità?” Il suo eskimo verde ha fatto scattare
l’allarme; segue anche qui un violento pestaggio che manda il pro-
fessionista in ospedale per venti giorni40.

39 Ivi, pp. 9-15.


40 Ricostruito il feroce pestaggio, in «Corriere della Sera», 17 dicembre 1971; Questa
è la topografia della violenza politica, ivi, 16 gennaio 1973.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 117

Due vittime innocenti, intrappolate per caso nel clima di violenza


che si scatenò a partire dal 1967-68 in varie città italiane, per pro-
lungarsi negli anni Settanta. Due vittime che si aggiunsero a decine
di altre, pure casuali o simpatizzanti di gruppo politici avversari,
che subiscono aggressioni a volte anche mortali. Senza parlare delle
vittime fra gli agenti di polizia e senza considerare le azioni di terro-
rismo vero e proprio che si svilupparono successivamente. Quello
che ci spinge a rievocare questi episodi nel contesto che ci interessa
è che ricordano drammaticamente il ruolo dei simboli e delle “divi-
se” politiche nella quotidianità. Avevamo notato la significativa pre-
senza di persone con uniformi nel periodo fascista, a riprova della
militarizzazione della società; nel dopoguerra questo aspetto è del
tutto assente ma questo non evitò che alcuni aspetti del vestiario si
connotassero in senso politico, immettendo nella vita civile “divise”
non meno riconoscibili di quelle militari.
L’idea di caratterizzare simbolicamente una parte politica grazie
all’abbigliamento o ai colori è ovviamente molto antica. Idealmente
consegue alla caduta della dottrina di stampo medievale del “dop-
pio corpo” del re, per cui il sovrano possedeva un suo corpo fisi-
co e mortale ma insieme un corpo politico, immortale e non fisico,
che rappresentava l’intera comunità soggetta. L’abito del re aveva
dunque una doppia simbologia, materiale e politica, e per questo la
cerimonia della vestizione e incoronazione era centrale nella costru-
zione della sua figura di regnante41. Le svolte rivoluzionarie della
storia moderna colpirono insieme il corpo fisico del re (decapitato)
e il corpo politico (delegittimato), segnando la fine della sua autorità
unica. Ne seguì una divisione della comunità in parti, contrassegnate
visibilmente in modo diverso. Senza andare tanto lontano, la storia
d’Italia è piena di fazioni che usano l’abbigliamento o il colore per
distinguersi (a cominciare dalla camicie rosse dei garibaldini e quelle
nere dei fascisti) e si può dire che tutta la storia dei moderni partiti
politici sia carica di tali elementi42.

41 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica

medievale (1957), Einaudi, Torino 1989; W. Parkins, Introduction, in Fashioning the


Body Politics. Dress, Gender, Citizenship, a cura di W. Parkins, Berg, Oxford-New
York 2002, pp. 2-5, oltre a vari saggi nel volume.
42 M. Ridolfi, Italia a colori. Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo

ad oggi, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 141-159. Cfr. anche Id., La politica dei colo-
118 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Ecco allora che gli anni della contestazione videro un fiorire di


abbigliamenti carichi di significati politici. In primo luogo, c’era il
campo dei “rossi”. Per la sinistra, si è già notato l’onnipresente rife-
rimento al rosso in sciarpe, fazzoletti e bandane, ovvio rimando alla
bandiera comunista; ma un altro elemento caratterizzante fu l’eski-
mo, un ampio giaccone impermeabile, lungo, verde, con cappuccio
e quattro ampie tasche, con una pelliccetta sintetica interna. Questo
capo cominciò a diffondersi come abbigliamento a poco prezzo, in-
sieme alle giacche militari usate e ai jeans, nei mercatini e nei nego-
zietti di periferia, pensato per un vestiario di tipo popolare e operaio.
La sua presenza in alcune manifestazioni simboliche del 1968 ne fece
in breve un simbolo dell’abbigliamento della sinistra. In generale, lo
stile “rosso” comportava un abbigliamento volutamente poco curato
e spesso capelli lunghi per i ragazzi.
Lo stile “nero” era ben diverso. I giovani che si riunivano in piaz-
za San Babila, ma anche in altre zone simbolo come i Parioli a Ro-
ma, si distinguevano per capi molto curati e alla moda. Caratteristici
erano giacconi di pelle nera, capelli corti, stivaletti, occhiali da sole,
scarpe tipo Barrow’s, e motociclette. Il modello in questo caso non
era certo la classe operaia ma un look curato e con rimandi militari.
Il colore di riferimento era ovviamente il nero, ma la sua presenza
non era affatto esclusiva43.
Dunque, vestiti diversi per distinguersi politicamente, ma non
solo. È interessante osservare come queste “divise” politiche fossero
specifiche dei giovani, che in tal modo si distinguevano anche dai
loro compagni di ideologia ma di età diversa. Come dire che la rivo-
luzione generazionale spaccava anche il fronte politico. L’altra osser-
vazione che possiamo fare riguarda le ragazze. Spesso presenti nelle
lotte politiche, ma non in prima linea e non negli scontri violenti, le
giovani svilupperanno a loro volta un vestiario politico specifico, ad
esempio nelle prime manifestazioni femministe degli anni Settanta.
In realtà, osservando le foto delle grandi manifestazioni per il divor-

ri. Emozioni e passioni nella storia d’Italia dal Risorgimento al ventennio fascista, Le
Monnier, Firenze 2014.
43 Quelli dello scontro in piazza, in «Corriere della Sera», 6 novembre 1973; I pic-

chiatori “neri” di San Babila, ivi, 16 aprile 1973; La “Spoon River” di Milano, ivi, 30
luglio 1988. Cfr. inoltre A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza,
Roma-Bari 2008.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 119

zio e l’aborto, il quadro si presenta piuttosto variegato ed è difficile


individuare uno stile preciso. C’è di tutto e di più. Qui non si ve-
dono tanto fazioni politicizzate ma l’intera società civile: madri ben
vestite con i capelli cotonati insieme alle figlie in jeans, lavoratrici
con camici aziendali a fianco di studentesse e impiegate con vestiti e
cappottini, capelli lunghi o corti, gonne, pantaloni, camicie, giacche,
maglie di tutti i tipi. La tendenza forse è una: maggiore libertà, ricer-
cata nei diritti civili ma forse già un po’ raggiunta nell’abbigliamento.
Una curiosità per finire. Letteralmente a due passi dal ritrovo dei
sanbabilini e a ottocento metri dall’Università Statale, nel cuore dei
disordini e delle violenze, si trovava un’oasi inaspettata:

Le signore schivavano i sanbabilini con le loro scarpette a punta e gli


occhiali Ray-Ban, aggiravano l’immancabile corteo studentesco in divisa
proletaria, eskimo color militare e magari le scarpe Clarks, abbassavano
gli occhi davanti alle scritte murali che inneggiavano alla chiave inglese
contro i fascisti o che promettevano morte ai rossi, e si infilavano laggiù,
nel paese delle meraviglie di Fiorucci. [...]
Fiorucci rappresentava la vampata della giovinezza senza la politi-
ca, dell’anticonformismo senza lo spinello, della lotta al sistema senza lo
scontro fisico, della fantasia senza la necessità di mandarla al potere. [...]
Come se trasportandola a Milano, e poi rilanciandola ovunque, la smania
vitalistica e creativa che veniva soprattutto dall’Inghilterra, più tormen-
tata e meno politicizzata dell’Italia, promettesse la realizzazione, almeno
nel vestire, del desiderio di cambiamento, di rivalsa, di rivolta che dava
un senso, allora, all’essere giovani [...]44.

La storia di Elio Fiorucci, figlio di un negoziante di pantofole,


che aprì un iconico negozio tutto musica e colori nel cuore di Mi-
lano, lanciò la moda pop con capi colorati, irriverenti e sexy (jeans
attillatissimi, T-shirt con stampe di fumetti, shorts, felpe, accessori
fluorescenti), diffuse uno stile cosmopolita, divenne amico di An-
dy Warhol e Keith Haring, aprì filiali in America, e passò presso-
ché indenne attraverso tutte le contestazioni, è esemplare. Perché
mostrò uno spirito pionieristico nell’attenzione prestata all’ultimo
anello della filiera della moda, cioè la distribuzione, di contro all’u-

44 N. Aspesi, Nel paese delle meraviglie, prefazione a G. Malossi, Liberi tutti. 20 an-

ni di moda spettacolo, Actabook, Milano 2007 (riprende un articolo dell’«Espresso»).


120 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

suale focus sulla produzione o la confezione: il negozio milanese del


1967 fu progettato dalla scultrice Amalia del Ponte, su più livelli e
asimmetrico; quello di New York del 1976 da Ettore Sottsass, An-
drea Branzi, Franco Marabelli45; e questi locali erano parte integran-
te dell’appeal del marchio. E poi perché Fiorucci mostrò la forza
espressiva e liberatoria che può avere l’abbigliamento, al di là di
qualunque connotazione politica.

5. Le frontiere della produzione: jeans e maglieria

Quale reale diffusione ebbe il nuovo abbigliamento? Per rispon-


dere a questa domanda possiamo avvalerci di significativi dati statisti-
ci, raccolti per il periodo 1967-73 e specificamente mirati a valutare
quantitativamente e qualitativamente l’abbigliamento dei giovani dai
15 ai 25 anni, soprattutto di ceto medio-alto. In particolare, da una
grande inchiesta promossa dall’Ente italiano della moda emerge un
quadro chiarissimo: crolla l’abbigliamento classico e si impone quello
sportivo e casual, che peraltro costa meno. Per i ragazzi, in questi
pochi anni si dimezzano letteralmente gli abiti completi posseduti,
capo di riferimento nell’abbigliamento maschile, da 4 a 2 pro capite
(e un valore complessivo del campione passato da oltre 10 a 6 milioni
di lire); diminuiscono cappotti, soprabiti e giacche a favore di nuove
tipologie come i giacconi; triplicano i blue jeans, da 0,5 a 1,5 a testa
(e un valore passato da 1 a quasi 4 milioni); crollano pesantemente
anche le camicie, salvo quelle sportive, mentre vanno bene le maglie.
La situazione si presenta a specchio per le ragazze, con mutamenti
forse anche più marcati. Gli abiti anche qui si dimezzano, da 12 a
6 a testa (con un valore totale da 29 a 17 milioni circa) e altrettanto
fanno i tailleur (salvo quelli con pantaloni); scendono un po’ cap-
potti, soprabiti e anche le giacche; raddoppiano abbondantemente i
pantaloni, da meno di 2 a 4,5 a testa, mentre le gonne diminuiscono
leggermente. Anche qui bene giacconi, ma soprattutto ecco il record:
i blue jeans passano da uno stiracchiato 0,2 a testa a 1,3 (in pratica,

45 Archivio Elio Fiorucci (archivio aziendale). Cfr. in particolare le rassegne stam-

pa che documentano l’attività dal 1967 alla cessione alla Edwin Company nel 1990, e
poi oltre con il marchio Love Therapy.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 121

tutte si comprano questo nuovo capo). Un boom che fa il paio con


quello della maglieria, che raddoppia e si impone quasi come capo di
riferimento (10 capi a testa). Un vero sconvolgimento, che vede tra
l’altro un nuovo equilibrio tra gonne e pantaloni: dal dominio delle
prime (8 capi contro 2) a un quasi pareggio (7 contro 6)46 (Tabella 5).
Questi numeri, confermati dai dati della produzione italiana,
mostrano inequivocabilmente come la rivoluzione nella moda tra i
giovani fu davvero pervasiva e si svolse nel giro di pochi anni. C’era
un “prima” e ci fu un “dopo”. I giovani si distaccarono visivamente
dai loro genitori e costituirono, anche nel vestiario, un segmento
nettamente differenziato dal resto della popolazione, con gusti ed
esigenze specifiche. Né mancavano i mezzi per riuscirci, se un’in-
chiesta stimava che già nel 1964 gli oltre sei milioni di giovani italiani
disponessero di un tesoretto di 250 miliardi di lire da spendere, di
cui almeno il 10 per cento destinato all’abbigliamento47.
I produttori furono velocissimi nel rispondere a questa nuova
domanda. Se parliamo di jeans, ad esempio, dopo la prima invasione
di marchi americani attraverso importazioni di stock di capi anche
usati nei porti liguri, partì per tempo una proposta alternativa. Il pio-
niere fu il toscano Francesco Bacci che già nel 1952 lanciò il marchio
Roy Roger’s, dopo un avventuroso viaggio in Usa e un altrettanto ar-
dito contratto con un prestigioso produttore di denim come la Cone
Mills corporation. Il marchio fu presto affiancato nel 1958 da Rifle
dei fratelli Giulio e Fiorenzo Fratini, pure toscani; negli anni Sessan-
ta da Bell Bottom e Kings, e negli anni Settanta da una lunga lista di
nomi, dove spiccano El Charro, Wampum, Carrera Jeans, Ball, Si-
sley (acquisita da Benetton), i già ricordati Jesus, mentre crescevano
due poli specializzati, uno in Romagna (Compagnia finanziaria mo-
da di Aldo Ciavatta, specialista dello stone washed) e uno in Veneto
(Genius Group di Adriano Goldschmied, progenitore del marchio
Diesel)48. In generale, i jeans italiani si staccarono spesso dal modello
classico (cinque tasche, denim di un peso fisso, colore blu, taglio

46 Ente italiano della moda, Il mercato dell’abbigliamento ed il guardaroba della

popolazione adulta italiana, Torino 1976, tabelle 27-40. Cfr. anche V. Pinchera, La
moda in Italia e in Toscana. Dalle origini alla globalizzazione, Marsilio, Venezia 2009,
pp. 219-225.
47 D. Giochetti, Tre riviste per i «ragazzi tristi» degli anni sessanta, in «Impegno»,

2, XII, dicembre 2002.


48
Denim cit., pp. 54-69.
122 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

dritto) per proporre interpretazioni con denim di peso diverso o altri


tessuti, cuciture fantasiose, tagli differenti (stretto, largo, a zampa di
elefante, successivamente anche specifico da donna), borchie, tasche
e inserti di tutti i tipi. In pratica, prese forma il fashion jeans, non più
un singolo capo ma un genere di abbigliamento. Nel 1977-78 questo
reparto vendeva per 600 miliardi di lire annui (al prezzo medio di 15
mila lire scarse), pari al 34 per cento dell’abbigliamento informale e
casual in Italia49.
Altrettanto rapida fu la proposta di giacconi, giubbetti e capi
sportivi in genere (tra cui la novità di giacche a vento ed eskimo,
di cui l’Italia divenne subito grande esportatrice: nel 1979 oltre
5,5 milioni di capi, soprattutto verso Germania e Francia – forse
i produttori non condividevano una certa simbologia politica ma
business is business)50. In realtà, qui molti produttori giocarono le
loro migliori carte, proponendo capi casual e sportivi ma di elevata
qualità, coprendo così un settore di mercato in parte scoperto a li-
vello internazionale.
Apriamo una breve parentesi per accennare a un altro settore,
che proprio qui conosce un primo importante slancio: l’intimo. Una
volta semplicemente non se ne parlava. Gli uomini indossavano le
braghe, le donne non indossavano le mutande perché ritenute pec-
caminose. Dall’Ottocento le cose cambiano, ma mutande e altri ca-
pi intimi restano capi segreti, innominabili. Nel Novecento, invece,
complice la generale trasformazione degli abiti e dell’idea culturale
del corpo, la biancheria diventa un settore produttivo di rilievo. E
negli anni Settanta si assiste al suo consolidamento, quando, accan-
to a nomi americani come Hanes, Playtex o nuovi arrivati come L
Brands (Victoria’s Secret), anche l’Italia si afferma come protagoni-
sta, con imprese come La Perla, creata nel 1954 a Bologna da Ada
Masotti e specializzata nell’intimo di lusso.
Per tornare al nostro discorso, c’era solo un settore del casual
che funzionava meglio, anche dei jeans, ed era la maglieria. Negli
stessi anni 1977-78 la maglieria leggera (T-shirt, magliette, polo) e
pesante (giacche, pullover, maglioni, giubbetti a maglia, felpe) valeva

49 Ente italiano della moda, L’abbigliamento informale-sportswear. Caratteristiche

e dinamica di un nuovo mercato, Torino 1978, pp. 37, 40, 46.


50 Associazione italiana industriali dell’abbigliamento, Abbigliamento ’79, Milano

1980, p. 111.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 123

650 miliardi, cioè il 38 per cento dell’abbigliamento informale51. La


maglieria ha una storia affascinante. Il nome deriva dal latino macŭla,
passato attraverso il provenzale, e significa macchia e per estensione
buco. Questo perché la lavorazione a maglia, basata sull’intreccio so-
litamente di un unico filo grazie a lunghi ferri, ha come caratteristica
una relativa scarsa compattezza e una notevole elasticità rispetto al
fitto tessuto ottenuto incrociando su un telaio la trama con l’ordi-
to. Le sue virtù erano già molto apprezzate dai cavalieri medievali
che usavano parti di maglia metallica per proteggersi ma garantirsi
più libertà di movimento rispetto all’armatura rigida. La cosa cu-
riosa è che per secoli il termine indicò qualcosa di diverso rispetto
al significato moderno, e cioè in un primo momento i diffusissimi
berretti di lana, e in seguito la biancheria intima (maglie, mutande
e mutandoni) e soprattutto le calze. Dal Cinquecento queste ultime
furono prodotte a maglia, sostituendo del tutto le calze in tessuto
tagliate e cucite che si usavano precedentemente52. Molto precoce-
mente, addirittura nel 1589, William Lee ideò un telaio meccanico
per la realizzazione delle calze, di solito in lana o in seta per le classi
superiori, e questo diede grande impulso al settore. Bisognò atten-
dere l’epoca delle grandi innovazioni ottocentesche per avere un
ulteriore grande miglioramento: il telaio circolare che permetteva
di realizzare maglie senza cucitura, grazie all’intuizione nel 1816 di
Marc Brunel (brillante ingegnere francese che costruì anche il pri-
mo tunnel sotto il Tamigi). La maglia cominciò a conquistare spazio
come capo esterno: maglie leggere o maglioni pesanti, giacchette e
scialli, una produzione diffusa che a inizio Novecento vedeva in testa
la Lombardia. Fu poi molto lo sport a spingere i nuovi capi, grazie
alla produzione di pratici pullover, maglie per le diverse specialità
(la polo deriva dalla casacca dell’omonima disciplina, presto imitata
dal tennis) e costumi da bagno.
Per le industrie italiane, l’impulso decisivo arrivò con la rico-
struzione e la modernizzazione tecnologica del secondo dopoguerra,
che sostituì progressivamente i vecchi telai con moderne macchine
di maglieria, in parte anche grazie al Piano Marshall53. Fu allora che

51 Ente italiano della moda, L’abbigliamento informale-sportswear cit., pp. 37, 40.
52 C.M. Belfanti, Calze e maglie. Moda e innovazione nell’industria della maglieria
dal Rinascimento a oggi, Tre Lune, Mantova 2005, pp. 34-47.
53 N. White, Reconstructing Italian Fashion. America and the Development of the
124 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

le strade della maglieria e della calzetteria si separarono. Le calze


conobbero una forte spinta proprio grazie alla moda giovanile della
minigonna e della gonna corta che lanciò il collant, molto più co-
modo e resistente delle vecchie calze singole, anche grazie all’im-
piego di nuovi tipi di nylon oppure di elastam. In Italia, accanto
alle imprese storiche come la Santagostino di Milano o il Maglificio
calzificio torinese, si sviluppò rapidamente anche un forte settore
meccanotessile specializzato, con ditte come Santoni, Lonati e San
Giorgio. In particolare si formò un forte polo di specializzazione a
Castel Goffredo, presso Mantova, dopo che la crisi del grande Cal-
zificio Noemi aveva spinto molti ex dipendenti a mettersi in proprio,
con notevole successo: un vero caso di gemmazione industriale. Nel
frattempo, calze sempre più fini e trasparenti passavano di continuo
sulle pagine pubblicitarie e nella réclame televisiva di Carosello (un
tormentone fu lo spot Omsa con le gemelle Kessler)54.
La maglieria andò persino meglio. I capi in maglia esterna, co-
modi, dall’aria informale, adatti per lo sport, flessibili per adattarsi
a occasioni diverse, divennero un punto di riferimento per le nuo-
ve tendenze, come si è visto. E i produttori seppero interpretarle
guardando a un mercato molto ampio, sia verso l’alto sia verso il
basso. Verso il basso, cioè verso un nascente mercato di massa, grazie
all’introduzione di nuove macchine e un’organizzazione del lavoro
flessibile, che coniugava aspetti centralizzati con lavorazioni artigia-
nali a domicilio, come avveniva ad esempio nella zona specializzata
di Carpi, presso Modena. Qui per i giovani si produceva una miriade
di proposte casual da portare in città e di prodotti specializzati per lo
sport (maglioni da montagna, costumi da bagno, magliette), per non
parlare del settore in piena espansione della biancheria intima. Un
altro caso esemplare fu quello dei fratelli Benetton, attivi dal 1965
a Ponzano Veneto (Treviso), che svilupparono nel tempo una com-
plessa organizzazione basata sul decentramento produttivo. Alla base
del loro successo vi furono due elementi: la proposta di maglioncini
a basso costo relativamente semplici ma proposti in decine di colori

Italian Fashion Industry, Berg, Oxford 2000; E. Merlo, Moda italiana. Storia di un’in-
dustria dall’Ottocento a oggi, Marsilio, Venezia 2003, pp. 76-83.
54 Belfanti, Calze e maglie cit., pp. 133-142; E. Benenati, La scelta del paternalismo.

Un’azienda dell’abbigliamento tra fascismo e anni ’50, Rosenberg & Sellier, Torino
1994, pp. 78-85.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 125

diversi (i capi erano tinti dopo la lavorazione), modernizzando in tal


modo un capo “vecchio” – ecco di nuovo i colori! E poi la creazione
di una rete di punti vendita esclusivisti con il sistema del franchising,
prestando quindi un’attenzione particolare alla fase della vendita e
al pubblico. Attenzione al pubblico rinforzata nei decenni successivi
con le foto shock di Oliviero Toscani (un bacio tra prete e suora, pre-
servativi colorati, foto di condannati a morte, indumenti insanguinati
per la guerra in Bosnia, variazioni sul tema del razzismo) che crearono
polemiche, pubblicità e anche qualche contraccolpo55. Ma si trattò
forse di una delle prime imprese che si mossero pionieristicamente
verso una produzione di massa e a rapida rotazione.
Nello stesso tempo ci fu un forte sviluppo del settore verso l’alto,
come dicevamo. Qui la maglieria conquistò rapidamente nuovi spa-
zi, tanto che nella storica sfilata di Giorgini nel 1951 furono messi in
mostra anche capi in maglia, in particolare di Mirsa (Olga di Grésy),
considerato l’apprezzamento di questi capi nel mercato americano,
da sempre aperto verso le linee meno formali. A questo proposito, è
importante sottolineare un aspetto poco noto. Un po’ tutte le storie
sull’alta moda italiana sottolineano giustamente lo speciale legame
creatosi fin dagli inizi con gli Stati Uniti, cominciando dal fatto che i
primi grandi buyer, compresi quelli da Giorgini, erano appunto rap-
presentanti di lussuosi grandi magazzini americani. Ma il rapporto
era bilaterale: i creatori italiani guardavano con altrettanto interesse
oltreoceano, e non solo per le moderne macchine tessili. Abbiamo
già visto come alcune imprese Usa fossero i principali produttori
delle nuove fibre sintetiche, a partire naturalmente dal colosso Du-
Pont. Ebbene, va ricordato ancora come nella fase iniziale le nuove
fibre fossero considerate comode, resistenti, impermeabili, ma meno
“pregiate” rispetto a quelle naturali. Un processo culturale piutto-
sto tipico, che si era verificato già con il rayon, la “seta artificiale”.
Il risultato è che queste furono largamente impiegate nell’abbiglia-
mento per capi di prezzo medio-basso; per uno sviluppo ulteriore,
era necessario dunque un salto d’immagine. È stato recentemente
documentato come la DuPont nei primi anni Cinquanta avesse avvi-

55 Belfanti, Calze e maglie cit., pp. 142-150; G. Favero, Benetton. I colori del suc-

cesso, Egea, Milano 2005; Maglifico! Sublime Italian Knitscape, a cura di F. Poletti,
Silvana, Milano 2016; Sulla pubblicità storica del settore cfr. Messaggi... di maglia.
Mostra storica dei manifesti pubblicitari dal 1923 a oggi, Piemmei, Milano 1986.
126 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

cinato l’organizzazione della moda francese, la Chambre Syndacale,


e siglato un accordo per cui i francesi si impegnavano a diffondere
l’utilizzo di fibre sintetiche nelle loro collezioni mentre la DuPont
acquistava alcuni modelli, realizzando fotografie professionali che
distribuiva nel circuito mediatico internazionale. Uno stretto rap-
porto, in particolare, fu creato con Christian Dior, Hubert de Gi-
venchy, Coco Chanel e via via molti altri56. Il risultato fu eccellente
e centrò in pieno l’obiettivo di legittimare le fibre sintetiche per le
produzioni d’élite.
Poco si sa del passo successivo, che a noi interessa molto, e cioè
che un’operazione simile fu fatta anche con i creatori italiani. Gli
archivi della DuPont non lasciano dubbi su questo. La nuova moda
italiana era certamente meno prestigiosa di quella parigina ma aveva
alcuni tratti interessanti, come la forte presenza di capi in maglia e
l’attenzione allo sport e alla funzionalità. L’impresa americana av-
vicinò dunque anche i sarti italiani, in particolare quelli romani e
fiorentini che sfilavano a Pitti. Ed ecco che nel febbraio 1961 furono
realizzate da parte dell’impresa Usa le prime fotografie di modelli
italiani per la collezione primavera-estate, ognuna delle quali accom-
pagnata da un breve testo descrittivo. L’Information Service della
DuPont, con sede a Ginevra e incaricato di gestire gli affari europei,
presenta ad esempio un bellissimo completo di Pucci, con tre foto
diverse in bianco e nero ambientate in una villa fiorentina e firmate
da una famosa fotografa, che mostrano diverse interpretazioni dello
stesso abito. L’ufficio stampa le accompagna con una descrizione
in quattro lingue (inglese, italiano, francese, tedesco) da spedire ai
principali giornali di moda:

Photo Elsa Haertter, n. 59


PUCCI – Casa di moda fiorentina – Ha realizzato questo vaporoso
completo per l’estate in batista di “Orlon” fibra acrilica. La gonna indos-
sata sul costume da bagno si può trasformare in mantella da spiaggia. Il
tessuto stampato, in uno degli originali disegni di Pucci, è nei colori rosa
e malva57.

56 R.L. Blaszczyk, Styling Synthetics: DuPont’s Marketing of Fabrics and Fashions

in Postwar America, in «The Business History Review», 3, 80, 2006, pp. 506-514.
57 Hagley Museum and Library, DuPont Textile Product Information collection

84.259, box 67, sf. Italy – Feb. 1961, comunicato n. 59 con relative tre foto, Ginevra,
20 febbraio 1961.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 127

Nello stesso fascicolo è presentato un bellissimo maglione ver-


de mandorla (ci crediamo sulla parola, visto che tutte le foto sono
in bianco e nero) del maglificio milanese Avagolf, un mantello da
sera blu di Fabiani, un soprabito di Veneziani, un abito da sera di
Falconetto, un maglione di Bertoli, una maglia stampata a vivaci
colori della boutique Glans di Milano e una della vicina boutique
Naka – il tutto ovviamente in “Orlon”, nome commerciale del pri-
mo acrilico DuPont adatto per la maglieria. Una nota specifica che
alcune foto sono state date in esclusiva ad alcuni giornali di Miami,
Baltimora e Chicago, mentre altre sono libere e sono state inviate a
riviste europee58. Per la successiva stagione autunno-inverno 1961,
in agosto vengono preparate foto di modelli di Simonetta, Glans,
Avagolf (scattate sempre da Elsa Haertter a Villa Gaggiano, vicino
Siena), di Galitzine (a San Gimignano), di Falconetto (a Siena). Che
si tratti di alta moda o maglieria da boutique, l’ambientazione vuole
sottolinearne univocamente il carattere di italianità. L’eccezione è
data da un interessante servizio fotografico di abiti da bambina fir-
mati Simonetta, fotografati nei chiostri medievali del Metropolitan
Museum di New York, giusto per mantenere un rimando storico59.
Nel 1962 si verificò un cambio di sede e la comunicazione fu
centralizzata nell’ufficio di New York. Ma il format rimase lo stesso:
in febbraio troviamo creazioni di Bertoli, Galitzine e la novità di un
maglione da uomo, con un disegno a scacchi, creato da Litrico al
cento per cento in acrilico60. Ma il protagonista è ancora una volta
Emilio Pucci, che presenta una collezione sportiva tutta realizzata
con fibre DuPont, dal tenace nylon “Antron” al soffice “Orlon”61.
Seguono poi foto di un abitino tipo poncho, ripreso su una spiaggia,
firmato Simonetta; una tunica bianca sopra a pantaloni fantasia di
Veneziani; un completo di maglia aderente con lucenti pantaloni a
fiori di Pucci; un pullover da spiaggia con una grande striscia diago-
nale di Galitzine; un golf di Brioni. In agosto, ecco altre collezioni,
altri capi in tessuti sintetici: Galitzine, Bertoli, Veneziani, Pucci, For-

58 Ivi, box 67, sf. Italy – Feb. 1961, Information on Italian pictures, 6 febbraio 1961.

Nello stesso fascicolo si trovano le foto e i relativi comunicati citati.


59 Ibid.
60 Ibid.
61 Ivi, box 9, Italian designers favor “Orlon” for knitwear, New York, 13 febbraio

1962.
128 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

quet, Avolio62. Nel febbraio 1963, le foto documentano le creazioni


di Galitzine, Marucelli, Simonetta, oltre alla serie “provocante” (co-
sì definita nel comunicato DuPont) di costumi da bagno in “Lycra
spandex” o elastam firmata da Pucci (per noi, eleganti modelli fanta-
sia di costumi interi, piuttosto castigati, sullo sfondo del mare o della
cupola di Brunelleschi)63. Si continuò con lo stesso ritmo anche negli
anni successivi, puntando forse maggiormente sui nomi dell’alta mo-
da e mantenendo un costante riferimento alle ambientazioni storiche
e soprattutto naturalistiche (mare, montagna).
Così anche nel 1964 proseguì il dominio dell’“Orlon” in capi
a firma Antonelli, Galitzine, Simonetta, Tricò e altri (ora vari capi
sono anche pantaloni aderenti o calze lunghe in abbinamento)64. Nel
1965, ancora Antonelli, Veneziani, Valentino, Mirsa, Tricò, Galitzi-
ne e anche Brioni e Simonetta: questi ultimi utilizzarono un nuovo
prodotto DuPont, lo “Zeprel” che serviva a impermeabilizzare i tes-
suti65. Nel 1966, la sfilata di foto comprende Antonelli, Forquet,
Galitzine, Mirsa, Veneziani e altri, per finire con un completo gonna-
maglietta-cappello stampato in leopardo di Valentino66. Nel 1969
altro importante debutto, questa volta della nuova fibra di nylon
“Qiana”, utilizzata in un elegante abito scuro da cocktail di Galitzi-
ne, un cappottino fantasia di Barocco67, nonché in altri modelli di
Galitzine del febbraio 197168.
Nel 1971 l’opera di promozione della DuPont si interrompe (o
almeno non lascia più tracce in archivio). Le spiegazioni possono
essere due. La prima è che ormai il livello di diffusione e accettazione
delle fibre sintetiche era tale da avere pienamente raggiunto lo scopo
che si era proposta all’inizio. La seconda, in aggiunta, è che il mondo

62 Ivi, box 9, serie di fotografie accompagnate da testo descrittivo del febbraio

1962. Il testo della foto di Brioni ed altre fotografie delle stesse collezioni sono repe-
ribili ivi, box 18.
63 Ivi, box 6, Note to the Editor, 1° agosto 1963; serie di fotografie accompagnate

da testo descrittivo dell’agosto 1963.


64 Ivi, box 17 e box 13, Note to the Editor, 6 febbraio 1964; fotografie con testo

descrittivo datate febbraio 1964.


65 Ivi, box 15, Note to the Editor, 5 febbraio 1965; fotografie con testo descrittivo

datate febbraio 1965. Cfr. anche box 14 per la collezione autunno-inverno.


66 Ivi, box 36.
67 Ivi, box 35, Note to the Editor, 5 Febbraio 1969; fotografie con testo descrittivo

datate 1969.
68 Ivi, box 52.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 129

dell’alta moda italiana era in grande fermento e i nomi di riferimento


individuati, legati all’asse Roma-Firenze, non coprivano più l’intero
spettro – anzi, si profilavano grandi novità, come vedremo a breve.
Quello che importa qui è sottolineare il complesso e non unilaterale
legame tra Usa e Italia, con gli Usa non solo in veste di importante
mercato, ma anche di investitore e fornitore di materie prime. Un
legame speciale, anche se l’export verso gli Stati Uniti rimase sempre
molto lontano dai volumi generati dall’interscambio con l’Europa,
Germania e Francia in testa. Anche considerando infatti solo il com-
parto abbigliamento, che rappresenta una quota contenuta rispetto
al tessile complessivo, gli Stati Uniti mantengono una buona posi-
zione, testa a testa con la Germania, solo nei primi anni Cinquanta.
Nel 1956, ad esempio, importano dall’Italia abiti per 1399 milioni di
lire contro i 1371 della Germania (su un totale di 8909); ma già nel
1960 le cose sono cambiate, se le cifre sono rispettivamente di 2456
contro 3193; nel 1971 diventano 11.082 contro 25.09569. Attenzione
però, i numeri non dicono tutto: l’America, grazie alla sua capacità
di influenzare gli stili di vita dell’intero Occidente, e anche oltre,
fece da cassa di risonanza per le produzioni italiane, rilanciandole
nel mondo.
L’interesse per le nuove fibre quindi non può essere letto sem-
plicisticamente come un’occasione per fruire internazionalmente di
pubblicità gratuita ma come la risposta a un’esigenza intrinseca della
moda italiana. Essa mirava infatti a perseguire le innovazioni tecno-
logiche, particolarmente interessanti per i capi legati allo sport e al
casual, realizzando così di fatto un incontro ideale tra le esigenze di
comfort del mercato di alta gamma Usa e le linee semplici e funzio-
nali tipiche di molta produzione italiana.
Dunque, in conclusione, l’industria italiana, nelle sue varie com-
ponenti, dimostrò di avere i numeri per trarre vantaggio dalla grande
trasformazione. Si trattava del resto di mutamenti davvero profondi,
che furono in grado di scardinare in poco tempo codici di compor-
tamento e di vestiario creatisi nel corso di molti decenni a garanzia
delle divisioni sociali tra status, genere, età, professioni. Tutto fu in-
vestito da una grande ondata di rinnovamento che covava già in pro-

69 Istat, Annuario statistico italiano 1956 cit., pp. 300-305; Id., Annuario statistico

italiano 1960, Roma 1963, pp. 287-292; Id., Annuario statistico italiano 1971, Roma
1972, pp. 240-246.
130 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

fondità nel dopoguerra, era stata alimentata dalle fratture createsi


con la rapida crescita economica degli anni Cinquanta-Sessanta, per
sfociare alla superficie subito dopo. Difficilmente si sarebbe potuto
percepire in modo più chiaro il profondo legame tra società, indivi-
duo e abbigliamento, come pure la forza del vestiario nell’innescare
a sua volta reazioni a catena. Si trattava ora di vedere come questa
onda lunga avrebbe proseguito la sua corsa.
V

LA DEMOCRATIZZAZIONE DEL LUSSO (1975-1995)

1. I cinque jolly del sistema moda Italia

Sono le 12.05 alla radiosveglia. Julian si avvicina al tavolino e prende un


po’ di polvere bianca su uno specchietto e l’assaggia. Con addosso eleganti
pantaloni grigi e a torso nudo, è a suo agio nel moderno appartamento di
Los Angeles e si muove seguendo il ritmo della musica, anzi canticchia sulle
note di una canzone R&B di Smokey Robinson and the Miracles, The love
I saw in you was a mirage. Si avvicina a un armadio pieno di giacche dai co-
lori neutri e ne sceglie quattro che appoggia sul letto. Poi apre cassetti con
camicie di cotone o seta, ne sceglie altrettante e le appoggia sulle giacche,
combinando i colori della stessa gamma. Infine le cravatte, pure grigie e
marroni, da lanciare con soddisfazione sul completo che si sta formando.
Un piccolo spostamento e voilà, lo sguardo da esperto è soddisfatto, ci sia-
mo. Davanti allo specchio Julian completa la vestizione con il set prescelto.
È perfetto. Il suo stile è ben diverso da quello elegante ma un po’ rigido
del tipico business suit; la giacca è morbida e destrutturata, la camicia è
tortora, la cravatta grigio-marrone ha motivi a righe orizzontali. I tessuti
sono leggeri: lino, seta, cotone e cadono a pennello. Non ha bisogno di
abiti-armatura per disegnarsi una sagoma; al contrario, vuole vestiti che
mettano in risalto la plasticità del suo corpo, che lascino intravvedere le
sue linee e assecondino i movimenti. È un nuovo stile, un nuovo modo di
essere, una diversa idea di lusso. E gli abiti di Armani aiutano.
(American Gigolò, diretto da P. Schrader, Usa 1980)

Il successo di American Gigolò fu significativo. Richard Gere ot-


tenne fama e immagine come sex symbol; il suo personaggio di Julian
Kay, nonostante il ruolo ambiguo, divenne un’icona di stile da imi-
tare; i vestiti di Giorgio Armani furono di colpo apprezzati dal vasto
pubblico statunitense e non solo (poco importa che fossero stati idea­
132 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

ti per John Travolta, che aveva rinunciato all’ultimo momento alla


parte: un bravo sarto sistemò tutto per l’emergente Gere). L’ultimo
bastione del conservatorismo nel vestiario, l’abito classico da lavoro
per uomo, subiva un attacco di successo: ne emergevano una diversa
immagine maschile. Un’immagine diversa, che doveva la sua carica
innovativa ai mutamenti culturali degli anni precedenti. Solo che ora
l’onda del cambiamento era salita dai giovani agli adulti, acquisen-
do caratteristiche di qualità ed emblematicità peculiari. Era giunto
il momento della democratizzazione del lusso. Ma come si verificò?
Per intanto, va detto che l’impressione di un cambiamento genera-
lizzato del vestire, esteso ad ampie fasce sociali cominciando da quelle
medie, non era solo una rappresentazione cinematografica. Scorrendo
le foto private di famiglia o anche gli scatti di manifestazioni collettive,
si nota un minore grado di formalità insieme a una certa qualità nel
vestire almeno da fine anni Settanta e di sicuro negli anni Ottanta. Ad
esempio, nelle raccolte di foto non professionali su Venezia, le imma-
gini che ritraggono gruppi di turisti o il pubblico che assiste a gare
sportive, o persino i cortei di manifestazioni per la pace o contro la
crisi di Porto Marghera, testimoniano un indubbio salto di qualità e di
stile rispetto a un po’ di anni prima1. Prendiamo ad esempio uno scat-
to realizzato nel 1980 da Giuseppe “Pino” Alessi, mentre passeggiava
per il Gran Viale del Lido di Venezia, su un negozio di vestiti. Questa
immagine, postata ora online nel suo album di famiglia, riporta un
significativo commento: “La moda del 1980, non molto dissimile oggi
dopo 35 anni (2015). Se si paragona la moda del 1945 con quella del
1980 ci sono invece notevoli differenze”2. “Pino” ha perfettamente ra-
gione. I capi nella vetrina fotografata sembrano quelli dei nostri giorni;
di certo sono molto diversi da pochi decenni prima. È il segno di un
cambiamento profondo arrivato fino a noi.

1 Le fotografie sono disponibili sul sito http://www.albumdivenezia.it che rac-

coglie foto di appassionati e alcuni fondi fotografici professionali. Per questa sezione
sono state visionate le foto di varie manifestazioni, in particolare quella degli operai
di Porto Marghera nel 1977, nel 1980 e nel 1982; per l’ordine democratico a Venezia
il 15 aprile 1978; delle donne Pci a Roma nel giugno 1979; contro i missili Cruise a
Venezia nel 1981; per la pace a Milano nel 1982; per la scala mobile a Roma nel 1985 e
altre ancora; oltre a numerose manifestazioni sportive nell’area di Venezia e ad album
privati di fotografie dal 1975 al 1995.
2
G. Alessi, La moda del 1980, n. 594673, Venezia 1980, in Album di famiglia. Foto
Miscellanea, http://www.albumdivenezia.it.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 133

Ma cosa avremmo trovato di preciso dentro un armadio degli


anni Ottanta o inizio Novanta, magari come riflesso di simili vetrine?
Eccoci di nuovo catapultati all’indietro, per ritrovarci nella stanza
da letto di una giovane coppia che lavora3. L’armadio di fronte a
noi è un “quattro stagioni”, su due piani, bianco, alto quasi al soffit-
to. Ancora prima di aprirlo possiamo dire che c’è una bella novità:
la quantità dei vestiti posseduti, ormai un piccolo stock di capitale
nella casa. Ma procediamo, apriamo la porte in basso. Ed ecco qui
la seconda sorpresa. Che fine hanno fatto le giacche in principe di
Galles, i cappotti blu o cammello (per lui), gli abiti a fiori, le cami-
cette ricamate e i tailleur tipo Chanel (per lei)? Che fine hanno fatto
tutti quei capi classici, di buona fattura e bella stoffa, che passavano
senza problemi da una stagione all’altra? Tutto sparito. È come se la
rivoluzione degli abiti avvenuta nei decenni precedenti nell’armadio
giovanile fosse arrivata ora qui, nell’armadio degli adulti, cambiando
tutte le regole. Anzi, cambiandone soprattutto una: i vestiti, parte
integrante della cultura cosmopolita moderna, si dovevano evolvere
rapidamente seguendo la moda creata dalle marche. Già, perché ora
in questi armadi è facile vedere spuntare nomi famosi o meno, anche
senza guardare le etichette all’interno: sono stampati davanti, spun-
tano ovunque su targhette colorate, sono integrati nel disegno stesso
del capo. E ci raccontano di abiti non più fatti da sarti e familiari, ma
acquistati nei negozi – dove però la garanzia della qualità, più che il
negozio stesso, la fornisce il produttore che si firma dappertutto. È
arrivata la moda di qualità per tutti.
In questi armadi osserviamo vari capi che sono indossati al la-
voro: per lei pantaloni, ora presenti massicciamente, da abbinare
con camicette e maglioni; tailleur tinta unita con gonna, con o senza
spalle imbottite; per l’estate, tutti i possibili abbinamenti di gonne e
pantaloni (soprattutto blu e neri) con camicie o maglie colorate (tur-
chesi, rosse, arancioni); per il freddo, vediamo un cappottino di lana,
due comodi giacconi, due piumini (molto gettonati pare soprattutto
questi ultimi). In sostanza, troviamo un abbigliamento professiona-

3 Anche questa descrizione è stata realizzata grazie ai risultati della citata inchie-

sta e di varie interviste. Di particolare utilità l’intervista dell’A. con G. Bertasso del
13 ottobre 2015. Per il caso in oggetto, cfr. in particolare le interviste a Gaetano G.
nato nel 1966 e Mariella I. nata nel 1967, raccolte da A. Bonanno nel 2014; nonché il
gruppo di interviste effettuate a Roma nell’estate 2014 da G. Incalza.
134 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

le, elegante ma fantasioso, integrato da capi casual. È un po’ lo stesso


mix che troviamo per lui. Per il lavoro, ecco una sfilata di jeans di
varie marche, insieme a pantaloni di velluto taglio jeans o più mor-
bidi in cotone, da portare con camicia, giacca e cravatta: in questo
modo il completo diviene più comodo e informale, mantenendo un
suo rigore. Di camicie qui ce ne sono davvero tante: bianche, azzurre
di tutte le gradazioni, a quadrettini, a righine di vari colori; le giacche
appese sono più morbide e poco strutturate rispetto al passato. La
maglieria è abbondante: maglioncini a V o con la cerniera, maglie
pesanti anche dolcevita, per non parlare del numero di magliette con
colletto e polo. Per l’inverno, niente cappotti, ma giubbotti.
In questo guardaroba non mancano però i vestiti formali e per le
occasioni importanti. Nell’armadio di lei, vediamo tubini interi, da in-
dossare con ricercate giacche corte o stole, e poi vari tailleur firmati, al-
cuni con la gonna e stretti, altri con i pantaloni e aspetto quasi maschile.
Spunta da dietro un vestitino nero di lamé con perline – segno sicuro
degli sfavillanti anni Ottanta, mentre l’impronta generale risente più
del minimalismo del decennio successivo. In realtà il dato saliente ora
è la divisione dell’armadio femminile in vestiti da lavoro (che occupano
una parte importante), abiti casual da tempo libero e sport, e infine
capi formali per le occasioni importanti. Una divisione funzionale che
ricalca quella da tempo presente nel guardaroba maschile.
Nell’armadio di lui, non potevano mancare i completi giacca e
pantaloni, invernali ed estivi. Il loro taglio è però diverso dal passato:
intanto, sono più stretti sia nel pantalone sia nella giacca, poi hanno
poche imbottiture e sostegni rigidi, per cui l’insieme che ne deriva
è elegante ma non rigido. E sono firmati da nomi famosi. I colori
sono blu, nero e marrone, che sono poi quelli prevalenti in tutto il
suo abbigliamento.
Non manca infine una sezione con capi sportivi veri e propri,
con tute, calzoncini e semplici magliette; vicino, notiamo una quan-
tità di accessori, a cominciare da borsette e trousse con gioielli per
lei (monili con pietre dure e soprattutto una catenina e un anello
d’oro), astucci con orologi e marsupio di pelle per lui, e poi sciarpe,
foulard, pashmine colorate, cinture, occhiali da sole per entrambi.
In terra, lì vicino, in una scarpiera spuntano scarponcini allacciati
alti e bassi, scarpe da ginnastica e da calcetto per lui, stivali, sandali
estivi e scarpe da ginnastica per lei, mentre sotto si intravvedono
varie calzature più formali.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 135

E dire che non abbiamo visto neppure tutto, dal momento che le
ante superiori sono troppo in alto! Ma non è solo questo. Se all’inizio
ci aveva colpito la quantità, ora che abbiamo esaminato questo guar-
daroba da vicino, dobbiamo dire che ci colpisce ancor più la qualità.
Qualità della confezione, delle stoffe, della varietà dei capi e, perché no,
delle firme famose che portano. Insomma, abbiamo di fronte forse la
rivoluzione maggiore avvenuta nel campo dell’abbigliamento italiano.
La domanda a questo punto sorge spontanea: cosa ha causato
questo generale mutamento dell’intera fascia medio-alta dei consu-
matori verso uno stile più moderno e sofisticato? La risposta la co-
nosciamo già: gli stilisti italiani. Furono loro a iniziare una profonda
trasformazione che interessò le classi medie e causò una vera e pro-
pria trasformazione del concetto stesso di lusso nell’abbigliamento.
Questo lo sappiamo. Forse è meno semplice da capire come avvenne
esattamente questa trasformazione, perché fu proprio in questo pe-
riodo (e non prima o dopo), e come mai fu proprio l’Italia a guidare
questo mutamento a livello internazionale (e non Parigi o Londra, ad
esempio) – tutte cose che oggi si danno per scontate, ma sulle quali
nessuno, in quegli anni, avrebbe scommesso una lira. Anche perché
la massima vetrina della moda italiana, a parte il successo di nomi
singoli e la qualità indiscussa dei tessuti, sembrava un po’ appanna-
ta. A metà degli anni Sessanta la Sala Bianca di Pitti a Firenze non
attirava più compratori come una volta; le case di alta moda erano in
continua lite; la stessa idea di alta moda sartoriale come riferimento
principale per le creazioni di abiti era in crisi. L’abbandono delle sfi-
late fiorentine da parte delle case di moda romane aveva danneggiato
Firenze, ma Roma non era riuscita a fungere da nuovo perno, nono-
stante schierasse nomi come Valentino Garavani, Renato Balestra,
le sorelle Fendi, Laura Biagiotti4. Così nel 1965 Giorgini rattristato
si dimise e la manifestazione proseguì cercando un rilancio con un
maggiore allargamento verso la moda boutique di piccole serie arti-
gianali, con risultati alterni5. All’estero, alcuni ebbero la percezione
che la fiammata della moda italiana degli anni Cinquanta, quando
aveva seriamente sfidato Parigi attraendo i migliori buyer americani,
si fosse un po’ spenta negli anni Sessanta. Restava un fenomeno inte-

4 Capalbo, Storia della moda a Roma cit., pp. 142-164.


5 Pinchera, La moda in Italia cit., pp. 40-43.
136 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

ressante, certo, ma non più così competitivo a livello internazionale6.


Poi qualcosa accadde.
27 aprile 1971. A Milano nell’esclusivo Circolo del Giardino si
svolge una sfilata di moda. È una sfilata molto diversa dal solito. L’i-
deatore è Walter Albini, un creativo che ha già riscosso successo a
Palazzo Pitti presentando collezioni molto originali per Misterfox
(come quella di otto “spose” in lungo rosa e otto “vedove” in nero
corto). Forse proprio quel successo gli aveva fatto vedere la ristret-
tezza di una formula elitaria che puntava tutto sul capo esclusivo o
in piccole serie (l’impresa aveva ricevuto ordini di clienti venti volte
superiori a quelli che fu in grado di consegnare effettivamente)7. Albi-
ni poi si sentiva interprete di un mondo diverso, un mondo che stava
cambiando. Come molti altri in Italia, da anni aveva esperienza di
consulenza con gli industriali tessili per il disegno dei tessuti (Etro) e
per la confezione; ora voleva un salto di qualità, come già cercavano
di fare Pierre Cardin o Yves Saint-Laurent in Francia con il prêt-à-
porter (traduzione dall’americano ready to wear). Moda pronta indu-
striale: ecco quello che voleva proporre Albini.
Eccolo dunque giunto al momento della sfilata. Nella Sala d’oro
dell’esclusivo circolo milanese è pronta una passerella a forma di T. Le
modelle cominciano a uscire. Sulla passerella sfilano cinque collezioni
tutte disegnate da lui per altrettante ditte specializzate: abiti eleganti
di Misterfox, capispalla Basile, jersey Callaghan, maglieria Escargots e
infine camiceria Diamant’s. Il regista è unico, tanto che ogni capo por-
ta un’etichetta con su scritto: “Walter Albini per [nome produttore]”.
I capi sono distribuiti dalla Ftm (Ferrante, Tositti, Monti). Il successo
è sorprendente, al di là di ogni aspettativa. Il pubblico è entusiasta, gli
ordini piovono fitti, i giornali lo lodano. Per la prima volta le sfilate
si aprono verso capi non artigianali ed esclusivi ma valorizzano abiti
disegnati da un creativo e poi realizzati industrialmente. È la prima
volta che protagonista assoluto non è l’industriale tessile o la ditta di
confezione ma appunto un “creativo”. Senza considerare che le sfilate
sono meno regolamentate rigidamente, secondo il modello francese,
ma più libere per contenuti e numero di capi presentati. Il risultato

6 Steele, Paris Fashion cit., p. 284.


7 E. Morini, N. Bocca, Lo stilismo nella moda femminile, in La moda italiana.
Dall’antimoda allo stilismo, a cura di G. Buttazzi e A. Mottola Molfino, Electa, Milano
1987, pp. 64-179.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 137

finale è che il valore intrinseco dei capi presentati di fronte a un ampio


pubblico resta elevato ma il prezzo scende drasticamente: la moda
diventa democratica.
Walter Albini vinse così la sua scommessa, tanto che la sua sfilata
del 1971 può essere considerata a tutti gli effetti la data di rifonda-
zione della moda italiana, da ricordare e valorizzare al pari di quella
organizzata da Giorgini vent’anni prima. Forse il ruolo di Albini ini-
zia solo ora a essere riconosciuto8, sia perché in anticipo sui tempi, sia
per la successiva tormentata carriera, sia perché morì molto presto,
nel 1983, a 42 anni. Il suo esempio fu però seguito da altri marchi
“dissidenti”, che lasciarono Pitti per sfilare a Milano, a cominciare
da Missoni, Krizia, Caumont, Ken Scott, Trell. Nel 1974 le sfilate
milanesi, che ormai precedevano regolarmente quelle fiorentine di
Pitti, registravano “l’en plein di stampa e compratori”9. Nel 1975 era-
no diventate il punto di riferimento principale: “Le sfilate di Milano
stanno registrando il tutto esaurito: secondo le previsioni della vigilia
i compratori più importanti sono tutti presenti. Dalla moda pronta
italiana, almeno a giudicare dall’affollamento di queste giornate, ci si
aspetta ormai il là, né più né meno che da quella francese”10.
Dunque il rilancio della moda italiana avvenne su un altro piano
(moda pronta e non alta moda o moda boutique) e in un altro luogo
(Milano e non Firenze o Roma), con un successo internazionale de-
stinato a crescere enormemente. Ma quali furono le vere motivazioni
alla base della svolta simboleggiata dalla sfilata di Albini? Possiamo
provare a ricostruirne le ragioni in cinque mosse.

2. Un nuovo epicentro: il mercato e i consumatori

Nel suo peregrinare in Sudamerica, Lévi-Strauss portava sempre


con sé stoffe e piccoli oggetti di valore, per farne dono alle popolazioni
indigene e stabilire un rapporto amichevole. Tutto poteva essere im-

8 L’immaginazione al potere. Walter Albini e il suo tempo, a cura di M.L. Frisa e

S. Tonchi, Marsilio, Venezia 2010.


9 A. Mulassano, Il “camicione” dominerà nell’estate ’75, in «Corriere della Sera»,

13 ottobre 1974; cfr. anche Id., Anni 30, 40 e 50: ma dov’è la moda d’oggi?, ivi, 8
aprile 1972.
10
Id., La “signora di trent’anni fa” protagonista della nuova moda, in «Corriere
della Sera», 27 marzo 1975.
138 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

portante per popolazioni che vivevano in grande povertà. Un giorno


l’esploratore volle fare un dono speciale ai nambikwara, nativi della
savana brasiliana: belle pezze di flanella rossa che aveva acquistato a
São Paulo. I nambikwara, che giravano prevalentemente nudi o con
copripudende e adorni di collanine, mostrarono grande interesse per
la novità e cominciarono a coprirsi con le stoffe vivaci. In breve, tut-
ti ne furono avvolti letteralmente dalla testa ai piedi e lo stesso trat-
tamento fu usato per gli animali domestici: scimmie, cani, cinghiali.
Tutti in rosso. Ma dopo un’ora di pavoneggiamenti, il gioco stancò e
le stoffe furono buttate via, liberando uomini e animali, e finendo per
restare impigliate a brandelli tra gli sterpi e i cespugli circostanti. Il
donatore rimase impressionato e anche un po’ amareggiato per quella
fine. Di tutti i possibili esiti che aveva immaginato per il suo prezioso
dono (accettazione, indecisione, rifiuto), quello verificatosi non era
stato previsto. I nambikwara avevano invece interpretato a loro modo
il senso della stoffa rossa: un regalo appariscente, adatto per mettere in
scena un gioco teatrale collettivo per l’intera comunità, animali inclusi,
ma sostanzialmente noioso dopo un po’ e quindi del tutto inutile11.
Il caso successo a Lévi-Strauss (anche i famosi antropologi hanno
le loro piccole disavventure) ci ricorda ironicamente il primo punto
della nostra analisi: la complessità del mercato. In effetti, per quan-
to valida sia la stoffa di un capo, per quanto buona la confezione e
adeguatamente studiati il prezzo e la commercializzazione, una cosa
è certa: il comportamento del mercato, e cioè dei consumatori, è una
variabile fondamentale e non è sempre facile da prevedere. Esatta-
mente come successe all’antropologo francese con i nativi brasiliani,
elementi culturali o ambientali di tutti i tipi possono interagire con
le variabili economiche note e portare a risultati inaspettati.
Se è vero, come abbiamo sempre sostenuto in questo lavoro,
che c’è un legame strettissimo tra moda, società e cultura, allora un
profondo rivolgimento economico e culturale non può che avere
evidenti contraccolpi nel mondo dell’abbigliamento. È quello che
succede ora: il mercato si trasforma e i consumatori diventano pro-
tagonisti. Ma andiamo con ordine.
Dai tempi di Henry Ford e della prima catena di montaggio, l’i-
dea di fondo della produzione industriale di massa era stata semplice:

11 C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), Il Saggiatore, Milano 2011, p. 275.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 139

fabbricare un prodotto valido adatto per tutti. Per una buona metà
del Novecento e, in certi settori, per quasi tre quarti di secolo, i con-
sumatori accettarono tutto perché avevano fame di nuovi prodotti
industriali. E i produttori si concentrarono unicamente sugli aspetti
produttivi, in modo da creare una bella macchina o un bel vestito da
vendere a un prezzo competitivo: questi beni si sarebbero letteralmen-
te venduti da soli. Ma con la crescita e diversificazione delle industrie
da un lato, e la maggiore affluenza dei consumatori dall’altro, qualcosa
si ruppe in questo meccanismo (buona produzione uguale vendita).
O forse ci si accorse che le cose erano più complicate. Non bastava
infatti produrre per vendere; intanto ci voleva un po’ di pubblicità, e
a volte neppure quella bastava. Dov’era il problema? Il primo teorico
a usare un linguaggio nuovo fu Wendell Smith nel 195612. Egli parlò
di “mercato segmentato”: non era vero che i consumatori fossero una
massa uniforme; al contrario, esistevano tanti segmenti differenti con
gusti e bisogni diversi dovuti in primo luogo a reddito, poi classe so-
ciale (gli impiegati non consumano le stesse cose degli operai a parità
di reddito, come già aveva osservato Maurice Halbwachs)13, genere
(uomini e donne comprano cose diverse, come ben sanno per primi i
produttori di abiti), età (considerati oltretutto i cambiamenti culturali
degli anni Sessanta), localizzazione geografica (per via delle tradizioni
storiche locali), aspetti psicologici, occasioni di acquisto e molto altro
ancora (il risultato finale sarà una mappatura di diversi “stili di vita”).
Insomma, la torta del mercato non era omogenea ma aveva molti strati
e ognuno aveva un gusto diverso. A questa situazione, si adattavano
meglio forme di produzione flessibili, del tipo della lean production
utilizzata dalla Toyota già negli anni Ottanta14. Il punto semmai era
identificare almeno i segmenti principali del mercato dei consumatori
e comprenderne i cambiamenti nel tempo.
Ebbene, gli anni Settanta segnano una svolta a questo riguardo,
che interessa direttamente la moda e spiega la nascita dello stilismo
a Milano.

12 W.R. Smith, Product Differentiation and Market Segmentation as Alternative

Marketing Strategies, in «Journal of Marketing», July 1956, pp. 3-8.


13 M. Halbwachs, La Classe ouvrière et le niveaux de vie: recherche sur la hiérarchie

des besoins dans les sociétés industrielles contemporaines, Alcan, Paris 1913.
14 J.P. Womack, D.T. Jones, D. Roos, The Machine That Changed the World,

Rawson Associates, New York 1990.


140 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Punto primo. Ci sono i giovani, di cui abbiamo già parlato, per


cui non ci dilunghiamo qui. Per via della rivoluzione culturale degli
anni Sessanta e grazie al loro maggiore benessere, essi diventano
un segmento importante e autonomo. Hanno i loro vestiti, i loro
accessori, i loro negozi. Esercitano una crescente influenza culturale
anche su altri strati sociali; e cominciano ad affacciarci nel mondo
del lavoro. Già, ma quali abiti avrebbero indossato al lavoro gli ex
ragazzi che avevano vissuto in jeans e magliette? Chi avrebbe fatto
un business suit che non fossero i paludati completi dei genitori?
Punto secondo. Qui troviamo le donne. Nel giro di venti/
trent’anni si verifica una massiccia immissione delle donne nel mon-
do del lavoro, complice una crescente scolarizzazione. Escludendo
il settore agricolo in declino, il numero delle impiegate nel settore
manifatturiero in Italia si consolida mentre esplode quello nei settori
del commercio e dei servizi. Nel 1950 le donne impiegate in questi
campi sono 2,8 milioni; nel 1980 sono 5,5 milioni. È un trend co-
mune a tutti i paesi occidentali, Stati Uniti in testa, e al Giappone15.
Testimonia una profonda trasformazione del mercato del lavoro
che ha conseguenze anche sull’abbigliamento. Già, perché che cosa
avrebbero indossato queste donne al lavoro? In effetti, non esisteva
quasi un “abito da lavoro femminile” di riferimento, al contrario
degli uomini. La tradizione prevedeva abiti da passeggio, da festa, da
teatro magari, ma non da ufficio, soprattutto se dovevano avere una
funzione di rappresentanza prestigiosa (non solo da segreteria, per
intenderci). E qui va detta una cosa che sorprenderà molti: la pro-
pensione al consumo nell’abbigliamento (cioè il rapporto tra con-
sumo e reddito) nelle donne era inferiore a quella degli uomini. In
poche parole, le donne italiane spendevano per vestirsi meno degli
uomini. E questo persino nel settore dell’informale basic, dove si cal-
colò nel 1972-77 una propensione per uomo/ragazzo intorno al 60
per cento contro il 40 per donna/ragazza16. In generale, la ricerca già
citata dell’Ente italiano della moda del 1975 ricordava che fino a 10 o
15 anni prima le donne “consumavano meno in termini quantitativi
e qualitativi dell’uomo”; nel 1967, ad esempio, il guardaroba medio
maschile constava di 16-17 capi tradizionali (abiti, giacche, cappotti,

15 B.R. Mitchell, International Historical Statistics: Europe 1750-2005 (1983), Pal-

grave Macmillan, New York 2007.


16 Ente italiano della moda, L’abbigliamento informale-sportswear cit., p. 65.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 141

ecc.), 1 abito informale e 20 tra camicie e maglie. Alla stessa data, il


guardaroba femminile comprendeva 29-30 capi tradizionali (abiti,
tailleur, gonne, maglie, ecc.) più 0,5 capi informali17. Aggiungiamo
che il costo medio dei capi maschili era più elevato (nel 1961-70
l’Istat certificava che un metro di stoffa da uomo veniva 6800 lire
al metro contro le 3700 della stoffa da donna, e un paio di scarpe
maschili costava 6150 lire contro le 5400 da donna), e abbiamo un
quadro completo della situazione18. In realtà, a guardar bene, questo
dato non è così sorprendente come sembra, se si pensa che una delle
funzioni importanti degli abiti è quella sociale e di rappresentanza
– funzioni fino ad allora ricoperte quasi solo dagli uomini. Semmai,
ci ricorda la forza di radicati stereotipi culturali che immaginavano
solo le donne intente a spendere in vestiti ogni momento. In ogni
caso, le donne ora si presentavano con esigenze sociali nuove, con
più autonomia economica, con la richiesta di vestiti per gli spazi
pubblici e per il lavoro. Chi li avrebbe fatti?
Punto terzo. E qui parliamo di redditi e consumi. Sappiamo che
la seconda parte del Novecento è contrassegnata da forti oscillazio-
ni: prima il boom economico degli anni Cinquanta-Sessanta, con
l’impennata dei redditi e l’acquisizione di beni di consumo di base
nelle famiglie; poi la grande crisi degli anni Settanta, partita con lo
shock petrolifero e segnata da austerity e terrorismo; infine il “se-
condo miracolo” economico degli anni Ottanta e inizio Novanta,
quando l’economia riparte sia per il mercato interno che esterno
e si sviluppa in pieno la società dei consumi. Studiando però nello
specifico i consumi, è necessario correggere un po’ questo quadro,
soprattutto per gli anni Settanta19. Infatti nel decennio della crisi i
consumi non diminuiscono affatto, anzi crescono al sostenuto ritmo
del 3 per cento annuo (salvo una caduta nel 1975); in pratica vi è
una crescita continua che comprende tutti gli anni Settanta, si dilata
negli anni Ottanta, per poi frenare verso il 1993. Come mai? La ve-
rità è che in questo periodo i beni di consumo primari si diffondono

17 Id., Il mercato dell’abbigliamento cit., pp. 21-23.


18 Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976; Id.,
Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Roma 1986.
19 Scarpellini, L’Italia dei consumi cit., pp. 241-243; G. Maione, La rivoluzione

dei consumi: un confronto tra Italia e Stati Uniti (1980-2010), in Consumi e politica
nell’Italia repubblicana, a cura di S. Cavazza, il Mulino, Bologna 2013, pp. 129-134.
142 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

anche tra i ceti popolari e operai, visto che il precedente miracolo


economico aveva di fatto interessato solo le classi medie. Ecco che
allora tutti raggiungono tv, elettrodomestici, moto o auto e, perché
no, vestiti nuovi confezionati: possederli ora non è più un segno di
distinzione sociale. Gli operai al lavoro si godono così gli aumenti
salariali ottenuti e quelli licenziati per la crisi si mettono a lavorare in
proprio, magari in cantina con un tornio, o si organizzano con amici
e parenti in paese per produrre abbigliamento o calzature, creando
le premesse del successo di un’industria diffusa e dei distretti. Inol-
tre esplodono settori completamente nuovi, legati alla tecnologia, al
divertimento, alla comunicazione, ai servizi: le persone che lavorano
in questi campi hanno un alto capitale culturale, un background ur-
bano, una forte propensione a innovare e un loro stile di vita. Ecco
dunque i favolosi anni Ottanta della “Milano da bere”, come recita-
va una famosa pubblicità, gli anni del benessere, dell’individualismo.
Bastano pochi dati per testimoniare questo cambiamento, forse
non meno grande di quello del celebrato miracolo economico di
vent’anni prima. Il reddito pro capite: sotto il fascismo nel 1935
valeva il 60 per cento di quello medio dei paesi europei più ricchi
(2654 dollari in Italia); negli anni del miracolo economico sale fino
al 77 per cento: 6964 dollari contro 9009 di media nel 1965. Ma nel
“secondo miracolo economico”, vent’anni dopo, il balzo è più spet-
tacolare: 14.010 dollari contro 14.996, cioè il 93 per cento e un diva-
rio storico quasi azzerato20. Gli italiani ora sono davvero benestanti.
La demografia: nel 1961 i nuclei familiari più numerosi sono quelli
con un figlio (22 per cento) e due figli (20 per cento); nel 1981 questi
gruppi sono scivolati indietro, preceduti dalle coppie senza figli (24
per cento) e tallonati dai single (raddoppiati da 9 a 18 per cento).
Come dire che la famiglia allargata come punto di riferimento, anche
dei consumi, si contrae a favore dei singoli21.
Per completare il quadro, c’è un ultimo elemento molto impor-
tante da considerare: le differenze nella crescita di redditi e consumi
fra le categorie. In Italia, il trentennio seguito alla seconda guerra

20 The Maddison-Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/ho-

me.htm, 2013 version. Le cifre sono in dollari internazionali Geary-Khamis; il valore


di riferimento per l’Italia è basato su dati riferibili al Centro-Nord. Il raffronto è fatto
con la media dei 12 paesi dell’Europa occidentale più ricchi.
21 Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 162.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 143

mondiale aveva visto una forte crescita nei redditi delle fasce popolari
rispetto alle altre, e quindi una consistente riduzione della disugua-
glianza sociale. Molti ritenevano che questo sarebbe stato il trend del
futuro: benessere per tutti. Fatto, questo, molto significativo in un
pae­se come l’Italia che da sempre registrava un forte divario tra ricchi
e poveri. Ma non fu così. Già negli anni Settanta ci furono le avvisa-
glie di un capovolgimento di questo trend, già chiaro negli Stati Uniti;
la crisi del 1991-92 determinò addirittura un’inversione dell’indice di
Gini, che misura la disuguaglianza, e cioè un nuovo aumento della
distanza tra le fasce sociali. Ciò per via di un duplice movimento: uno
spostamento della ricchezza sempre più verso l’alto della scala e un
forte miglioramento del lavoro autonomo rispetto a quello dipenden-
te. I conti tornano. Dagli anni Settanta si forma dunque rapidamente
una nuova fascia di money maker, di yuppie, di lavoratori qualificati,
manager, comunicatori, pubblicitari, imprenditori dei servizi, pro-
duttori di beni di consumo che si distaccano dai ceti medi tradizionali
(impiegati, professionisti, artigiani), non solo per il reddito ma anche
per lo stile di vita. Essi rappresentano l’elemento distintivo e carat-
terizzante della nuova economia globalizzata. Ma allora, ancora, chi
poteva vestire queste nuove fasce socioeconomiche?
Proviamo a dare una risposta. Dal lato dell’offerta, il settore
dell’abbigliamento era certo in grado di rispondere alle richieste,
almeno dal punto di vista quantitativo. Possiamo immaginarlo gra-
ficamente come un cilindro, dove la parte inferiore corrispondeva
alla confezione industriale di base (pensata per i ceti meno abbienti)
e quella superiore, un po’ più ristretta in verità, corrispondeva alla
confezione di qualità, che ormai stava sostituendo in gran parte il
capo sartoriale. Proprio qui troviamo i marchi che abbiamo già in-
contrato (Facis, Cori, Lebole, Vestebene, Lubiam, ecc.) e che oggi
potremmo etichettare come premium brands – in altre parole marchi
importanti della confezione che garantivano un buon prodotto a un
prezzo equilibrato. Al di sopra del cilindro c’era poi una microsfera,
autonoma e superesclusiva, che corrispondeva all’alta moda su mi-
sura, e che poteva interessare meno dell’uno per cento della popola-
zione. Fine. Abbiamo visto però che in questi anni prendono forma
rilevanti segmenti di mercato (giovani, donne, money makers) che
non si ritrovano nell’offerta esistente. In primo luogo per motivi cul-
turali. Sono categorie che attribuiscono grande importanza al look,
decisivo sia in ambito lavorativo sia in ambito sociale; un look che ri-
144 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

sente ovviamente dei mutamenti estetici avvenuti negli anni Sessanta


– insomma, sono alla ricerca di uno stile nuovo. In secondo luogo
non si ritrovano per motivi sociali. Queste nuove categorie vivono
una rapida ascesa sociale ed economica e desiderano testimoniare
nel loro aspetto il successo; il vestito deve indicare così elementi di
distinzione sociale, non nuovi storicamente, ma che adesso tagliano
trasversalmente la società, per cui certi simboli (giacca e cravatta
contro tuta operaia) non bastano più a fare la differenza: ci vuole uno
stile diverso, ci vuole un abito con un valore aggiunto.
È qui che si inserisce l’innovativa proposta dei creativi italiani.
Essi immaginano un nuovo pezzo da inserire nel puzzle del mercato,
che così va ad assomigliare più a una grande piramide. Alla base,
resta l’ampia fascia della confezione di massa; al di sopra, fino a
metà circa, un’ampia fascia di confezione di qualità. Ma ora si forma
un nuovo spazio, nella metà superiore, al di sotto della punta dell’e-
sclusiva haute couture, che può essere riempito con una produzione
a metà strada tra l’alta moda, da cui trae stile, innovazione e qualità,
e la confezione pronta, da cui trae un procedimento industriale che
garantisce prezzi relativamente abbordabili (diciamo cinque/sei vol-
te quelli di base). È la nuova conformazione del settore moda.
Modernità nello stile, distinzione sociale, innovazione, prezzi
semi-esclusivi: ecco la moda giusta per i protagonisti di fine secolo.
Ed ecco che i creatori di moda divengono “stilisti”.
Dunque, il primo elemento per comprendere la nascita dello
stilismo è la segmentazione del mercato con le esigenze dei nuovi
consumatori. Questo ci aiuta anche a comprendere perché le cose
ora funzionano, al contrario di quanto era avvenuto ad esempio nel
fascismo. Allora il regime aveva fatto un grande sforzo per creare
una moda italiana, istituendo enti e manifestazioni ad hoc, aiutando
i produttori nazionali, immaginando un’etichettatura antesignana
del Made in Italy. Ma senza risultati duraturi, perché si trattava di
una costruzione artificiale, calata dall’alto, e la storia insegna che è
molto difficile pianificare lo sviluppo a tavolino. Negli anni Settanta
e Ottanta fu tutto diverso. La spinta venne dal basso, dal mercato,
e furono i consumatori, ignorati dal fascismo, a svolgere un ruolo
propulsivo, creando il presupposto per un diverso andamento.
Due brevi osservazioni, per finire. La prima è che la nuova mo-
da è figlia, più che della ricchezza, della disuguaglianza. È infatti
quando si crearono differenti segmentazioni nella scala sociale che
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 145

i “nuovi ricchi” vollero distinguersi visibilmente dalla vecchia bor-


ghesia benestante. Non a caso, lo stesso fenomeno si ripeterà molti
anni dopo in vari paesi emergenti. E, per inciso, qui comincia a en-
trare il discorso su Milano, perché la città – dopo essere stata una
delle protagoniste della rivolta giovanile – fu un po’ l’epicentro di tali
trasformazioni, con la Borsa, le tv private, le agenzie pubblicitarie, le
prime imprese IT, il fitness, i locali alla moda, l’happy hour. Il muta-
mento si vedeva per strada, si toccava con mano: chi aveva antenne
sensibili poteva percepire prima degli altri le esigenze di un nuovo
mercato e farne la base di una nuova proposta.
La seconda è che la distinzione ricercata ora nella moda non era
solo lusso ed esclusività. Diversamente dal passato, voleva il nuovo
e quindi contenuti estetici legati alla rivoluzione culturale degli anni
Sessanta. Ispirazione modernista, rilettura sofistica del casual, T-shirt
e jeans griffati, ricerca di tessuti innovativi e tecno, rilettura informale
dell’abbigliamento classico da uomo, creazione di un power dressing
femminile: lo stilismo creò un format nuovo adatto ai settori sociali in
ascesa, insoddisfatti dei contenuti stilistici e culturali della confezione
esistente. Con un successo tale da divenire parte integrante di quel
lifestyle internazionale che caratterizzerà la nuova élite globale. Sulla
spinta dei consumatori, la moda diviene così un perno della società
dei consumi del tardo XX secolo; lo stilismo italiano un modello di
democratizzazione del lusso da esportare nel mondo.

3. Il dinamismo del settore industriale

La seconda fondamentale carta vincente della moda pronta italia-


na fu il sistema produttivo che, come abbiamo visto, comprendeva
una filiera intera, flessibile e di alta qualità. Da sempre povero di
materie prime, salvo la seta e un po’ di lana, il paese si era svilup-
pato da tempo con successo come paese di trasformazione. Ora si
trovava di fronte a nuove sfide, le avrebbe raccolte? Non tutti sep-
pero farlo. Gli anni Sessanta-Settanta registrarono la scomparsa di
storiche sartorie di alta moda, il cui pubblico si era assottigliato o
aveva semplicemente cambiato stile, come pure di imprese tessili e di
confezione, nate per una produzione a basso costo e indifferenziata,
non apprezzata più dai consumatori. In compenso molti seppero
trasformarsi e numerosi furono i nuovi soggetti che entrarono nel
146 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

mercato: fu anche un cambio generazionale, che riguardava tanto lo


stile quanto la conduzione manageriale dell’impresa. E poi, a spinge-
re il cambiamento, saltò fuori la nuova figura del creatore di moda.
Ma come cambiò il settore industriale?
Il fotografo Paolo Monti, accanto a una fittissima attività pro-
fessionale, realizzò molti scatti su scorci inaspettati dei luoghi che
amava, fra cui Milano. Una sua foto del 1982 riprende un tranquillo
momento di relax in un parco cittadino. In una tiepida giornata di
sole su una panchina rotonda intorno a un albero sono sedute due
persone: un uomo attempato, elegante nel suo morbido completo
giacca e cravatta, con il cappello, gli occhiali e in mano una rivista; un
po’ scostata una ragazza con i capelli lunghi ben pettinati che pure
sfoglia attenta una rivista, indossando un golf sopra pantaloni ornati
in fondo da una fila di cinque bottoni, e stivaletti. A lato si vedono
una nonna in piedi con un soprabito mentre sorveglia il nipotino
imbacuccato e, su una panchina più lontana, una madre che tiene in
braccio il suo bambino. In lontananza altre persone passeggiano22.
Non possiamo non notare la modernità di questa immagine rispetto
a pochi decenni prima, come abbiamo già osservato per le immagini
veneziane. Allora, se volessimo fare un viaggio per vedere come è
prodotto un vestito degli anni Ottanta, ad esempio quello del signo-
re o anche della ragazza sulla panchina, ci troveremmo a ripercorrere
le stesse tappe e gli stessi luoghi che abbiamo già visto trent’anni pri-
ma con gli abiti di Luciano? Sì e no. Certamente il percorso sarebbe
un po’ quello ma troveremmo molte novità. Proviamo.
Primo round. Il viaggio del nostro capo in lana inizia in un’a-
zienda tessile. Basta un’occhiata in giro per capire che molte cose
sono cambiate. Per cominciare, la provenienza della materia prima,
come testimoniano i cartellini che pendono dai grandi rotoli am-
monticchiati in magazzino. Non più da paesi vicini, magari europei,
ma da luoghi assai distanti: su tutti spicca l’Australia, che presto
si confermerà primo esportatore nel mercato mondiale grazie alle
sue pecore merinos dalla resa formidabile. Dunque abbiamo già un
assaggio di globalizzazione. Tra l’altro si notano soprattutto rotoli di
filato già pronto, non più solo fiocco o materia prima grezza: si pre-

22 Archivio Beic (Biblioteca europea di informazione e cultura), Serie fotografica:

Milano, 1982/Paolo Monti.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 147

ferisce acquistare un semilavorato, considerato che la prima fase di


produzione, la filatura appunto, non ha un grande valore aggiunto.
Guardando ancora più da vicino i filati, osserviamo una seconda
grande differenza rispetto a prima: la qualità. Una volta c’era molta
lana cardata, meno pregiata e dall’aspetto più “peloso”, ideale per
fare pezze di flanella o quei pesanti cappottoni tipici ancora del do-
poguerra (è logico, dovevano tenere caldo e durare a lungo). Ora
invece ci sono soprattutto tessuti pettinati, rasati e lisci, dal peso
decisamente inferiore (meno di 250 grammi), indicati per i capi di
pregio, insieme anche a peli e fibre di cotone. Insomma, c’è stata
una virata verso filati di qualità maggiore e insieme di peso mino-
re. L’impressione di morbidezza e leggerezza dell’abito del signore
in panchina è pienamente confermata. C’è di più. I filati non sono
solo di fibre naturali. Negli anni Sessanta in questo magazzino era
apparso il nylon, usato come rinforzo nella tessitura, con non po-
chi problemi per le macchine preesistenti. Dagli anni Settanta sono
comparsi in forze i filati artificiali e soprattutto sintetici, lavorati in-
sieme o anche da soli per le loro caratteristiche di leggerezza, inde-
formabilità, elasticità. Nel 1986 farà il suo ingresso anche un nuovo
prodotto, la microfibra, dovuto a una nuova tecnica di lavorazione
con microestrusori: in pratica si ottiene una fibra due volte più fine
di quella della seta, ritenuta la più sottile in natura, che risulta soffice
e morbidissima. Tutto ciò comporta però la necessità di dotarsi di
macchine specifiche per le lavorazioni speciali.
Spostiamoci ora nel reparto tessitura vero e proprio. Anche qui
molti cambiamenti. A dire il vero, ci aspettavamo di trovare macchi-
ne più moderne, efficienti, produttive e anche silenziose. E ci aspet-
tavamo anche la scomparsa o limitazione del lavoro manuale. Forse
meno di vedere che la produzione non avviene tanto in grandi serie,
per così dire, lungo catene produttive standardizzate come prima,
ma piuttosto in piccole quantità, ognuna con le sue macchine e la-
vorazioni specializzate. Il risultato è una maggiore varietà di tessuto
finale, differente per materia prima, peso, lavorazione. Gli ordini
sono per piccoli lotti, da produrre con accuratezza e consegnare con
rapidità. Insomma, qui si tocca con mano la risposta produttiva alla
segmentazione del mercato.
Seguiamo ora una bella pezza di stoffa, ideale per il vestito della
nostra foto, nel reparto finissaggio. Le sorprese non sono finite. An-
zi, per certi versi è proprio qui che troviamo i mutamenti più grossi.
148 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Si può dire che nel tempo cresca il peso e il valore di quest’ultimo


segmento: tintoria e rifinitura conoscono grandi cambi sia nei mate-
riali sia nei procedimenti tanto da conferire al tessuto caratteristiche
estetiche peculiari. Molte delle nuove lavorazioni “alla moda” sono
ottenute in questa fase. Qui vediamo infatti tessuti artificialmente
invecchiati oppure slavati e colorati parzialmente; altri invece so-
no lucidi o vellutati a buccia di pesca; altri ancora sono impermea-
bilizzati o stropicciati. Non parliamo poi della stampa a colori sul
tessuto, con una gamma infinita di possibilità. Questo reparto inizia
a diventare il regno delle apparecchiature elettroniche (computer
grafica con il CAD e fabbricazione assistita con il CAM): quanto
siamo lontani dalla stampa su tessuto con blocchi di legno ideata in
Cina almeno diciotto secoli prima! Non sorprende che nel tempo
questa fase sia divenuta centrale e ad alto valore aggiunto nel ciclo
produttivo. Comunque ora anche il nostro tessuto è sottoposto a
varie fasi di nobilitazione, ed è pronto per la successiva confezione23.
Secondo round. Il nostro tessuto sarebbe ora pronto a diventare
una giacca, basta seguirlo nelle industrie di confezione per vederla
nascere secondo i modelli consolidati. Invece no. Qui siamo giunti
nel cuore della creazione del sistema moda italiano. Immaginiamo
dunque che il nostro viaggio ci abbia portati in un’impresa modello,
ad esempio il già ricordato Gft (Gruppo finanziario tessile). Se ci
fossimo aggirati nei corridoi dell’azienda nel 1978, avremmo potuto
assistere a un incontro storico: quello tra un emergente disegnatore
di moda, Giorgio Armani, il suo socio manager Sergio Galeotti, e
dall’altra parte il giovane Marco Rivetti, erede della storica impre-
sa tessile. La riunione aveva lo scopo di definire un nuovo tipo di
rapporto tra creatore di moda e produttore industriale. In verità le
aziende erano da molto tempo abituate ad avvalersi di consulenti sarti
per le loro creazioni, ma qui si voleva fare qualcosa di completamente
diverso. In un certo senso, le parti si invertivano. Armani e Galeot­
ti, che avevano fondato una loro società nel 1975, proponevano un
accordo di licensing: loro avrebbero disegnato i modelli secondo uno
stile ben definito, Rivetti avrebbe prodotto i capi dietro precise in-

23 FIL, Nobilitazione tessile. Manuale per la formazione degli operatori, Regione

Toscana-Giunti, Prato 1999, pp. 11-12; R. Camagni, R. Rabellotti, Informatica e in-


novazione: il caso del settore tessile-abbigliamento, in «Quaderni di informatica», 3,
1988, pp. 5-14.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 149

dicazioni sfruttando i suoi macchinari e il suo know-how, pagando


delle royalty. Il licenziante era il creatore di moda, il licenziatario era
l’impresa tessile. In pratica, veniva messo in crisi uno storico rap-
porto di preminenza. Molti imprenditori non avrebbero accettato,
per motivi economici (la loro azienda sapeva bene come e cosa pro-
durre) e per motivi di prestigio (da sempre erano le imprese tessili
a guidare il mercato). Ma Marco Rivetti aveva capito che il mercato
stava cambiando e che i giovani creativi offrivano il prodotto adatto ai
nuovi consumatori. E accettò. Fu una rivoluzione che portò benefici
a entrambe le parti. La ditta Armani ricavò milioni di lire in royalty
che poté investire nello sviluppo di nuove linee, in pubblicità e nella
distribuzione. La Gft produsse nuovi prodotti dalle linee moderne
e dal prezzo elevato che diedero strepitosi risultati di vendita24. E
proseguì su questa linea, acquisendo negli anni successivi decine di
licenze produttive da parte di moltissimi stilisti affermati. Non solo.
Con il suo esempio aprì la strada a molte imprese, come la Ittierre di
Perna presso Isernia, altro nome di peso per il Made in Italy dal 1982,
partita producendo jeans griffati per Trussardi e Versace25; oppure la
Genny di Girombelli ad Ancona, palestra creativa di Gianni Versace;
l’Icab di Bologna e naturalmente molti nomi storici del tessile.
Va sottolineato che questo fu uno dei punti forti e specifici dell’Ita-
lia, perché permise ai creativi che si affacciavano sulla scena con molte
idee interessanti, ma senza strutture produttive e a volte neppure ca-
pitali alle spalle, di trasformare le loro idee in un ottimo prodotto da
vendere sul mercato, sfruttando le capacità tecniche e le competenze
di un diffuso tessuto imprenditoriale attivo da tempo. E qui si nota
la differenza con altri paesi, dove potevano esserci creatori di moda
innovativi ma mancavano strutture idonee a tradurre i loro progetti in
prodotti vendibili. Gli stilisti italiani potevano invece anche solo dise-
gnare i loro modelli per la collezione, quindi si interfacciavano con gli
uffici stile delle imprese, coordinandosi con loro per la ricerca tessuti
e lavorando con le modiste, o modelliste, per arrivare alla creazione di
un prototipo in tessuto, da mettere infine in produzione.

24 S. Saviolo, Il Gruppo finanziario tessile: un pioniere del licensing, in Il licensing

nel sistema moda. Evoluzione, criticità, prospettive, a cura di B. Giannelli e S. Saviolo,


Etas, Milano 2001, pp. 11-14; E. Merlo, Italian fashion business: Achievements and
challenges (1970s–2000s), in «Business History», 53, 3, 2011, pp. 348-351.
25 L. Ricci, Il caso Ittierre, in Il licensing nel sistema moda cit., pp. 79-86.
150 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Lo strumento della licenza di marchio si rivelò estremamente po-


tente e flessibile per lo sviluppo del settore moda e lusso in generale,
e fu ampiamente utilizzato26. Permetteva di completare la filiera in
senso verticale, stringendo accordi specifici che costituivano di fatto
il necessario complemento dell’attività creativa, in genere riguardo
la confezione, ma anche per la produzione di tessuti o il marketing
e la distribuzione. Non dimentichiamo infatti che alcuni creatori di
moda nacquero all’interno di imprese tessili o artigianali preesistenti,
magari con il cambio generazionale, e quindi avevano maggiormente
bisogno di integrazione a valle. Le licenze furono molto utili anche per
ampliare la filiera, nel senso che furono stretti patti con aziende che
producevano prodotti differenti, come profumi, occhiali o una miria-
de di diversi accessori, per sfruttare commercialmente un nome con-
solidato, portando denaro cash al licenziante e nuove vendite di alta
gamma ai licenziatari (era il fenomeno dell’“estensione della marca”).
E per l’Italia, che vantava un forte tessuto industriale rispetto a paesi
come la Francia, fu anche un’ulteriore occasione di lavoro: nel 2000 si
calcolò che su 512 brand del lusso a livello mondiale, ben 326 fossero
prodotti in Italia, anche se molti di questi marchi non erano italiani27.
Ecco allora che possiamo seguire preparati la lavorazione del no-
stro tessuto in fabbrica. Passando attraverso macchine per il taglio
(magari le modernissime tagliatrici automatiche Gerber)28, seguite
da esperti lavoratori, via via attraverso l’assemblaggio e le cuciture,
fino all’aggiunta di bottoni e fodera (ma presto arriveranno anche le
giacche sfoderate), ecco che si forma sotto ai nostri occhi una giacca
“moderna”: un po’ più morbida, un po’ più destrutturata (senza
troppe imbottiture o crine per tenerla rigida), un po’ più preziosa. E
non possiamo fare a meno di notare che l’etichetta apposta all’inter-
no porta il nome del creativo e non più del produttore tessile, che,
nella migliore delle ipotesi trova un piccolo spazio altrove, magari
sulla manica. Il messaggio è chiaro: il nome che garantisce e carat-
terizza il capo, che una volta era del produttore del tessuto e poi
era diventato il confezionista, ora è del creatore del disegno. Uno

26 L. Santanera, Il licensing come strumento di sviluppo del prêt-à-porter italiano,

ivi, pp. 1-11.


27 S. Saviolo, La crescita attraverso l’estensione della marca, ivi, pp. 25-26.
28 Cfr. Gerber Scientific Instrument Company records, Archives Center, National

Museum of American History.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 151

scivolamento a valle che la dice lunga sulle mutate posizioni di forza


all’interno della filiera produttiva.
Bella la giacca, interessante il percorso produttivo. Ma un mo-
mento, c’è una complicazione. Esiste infatti un percorso alternativo:
anziché passare per una grande e moderna fabbrica, il vestito avreb-
be potuto muoversi attraverso una serie di piccole o microimprese
artigiane sparse su un vasto territorio. Sono le imprese dei famosi
distretti industriali, pure protagoniste a pieno diritto della produ-
zione Made in Italy.
Sui distretti si è detto molto, a partire dalle prime teorizzazioni
nel 1890 di Alfred Marshall sulle agglomerazioni di piccole imprese
che prosperavano grazie a economie esterne ed elementi di coesione
extraeconomici. In Italia esistevano da tempo aree specializzate di
questo tipo, come per la rigenerazione degli stracci a Prato, la tes-
situra laniera nel biellese, i cappelli a Firenze, i capi in seta a Como
e via dicendo, ma nessuno ci aveva fatto molto caso, inseguendo il
modello “perfetto” della grande fabbrica manageriale e innovativa.
Poi venne la crisi degli anni Settanta e molte di queste grandi fabbri-
che entrarono in crisi. Per aiutare queste aziende e mantenere i livelli
occupazionali, entrò in campo lo Stato, che negli anni Sessanta aveva
già acquisito tramite l’Eni aziende in difficoltà come la Lanerossi,
compresa la sezione abbigliamento Lebole. Nel 1971 fu creata anzi
un’apposita finanziaria, la Gepi, con l’incarico di acquisire e risanare
le imprese in crisi e poi rimetterle sul mercato. La sua azione non fu
semplice: alcune imprese furono risanate, altre chiusero dopo una
lunga permanenza dei lavoratori in cassa integrazione, anche perché
da fine anni Settanta sembrò prevalere un’ottica meno industriale, e
più di assistenza e sussidio. Fra i nomi passati nell’orbita pubblica,
nel solo settore abbigliamento, si possono ricordare S. Remo confe-
zioni, McQueen, Monti di Abruzzo per i capi maschili, Iac per quelli
femminili, Vela per i bambini29. Il ruolo della Gepi si trascinò fino
al 1993, quando tale attività fu dismessa, senza che fosse riuscita a
creare un vero polo tessile pubblico.
L’attività pubblica rimase comunque minoritaria. Molte grandi
aziende private si ristrutturarono autonomamente per rilanciare la

29 G. Pent Fornengo, L’industria italiana dell’abbigliamento, il Mulino, Bologna

1978, pp. 61-74; F. Coltorti, G. Mussati, Gepi e Tescon. Due interventi delle Partecipa-
zioni statali, Franco Angeli, Milano 1976.
152 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

loro attività, sotto la guida dei giovani eredi, come nel caso di Pietro
Marzotto, o di manager (come Riccardo e Gianfranco Jucker ai co-
tonifici Cantoni e Ottolini o di Renato Lombardi)30, e lo stesso vale
per varie imprese di abbigliamento (Tabella 6).
Ma il vero dato saliente degli anni Settanta, a parte l’intervento
pubblico, è il fenomeno di decentramento, che diede forza ai distretti.
Diversi fattori spinsero in questa direzione: la scarsa incidenza dei
fattori tecnologici e di economia di scala, almeno nel settore abbiglia-
mento (a differenza del tessile); il mutamento del mercato e dei gusti
dei consumatori, che imponevano maggiore flessibilità e velocità di
risposta rispetto alle grandi strutture; e infine una crescente concor-
renza dei paesi meno sviluppati, con bassissimi costi del lavoro, che
favorivano le produzioni in microimprese di tipo familiare o con lavo-
ro meno tutelato. Molte grandi aziende reagirono così alle difficoltà
con una politica di decentramento a livello regionale, favorendo lo
sviluppo e anche l’ammodernamento dei piccoli artigiani locali31.
Le piccole imprese dei distretti iniziarono così, o meglio conti-
nuarono con maggiore intensità, a produrre capi di pregio a prezzi
molto contenuti. Fu la base di una straordinaria crescita che durò
vent’anni, con una accelerazione particolare dal 1975, quando la
produzione tessile/calzaturiera da 7 miliardi e 300 milioni, calcolati
in euro, triplicò a 22 miliardi e 600 milioni nel 1980, raddoppiò an-
cora nel successivo quinquennio, toccando 45 miliardi e 500 milioni
nel 1985, e crebbe più gradualmente in seguito, rallentata dalla crisi
di inizio anni Novanta, raddoppiando di nuovo in un altro decennio,
fino a 94 miliardi e 700 milioni nel 1995. Questa crescita, che serviva
il mercato interno e in misura crescente l’export, vide brillare soprat-
tutto l’abbigliamento, molto più dinamico del tessile tradizionale, e
insieme le calzature, tanto che nel 1965 l’Italia era divenuto il primo
produttore di scarpe in Europa (soprattutto quelle di pelle e cuoio,
mentre quelle sintetiche e di gomma risentivano di più della concor-
renza dei paesi asiatici)32.

30 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 387-389.


31 G. Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale: svolgimento e difesa
di una idea, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Id., La coscienza dei luoghi. Il territorio
come soggetto corale, Donzelli, Roma 2015; Associazione italiana industriali abbiglia-
mento, L’industria italiana dell’abbigliamento. Evoluzione strutturale nel decennio
1971-1981, Milano 1981.
32
G. Pescosolido, L’industria della calzatura, in Annali dell’economia italiana, vol.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 153

Per molti era dunque questa la soluzione, anzi, la via italia-


no allo sviluppo. Verrebbe da parlare in questo caso dei vantaggi
dell’arretratezza economica, parafrasando l’economista Alexander
Gerschenkron33: il permanere in Italia di un folto strato di piccole
imprese artigiane “arretrate”, nel senso che erano legate a know-
how antichi, a modelli produttivi flessibili, a manodopera familiare
o poco più, a relazioni parentali o amicali tra di loro, a contiguità
fisica territoriale – imprese non ancora spazzate via dalle economie
di scala delle grandi imprese, come era avvenuto negli altri paesi –
rappresentò un vantaggio competitivo. Il risultato fu un modello
ibrido, in cui la grande impresa moderna (tessile ma anche confe-
zionista) conviveva e anzi si integrava perfettamente con una rete
di piccoli artigiani tradizionali (questi ultimi attivi soprattutto nella
confezione). Un modello affascinante, che ha ispirato vari studiosi,
come Michael Porter, ideatore del più flessibile concetto di cluster
per tali aggregazioni competitive, non necessariamente storiche34;
o come Paul Krugman, che ha inserito queste realtà nella sua New
Economic Geography, sottolineando il peso dei fattori spaziali nello
sviluppo economico35.
Ma quanti erano i distretti? La prima mappatura completa risale al
1991, quando vengono individuati 199 distretti. Il tessile, insieme con
la meccanica, risulta il comparto più diffuso, mentre l’area più densa
appare il Nord-Est, con la Lombardia nettamente al primo posto.
Più precisamente, i distretti con più addetti nel tessile/abbigliamento
erano in Lombardia (Como, Busto Arsizio, Castiglione delle Stivie-
re), Veneto (Castelfranco Veneto, Thiene) e Toscana (Prato, Pistoia);
seguiti da quelli in Piemonte (Biella, Borgosesia), Emilia-Romagna
(Carpi), Marche (Senigallia, Ascoli Piceno) e Abruzzo (Giulianova,
Teramo), ma anche più a sud, ad esempio in Puglia (Corato). I di-
stretti specializzati in pelle e cuoio erano invece concentrati in poche
regioni: Veneto (Arzignano, Montebelluna) e Marche (Civitanova

1965-1970, t. 2, Ipsoa, Milano 1984, pp. 133-134; cfr. anche Id., Le industrie tessili
e dell’abbigliamento, ivi, pp. 120-132; Id., L’industria della calzatura, del cuoio e delle
pelli e Le industrie tessili, ivi, vol. 1971-1977, t. 2, Ipsoa, Milano 1985, pp. 143-153.
33 A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, To-

rino 1965.
34 M.E. Porter, The Competitive Advantage of Nations, Free Press, New York

1990.
35
P. Krugman, Geography and Trade, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991.
154 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Marche, San Benedetto del Tronto), innanzitutto, seguite dalla To-


scana (Santa Croce sull’Arno, Empoli) e dalla Puglia (Barletta)36.
Qui lavorano tantissime aziende piccole e grandi, che meritano
una menzione. Partendo dai distretti più antichi, troviamo l’impresa
di Ettore Fila nel biellese, impresa tessile convertita all’abbigliamento
sportivo, o le Lanerie Agnona di Borgosesia, famose per la loro qualità.
A Como, ad esempio, troviamo la Seta Industria di Giuseppe Mantero
e l’azienda familiare di Mario Boselli, che si distinguerà anche per le
sue doti organizzative. Passando dalla seta alla lana, a Prato un nome
di riferimento diventa Faliero Sarti, che fin dagli anni Trenta aveva
creato una tessitura che ora è fornitrice di vari stilisti di moda; come
pure Alberto Pecci, che creò invece un gruppo di produzione e com-
mercializzazione delle lane locali, vendute poi all’estero da imprendi-
tori come Pietro Olmo e Massimo Coen. Un settore che si sviluppa
moltissimo in questi anni è quello della calzetteria, dove ai nomi storici
si aggiunge quello della Golden lady, fondata da Antonio e Nerino
Grassi a Castiglione delle Stiviere, presso Mantova. Nella maglieria,
nel polo di Carpi, operano Renato Crotti e Clodo Righi, quest’ultimo
specializzato in camiceria (Dino Erre). Ancora, sono da ricordare nel
distretto laniero presso Vicenza la Filatura Vicentina di Giancarlo Fol-
co, mentre, scendendo più a sud, troviamo l’abbigliamento prodotto
da Lucio Marcotulli dal 1959 in Abruzzo, i capi sartoriali secondo
tradizione di Ciro Paone a Napoli, e infine la filatura e tessitura di
Giuseppe Gulì a Catania. Moltissimi erano poi attivi nel settore pelle
e cuoio: ricordiamo solo Pietro Vassanelli (a Verona) e Ottorino Bossi
(a Vigevano); la Conceria Stefania di Castano Primo, presso Milano,
creata da Francesco Ramponi nel 1944 per l’alta qualità e poi passata
ai figli Angelo, Dino e Gianmario; nonché a Napoli la grande conceria
di pelli ovo-caprine di Giacomo Juliani e l’attività di confezionamento
di scarpe e abbigliamento in pelle di Mario Valentini37.
Alcuni di questi nomi sono noti, altri sono meno conosciuti, e
tantissimi sono quelli che avremmo potuto citare con altrettanto me-
rito. Ma in fondo è questo lo spirito del distretto, quello di un lavoro
corale, a rete, dove il risultato non deriva da una singola eccellenza
ma dal concorso di tutti.

36 Istat, 7° censimento generale dell’industria e dei servizi 21 ottobre 1991, Roma


1995.
37 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 422-441.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 155

Insomma la nostra giacca poteva fare un percorso che vedeva


magari la filatura e tessitura avvenire in una moderna fabbrica, co-
me già visto, ma tutte le successive fasi della confezione in diversi
laboratori artigianali dentro uno stesso distretto. Il primo operatore
avrebbe proceduto alla misurazione e al taglio, lasciando a semplici
lavoranti la cucitura; il secondo realizzato tutte le rifiniture, cucen-
do bottoni, fodera ed etichette; il terzo si sarebbe occupato della
confezione finale, della stiratura e dell’impacchettamento; il quarto
della consegna del capo allo stilista. A legare queste imprese in alcuni
casi vige anche qui il contratto di licenza, almeno con le aziende più
organizzate e con le quali vi è un rapporto continuativo; con altre
invece c’è una semplice produzione conto terzi, tipica dell’Italia: in
pratica una subfornitura, senza altri obblighi. Ecco allora che il no-
stro capo è stato realizzato ugualmente alla perfezione ma seguendo
una integrazione orizzontale, cioè fra varie imprese coordinate fra
loro, anziché verticale, cioè interna a una sola azienda. Per certi versi
è una soluzione ideale per la realizzazione di piccoli lotti in modo
artigianale e con grande flessibilità, anche se l’esperienza avrebbe
insegnato che tutto ciò talvolta non era privo di costi, a partire da
sfruttamento e lavoro nero.
Per inciso, la qualità di realizzazione sartoriale, sia nelle grandi
imprese sia nei laboratori artigianali, era assicurata tanto da una effi-
cace tradizione di trasmissione delle competenze da una generazione
all’altra, lungo canali familiari e amicali, quanto da solidi istituti pro-
fessionali (soprattutto per i compiti più complessi come la modella-
zione e il taglio). Così erano fiorite scuole come Ida Ferri a Roma, fin
dal 1927, e Marangoni a Milano, dal 1935, alle quali erano seguite
negli anni Sessanta l’Istituto europeo di design e l’Accademia costu-
me & moda (ancora rispettivamente a Milano e Roma). L’espansione
della moda italiana allargò ulteriormente il ventaglio delle opzioni di
alto livello negli anni Ottanta, a Milano con la Domus academy e a
Firenze con Polimoda, aprendo la via nei decenni successivi a corsi
di carattere universitario vero e proprio in varie città.
Quale che sia stato il cammino percorso dalla nostra bella giacca,
una cosa a questo punto è certa: la capacità produttiva industriale e
artigianale del paese era un formidabile atout nella manica del siste-
ma moda italiano, e la Lombardia era in prima fila.
156 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

4. Gli stilisti, le nuove star

Quando i giornalisti di moda, Anna Piaggi di «Vogue» prima di


tutti, iniziarono a parlare di “stilisti”, ben pochi capirono chi fosse-
ro. Non erano industriali tessili, non erano sarti, non erano confe-
zionisti, non si occupavano di vendite in negozio, non tingevano o
rifinivano le stoffe, non mettevano spesso neppure i capitali nelle
imprese. E allora?

Chi sono dunque questi famosi stilisti? Per il grande pubblico sono an-
zitutto gente piena di fantasia che ad ogni stagione riesce a tirar fuori la
nuova immagine della moda e, quel che più conta, a imporla alle donne che,
altrimenti, proprio non saprebbero cosa mettersi addosso. È gente giovane,
dedita ai viaggi in giro per il mondo alla ricerca di idee che trae vuoi dal fol-
clore più colorato, vuoi dai ragazzi delle strade e delle scuole detentori di un
loro modo di vestire spontaneo e stimolante, vuoi, infine, dalle biblioteche
della storia del costume ricche di suggestioni bell’e pronte per essere tradot-
te in maniera più o meno riuscita, più o meno ironica, nella moda di oggi.
Per gli industriali della confezione gli stilisti sono invece degli esseri
diabolici, dei matti, degli scriteriati folletti dispettosi che pare si diver-
tano a mandare all’aria i lunghi faticosi piani della programmazione in-
dustriale, buttando sul mercato, ogni poco, anzi ogni pochissimo, le loro
idee che realizzate in tempi brevi dalle piccole industrie e dall’artigianato
e divulgate dalla stampa, arrivano presto al pubblico e tendono a fare
invecchiare i prodotti dell’industria quando ancora devono nascere38.

Così la giornalista Giulia Borgese racconta dell’arrivo alla ribalta


di queste nuove figure e, sulla sua scia, così potremmo sintetizzare il
loro ruolo in tre punti: 1) non si occupano di un singolo processo pro-
duttivo o di un capo, ma creano uno “stile” che impronta un’intera
collezione, anzi, di più, caratterizza uno stile di vita e dà l’impronta al
marchio; 2) segnano il ritmo della moda moderna, accelerando i pro-
cessi produttivi con l’alternarsi delle stagioni, e rendono culturalmente
obsoleti i modelli tradizionali; 3) divengono registi dell’intera filiera,
occupandosi della creazione del tessuto, del disegno e della confezione
fino alla comunicazione e al rapporto diretto con i consumatori. Dopo
di loro, la moda non sarebbe stata più la stessa. Tuttavia sotto questa
etichetta si ritrovano attori con storie molto diverse; vediamone alcune.

38 G. Borgese, Il jersey futuribile, in «Corriere della Sera», 14 settembre 1971.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 157

Gli innovatori degli anni Settanta


Giorgio Armani rappresenta per molti il perfetto archetipo dello
stilista. Per cominciare, il giovane piacentino non ebbe una formazione
sartoriale ma affinò il suo gusto lavorando alla Rinascente a Milano e
poi preparando collezioni per vari marchi (come la Hitman di Nino
Cerruti), prima di mettersi in proprio nel 1975. La sua forza era nel
suo stile: morbido e naturale, con colori neutri, giacche destrutturate
per gli uomini e power dressing per le donne: i vestiti giusti per i nuo-
vi consumatori degli anni Ottanta. Abbiamo visto poi come Armani
fosse un pioniere del nuovo sistema di produzione tramite licensing
e, aggiungiamo, anche dell’estensione della marca, con accordi con
Luxottica per gli occhiali e L’Oréal per i profumi. Di più, dagli anni
Ottanta diversificò i suoi marchi con seconde e terze linee: in questo
modo si salvaguardava l’esclusività del brand più elitario, allargando
nel contempo il pubblico. Ecco allora Emporio Armani per i giovani,
Armani Jeans per jeans griffati e simili, Armani Junior per i più piccoli
e a seguire altri ancora. È stato notato come un aspetto importante della
sua strategia di crescita fu il processo di progressiva acquisizione di
ditte licenziatarie che già producevano o distribuivano i suoi prodotti:
iniziò con alcune imprese possedute dal Gft, per poi passare all’azienda
di abbigliamento Simint, al maglificio Deanna, al calzaturificio Guardi
(senza contare le molte joint venture, fra cui quella con Zegna, iniziata
dopo la scomparsa di Marco Rivetti nel 1996 e la fine della storica
intesa con il Gft)39. In pratica, da puro designer divenne un vero stilista-
imprenditore. L’altro aspetto che caratterizzò Armani, al pari di altri,
fu l’attenzione centrale puntata sul lato della distribuzione. E questo
grazie a imprese specializzate o, anche qui, a joint venture (come con
la giapponese Itochu); all’apertura di una rete di negozi nel mondo; al
peso enorme, almeno per gli standard di allora, assegnato alla comuni-
cazione e alla pubblicità. Comunicazione e pubblicità in tutte le forme:
spot diretti su riviste di moda, con un’attenzione speciale al mercato
americano, e poi editoriali, eventi-spettacolo, collaborazioni con il ci-
nema, ed anche supporto alla cultura e ai musei, che troverà forse il
suo punto culminante nella mostra che gli dedicherà il Guggenheim
Museum di New York nel 200040. Una corsa straordinaria.

39 Merlo, Italian fashion business cit., pp. 351-354.


40 Oggi è possibile visitare il museo che raccoglie molte sue produzioni presso
158 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Gianni Versace era un architetto ma alle spalle aveva anche una


certa esperienza sartoriale maturata grazie all’attività della madre a
Reggio Calabria. Anch’egli cominciò a viaggiare e fare esperienza
come stilista per vari marchi (Genny e Byblos dei Girombelli, Luisa
di Firenze, Les Copains) prima di creare una propria azienda nel
1978 a Milano. Coadiuvato in seguito dai fratelli Santo e Donatella,
e sostenuto da solide partnership produttive come quella con Zegna,
Versace conosce il suo successo negli anni Novanta, quando i suoi
abiti che coniugavano un’ispirazione classica (la Medusa, simbolo
del marchio) con una spinta tendenza sexy incontrarono il gusto
generale. Anche per la sua capacità di stare sulla scena, coinvolgen-
do star della fotografia come Richard Avedon e lanciando sulle sue
passerelle alcune delle più famose top model. Appassionato e capace
di costruire stretti legami con il mondo dello spettacolo e del teatro,
Versace fu anche attento agli aspetti imprenditoriali. Dopo la sua
drammatica morte a Miami, avvenuta nel 1997, la famiglia consolidò
il gruppo fondendo nella società principale tre sussidiarie (Istante
Vesa, Alias, Modifin) e rilanciando con nuove linee.
Fuori dai tradizionali canali della moda si situa anche l’inizio di
Gianfranco Ferré, architetto della moda per eccellenza, affascinato
dal design e dalla bigiotteria che disegnava anche per Walter Albini.
Nei suoi anni giovanili, fu molto influenzato dalla cultura e dall’arte
indiana, che ebbe modo di conoscere in numerosi viaggi. Anche per
lui, decisivo fu l’incontro con un imprenditore tessile, il bolognese
Franco Mattioli, con cui fondò una società, pure lui nel 1978 e sempre
a Milano. Mattioli produceva su licenza le prime linee, mentre le se-
conde erano affidate a Marzotto. Dal punto di vista estetico, Ferré di-
segnava vestiti ed accessori così riconoscibili per i loro tagli geometrici
da sembrare quasi architetture di tessuto. La sua fama crebbe al punto
che nel 1989 fu chiamato a dirigere la maison Dior a Parigi per vari
anni. Parallelamente iniziò la scalata al suo marchio da parte della IT

l’Armani Silos a Milano, che fornisce un significativo spaccato della sua carriera ar-
tistica e produttiva. Molto numerosi poi, su Armani e tutti i principali stilisti, sono i
libri fotografici, le biografie e i ritratti di taglio giornalistico e divulgativo, autorizzati
e non. Le biografie qui riportate sono estrapolate dallo spoglio delle principali riviste
di moda, in particolare «Vogue Italia» dal 1966 per la parte stilistica, e da quotidiani,
in particolare «MF Milano Finanza» e «MF Fashion», per la parte finanziaria ed eco-
nomica. In alcuni casi i dati sono integrati con materiali dell’archivio della Federazione
dei Cavalieri del Lavoro di Roma.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 159

holding di Perna, che ne acquisirà pieno possesso nel 2000, trascinan-


do in seguito il prestigioso brand in sfortunate vicende finanziarie41.
Un po’ diversa è la storia di un altro grande nome, Valentino Ga-
ravani, che ha alle spalle una formazione sartoriale classica. Inoltre
pur essendo lombardo di origine (Voghera), non lo è di elezione.
Plasmato da una fondamentale esperienza parigina, lo stilista apre la
sua attività a Roma in verità fin nel 1960 e diventa in breve uno dei
nomi più in vista dell’alta moda italiana, affiancato dal socio Gian-
carlo Giammetti per la parte finanziaria. E tuttavia, consapevole dei
cambiamenti in atto, decide di aprirsi in seguito alla moda pronta,
mantenendo sempre lo stile elegante e sofisticato che contraddistin-
gue i suoi abiti e accessori (come le borse in pelle prodotte su licenza
dalla veneta Gru.P. Italia o le linee giovani e casual licenziate alla Ita-
liana Manifatture dei Castelletti, di cui si serve anche Ferré, e al Ma-
glificio di Perugia di Umberto Ginocchietti)42. Decisione tempista,
considerato che il peso dell’alta moda, nonostante il suo indubitabile
ruolo di immagine, in pochi decenni scende sotto al 5 per cento del
fatturato complessivo, mentre la moda pronta vale 7-8 volte tanto, e
la quota preminente deriva dagli accordi di licenza43.
Cosa hanno in comune le famose “G” della moda italiana? L’ele-
mento forse più rilevante è l’attenzione nel costruire un marchio. Certo,
questo non è un fenomeno nuovo nella moda, ma ora gli stilisti fanno
delle loro stesse persone un brand e diventano i primi testimonial delle
loro produzioni. Ecco allora la necessità di apparire continuamente
sulla scena da protagonisti e il fenomeno per cui il marchio principale
si identifica tout court con nome e cognome del creativo (“Giorgio
Armani Spa”, “Gianni Versace Spa”, “Gianfranco Ferré Spa”, con l’u-
nica semplificazione di “Valentino Spa”), lasciando da parte nomi di
fantasia o cognomi di famiglia, come avveniva in genere per le imprese.
Brand e personaggio si confondono. Lo stilista diviene la star assolu-
ta, mettendo in ombra le altre componenti della filiera agli occhi dei
consumatori. Ecco allora che, più della qualità intrinseca del capo che

41 Eccellente esempio di conservazione e valorizzazione dell’opera e dell’archivio

dello stilista è dato dalla Fondazione Gianfranco Ferrè a Milano, guidata da Rita
Airaghi.
42 Per la storia e le creazioni di Valentino si può consultare l’interessante sito

http://www.valentinogaravanimuseum.com.
43
I dati si riferiscono al bilancio del 1997 (cfr. «MF Fashion», 3 novembre 1998).
160 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

molti hanno sempre più difficoltà a valutare, diviene centrale l’etichetta


con il nome. Tanto che si fa strada persino all’esterno, cucita sul capo,
o addirittura stampata o ricamata in bella evidenza, visto che è proprio
questa a garantire visibilmente la specificità del prodotto.

I marchi storici
Alle nuove tendenze si allineano anche marchi storici, nati cioè
prima degli anni Settanta. Fino a quel momento era prevalsa la figura
dell’imprenditore tessile, che al più si serviva a volte della consulenza
di un sarto. Ora molti comprendono il senso della “svolta stilistica”:
non basta più produrre come subfornitore, meglio passare alle licenze
(che pure hanno un elemento di rischio perché possono essere non
rinnovate), e meglio ancora costruire un proprio marchio autonomo,
anche in parallelo. Il focus aziendale non è più sulla produzione ma
si allarga al marketing, concentrandosi sul brand. Ecco allora che gli
imprenditori di seconda o terza generazione si trasformano in stilisti
oppure assumono stabilmente creativi affidando loro un ruolo centra-
le. Siamo di fronte quindi a veri imprenditori-stilisti, che si affiancano
agli stilisti puri che abbiamo visto, componendo un quadro variegato.
Qualche esempio? Pensiamo ai Missoni, straordinari interpreti
delle nuove tendenze, grazie alla reinvenzione della maglia e a un’o-
riginale interpretazione del colore. Partiti nel 1954 con un piccolo
maglificio a nord di Milano, subito famosi per i loro cardigan, sep-
pero rilanciare le loro maglie colorate per l’abbigliamento informale
ma anche urbano. Molto apprezzati fin dagli inizi negli Stati Uniti,
i Missoni aprirono un grande stabilimento produttivo a Sumirago
per avere il controllo della loro attività in tutte le fasi, se si eccettua
una linea data in licenza a Marzotto (M Missoni disegnata dalla figlia
Angela). Ottimo esempio di impresa con struttura familiare che sa
crescere e aprirsi ai mercati internazionali44.
Allo stesso modo, imprese operanti da tempo nella pelletteria si
trasformano in imprese di moda. La più nota è forse la ditta fondata
dai fratelli Prada a Milano nel 1913, come vedremo, ma possiamo ri-
cordare anche la Trussardi, nata a Bergamo nel 1911 per la produzio-

44 Si segnalano per la storia del marchio le molte iniziative della Fondazione Ot-

tavio e Rosita Missoni (mostre, pubblicazioni, collaborazioni culturali con università).


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 161

ne di guanti in pelle: sarà il nipote del fondatore, Nicola, a trasferire a


Milano la piccola azienda e creare un brand, moltiplicando i prodot-
ti contrassegnati pionieristicamente da un marchio ben visibile, un
levriero stilizzato, fino a lanciare collezioni di abbigliamento e jeans.
Già dai nomi fatti finora, colpisce la concentrazione di attività
nella città lombarda. Milano sembrava vivere un momento magico
negli anni Settanta e Ottanta. Nomi vecchi e nuovi davano vita a
quello che è stato definito un “nuovo Rinascimento”45: uno straor-
dinario picco di creatività, rinnovamento estetico, visione imprendi-
toriale che si raddensò dando vita al Made in Italy.
Tuttavia l’onda lunga di questa rinascenza nel mondo della moda si
estese oltre Milano e la Lombardia, coinvolgendo in primo luogo le sedi
storiche del tessile e dell’abbigliamento. Pensiamo alla zona dell’Emilia
Romagna per la maglieria. Qui negli anni Sessanta inizia l’avventura
imprenditoriale di Mario Bandiera, che punta sull’abbigliamento ma
soprattutto sul know-how locale riguardo alla maglieria e fonda la Bvm
Italia, che comprende vari marchi, fra cui il più noto è Les Copains.
Innovativa nelle linee e nei materiali (anche grazie a filati finissimi come
quelli di Filpucci), basata su varie ditte produttrici (Bvm, Fbp, Map,
Confit), l’impresa si avvale di vari creativi per disegnare i suoi prodotti
per i giovani. Originario dell’Emilia è anche Luciano Soprani, che pure
si trasferirà per lavorare a Milano, mentre non lontano, nel distretto di
S. Mauro Pascoli, zona Forlì-Cesena, va segnalato il settore delle calza-
ture con nomi che divengono notissimi: Sergio Rossi, Casadei, Pollini,
Baldinini (ai quali seguirà Vicini di Giuseppe Zanotti) – in concorrenza
con il distretto di Vigevano, dove brilla l’inventiva di Andrea Pfister46.
Sempre nelle calzature, nelle Marche cresce l’antica azienda familiare
dei Della Valle: con vari moderni stabilimenti di produzione, i nipoti
Diego e Andrea assicurano il successo dei marchi Tod’s e Hogan, oltre
che dell’abbigliamento marcato Fay.
A Firenze la Gucci conosce un formidabile sviluppo a partire
dagli anni Cinquanta, quando la seconda generazione, cioè i figli

45 A. Mancinelli, Donne di carta, in Milano è la moda. Inchiesta su un’unione di

successo da 30 anni, vol. 2, Class Editore, Milano 2005 (riprodotto in Professione PR.
Immagine e comunicazione nell’Archivio Vitti, a cura di E. Puccinelli, Skira, Milano
2011, p. 85). Il riferimento è a un’espressione di Francesco Alberoni.
46 L’archivio di Andrea Pfister è custodito presso il Centro di ricerca MIC dell’U-

niversità degli Studi di Milano.


162 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

del fondatore Guccio che era scomparso nel 1953, lancia prodotti
iconici molto apprezzati dal jet set del tempo (come la borsa Jackie O
per Jacqueline Kennedy). In seguito si apriranno problemi di eredità
e di gestione, negli anni Settanta, con la terza generazione, tanto da
costringere la famiglia a uscire dalla proprietà nel 1993 a favore della
Investcorp international (Bahrain) che risanerà e lancerà l’impresa in
borsa, mentre, grazie al creativo Tom Ford, il brand riprenderà quo-
ta a livello internazionale47. Sempre a Firenze, oltre a Ferragamo, di
cui parleremo a breve, e la rapida intensa esperienza di Enrico Cove-
ri, inizia la sua avventura Roberto Cavalli, stilista e pittore affascinato
dalla riproduzione su tessuto di elementi naturali, producendo con
continuità soprattutto dagli anni Novanta.
In un altro importante polo produttivo, quello di Biella, fra i tanti
nomi storici, è da segnalare l’evoluzione della Ermenegildo Zegna.
Dal lontano 1910 della fondazione, l’azienda si espande, generazio-
ne dopo generazione (fino ai fratelli Giorgio e poi Giulio), prima con
i tessuti e poi anche con l’abbigliamento. Dagli anni Ottanta, forte
anche delle competenze acquisite con importanti joint venture, co-
me quella già ricordata con Versace, la casa punta progressivamente
sulla costruzione di un proprio marchio nell’alta gamma, sostenuto
da una importante attività di produzione soprattutto italiana e da
una organizzazione commerciale molto rivolta all’estero. Una falsa-
riga seguita da altre grandi aziende di moda maschile, come la Cer-
ruti, sempre nel biellese, o anche le lombarde Canali e Corneliani, la
fiorentina Stefano Ricci, un po’ più tardi la veneta Pal Zileri, e infine
Herno, un’azienda novarese specializzata in impermeabili e più tardi
capi sportivi, che lavorò spesso su licenza (ad esempio con Jil San-
der) per poi lanciare il proprio marchio sia per uomo sia per donna.
Questo discorso ci ricorda un altro fatto importante, e cioè che
gli stilisti aprirono le passerelle alla moda uomo. Non che mancas-
se una tradizione sartoriale maschile ben stabilita, in Italia come a
Londra e Parigi, come si è visto; ma in fondo resisteva l’idea che il
vestito elegante da uomo fosse stabile, tradizionale, formale; mentre
era il vestito da donna a mutare di continuo con le stagioni. Sulla
scia dell’evoluzione culturale ed economica degli anni Sessanta e

47 Nella centralissima Piazza della Signoria a Firenze ha aperto dal 2011 un museo

che ripercorre le vicende della casa dalla sua fondazione.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 163

Settanta, gli stilisti italiani cominciano a sperimentare anche sulla


moda maschile, moderatamente, con linee più soft e destrutturate, o
arditamente, con colori forti e tagli inusuali. Non meno che le donne,
anche gli uomini potevano così costruire la propria immagine con gli
abiti. Di qui la necessità di sfilate e collezioni maschili. Già, perché
le prime sfilate di Giorgini a Firenze erano solo femminili, secondo
tradizione. Ci vorrà tempo per cambiare, finché nel 1972 si arrivò a
organizzare un evento interamente dedicato all’uomo a Pitti. Sarà un
importante momento catalizzatore per le aziende e gli stilisti italiani,
e marcherà un fondamentale passaggio culturale. Salvo che pochi
anni dopo, nel 1978, si assiste a un dejà vu: un gruppo di stilisti la-
scia le sfilate fiorentine e decide di sfilare a Milano (Armani, Albini,
Versace, Basile, Caumont). Il successo fu immediato e segnò l’inizio
di un nuovo equilibrio destinato a consolidarsi48.

Le donne
Perché dedicare un paragrafo alle donne stiliste? Per dare con-
to di un enigma e di una trasformazione. L’enigma è presto detto:
perché mai la maggioranza degli stilisti è costituita da uomini in un
settore dedicato da sempre principalmente alle donne, come clienti
e anche come produttrici, fossero semplici sartine o sarte famose?
È un po’ lo stesso problema che si pone nel campo della cucina,
storicamente nelle mani delle donne, ma dove i grandi chef sono
principalmente uomini.
Il punto qui riguarda la posizione culturale tradizionale riguardo
ai ruoli dei generi. La donna doveva mantenere preferibilmente un
profilo familiare o al più svolgere piccole attività artigianali; l’uomo
invece era la “persona pubblica” per eccellenza, colui che lavorava
in azienda, trattava con i clienti, gestiva i soldi, e in generale appa-
riva sulla scena. La crescita in senso imprenditoriale delle imprese
di moda favorì in questo contesto la presenza maschile – allo stesso
modo per cui le donne rimasero tra i fornelli nella cucina di casa, ma
il cuoco professionista, in spazi pubblici come ristoranti e alberghi,
risultò più facilmente un uomo.

48 B. Vitti, Dove si incontra la moda, in Milano è la moda. Inchiesta su un’unione

di successo da 30 anni, vol. 1, Class Editore, Milano 2004 (riprodotto in Professione


PR cit., p. 42).
164 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Attenzione però, perché gli studi di genere e di business histo-


ry ci avvertono che questa è una visione un po’ semplificata. Se è
indubbiamente vero che la presenza delle donne nelle imprese fu
limitata per motivi socioculturali, è anche vero che in realtà molte
donne c’erano, solo che non si vedevano. Erano come “invisibili”.
Questo perché lavoravano magari a fianco del marito, o comunque
in famiglia, ma non assumevano alcun ruolo ufficiale o pubblico;
talvolta finanziavano con le loro fortune le imprese di famiglia, ma
in maniera informale; o ancora lavoravano in piccole imprese che
apparivano poco e lasciavano scarse tracce nel tempo, come è ti-
pico ad esempio del settore dell’abbigliamento. Gli unici momenti
in cui erano chiamate ad assumere cariche importanti erano le fasi
di “vacanza”, ad esempio alla morte del marito titolare dell’impre-
sa – allora mostravano di colpo le conoscenze acquisite nel tempo.
Dunque la loro era una presenza diffusa ma sotterranea nel mondo
del lavoro imprenditoriale49.
Veniamo alla trasformazione. Le spinte culturali degli anni Ses-
santa e Settanta, l’aumento della scolarizzazione femminile, il rallen-
tato tasso demografico che porta a famiglie con pochi figli concorse-
ro ad avviare un percorso diverso. Le imprenditrici di tutti i settori
iscritte alle Camere di Commercio in Italia negli anni Sessanta erano
solo 64 mila; successivamente cominciò una lenta crescita che portò
il loro numero negli anni Ottanta a 600 mila e in quelli Novanta a
quasi 2 milioni, tanto che nel 2001 le donne imprenditrici erano il 25
per cento del totale50. Un grosso salto, che però vede i numeri italiani
ancora lontani da quelli europei e soprattutto l’attività femminile
concentrata in piccole imprese (scarsissime le loro presenze nelle
grandi società o nelle banche)51. Dunque una presenza importante,
forse sottovalutata, come dimostrano molte vicende di successo.
Una storia di vera self-made woman è quella di Mariuccia Mandelli,
famosa come Krizia. Appassionata di moda, la giovane bergamasca

49 K. Honeyman, Engendering enterprise, in «Business History», 43, January 2001,

pp. 119-126; A. Kwolek-Folland, Gender and business history, Introduction, in «Enter-


prise & Society», 2, 2001, pp. 1-10. Cfr. anche E. Scarpellini, The Business of Fashion,
in The Glamour of Italian Fashion, a cura di S. Stanfill, Victoria & Albert Publishing,
London 2014, pp. 233-236.
50 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., p. 472.
51
M. Bianco, F. Lotti, R. Zizza, Le donne e l’economia italiana, in «Banca d’Italia
– Questioni di economia e finanza», 171, giugno 2013.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 165

studia e crea con poche lavoranti modelli originali, con grande atten-
zione ai tessuti e alla maglia, agli abbinamenti di forme e colori, e una
passione nel rappresentare animali. Si fa notare nelle mostre, sulle pas-
serelle di Giorgini ed è tra le protagoniste della spinta verso la moda
pronta, che ha in Milano il nuovo riferimento. Qui crea aziende sue
ed è pioniera delle politiche di licensing e di estensione della marca
con accessori personali e design per la casa (famoso il suo profumo “K
di Krizia” del 1980). Anche Laura Biagiotti fu artefice della proprie
fortune, anche se partiva dall’esperienza di un’avviata sartoria di alta
moda creata dalla madre a Roma. Pure lei sfilò a Firenze e poi deci-
se di puntare sulle passerelle milanesi, abbinando alla qualità stilistica
dei suoi prodotti, soprattutto di maglia, l’attenzione alla produzione
industriale. I profumi giocarono anche qui un ruolo importante nella
costruzione del fatturato (“Roma”). Sempre nella capitale, le cinque
sorelle Fendi ereditarono dai genitori un piccolo atelier specializzato in
pellicce di pregio ma dagli anni Settanta trasformano profondamente il
brand. Grazie anche all’estro di Karl Lagerfeld, il marchio lanciò capi
pronti innovativi con parti di pelliccia oppure no, capi pronti di moda
e via via accessori anche per la casa, tutto rigorosamente firmato con la
caratteristica FF. Più a nord, a Vicenza, Laura Moltedo fonda una pel-
letteria specializzata in borse e accessori (Bottega Veneta), primo passo
di un lungo cammino che la porterà verso l’abbigliamento di lusso.
Poi ci sono le coppie famose. Abbiamo già parlato di Ottavio
Missoni e Rosita Jelmini, che iniziarono e proseguirono insieme la
loro avventura nella moda, dove in effetti era la moglie ad avere
esperienze nel tessile provenendo da una famiglia di artigiani tes-
sili. Una curiosità: Ottavio ottenne l’onorificenza di Cavaliere del
Lavoro nel 1993, Rosita nel 2014. Altro caso interessante è quello
di Ferragamo. Dopo avere lanciato con successo il suo marchio di
calzature di pregio negli Stati Uniti, Salvatore Ferragamo tornò a
Firenze, dove dal 1927 sperimentò modelli e materiali anche poveri
per continuare le sue creazioni negli anni del fascismo e della guerra.
Il dopoguerra lo vide impegnato in un rilancio ma nel 1960 morì,
lasciando in eredità alla giovane moglie Wanda Miletti l’azienda e
sei figli. Sarà Wanda a consolidare la fama di scarpe e pelletterie,
allargandosi anche all’abbigliamento e facendo crescere l’impresa
sui mercati internazionali, mantenendo rigorosamente l’ispirazione
e il nome originale (“Salvatore Ferragamo spa”). In Emilia, Mariel-
la e Walter Burani fondano nel 1961 un’impresa per produrre ab-
166 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

bigliamento per bambini, estesa nei decenni successivi alla moda


pronta d’alta gamma, acquisendo nel tempo licenze importanti (da
Valentino, Gai Mattiolo, Calvin Klein) e acquistando in seguito vari
marchi di pelletteria, fino allo stop dopo la quotazione in Borsa e le
successive vicissitudini legali nel 2010.
Le trasformazioni generazionali sono evidenti nel caso di Prada.
Insegna storica nel cuore di Milano per valigie e borse da viaggio per
una clientela elitaria, la boutique di Mario Prada prosegue l’attività
con pochi mutamenti fino al primo cambio generazionale nel 1958,
quando Luisa prende in mano le redini dal padre; ma i mutamenti
si vedranno solo con l’avvento della terza generazione, e cioè con
la nipote Miuccia nel 1978. Stilista dalle linee minimaliste e attenta
ai nuovi materiali, Miuccia si accorderà con l’imprenditore fioren-
tino Patrizio Bertelli per gestire l’espansione internazionale. Oltre
all’acquisizione diretta di brand prestigiosi, come Church’s, il mar-
chio cresce grazie a un complesso sistema produttivo che vede le sue
punte negli impianti milanesi e toscani, oltre che in varie licenze52.
Un marchio, quello di Prada, ben presente ora nel ristretto gotha dei
maggiori brand italiani. E quello che possiamo osservare qui, è che
la componente femminile è pienamente valorizzata.

Verso e oltre la crisi (anni Novanta)


Se gli anni Settanta erano stati quelli del travolgente sviluppo
pionieristico dello stilismo e gli anni Ottanta quelli dell’affermazio-
ne completa del sistema moda Italia, con il loro portato di glamour,
consumi ostentati e Milano da bere, le cose cambiano agli inizi degli
anni Novanta. Si afferma un nuovo minimalismo e un atteggiamento
più attento del consumatore, che prelude a una sostanziale compre-
senza di stili diversi, senza che nessuno risulti più dominante. A fare
da sfondo a questa svolta, troviamo la crisi economica che inizia nel
1992-93 e travolge la lira e i mercati finanziari. Anche la moda risente
della crisi: stilisti e ancor più produttori industriali. Si potrebbe dire
che intorno alla metà degli anni Novanta si chiuda un primo ciclo
e si assista a una ristrutturazione del mercato e del sistema moda.

52 Da segnalare la Fondazione Prada, con sedi a Milano e Venezia, attiva però

principalmente in campo artistico e cinematografico.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 167

Chi fa più le spese della crisi sono le piccole imprese, spesso


concentrate nei distretti: agiscono da camera di compensazione ma
alla lunga molte cedono, con il risultato di una forte contrazione
del peso dei distretti. Ma anche molti grandi nomi entrano in crisi,
a volte irreversibile, a seguito di una crescita tumultuosa e un forte
indebitamento. Il caso più eclatante è quello del Gft, che inizia un
percorso in salita che lo vedrà prima passare di mano in mano, per
poi avviarsi verso la chiusura definitiva nel 2002, mentre venti pe-
santi soffiano pure su aziende come Ittierre e Icap.
Ma c’è chi va e chi viene. In questa fase assistiamo infatti anche
al definitivo consolidamento di molti marchi storici, come pure all’e-
mergere di nuovi brand o di stilisti che conoscono ora il successo. Il
ventaglio si allarga.
Ci sono marchi che puntano su immagini decisamente diverse
della moda. Come i giovani Domenico Dolce e Stefano Gabbana,
un siciliano e un milanese, che propongono un messaggio ispirato
a forme e colori del Sud mediterraneo, staccandosi fin dalla prima
sfilata del 1985 dalle altre collezioni, e incontrando nel tempo un
successo tale da portarli in prima fila tra i grandi nomi della mo-
da italiana. Sempre a Milano, altrettanto fuori dalle righe è Romeo
Gigli, ispirato anche da Carla Sozzani, che crea modelli romantici
ed eterei – anche se nei decenni successivi andrà incontro a varie
peripezie legali causate dalla società licenziataria del marchio. E ad-
dirittura dissacratorio nei confronti dello stesso mondo della moda
è un altro milanese, Franco Moschino, stilista fuori dai ranghi, che
prima dà in licenza e poi cede la proprietà di maggioranza ad Alberta
Ferretti, creatrice di una importante impresa produttiva a Bologna,
la Aeffe, con linee come Alberta Ferretti e Philosophy e il controllo
di marchi come Pollini. Un interessante connubio di lusso e street
style è l’ispirazione di Costume National, promossa a Milano nel
1986 dai fratelli Ennio e Carlo Capasa, che si concentrano su design
e distribuzione, dando in licenza la produzione a case italiane come
Staff International e Leather company.
Un’altra tendenza che emerge in questi anni è il recupero di ma-
terie prime naturali e preziose. Come fanno Brunello Cucinelli e
Fabiana Filippi in Umbria per il cachemire. Il primo impianta la
sua attività nel borgo medievale di Solomeo ed avvia un’attività di
produzione ispirata ai metodi tradizionali, molto attenta anche ai
risvolti sociali ed ecologici del lavoro; il secondo è un grande gruppo
168 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

partito a Giano nel 1985, con una forte propensione agli investimen-
ti tecnologici e alla commercializzazione all’estero. La valorizzazione
del tessuto di base è anche alla radice dell’espansione dell’impresa
fondata da Gerolamo “Gimmo” Etro, famoso per i tessuti caratte-
rizzati dal motivo paisley; soprattutto con la seconda generazione e i
suoi quattro figli, l’azienda amplierà la sua produzione ad accessori,
profumi e infine a collezioni d’abbigliamento.
Prosegue anche in questa fase la grande attenzione per i capi
sportivi, presenti in moltissime collezioni, anche se alcuni marchi
fanno del fashion sportswear il fulcro della loro produzione. Come
Moncler, un’impresa nata in Francia e specializzata in abbigliamen-
to da montagna, fra cui i famosi piumini imbottiti di piume d’oca.
Dagli anni Novanta il marchio divenne di proprietà italiana e, dopo
vari passaggi, si consolidò in maggioranza in mano a Remo Ruffini a
Milano. Ma come detto, molte sono le case da aggiungere a questo
elenco: la già citata Herno, Alberto Aspesi, Cp company di Carlo
Rivetti, Blauer (Fgf industries) di Enzo Fusco, Industries Sportswear
Company e molti altri; mentre resta molto competitiva la produzio-
ne basata sulla maglieria, sportiva o con un mix di filati di pregio e
fibre tecno, come fanno le emiliane Gilmar della famiglia Gerani, in
particolare con il marchio Iceberg, e Blufin di Anna Molinari, con
Blumarine. Nelle calzature, si impongono vecchi e nuovi marchi di
scarpe da ginnastica, a cominciare da quelle Superga, marchio attivo
a Torino dal 1911 e noto per le scarpe in cotone e gomma vulcaniz-
zata, a lungo di proprietà della Pirelli.
Parlando di stile sportivo, il discorso non può che tornare sui
fashion jeans, che tanta parte hanno avuto nello sviluppo di prime e
seconde linee di moda. E qui va ricordato il ruolo giocato da vari im-
prenditori del Nord-Est, cioè di una delle aree trainanti dello sviluppo
di questi anni. È il 1978 e tre soci fondano il Genious group: Adriano
Goldschmied, Claudio Buziol e Renzo Rosso, lanciando marchi come
Replay e Diesel. Faranno scuola. Anni più tardi i tre si separano ma
i loro brand, vecchi e nuovi, continuano a crescere. Renzo Rosso, in
particolare, accanto al core business Diesel, nel tempo acquisisce e
produce nomi famosi, fra i quali Martin Margiela e Marni, oltre ad
acquisire licenze per Dsquared2, Just Cavalli, Marc Jacobs, Vivienne
Westwood – tutto sotto l’ombrello della Otb (Only the Brave). E alla
fine lancerà un brand da passerella come Diesel Black Gold, facendo
quasi al contrario la strada degli stilisti che avevano aperto verso il
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 169

basso le loro esclusive collezioni. Una strada imboccata invece di-


rettamente da un altro marchio veneto, Jacob Cohen, della famiglia
Bardelle, che punta già dal 1985 sui jeans di lusso53.
Quanti nomi e quante storie dietro la realtà degli stilisti italiani!
E molti altri potevano essere citati. Animal spirits: così il famoso eco-
nomista John M. Keynes definì gli imprenditori, il cui spirito selvag-
gio li spingeva a intraprendere, a lavorare e guardare verso il futuro
sempre con ottimismo. Nel mondo nascente della moda italiana, al
di là delle condizioni economiche, delle congiunture politiche e delle
spinte culturali, furono queste persone, questi spiriti liberi, ognuno
per la sua parte, a fare la differenza.

5. La “postproduzione” e il mondo dei media

Se avessimo chiesto a molti protagonisti di quel tempo a quale


aspetto bisognasse dedicare le maggiori attenzioni e dove fosse op-
portuno investire senza risparmiare, probabilmente avremmo avuto
una risposta quasi unanime: la comunicazione. Se è vero che questa
era da sempre una funzione basilare connessa all’abbigliamento, ora
assumeva un significato più specifico all’interno del nuovo sistema
moda, in quanto fulcro della costruzione del marchio. Terminata la
fase produttiva vera e propria, infatti, un abito ben disegnato e ancor
meglio prodotto sarebbe forse rimasto appeso a lungo sulla gruccia,
senza l’intervento di un lavoro di promozione postproduttivo, mira-
to ad accrescerne valore e significato. Ma nella pratica quali soggetti
potevano svolgere questo compito efficacemente?
Chi aveva capito per tempo il profondo legame tra moda e comu-
nicazione fu Roland Barthes. Nel suo pionieristico studio sul Sistema
della moda, pubblicato nel 1967, l’autore sceglie questo ambito per
dimostrare come l’abbigliamento si possa interpretare come un vero
e proprio linguaggio. Tuttavia, avendo a che fare con una realtà sia
simbolica che materiale, Barthes specifica che non si interessa al capo
fisico, ma si concentra sul “vestito rappresentato”, cioè fotografato e

53 Sull’evoluzione dei jeans cfr. M. Scheffer, Fashion design and technologies in a

global context, in The Fabric of Cultures, a cura di E. Paulicelli e H. Clark, Routledge,


London-New York 2009, pp. 130-144.
170 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

soprattutto descritto dalle riviste di moda, perché è lì che si distingue


meglio il processo di costruzione simbolica. In altre parole, lo studio-
so identifica con chiarezza nelle riviste specializzate il principale sog-
getto da interrogare per capire il senso della moda. Anzi, considerata
la quantità di persone che legge queste riviste e queste descrizioni, si
spinge a dire che l’immagine dell’abito ha una sua forma di fruizione
autonoma persino rispetto all’abito reale, perché costituisce una parte
della diffusa cultura di massa, al pari di cinema o fumetti54. Ecco allora
l’utilità si applicare concetti derivanti dallo strutturalismo di Ferdinand
de Saussure, come la differenza tra “costume” (che corrisponde alla
langue saussuriana), una specie di grammatica socialmente condivisa
che stabilisce le norme da seguire, e “abbigliamento” (parole), che ri-
guarda invece le scelte individuali su capi, colori, modi di indossare,
ecc. È solo l’unione di costume e abbigliamento che forma il concetto
generale di “vestito” (language). Quindi un primo punto di partenza è
che gli individui scelgono il loro abito con un relativo spazio di libertà
all’interno di un codice sociale predeterminato e non si può prescin-
dere da entrambi gli elementi per capire il senso del vestito. Un altro
concetto fondamentale è l’arbitrarietà che lega un certo suono (signi-
ficante) a un certo concetto (significato), tanto che lo stesso concetto è
indicato in modo diverso a seconda della lingua. Rapportato alla moda,
ciò implica che il legame tra un certo indumento e il suo significato è
arbitrario e incomprensibile al di fuori di un determinato codice di
riferimento. Ad esempio, un abito lungo non significa di per sé stesso
eleganza e formalità, dipende dalla società e dal momento (oggi è un
capo molto formale, ma qualche secolo fa era un capo per tutti i giorni).
Con questi e molti altri strumenti, Barthes analizza le pagine di riviste
come «Vogue», «Elle» e altre, disegnando un raffinato sistema di clas-
sificazione e analisi dell’indumento scritto. In realtà, alla fine il libro
risulta tutt’altro che un facile prontuario per capire il significato della
moda, non solo per la sua complessità, ma perché questo significato
appare troppo composito e multiforme per essere imbrigliato in una
sola analisi linguistica. Ma resta significativo per l’approccio scientifico,
lo sforzo di decostruire la retorica sulla moda e, per quanto riguarda il
nostro discorso, perché pone le riviste di moda al centro.

54 R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strut-

turale (1967), Einaudi, Torino 1970, pp. 5-12.


V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 171

Parlando di riviste di moda, un elemento da notare è che esse si


allargano gerarchicamente su tutto lo spettro sociale, vale a dire che
esistono riviste di moda, o femminili, con ampie sezioni ad hoc, per
ogni tipo di pubblico. È un settore maturo e molto segmentato, anche
rispetto ad altri comparti editoriali. Inoltre è sempre stato concentrato
storicamente a Milano, fin dai successi e dalle molte testate in mano
a Sonzogno e Treves a inizio Novecento. È fra le due guerre però che
si verifica una svolta, da quando cioè due nuovi importanti editori
entrano nel settore e portano nuove idee e nuove tecnologie. Le nuo-
ve idee sono riviste moderne, con fotografie oltre che illustrazioni, e
giornalisti specializzati nei settori di moda, cinema e cultura popolare;
le nuove tecnologie sono la stampa rotocalcografica per l’alta tiratura;
i nuovi editori in questione, infine, sono Angelo Rizzoli (con «Lei»,
trasformato per via della campagna fascista in «Annabella») e Arnoldo
Mondadori (con «Grazia»), ai quali nel primo dopoguerra si affianca
Edilio Rusconi (con «Gioia!» e «Rakam», alfiere quest’ultimo del fai
da te dei lavori femminili). Se queste testate erano rivolte a un pub-
blico medio-borghese e popolare, ma in ascesa e ricco di curiosità
culturali, raffinati periodici come i già citati «Lidel» e «Bellezza» o
anche «Dea» e «Fili» si rivolgevano invece all’alta borghesia55.
Le riviste di fascia media continueranno con successo anche nel
dopoguerra, arricchite nel 1962 da «Amica», pure di Rizzoli, che si
distingue per l’apporto di giornalisti del «Corriere della Sera» e la sua
apertura a scottanti temi di attualità. Fra le riviste di alta gamma, Emi-
lia Rosselli Kuster, vicina a «Domus», fonda la sofisticata «Novità»
nel 1950; questa, in seguito a una fusione, si trasformerà nel 1966 in
«Vogue Italia», rivista di punta del grande editore americano Condé
Nast. Mentre all’alta moda si dedica per due decenni (1965-1985)
«Linea italiana» di Mondadori, negli anni Settanta e Ottanta aprono
le testate italiane di grandi gruppi esteri: «Glamour», pure di Condé
Nast, «Marie Claire» e «Elle» (oggi di Hearst, prima di Hachette Ru-
sconi), a riprova del nuovo ruolo internazionale della moda italiana.
Questo breve elenco è solo esemplificativo perché il settore è fio-
rentissimo: nel 1975 le riviste di moda sono 125 e si mantengono sopra

55 R. Carrarini, La stampa di moda dall’Unità a oggi, in Storia d’Italia, Annali 19

cit., pp. 797-834; E. Puccinelli, Comunicare la moda. Editoria femminile e di settore


nell’Italia del secondo Novecento, in Fashion Studies. La moda nella storia, a cura di E.
Scarpellini, numero monografico di «Memoria e Ricerca», 50, 2015, pp. 81-96.
172 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

il centinaio per tutti gli anni Ottanta, per poi decrescere parzialmente56.
Ma le vendite restano alte: nel 1995, ad esempio, i femminili nel loro in-
sieme rappresentano oltre il 20 per cento nelle vendite dei settimanali e
il 23 per cento dei periodici, mantenendosi costantemente il principale
settore57. Né si poteva dire che il loro messaggio avesse poco impatto
sui consumatori, visto che molte indagini di mercato svolte fin dagli
anni Settanta testimoniavano come le donne giudicassero influenti per
i loro acquisti di moda proprio le riviste femminili, ad esempio al primo
posto in un’indagine del 1971 con il 62 per cento, davanti alle vetrine
dei negozi (59 per cento), alle sfilate (48), ai consigli delle sarte (43),
ai grandi magazzini e alle donne eleganti (42 entrambi) e ancora dal
personale dei negozi (37) e infine dalle amiche (29)58.
Il merito di questo grande successo va però suddiviso, non ci sono
soltanto gli editori. In primo luogo, quelli che danno forma e sostanza
alle riviste sono i giornalisti di moda, il cui ruolo non deve essere sot-
tovalutato. Molti di loro, anzi molte, visto che sono in maggioranza
donne, sono riuscite ad attirare l’attenzione sul nuovo Made in Italy,
a creare interesse, a inventarsi un modo per comunicarlo. Da poche
esperte che scrivevano su giornali di nicchia, le giornaliste di moda
diventano una categoria professionale influente. Molte di loro conia-
no nuovi termini e lanciano personaggi, come la veterana Anna Piaggi
dalle pagine di «Vogue». Altre conquistano faticosamente spazi prima
inimmaginabili sulle pagine dei grandi quotidiani, unendo analisi di
costume, moda e politica, come fanno Natalia Aspesi («la Repubbli-
ca»), Camilla Cederna, Lina Sotis, tutte grandi firme del giornalismo
italiano, o anche Adriana Mulassano e Paola Pollo («Corriere della
Sera»). Molti sono i nomi che vengono in mente per le riviste: Vera
Montanari, Cristina Brigidini, Pia Soli, Carla Vanni, Daniela Giussa-
ni, Ariela Goggi, senza dimenticare i giornalisti uomini, presenti in
misura crescente nelle testate pionieristicamente dedicate alla moda
uomo, come Franco Sartori e Flavio Lucchini («Uomo Vogue») o
in riviste di settore specializzate, come Gianni Bertasso («Fashion»,
«Mood»). Per inciso, quasi tutto passa attraverso la stampa, la tele-
visione qui ha un ruolo marginale, anche se non mancano giornaliste
specializzate come Mariella Milani. È il linguaggio di massa della tv

56 Carrarini, La stampa di moda cit., p. 59.


57 Fieg, La stampa in Italia (1995-1998), Milano 1999, pp. 26-27.
58 Dati inchiesta Demoskopea del 1971, in Paris, Oggetti cuciti cit., p. 382.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 173

che non si addice al mondo della grande moda, al massimo va bene


per le pubblicità dei profumi in licenza (così utili ai bilanci aziendali).
Per vedere bene all’interno del giornalismo di moda proviamo ad
analizzare la sua testata forse più prestigiosa, «Vogue». Le sue origini
negli Stati Uniti sono quasi leggendarie e si richiamano a un favolo-
so ballo organizzato a New York dai ricchissimi Astor nel dicembre
1892, al quale fu invitata tutta l’élite della città americana, i famosi
Four Hundred. La rivista nacque come sofisticatissima gazzetta per
questi quattrocento fortunati, per poi divenire un giornale di tenden-
za con l’editore Condé Montrose Nast. Ormai solidamente affermato
in Usa ed Europa, a metà Novecento il gruppo Condé Nast, in mano
ai Newhouse, decide di sbarcare in Italia, a Milano, acquisendo nel
1962 una bella rivista già esistente, «Novità». Nel 1966 la direzione è
affidata a Franco Sartori e il titolo cambiato in «Vogue Italia».
Gli inizi non sono semplici. Intanto, la concorrenza è agguer-
rita, le vendite sono limitate. Ecco allora che la rivista intraprende
una via diversa, favorita da sinergie con il gruppo di origine: cam-
bia grafica, usa carta patinata anziché opaca, muta formato, alza il
prezzo, e soprattutto punta sulla fotografia, che diviene la regina
delle pagine interne così come della copertina. Alla scrittura fitta, ai
consigli su come vestire, alle pagine di cronaca, al gossip sostituisce
sontuose immagini “d’autore” che suggeriscono un tipo di bellezza
femminile diversa, sofisticata, artistica, allusiva. Si può dire che sulle
sue pagine siano passati un po’ tutti i grandi nomi della fotografia
internazionale, a partire da professionisti poi molto famosi come
Richard Avedon, Helmut Newton, Irving Penn, Peter Lindbergh;
e si può dire anche che, grazie a questa e altre riviste, sia cresciuta
un’intera generazione di fotografi italiani, che usò la moda come
veicolo di affermazione. Molti divennero in breve noti, come Paolo
Roversi, Gian Paolo Barbieri, Giovanni Gastel, Mauro Testino; lo
stesso vale per Ugo Mulas e Alfa Castaldi, collaboratori da subito
rispettivamente di «Novità» e «Vogue Italia»; altri legarono il loro
nome a modelle famose, come nel caso di Franco Rubartelli con
Veruschka e, più tardi, Mario Sorrenti con Kate Moss. Altri ancora
divennero riferimenti per un produttore o uno stilista, come fu per
Aldo Fallai con Giorgio Armani, Oliviero Toscani con Benetton, e
Ferdinando Scianna, con la sua mitica Sicilia in bianco e nero, per
Dolce & Gabbana. Con un proprio studio fotografico, in genere a
Milano, o legati a qualche grande agenzia internazionale, come la
174 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

celebre Magnum, tutti seppero costruire un nuovo modo di vedere


e comunicare con le immagini59. Questo, senza dimenticare i grandi
illustratori, come Brunetta Mateldi e Alberto Lattuada.
Qui va aperta una parentesi. Si è spesso discusso dell’effettiva in-
fluenza che le fotografie di moda e le passerelle hanno nel definire
un canone estetico. Una posizione molto comune è quella di criticare
queste immagini perché spingerebbero i giovani a tentare di confor-
marsi a una bellezza stereotipata e irraggiungibile. Quanto c’è di vero?
Per cominciare, le caratteristiche delle immagini non sono univoche e
variano nel tempo. La rivista «Vogue» americana, secondo una ricerca
di Diana Crane, partì nel secondo dopoguerra con foto castigate di
giovani donne ritratte in luoghi alla moda come spiagge o città, con
al centro dell’obiettivo gli abiti e non le modelle. In seguito queste
ultime cominciarono a guardare direttamente in camera e assumere
atteggiamenti che Erving Goffman in un famoso studio definì come
“ritualizzazione della subordinazione”. In pratica le donne erano più
basse o più indietro rispetto agli uomini, con il capo reclinato da un
lato o il corpo inarcato come nelle pose di subordinazione tipiche di
molti animali – mentre gli uomini avevano il corpo ben eretto – o an-
cora erano distese oppure in pose contorte o atteggiamenti clowneschi
e infantili. In sostanza la foto costruiva un’immagine di donna passiva
e subordinata60. Negli anni Settanta e Ottanta la modella, giovanissi-
ma, è ora al centro dell’attenzione rispetto agli abiti, guarda fisso in
macchina, spesso è parzialmente nuda, e le manca intorno qualunque
accenno di paesaggio. Con il tempo anche il tipo fisico si diversifica,
variando dalla sessualità esplicita all’androginia61. Con quali risulta-
ti? Varie indagini recenti tra lettori e consumatori hanno dimostrato
come le foto di moda, al pari dei video e delle vetrine dei negozi,
rappresentino solo una delle molteplici fonti usate come riferimento,
abbiano un impatto diversificato a seconda del contesto e siano spesso
usate per costruire stili anche personalizzati62. Dunque esse rappre-

59 Lo sguardo italiano. Fotografie di moda dal 1951 a oggi, a cura di M.L. Frisa, F.

Bonami e A. Mattirolo, Charta, Milano 2005.


60 E. Goffman, Gender advertisements, Harper & Row, New York 1979, soprat-

tutto pp. 40-56.


61 Crane, Questioni di moda cit., pp. 233-235.
62 Ivi, pp. 230-233, 235-255; C.J. Thompson, D.L. Haytko, Speaking of Fashion:

Consumers’ Uses of Fashion Discourses and the Appropriation of Countervailing Cultu-


ral Meanings, in «Journal of Consumer Research», 1, 24, June 1997, pp. 15-42.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 175

sentano più un elemento della cultura visuale nel complesso universo


mediatico odierno che un diretto messaggio manipolatore.
Per tornare al discorso sulle riviste, alla fine le fortune di «Vogue
Italia» cambiarono. Dal 1988, anno in cui la direzione passa a Franca
Sozzani, il giornale acquisisce una piena maturità, aumenta i numeri di
uscita mensili, gli speciali e le riviste satelliti (per uomo, bambini, sposa,
accessori, casa, gioielli). La decisione presa di puntare sulla moda pron-
ta italiana è vincente: le tirature e gli introiti crescono in maniera espo-
nenziale e la direttrice Sozzani si afferma come una delle giornaliste di
moda più influenti a livello internazionale (fino alla sua scomparsa nel
2016), sulla scia della famosa Anna Wintour di «Vogue America»63.
Fin qui tutto bene. Le riviste specializzate hanno dimostrato di
rispondere in pieno al loro ruolo nel sistema moda che si è creato.
Ma la storia che abbiamo raccontato non dice tutto, ci sono anche
ombre. Già, perché proprio la stampa di moda ha ricevuto critiche
pesanti riguardo all’influenza ritenuta eccessiva della pubblicità. In
sostanza, molti l’hanno accusata di una sorta di frequente indistin-
zione tra articolo giornalistico, che si suppone obiettivo, e il servizio
pubblicitario, che si suppone di parte e a pagamento. Questo so-
prattutto per via degli “editoriali”, articoli di promozione nascosta
di marchi ed eventi. Qui entravano in gioco magari gli uffici stampa
degli stilisti e persino quei nuovissimi personaggi chiamati PR, inca-
ricati di tenere le relazioni pubbliche e organizzare eventi (mestiere
di cui fu pioniera in Italia Barbara Vitti)64.
Sono vere queste accuse? Sì e no. Sì, per il peso che la pubblicità
gioca oggettivamente nelle pubblicazioni, arrivando a occupare una
parte cospicua delle pagine totali, e per il suo peso determinante nei
bilanci editoriali. Sì, perché la presenza di “editoriali” in cambio di
investimenti pubblicitari è un fatto certo. No, perché la situazione non
è uguale per tutti, dipende dal giornale e anche dal periodo; e soprat-
tutto è tutt’altro che un fatto ristretto al mondo della moda. Se si mette
da parte il cliché di una stampa del tutto indipendente, nei bilanci dei
giornali si vede agevolmente come il modello prevalente sia quello del

63 N. Angeletti, A. Oliva, In Vogue. La storia illustrata della rivista di moda più

famosa del mondo, Rizzoli, Milano 2012. È disponibile l’archivio online della rivista
su http://www.voguearchive.it.
64 Puccinelli, Professione PR cit. L’archivio di Barbara Vitti è depositato presso il

Centro di ricerca MIC (Moda Immagine Consumi) dell’Università degli Studi di Milano.
176 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

binomio fatto da ricavi editoriali più pubblicità, altrimenti i conti non


tornano. Anche le riviste di attualità e i grandi quotidiani seguono
questo standard, con l’eccezione forse di alcuni organi di partito o
cooperative giornalistiche che ricevono aiuti pubblici, rischiando però
di scambiare un’influenza di tipo economico con una di tipo politico.
In altre parole, al massimo per la moda è una questione di misura.
No, infine, per una ragione di carattere più generale. Va ricordato che
gli stilisti non si sono mai serviti per la loro promozione delle grandi
agenzie di pubblicità, come avviene negli altri settori di consumo, ma
hanno gestito direttamente i loro servizi, di solito tramite i fotografi
più noti – gli stessi che lavoravano per le riviste. Allo stesso modo,
nella preparazione del giornale si assisteva a un continuo scambio fra
produttori e giornalisti, un intenso rapporto bilaterale, dal quale na-
sceva un unico linguaggio, quello della moda65. Si potrebbe quindi
dire che il codice fotografico e linguistico che caratterizza la moda ita-
liana moderna sia stato co-prodotto da stilisti e riviste. Sarebbe perciò
riduttivo parlare solo di eccessiva influenza della pubblicità quando
la stampa di moda ha fornito un contributo formidabile alla creazione
stessa dell’immagine del Made in Italy.

6. Le istituzioni e il ruolo di Milano

Il quinto asso nella manica della moda pronta italiana, e di Mila-


no in particolare, è la presenza di una estesa rete di servizi utili alle
manifestazioni del settore. Questa comprende servizi di base, come
ospitalità e trasporti (aeroporti, alberghi, ristoranti, luoghi adatti per
manifestazioni ed eventi), e servizi specializzati (giornali, agenzie di
stampa, studi fotografici, agenzie di modelle e casting, show room e
agenzie di distribuzione, società di Pr e pubblicità). Ma soprattutto
comprende istituzioni in grado di promuovere il settore e di orga-
nizzare manifestazioni di richiamo internazionale.
Abbiamo visto come in passato questo sia stato uno dei pun-
ti deboli del sistema italiano, per via dell’esasperato campanilismo
tra le città. Mentre Roma rimaneva legata all’alta moda, schierando

65 Sui codici linguistici della moda cfr. G. Sergio, Dal “marabù” al “bodysuit”:

“Vogue Italia” e la lingua della moda, in Fashion Studies cit., pp. 97-114.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 177

anche nuovi nomi, come Rocco Barocco, ma soffriva per la caduta


d’immagine di questo settore esclusivo, Firenze si rilanciava in parte
diversificando le sue rassegne a Pitti nel corso degli anni Settanta,
dedicate ora anche a Uomo, Bimbo, Filati, Casual, Casa, ma perden-
do la centralità originaria66.
Milano invece creò nuove manifestazioni, anche sulla scia del suc-
cesso della Fiera Campionaria. Erano già attivi il salone specializzato
Mipel (Mercato italiano della pelletteria) dal 1962; nonché Milano-
vendemoda dal 1969, per iniziativa di Roberto Manoelli che aveva
allestito una grande fiera commerciale del tessile-abbigliamento prima
sotto i tendoni del circo Medini e poi nei palazzi appena terminati a
Milano2 da Silvio Berlusconi. Nel 1978 nacque il Modit, sponsoriz-
zato dagli industriali tessili e promosso da un brillante Pr, in seguito
definito “primo ministro della moda italiana”: Beppe Modenese67. Dal
Modit scaturì nel 1979 il Centro sfilate che diede vita a Milano Colle-
zioni, la prima rassegna organizzata di sfilate milanesi presso la Fiera
di Milano (prima le sfilate erano organizzate autonomamente dagli sti-
listi e da agenzie specializzate nei principali alberghi della città)68. Nel
1990 l’organizzazione delle sfilate passò alla Camera nazionale della
Moda, che assunse così una assoluta centralità nel fissare i ritmi del
settore, anche grazie a personaggi a lungo di primissimo piano come
il già citato Beppe Modenese e l’industriale della seta Mario Boselli.
In questo processo va segnalato anche il supporto fornito dalle as-
sociazioni imprenditoriali. A lungo protagonisti principali della scena,
gli industriali contribuirono anche in questa fase dando il loro appog-
gio a saloni e manifestazioni. E ciò riguardò sia le associazioni più
antiche e prestigiose (quelle dei lanieri, dei cotonieri e degli industriali
serici risalivano addirittura a fine Ottocento) sia quelle relativamente
più recenti ma in forte espansione, come quelle della nobilitazione
dei tessuti, dei produttori di maglieria-calzetteria e infine dell’abbi-
gliamento. È interessante osservare come la consapevolezza che un
punto di debolezza della filiera italiana fosse stata per molto tempo
una certa anarchia organizzativa abbia portato in questo periodo a

66 Pinchera, La moda in Italia e in Toscana cit., pp. 311-336.


67 La definizione è attribuita alla giornalista Adriana Mulassano (cfr. varie testi-
monianze in L. Stoppini, B.M. Beppe Modenese. Ministry of elegance, Skira, Milano
2013).
68 Paris, Oggetti cuciti cit., pp. 451-455, 480-494.
178 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

una svolta, basata sull’autorganizzazione. Così mentre da una parte


gli stilisti, riuniti nella Camera nazionale della Moda, accettavano
un’opera di mediazione per comporre rivalità personali anche accese,
dall’altra gli industriali si mossero in maniera sempre più unitaria, se-
guendo una linea di azione che avrebbe portato nel 2005 le principali
organizzazioni sindacali a unificarsi in un’unica rappresentanza, poi
denominata Sistema Moda Italia (Smi)69. Si consolidava così anche
istituzionalmente la filiera della moda.
Per tornare alle manifestazioni milanesi, non sarà sfuggito come un
punto di riferimento fondamentale fossero le sfilate. Proprio queste
raccontano molto sull’evoluzione del settore in generale e della moda
milanese in particolare. Per secoli nessuno ne aveva sentito il bisogno:
i modelli circolavano nell’alta società e oltre grazie a figurini stampati,
alle bambole ben agghindate, ai manichini. Nella Parigi ottocentesca
Charles F. Worth fu il primo a far indossare i suoi modelli a donne vere
con notevole successo; in seguito Paul Poiret portò per la prima volta
una sfilata di modelle fuori del suo atelier, in luoghi pubblici.
Già da fine Ottocento le manifestazioni parigine costituivano il
centro della vita produttiva e mondana della moda internazionale,
ma al di fuori della Francia mancava del tutto una struttura organiz-
zativa stabile. Ne è una riprova il fatto che per le sue sfilate fiorenti-
ne Giorgini dovette ricorrere a signore aristocratiche, in assenza di
professioniste. Fu negli anni Sessanta e Settanta che si formò un vera
classe di indossatrici (per gli abiti) e fotomodelle (per i servizi foto-
grafici), complice anche lo sviluppo della stampa e della fotografia
di moda, destinate a divenire sempre più protagoniste della scena
sotto l’unica categoria di modelle70. La loro principale caratteristica
fu un’età decisamente più bassa, come nel caso di Twiggy, icona della
rivoluzione giovanile, o Veruschka, dal fisico sexy e longilineo71. La
maggioranza era però ancora costituita da giovani ragazze anonime
relativamente poco pagate. Non è un caso che le fotografie di moda
ancora per tutti gli anni Settanta riportassero sempre la descrizione

69 Dal 2018 un ulteriore passo associativo vede tutte le aziende di tessile, ab-

bigliamento, accessori, articoli ottici e pelletteria (Smi, Fiamp, Anfao, Aimpes, Aip
e altre) raggrupparsi in Confindustria Moda, seconda rappresentanza di settore in
Confindustria.
70 Svendsen, Filosofia della moda cit., pp. 109-110.
71
H. Koda, K. Yohannan, Model as Muse: Embodying Fashion, Metropolitan Mu-
seum of Art-Yale University Press, New York-New Haven 2009.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 179

dell’abito e del marchio, a volte quella del tessuto, ogni tanto il no-
me del fotografo, e quasi mai il nome della modella, come è facile
osservare sfogliando gli archivi fotografici.
La svolta per la categoria avvenne negli anni Settanta, grazie an-
che all’avvento della moda pronta italiana. Per costruire al meglio
l’immagine di un brand che comunicasse un messaggio di distinzione
sociale a un nuovo pubblico, relativamente ampio, era necessario un
sistematico lavoro promozionale attraverso la pubblicità e la stampa,
come si è visto. Certo, l’ideale era trovare un momento catalizzatore,
spettacolare, che attirasse l’attenzione di tutti. Cosa c’era di meglio di
una sfilata-spettacolo? Si otteneva un duplice scopo: la presentazione
commerciale degli abiti stagionali e insieme un ritorno di immagine
e una pubblicità indiretta che ben giustificavano costi organizzativi
anche elevatissimi. Ecco allora che le sfilate, rigorosamente divise
nelle due collezioni autunno/inverno e primavera/estate (a gennaio e
giugno per l’uomo, febbraio e settembre per la donna), divennero l’e-
vento clou del sistema mediatico della moda, con le modelle in prima
fila davanti ai riflettori. E si assestò un preciso ordine delle principali
manifestazioni internazionali: New York, Londra, Milano, Parigi.
Gianni Versace puntò per primo sul fascino delle top model,
quasi pensando a uno star system per certi versi analogo a quello
hollywoodiano. In una sua famosa sfilata per l’autunno 1991, sulla
passerella si incrociarono Linda Evangelista bionda platinata, una
sofistica Christy Turlington, Cindy Crawford con una capigliatura
leonina, Naomi Campbell con un taglio a caschetto e altre anco-
ra (Helena Christensen, Carla Bruni, Claudia Schiffer, Stephanie
Seymour). Prima sfilarono tutte con abiti neri, stivali e accessori
pure neri, poi con combinazioni nero-colore. Dopo l’uscita di quasi
cento abiti, alla fine le quattro più note modelle del momento, Evan-
gelista, Crawford, Campbell e Turlington uscirono insieme, ognuna
con un vestito corto di colore diverso (rosso, nero, giallo e blu), ab-
bracciate, e cantando le parole della musica di fondo: Freedom! ’90
di George Michael. Fu un momento esaltante, con tutto il pubblico
in piedi, comprese molte celebrities del mondo dello spettacolo invi-
tate all’evento72. Fu forse la consacrazione delle supermodelle come

72 È possibile vedere foto e video di questa sfilata su una pagina di «Vogue» che

presenta alcune delle più famose sfilate degli anni Novanta (quella di Versace è la n. 2):
180 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

protagoniste dentro e fuori le passerelle, come nuovi modelli estetici


di riferimento (e compensi stratosferici). Nella loro diversità mostra-
vano infatti tutte un fisico appariscente e statuario, proponendosi
come icone di una bellezza perfetta73.
Anche se furoreggiavano sulle riviste e in video, non mancarono
le critiche. In particolare veniva loro rimproverato di proporre un
modello di bellezza inarrivabile, creando problemi e complessi alle
donne comuni74. Ma il più duro attacco al regno delle top model
arrivò da una direzione inaspettata. Nel 1990 la rivista inglese «The
Face» pubblicò un servizio fotografico di Corinne Day che ritraeva
una ragazzina di 15 anni, molto magra, alta “solo” 170 cm, con tante
lentiggini e denti un po’ grandi, che indossava (pochi) vestiti su una
spiaggia dell’Essex, con un’aria naturale e un po’ ribelle. Lontanissi-
ma dai canoni imperanti, la giovane Kate Moss proponeva un cano-
ne di bellezza molto più ordinario. La modella continuò lavorando
quindi per Calvin Klein, sia per i profumi che per le sfilate, suscitan-
do polemiche per la sua estrema magrezza – i giornali la accusarono
di spingere le giovani verso l’anoressia – e allo stesso tempo otte-
nendo un grandissimo successo75. I nuovi street styles che si stavano
facendo strada negli anni Novanta e soprattutto l’arrivo di creatori
“minimalisti” come Helmut Lang, Calvin Klein e soprattutto Prada
sancirono il trionfo di questo nuovo modello. Alle supermodel fe-
cero seguito così le waif, magrissime ragazzine dall’aria vagamente
sofferente. La sfilata della primavera 1996 di Prada è significativa in
questo senso. Le modelle sfilano mostrando completi con camicia
tipo uomo e gonna marrone, abiti a fantasie un po’ retrò, cappotti
a quadri combinati verdi e marroni, sandali bassi: uno stile solido,
semplice, opposto a quello della manager in carriera. E questi abiti

http://www.vogue.com/13298028/marc-jacobs-versace-prada-vogues-25-best-90s-
shows.
73 P.C. Gibson, Fashion and celebrity culture, Bloomsbury Academic, Oxford-

New York 2012, pp. 196-200.


74 Per il dibattito culturale sul corpo femminile cfr. Miller, Fashion and Music cit.,

pp. 147-153 (cita le esibizioni in passerella di Beth Ditto).


75 Gibson, Fashion and celebrity culture cit., pp. 200-204; J. Entwistle, The aesthe-

tic economy of fashion: markets and value in clothing and modelling, Berg, Oxford-New
York 2009, pp. 71-72. Sul tema della magrezza cfr. U. Thoms, Consuming Bodies: The
Commodification and Technification of Slenderness in the Twentieth Century, in Globa-
lizing Beauty: Aesthetics in the Twentieth Century, a cura di H. Berghoff e T. Kühne,
Palgrave Macmillan, New York 2013, pp. 41-59.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 181

sono indossati con naturalezza da modelle dall’aspetto adatto, ma-


gre, non convenzionali, a volte vagamente androgine, come Kate
Moss, ovviamente in prima fila, ma anche Kristen McMenamy, Stella
Tennant, Cecilia Chacellor76. Era iniziata un’era diversa.
Anche se l’era delle superwaif terminò, qualcosa rimase del loro
retaggio. Le modelle degli anni successivi non tornarono più a essere
le regine di un tempo. Per vari motivi. In primo luogo, molti stilisti
preferiscono modelle meno appariscenti così da non mettere l’abito
in secondo piano rispetto al personaggio. In secondo luogo, per un
ovvio motivo economico. In terzo luogo, forse più importante, per
un motivo culturale, e cioè per la forza di miti concorrenti. Sappia-
mo che la moda ha da sempre uno stretto legame con le celebrità
dello spettacolo, a cominciare dalle star del cinema e della musica,
alle quali ora si aggiungono anche quelle dello sport, icone fisiche
e culturali del nuovo millennio. Ebbene, il posto di questi nuovi
personaggi amati dal pubblico non è più solo ai lati delle passerelle,
ma spesso anche sopra, a catalizzare l’attenzione dei mass media e
sancire ancora di più il legame strettissimo tra moda e spettacolo,
ponendo però mediaticamente in ombra le professioniste della pas-
serella.
Il risultato è la proposta di modelli eterogenei nelle sfilate, a se-
conda dello stilista e del momento, con attenzione crescente a indos-
satrici provenienti da paesi differenti, a cominciare da quelli orienta-
li. In comune fra le modelle resta la giovane età (tipicamente 16-21
anni), l’altezza (175/180 cm), la marcata magrezza (taglie 38-40). Ed
è significativo notare come si sia verificata una certa convergenza
anche con i modelli maschi, di solito in ombra rispetto alle colleghe
donne, che hanno visto accentuarsi nel tempo uno stile similare,
caratterizzato dalla giovinezza, dall’altezza (185/190 cm) e dalla ma-
grezza (taglie 48-50). Misure peraltro su cui hanno avuto una certa
influenza anche le numerose agenzie di modelle sorte a Milano (sen-
za contare le succursali di società estere), fra cui molto conosciute
Riccardo Gay, Elite, Fashion, Beatrice, Why Not, Woman Manage-
ment. I nomi delle nuove modelle sono dunque ora sconosciuti alla
gente comune, anche se ben noti nell’ambiente (e fra di essi anche
vari nomi italiani: Bianca Balti e Mariacarla Boscono, in primo luo-

76 Vedi le immagini della sfilata di Prada nella già citata pagina di «Vogue» (sfilata n. 3).
182 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

go, e dopo di loro le giovani Greta Varlese e Vittoria Ceretti). Ma il


loro ruolo rimane centrale.
Forse chi è riuscito a sintetizzare meglio questo ruolo è stata
Vanessa Beecroft. Nelle sue installazioni, l’artista presenta gruppi
di modelle altissime, statuarie, molto simili tra loro per stile e abiti
succinti (dolcevita nero e slip), che rimangono ferme, senza parlare,
senza muoversi. Non guardano gli spettatori negli occhi, quasi fos-
sero manichini77. In altri casi le installazioni sembrano un misto di
sculture e persone, come nella performance realizzata a Genova nel
2001, con trenta modelle nude in piedi nel grande salone di Palazzo
Ducale, con i corpi scuri colorati come statue78. Il loro linguaggio
è solo quello del corpo, la loro funzione è solo quella edonistica, la
loro vita rifluisce nella sola immagine. Così le modelle rappresentano
quasi l’essenza della società contemporanea.
Fu così, per concludere, che il sistema della moda italiana giunse
a maturazione ed ebbe successo, facendo interagire innovazioni e
fattori di lungo periodo, e ottenendo un risultato finale che eccedeva
di gran lunga la somma delle sue componenti, il Made in Italy.

77 V. Beecroft, Performance detail, performance e stampa fotografica, 1996.


78 Id., VB48, performance e fotografie, 2001.
VI

LE SFIDE DEL VENTUNESIMO SECOLO

1. La globalizzazione

In un ufficio della prestigiosa rivista di moda «Runaway», la potente di-


rettrice Miranda Priestly osserva con distacco critico il campionario di vestiti
che ha davanti. Tutta roba già vista. Inutilmente le sue assistenti si danno da
fare, illustrano i capi, corrono qua e là. Neanche le ascolta. Ecco, forse c’è
un vestitino di tulle più originale, ma andrebbe accompagnato da qualche
accessorio, come suggerisce il suo vice Nigel. Subito un’assistente presenta
due cinture, molto indecisa sulla scelta. Ed è qui che la nuova arrivata, l’ap-
prendista Andy, non sa trattenere un risolino: le due cinture le sembrano
perfettamente uguali, tra l’altro dello stesso colore del suo golf azzurro!
Non l’avesse mai fatto. Miranda, e dopo di lei tutti i presenti, si gira a
guardarla in un silenzio imbarazzante. Poi, inaspettatamente, spiega. “Ma
certo, ho capito. Tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te.
Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infel-
trito, per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul
serio per curarti di cosa ti metti addosso”. Quel maglioncino, prosegue,
per cominciare è di un colore particolare, non è azzurro ma ceruleo. Un
colore lanciato quattro anni prima in una collezione di gonne da Oscar De
La Renta, poi ripreso nelle giacche militari di Yves Saint-Laurent. Dopo di
che il ceruleo era apparso in otto collezioni diverse di grandi stilisti. Con il
tempo, quel colore aveva fatto la sua comparsa nei capi proposti dai grandi
magazzini, e infine, in rivendite e negozietti casual sparsi un po’ ovunque
– probabilmente dove Andy aveva pescato il suo golf, in mezzo a mille oc-
casioni. Dunque esso era il risultato di una lunga catena e il frutto di grandi
investimenti finanziari e molto lavoro. “Siamo al limite del comico quando
penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori dalle proposte della
moda”. In un certo senso, proprio quel golfino ceruleo era il risultato ulti-
mo del lavoro che stavano facendo in quella stanza di «Runaway».
(Il diavolo veste Prada, diretto da D. Frankel, Usa 2006)
184 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Il diavolo veste Prada ha avuto molto successo sia come libro,


scritto nel 2003 da Lauren Weisberger dopo l’esperienza come as-
sistente di Anna Wintour a «Vogue» per dieci mesi, sia come film,
grazie al regista Frankel e a interpreti di primo piano come Meryl
Streep e Anne Hathaway. E non è da sottovalutare il suo messaggio.
Al di là dell’icastica rappresentazione del mondo della moda e dei
suoi protagonisti, esso mostra la sua grande influenza sui media,
sulla cultura visuale, sull’abbigliamento di tutti i giorni – come viene
spiegato a una mortificata Andy. Il lavoro sottolinea però anche un
altro aspetto, e cioè la forte internazionalizzazione della moda, per
via dei riferimenti a stilisti di molte nazionalità, a mercati distanti, a
sfilate nelle diverse fashion cities, a partire da Parigi. Ed evoca in tal
modo una delle caratteristiche fondamentali del periodo che si apre
da metà anni Novanta e investe il XXI secolo: la globalizzazione.
In realtà, se c’è stato un settore internazionalizzato fin dai suoi ini-
zi, questo è stato la moda. Per l’Italia, basti pensare ai rapporti conti-
nui con altre realtà culturali e produttive (Parigi, Londra, New York),
ai rifornimenti di materie prime e tessuti da varie parti del mondo, alla
creazione di un mercato pensato fin dalle origini anche per l’export,
alle continue ispirazioni e gli scambi culturali provenienti da lontano
rintracciabili nelle collezioni degli stilisti. Cosa muta allora? Si può
dire che ci sia un cambio di marcia. A lungo l’internazionalizzazione
si era svolta in buona parte all’interno dell’asse Europa-Stati Uniti,
quindi dentro l’Occidente. Ora la globalizzazione si apre al resto del
mondo, a cominciare da paesi emergenti come Cina, India, Russia e
Brasile, ai quali si aggiunse il Sudafrica, i famosi BRICS – che peraltro
perderanno molti colpi dopo la crisi del 2008, complici problemi in-
terni e la caduta dei prezzi di alcuni prodotti primari.
Il nuovo principale asse di interscambio diventa dunque quello
ovest-est, anche se è una direttrice non certo nuova. È stato sot-
tolineato come l’Oriente abbia spesso rappresentato il fascino del-
l’“altro” per gli occidentali1. Questo fino dai tempi del colonialismo
ottocentesco, quando i tessuti e soprattutto le sete orientali riem-
pivano le manifatture anche italiane, e stili e prodotti giapponesi,
cinesi e indiani ispiravano molti produttori. Una seconda riscoperta

1 S. Segre Reinach, Moda e globalizzazione: i nuovi scenari internazionali, in

Fashion Studies cit., pp. 51-65.


VI. Le sfide del ventunesimo secolo 185

dell’Oriente avvenne nella fase della controcultura, quando hippies


e contestatori sfilavano per le città italiane con camicie a collo bas-
so, scialli, tuniche e tessuti ispirati a un mondo lontano e diverso
da quello della corrotta società occidentale. Infine a partire dagli
anni Ottanta acquisirono notorietà internazionale stilisti giapponesi
come Kenzo e Issey Miyake, seguiti da Yohji Yamamoto e Rei Ka-
wakubo, sulla scena di Parigi però2 (e questo fu visto con sospetto
da studiosi del postcolonialismo come Gayatri Spivak3). Ma fu solo
l’inizio di uno sviluppo crescente e autonomo in Giappone, così co-
me in Cina, India e altri paesi asiatici, che si proposero come nuovi
riferimenti sia per lo stile sia per la produzione.
Ovviamente il rapporto tra diversi modi di vestire non è sem-
plice. Un antropologo non avrebbe dubbi: ogni cultura ha un suo
significativo modo di abbigliarsi, e anche vestirsi solo di tatuaggi e
perline ha un profondo senso simbolico. In ogni caso, sono molte
le società, in genere complesse e stratificate, che hanno dato vita
storicamente a complessi sistemi vestimentari fuori dall’Occidente4.
È evidente però che la moda europea, francese in primo luogo, ha
avuto un impatto culturale preponderante, complici da un lato il
colonialismo e dall’altro gli sforzi di modernizzazione all’occidentale
compiuti ad esempio dalla Russia di Pietro il Grande nel Settecento
o dal Giappone dei Meiji a metà Ottocento. Per via della pressione
dei moderni mass media e di un robusto apparato produttivo, infine,
il vestito occidentale elegante o casual si è diffuso un po’ ovunque.
Ma con molte problematiche. Spesso è stato reinterpretato e adat-
tato ai nuovi contesti, a volte è stato contestato in nome della tradi-
zione (talora ricreata ad hoc), altre volte si è talmente integrato da
perdere le caratteristiche distintive iniziali. Talora è diventato persi-
no l’emblema da contestare nelle lotte nazionalistiche: basti pensare
all’uso del semplice khadi in cotone di Gandhi o agli abiti tradizio-

2 S. Segre Reinach, Un mondo di mode. Il vestire globalizzato, Laterza, Roma-Bari

2011, pp. 13-18.


3 G.C. Spivak, A Critique of Postcolonial Reason. Toward a History of the Vanishing

Present, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1999, pp. 347-357.


4 G. Riello, La moda che verrà: verso una storia globale della moda, in Moda. Storia

e storie, a cura di M.G. Muzzarelli, G. Riello e E. Tosi Brandi, Bruno Mondadori,


Milano 2010, pp. 28-37; K. Tranberg Hansen, The World in Dress: Anthropological
Perspectives on Clothing, Fashion, and Culture, in «Annual Review of Anthropology»,
33, 2004, pp. 369-392; C.M. Belfanti, Civiltà della moda, il Mulino, Bologna 2008.
186 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

nali indossati dai leader dei paesi africani in riunioni internazionali5.


In ogni caso, ovunque la sua diffusione è stata accompagnata da uno
sguardo reciproco e da un’estesa polisemia.
Queste forme di multiculturalismo si sono intensificate con la
globalizzazione. La velocità di spostamento di merci e capitali, le tec-
nologie informatiche, la mobilità delle popolazioni hanno portato a
mutamenti profondi. La moda ne è stata investita in pieno. Le pro-
duzioni anche italiane hanno visto dunque allargarsi la geografia di
riferimento e moltiplicarsi le capitali della moda a cui guardare, oltre
alle quattro tradizionali dove si tenevano le sfilate di riferimento (Pa-
rigi, Londra, New York e la stessa Milano). L’esigenza di rispondere
a crescenti pluralità di forme e stili ha spinto verso una maggiore
frammentazione e varietà nelle proposte creative. In alcuni casi, si
è apertamente fatto riferimento a mercati con esigenze diverse. Ad
esempio, si sono creati eventi speciali, come la spettacolare sfilata di
88 modelle sulla Grande Muraglia per Fendi nel 2007, oppure la pre-
sentazione di collezioni create appositamente, come quella di Gucci
per le Olimpiadi nel 2008 a Pechino, o modificate per l’occasione, co-
me quella di Prada sempre a Pechino nel 2011 per il Central Academy
of Fine Arts Museum. Un altro caso, cambiando area geografica, è la
proposta della collezione Abaya di Dolce e Gabbana nel 2016 che si
rivolge al fiorente mercato islamico del modest fashion, con modelli
di hijab e abaya dai colori nero e beige, affiancati da ricchi accessori,
a volte molto colorati. Tutto mantenendo ferme alcune caratteristiche
dei marchi e dell’immagine del Made in Italy, che sembra evolversi
verso un’accezione più ampia, più culturale che geografica, che qual-
cuno ha suggerito di definire un metabrand, oppure come “made
from Italy” o “made by Italy”6. E proprio sui nuovi aspetti economici
e organizzativi legati alla globalizzazione si gioca una prima fonda-
mentale sfida per i produttori italiani, come vedremo a breve.
Un altro elemento centrale di questa fase è legato al ruolo dei
consumatori. Abbiamo visto il loro ruolo attivo nella creazione del

5 E. Scarpellini, Gli studi sulla moda come settore storiografico emergente, in

Fashion Studies cit., pp. 21-25; M. Maynard, Dress and globalisation, Manchester Uni-
versity Press, Manchester-New York 2004; R. Ross, Clothing: a global history, Polity,
Cambridge 2008.
6 N. Barile, Made in Italy: da ‘country of origin’ a metabrand, in Fatto in Italia. La

cultura del made in Italy (1960-2000), a cura di P. Colaiacomo, Meltemi, Roma 2006,
pp. 133-157.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 187

sistema moda italiano, sia pure all’interno di una cornice culturale


di riferimento. Già Erving Goffman nei suoi classici studi sul corpo
e gli abiti aveva sottolineato come gli attori sociali (i consumatori)
fossero in grado di controllare e manipolare consapevolmente il loro
modo di apparire, usando i vestiti come una risorsa in una specie di
linguaggio non verbale da usare sulla scena sociale7. Lungi dall’es-
sere passivi oggetti manipolati da lobby industriali e della comuni-
cazione, i consumatori si autodefinivano come autentici soggetti del
cambiamento.
Ora il pluralismo tipico della globalizzazione e la crisi delle grandi
ideologie, con la conseguenza di un crescente individualismo e una
marcata cura verso il proprio sé, sembrano aprire ulteriori orizzonti.
Chi si era spinto a ragionare in questa direzione era stato Foucault. Il
Foucault degli ultimi anni però, non quello delle opere che raccon-
tano come si sono costruiti i moderni sistemi di dominio, ma quello
che sottolinea come possano esistere piccole ma formidabili forme di
resistenza individuale e il nostro scopo ultimo sia forse quello di au-
tocostruirci, cioè di crearci come fossimo opere d’arte. Magari come
facevano i dandy, che incentravano creativamente la loro esistenza
su di una visione estetica ed etica al tempo stesso8. Anche senza ar-
rivare a tanto, possiamo dire che il consumatore postmoderno ha a
disposizione molti strumenti e una grande autonomia per costruire
la sua identità. Cadute molte costrizioni culturali riguardo a posture
e codici vestimentari, è più libero di esprimersi attraverso il corpo.
Così usa semplici pratiche, o “tattiche” nel linguaggio di De Certeau,
per dare senso alle sue azioni di consumo9, assembla liberamente ciò
che desidera e si muove con facilità tra molteplici canali di vendita.
E attraverso le cose e i vestiti così scelti, costruisce la sua personale
gerarchia di valori e comunica la sua identità agli altri10.

7 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959), il Mulino, Bolo-

gna 1969; Id., Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione
(1963), Einaudi, Torino 1971.
8 M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in

La ricerca di Michel Foucault, a cura di H. Dreyfus e P. Rabinow, Ponte alle Grazie,


Firenze 1989, pp. 257-281; M. Foucault, Postfazione, ivi.
9 M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano (1984), Edizioni Lavoro, Roma

2001.
10 M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose. oggetti, valori, consumo (1979),

il Mulino, Bologna 1984; A. Appadurai, The Social Life of Things. Commodities in


Cultural Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1986.
188 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Che cosa troveremmo allora in un guardaroba del ventunesimo


secolo? A rigore, non avremmo bisogno di fare questa indagine, per-
ché immagini di vestiti, accessori, persone con vestiti, accessori con
persone sullo sfondo, sono un fiume in piena intorno a noi. Social
network come Facebook e Instagram sono solo i più famosi tra mi-
gliaia di siti che raccolgono fotografie di tutti i tipi. Il problema, caso
mai, è selezionarle, rintracciare un senso. A volte, emergono inizia-
tive che tentano di costruire un’immagine fotografica duratura delle
famiglie attuali, come l’interessante serie di ritratti di sassaresi, che
ricrea “quadri familiari” (un tempo erano dipinti) da tramandare
idealmente nel tempo11. Qui, ad esempio, emerge una certa varietà
degli stili ma anche lo sforzo di comunicare un preciso messaggio
culturale. Comunque, per non perderci in questo mare, torniamo sui
nostri passi, e andiamo ad analizzare un armadio dei giorni nostri.
Precisamente, l’armadio di due studenti universitari12.
Il primo armadio che vediamo è quello della studentessa. Bian-
co, a tre ante, affiancato da scaffali per libri e oggetti vari, e con
sopra vari peluche. Aprendolo, notiamo maglioni lunghi da indos-
sare con leggings, maglie più corte da abbinare a minigonne e calze
pesanti, vestitini stretti di lana e maglia, molto semplici, da portare
magari con le cinture che pendono sull’anta. Non mancano panta-
loni e jeans, per lo più a cinque tasche, stretti ed elasticizzati. Ap-
parentemente questo abbigliamento è connotato da una notevole
semplicità e linearità; in realtà l’effetto finale deve essere completa-
mento diverso, considerata la quantità, bellezza e originalità della
bigiotteria che vediamo sui ripiani centrali, di certo da abbinare ai
completi. Ecco orecchini di tutti i tipi (da quelli a cerchio ai piccoli
bottoncini, da quelli animalier a quelli con pietre sintetiche colora-
te), e poi collane (anche etniche), bracciali, spille, anelli di forme e
colori svariati. Una vera collezione. Assolutamente nulla però è in
metallo prezioso.

11 Familiae, di S. Resmini con foto di M. Ceraglia, Sassari dicembre 2014, http://

lanuovasardegna.gelocal.it/sassari/foto-e-video/2014/12/12/fotogalleria/ritratti-di-
famiglia-della-sassari-dei-nostri-giorni-1.10484148#2.
12 Pure la descrizione di questi due guardaroba è stata realizzata in base ai risultati

della citata inchiesta e di varie interviste. Di particolare utilità l’intervista dell’A. con
G. Bertasso del 13 ottobre 2015. Per i casi in oggetto, cfr. in particolare le interviste a
Francesca M., nata nel 1988, e Marco B., nato nel 1993, raccolte da A. Bonanno nel
2014; nonché la serie di interviste effettuata a Roma nell’estate 2014 da G. Incalza.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 189

Per il freddo, vediamo un cappotto rosso, uno a quadri, un piumi-


no turchese e anche due pellicce corte, ecologiche naturalmente, da
indossare con sciarpe colorate e pashmine. Da un lato dell’armadio,
sono impilate numerose tute per il tempo libero e lo sport (palestra,
zumba) e tante magliette colorate. È probabile che a un capo nero o
scuro sia di solito abbinato qualcosa di colore acceso, magari rosso, ro-
sa, verde. Anche se alcuni vestiti sono firmati e provengono da negozi
o outlet, la scelta pare orientata soprattutto verso capi meno costosi,
che si possono cambiare più spesso ed eliminare dopo un po’ (Zara è
una marca molto presente). La cura è posta più sull’abbinamento dei
colori e sull’arricchimento grazie agli accessori, che rendono l’insieme
unico e originale, che sulla qualità del capo in sé. Una cura che si ali-
menta probabilmente con frequenti visite sui siti Internet.
In due ceste in basso si notano le scarpe, e si capisce che la ragaz-
za ci tiene molto. Sopra ci sono le scarpe estive: c’è davvero una vasta
scelta di infradito, con pietre, fibbie e lacci con colori accesi, bianche
o di vernice rossa. Si vedono sotto scarpe con tacco alto, modelli in-
vernali e scarpe da ginnastica. Altro elemento molto importante qui
sono le borse: ce n’è di tutti i tipi, tipo shopper, a tracolla, bustina,
con manici e in vari tessuti e colori, persino in pelliccia ecologica, in
modo da poterle abbinare perfettamente a tutto.
Soddisfatti, passiamo al guardaroba dello studente. L’armadio
qui è a vista, quasi una piccola cabina armadio, così che vediamo tut-
to in un colpo d’occhio. Spiccano i jeans, di varie marche, e le cami-
cie, fra cui molte firmate (Fred Perry, Lacoste, Harmont & B ­ laine).
Una parte dell’abbigliamento viene dal fast fashion, come Benetton,
Piazza Italia e soprattutto Zara, un’altra parte da negozi che ven-
dono marche più costose, e molto è stato acquistato su Internet.
Questi capi suggeriscono uno stile specifico: i pantaloni sono tutti
molto stretti, a vita bassa, e portati arrotolati in fondo; le magliette
da abbinare sono di vari colori (verde, fucsia, azzurro, spesso con
stampe molto particolari, e con ampio scollo a V), a volte stracciate,
all’ultima moda, e molto aderenti – una taglia più piccola diremmo,
viste le foto che ritraggono un giovane alto e di corporatura robusta.
Le stesse foto ci mostrano i suoi tatuaggi, il che spiega perché non
abbia bisogno di particolari accessori o ornamenti aggiuntivi.
Una parte importante di questo armadio è dedicata all’abbiglia-
mento sportivo, con tute di vario tipo, alcune usate chiaramente per
praticare sport (calcio e palestra), altre per la casa, altre ancora per
190 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

uscire. Nei ripiani inferiori sono riposte varie sneaker o altre scarpe
sportive per questi usi, portate spesso slacciate. Non mancano poi
maglie, felpe, pantaloncini, anche jeans vecchi tagliati corti. Tra gli
accessori, notiamo alcune sciarpe, un orologio digitale, occhiali da
sole (di vari colori, a specchio, classici Ray-Ban), cappellini colorati
e un orecchino.
In realtà l’armadio non è pienissimo, perché i vestiti vecchi ven-
gono eliminati regolarmente, divenendo regali per famiglie che ne
hanno bisogno o doni alla Caritas. Così è sparito anche il completo
intero che lo studente aveva ricevuto per i suoi 18 anni, un completo
giacca e pantaloni, ora sostituito nelle occasioni importanti da jeans
e camicie firmate. Interessante.
Non c’è dubbio che questi due guardaroba siano il frutto di scelte
molto precise, che costruiscono con attenzione personalità defini-
te. Colpisce la disinvoltura con cui questi studenti si muovono fra
prodotti di gamma diversa, costruendo un mix alto-basso; l’uso di
Internet per acquisti e informazioni; la cura dell’immagine nel suo
complesso; e soprattutto la personalizzazione che realizzano. È co-
me se fossero lo specchio di un consumatore postmoderno, attento e
consapevole in tutte le sue scelte, e al centro della scena con un ruolo
preminente (senza dimenticare che il consumatore italiano spende in
media un po’ più dei colleghi europei in abbigliamento). Rispondere
alle sue esigenze è dunque la seconda sfida per il sistema moda Italia
del nuovo millennio.

2. Outsourcing e finanziarizzazione

La mitologia e le leggende parlano spesso di vestiti magici. In


molti casi, gli indumenti possiedono speciali virtù protettive, come
il mantello di Re Artù che rendeva invisibili, o la pelle del leone di
Nemea indossata da Ercole per diventare invulnerabile, o la cappa
in pelliccia del topo di fuoco cinese che proteggeva dalle fiamme in
Giappone. Ma gli stessi abiti potevano essere infidi. Come si accorse
lo stesso Ercole quando indossò la tunica del centauro Nesso intrisa
di un sangue avvelenato che pose fine alla sua vita terrena, o come
per i doni di vesti d’onore (khilat) pure avvelenate di cui narrano
varie leggende nell’India moghul. Come dire che la magia associata
agli indumenti può avere una valenza ambigua.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 191

È un po’ la stessa ambiguità che ritroviamo guardando alla glo-


balizzazione della moda in campo economico: ha avuto esiti positi-
vi e negativi insieme, e non gli stessi per tutti e per tutti i luoghi. Il
primo clamoroso effetto, come sappiamo, è stata l’esternalizzazione
(outsourcing)13. La nuova mobilità delle merci, grazie a trasporti veloci
e a basso costo, unita alle moderne tecnologie di comunicazione, che
consentivano rapporti e controlli stretti, già negli anni Ottanta aveva
spinto molte imprese della moda a delocalizzare alcune fasi produttive
ritenute secondarie fuori dall’impresa. L’obiettivo era quello di ridurre
i costi di produzione, soprattutto della manodopera, per garantirsi
migliori profitti e resistere meglio alla concorrenza. In alcuni casi ci si
limitò a spostare alcune operazioni labour intensive in Italia, magari
nei distretti, come abbiamo visto. Ad esempio presso le aziende cinesi
concentrate a Prato, specializzate in abbigliamento di fascia medio-
alta, che crebbero così rapidamente a spese delle tradizionali ditte
italiane operanti nel tessile da trasformare via via la conformazione
dello storico distretto14. Con il tempo, sempre più frequentemente
ci si spostò all’estero (offshoring), verso paesi emergenti dove il costo
della manodopera era sotto i 5 dollari orari e dove, in aggiunta, scar-
sa era spesso la legislazione a protezione del lavoro (orari, sicurezza,
previdenza) e ancora più scarsa quella su materie impiegate, metodi di
lavorazione, protezione dell’ambiente – almeno rispetto alle restrittive
norme vigenti in Occidente (ad esempio riguardo alle tinture). Con
episodi anche drammatici, se si pensa solo al grave incendio in uno
stabilimento tessile di Dacca nel 2013, che causò la morte di centi-
naia di lavoratori. In breve, molte aziende di fascia bassa ma anche
medio-alta spostarono fasi della confezione in Cina, Bangladesh, In-
dia, Pakistan, Turchia, Nord Africa e paesi dell’Est europeo. I bilanci
ne guadagnarono e il risultato fu che molti capi divennero il frutto di

13 Istituto per lo Sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, Il feno-

meno delle esternalizzazioni in Italia. Indagine sull’impatto dell’outsourcing sull’orga-


nizzazione aziendale, sulle relazioni industriali e sulle condizioni di tutela dei lavoratori,
Isfol, Roma 2011.
14 C. Chen, Made in Italy (by the Chinese): migration and the rebirth of texti-

les and apparel, in «Journal of Modern Italian Studies», 1, 20, 2015, pp. 111-126;
L. Lazzeretti, F. Capone, Cluster evolution in mature Industrial cluster. The case of
Prato Marshallian Industrial Districts after the entrance of Chinese firm populations
(1945-2011), paper pubblicato online, 2014, http://druid8.sit.aau.dk/acc_papers/
xkll123i9ot5otcvb9dh8xv1ibiq.pdf.
192 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

strategie ibride che univano fasi ad alto costo, come progettazione e


comunicazione, e a basso costo, come il confezionamento, svolte però
in paesi diversi. Da questo processo rimasero escluse in genere le pro-
duzioni top di gamma dal prezzo molto elevato.
Non si trattò di un fenomeno legato solo al mondo del tessile-
abbigliamento. È stato calcolato che nei paesi più industrializzati
nel periodo 1980-2000 i posti di lavoro nell’industria nel comples-
so siano scesi da 71 a 64 milioni; poi nel 2000-10 ancora da 64 a
51 milioni, con un calo in un decennio di più del 20 per cento. In
quello stesso decennio nei paesi in via di sviluppo si è assistito a una
crescita dei posti di lavoro di quasi il 30 cento, pari a 63 milioni, di
cui la metà in Cina. È chiaro che vi è stato, oltre a uno sviluppo in-
terno, uno spostamento del lavoro da una zona all’altra del pianeta.
Questo fatto, unito a una riduzione della forza lavoro industriale
per via della tecnologia e per la crescita dei servizi, spiega il trend in
Occidente. Con un’importante precisazione però. Non tutti i posti
di lavoro si comportarono allo stesso modo: a migrare fu la massa di
quelli poco pagati e poco qualificati, mentre quelli caratterizzati da
un’alta formazione e ben pagati restarono, anzi, con una tendenza
alla crescita. È come se si fosse replicata una divisione del lavoro a
livello internazionale15.
Per tornare alla moda, i vantaggi della delocalizzazione dunque
non sono ripartiti equamente. E non mancano gli svantaggi. Per il
paese, in quanto la delocalizzazione massiccia può portare alla lunga
alla perdita di conoscenze e capacità produttive non più recuperabi-
li, come è avvenuto ad esempio con la scomparsa o il ridimensiona-
mento dei distretti. Per le aziende, in quanto una catena lunga può
portare rigidità e tempi allungati nelle consegne, e a volte una qualità
inferiore dei prodotti. Per i brand più prestigiosi vi è un ulteriore
problema, legato alla perdita di immagine che un prodotto non più
Made in Italy può comportare. Non è un caso che alcune di queste
imprese abbiano avviato recentemente forme di rilocalizzazione in
Italia (reshoring).
Questo discorso ci porta al problema della protezione del mar-
chio dal punto di vista legale. In Italia vige dal 2010 una norma

15 P. Marsh, The New Industrial Revolution: Consumers, Globalisation and the

End of Mass Production, Yale University Press, New Haven-London 2012, pp. 237-
241.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 193

che protegge le produzioni nazionali, la legge Reguzzoni-Versace16,


che prevede un’etichettatura obbligatoria e la dicitura Made in Italy
solo per i prodotti fatti prevalentemente o con due fasi importanti
o almeno l’ultima trasformazione sostanziale nel paese. Tuttavia per
essere davvero efficace, una simile norma dovrebbe avere una por-
tata sovrannazionale ma è da anni che una legge sulla tracciabilità
dei prodotti è in discussione senza esito nell’Unione europea, a causa
dell’opposizione dei paesi del Nord Europa e della Germania17. Il
problema resta dunque aperto.
Altrettanto aperto è il fenomeno scottante delle contraffazioni,
in parte legato appunto a questioni legali e di controllo, in parte
correlato da qualcuno all’outsourcing. Intanto va premesso che i
falsi non sono una novità di oggi. I primi grandi sarti parigini come
Charles F. Worth combattevano continuamente contro le copie non
autorizzate delle loro creazioni e forse fu proprio questo che spinse
Worth ad applicare una piccola etichetta con il suo nome e indiriz-
zo all’interno degli abiti. Ai nostri giorni, la fortissima espansione
del mercato dei falsi è legata al peso del marchio per connotare i
consumi e all’allargamento potenziale del mercato dei consumato-
ri: molti desiderano comunicare un’identità socialmente elevata e
stilisticamente apprezzata grazie a un brand conosciuto da tutti. Il
falso rimuove l’ostacolo del prezzo. Infatti da varie ricerche emerge
che gli acquirenti sono per lo più consapevoli di acquistare un falso,
soprattutto per il prezzo e il canale di vendita (strada, bancarella,
spiaggia). Le cifre sono davvero consistenti: solo in Italia si è cal-
colato che il fatturato dei falsi valesse tra i 2,5 e i 4,5 miliardi di
euro nel 2012. Queste merci contraffatte una volta erano prodotte
localmente: nell’area di Napoli (abbigliamento) – viene in mente
l’abito cucito per pochi soldi in nero ad Arzano per Angelina Jolie
di cui parla Saviano in Gomorra – e poi a Prato (pelletteria), nelle
Marche (calzature), quasi appendici illegali delle forniture in regola.
Ora invece la principale produttrice è di gran lunga la Cina18. Un

16 Legge 8 aprile 2010, n. 55.


17 M. Bello, Made in, la legge riprende quota, in «MF Fashion», 17 gennaio 2014;
Id., Ue, legge sul Made in alla svolta cruciale, in «MF Fashion», 18 marzo 2014.
18 V. Pinchera, Dal prodotto alla marca: la contraffazione nel settore degli accessori

di moda, in Contraffazione e cambiamento economico. Marche, imprese, consumatori, a


cura di C.M. Belfanti, Egea, Milano 2013, pp. 3-13.
194 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

simile sviluppo è conseguenza del crescente investimento sul brand


delle aziende e anche della tendenza a fare beni più semplici e con
materiali economici (tela, cotone, nylon, plastica) al posto di linee
complesse e materiali preziosi (seta, tessuti tecno, pelle)19. Ed è più
legato alla notorietà del brand che ad altri fattori. Forse il falso è un
po’ il rovescio della medaglia, in parte di difficile eliminazione, del
successo globale della moda pronta italiana.
Un secondo aspetto caratterizzante la globalizzazione economi-
ca, con il quale le imprese italiane hanno dovuto fare i conti, è la fi-
nanziarizzazione. Grazie anche alla deregolamentazione e alla facili-
tà di circolazione dei capitali, dagli anni Novanta cresce il peso delle
attività finanziarie all’interno delle singole imprese e, in generale, il
peso della finanza nel suo complesso rispetto all’economia reale. Ne-
gli ultimi anni si arriva al paradosso che le cifre della finanza, per due
terzi composte da prodotti speculativi, diventino superiori di molte
volte rispetto a quelle del Pil. Una conseguenza di questo fenomeno
è la quantità di fusioni e acquisizioni societarie. Dal 2000 a inizio
2014, ad esempio, si sono registrate in Italia quasi 600 operazioni nel
settore moda e lusso, di cui il 25 per cento circa con l’estero (quota in
aumento, con uno spostamento dall’Europa all’Asia); solo conside-
rando le operazioni di rilievo, si calcola un investimento dall’estero
di almeno 20 miliardi di euro20. In altre parole, la globalizzazione
ha aperto le frontiere e molte imprese italiane sono state acquisite
da operatori stranieri (anche se la maggioranza delle transazioni è
avvenuta all’interno del paese e non manca una piccola quota di in-
vestimenti italiani all’estero). Su questo punto, molti hanno espresso
pubblicamente critiche pesanti, giudicandolo una perdita netta per
il paese. È davvero così? In realtà non si può dare una risposta uni-
voca, perché dipende dalle condizioni e dai compratori.
Per cominciare, varie acquisizioni sono state eseguite da fondi di
investimento finanziari, fossero Private Equity (fondi di investimen-
to privati) o Fondi sovrani (fondi di investimento statali). In questo
caso, la spinta principale è stata quella di trovare imprese redditizie
dove investire per diversificare il portafoglio, mettendo nel contem-
po a disposizione nuovi capitali per le società rilevate. Il caso forse

19Pinchera, Dal prodotto alla marca cit., pp. 25-27.


20Kpmg, Le acquisizioni di investitori esteri nel Fashion & Luxury, Milano 2014,
pp. 5-10.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 195

più noto è stata l’acquisizione del Valentino Fashion group nel 2007
da parte del fondo Permira, che in seguito l’ha ceduto nel 2012 a un
fondo del Qatar, la Mayhoola for investments. Quest’ultimo, molto
interessato al lusso internazionale, controlla anche Pal Zileri. In altri
casi, le acquisizioni si limitano a una parte del capitale e l’impegno
è meno esplicito.
Diversa la spinta dietro agli strategic buyers, cioè società che ope-
rano già nel settore. Qui c’è l’interesse a fondere un marchio italiano
con le proprie competenze in vista dell’apertura di nuovi mercati, e
questo spesso facilita una sinergia produttiva o più spesso distribu-
tiva. Possiamo ricordare ad esempio la cinese Shenzhen Marisfrolg
Fashion, nota casa di abbigliamento per uomo e donna che opera
soprattutto in Cina e Corea, che compra Krizia nel 2014, o Trinity,
azienda distributrice di vari marchi del lusso nella grande Cina, che
ingloba Cerruti nel 2010. Più complessa è la vicenda che porta la
Gianfranco Ferré, o almeno una parte di essa, sotto le bandiere del
Paris group international (Emirati arabi uniti).
Ci sono poi i due grandi gruppi del lusso francese, primari pro-
tagonisti sul mercato italiano. Il principale è Lvmh (Louis Vuitton
Moët Hennessy), creato nel 1989 a Parigi e guidato da Bernard Ar-
nault. Il gruppo è in realtà un ibrido perché nasce dalla fusione di
un grande nome della moda come Louis Vuitton e due società di
vini e liquori, la Moët & Chandon produttrice di champagne e la
Hennessy produttrice di cognac. Il suo punto di forza è il marchio
Christian Dior, e attorno a questo ha costruito una fitta rete di par-
tecipate: la prima fu Fendi, acquisita in più riprese tra il 2000 e il
2007; poi la quota di maggioranza in Emilio Pucci nel 2000; segui-
rono Rossimoda, impresa di punta nella produzione di calzature per
marche prestigiose, nel 2001-2003; Acqua di Parma per i profumi
nel 2001-2003; Bulgari per i gioielli nel 2011; la maggioranza di Loro
Piana, altro produttore di abbigliamento di grande pregio, nel 2013
– e senza farsi mancare anche il caffè più famoso delle vie milanesi
della moda, Cova.
Il secondo gruppo è Kering (già PPR), fondato sempre a Parigi
nel 1963 da François Pinault. Il gruppo unisce un settore più spor-
tivo, rappresentato ad esempio dal marchio Puma, a una più ampia
divisione del lusso. Qui alcuni dei marchi centrali sono di acquisi-
zione italiana, ottenuti tra il 1999 e il 2006: Gucci in primo luogo,
oggi uno dei marchi centrali, unitamente a Sergio Rossi (ritornata
196 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

peraltro all’italiana Investindustrial nel 2015) e Bottega Veneta, sem-


pre nel settore pelletteria e calzature di pregio. Nel 2012 si aggiunge
Brioni per la sartoria maschile e l’anno successivo la maggioranza di
Pomellato per i gioielli (oltre a Richard Ginori). Il gruppo controlla
anche Yves Saint-Laurent, Balenciaga e vari altri noti marchi.
Per le imprese italiane, entrare in uno di questi gruppi ha rap-
presentato spesso un’opzione molto positiva. In questo caso non si
trattava solo di avere a disposizione nuovi capitali e sinergie con altre
imprese del settore, ma permetteva di realizzare importanti econo-
mie di scala in molti settori strategici, come quello della pubblici-
tà e comunicazione, dell’approvvigionamento di materie prime di
pregio, dell’apertura di lussuosi punti di vendita in diverse nazioni.
Naturalmente la contropartita era adattarsi alle strategie sovranna-
zionali del gruppo e integrarsi con un diverso management. Va sot-
tolineato che nella scelta delle acquisizioni, questi gruppi hanno in
genere preferito aziende non solo con un brand famoso ma anche
dotate di significative capacità produttive, sia nell’abbigliamento sia
nella pelletteria e nelle calzature. Non dimentichiamo infatti che la
Francia, come la Gran Bretagna prima e la Germania poi, ha co-
nosciuto un fenomeno di deindustrializzazione nel campo tessile e
abbigliamento, tipico delle società industriali mature, che perdono
pezzi di filiera a monte per concentrarsi sulle più redditizie attività a
valle21. L’Italia è l’unico paese avanzato a mantenere intatta la filiera
produttiva del tessile-abbigliamento-calzaturiero di qualità. Questo
spiega l’interesse per le imprese italiane, non solo marchi ma vere
realtà industriali, acquistate per controvalori rilevanti, e di conse-
guenza la forza del Made in Italy.
Quindi la risposta alla domanda sulle ricadute delle acquisizioni
estere è che possono essere negative se si tratta di operazioni finan-
ziarie a solo scopo speculativo, come spesso avviene per le parte-
cipazioni limitate, rivendute magari poco tempo per incassare una
plusvalenza; diverso il caso di strategic buyers e grandi gruppi del
lusso, che possono favorire uno sviluppo verso nuovi mercati. So-
cietà come Valentino, Gucci, Bottega Veneta e Fendi, ad esempio,
negli ultimi anni hanno visto salire fatturato, profitti e numero di
dipendenti. Questo dal punto di vista economico. Da un punto di

21 Pinchera, La moda in Italia e in Toscana cit., p. 191.


VI. Le sfide del ventunesimo secolo 197

vista politico e culturale le valutazioni possono essere diverse: i pro-


fitti economici possono essere comunque trasferiti in altri paesi, il
lavoro può migrare, l’immagine del paese può risentirne, e così via.
Ma queste sono le ambiguità della globalizzazione, come sappiamo.
Qui sorge spontanea una curiosità: come mai le grandi imprese
italiane della moda non hanno mai costruito loro per prime un polo
del lusso? La prima risposta è che molte imprese sono di stampo
personale o familiare e il peso del fondatore, imprenditore o stilista,
è fortissimo – cosa che non favorisce accordi e fusioni come avviene
più facilmente quando alla guida si trovano dei manager. Ma questa
riposta è semplicistica. Perché in realtà ci furono almeno due im-
portanti tentativi, entrambi della seconda metà degli anni Novanta.
La prima operazione cominciò quando la gloriosa Gft entrò in
crisi nel 1993, per via di alti indebitamenti e della mancanza di un
proprio marchio forte da spendere sul mercato, nonostante le ca-
pacità produttive. L’azienda fu inglobata nel 1997 in un gruppo de-
nominato Hpi (Holding di partecipazioni industriali), partecipato
dalla Fiat, che comprendeva il marchio sportivo Fila, creato dagli
omonimi fratelli a Biella nel 1909, e nientemeno che la potente so-
cietà editoriale Rcs. Fu Enrico Cuccia di Mediobanca a ideare quindi
un’operazione che avrebbe dato vita a una mega concentrazione in-
dustriale: la fusione della Hdi nel gruppo Marzotto, con la creazio-
ne del Gruppo industriale Marzotto (Gim). L’annuncio fu dato il 7
marzo 1997. Il Gim (subito soprannominato dai giornalisti Big Gim)
sarebbe stato un gruppo ibrido con due gambe: quella editoriale e
quella tessile-abbigliamento e avrebbe goduto di una notevole liqui-
dità per possibili acquisizioni. I principali azionisti erano Fiat (17 per
cento), Marzotto (12), Mediobanca (10), più gruppi minori, mentre
almeno il 48 per cento delle azioni sarebbe stato collocato sul mer-
cato. L’iniziativa incassò molti plausi ma durò poco. Due mesi dopo
il consiglio di amministrazione della Marzotto bocciò l’intesa. Le
motivazioni riguardavano sia gli aspetti organizzativi sia gli obiettivi
di lungo periodo22. Pier Luigi Bersani, allora ministro dell’Industria,
si dimostrò molto rammaricato e preoccupato per le conseguenze

22 Il divorzio Hpi-Marzotto alla prova della Borsa, in «Corriere della Sera», 6 mag-

gio 1997. Per la cronaca delle vicende cfr. i principali quotidiani e «MF Fashion» di
marzo-maggio 1997; G. Mondolo, Il gran rifiuto di Marzotto, in «la Repubblica», 4
maggio 1997.
198 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

del mancato accordo sul futuro sviluppo industriale: “Quando le


ciambelle non riescono col buco qualche contraccolpo c’è”23.
Non finì qui. Maurizio Romiti, figlio di Cesare Romiti, amministra-
tore delegato della Fiat, volle provare a sviluppare da solo il progetto
con la Hpi. Il gruppo, rinominato Hdp, iniziò importanti acquisizioni,
a cominciare da Valentino nel 1998, seguito da una società di distri-
buzione cinese, la Joyce. Le cose non andarono bene. Le imprese del
gruppo moda registrarono pesanti perdite in pochi anni, tanto che
gli azionisti si impuntarono per ottenerne la cessione. Cosa si verificò
puntualmente: la Valentino fu ceduta proprio a Marzotto nel 2002
(che la cederà quattro anni dopo al fondo britannico Permira) e la Fila
al fondo americano Cerberus nel 2003 (che poi la girerà alla Fila Ko-
rea). Maurizio Romiti dovette lasciare e i grandi progetti svanirono24.
Quasi in contemporanea vi fu un secondo tentativo, innescato dal-
la decisione delle sorelle Fendi, eredi della madre Adele, di vendere la
maggioranza dell’impresa nell’autunno 1999. Subito scesero in campo
diversi contendenti. Il primo era Antonio De Sole, a capo della Gucci,
un’azienda che attraversava vari contrasti tra gli eredi (addirittura vi
era stato l’omicidio di uno di loro, Maurizio Gucci). De Sole puntò
deciso all’acquisizione della Fendi. Va anche ricordato come due anni
prima egli avesse ventilato un accordo con Gianni Versace, il quale
avrebbe quotato la sua azienda associandosi a Gucci verso il 1998.
L’idea era esplicitamente quella di costituire una partnership del lusso
fatta da imprese di punta del settore. Ma l’omicidio dello stilista nel
luglio 1997 aveva posto fine anche a questo progetto. Comunque, il
secondo concorrente per Fendi era un fondo di investimento Usa, il
Tpg (Texas Pacific group). Il terzo risultò il potente Lvmh, che però
nell’occasione agì di concerto con Patrizio Bertelli di Prada. Arnault
e Bertelli fecero un’offerta per allora incredibile, e il 51 per cento di
Fendi passò nelle mani della joint venture che avevano costituito. Due
anni dopo, Prada avrebbe deciso di vendere la sua quota di Fendi a
Lvmh. Quest’ultimo ottenne così la sua prima importante acquisizio-

23 Hpi-Marzotto: Bersani, una vicenda che non lascia indifferenti, Agi (Agenzia

Italia), 5 maggio 1997 (reperibile su http://archivio.agi.it).


24 G. Baudo, Hdp verso il polo italiano del lusso, in «MF Fashion», 24 dicembre

1998; R. Gianola, Hdp, il rosso è di moda, in «la Repubblica», 27 febbraio 1999; J.


Tagliabue, Calvin Klein Seen Emerging As Italian Takeover Target, in «The New York
Times», 26 gennaio 2000.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 199

ne italiana, mentre fallì la scalata a Gucci che, dopo una lunga battaglia
legale, finì definitivamente al rivale François Pinault25.
Questi tentativi mettono a nudo alcune problematiche tipiche
del capitalismo italiano, ricco di grandi talenti individuali, tuttavia
povero di imprese aggreganti di grandi dimensioni. Ma va detto an-
che che stiamo parlando di un settore relativamente giovane, che ha
visto la sua affermazione economica dagli anni Settanta, se non do-
po. Dunque un comparto alle prese anche con il problema delicato
dei passaggi generazionali, da tempo risolto dalle grandi case fran-
cesi nate nell’Ottocento – in vari modi, come dimostra ad esempio
la recente costituzione di H51, una holding familiare che raggruppa
la maggior parte dei circa 60 eredi della sesta generazione del fon-
datore Thierry Hermès (l’altro grande marchio francese, Chanel, è
controllato dai fratelli Alain e Gérard Wertheimer).
Un’analisi delle caratteristiche delle principali imprese di moda at-
tuali mostra però il cammino fatto e la maturità da esse raggiunta, con
ottime performance economiche rispetto ad altri settori. Va premesso
che il ventennio 1996-2015 è stato complesso per il settore tessile-ab-
bigliamento-pelle. Era iniziato con una fase di lenta crescita, facendo
segnare valori alterni nella produzione (da 94 miliardi di euro nel 1996
a 108 nel 2000 fino a 109 nel 2007). L’andamento del valore aggiunto,
che misura specificamente l’incremento di valore che il settore è in gra-
do di produrre, risultò sostanzialmente stagnante per gli anni Novanta
e in calo agli inizi del decennio seguente, salvo una ripresa positiva dal
2005. Ma poi arrivò la grande crisi del 2008. Il 2009 fu l’annus horri-
bilis: la produzione precipitò a 88 miliardi di euro, quasi fosse tornata
indietro di 15 anni. In seguito risalì a fatica, così che il suo valore com-
plessivo risultò ridotto nella formazione del Pil nazionale (Tabella 7).
La grande crisi ha dunque causato un ridimensionamento del settore,
accompagnato dallo spostamento di varie lavorazioni all’estero; in buo-
na parte, questo fenomeno ha interessato soprattutto le fasce basse e
medie del comparto, per cui si può dire che vi sia stata una ristruttura-
zione sia di tipo quantitativo sia qualitativo che ha spinto verso l’alto.

25 G. Lonardi, Il tandem Prada-Lvmh conquista l’impero Fendi, in «la Repubblica»,

13 ottobre 1999; M.S. Sacchi, Santo Versace: “Così la morte di Gianni ha fermato il primo
polo del lusso italiano”, in «Corriere.it», 15 luglio 2013. Cfr. per la cronaca della vicenda
i principali quotidiani e «MF Fashion» nel periodo ottobre 1999 e novembre 2001 (cfr.
il database storico presente su www.mffashion.com).
200 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Questi dati vanno letti all’interno di un quadro molto più ampio,


nello spirito della globalizzazione, che vede il comparto del lusso
globale per la persona (abbigliamento e pelletteria più gioielli e co-
smetica) tenere bene durante gli anni della crisi e anzi crescere. Delle
tre grandi ripartizioni del mercato, ormai abbastanza simili, e cioè
nell’ordine Europa, America e Asia, la principale, quella europea,
ha sofferto di più per la crisi ma la flessione è stata ampiamente
controbilanciata dallo shopping turistico, un fenomeno in grande
crescita che vede soprattutto cinesi e russi in testa per gli acquisti
tax free. E l’Italia è tra i principali beneficiari del fenomeno26. Con
un effetto collaterale: che si conferma in crescita anche la fascia di
super-lusso, quella che non si accontenta della moda pronta degli
stilisti, ma vuole il “su misura” (bespoke per l’uomo), per il quale si
attrezzano rapidamente un po’ tutti i nomi principali. Come dire:
qualità sartoriale più prestigio della marca.
I dati recenti fotografano un settore Tac (tessile-abbigliamento-
calzaturiero) che vale 78,5 miliardi di euro di fatturato nel 2013 (più
dei principali paesi europei, Germania, Francia, Spagna e Regno
Unito insieme, che sono pari a 68,4). Nonostante il forte calo avuto
con la crisi iniziata nel 2008, esso rappresenta circa il 9 per cento
dell’intero manifatturiero italiano con un valore aggiunto di 21 mi-
liardi. Le imprese interessate sono circa 85 mila con 546 mila addet-
ti, che rappresentano il 16,8 per cento dell’industria e il 13,3 degli
occupati; sono tuttora concentrate per più di un terzo nei distretti
industriali (precisamente il 35 per cento di unità produttive e, an-
cor più, il 45,6 di addetti)27. A questi dati si potrebbero aggiungere
quelli del settore distributivo relativo al Tac, cioè la rete di vendita,
che vale altri 62 miliardi di euro (è il terzo in Europa dopo Regno
Unito e Germania).
A livello globale, questa situazione va proiettata in un contesto
che vede come protagonista la Cina, seguita dall’Unione europea (con
circa un quarto dell’export mondiale di tessile e abbigliamento). A

26 Area Studi Mediobanca, Società della moda in Italia (2010-2015), Milano 2016,

http://www.mbres.it, pp. 4-5.


27 Dati Eurostat: cfr. Studi e ricerche per il Mezzogiorno, Un Sud che innova e pro-

duce, vol. 3, La filiera abbigliamento-moda, Giannini, Napoli 2015, pp. 23-26; Istituto
nazionale di statistica, Annuario statistico italiano 2015, Istat, Roma 2015. Si ringrazia
inoltre l’ufficio studi Smi per i dati forniti.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 201

livello europeo, l’Italia è leader con il 36,4 per cento del fatturato (e
il 35,3 del valore aggiunto), davanti a Germania con 10,4 (soprattut-
to concorrenziale nei tessuti tecnici), Francia 9,9, Spagna 6,5, Regno
Unito 5. In pratica, a livello mondiale, l’Italia è seconda come export
di abbigliamento (dopo la Cina) e ugualmente seconda come export
di calzature (sempre dopo la Cina) e invece quinta come export di
tessile (dopo Cina, India, Germania e Stati Uniti)28. Particolarmente
notevole la produzione nel settore calzature, dove l’Italia segue da
lontano la Cina, ma con significative differenze di prezzi: una scarpa
cinese è esportata al prezzo medio di 4,44 dollari, una scarpa italiana
a 48 dollari, chiarendo bene le rispettive fasce di mercato29. L’export,
in ripresa dal 2013, si segnala nel lungo periodo per due fattori: il
primo, è la netta preminenza raggiunta da tempo da abbigliamento
(17,8 miliardi di euro) e settore pelle-cuoio (17,8 ugualmente) rispetto
al tessile (9,4 miliardi), una volta decisamente superiore. Il secondo,
è il restringimento progressivo del mercato europeo, con Germania
e Francia sempre in testa, che ora vale il 51 per cento del totale, e il
parallelo allargamento di quello extra Ue, ora al 49 per cento, con una
forte crescita dei paesi asiatici, oltre alla conferma degli Stati Uniti30.
Anche dal punto di vista delle importazioni, da sempre più diversifica-
te, si conferma sempre il ruolo primario dell’Europa, seguita dall’Asia
e, più lontano, dai paesi dell’area mediterranea31. È interessante notare
come, con tutte queste variazioni, il comparto nel complesso abbia
sempre visto un saldo commerciale attivo con l’estero (Tabella 9).
Riguardo ai distretti, questi hanno ovviamente risentito dell’an-
damento congiunturale. Alla rilevazione del 2001 erano scesi a 181
nel complesso (dai 199 di dieci anni prima) e in quella del 2011 erano
141, con una secca perdita di territori e di addetti, sempre concen-
trati però nel “triangolo distrettuale” di Lombardia, Veneto, Emilia-

28 Dati Wto e UNcomtrade: cfr. Studi e ricerche per il Mezzogiorno, Un Sud che

innova e produce, vol. 3 cit.


29 Ivi, p. 23.
30 Istituto italiano di statistica, Commercio estero e attività internazionali delle

imprese. Annuario 2014, Istat, Roma 2014, in part. pp. 117-118; Ice, L’italia nell’eco-
nomia internazionale. Rapporto Ice 20 14-2015, Roma 2015.
31 Istituto italiano di statistica, Annuario statistico italiano 2015 cit., pp. 535-542;

Id., Interscambio commerciale in valore per area e paese del prodotto: Divisioni Ateco
2007 “CB14” Articoli di abbigliamento (anche in pelle e in pelliccia), “CB15” Articoli in
pelle (escluso abbigliamento) e simili, dicembre 2015, dati Coeweb-Istat.
202 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Romagna (50 per cento delle attività), seguito da Toscana e Marche


(24 per cento delle attività fra i due). Il Tac (tessile-abbigliamento-
calzature) era rappresentato da 23 poli dell’abbigliamento e 9 del
tessile (soprattutto in Lombardia, Marche e Veneto), e da 11 poli cal-
zaturieri e 6 di pelletteria (soprattutto nelle Marche e in Toscana) – al
Sud prevalgono attività sartoriali e fast fashion32 (Tabella 8). Va detto
anche che i distretti si stavano evolvendo rispetto alle aggregazioni
degli anni Settanta e Ottanta. I nuovi poli produttivi mostrano una
certa penetrazione di capitale estero e spesso fenomeni di ristruttu-
razione dovuti all’azione di aziende leader, che giocano un ruolo da
capofila nel distretto anche rispetto nell’innovazione, o a quella di
gruppi di imprese in mano allo stesso proprietario. Altro fenomeno
che si accentua è quello della crescita per propagazione, per cui da
una ditta ne nasce un’altra come spin-off, rispetto alla crescita per
accumulazione di capitale dentro alla stessa impresa33. Non a caso,
alcune analisi sui bilanci delle imprese nei distretti mostrano buone
performance delle imprese medio-grandi e una forte sofferenza di
quelle micro, sulle quali si scaricano i costi della recessione34.
Un altro fondamentale elemento caratterizzante del settore, che
accompagna in maniera continua la storia della moda in Italia, è la
ridotta dimensione media delle imprese, sia rispetto ad altri settori
sia rispetto alle medie europee. Troviamo infatti 1025 grandi imprese
(con più di 50 addetti), che costituiscono solo l’1,65 per cento delle
imprese attive nel settore (contro 7 in Germania, 3,6 nel Regno Uni-
to e 2 in Francia)35. E questo conferma la difficoltà di competere con
i grandi gruppi che si sono formati all’estero.

32 Id., 8° Censimento generale dell’industria e dei servizi 22 ottobre 2001. Distretti

industriali e sistemi locali del lavoro 2001, Istat, Roma 2006; Id., 9° Censimento dell’in-
dustria e dei servizi e Censimento delle istituzioni non profit. I distretti industriali 2011,
Istat, Roma 2015; Studi e ricerche per il Mezzogiorno, Un Sud che innova e produce,
vol. 3 cit., p. 25.
33 P. Palmi, Le fabbriche della creatività. Un’analisi organizzativa dei distretti evo-

luti, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 16-32; I distretti industriali del terzo millennio.
Dalle economie di agglomerazione alle strategie d’impresa, a cura di F. Guelpa e S.
Miceli, il Mulino, Bologna 2007.
34 Direzione Studi e Ricerche Intesa San Paolo, Economia e finanza dei distretti

industriali. Rapporto annuale, n. 8, Milano 2015; cfr. anche Osservatorio nazionale


distretti italiani, Il nuovo respiro dei distretti tra ripresa e riposizionamento. Rapporto
2015, Roma 2016.
35 Studi e ricerche per il Mezzogiorno, Un Sud che innova e produce, vol. 3 cit.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 203

Scendendo maggiormente nel dettaglio, si nota però che le per-


formance di queste imprese sono migliori di quelle di altri settori
industriali, sia per le vendite sia per la crescita dei posti di lavoro.
Non solo. Un’indagine di Mediobanca su 143 grandi società (fat-
turato oltre 100 milioni di euro) nel quinquennio 2010-14 osserva
che ci troviamo di fronte a una struttura finanziaria molto specifica:
queste società hanno una forte capitalizzazione, bassi debiti finan-
ziari (con poche eccezioni), grandi disponibilità liquide e un livello
di profitti particolarmente elevato: il margine lordo (ebit) è del 6,3
per cento, e arriva fino al 12,3 nelle 15 imprese top: il doppio di
un’azienda manifatturiera media (6 per cento)36. Il periodo 2010-
14 risulta positivo, con una crescita del 28 per cento del fatturato
e del 23 dei dipendenti. Ma le differenze tra i settori sono notevoli:
il gruppo più forte è quello dell’abbigliamento, che rappresenta il
41 per cento del fatturato del campione; peggio va il tessile (solo il
5 per cento), a riprova della perdita di valore delle attività a monte
della filiera; si conferma invece il ruolo di pelle e cuoio (22 per cen-
to), mentre la vera novità è l’accresciuto peso degli accessori: solo
gli occhiali valgono il 16 per cento – e qui gioca il ruolo preminente
di un gruppo di punta come Luxottica, che produce per i propri
brand e come licenziatario di molti marchi prestigiosi. L’ultima
notazione riguarda la proprietà delle imprese di questo campione
rappresentativo: il 70 per cento è italiana, il resto estero, soprattutto
francese37 (Tabella 10).
Le principali aziende di moda appaiono dunque imprese molto
solide finanziariamente e organizzativamente, con una forte base
produttiva e un brand riconosciuto. Così le top 15 imprese di moda
hanno nomi ben conosciuti: Luxottica, Prada, Armani, Calzedonia,
Otb (Diesel), Ferragamo, Max Mara, Benetton, Zegna, Safilo, Dolce
& Gabbana, Tod’s, Lir (Geox), Valentino, Moncler (escludendo due
big come Gucci e Bottega Veneta, parti integranti del bilancio Ke-
ring). La globalizzazione a loro sembra avere mostrato soprattutto
la sua faccia benevola.

36 Area Studi Mediobanca, Top 15 moda Italia e aziende moda Italia: 2010-2014 e

primi nove mesi 2015, Milano 2016.


37 Id., Focus aziende moda Italia (2010-2015), Milano 2016.
204 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

3. Dalla distribuzione al fast fashion

Il consumatore al centro. È questo il mantra che il settore moda


si ripete negli ultimi decenni. Ed è questo che ha portato la distri-
buzione sempre più nel mirino delle strategie dei marchi principali.
Una volta era semplice. Accanto alla filiera produttiva tessile-
abbigliamento (o pelletteria-calzatura), c’era un’area presidiata da
intermediari commerciali e grossisti, che si occupavano di fare ar-
rivare i prodotti ai dettaglianti. Spesso la vendita avveniva tramite
rappresentanti che giravano l’Italia su e giù con un furgoncino carico
di campionari, con a fianco una modella per fare vedere i capi in-
dossati. Poi le cose cambiarono. Il caso già ricordato della Ftm che
si occupò di distribuire la prima sfilata milanese di Walter Albini è
sintomatico. I tre titolari, Aldo Ferrante, Giovanni Battista Tositti
e Gigi Monti, aprirono a fine anni Sessanta un’elegante showroom
nella centralissima via della Spiga a Milano dove erano in mostra le
collezioni di tutti gli stilisti da loro rappresentati. Ora erano i detta-
glianti ad andare da loro per scegliere i nuovi capi. Fu una piccola
rivoluzione che aprì la via a tante altre esperienze, al punto che Mi-
lano diventerà la capitale europea indiscussa per numero di show-
room attive38. Ma chi erano gli acquirenti? In primo luogo i grandi
magazzini, che avevano giocato un ruolo importante già nelle prime
fasi dell’affermazione della moda pronta, come visto, come pure le
catene al dettaglio. Poi c’erano i titolari dei grandi negozi delle prin-
cipali città, che trattavano un po’ tutti i marchi principali. Infine le
piccole boutique e i negozi specializzati, sia in città sia nelle località
turistiche. Tutto andava bene se non fosse stato per un particolare: le
percentuali maggiori di guadagno andavano ai possessori dei marchi,
come è ovvio, ma anche in misura non dissimile ai rivenditori finali.
Per questo motivo, lentamente negli anni Novanta e poi con una
forte accelerazione dal 2010, una delle strategie per combattere la
crisi fu quella di appropriarsi del valore della filiera a valle, in altre
parole, aprire direttamente negozi monomarca. Il risultato fu che
molti stilisti si trasformarono un po’ in retailer. Molti dei loro ne-
gozi sono piccoli capolavori, ideati da famosi architetti e persino

38 B. Vitti, Anno 1967. Milano diventa di moda, in Milano è la moda cit. (riprodotto

in Professione PR cit., pp. 70-74).


VI. Le sfide del ventunesimo secolo 205

da qualche archistar, con una scelta sofisticata di materiali e colori


che rimandano allo stile del marchio. La qualità dei servizi offerti
ai clienti è alta, l’immagine di esclusività assoluta. Per essi si par-
la di flagship store, negozi ammiragli, portabandiera del marchio.
Spesso sono affiancati da altri monomarca più ridotti ma posizionati
strategicamente nelle città o in nuovi luoghi del consumo come gli
aeroporti (questi ultimi da soli valgono il 5 per cento delle vendite
mondiali del lusso per la persona, pari a 11 miliardi di euro e in
forte crescita, a riprova della stretta integrazione tra moda pronta di
marca e la nuova élite cosmopolita)39. Abbiamo vari esempi in cui i
monomarca hanno surclassato i punti vendita indiretti: è il caso nel
2014 di Ferragamo (373 monomarca contro 270 indiretti), Prada
(594 contro 35), Zegna (298 contro 227), ma non di Armani, che
però vanta molti più punti vendita complessivi (518 contro 2186)40.
In ogni caso, essi si sono dimostrati importanti traini di crescita,
anche se i costi di realizzazione e gestione sono cospicui. Il risultato
è che si calcola che nel 2014 il 53 per cento del mercato dei beni di
lusso si venda attraverso monomarca (119 miliardi di euro) contro
al 47 per cento dei canali indiretti (105 miliardi)41.
Guardando all’interno, osserviamo come in questi super-negozi
la merce sia esposta con parsimonia, quasi a sottolinearne la rarità e
preziosità. Sorge spontaneo l’accostamento ideale con i musei; e in
certi casi la contiguità è fortissima. Come per gli “Epicentri Prada”:
il primo a New York, quartiere Soho, realizzato da Rem Koolhaas
con scale ondulate di legno, superfici di vetro e metallo che si ri-
flettono tra loro, muri disegnati, e in certe zone anche manichini e
vestiti appesi. Un vero ibrido tra negozio e museo42. E poi il secondo
a Los Angeles, sempre dello studio Oma, su Rodeo Drive di Beverly
Hills, seguito da un terzo a Tokyo, distretto Aoyama, progettato da-
gli architetti Herzog & de Meuron, con facciate lucenti di griglie di
vetro. Lo stesso vale per la lussuosa Armani Ginza Tower, creata a
Tokyo da Doriana e Massimiliano Fuksas nel 2007, e infine per le

39 Area Studi Mediobanca, Società della moda in Italia (2010-2015) cit., p. 7.


40 Ivi, p. 22.
41 Ivi, p. 7.
42 C. Béret, Shed, cathedral or museum?, in Shopping. A Century of Art and Con-

sumer Culture, a cura di C. Grunenberg e M. Hollein, Hatje Cantz, Ostfildern 2002,


pp. 76-79.
206 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

inaspettate geometrie dell’Omotesando Building di Toyo Ito, per la


Tod’s, sempre a Tokyo43. Tutto ciò non è sorprendente. Molti studi
hanno messo l’accento sullo stretto connubio tra consumo e spetta-
colarizzazione, visto come una tendenza di lungo periodo che per-
corre addirittura l’ultimo secolo, dall’apparizione dei primi favolosi
grandi magazzini dell’Ottocento, con luci, specchi e scaloni d’onore
su su fino a centri commerciali sempre più giganteschi: il consumo
pervasivo si innesta nel leisure e diventa un’esperienza di intratte-
nimento a livello globale44. Ora ci troviamo di fronte alle ultime,
sofisticate interpretazioni.
Il passaggio successivo non poteva che essere quello del museo
vero e proprio, come mostrano gli esempi dell’Armani Silos e in
parte della Fondazione Prada a Milano, del museo Ferragamo e del
Gucci Museum a Firenze e così via. Del resto, arte e moda hanno
da sempre dialogato anche nei contenuti, con la moda che traeva
continue ispirazioni dall’arte, e l’arte che metteva in mostra la moda
(storiche le mostre a New York su Versace al Metropolitan nel 1997
e su Armani al Guggenheim nel 2000).
In realtà, non si trattò solo di maggiori guadagni per i monomar-
ca. Il rapporto diretto con i clienti permette di vedere con imme-
diatezza gusti e nuove tendenze, grazie a un monitoraggio costante
che si avvale di tecniche di rilevamento immediate (come i codici a
barre), e tutto ciò consente un migliore e più rapido adeguamento
della produzione. La centralità del cliente assume un senso immedia-
to all’interno della rivendita diretta. Si capì allora che nuove strategie
di marca potevano formarsi più efficacemente proprio qui, a valle
della filiera, piuttosto che a monte, nelle sedi produttive. In pratica
cominciava a prendere forma quella che si definisce strategia pull,
dove cioè sono i consumatori a “tirare” i prodotti verso di loro se-
condo le loro esigenze, in sostituzione della tradizionale strategia
push, dove sono le aziende a “spingere” i prodotti da loro scelti verso
i consumatori. In questo modo il punto vendita diventava il vero
centro delle nuove tecniche di marketing.
Chi portò alle estreme conseguenza la strategia pull e la centrali-

43G. Giammarresi, La moda e l’architettura, Electa, Milano 2008.


44G. Ritzer, La religione dei consumi: cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsu-
mismo, il Mulino, Bologna 2000; M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi (1997), Bollati
Boringhieri, Torino 1999; Scarpellini, L’Italia dei consumi cit.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 207

tà del retail furono i protagonisti dell’ultima rivoluzione nel mondo


della moda: il fast fashion. Le sue premesse si trovano nell’industria
Usa degli anni Ottanta, con imprese tipo Gap, che riuscì a com-
primere i tempi di produzione dell’abbigliamento per capi basici a
tempi molto brevi, che scesero negli anni Novanta fino a 170-200
ore (pari a una settimana di lavoro). Era il cosiddetto pronto moda.
I capi erano in genere di qualità medio-bassa e l’offerta decisamente
a buon mercato. La trasformazione avvenne con l’arrivo della sve-
dese H&M e soprattutto dell’attuale leader di mercato, l’Inditex di
Amancio Ortega, in particolare con il marchio Zara, seguito da altri
brand pure spagnoli come Mango e anche da Uniqlo (Giappone) e
Primark (Regno Unito). I capi offerti ora hanno un deciso appeal
di moda, grazie agli orientamenti registrati nei negozi di vendita,
all’attenzione ai trend in voga sui social network, e a un occhio alle
ultime sfilate degli stilisti. Una rapida risposta al mercato si unisce
quindi a un disegno di stile. I modelli così ideati sono subito tra-
messi via pc ai vari produttori che in poche settimane consegnano
piccoli lotti, così che i negozi possano essere riforniti di capi nuovi
anche settimanalmente45. Dunque capi di moda e marcati, rinnovati
di continuo, e low-cost, con una strategia centrata sulla distribuzio-
ne che per certi versi avvicina come gestione queste catene più ai
supermercati che non alle rivendite di abbigliamento tradizionali.
Per ridurre i tempi, si ricorre anche al preconfezionato o a tecni-
che come la termosaldatura al posto della cucitura. Inditex ottiene
questi risultati grazie a un elevato livello di integrazione verticale,
producendo nelle sue imprese in Spagna, Portogallo, Turchia e Ma-
rocco; in altri imprese prevale il ricorso all’outsourcing per lo più
in Asia.
E in Italia? Per cominciare, non sono mancati pionieri di spicco
come Benetton, pur con le dovute differenze. Poi crescono rapida-
mente marchi fast fashion come Liu Jo, Pinko, Patrizia Pepe e molti
altri, anche grazie a due grandi centri di produzione specializzati. Il
primo in Emilia-Romagna, soprattutto tra Carpi e Bologna, che vede
come protagonista Centergross; il secondo in Campania, tra Napoli
e Caserta; entrambi non a caso nel cuore dei distretti industriali, che

45 Fast Fashion Systems: Theories and Applications, a cura di C. Tsan-Ming, CRC

Press, Boca Raton 2013.


208 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

si adattano anche così alle nuove esigenze del mercato46. Si tratta


però ancora di una fascia limitata per valore di produzione, anche
se con una forte tendenza all’export.
La vera partita in Italia si gioca tra fast fashion globali e mo-
da pronta firmata. Già, perché ci potremmo fare una domanda a
questo punto: il fast fashion fa concorrenza agli stilisti? Sulla carta
sicuramente no. Le due fasce sono ben lontane sulla piramide che
rappresenta il mercato, con il fast fashion alla base e le produzioni
degli stilisti verso la cima. Chi compra un vestito da 20 euro da Zara
difficilmente compra poi le scarpe da 500 euro da Prada. Ma le cose
sono più complicate. Potremmo dire che il rapporto è bilaterale: le
catene di fast fashion si ispirano alle tendenze di moda degli stilisti
e a volte collaborano direttamente con nomi noti per piccole colle-
zioni (capsule), come ha fatto ad esempio H&M con designer italia-
ni come Versace, Cavalli e Fiorucci. A loro volta, i marchi famosi
devono fare i conti con le strategie di vendita del fast fashion, e in
particolare l’accelerazione della produzione, molto gradita ai consu-
matori di oggi. Il potenziale acquirente infatti può vedersi una sfilata
in streaming sul suo smartphone ma se vuole acquistare qualcosa
deve attendere 6 mesi per trovarla in negozio (le sfilate di gennaio e
febbraio propongono la collezione autunno/inverno, quelle di set-
tembre e ottobre la collezione primavera/estate). Per ovviare a que-
sto intervallo, richiesto da una struttura produttiva di alta qualità,
alcuni propongono di preparare almeno qualche capo o accessorio
subito, magari presentandolo in una pre-collezione; altri addirittura
di allinearsi al trend e vendere tutto subito dopo le sfilate (see now,
buy now). Molti stilisti italiani si dimostrano cauti e continuano a
guardare con favore uno slow fashion che ha saputo assicurare qua-
lità e prestigio. Ma è possibile che si aprano soluzioni ibride, sia con
una differenziazione dei brand sia con collezioni speciali, così che le
sfilate si complicano per la diversità temporale delle offerte (senza
contare il trend di presentare insieme i modelli per uomo e donna).
Il risultato è che le fasce in maggiore espansione sono quella alta
della moda pronta di lusso e quella bassa del fast fashion, mentre la fa-
scia centrale dei beni intermedi subisce una contrazione. I consumatori

46 E. Cietta, La Rivoluzione del Fast Fashion. Strategie e modelli organizzativi per

competere nelle industrie ibride, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 187-220.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 209

sono sempre più consapevoli e meno influenzati unilateralmente dai


marchi, ritenendosi liberi di comprare e mischiare prodotti diversi, li-
velli diversi. Così il consumatore di Zara, magari una volta si comprerà
pure un paio di scarpe o un accessorio di Prada, in offerta, da portare
insieme a vestiti che cambia spesso; e il consumatore di marchi di lusso
non disdegnerà di comprare il vestito da 20 euro del fast fashion, da
mettere insieme a oggetti firmati. È un nuovo modo di mischiare tutto
creativamente, surfare attraverso stili e marchi diversi47. Così anche la
piramide del mercato si deforma e si comprime al centro.
Il nuovo consumatore ha infine a disposizione un’ulteriore carta
nel suo mazzo: andare nell’ultima tipologia di negozi apparsi, gli
outlet. Presenti nella forma attuale dagli anni Settanta, sono l’evo-
luzione per il vasto pubblico dei vecchi spacci aziendali. In Italia
sono comparsi nel 2000 ad opera dell’inglese McArthurGlen, pre-
sentando una messa in scena quasi teatrale di negozi che vendono le
rimanenze di fine stagione e super sconti tutto l’anno. A Serravalle
Scrivia, il primo outlet, la costruzione sembra un antico borgo ligure,
con le vetrine delle casette colorate che si affacciano sulla piazza rilu-
centi dei brand più prestigiosi. Un’interessante simulazione di città.
E dopo Serravalle, la società leader del settore ha realizzato Castel
Romano (ispirato all’antica Roma), Barberino del Mugello, La Reg-
gia vicino a Napoli, Noventa di Piave (nel 2014 quasi 20 milioni di
visitatori fra tutti)48. L’altro protagonista del settore è il fondo ame-
ricano Blackstone che, oltre a una quota in Versace, ha acquistato
cinque outlet in Italia: Franciacorta, Valdichiana, Bagnolo San Vito
presso Mantova, Molfetta a Bari, Palmanova. Nel 2015 si calcolava
che il gruppo controllasse 650 negozi con visite annue di 15 milioni
di consumatori49. Ma la scena è affollata, basti ricordare ancora il
Fidenza Village dell’inglese Value retail, Vicolungo e Castelguelfo
della spagnola Neinver e anche outlet di imprese nazionali. I facto-
ry outlet parlano molte lingue come proprietà ma soprattutto una,
quella italiana, quando si parla dei marchi venduti.

47 T. Polhemus, Style Surfing: What to Wear in the 3rd Millennium, Thames &

Hudson, London 1996.


48 McArthurGlen, 20 mln di visitatori nel 2014, in «Pambianco News», 4 dicem-

bre 2014.
49 Con Palmanova village Blackstone a quota 5 outlet e 650 store, in «MF Finanza»,

19 giugno 2015.
210 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

Il fenomeno outlet è in grande crescita a livello mondiale, dove


si calcola che valesse nel 2014 il 9 per cento dell’intero mercato del
lusso per la persona, pari a 19 miliardi di euro. Non sorprende. Qui
i consumatori trovano marchi famosi a prezzi convenienti, senza
aspettare i saldi, e oltretutto all’interno di belle strutture ricche di
servizi, bar e ristoranti; le imprese, da parte loro, possono guadagna-
re ancora qualcosa sulle rimanenze e soprattutto evitare che finisca-
no in negozietti o su bancarelle che potrebbero svilirne l’immagine.
Il risultato finale è che in Italia, nonostante un trend storico di
moderata contrazione del numero di rivendite (soprattutto piccole),
nel 2013 si contavano oltre 71 mila imprese di commercio al detta-
glio di abbigliamento, oltre a 30 mila negozi di mobili e arredi tessili,
e 16 mila rivendite di scarpe e articoli in pelle50.
Dunque il moderno consumatore ha un comportamento vario e
fluido. La sua evoluzione nel tempo ci ricorda un po’ una metafora
che Lévi-Strauss adotta per spiegare i diversi modi per arrivare alla
conoscenza51. C’è l’ingegnere e c’è il bricoleur. L’ingegnere quando
si muove ha in mente un progetto ben preciso. Per questo si procura
gli strumenti necessari a realizzare il suo piano, senza perdere tempo
a guardare altre cose. Ha le idee chiare, procede senza deviazioni,
e alla fine arriva al suo obiettivo. Questa figura rimanda un po’ al
consumatore di vari decenni fa, molto ingabbiato dalle norme sociali
e dalle restrizioni riguardo a classi, genere, età, situazioni contingen-
ti. Quando esce per comprare un vestito, ha bene in mente di cosa
ha bisogno: stoffa di un certo tipo e colore, sarto che già conosce
o al massimo alcuni negozi che vendono i capi che apprezza. Va e
compra, scegliendo in base ai suoi gusti tra una ristretta cerchia di
opzioni. Ottiene così il vestito che vuole, proprio quello che ci si
aspetta socialmente da lui. Tutto perfetto. Poi c’è il bricoleur. Egli
parte senza un progetto preciso, o forse ne ha tanti insieme, poi
dipende da quello che vede, quello che troverà sottomano. Ogni
elemento che il bricoleur acquisisce ha uno status fluido: può essere
usato in modi diversi, assemblato con altri, senza seguire necessaria-
mente uno schema preordinato. Prima di qualunque progetto, egli
dovrà guardare quello che ha in pratica e partire da questo, inven-

50 Istituto italiano di statistica, Annuario statistico italiano 2015 cit., p. 715.


51 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), Il Saggiatore, Milano 1964, pp.
29-35.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 211

tando e adattando le cose per soluzioni sempre diverse, consapevole


delle molte limitazioni che deve affrontare. Nulla è scontato, tutto
è variabile. Ed è proprio lui che ci ricorda il consumatore odierno:
creativo, libero di assemblare stili e vestiti, marchi e non-marchi,
canali di vendita diversi ma anche consapevole della variabilità di
oggetti e messaggi. Forse la sua cifra è quella di muoversi in libertà
in un mondo complesso.

4. La moda nella rete

Se per gli addetti ai lavori molti cambiamenti decisivi degli ulti-


mi decenni nella moda italiana, e non solo, sono avvenuti in prima
battuta nel settore economico e in quello distributivo, come visto,
per la generalità delle persone non ci sono dubbi: è Internet il pro-
tagonista. E non a torto. Le trasformazioni della rete e del digitale
hanno profondamente influenzato i comparti produttivi e cambiato
l’approccio verso il pubblico.
Prendiamo l’informazione, ad esempio. Il variegato mondo delle
riviste di moda, nato per parlare ai lettori attraverso la carta stampata,
si è ritrovato a dovere spesso gestire anche una versione digitale, con
caratteristiche piuttosto diverse. Possiamo distinguere due periodi in
questo processo. Il primo va all’incirca dal 1995 al 2005 e corrisponde
al cosiddetto web 1.0, cioè a una fase in cui la rete svolge soprattut-
to una funzione informativa: appaiono i primi siti aziendali, fra cui
alcuni di moda, vari grandi portali, e le riviste cominciano a migrare
sul web. In realtà, per quanto riguarda le testate del settore moda fu
un processo lungo. I primi a muoversi furono i grandi quotidiani: a
parte l’esperimento del 1994 dell’«Unione Sarda», troviamo in testa
nel 1995 il «Corriere della Sera» e la «Stampa», nel 1996 «la Repub-
blica» e via via gli altri. Questi primi siti erano a carattere per lo più
testuale e non molto ricchi di contenuti. Ci vollero tempo e molti
investimenti per creare un’offerta che non fosse lo specchio digitale
del giornale stampato. In questo quadro non sorprende che le riviste
italiane di moda si siano mosse lentamente verso questa nuova fron-
tiera. Anche se, per inciso, va osservato come nello stesso lasso di
tempo fossero usciti due prodotti editoriali molto speciali: i femminili
allegati ai grandi quotidiani («Io Donna» del «Corriere della Sera» e
«D - la Repubblica delle donne» per «la Repubblica»). Entrambi del
212 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

1996, essi proponevano per la prima volta un femminile in abbinata


con quotidiani “unisex” ad alta tiratura: finiranno per cambiare molti
schemi e incidere nella raccolta pubblicitaria anche del settore moda,
seguendo poi il cammino digitale dei loro quotidiani di riferimento.
Nel complessivo campo editoriale le cose cambiano nel periodo
seguente, dal 2006 circa in poi, con il web 2.0. Complici una mag-
giore diffusione di pc e dispositivi mobili e soprattutto l’avvento dei
social media (Facebook, Youtube e in seguito Twitter, Instagram,
ecc.), la rete si fa più allargata e interattiva. Gli utenti non si limitano
a raccogliere notizie ma creano autonomamente contenuti, postando
foto, video, testi e interagendo con i siti. In questa fase un po’ tutte
le riviste si dotano di un loro sito, dove caricano articoli del cartaceo
ma anche rubriche ad hoc, continuamente aggiornate, intrattenendo
un fitto dialogo con i lettori – e lo stesso vale per le prime riviste
solo online e i siti dedicati alla moda che si moltiplicano come fun-
ghi. Per coinvolgere ancor più i consumatori e sfruttare le nuove
opportunità, cresce la tendenza a creare sinergie tra i vari mezzi a
disposizione: stampa, portali web, persino tv. Un caso esemplare è
quello di Class Editori, creato da Paolo Panerai nel 1986, che affian-
ca a riviste sul lusso («Capital», «Class» e altre) il primo quotidiano
economico e di attualità sulla moda, «MF Fashion», nato nel 1997
da «Milano Finanza»; a questo si aggiungono piattaforme Internet e
tre canali televisivi (fra cui Class Tv Moda). Un esempio di successo
nell’uso diversificato dei canali esistenti per allargare il mercato, con
un occhio attento agli aspetti economici e finanziari, divenuti ormai
centrali. Un linguaggio professionale e per addetti ai lavori è anche
quello che contraddistingue i prodotti del gruppo creato da Carlo
Pambianco nel 2001, il quale, partito da una società di consulenza,
ha allargato le sue attività fino a comprendere portali, riviste («Pam-
bianco magazine») e il canale Pambianco tv.
Comunque, lo strumento forse più rappresentativo del muta-
mento in atto è il blog. La moda è, dopo la cucina, uno dei settori
con il maggiore affollamento di blog in assoluto. I siti specializzati ne
contano a centinaia e molti di questi sono diventati così famosi che i
loro fondatori (in genere fondatrici) ottengono contratti di pubblici-
tà con marchi famosi. Come Chiara Ferragni con «The blond salad»,
la cui fama la incorona tra le blogger più influenti a livello mondiale,
Chiara Nasti, Chiara Biasi, Laura Manfredi («Rock’n’mode»), Ve-
ronica Ferraro («The fashion fruit»), Irene Colzi («Irene’s closet»),
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 213

Nicoletta Raggio («Scent of obsession») e anche al maschile, con


«Mdv Style» dell’ex modello Mariano Di Vaio. Con milioni di fol-
lower sui social network, i blogger si sono conquistati un posto ac-
canto ai giornalisti più accreditati52. Il loro stile è però molto diverso:
diretto, immediato, molto personale, come in un dialogo continuo
e interattivo, anche se non privo di problematiche. Una ricerca sui
fashion blog infatti ha messo in rilievo come, in primo luogo, il de-
siderio di apparire immediati e affidabili scoraggi il ricorso a esperti
e professionisti del settore; poi, come la velocità dell’aggiornamento
dissuada da ricerche e lunghi approfondimenti; infine, come la fo-
calizzazione sullo sharing delle informazioni non abbia sviluppato
un sistema di citazioni condiviso, così che i post circolano senza ve-
rifiche53. In altre parole, il post affianca ma non sostituisce l’articolo
tradizionale, è qualcosa di diverso.
Questo non ha impedito ai blogger più noti di entrare di diritto
nella schiera degli influencer, una categoria che comprende personag-
gi dello spettacolo, giornalisti ma anche le nuove star dei social media,
in grado di influenzare appunto scelte di stile e di vita. Il fenomeno
non è nuovo, visto che molti volti famosi del cinema e della musica
hanno svolto ai loro tempi un ruolo importante come testimonial. La
differenza è che ora la celebrità si misura in numero di follower e che
ogni post, foto o video è visto e commentato da milioni di persone.
Il fenomeno è ben spiegato dagli studi “post-subculturali” degli anni
Ottanta e oltre. Rispetto alle componenti di classe e di resistenza
individuate dai primi studi sui gruppi giovanili, l’elemento fonda-
mentale di caratterizzazione appare ora il consumo, coniugato con i
tratti contemporanei di individualità e fluidità54. Così l’appartenenza
di gruppo si configura spesso come condivisione di interessi, stili e
siti. Tutto ciò rende le celebrities di riferimento particolarmente effi-
caci nel promuovere capi e marchi. E la moda si adegua, invitandole
a ogni evento e coinvolgendole nel lancio delle novità.

52 E.F. McQuarrie, J. Miller, B.J. Phillips, The Megaphone Effect: Taste and Au-

dience in Fashion Blogging, in «Journal of Consumer Research», 40, June 2012, pp.
136-158.
53 K. Detterbeck, N. LaMoreaux, M. Sciangula, Off the Cuff: How Fashion Blog-

gers Find and Use Information, in «Art Documentation: Journal of the Art Libraries
Society of North America», 33, 2, September 2014, pp. 345-358.
54
D. Muggleton, Inside Subculture: The Postmodern Meaning of Style, Berg, Ox-
ford-New York 2000.
214 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

A parte l’informazione, il digitale è entrato profondamente in


tutti i processi produttivi, come un po’ si è visto. Ma se dovessimo
indicare l’altro comparto dove ha causato un vero sconvolgimento,
questo è il settore distributivo. Qui l’e-commerce ha cambiato molte
cose.
Se guardiamo agli ultimi dati, in realtà, il commercio elettronico
è ancora piuttosto contenuto: si calcola sia passato dal 6 per cento
nel 2014 al 7 nel 2015 nel mercato mondiale dei beni di lusso, sia
pure con stime di crescita superiori a quelle di tutti gli altri canali di
vendita55. In Italia si stima che abbia comprato online in totale il 34
per cento della popolazione nel 2014, con un fatturato di 24 miliardi
di euro comprendente tutti i settori, ancora lontano dagli standard
europei. Il grosso è assorbito da attività per il tempo libero (che
comprende la ragguardevole fetta del gioco online) e dal turismo,
che da solo vale il 30 per cento. Molto distaccati sono tutti gli altri
comparti, come l’elettronica, l’editoria e anche la moda, che vale
appena il 2 per cento del totale56.
Quello che colpisce però è che ha cambiato le regole. Il suo fon-
damento è la disintermediazione: la rete permette infatti di saltare
la catena degli intermediari che da sempre costituiscono una parte
importante della filiera (distributori, grossisti, dettaglianti). In teo-
ria, un prodotto può passare direttamente dal produttore al consu-
matore, con notevole risparmio, al limite anche senza bisogno di un
negozio fisico. I vantaggi in termini di velocità e convenienza sono
massimi. Ma, al solito, le cose sono più complesse. In tutti i paesi
con forte sviluppo di vendite online (come Usa e Regno Unito) si
è verificato il fenomeno per cui una grossa fetta di transazioni non
avviene direttamente con i produttori, ma passa attraverso nuovi
grandi magazzini digitali (marketplace)57. Questi nuovi luoghi del
consumo permettono di confrontare migliaia di offerte e acquistare a
prezzi molto vantaggiosi. Non basta infatti realizzare un bel sito per
vendere: la logistica a supporto per l’evasione e la consegna dell’or-
dine è molto complessa e costosa, così come il marketing online,
ragione per cui molte imprese preferiscono evitare simili complica-

55 Area Studi Mediobanca, Top 15 moda Italia cit., pp. 1-2; Contactlab and Exane

BNP Paribas, Digital Frontier 2016, giugno 2016, pp. 2-3.


56 Casaleggio associati, E-commerce in Italia 2015, Milano 2015, pp. 9-12.
57 Ivi, pp. 22-23.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 215

zioni e non rinunciare ai margini più elevati che garantisce in genere


la vendita in negozio – lasciando prosperare i marketplace.
Anche in Italia sono ben presenti nel campo abbigliamento/acces-
sori colossi come le generaliste americane Amazon e eBay, oltre alla
tedesca Zalando che è specialista del settore; a questi si affiancano ini-
ziative italiane di minore dimensione, come ad esempio Banzai (con
ePrice e Saldiprivati). Nel campo della moda degli stilisti, l’esperienza
più importante è però quella di Yoox. La sua storia è interessante per-
ché vede un giovane imprenditore di Bologna, Federico Marchetti,
fondare nel 2000 un sito di e-commerce pensato per la moda di lusso,
un segmento allora poco frequentato perché si pensava che solo le
merci a basso costo si vendessero bene online. Partendo dal classi-
co garage, ma questa volta a Casalecchio di Reno, la sua start-up è
cresciuta rapidamente, trovando finanziamenti e allargandosi subito
a un respiro internazionale58. Nel 2009 è arrivata in Borsa e ha con-
tinuato la crescita, vendendo soprattutto marchi italiani; nel 2015 si
è fusa con uno dei suoi principali concorrenti, l’inglese Net-a-Porter
(controllata dalla svizzera Richemont). Il nuovo grande gruppo Ynap
è riuscito a entrare nella ristretta lista dei principali siti online, fianco
a fianco dei grandi protagonisti americani e cinesi.
Un altro caso interessante è quello di LuisaViaRoma. Aperta nel
1930 come boutique di lusso nella centrale via Roma a Firenze, l’at-
tività è passata nel tempo dalla fondatrice Luisa Jaquin al nipote
Andrea Panconesi. Questi ha affiancato pionieristicamente alla ven-
dita diretta di famosi marchi un servizio di vendite online, a volte
effettuato all’interno dello stesso negozio. Con questa e altre inizia-
tive, ha così integrato il commercio diretto e quello elettronico, che
si sono rafforzati a vicenda.
In parallelo si muovono i siti aziendali e cresce il commercio
elettronico diretto. Con alcune peculiarità. In primo luogo, non si
vende bene tutto allo stesso modo. In Italia, ma è un po’ uno schema
comune, tirano la bigiotteria, i vestiti per bimbi e le scarpe; restano
indietro borse, accessori di seta/sciarpe e infine vestiti59. Il risultato
è che anche le marche più note conseguono entrate marginali dalle

58 G. Williams, How Yoox turned the luxury-goods industry onto digital, in

«Wired», September 24, 2014.


59 Exane Bnp Paribas, Luxury Goods. Digital frontier 2016: Digital Luxury is tur-

ning Mainstream, Milano 2016, p. 6.


216 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

vendite elettroniche; secondo alcune stime, si va da un massimo del 6


per cento per Moncler e 4 per Luxottica a cifre tra l’1 e il 3 per cento
per Gucci, Ferragamo, Prada nel 201560. E ciò è solo parzialmente
legato al numero di prodotti in vendita online, considerato che si va
dal top di Gucci con quasi 3000 articoli ai 500/700 di Ferragamo e
Prada (al novembre 2014)61.
Questi dati non devono essere male interpretati però. A parte la
costante crescita dell’online, che dipende anche da fattori esterni
come lo sviluppo della rete, la sicurezza dei pagamenti, l’efficien-
za delle consegne e così via, il punto chiave riguarda l’integrazione
tra i diversi canali di vendita. In altre parole, il cliente interessato e
che spende di più, non si reca solo in negozio oppure compra solo
dallo smartphone, ma fa entrambe le cose. Ecco perché in realtà
crescono in contemporanea sia la distribuzione diretta, e quindi gli
investimenti in spettacolari flagship store, sia il conveniente commer-
cio elettronico. Come le moderne applicazioni, anche i clienti sono
multitasking e spingono canali di vendita apparentemente lontani a
svilupparsi di pari passo.

5. Verso il futuro: la tecno-eco moda

Cosa indosseremo in un domani? Ci sarà ancora una moda diffe-


renziata? Gli scrittori di fantascienza si sono sbizzarriti in proposito.
C’è chi ha immaginato abiti fatti da un tessuto vivente che si adatta e
reagisce a ogni stimolo (J.G. Ballard), capi mimetici in policarbonato
che si confondono con l’ambiente circostante (W. Gibson), indumenti
creati con schiume spray che si solidificano a contatto del corpo (P.
Dick). Un elemento comune a molti scenari del futuro è la presenza
di vestiti funzionali, tecnologici, comodi e tendenzialmente uguali per
tutti, come tute, tuniche e uniformi. Forse, l’egualitarismo fa parte
dell’utopia rappresentata. In altri casi, nel futuro sono presenti anche
elementi del passato. Di solito, gli apparati tecnologici e le strutture
hard sono modernissimi, gli elementi legati alla persona e al lusso sono
arcaici. In queste forme di retrofuturismo, gli abiti guardano indietro e

60 Ivi, p. 14.
61 Id., Altagamma retail evolution, Milano 2015, p. 15.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 217

sono molto variegati: dagli stracci degli abitanti dei ghetti urbani o del-
le aree post apocalittiche ai vestiti candidi, barocchi o stile steampunk
delle classi egemoni. La distopia si nutre di ineguaglianze.
Nell’attesa, possiamo constatare come il futuro sia già un po’ qui.
Molti tessuti hi-tech sono ormai disponibili: abiti con all’interno mi-
crochip, led, gps, rfid, sensori bluetooth e altro sono già prodotti e
possono dialogare con cellulari e computer, raccogliendo e inviando
informazioni anche sulla nostra salute. Lo stesso vale per i tessuti
cosmetici e medicali, impregnati di sostanze che vengono rilasciate
poco a poco a contatto con la pelle, evitando punture o problemi
di ingestione (sono ottimi anche contro gli insetti). Molte di que-
ste applicazioni hanno ancora una limitata commercializzazione; al
contrario, ad esempio, dei tessuti per lo sport e l’antinfortunistica
che già ora indossiamo: favoriscono la traspirazione, proteggono da
intemperie e sbalzi di clima, difendono da urti e shock. E non man-
cano le fibre fotoluminescenti per aiutarci al buio62.
L’Italia, da sempre molto attenta all’innovazione tecnologica so-
prattutto nel tessile, ha una buona posizione in queste produzioni.
Non a caso è uno dei leader nel segmento più alto del tessile tecnico
e dell’abbigliamento sportivo di alta gamma63. Tra l’altro, il distretto
di Prato, una volta noto per la rigenerazione degli stracci e ora spesso
alla ribalta per la presenza di ditte cinesi, comprende imprese all’a-
vanguardia nella ricerca tecnologica64. Anche perché non si tratta
solo di applicare la tecnologia a tessuti e abiti: i consumatori richie-
dono anche un’attenzione allo stile, per cui si può parlare di vero e
proprio techno fashion. Non solo. L’innovazione comprenderà sem-
pre più anche le ultime fasi della filiera, per cui i prodotti saranno su
misura per ogni cliente, passando definitivamente dalla produzione
di massa alla personalizzazione del prodotto e della vendita.
Ma quale sarà il ruolo dell’Italia in questi nuovi scenari? Lascian-
do da parte per il momento orizzonti molto futuribili, si può proiet­
tare l’attuale andamento in avanti di alcuni anni. Come ricordano

62 S. Seymour, Fashionable Technology: The Intersection of Design, Fashion, Scien-

ce, and Technology, Springer, Vienna 2008; R. Pailes-Friedman, Smart Textiles for De-
signers: Inventing the Future of Fabrics, Laurence King, London 2016.
63 Ufficio studi Acimit, Il commercio mondiale di tessile-abbigliamento: uno scena-

rio al 2020, Milano 2014, p. 6.


64
Cfr. ad esempio la mostra Futurotextiles. Surprising textiles, design & art, Museo
del Tessuto di Prato (30 settembre-13 novembre 2011).
218 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

alcuni studi, è necessario valutare il tessile-abbigliamento non come


un settore unitario ma nelle sue articolazioni65. Si possono quindi
suddividere i suoi prodotti in tre gruppi. Il primo è costituito da
prodotti primari (commodity), come filati e tessuti di base. Questo
gruppo è influenzato soprattutto dal fattore prezzo. Di conseguenza
probabilmente crescerà ancora il peso dei paesi a basso costo, che
diverranno predominanti, con una certa tendenza alla rotazione fra
loro alla ricerca di sempre maggiori economie produttive. Il secon-
do gruppo invece comprende i prodotti legati alla moda e allo stile
(fashion), e quindi soprattutto abbigliamento e biancheria. Anche qui
crescerà il peso dei paesi emergenti, ma si pensa resteranno primari i
produttori ad antica industrializzazione, soprattutto nella fascia alta.
Qui l’Italia potrebbe mantenere una posizione rilevante (attualmen-
te ha circa il 20 per cento del commercio globale di abbigliamento).
Il terzo gruppo è quello dei prodotti ad alta tecnologia, cioè tessuti
tecnici e abbigliamento sportivo (technology). Questo è il gruppo
che potrebbe espandersi maggiormente, anch’esso prevalentemente
grazie ai paesi più avanzati (Italia e Germania sono attualmente lea-
der del campo in fascia alta, come detto, con quote tra il 10 e il 15 per
cento a livello mondiale). Nei settori premium fashion e technology,
meno legati al prezzo, dunque, i paesi più industrializzati potrebbero
rimanere competitivi. L’eccezione rispetto a questo quadro duale è
data dalla Cina, vero leader globale, in grado di giocare le sue carte
sui due tavoli, sia a livello quantitativo sia qualitativo66. E un po’ lo
stesso discorso si può fare per il settore calzature-pelletteria, con la
divisione tra prodotti di base e prodotti di pregio e tecnici. In con-
clusione, l’Italia rimarrebbe tra i protagonisti anche in futuro, anche
se in un quadro molto più allargato geograficamente.
C’è però un’altra faccia degli scenari futuri, come sappiamo, e
questa è l’attenzione all’ecologia. In realtà non si tratta di una fac-
cia “naturale” opposta a una “tecnologica”, ma di un insieme com-
posito, in cui a volte l’innovazione contribuisce alla preservazione
dell’ambiente.
Dopo molti dibattiti e conferenze, nel 2012 la Camera nazionale
della moda ha preso un’iniziativa istituzionale e ha lanciato un Ma-

65 Ufficio studi Acimit, Il commercio mondiale cit., pp. 5-6.


66 Ivi, pp. 30-39.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 219

nifesto della sostenibilità per la moda italiana rivolto agli associati e


a tutti gli operatori del settore (non a caso, è stato sostenuto anche
dall’associazione degli imprenditori aderenti a Smi)67. Tutti sono
chiamati a rispettarlo. Anche perché la sostenibilità non è qualcosa
che riguarda qualche aspetto produttivo specifico o i rifiuti finali ma
percorre l’intera filiera.
Il primo punto dal manifesto riguarda il design, che deve met-
tere in conto fin da subito la durata del prodotto, il packaging e
lo smaltimento finale come elementi di impatto ambientale. Poi si
passa alle materie prime da utilizzare, che devono avere un ridotto
impatto ambientale (fibre vegetali), rispettare il benessere animale
(fibre animali), assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori. Qui si
apre un capitolo delicato. Molti ritengono che una vera posizione
ecologista debba limitarsi all’uso delle fibre naturali e rigettare del
tutto quelle man-made, in un mercato globale che vede dominare or-
mai proprio le fibre sintetiche al 62 per cento (con il poliestere come
fibra più diffusa in assoluto), seguite da cotone al 25 per cento, lana
all’1 per cento, altre fibre naturali al 5 per cento, e fibre artificiali
cellulosiche vicine al 768. Il cotone, diffuso e apprezzato ovunque,
comporta parecchi problemi: occupa molta terra sottraendola ad
altri usi, richiede fertilizzanti e antiparassitari chimici, e soprattutto
moltissima acqua, tanto da essere oggi forse la fibra con maggior
impatto ambientale. Rimedi? Coltivare cotone organico, cioè senza
concimi e con uso limitato di acqua grazie alla scelta dei luoghi o a
nuove tecnologie (ma la produzione così è più scarsa e più costosa);
oppure coltivare cotone ogm, che non richiede pesticidi (ma non tut-
ti sono favorevoli alla diffusione degli ogm). Le fibre animali invece
hanno un impatto limitato, tanto più che, con poche eccezioni tipo le
pecore merinos, gli animali non vengono allevati per le fibre: la lana,
come pure i pellami da concia, sono di fatto un sottoprodotto del
ciclo alimentare69. La limitazione o proibizione dell’uso di pellicce
è forse uno dei risultati più eclatanti della nuova sensibilità verso i

67 Camera Nazionale della Moda Italiana, Manifesto della sostenibilità per la moda

italiana, 13 giugno 2012 (reperibile su http://www.cameramoda.it).


68 Lenzing, The Global Fiber Market in 2015, http://www.lenzing.com, settembre

2016.
69 K. Fletcher, Sustainable Fashion and Textiles: Design Journeys, Earthscan, Lon-

don-Sterling 2008, pp. 6-38.


220 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

diritti degli animali. Quanto tempo è passato dagli anni in cui vip
come la Callas sfoggiavano con orgoglio una ricca pelliccia! Oggi le
pellicce non sono quasi più utilizzate dagli stilisti, per motivi di poli-
tically correctness e perché sostituite da materiali sintetici altrettanto
validi. Infine ci sono le fibre sintetiche. Il poliestere non richiede
terra e acqua, solo una quantità di energia di poco superiore al coto-
ne. Ma proviene da idrocarburi, quindi materiali non rinnovabili, e
pone problemi di smaltimento. Allora qual è la soluzione? La verità
è che non c’è una fibra miracolosa per tutto, ma bisogna pensare ad
abbinare fibre naturali e sintetiche a seconda dei casi e dei luoghi70.
I diritti e la sicurezza dei lavoratori sono un punto importante
sia nella lavorazione delle materie prime sia, ancor più, nella produ-
zione tessile (terzo punto del manifesto). Ciò riguarda soprattutto le
lavorazioni in outsourcing, che non esimono il committente dal con-
trollare le condizioni di lavoro. Così come deve controllare l’impiego
di materie nocive e inquinanti soprattutto nelle delicate fasi della
tintura e del finissaggio. Infine, si prevede un controllo su materiali
di imballo e controlli nella fase di vendita.
Ma qui, diciamo subito, subentra come protagonista il consuma-
tore. Perché è proprio nelle nostre modalità di uso dei vestiti che si
nascondono molte sorprese. Una ricerca svolta nei Paesi Bassi ha
stabilito che in media un abito resta nel guardaroba per 3 anni e
5 mesi, viene indossato effettivamente 44 giorni e lavato/asciugato
circa 20 volte (cioè ogni 2-3 giorni quando lo si indossa). Ebbene,
questi 20 lavaggi, casalinghi o professionali, provocano un impatto
ambientale superiore a quello dell’intero ciclo di produzione! E que-
sto in termini energia, acqua e detergenti. Il lavaggio di un capo in
poliestere, ad esempio, consuma 6 volte la quantità di energia che è
stata necessaria per la sua produzione71. La lezione da trarre, quindi,
è che dobbiamo prestare attenzione ai modi e ai tempi dei lavaggi.
Allo stesso modo, andrebbe assicurato un lungo ciclo di vita al
prodotto, da riciclare alla fine, ma solo dopo che è stato riparato e
rimodellato – cosa che ci rimanda alla vecchia tradizione di riusare,
rivoltare e passare i capi all’interno della famiglia, che è stata la norma
per secoli. Come ci ricorda una fiaba di Andersen, dove una piantina

70 Ivi, pp. 14-18, 27-30.


71 Ivi, p. 75.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 221

di lino piena di fiorellini blu si prepara a un lungo viaggio, nonostante


venga strappata dalla terra. Dopo penose operazioni si trova infatti
trasformata in una bellissima pezza di stoffa, che finisce su un letto;
quando si logora, viene rimodellata con ago e filo per crea­re fini capi
di biancheria e ricominciare di nuovo. E quando anche questi si usu-
rano, dopo strane operazioni, ecco il lino trasformato in carta, su cui
vengono scritti pensieri importanti, e rilegato in un libro. Alla fine il
libro ormai vecchio verrà gettato in un camino acceso, provocando
molte scintille, numerose come i fiorellini blu di una volta, che dan-
zano e cantano una canzone che sembra dire che la vita non finisce
mai, e sempre ricomincia72. Il passato qui ci fa da guida.
Per il riciclo e riuso dei capi, si stanno diffondendo sempre più
negozi di seconda mano e anche vintage, con abiti e accessori d’an-
nata e di pregio. Ogni grande città ha i suoi negozi di riferimento,
come Franco Jacassi o Cavalli e Nastri a Milano, che si affiancano
alle filiali di grande catene benefiche diffuse in Europa e negli Stati
Uniti. Uno dei pionieri del settore è senz’altro Angelo Caroli, con
la sua A.n.g.e.l.o., che da trent’anni opera a Lugo di Ravenna con
un grande negozio prima e un negozio online dopo. La passione per
il vecchio peraltro non è nuova e ha forse avuto il suo primo boom
negli anni Sessanta e Settanta, quando capi come le giacche militari
usate e vecchi jeans acquisirono uno specifico significato nel costu-
me politico dell’epoca. I jeans, in particolare, hanno mantenuto un
valore legato all’uso: più sono stinti dai lavaggi, lisi e rattoppati, più
acquisiscono pregio come capi autentici, con una storia di vita vera
alle spalle e non usciti dal primo negozio. Tanto che molti marchi
hanno fatto fortuna presentando jeans “vissuti” con toppe, tagli e
lavaggi artificiali che simulano l’invecchiamento. Il vintage, cioè il
capo particolare con parecchi decenni alle spalle, che dà il sapore
di un’altra epoca, ha già il suo posto in molti guardaroba attuali. E
non è da escludere che si sviluppi un vero e proprio collezionismo
d’autore, di cui si notano alcuni segnali (si pensi agli sneakerhead
che fanno follie per scarpe da ginnastica in edizioni limitate), per cui
un domani i capi degli stilisti italiani saranno magari richiesti come
pezzi unici, come ora avviene per gli oggetti di antiquariato e d’arte.
Ma quando arriva la fine dei capi, troppo usurati o non più richiesti

72 H.C. Andersen, Il lino (1848-49), in Fiabe e storie, Feltrinelli, Milano 2002.


222 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi

da alcuno? Che cosa succede? E di che quantità stiamo parlando?


Attualmente si calcola che il tessile rappresenti circa il 15 per cento
dei rifiuti indifferenziati73. Nel 2015 si è stimato che ogni anno in
Italia siano immessi sul mercato 13-15 kg di abbigliamento e calza-
ture nuovi pro capite (che salgono a 17-21 se si considerano anche
i tessili da arredamento), appena sopra la media europea74. Non
tutto ovviamente viene subito scartato (anche se il fast fashion ha
spinto in questa direzione). Comunque ogni anno un italiano scarta
16 kg di abiti, oltre a 2 kg di tessili da arredo, che costituiscono una
montagna di 110 mila tonnellate75. Di questo, ben il 68 per cento
viene riutilizzato, ma solo per un quarto sul mercato interno, magari
nei negozi che abbiamo citato sopra. La gran parte viene avviato ai
fiorenti mercati di seconda mano all’estero, in particolare in Tuni-
sia, seguita da Ghana e Niger e altri Stati africani, dove prosperano
giganteschi mercati dell’usato76. Gli abiti non più usabili e gli stracci
prendono la via dell’India e della Cina. Una seconda tranche di capi
usati invece è destinata al riciclo (29 per cento), soprattutto interno
e poco verso l’Africa. Si procede qui con una fase di selezione che
avviene in centri specializzati come quelli di Napoli ed Ercolano;
quindi una parte viene spedita per il riutilizzo alle industrie tessili
che la usano per scopi secondari (come riempimenti, imbottiture,
tappezzerie), un’altra parte è trasformata in pezze e stracci per uso
industriale. Resta un 3 per cento inutilizzato, che viene smaltito
internamente77. L’auspicio è che migliori soprattutto il processo di
riciclo, diventando più funzionale, completo e con bassi costi per
l’ambiente, soprattutto grazie a un maggiore recupero di materia
scartata nei processi industriali – come fanno ben sperare vari espe-
rimenti intrapresi78. Al contrario, la quota di riutilizzo appare già
piuttosto elevata.

73 Waste End. Economia circolare, nuova frontiera del made in Italy, numero mo-

nografico di «I Quaderni di Symbola», 13 marzo 2015, p. 111.


74 Assosistema, Studio di settore sul fine dei prodotti tessili, Roma 2015, p. 7 (le

stime si riferiscono a dati 2012).


75 Waste End cit., pp. 26, 35.
76 K. Tranberg Hansen, Youth, gender and secondhand clothing in Lusaka, Zambia,

in The Fabric of Cultures: Fashion, Identity, and Globalization, a cura di E. Paulicelli e


H. Clark, Routledge, London-New York 2009, pp. 112-144.
77
Assosistema, Studio di settore cit., pp. 9-12.
78
Ivi, pp. 19-47.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 223

Il nostro futuro sarà dunque anche un mondo di eco fashion, che


rifugge dallo spreco non più in nome della necessità, come una volta,
ma in nome di una scelta a favore della sostenibilità. I consumatori si
muoveranno a loro agio nel creare o adattare le proposte dell’indu-
stria: grazie a stampanti 3D, con cui già oggi si realizzano accessori
e vestiti in carbonio o fibra di vetro; alla personalizzazione dei pro-
dotti, magari anche tramite un design in crowdsourcing; al riutilizzo
di capi di seconda mano o magari vintage, come nuova forma di
distinzione o persino di investimento. Come un moderno bricoleur,
il consumatore di domani sceglierà e co-creerà ciò che desidera.
Naturalmente non sappiamo come sarà davvero il mondo di do-
mani. Ma da più parti si è sottolineato come la caratteristica del ven-
tunesimo secolo, ben più che in passato, sia uno sviluppo basato su
creatività e innovazione79. Molti dei mutamenti recenti alla base della
società della conoscenza, ad esempio quelli legati al digitale, sono
basati soprattutto sul capitale culturale, cioè su nuove idee e progetti
d’avanguardia. Per questo si è parlato di “industrie creative”, non
più legate solo all’ambito culturale (arte, divertimento, design, mo-
da, media) ma a tutte quelle produzioni di beni e servizi un po’ di
frontiera che si sviluppano grazie alla tecnologia e alla ricerca. Con
una possibile ricaduta positiva sull’intera società, che diviene più
flessibile, interconnessa e capace di adattarsi a fronte di situazioni
complesse80. E con il non trascurabile effetto di riuscire a coniugare
crescita economica e qualità della vita. Sarà proprio in queste “socie-
tà creative” del futuro che la moda italiana potrà dare, come ha fatto
per il passato, il suo contributo di originalità e bellezza.

79 United Nations/UNCTAD, Creative economy. Report 2008, Geneva 2008;

United Nations Development Programme, Creative economy report. Widening local


development pathways, Paris 2013.
80 OECD, The Creative Society of the 21st Century, Paris 2000.
TABELLE
226 Tabelle

Tabella 1. Numero imprese e addetti tessile, abbigliamento e pelletteria 1951-2011

Tessile Abbigliamento e calzature Pelle e cuoio


Anni Unità locali Addetti Unità locali Addetti Unità locali Addetti
1951 38.683 650.867 218.602 411.546 6.600 38.557
1961 44.456 598.569 181.187 513.395 5.906 49.899
1971 49.280 541.030 133.431 588.499 6.680 56.811
1981 60.061 493.590 118.165 676.118 11.480 82.572
1991 46.161 384.829 100.054 644.353 11.818 78.442
2001 26.351 283.087 72.250 473.785 10.231 68.147
2011 17.383 141.011 45.671 310.270 7.628 56.067

Fonte: elaborazioni da Istat, Serie storiche 150 anni, Roma 2011; Id., Censimento dell’industria e
servizi 2011, Roma 2013.

Tabella 2. I consumi di abbigliamento in Italia (spesa media familiare in euro)

Anni Abbigliamento e calzature Totale spesa non alimentare % abb. e calz. su totale
1973 14,69 84,20 17,45
1974 17,09 98,80 17,30
1975 19,27 124,40 15,49
1976 22,70 150,54 15,08
1977 25,30 175,57 14,41
1978 27,27 194,41 14,02
1979 36,73 236,50 15,53
1980 46,07 301,62 15,27
1981 53,56 359,99 14,87
1982 59,19 421,87 14,03
1983 61,00 458,28 13,31
1984 65,23 518,95 12,57
1985 73,42 613,14 11,97
1986 78,73 680,95 11,56
1987 92,95 743,53 12,50
1988 101,32 818,58 12,37
1989 109,65 930,71 11,78
1990 114,09 1003,28 11,37
1991 118,74 1106,33 10,73
1992 110,61 1145,76 9,65
1993 102,42 1123,07 9,12
1994 111,37 1246,11 8,93
Tabelle 227

Anni Abbigliamento e calzature Totale spesa non alimentare % abb. e calz. su totale
1995 111,15 1304,30 8,52
1996 111,79 1365,36 8,18
1997 135,79 1623,64 8,36
1998 139,34 1673,02 8,32
1999 138,86 1688,65 8,22
2000 144,58 1773,52 8,15
2001 152,70 1767,45 8,63
2002 149,18 1772,03 8,41
2003 154,62 1858,27 8,32
2004 157,21 1928,18 8,15
2005 152,05 1941,42 7,83
2006 156,28 1993,91 7,83
2007 156,19 2013,78 7,75
2008 149,57 2009,45 7,44
2009 142,23 1980,71 7,18
2010 142,01 1986,68 7,14
2011 133,59 2010,83 6,64
2012 119,85 1950,95 6,14
2013 109,00 1898,00 5,74
2014 114,41 2052,44 5,57
2015 115,81 2057,87 5,62
Fonte: elaborazioni da Istat, Serie storiche 150 anni, Roma 2011; Id., I consumi delle famiglie,
Roma, anni vari (2013 a 2016).
228 Tabelle

Tabella 3. Produzioni tessili e di fibre chimiche (tonnellate)

Fibre
Fibre
Totale chimiche
Totale filati chimiche
Filati Tessuti tessuti Seta tratta non
Anni (cotone + cellulosiche
di cotone di cotone (cotone + greggia cellulosiche
altre fibre) (artificiali,
altri tessuti) (sintetiche
rayon ecc.)
ecc.)
1901-10 150.357 150.357 ... ... 5.467
1911-20 173.972 173.972 ... ... 3.750
1921-30 180.225 180.225 117.330 118.741 4.913 16.177 112.025
1931-40 173.328 173.328 93.482 120.769 3.031 88.805 1.196
1941-50 87.736 119.584 57.636 56.725 1.720 88.594 329
1951-60 169.043 205.970 115.029 156.725 1.114 136.192 13.104
1961-70 184.583 241.346 119.612 179.209 570 194.025 137.014
1971-80 155.240 228.236 114.511 176.760 61 120.253 374.816

1961 193.110 239.315 131.198 182.199 761 178.399 43.257


1962 194.653 249.211 136.809 194.146 776 195.430 64.216
1963 191.277 251.406 137.140 202.285 618 205.135 79.084
1964 185.166 240.132 126.771 184.239 561 219.436 102.454
1965 156.819 200.838 96.961 145.825 611 191.495 110.719
1966 197.070 251.431 120.306 178.273 550 185.122 143.885
1967 194.591 246.750 118.097 179.444 478 186.603 153.022
1968 178.167 233.248 111.082 173.683 534 191.159 195.119
1969 181.784 254.442 108.803 176.652 499 204.690 237.023
1970 173.197 246.695 108.957 175.354 308 182.784 241.364
1971 154.034 225.211 103.331 163.297 153 184.421 300.979
1972 153.856 238.439 103.307 162.019 155 172.528 325.029
1973 147.978 237.258 104.560 170.930 119 164.364 382.296
1974 149.065 236.365 113.133 181.917 89 142.676 349.170
1975 138.131 200.431 104.525 160.327 55 89.783 321.367
1976 161.003 233.788 121.620 181.189 38 108.831 427.533
1977 146.648 211.770 111.049 170.985 108.649 387.301
1978 159.910 225.907 115.357 175.019 87.578 417.158
1979 171.588 242.023 129.794 197.682 78.564 421.694
1980 170.187 231.168 138.437 204.240 65.135 415.637
1981 160.478 215.496 145.738 215.665 60.324 515.358
1982 159.241 224.823 150.206 221.297 46.328 505.506
1983 149.959 216.578 147.547 205.958 29.724 539.458
1984 164.632 230.540 164.934 231.391 30.861 607.964
1985 161.621 221.115 160.457 226.401 30.253 659.952
Fonte: elaborazioni da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976; Id.,
Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Roma 1986; Id., Serie storiche 150 anni, Roma 2011.
Tabelle 229

Tabella 4. Le attività dell’abbigliamento nel 1937-1939


Attività Addetti Valore
della pro-
Esercizi duzione
Industriali (I) o Artigianali (A) attivi maschi femmine totale (migliaia
di lire)
Fabbricazione feltri, cappelli I 394 5.943 9003 14.946 312.591
A 978 846 1397 2.243 11.742
Laboratori di modisteria 4.123 1.162 8.013 9.175 48.113
Confezione di abiti I 1.357 4.617 22.287 26.904 562.453
A 129.424 83.906 90.898 174.804 829.065
Fabbricazione calzature non in pelle 1.026 2.218 65 2.283 14.892
Confezione di biancheria I 386 558 11.141 11.699 183.920
A 8953 948 10.796 11.744 22.007
Laboratori materassaio e tappezziere 5.705 7.075 1.707 8.782 58.972
Confezione di busti e simili 667 266 1.977 2.243 19.836
Fabbricazione di ombrelli 676 887 527 1.414 29.818
Confezione accessori del vestiario 236 219 867 1.086 29.775
Oggetti di ornamento 423 519 1.475 1.994 16.984
Produzione di bottoni 142 1.721 5.204 6.925 71.552
Confezione di bandiere, vele 538 299 2.181 2.480 55.664
Fabbricazione di guanti di stoffa 13 54 216 270 3.115
Confezione pelliccerie 1.224 1.398 3.063 4.461 68.355
Lavanderie, tintorie, ecc. 12.010 6.728 17.056 23.784 87.173
Confezione di parrucche 87 165 110 275 796
Penne e piume ornamentali 55 56 293 349 2.769
Tintoria di paglia, truciolo 34 127 123 250 _
Servizi di stabilimento 462 150 612 _
Totali 168.451 120.174 188.549 308.723 2.429.591

Diffusione regionale
Piemonte 21.356 14.059 27.062 41.121 408.038
Liguria 5.618 3.258 8.087 11.345 80.566
Lombardia 31.241 27.831 47.778 75.609 813.500
Venezia tridentina 2.778 1.801 2.206 4.007 27.996
Veneto 13.852 9.474 13.739 23.213 156.202
Venezia Giulia e Zara 4.772 2.914 5.547 8.461 64.699
Emilia 14.490 8.435 18.242 26.677 178.932
Toscana 13.549 8.112 18.467 26.579 191.088
Marche 6.685 3.669 5.908 9.577 37.664
Umbria 2.426 1.148 2.040 3.188 17.788
Lazio 7.464 5.592 8.699 14.291 129.584
Abruzzo e Molise 5.466 4.707 2.060 6.767 21.930
Campania 11.422 10.648 8.721 19.369 125.644
Puglia 8.287 5.100 7.544 12.644 72.638
Lucania 1.744 1.515 554 2.069 7.671
Calabrie 5.654 4.443 2.144 6.587 15.938
Sicilia 8.726 5.590 7.529 13.119 57.096
Sardegna 2.921 1.878 2.222 4.100 22.617
Totale Italia 168.451 120.174 188.549 308.723 2.429.591
Fonte: elaborazioni da Istat, Censimento industriale e commerciale 1937-1939, vol. V, Industrie tessili,
dell’abbigliamento e del cuoio, Roma 1950.
230 Tabelle

Tabella 5. L’abbigliamento dei giovani nel 1967-1973 (classi medie, da 15 a 25 anni)

Anno 1967 Anno 1973


Valore totale Numero Valore totale Numero
(in migliaia di capi (in migliaia di capi
di lire) pro capite di lire) pro capite
Maschi
Abiti 9.392 3,9 4.934 1,8
Abiti eleganti 1.167 0,5 1.024 0,4
Cappotti, soprabiti 4.863 2,0 4.044 1,5
Giacche 5.353 2,2 3.909 1,4
Pantaloni 14.022 5,8 15.880 5,9
Giacconi, giubbetti 1.824 0,8 4.098 1,5
Jeans 1.221 0,5 3.990 1,5
Maglie, pullover 19.152 7,9 21.946 8,1
Camicie 28.207 8,0 19.330 7,2

Femmine
Abiti 22.484 9,3 12.923 5,0
Abiti eleganti 6.311 2,6 3.787 1,5
Soprabiti, impermeabili 8.052 3,3 7.524 2,9
Giacche 3.115 1,3 1.612 0,6
Pantaloni 4.567 1,9 11.643 4,5
Tailleur 9.448 3,9 4.350 1,7
Gonne 20.046 8,3 17.274 6,7
Giacconi, giubbetti 1.067 0,4 2.789 1,1
Jeans 556 0,2 3.378 1,3
Maglie, pullover 12.066 5,0 25.718 10,0
Camicette 20.649 8,5 17.094 6,7
Fonte: elaborazioni da Ente italiano della moda, Il mercato dell’abbigliamento ed il guardaroba
della popolazione adulta italiana, Torino 1978 (tabelle da 27 a 40).
Tabelle 231

Tabella 6. La produzione di abbigliamento nel 1971 (imprese con più di 500 addetti
e distribuzione regionale)

Settore Impresa Sede Numero addetti


Uomo Gft – Facis Torino 4.586
S. Remo Confezioni Caerano S. Marco (TV) 3.723
(Gepi)
Lebole – Arezzo 4.625
Euroconfezioni (Eni)
Abital Parona (VR) 2.512
Marzotto Valdagno – Salerno 3.587
McQueen (Eni) Pomezia (LT) 2.000
Monti di Abruzzo Pescara 1.385
(Eni)
Hesco Trebaseleghe (PD) 897
Lubiam Mantova 800
Core Verano Brianza (MI) 800
F.lli Corneliani Mantova 770
Nut Olmo di Creazzo (VI) 730
IN.CO Cameri (NO) 657
Hitman Corsico (MI) 555
Donna Vestebene Alba (CN) 2000
Gft – Cori Torino 1.200
Rosier Milano 1.080
Hettemarks Bari 888
Max Mara Reggio Emilia 816
Happening Osio (BG) 650
Impermeabili S. Giorgio Genova 630
Sport e lavoro Elleesse Perugia 609
Biancheria Iac (Gepi) Chieti 1.500
e camiceria Ingram Sansepolcro (AR) 1.000
uomo Aramis Basiano (BG) 975
Conelco Milano 865
Cassera Bergamo 560
Biancheria Imec Paderno d’Adda (CO) 680
donna
Bambini, Gruppo Tanzarella Marina di Monte 1.800
ragazzi Marciano (AN)
Vela (Gepi) Pescara 1.400
Corsetteria, MB Quarto Inferiore (BO) 500
costumi da Lovable Grassobbio (BG) 500
bagno Playtex Pomezia (LT) 500

Distribuzione regionale complessiva degli addetti abbigliamento %


Lombardia 30,2 Puglie 3,4 Liguria 0,9
Veneto 16,3 Lazio 3,2 Friuli Venezia Giulia 0,8
Toscana 14,6 Campania 3,0 Umbria 0,6
Piemonte-Valle d’Aosta 11,5 Abruzzi-Molise 1,3 Basilicata 0,2
Emilia-Romagna 7,4 Sicilia 1,2 Calabria 0,2
Marche 3,9 Trentino Alto Adige 1,1 Sardegna 0,2
Fonte: G. Pent Fornengo, L’industria italiana dell’abbigliamento, il Mulino, Bologna 1978, pp. 67, 71.
232 Tabelle

Tabella 7. Produzione complessiva comparto Tac (industrie tessili, abbigliamento


e calzature)

Valore Valore
Anni Anni
(in milioni di euro) (in milioni di euro)
1970 3.354,823 1992 72.889,940
1971 3.538,518 1993 74.581,661
1972 3.985,950 1994 83.494,340
1973 5.033,925 1995 94.728,119
1974 6.596,802 1996 94.164,729
1975 7.350,439 1997 97.965,436
1976 9.814,596 1998 101.849,175
1977 12.084,202 1999 99.170,729
1978 14.316,443 2000 107.896,903
1979 18.407,101 2001 114.128,934
1980 22.645,961 2002 112.785,116
1981 26.249,284 2003 108.726,978
1982 29.973,342 2004 104.773,101
1983 33.545,829 2005 103.090,988
1984 40.079,011 2006 105.223,392
1985 45.456,236 2007 109.084,180
1986 46.778,820 2008 105.632,955
1987 50.359,228 2009 88.258,458
1988 55.674,210 2010 96.436,012
1989 61.214,151 2011 103.866,066
1990 64.111,791 2012 96.867,857
1991 65.770,029
Fonte: elaborazioni su dati Istat (Aggregati dei conti nazionali per branca di attività economica,
NACE Rev. 1.1 e Rev. 2, I. Stat). In caso di ricalcolo, si è utilizzato il dato più recente.
Tabelle 233

Tabella 8. I distretti produttivi

2001 2011
N. distretti Unità locali Addetti N. distretti Unità locali Addetti
Tessili e
50 332.502 1.415.876 32 314.275 1.277.893
abbigliamento
Calzature,
24 138.111 565.022 17 108.648 428.977
cuoio e pelle

Distretti tessili e abbigliamento – Distribuzione geografica nel 2011


N. distretti Unità locali Addetti
Lombardia 7 114.188 505.511
Veneto 5 54.767 233.807
Emilia-Romagna 1 6.353 32.979
Toscana 4 56.605 206.677
Marche 6 27.110 105.630
Abruzzo 2 15.145 58.884
Campania 2 4.983 16.527
Puglia 4 33.419 111.573
Sardegna 1 1.705 6.305
Altre regioni 0 0 0
ITALIA 32 314.275 1.277.893

Distretti calzature, cuoio e pelle – Distribuzione geografica nel 2011


N. distretti Unità locali Addetti
Lombardia 1 12.556 47.931
Veneto 2 16.513 85.326
Emilia-Romagna 0 0 0
Toscana 5 32.610 118.703
Marche 7 39.503 150.337
Abruzzo 0 0 0
Campania 1 2.232 8.151
Puglia 1 5.234 18.529
Sardegna 0 0 0
Altre regioni 0 0 0
ITALIA 17 108.648 428.977
Fonte: Istat, 9° Censimento dell’industria e dei servizi. I distretti industriali 2011, Roma 2015.
234 Tabelle

Tabella 9. Importazioni ed esportazioni industrie tessili/abbigliamento e pelle/calzature


(milioni di euro)

Anni Import Export Saldo


Tessile e Pelle e Tessile e Pelle e Tessile e Pelle e
abbigliamento calzature abbigliamento calzature abbigliamento calzature
1970 195 27 541 252 346 225
1971 176 30 603 293 427 263
1972 221 44 718 356 497 312
1973 398 67 810 387 412 320
1974 507 76 1.053 537 546 461
1975 424 68 1.221 656 797 588
1976 765 147 1.715 946 950 799
1977 900 167 2.234 1.265 1.334 1.098
1978 942 190 2.823 1.548 1.881 1.358
1979 1.430 373 3.539 2.167 2.109 1.794
1980 1.731 329 3.731 2.153 2.000 1.824
1981 1.899 334 4.743 2.545 2.844 2.211
1982 2.194 447 5.641 3.287 3.447 2.840
1983 2.353 504 6.592 3.722 4.239 3.218
1984 3.099 696 8.092 4.555 4.993 3.859
1985 3.750 861 9.535 5.342 5.785 4.481
1986 3.765 852 9.983 5.350 6.218 4.498
1987 4.414 1.009 10.283 5.324 5.869 4.315
1988 4.826 1.198 10.671 5.293 5.845 4.095
1989 5.395 1.407 11.854 6.043 6.459 4.636
1990 5.484 1.528 12.827 6.396 7.343 4.868
1991 5.908 1.546 13.120 6.109 7.212 4.563
1992 6.351 1.726 13.802 6.290 7.451 4.564
1993 6.450 1.947 16.364 7.657 9.914 5.710
1994 8.031 2.855 19.124 9.343 11.093 6.488
1995 9.121 3.295 22.280 10.898 13.159 7.603
1996 8.536 3.368 22.813 11.441 14.277 8.073
1997 10.018 3.997 24.039 11.473 14.021 7.476
1998 10.685 4.052 24.515 11.168 13.830 7.116
1999 10.732 4.011 23.456 10.955 12.724 6.944
2000 12.770 5.479 26.733 13.345 13.963 7.866
2001 13.737 6.452 28.737 14.565 15.000 8.113
2002 13.888 6.378 27.631 13.576 13.743 7.198
2003 13.866 6.216 26.251 12.694 12.385 6.478
2004 14.536 6.147 26.326 12.727 11.790 6.580
2005 15.177 6.484 25.980 12.479 10.803 5.995
2006 24.673 40.682 16.009
2007 25.524 42.308 16.784
2008 24.718 40.911 16.193
2009 21.842 33.093 11.251
2010 25.960 37.338 11.378
2011 28.876 41.979 13.103
2012 26.526 43.101 16.575
2013 26.623 44.975 18.352
2014 28.770 47.234 18.464
2015 30.421 48.033 17.612
Fonte: Istat, Coeweb, serie storica (classificazione Ateco 2002 fino al 2005, Ateco 2007 in seguito).
Tabelle 235

Tabella 10. I principali gruppi del settore moda in Italia. Tessile, abbigliamento, pelle,
calzature e accessori (imprese con fatturato oltre 200 milioni di euro nel 2014)

Fatturato
2014
Denominazione Principali marchi
(migliaia
di euro)
1 Luxottica Group 7.652.317 Arnette – ESS – K & L Eyewear – Luxottica
– Mosley Tribes – Oakley – Oliver People
– Persol – Ray-Ban – Sferoflex – Vogue
Eyewear – Alain Mikli – Sunglass Hut – Vari
marchi in licenza (occhiali)
2 Prada 3.551.696 Prada – Miu Miu – Church’s – Car shoe
3 Giorgio Armani 2.535.478 Giorgio Armani – Armani Collezioni –
Giorgio Armani Privé – Emporio Armani
– AJ Armani Jeans – EA7 – AX Armani
Exchange – Armani Junior – Giorgio Armani
Beauty – Armani Casa
4 Calzedonia Holding 1.846.747 Calzedonia – Intimissimi – Tezenis –
Falconeri – Signorvino (enoteche) – Cash &
Carry by Calzedonia Group (punti vendita)
5 Otb 1.535.855 Diesel – 55 DSL – Diesel Black Gold –
Marni – Maison Margiela – Viktor & Rolf
– Staff International – In licenza: John
Galliano, Dsquared2, Hello Kitty, Just
Cavalli, Marc Jacobs, Vivienne Westwood
6 Salvatore Ferragamo 1.320.901 Ferragamo – Salvatore Ferragamo – In
licenza: Emanuel Ungaro
7 Max Mara Fashion 1.309.962 Max Mara – Sportmax – Weekend by
Group Max Mara – Max&Co – Mrella – I Blues –
Pennyblack – Marina Rinaldi – Persona
8 Benetton Group 1.296.253 United Colors of Benetton – Sisley – Sisley
Young – Undercolors of Benetton
9 Ermenegildo Zegna 1.210.481 Ermenegildo Zegna – Z Zegna – Agnona
Holditalia
10 Safilo Group 1.178.683 Carrera – Polaroid – Safilo – Smith – Oxydo
– vari marchi in licenza (occhiali)
11 D&G 1.044.716 Dolce & Gabbana
12 Tod’s 965.532 Tod’s – Hogan – Fay – In licenza: Roger
Vivier
13 Lir 933.911 Geox – Diadora
14 Valentino Fashion 721.471 Valentino – Valentino Garavani – RED
Group Valentino – In licenza: M Missoni
15 Zara Italia 705.122 Zara
16 Moncler 694.189 Moncler
17 Miroglio 655.621 Motivi – Oltre – Fiorella Rubino – Elena
Mirò – Luisa Viola – Per Te by Krizia –
Caractère – Diana Gallesi
236 Tabelle

Fatturato
2014
Denominazione Principali marchi
(migliaia
di euro)
18 LVMH Italia 652.517 Louis Vuitton – Dior – Fendi – Berluti –
Céline – Donna Karan – Nowness – Emilio
Pucci – Givenchy – Kenzo – Loewe – Marc
Jacobs – Stefano Bi – Thomas Pink – Bulgari
– Arnys – Loro Piana
19 H&M Hennes & 638.522 H&M – COS – & Other Stories – Cheap
Mauritz Monday – Monki – Weekday – H&M Home
20 Engifin 584.906 Filodoro – Golden Lady – Omsa – Philippe
Matignon – Hue – Sisi – No-nonsense –
Golden Point
21 Teddy 549.581 Terranova – Calliope – Rinascimento –
Kitana – Miss Miss
22 Givi Holding 548.746 Versace – Gianni Versace – Versace
Collection – Versus Versace – Versace Jeans –
Young Versace
23 Gucci Logistica 512.832 Gucci – Alexander McQueen
24 Loro Piana 505.502 Loro Piana – The Gift of Kings – Tasmanian
– Zelander – Loro Piana The Wave – Wish
– Cashmere Wish – Loro Piana Zibeline –
Zelander Flower – Denim Flower – Loro
Piana Baby Cashmere – Pecora Nera – The
Lotus Flower – Storm System – Loro
25 De Rigo 369.059 Police – Lozza – Sting – Sting Xs – Vari
marchi in licenza (occhiali)
26 Marcolin 362.133 Marcolin – Web – National – Vari marchi in
licenza (occhiali)
27 Piazza Italia 356.340 Piazza Italia
28 Brunello Cucinelli 355.909 Brunello Cucinelli – d’Avenza
29 Tecnica Group 331.061 Tecnica – Nordica – Blizzard – Lowa –
Rollerblade – Bladerunner – Moon Boot –
Dolomite – In licenza sui mercati esteri: Leki,
X-Socks
30 Compar 330.366 Bata – Weinbrenner – North Star –
Bubblegummers – Bata City – Bata
Superstore – Bata Factory Store – Athlethes
World
31 Marzotto – 317.989 Marzotto Tessuti – Guabello – Marlane –
Manifattura Lane Fratelli Tallia di Delfino – Esthetia/G.B.
Gaetano Marzotto Conte – Tessuti di Sondrio – NTB Nuova
& Figli Tessilbrenta – Redaelli Velluti – Linificio e
Canapificio Nazionale – Lanerossi Coperte –
Ratti – Redaelli 1893 – Niedieck – Girmes
32 Gefin – Gruppo Etro 313.623 Etro – Vari marchi
33 Fendi 312.858 Fendi – Roma
Tabelle 237

Fatturato
2014
Denominazione Principali marchi
(migliaia
di euro)
34 Liu Jo 299.144 Liu Jo
35 Adidas Italy 291.582 Adidas Originals – Adidas Neo – Adidas by
Stella McCartney – Porsche Design Sport by
Adidas – Vari marchi in licenza
36 Pianoforte Holding 285.020 Yamamay – Jacked – Carpisa
37 Bottega Veneta 269.687 Bottega Veneta
38 Rino Mastrotto 265.544 Rino Mastrotto Group
Group
39 Furla 261.542 Furla
40 Chanel 251.935 Chanel
41 Aeffe 251.538 Alberta Ferretti – Moschino – Pollini –
Philosophy – Moschino Cheap and Chic –
Love Moschino – Vari marchi in licenza
42 Fulgar 235.738 Fulgar – Stretchone Body Care – Scintel –
Ddy – Q-skin – Q-nova
43 Imac 229.862 Imac – Primigi – Igi&Co – Enval Soft
44 Conbipel 223.945 Conbipel – Niama – Esisto
45 Onward Luxury 221.229 Jil Sander – Jil Sander Navy – Veronique
Group Branquinho – Vari marchi in licenza
46 Conceria Pasubio 219.624 Pasubio Leather
47 Canali Holding 215.546 Canali 1934
48 Twin Set – Simona 212.112 Twin-Set Simona Barbieri – Scee by Twin-Set
Barbieri
49 Roberto Cavalli 209.373 Roberto Cavalli – Just Cavalli – Roberto
Cavalli Junior – Cavalli Class
50 Fashion Box 209.075 Replay – We Are Replay – Replay and Sons –
Red Seal by Replay – White Seal by Replay
51 Dafin 203.836 Dani
52 Bag 203.836 Nero Giardini – NG Nero Giardini – Nero
Giardini Junior
Fonte: Area Studi Mediobanca, Focus “Aziende Moda Italia” (2010-2014), Milano, febbraio 2016
(l’elenco dei principali marchi è solo indicativo e si riferisce alla situazione nel 2014).
INDICI
INDICE DEI NOMI

Abegg, M., 85. Beatles, 26, 101.


Adovasio, J.M., 68n. Becattini, G., 152n.
Aftalion, F., 115n. Beecroft, V., 182 e n.
Airaghi, R., 159n. Belfanti, C.M., 75n, 123n, 124n, 125n,
Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, 23. 185n, 193n.
Albini, W., 136-137, 158, 204. Bellani, famiglia, 41.
Alessi, G., 132 e n. Bello, M., 193n.
Alighieri, D., 11. Bellocchio, M., 85n.
Amatori, F., 39n, 41n, 51n. Bellora, famiglia, 41.
Andersen, H.C., 111 e n, 220, 221n. Benadusi, L., 89n.
Angeletti, N., 175n. Benedek, L., 105n.
Antonioni, M., 96-97. Benenati, E., 124n.
Appadurai, A., 187n. Benetton, fratelli, 124.
Arkwright, R., 37. Benjamin, W., 13 e n, 57, 58 e n.
Armani, G., 131, 148, 157, 173. Berengan, G., 7.
Arnault, B., 195, 198. Béret, C., 205n.
Arnold, R., 52n, 106n. Berghoff, H., 180n.
Arthur, L.B., 63n. Berlusconi, S., 177.
Aspesi, N., 119n, 172. Bernasconi, P., 89n.
Attolini, C., 82. Bernocchi, famiglia, 41.
Augé, M., 206n. Bersani, P.L., 197.
Avedon, R., 158, 173. Berta, G., 39n, 47n.
Bertasso, G., 33n, 63n, 103n, 133n, 172,
Baccara, L., 82. 188n.
Bacci, F., 121. Bertelli, P., 165, 198.
Bailey, D., 97. Bevan, E.J., 73.
Balestra, R., 54, 135. Biagiotti, L., 135, 165.
Balla, G., 61 e n. Bianchi, L., 48.
Ballard, J.G., 216. Bianco, M., 164n.
Balti, B., 181. Biasi, C., 212.
Bandiera, M., 161. Bigazzi, D., 41n.
Barbieri, G.P., 173. Black, A., 25n.
Bardelle, famiglia, 169. Blasetti, A., 59.
Barile, N., 186n. Blaszczyk, R.L., 115n, 126n.
Barocco, R., 177. Bloomer, A., 88.
Barthes, R., 28 e n, 35, 113n, 169, 170 e n. Bocca, N., 136n.
Bassetti, famiglia, 41. Bocconi, fratelli, 51.
Baudo, G., 198n. Bonacossa, P., 72.
Baudrillard, J., 12 e n. Bonami, F., 174n.
242 Indice dei nomi

Bonamini, D., 79n. Caroli, A., 221.


Bonanno, A., 33n, 64n, 103n, 133n, Carothers, W., 77, 78 e n.
188n. Carrarini, R., 171n, 172n.
Boneschi, M., 84n. Carreras, A., 41n.
Borgese, G., 156 e n. Cartwright, E., 38.
Borletti, famiglia, 87. Castagnoli, A., 39n, 41n, 48n, 69n, 71n,
Boscono, M., 181. 72n, 152n, 154n, 164n.
Boselli, M., 154, 177. Castaldi, A., 173.
Bossi, O., 154. Castelletti, famiglia, 159.
Bourdieu, P., 26 e n, 30 e n. Cattaneo, famiglia, 41.
Bozzalla, S., 39n. Cavalli, R., 162.
Bramani, V., 79. Cavazza, S., 141n.
Brando, M., 105. Cederna, C., 172.
Branzi, A., 120. Ceraglia, M., 188n.
Bravo, A., 118n. Ceretti, V., 182.
Breward, C., 16n, 97n. Cerruti, N., 157.
Brigidini, C., 172. Cerulli, E., 24n, 102n.
Brunel, M., 123. Chacellor, C., 181.
Brunelleschi, F., 128. Chanel, C., 52, 126.
Bruni, C., 179. Chardonnet, H. de, 73.
Brusatin, M., 113n. Chen, C., 191n.
Bugialli, P., 98n. Chenkin, K., 3n.
Burani, M., 165. Chiapparino, F., 75n.
Burani, W., 165. Christensen, H., 179.
Burke, P., 18n. Ciavatta, A., 121.
Burman, B., 86n. Cietta, E., 208n.
Buttazzi, G., 136n. Clark, H., 54n, 169n, 222n.
Buziol, C., 168. Coen, M., 154.
Cohen, S., 99, 100n.
Cafagna, L., 71n. Colaiacomo, P., 186n.
Caggiula, famiglia, 82. Colarizi, S., 89n.
Califano, S., 115n. Colli, A., 39n, 75n, 76n.
Callas, M., 5-8, 50, 52. Colonna di Cesarò, S., 53.
Calvert, K., 19n. Coltorti, F., 151n.
Calvino, I., 109 e n. Colzi, I., 212.
Camagni, R., 148n. Conor, L., 91n.
Campbell, N., 179. Cook, F.H., 38n.
Canella, M., 23n, 24n, 84n, 92n, 94n. Corrigan, P., 20n.
Cantoni, famiglia, 41. Coveri, E., 162.
Capalbo, C., 53n, 54n, 135n. Craik, J., 63n.
Capasa, C., 167. Crane, D., 88n, 93n, 106n, 174 e n.
Capasa, E., 167. Crawford, C., 179.
Capone, F., 191n. Crespi, famiglia, 41.
Caprotti, famiglia, 41. Criscenti, L., 10n, 20n, 22n.
Capucci, R., 53. Crispolti, E., 61n.
Caracciolo Ginetti, G., 53. Cromwell, O., 15.
Caraceni, D., 53. Cross, C.F., 73.
Carcano, G., 72. Crotti, R., 154.
Cardin, P., 52. Cruz-Fernández, P.A. de la, 86n.
Cardon, D., 114n. Cuccia, E., 197.
Carducci, G., 60. Cucinelli, B., 167.
Carlo II, re d’Inghilterra, 15. Cunning, V., 8n.
Indice dei nomi 243

Cunningham, P.A., 90n. Ferragamo, S., 55, 162, 165.


Curiel, G., 84. Ferragni, C., 212.
Cusano, L., 10n. Ferrante, A., 204.
Ferrara, P., 94n.
D’Annunzio, G., 9, 80, 81 e n, 82, 84. Ferraro, V., 212.
D’Autilia, G., 10n, 20n, 22n. Ferré, G., 158-159.
Davis, J., 107. Ferretti, A., 76, 167.
Day, C., 180. Fila, E., 154.
Dean, J., 105. Filippi, F., 167.
De Certau, M., 187 e n. Fiorucci, E., 119-120.
de Grazia, V., 94n. Fletcher, K., 219n.
De Liguoro, L., 67. Flügel, J.C., 16 e n.
Della Valle, famiglia, 161. Folco, G., 154.
Della Valle, A., 161. Fontana, sorelle, 53.
Della Valle, D., 161. Fonticoli, N., 53.
Delon, A., 26. Ford, H., 138.
del Ponte, A., 120. Ford, T., 162.
De Luna, G., 10n, 20n, 22n. Foster, H.B., 23n.
De Nicola, A., 82. Foucault, M., 89, 90n, 98, 187 e n.
De Sole, A., 198. Frankel, D., 183-184.
Detterbeck, K., 213n. Fratini, F., 121.
Dick, P., 216. Fratini, G., 121.
Dior, C., 34, 52, 126. Frisa, M.L., 137n, 174n.
Ditto, B., 180n. Fugenzi, M., 22n.
Fuksas, D., 205.
Di Vaio, M., 213.
Fuksas, M., 205.
Dolce, D., 167.
Fusco, E., 168.
Donna Letizia, pseud. di Colette Rosselli,
6 e n.
Douglas, M., 28, 29n, 187n. Gabbana, S., 167.
Gable, C., 66.
Dreyfus, H., 187n.
Galeotti, S., 148.
Galitzine, I., 54.
Edoardo d’Inghilterra, principe, 7. Gandhi, M.K., 185.
Edoardo di Windsor, 48. Garavani, V., 54, 135, 159.
Edwards, T., 27n, 103n. Garbo, G., 66.
Ehrman, E., 97n. Garibaldi, G., 107.
El Guindi, F., 8n. Garofoli, M., 73.
Ellwood, D.W., 41n. Gastel, G., 173.
Engels, F., 38 e n. Gatti, G., 39n.
Entwistle, J., 180n. Gattinoni, F., 53, 84.
Etro, G., 168. Gavazzi, E., 72.
Evangelista, L., 179. Gavazzi, Pietro, 72.
Evans, C., 97n. Gavazzi, Pio, 72.
Ewing, E., 19n. Genoni, R., 60.
Gentile, R., 112n.
Fabiani, A., 53. Gerani, famiglia, 168.
Fallai, A., 173. Gere, R., 131-132.
Favero, G., 125n. Gerschenkron, A., 88n, 153 e n.
Federico, G., 40n, 71n, 72n. Giammaresi, G., 206n.
Fendi, sorelle, 54, 135, 165, 198. Giammetti, G., 159.
Fendi, A., 198. Giannelli, B., 149n.
Fernandez, N.P., 86n. Giannetti, R., 41n, 88n.
244 Indice dei nomi

Gianola, R., 198n. Hermes, M.E., 78n.


Giavazzi, G., 72. Hermès, T., 199.
Gibson, P.C., 180n. Hitler, A., 96.
Gibson, W., 216. Hollander, A., 16n, 17n.
Gibus, pseud. di Matilde Serao, 24n. Hollein, M., 205n.
Gigli, R., 167. Honeyman, K., 164n.
Gigli Marchetti, A., 91n, 92n. Horowitz, R., ix.
Ginocchietti, U., 159. Hyland, D.C., 68n.
Ginsberg, A., 98.
Giochetti, D., 121n. Imberti, G.B., 72.
Giorgini, G.B., 54-57, 135, 137. Imprenti, F., 85n.
Giuntini, S., 92n, 94n. Incalza, G., 7n, 103n, 133n, 188n.
Giusberti, F., 75n. Isherwood, B., 187n.
Giussani, D., 172. Ito, T., 206.
Givenchy, H. de, 126.
Gnoli, S., 67n. Jaquin, L., 215.
Goffman, E., 174 e n, 187 e n. Jefferson, T., 100n.
Goggi, A., 172. Jelmini, R., 165.
Goldschmied, A., 121, 168. Jobling, P., 16n.
Good, I., 69n. Johnson, D.C., 23n.
Goodyear, C., 79. Johnson, J.H., 17n.
Grant, C., 66.
Jolie, A., 193.
Grassi, A., 154.
Jones, D.T., 139n.
Grassi, N., 154.
Jordan, D., 105.
Grazioli, E., 22n.
Green, N.L., 46 e n. Jucker, G., 152.
Greyser, S., 101n. Jucker, R., 152.
Grimm, fratelli, 110. Juliani, G., 154.
Grunenberg, C., 205n.
Guagnoni, C., 105n. Kantorowicz, E.H., 117n.
Gualino, R., 74-75. Karaminas, V., 16n, 63n, 100n.
Gucci, G., 56, 162. Kawakubo, R., 185.
Gucci, M., 198. Keller, A., 72.
Guelpa, F., 202n. Kennedy, J., 162.
Guidi, L., 17n. Kenzo, 185.
Gulì, G., 154. Kerouac, J., 98.
Gundle, S., 53n, 54n. Kessler, gemelle, 124.
Keynes, J.M., 169.
Hackspiel-Mikosch, E., 63n. King, C., 101n.
Haertter, E., 126-127. Klee, P., 57 e n.
Halbwachs, M., 139 e n. Koda, H., 178n.
Hall, S., 100n. Koolhaas, R., 205.
Hallyday, J., 98. Kössler, E., 39.
Hård, M., 86n. Krizia, pseud. di Mariuccia Mandelli, 164.
Haring, K., 119. Krugman, P., 153 e n.
Hathaway, A., 184. Kuchta, D., 15n.
Hau, M., 91n. Kühne, T., 180n.
Hayter, G., 23n. Kwolek-Folland, A., 164n.
Haytko, D.L., 174n.
Headrick, D.R., 68n. Lagerfeld, K., 165.
Hebdige, D., 100n. Lagier, R., 92n.
Hepburn, H., 32. Lamarra, A., 17n.
Indice dei nomi 245

LaMoreaux, N., 213n. McMenamy, K., 181.


Lattuada, A., 174. McNeil, P., 15n, 16n, 18n, 63n, 100n,
Laurenzi, L., 93n. 102n.
Lazzeretti, L., 191n. McQuarrie, E.F., 213n.
Lebole, G., 47. Meiji, dinastia, 185.
Lebole, M., 47. Mele, fratelli, 51.
Lee, W., 123. Merlo, E., 41n, 45n, 50n, 56n, 149n, 157n.
Legler, F.A., 48. Merlotti, A., 49n.
Léonard, P.A., 82. Miceli, S., 202n.
Leonardi, E., 84. Michael, G., 179.
Leopardi, G., 13 e n. Milani, M., 172.
Lévi-Strauss, C., 35n, 114 e n, 137, 138 Miletti, W., 165.
e n, 210 e n. Miller, D., 107n.
Lindbergh, P., 173. Miller, J., 101n, 102n, 180n, 213n.
Litrico, A., 53. Miroglio, famiglia, 47.
Lollobrigida, G., 34. Missoni, famiglia, 160.
Lombardi, R., 152. Missoni, A., 160.
Lonardi, G., 199n. Missoni, O., 165.
Loren, S., 34. Mitchell, B.R., 42n, 140n.
Lotti, F., 164n. Miyake, I., 185.
Lucas, U., 22n. Modenese, B., 177.
Lucchini, F., 172. Mokyr, J., 37n, 39n.
Luigi XIV, re di Francia, 17-18. Molella, A., ix.
Molinari, A., 168.
Macintosh, C., 78. Moltedo, L., 165.
Maher, V., 85n. Mondadori, A., 171.
Malossi, G., 119n. Mondolo, G., 197n.
Mancinelli, A., 161n. Montanari, V., 172.
Manfredi, L., 212. Montesi, W., 53.
Manoelli, R., 177. Monteverde, A., 93n.
Mantero, G., 154. Monti, G., 204.
Marabelli, F., 120. Monti, P., 146 e n.
Maramotti, A., 48. Mora, E., 88n, 106n.
Marchetti, F., 215. Morini, A., detta Alfonsina Strada, 93.
Marchis, V., 49n. Morini, E., 136n.
Marcotulli, L., 154. Moschino, F., 167.
Marcucci, R., 57n. Moss, K., 173, 180-181.
Margherita di Savoia, regina d’Italia, 23, Mottola Molfino, A., 136n.
60. Muggiani, G., 79n.
Marinetti, F.T., 61. Muggleton, D., 100n, 213n.
Marinotti, F., 75. Mulas, U., 173.
Marsh, P., 192n. Mulassano, A., 137n, 172, 177n.
Marshall, A., 151. Municchi, A., 9n.
Marucelli, G., 84. Musatti, G., 151n.
Marx, K., 38n. Mussolini, B., 75.
Marzotto, G., 39. Muzzarelli, M.G., 8n, 52n, 185n.
Marzotto, P., 152.
Masotti, A., 122. Napoleone, imperatore dei francesi, 23.
Mateldi, B., 174. Nasti, C., 212.
Mattioli, F., 158. Natoli, S., 40n, 71n.
Mattirolo, A., 174n. Natta, G., 115.
Maynard, M., 186n. Necchi, A., 87.
246 Indice dei nomi

Necchi, V., 87. Ponti, famiglia, 41.


Necchi Campiglio, famiglia, 62. Ponti, G., 67.
Negrin, L., 15n, 102n. Porter, M.E., 153 e n.
Newton, H., 173. Portinari, B., 11.
Nizzoli, M., 87. Pouillard, V., 83n.
Power, T., 53.
Oddy, N., 86n. Prada, fratelli, 160.
Oldenziel, R., 86n. Prada, L., 166.
Olga di Grésy, 125. Prada, Mario, 166.
Oliva, A., 175n. Prada, Miuccia, 166.
Olmo, P., 154. Presley, E., 101.
Oltolina, famiglia, 41. Profumo, F., 49n.
Ortega, A., 207. Pucci, E., 56, 127.
Puccinelli, E., 161n, 171n, 175n.
Pacella, M., 10n. Puccini, G., 84.
Pailes-Friedman, R., 217n. Putnam, T., 86n.
Palmi, P., 202n.
Pambianco, C., 212. Quant, M., 97.
Panconesi, A., 215.
Panerai, P., 212. Rabellotti, R., 148n.
Paone, C., 154. Rabinow, P., 187n.
Papadia, E., 51n. Raggio, N., 213.
Paris, I., 48n, 50n, 51n, 172n, 177n. Ramponi, A., 154.
Parkins, W., 117n. Ramponi, D., 154.
Pasolini, P.P., 105 e n. Ramponi, F., 154.
Pasteur, L., 73. Ramponi, G., 154.
Pastoreau, M., 13, 14n, 20 e n, 24n, 113n, Ray, N., 105n.
114n. Reguzzoni, M., 193.
Patou, J., 52. Resmini, S., 188n.
Paulicelli, E., 54n, 61n, 68n, 169n, 222n. Ricci, L., 149n.
Pecci, A., 154. Ridolfi, M., 10n, 117n.
Peck, G., 32. Riello, G., 15n, 18n, 52n, 70n, 102n,
Peers, J., 83n. 185n.
Penn, I., 173. Righi, C., 154.
Pent Fornengo, G., 151n. Ritzer, G., 206n.
Perkin, W., 115. Rivetti, famiglia, 46.
Perrault, C., 110, 111n. Rivetti, C., 168.
Pescosolido, G., 42n, 50n, 152n. Rivetti, M., 148-149, 157.
Pfister, A., 161 e n. Rizzoli, A., 171.
Phillips, B.J., 213n. Roberta di Camerino, pseud. di Giuliana
Piaggi, A., 156, 172. Coen Camerino, 84.
Pietro il Grande, zar di Russia, 185. Romiti, C., 198.
Pinault, F., 195, 199. Romiti, M., 198.
Pinchera, V., 55n, 57n, 121n, 135n, 177n, Roos, D., 139n.
193n, 194n, 196n. Ross, R., 186n.
Pio X (G.M. Sarto), papa, 22. Rosselli Kuster, E., 171.
Pirella, E., 105. Rossi, A., 39.
Poiret, P., 178. Rossi, G., 107n.
Polese, F., 56n. Rossi, N., 49n.
Poletti, F., 125n. Rosso, R., 168.
Polhemus, T., 100n, 101n, 209n. Rousseau, J.-J., 19.
Pollo, P., 172. Roversi, P., 173.
Indice dei nomi 247

Rubartelli, F., 173. Spencer, H., 4n.


Ruffini, R., 168. Spinelli, A., 82n.
Ruggiero, A.M., 67n. Spivak, G.C., 185 e n.
Rusconi, E., 171. Stanfill, S., 54n, 85n, 164n.
Steele, V., 52n, 90n, 136n.
Sacchi, M.S., 199n. Stoppini, L., 177n.
Sahlins, M., 13n, 14 e n, 29n. Streep, M., 184.
Salvatici, S., 10n. Stucchi, E., 72.
Sandars, N.K., viin. Svendsen, L.F.H., 17n, 178n.
Santanera, L., 150n. Sylos Labini, P., 26n.
Sarti, F., 154.
Sartori, F., 172-173. Tabet, G., 79n.
Saussurre, F. de, 170. Taccani, C., 108n.
Saviano, R., 193. Tagliabue, J., 198n.
Savini, G., 53. Taglialatela, M.A., 82n.
Saviolo, S., 149n, 150n. Tattara, G., 40n, 71n.
Savoia, dinastia, 29, 60-61. Tennant, S., 181.
Scarpellini, E., 27n, 39n, 41n, 48n, 69n, Testa, A., 47 e n.
71n, 72n, 84n, 141n, 152n, 154n, Testino, M., 173.
164n, 171n, 186n, 206n. Thayaht, pseud. di Ernesto Michahelles,
Schapira, famiglia, 41. 61.
Scheffer, M., 169n. Thompson, C.J., 174n.
Schiaparelli, E., 107. Thoms, U., 180n.
Schields, R., 17n. Tirelli, U., 54.
Schiffer, C., 179. Tonchi, S., 137n.
Schön, M., 84. Toniolo, G., 49n.
Schrader, P., 131. Toscani, O., 105, 125, 173.
Schuberth, E.F., 53. Tosi Brandi, E., 52n, 85n, 185n.
Sciangula, M., 213n. Tositti, G.B., 204.
Scianna, F., 173.
Tourre-Malen, C., 92n.
Scott, W.R., 107n, 109 e n.
Tranberg Hansen, K., 185n, 222n.
Segre Reinach, S., 184n, 185n.
Tranquilli, G., 72.
Segreto, L., 41n.
Semmelhack, E., 18n. Travolta, J., 132.
Sergio, G., 6n, 176n. Trussardi, N., 161.
Seymour, S., 179, 217n. Tsan-Ming, C., 207n.
Simmel, G., 3, 4 e n, 12 e n, 16 e n, 30 e n. Turinetto, M., 92n.
Simonnet, D., 14n, 20n, 24n. Turlington, C., 179.
Singer, I., 86-87. Twiggy, pseud. di Lesley Hornby, 178.
Smith, W.R., 139 e n.
Soffer, O., 68n. Umberto I di Savoia, re d’Italia, 60.
Soldati, M., 59. Utrillo, M., 26.
Soli, P., 172.
Soprani, L., 161. Valentini, M., 154.
Sorgato, A., 49n. Valla, O., 95.
Sorrenti, M., 173. Vanni, C., 172.
Sotis, L., 172. Varlese, G., 182.
Sottsass, E., 120. Vartan, S., 98.
Sozzani, C., 167. Vassanelli, P., 154.
Sozzani, F., 175. Vasta, M., 40n, 71n, 88n.
Spadoni, M., 75n, 76n. Veblen, T., 4 e n, 5, 11, 12 e n.
Spagnoli, L., 48. Veneziani, J., 84.
248 Indice dei nomi

Versace, D., 158. Wintour, A., 175, 184.


Versace, G., 149, 158, 179, 198. Womack, J.P., 139n.
Versace, S., 158, 193. Woodward, S., 107n.
Veruschka, pseud. di Vera von Lehn- Worth, C.F., 52, 178, 193.
dorff-Steinort, 97, 173, 178. Wyler, W., 32.
Vigorelli, A., 87.
Vionnet, M., 66. Xi Ling-shi, imperatrice di Cina, 71.
Vitti, B., 163n, 175 e n, 204n.
Vittoria, regina d’Inghilterra, 23. Yamamoto, Y., 185.
Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 82. Yohannan, K., 178n.
Volli, U., 107n.
Volt, pseud. di Vincenzo Fani, 61n. Zakim, M., 16n.
Votolato, G., 106n. Zanotti, G., 161.
Zegna, E., 162.
Warhol, A., 119. Zegna, Giorgio, 162.
Weisberger, L., 184. Zegna, Giulio, 162.
Wertheimer, A., 199. Zincone, G., 105n.
Wertheimer, G., 199. Zinovev, A., 3 e n.
White, N., 123n. Zizza, R., 164n.
Williams, G., 215n. Zweiniger-Bargielowska, I., 91n.
INDICE DEL VOLUME

Premessa vii

I. I significati culturali del vestire 3


1. La funzione sociale ovvero abiti e classi, p. 3 - 2. Maschile
o femminile?, p. 10 - 3. Classi di età e riti di passaggio, p. 18
- 4. Le segmentazioni orizzontali: professioni e cultura, p. 25

II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 32


1. Tra ricostruzione e miracolo, p. 32 - 2. La cultura materiale:
il ruolo del tessile, p. 35 - 3. Confezione e vendita agli inizi
della produzione di massa, p. 42 - 4. Roma e Firenze, primo
asse dell’alta moda italiana, p. 52

III. Flashback: la moda in camicia nera 59


1. Vestire autarchico, p. 59 - 2. Abiti ed ecosistema, p. 68
- 3. La rivoluzione della chimica, p. 73 - 4. La mano e la mac-
china: sarti e attrezzi, p. 80 - 5. Il corpo delle donne, p. 88

IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 96


1. Nuovi stili, nuovi ruoli: il vento di Londra, p. 96 - 2. L’A-
merican look, p. 104 - 3. Un mondo di colori, p. 110 - 4. Abiti
e battaglie politiche, p. 116 - 5. Le frontiere della produzione:
jeans e maglieria, p. 120

V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 131


1. I cinque jolly del sistema moda Italia, p. 131 - 2. Un nuovo
epicentro: il mercato e i consumatori, p. 137 - 3. Il dinamismo
del settore industriale, p. 145 - 4. Gli stilisti, le nuove star,
p. 156 - 5. La “postproduzione” e il mondo dei media, p. 169
- 6. Le istituzioni e il ruolo di Milano, p. 176
­250 Indice del volume

VI. Le sfide del ventunesimo secolo 183


1. La globalizzazione, p. 183 - 2. Outsourcing e finanziariz-
zazione, p. 190 - 3. Dalla distribuzione al fast fashion, p. 204
- 4. La moda nella rete, p. 211 - 5. Verso il futuro: la tecno-eco
moda, p. 216

Tabelle 225

Indice dei nomi 241


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