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Emanuela Scarpellini
La stoffa dell’Italia
Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
Editori Laterza
© 2017, Gius. Laterza & Figli
www.laterza.it
Edizione
1 2 3 4 5 6
Proprietà letteraria riservata
Anno Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
2017 2018 2019 2020 2021 2022
Questo libro è stampato
su carta amica delle foreste
Stampato da
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-581-2762-9
1 L’epopea di Gilgameš, a cura di N.K. Sandars, Adelphi, Milano 1986, pp. 86-92.
viii Premessa
pp. 9-12.
3 H. Spencer, The Principles of Sociology, vol. 2, D. Appleton and Company, New
6 Donna Letizia (C. Rosselli), Il saper vivere di Donna Letizia (1960), Rizzoli,
Parole di moda. Il “Corriere delle Dame” e il lessico della moda nell’Ottocento, Franco
Angeli, Milano 2010 (in particolare il glossario finale).
8
Cappello, s.v., Enciclopedia Treccani online, http://www.treccani.it/enciclope-
dia/cappello.
I. I significati culturali del vestire 7
alta era il regno dei cappelli morbidi di feltro con cupola floscia,
tipo il modello Homburg che il principe Edoardo d’Inghilterra
aveva lanciato nel 18909; mentre operai e popolani indossavano al
massimo semplici berretti o baschi. Ugualmente le donne di alta
classe avevano un fornitissimo guardaroba di cappellini piccoli e
preziosi, da mettere nelle serate di festa e a teatro (come quello
che indossa la Callas) oppure ornati con mille fiori, nastri, veli,
pizzi, accessori fantasiosi; e ancora ampi cappelli a tesa larga. Ma
non erano per tutte, come ricorda Alessandra: “le belle signore
[...] portavano il cappello. Mi piaceva guardarle; [erano] tutti
a falda larga”10. Già, perché per le altre donne, salvo occasioni
davvero speciali, il copricapo era dato da semplici cuffie o fazzo-
letti di varie fogge, oppure da niente del tutto. Dunque, un solo
sguardo alla testa diceva molto. Ma perché questa importanza del
cappello? È facile rispondere pensando alla particolare rilevanza
che il capo ha rispetto al corpo: la copertura e l’ornamento del
capo sono immediatamente visibili. Molti cappelli sono ampi, e
ciò conferisce visibilità; sono molto decorati, e ciò conferisce pre-
stigio (dovuto alla ricchezza); sono molto alti, e ciò conferisce au-
torità (legata al pregio sociale dell’altezza). Ed è inutile ricordare
che l’oggetto che per eccellenza incarna l’idea di potere e regalità
è proprio un ornamento del capo, la corona. Per questo stesso
forte significato simbolico, coprirsi il capo è un segno importante
nella pratica di molte religioni; in questo caso però il copricapo
deve essere modesto, perché rappresenta un segno di rispetto e
sottomissione alla divinità.
La copertura legata al culto più diffusa era certamente il velo.
Nelle cerimonie religiose, e in generale dentro una chiesa, le donne
dovevano essere coperte, possibilmente non da vistosi cappelli ma
da semplici veli. Sempre. Fa impressione constatarlo oggi, in un pe-
riodo in cui il velo è diventato simbolo della condizione della donna
musulmana, ed è al centro di feroci battaglie politiche. Ma la verità
è che il velo o il panno in testa hanno accompagnato da sempre la
donna nella cristianità: segno di pudore, onorabilità, ceto sociale,
stato civile. Per secoli il capo della donna è stato uno dei luoghi
2016, pp. 7-17, 181-193; F. El Guindi, Veil: modesty, privacy and resistance, Berg,
Oxford-New York 1999.
12 V. Cumming, Gloves, Batsford, London 1982.
I. I significati culturali del vestire 9
13 A. Municchi, Signore in pelliccia dal 1940 al 1990, Zanfi, Modena 1993; Id.,
2. Maschile o femminile?
ria visiva del ’900”, http://www.avellinesi.it. Le foto citate in questo paragrafo sono
tratte per lo più dalla sezione “Passeggio”.
12 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
pedivano loro di vedere bene, le scarpe lucide con i tacchi alti “alla
francese” non permettevano movimenti rapidi e sicuri, le gonne che
si trascinavano a terra rallentavano il passo, i capelli lunghi erano
scomodi e difficili da tenere e – peggio di tutto – il corsetto rigido era
dannosissimo per la salute, una vera e propria mutilazione per il cor-
po. Per Veblen il motivo era chiaro. Le donne portavano agli estre-
mi il costume ostentativo, indossando abiti vistosi, costosi, sempre
nuovi e che di fatto impedivano qualsiasi forma di lavoro. In questo
modo esse dimostravano indirettamente la ricchezza del capofami-
glia con una forma di consumo vicario; il loro mondo principale era
quello della casa, la loro funzione quella di fare da ornamento per
l’uomo, vista la loro dipendenza economica16.
Simmel, che scrive più o meno in quegli stessi anni, è meno rigi-
do. Se è vero che la donna ha rivestito da secoli una posizione sociale
debole, allora questo spiega perché essa preferisca rimanere su un
terreno socialmente approvato, evitando di esporsi troppo come in-
dividuo e ricercando invece comportamenti accettati. La moda offre
un campo ideale: è possibile muoversi in un ambito del tutto sicuro,
ma allo stesso tempo sbizzarrirsi con forme e stili diversi e sempre
nuovi. In pratica, la moda rappresenta per le donne una forma di
compensazione per le mancate soddisfazioni nella vita professionale;
qui esse esprimono la loro individualità e creatività pur restando
sempre all’interno di canoni ben definiti e accettati di femminilità17.
A questo va aggiunto anche il fattore legato alla sessualità e all’eroti-
smo, per cui il vestito, mentre nascondeva, a volte suggeriva le forme
al di sotto, in un sottile gioco di seduzione a volte più potente della
nudità stessa (per l’ultimo Baudrillard, è proprio la seduzione il vero
segno distintivo delle società contemporanee, con la loro enfasi sul
consumo e lo spettacolo)18.
Fra parentesi, c’è un altro elemento che ricorre in queste prime,
importanti analisi sulla moda. E cioè il suo carattere ambiguo. Per
molti è uno spettacolo affascinante. È un segno del nuovo che avan-
za, della voglia di trasformarsi, degli incessanti mutamenti legati alla
vita stessa, quasi un simbolo della modernità di fronte a un passato
statico. Dall’altra intimorisce. Il suo flusso vitale sembra convertirsi
nel suo opposto, nella morte: Benjamin parla di “sex appeal dell’i-
norganico”, Leopardi, già prima, fa dialogare la Moda e la Morte
come se fossero sorelle19. Il nuovo ha molte facce.
Con questi pensieri in mente, torniamo a osservare la famiglia di
Luciano. Sicuramente alcuni di questi significati si sono “incarnati”
nei tessuti, per così dire, si sono sedimentati a formare la nostra
concezione di quello che va bene per gli uomini e per le donne.
Indirettamente ci spiegano anche perché sono così diffusi, e sono in
parte presenti ancora oggi, alcuni dei più tenaci stereotipi riguardo
alla moda: in primo luogo, che essa sia “una cosa solo per donne”;
in secondo luogo, che sia un fatto frivolo e superficiale, lontano dal
mondo del lavoro e dalle occupazioni serie – con l’implicita conse-
guenza che un uomo posato non dovrebbe occuparsene.
Comunque, per tornare alle nostre fotografie, notiamo che ci so-
no altri dettagli interessanti che parlano di distinzione. L’abbottona-
tura, per esempio: con i bottoni a destra per l’abito di Luciano e del
figlioletto, a sinistra per la moglie e le figlie. In parte questa usanza
sembra derivi dalle uniformi militari. Poiché la maggioranza delle
persone e quindi dei soldati è destrorsa, le armi sono portate sul lato
sinistro del corpo; l’abbottonatura che vede la sovrapposizione del
lembo della giacca sul lato destro eviterebbe possibili intralci. Va
anche detto però che è molto antica la credenza che il lato destro del
corpo sia maschile, quello sinistro femminile20. Poi ci sono i colori. È
facile osservare come gli uomini portino colori più scuri (idealmente
grigio), le donne colori più chiari e fantasie, e su questo torneremo.
Ma ci sono addirittura colori specifici per i sessi, come sappiamo:
sicuramente quando sono nate le bambine di Luciano sono appar-
si fiocchi rosa sul portone di casa, mentre per il bambino è stato
esposto un fiocco azzurro. È anche questa una storia che viene da
lontano. Pastoreau ci ricorda che vi fu una sorta di scambio di colori
a partire dal XVI secolo: nel medioevo il blu era il colore preferito
dalle donne (perché era il colore della Vergine, con il manto azzurro
del colore del cielo), mentre gli uomini indossavano il rosso (simbolo
G. Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte (1824), in Operette morali, Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1979.
20 M. Sahlins, Cultura e utilità. Il fondamento simbolico dell’attività pratica (1976),
21 M. Pastoreau, D. Simonnet, Il piccolo libro dei colori, Ponte alle Grazie, Milano
23 Ivi, p. 193.
24 L. Negrin, The self as image, in The Fashion History Reader: Global perspectives,
a cura di G. Riello e P. McNeil, Routledge, London 2010, pp. 504-505.
25 D. Kuchta, The Three-Piece Suit and Modern Masculinity: England, 1550-1850,
26 A. Hollander, Sex and Suits: The Evolution of Modern Dress, Knopf, New York
1994.
27Simmel, La moda cit., p. 33.
28J.C. Flügel, Men and their Motives. Psycho-Analytical Studies, Kegan Paul, Lon-
don 1934.
29 P. McNeil, V. Karaminas, Introduction: The field of Men’s Fashion, in The Men’s
Fashion Reader, a cura di P. McNeil e V. Karaminas, Berg, Oxford 2009, pp. 2-4;
C. Breward, The Hidden Consumer: Masculinities, Fashion and City Life. 1860-1914,
Manchester University Press, Manchester 1999; P. Jobling, Man Appeal: Advertising,
Modernism, and Menswear, Berg, New York-London 2005; M. Zakim, Ready-Made
Democracy: A History of Men’s Dress in the American Republic, 1760-1860, University
of Chicago Press, Chicago 2003.
I. I significati culturali del vestire 17
30 Hollander, Sex and Suits cit.; L.F.H. Svendsen, Filosofia della moda, Guanda,
a cura di L. Guidi e A. Lamarra, Filema, Napoli 2003; J.H. Johnson, Venice Incognito:
Masks in the Serene Republic, University of California Press, Oakland 2011.
32 R. Schields, A tale of three Louis: Ambiguity, masculinity an the bowtie, in «The
Per una cosa che è rimasta, altre sono scomparse. Come i tacchi
alti maschili. A lungo le élite ostentarono scarpe con tacchi alti, segno
visibile del fatto che uomini e donne della nobiltà potevano permet-
tersi di camminare poco. Se le donne indossavano preziose scarpe di
stoffa molto decorate, gli uomini curavano che le loro scarpe di stoffa
o cuoio si intonassero con i vestiti, e ciò valeva in particolar modo
per i tacchi, ben visibili. È famoso il decreto imposto da Luigi XIV
(sempre lui, che era attentissimo alla sua immagine e alle regole della
corte di Versailles che era un modello per tutta Europa)34, per cui solo
il Re Sole e i membri della corte potevano indossare tacchi alti rossi
– lo stesso re metteva usualmente scarpe a tacco squadrato alte fino a
dieci centimetri. Una certa influenza fu esercitata anche dalle calzature
militari a tacco alto, comuni soprattutto in Medio Oriente, molto utili
ai cavalieri durante il combattimento. Comunque, anche questa moda
cadde in disuso sotto le critiche degli illuministi, che la accusarono di
creare problemi di salute e comunque di essere una forma artificiosa
che la semplificazione generale degli abiti maschili non poteva più
tollerare. Verso la fine del Settecento sparirono dunque i tacchi alti
maschili, mentre quelli femminili, salvo la parentesi della Rivoluzione
francese, diventarono alti, sottili e sinuosi per arrivare a rappresentare
nel Novecento un vero e proprio simbolo di femminilità ed erotismo35.
36 K. Calvert, Children in the House: The Material Culture of Early Child hood,
1600-1900, Northeastern University Press, Boston 1992; E. Ewing, History of
Children’s Costume, B.T. Batsford, London 1977.
37 Famiglia di Pietro I.: mia sorella Giuseppina e mio fratello Modestino, in Archivio
20 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
fotografico “Avellino”. Le foto citate in questo paragrafo sono tratte per lo più dalla
sezione “Famiglie”. Su questo genere fotografico cfr. De Luna, D’Autilia, Criscenti,
L’Italia del Novecento cit., vol. 3, Gli album di famiglia.
38 La famiglia dell’avvocato Antonio L. e di Lalage G., in Archivio fotografico
“Avellino”.
39 Pastoreau, Simonnet, Il piccolo libro dei colori cit., pp. 42-47.
40 Famiglia di Pietro I.: nonna paterna Giuseppina e mamma Maria a spasso in
su usi di altre culture riguardo agli anziani P. Corrigan, The Dressed Society: Clothing,
the Body and Some Meanings of the World, Sage, London 2008, pp. 59-61.
I. I significati culturali del vestire 21
una certa età, tutte le donne si vestono di nero, come dopo un lutto
(che forse c’è stato tempo prima), quasi a segnalare un atteggiamento
di distacco e arretramento dalla vita attiva – anche se questo uso ri-
sulta più accentuato nelle regioni meridionali, mentre altrove si nota
una generica preferenza per i colori scuri. Quasi inutile osservare che
al contrario gli uomini anziani non cambiano il loro modo di vestire
nel tempo: le fotografie di uomini a passeggio o in casa non denota-
no mutamenti significativi, salvo anche qui una certa tendenza alla
sobrietà, ai colori scuri, a presentarsi più coperti. Va anche detto,
e anche questo è un dato significativo dei valori culturali correnti,
che il gruppo degli anziani è quello meno rappresentato nell’intera
raccolta fotografica. Comunque il nero simboleggia soprattutto la
sobrietà e la moralità e ha un diretto riferimento alle leggi suntuarie,
alla rinuncia al lusso (rappresentato dai colori accesi), alla serietà che
deriva dall’esperienza (il nero è anche il colore dell’autorità).
Oltre al raggruppamento in classi di età, i nostri vestiti segnano
visivamente anche il passaggio attraverso momenti speciali della vita.
A volte si tratta di un cambiamento fisico da uno stato all’altro (come
nella pubertà o nella gravidanza, che in molte culture sono spesso as-
sociate a tabù o speciali prescrizioni); altre volte segnala importanti
momenti sociali, come nel matrimonio. Sempre però indicano uno
stato di transizione delicato, un momento liminare, per cui in quel
momento si è diversi dagli altri membri della comunità, e questo va
comunicato.
Guardando le foto dell’archivio di Avellino, non ci sono dubbi su
quali siano i passaggi simbolici importanti, che spesso si identificano
con cerimonie religiose. Oltre alla nascita e quindi al battesimo di
cui abbiamo detto, numerose sono le fotografie di prima comunione
e cresima, che ne costituiscono un proseguimento ideale, condivi-
dendone anche la simbologia (abito bianco per tutti, con diversità
di fogge tra i generi). Ma come è ricordato il momento di crisi e
transizione per eccellenza, quello dell’adolescenza? Il momento su
cui gli antropologi hanno versato fiumi di inchiostro, descrivendo
iniziazioni spettacolari all’insegna di riti dolorosi, prove di coraggio,
pitture e tatuaggi, digiuni e segregazioni? Ebbene questo evento è
poco marcato nell’Italia degli anni Cinquanta. Certo, in questa fa-
se avviene l’abbandono dei vestiti da bambini a favore di quelli da
adulti, ma ciò avviene con gradualità e senza una cerimonia che lo
sancisca simbolicamente. Ci possono essere varie spiegazioni per
22 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
42 Quam singulari, decreto della Sacra congregazione della disciplina dei sacra-
Criscenti, L’Italia del Novecento, vol. 2 cit., pp. 243-298; M. Fugenzi, L’evoluzione del
mezzo tecnico, in Storia d’Italia, Annali 20. L’immagine fotografica 1945-2000, a cura
di U. Lucas, Einaudi, Torino 2004, pp. 667-700.
I. I significati culturali del vestire 23
45 M. Canella, Paesaggi della morte, Carocci, Roma 2010, pp. 117-121. Cfr. in
contrasto gli usi nuziali descritti in Wedding dress across cultures, a cura di H.B. Foster
e D.C. Johnson, Berg, Oxford 2003.
46 G. Hayter, The Marriage of Queen Victoria, 10 February 1840 (olio su tela),
1840-42.
24 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
1999, p. 121.
I. I significati culturali del vestire 25
51 A. Black, Storia dei gioielli, De Agostini, Novara 1973, pp. 162, 207-208.
26 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
52 P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali (1974), Laterza, Roma-Bari 1988, pp.
156-157.
53 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), il Mulino, Bologna
2001, in particolare pp. 73-78, 119-135. Le inchieste sociologiche citate nel libro sono
state svolte negli anni Sessanta e Settanta in Francia.
54 Ivi, pp. 209-215.
55
Uno dei più ricchi database è quello della Fondazione Archivio Audiovisivo del
Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), a cui si fa riferimento in questa parte.
I. I significati culturali del vestire 27
degli anni ’50; I gioiellieri R., anno 1956; Ferrovieri, anni ’60; Impiegati del banco di
Napoli, 1966; Impiegati della Coldiretti, anni ’50, in Archivio fotografico “Avellino”.
58 E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, La-
che sia funzionale al tipo di attività. Così la tuta degli operai permette
ogni tipo di movimento, è robusta e resiste agli strappi, non teme le
macchie; quella da pompiere è ignifuga e molto protettiva. Ma nella
maggioranza dei casi il legame con la funzione è labile o non esiste e
inutilmente si cerca di dare una spiegazione razionale a usi inveterati.
Roland Barthes ha parlato di “false funzioni” a questo proposito60:
a cosa “serve” un completo giacca e cravatta? La verità è che anche
i vestiti da lavoro si sono creati nel tempo e sono ricchi di signifi-
cati simbolici. Così è per il bianco delle professioni sanitarie, che
simboleggia l’igiene, come anche nel caso dei cuochi, la cui divisa è
arricchita dalla caratteristica toque blanche, berretta floscia di origi-
ni antiche, innalzata per distinzione nell’Ottocento sul modello del
cilindro. O ancora per l’abito scuro degli ecclesiastici, che rimanda
all’idea di sobrietà, serietà, penitenza.
Ovviamente la funzione professionale si intreccia con la rappresen-
tazione dello status sociale, visto che nei mestieri si riflette una chiara
classificazione gerarchica, con i lavori manuali meno qualificati alla
base su su fino al vertice con i mestieri più pregiati e retribuiti, spesso
legati a posti di potere. Con un corollario: visto che gli uomini hanno
da sempre ricoperto cariche importanti e di comando, hanno anche
indossato per secoli abiti più ricchi delle donne. Solo in epoca mo-
derna, come si è visto, la situazione è cambiata (almeno per gli abiti).
Quali parametri sono alla base di queste distinzioni? In alcuni
casi, come abbiamo detto, si sono costruiti nel tempo una foggia, un
colore e degli accessori tipici che consentono un’immediata identifi-
cazione. Prendiamo però il caso paradigmatico e non semplice da cui
siamo partiti, la differenziazione tra impiegati e operai. Come hanno
osservato molti studiosi, qui opera un binomio primario: formale/
informale. Da una parte abiti tagliati geometricamente, perfetti, sti-
rati, tendenzialmente un po’ rigidi nel loro insieme, che danno forma
al corpo; dall’altra abiti, sciolti, che cadono seguendo le linee del
corpo. È come se le regole della società si fossero incarnate nelle
forme dei vestiti e disegnassero un’identità più o meno soggetta al
rispetto delle convenzioni sociali, o se vogliamo più o meno attenta
alle forme. Antropologi come Mary Douglas non hanno dubbi: il
corpo è un’immagine della società e quindi segue le sue stesse regole;
60 R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strut-
Forse era vero, forse era un sogno. Girare libera in quella città piena
di vita, luci e profumi le dava come nuova vita. Era piena di energia, piena
di voglia di fare, anche cose strane, pazze. Come guidare per la prima
volta quel curioso scooter lasciato in strada dal suo nuovo amico. Non ci
pensò due volte: ci saltò sopra e lo mise in moto. E via! I corti capelli al
vento, un foulard a righe intorno al collo, la camicetta bianca a manica
corte, la gonna beige stretta in vita e poi giù vaporosa fino ai polpacci,
e i bei sandaletti appena comprati. Pronta per l’avventura. Certo, non
era facilissimo guidare nel traffico di Roma ma lei era felice: “Com’è
divertente!” gridò all’amico salito al volo in qualche modo sul sellino di
dietro. Travolgendo pedoni e bancherelle, con uno slalom temerario tra
macchine, autobus e motociclette, si lanciò spericolata nelle vie del cen-
tro, sfrecciando in via del Teatro Marcello, in Largo di Torre Argentina
e infine attraverso Piazza Venezia, inseguita da moto e camionette della
polizia. Una corsa pazza ma bellissima, che la giovane principessa termi-
nò in un Commissariato di Polizia per cercare di spiegare le sue prodezze.
(Vacanze romane, diretto da W. Wyler, Usa 1953)
innamora. I suoi primi atti di libertà sono quelli di lasciare gli abiti
ufficiali, per indossare gonna e camicetta più informali, comprarsi
un paio di sandaletti e tagliarsi i lunghi capelli per adottare una pet-
tinatura più sbarazzina. Alla fine tutto termina però, la principessa
rientra nei ranghi, assume di nuovo il suo ruolo, i suoi lussuosi vestiti
e lascia la sua fiamma. Ma capiamo che ora è cambiata, che quella
folata di libertà ha lasciato un segno indelebile nella sua persona.
In Italia – potrà sembrare paradossale – in molti potevano rico-
noscersi in questa storia. Le tensioni che percorrono la società già
negli anni Cinquanta e con più forza negli anni Sessanta raccontano
di una discrepanza tra le mete indicate dalla politica (i ranghi uffi-
ciali) e le aspirazioni di molte fasce sociali. Tanto che è la cultura
popolare a farsi spesso interprete di queste spinte fuori dalle righe,
mentre cambiamenti della moda segnalano una forte spinta verso il
mutamento sociale, a cominciare da fasce tradizionalmente escluse
dalla grande politica, come le donne e i giovani.
I cambiamenti in realtà erano già iniziati, piano piano, dal basso.
L’abbigliamento ne era una prova. Abbiamo visto il significato so-
ciale e culturale degli abiti, proprio con riferimento ad alcuni capi
di questi anni. Ma come era composto un abbigliamento completo?
E soprattutto, chi c’era dietro alla sua realizzazione?
Per capire meglio questi aspetti, proviamo a fare un immaginario
salto all’indietro nel tempo, per ritrovarci nella spaziosa camera da
letto di una famiglia di classe media, proprio di fronte a un grande
armadio chiuso, che potrebbe svelarci molti segreti1. Questo armadio
è di legno chiaro, precisamente di acero impiallacciato, e presenta
cinque ante con specchi centrali; è ben squadrato e poggia su gambe
sottili. Partiamo dalle porte di destra, che aprendosi mostrano una
sezione di abiti appesi, maschili e femminili. Quelli maschili sono
cinque completi invernali e cinque estivi, dai colori grigio e fumo di
Londra oppure a quadretti o spezzati. La figura che disegnano è quel-
la di un uomo dalle spalle ampie e ben sottolineate dalle imbottiture,
petto largo in primo piano, segnato da larghi revers e vita poco accen-
tuata, e un taglio doppiopetto o monopetto a tre bottoni. I pantaloni
sono diritti con una o nessuna pince. Il modello è quello tradizionale,
nato con un occhio all’eleganza di Londra, ma i riferimenti ideali qui
sono probabilmente gli attori di Hollywood e i personaggi famosi
che appaiono sui rotocalchi. La loro fattura parla chiaro: sono stati
cuciti da un sarto, dopo un’accurata scelta della stoffa, e veniamo a
scoprire – da una ricevuta lasciata in un angolo – che ogni abito è
costato 6000 lire. Uno o due di questi forse sono stati comprati già
confezionati, e a rigore sono fatti ugualmente bene per un costo ap-
pena superiore. Una discreta scelta, dunque, non sorprendente, visto
l’aumento dei consumi di abbigliamento che si è registrato in Italia
nel boom economico: dopo le ristrettezze della guerra, ci si è potuti
finalmente comprare vestiti e scarpe nuovi, nello stesso momento in
cui si firmavano le cambiali per acquistare la televisione, il frigorifero
e magari la prima macchina. Ora anche il vestito di qualità e di fattura
classica era entrato nel guardaroba, proprio come richiedevano le
regole della buona società. La vita era davvero cambiata.
Ma passiamo agli abiti della moglie. Se i vestiti per lui sottolinea-
no una certa linea di mascolinità, quelli per lei fanno altrettanto per
la femminilità. Ecco allora appesi vari abiti a tinta unita, pois, fiori,
anche sbracciati. Qui le caratteristiche sono la sottolineatura del seno
abbondante e di una vita molto stretta, ottenuti con l’ausilio di cor-
setti e guêpière, oltre a una gonna ricca e a pieghe, così che ne esce
una silhouette quasi a clessidra. Ci viene subito in mente il vestito che
abbiamo visto in Vacanze romane, come pure le figure di molte attrici
del tempo, come Sofia Loren e Gina Lollobrigida – senza contare il
riferimento al New Look di Christian Dior. Per certi versi, era una
decisa reazione alle limitazioni della guerra, quando gli abiti erano
spesso simili a uniformi e si risparmiava ogni centimetro di stoffa. A
guardare bene, non manca anche una certa varietà: si vedono anche
abiti con una linea più dritta e semplice, da portare con la cintura. Le
stoffe sono il cotone, la lana, il taffetà. Resistono, notiamo, i cappotti
pesanti e gli impermeabili tipici degli anni precedenti. Nella parte
centrale dell’armadio, sopra una cassettiera, pendono altri abiti corti:
ecco vari tailleur eleganti tipo Jackie O e alcune gonne plissettate.
Anche qui tutto fatto a mano, in base ai figurini, da una sarta o in casa.
In un cassetto, spuntano le camicette da abbinare: bianche oppure
a fiori di cotone o seta, ornate da collettini di pizzo. In un altro, si
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 35
6 Mokyr, The Lever of Riches cit., pp. 99-103; G. Berta, L’Italia delle fabbriche.
2003, pp. 100-111. Nel settore laniero, al di fuori dei poli indicati, si segnalavano varie
altre imprese, come la Filatura di Grignasco di Silvio Bozzalla e, nel Sud, le imprese
di Giuseppe Gatti. Ivi, pp. 254-255.
40 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
9 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 111-116, 252-
254.
10 E. Merlo, Moda italiana. Storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, Marsilio,
Venezia 2003, pp. 76-83; D.W. Ellwood, L’Europa ricostruita: politica ed economia tra
Stati Uniti ed Europa occidentale, 1945-1955, il Mulino, Bologna 1994.
11 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., p. 442; A. Carreras,
nel 1963, con 202 mila tonnellate – un andamento che la pone in Eu-
ropa occidentale appena dopo Germania e Francia, anche se molto
lontano dal paese leader, la Gran Bretagna. Una storia abbastanza
simile a quella della produzione laniera, sia pure su cifre inferiori,
che registrò 45 mila tonnellate nel 1938, per arrivare, dopo la caduta
e ripresa per via della guerra, a 77 mila tonnellate nel 196312 (Tabella
1). Schematizzando, dopo una veloce fase di ripresa ed espansione
seguita alla guerra, e durata fino al 1952, le imprese tessili continuano
a crescere, anche se più lentamente rispetto ad altri settori industriali
(non dimentichiamo che storicamente rappresentavano il secondo
comparto occupazionale dopo la locomotiva del metalmeccanico),
cercando di contrastare la crescente concorrenza internazionale con
politiche di concentrazione e automazione13.
Mancherebbe ancora la cravatta, preziosa per il suo tessuto di
seta – ed è una storia particolare, tutta italiana. Ma lasciamola da
parte, per il momento, perché dobbiamo seguire il viaggio dei nostri
tessuti fino a Luciano.
1946-1952, t. 2, Ipsoa, Milano 1982, p. 88; ivi, vol. 1959-1964, t. 2, Ipsoa, Milano
1982, pp. 121-124.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 43
14 Istat, Annuario statistico del commercio interno 1957, Roma 1959, p. 42.
44 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
15 Istat, Annuario statistico italiano 1956, Roma 1957, p. 297; Id., Annuario stati-
migrants in Paris and New York, Duke Univerity Press, Durham-London 1997, p. 44.
18 Ivi, pp. 44-51.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 47
19 G. Berta, Appunti sull’evoluzione del Gruppo GFT, Gruppo Gft, Torino 1989,
sui fondi dell’archivio storico sulla grafica e la pubblicità dal 1954 al 1979, Gruppo Gft,
Torino 1989, p. 76.
48 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
21 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 386-391, 388-
390.
22 I. Paris, Oggetti cuciti. L’abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli
italiana di scienze, lettere ed arti, VIII Appendice, Il contributo italiano alla storia del
pensiero, a cura di V. Marchis e F. Profumo, vol. III, Tecnica (1950-2000), Istituto
dell’Enciclopedia italiana, Roma 2013, pp. 630-640.
24 N. Rossi, A. Sorgato, G. Toniolo, I conti economici italiani: una ricostruzione
72), in «Journal of Modern Italian Studies», 1, 20, 2015, pp. 92-110; Id., Moda e
industria 1960-1980, Egea, Milano 2012.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 51
30 R. Arnold, Il significato dell’alta moda nella storia della moda, in Moda. Storia
31 C. Capalbo, Storia della moda a Roma. Sarti, culture e stili di una capitale dal
33 Capalbo, Storia della moda a Roma cit., pp. 132-137; S. Gundle, Hollywood
Glamour and Mass Consumption in Postwar Italy, in «Journal of Cold War Studies», 3,
4, 2002, pp. 95-118; E. Paulicelli, Framing the self, staging identity: clothing and Italian
style in the films of Michelangelo Antonioni (1950-1964), in The Fabric of Cultures:
Fashion, Identity, and Globalization, a cura di E. Paulicelli e H. Clark, Routledge,
London-New York 2009, pp. 53-72.
34 Capalbo, Storia della moda a Roma cit., pp. 154-158.
35
S. Stanfill, Introduction, in The Glamour of Italian Fashion Since 1945, a cura di
S. Stanfill, V&A Publishing, London 2014, pp. 8-29.
II. La moda della nuova Italia (1945-1965) 55
delle dive”. O come Guccio Gucci, che dal 1921 produceva raffinati
articoli per equitazione e di pelletteria che ebbero grande successo
internazionale a partire dagli anni Sessanta, con prodotti divenuti
iconici come i mocassini e i foulard. O ancora, per passare all’abbi-
gliamento, come il marchese Emilio Pucci, uno dei protagonisti delle
sfilate fiorentine, oltre che della vita aristocratica locale, che ideò
nuovi tessuti leggerissimi in seta e fibre sintetiche dai pattern ispirati
alla pittura antica o ad artisti contemporanei, e fu pioniere della mo-
da boutique per lo sport (famosi i suoi completi da sci, i costumi da
bagno e gli abiti di seta che non facevano pieghe)38. Ma al di là dei
singoli nomi, era il tessuto di piccoli e piccolissimi produttori sparsi
sul territorio o coagulati in alcuni insediamenti storici a costituire
la vera forza produttiva dell’area (nel 1961 era la seconda regione
d’Italia per numero di imprese nei settori moda, dopo la Lombardia,
e la terza per numero di addetti, dopo Lombardia e Piemonte)39.
L’iniziativa fiorentina non fu però gradita ai sarti romani, che nel
1953 decisero di disertare quasi tutti le sfilate di Giorgini e fondare
nel 1954 il Centro romano per l’alta moda italiana, ritenendo che fosse
Roma ad avere in mano le carte migliori per essere la capitale della
moda. Per tutta risposta, Giorgini si fece promotore nello stesso anno
del Centro di Firenze per la moda italiana. Se a ciò si aggiungono gli
enti già attivi a Milano e soprattutto Torino e, dal 1962, il Centro me-
diterraneo della moda creato a Napoli, si ha un’idea della complicata
geografia istituzionale che si era creata. E qui emerge un problema
endemico del settore, la forte conflittualità non solo tra case produt-
trici, come ci si può aspettare, ma anche tra cluster geografici. Una
conflittualità nociva alla lunga per tutti, tanto che faticosamente alla
fine si giunse a un accordo generale per creare un organismo unitario
sul modello francese: fallito un primo tentativo per una Camera sinda-
cale della moda nel 1958, visto che comprendeva solo Roma e Firenze,
si passò alla Camera nazionale della moda nel 1962, comprendente
tutti, organismo che si rivelò capace di stipulare importanti accordi
con grandi industrie tessili e di confezione40.
41 R. Marcucci, Anibo e made in Italy. Storia dei buying offices in Italia, Vallecchi,
43 W. Benjamin, Tesi sulla filosofia della storia, IX (1940), in Id., Angelus Novus.
1. Vestire autarchico
È con questa storia che uno dei registi cinematografici più in vista
del tempo, Alessandro Blasetti, promuove nel 1937 uno dei dettati
del regime fascista: creare una moda italiana. E lo fa con un film
con attori italiani, sceneggiatori italiani (tra i quali Mario Soldati) e
ovviamente vestiti italiani, rigorosamente provvisti del marchio di
garanzia e forniti da note sartorie di Torino. Inutile dire che gli sforzi
60 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
del regime non ebbero successo. La storia insegna che non basta pro-
grammare lo sviluppo a tavolino e poi propagandarlo per cambiare
le cose: troppi fattori culturali, sociali ed economici vi confluiscono.
La moda ne è un esempio. E tuttavia, nonostante gli scarsi risultati, il
periodo tra le due guerre è importante per comprendere gli sviluppi
successivi e merita quindi un approfondimento.
Per cominciare, da dove arriva l’idea di una “moda italiana”?
Al di là di un certo nazionalismo favorevole alle produzioni locali,
collegato alla presenza di un settore tessile molto sviluppato, forse
la prima importante icona di una moda italiana fu Margherita di
Savoia, la prima regina d’Italia. Sposa di Umberto nel 1868, fin da-
gli inizi mostrò un carattere deciso e un suo stile particolare, di cui
l’abbigliamento era parte integrante. Non si può parlare ancora di
una vera moda italiana, ma i suoi ricchissimi vestiti bianchi o comun-
que chiari, anche dopo il lutto, pieni di trine, arricchiti da preziose
spille e soprattutto da immancabili numerosi giri di perle crearono
un modello da imitare per l’aristocrazia, e un’immagine da amare
e rispettare per il popolo. Appassionata di montagna e automobili,
politicamente conservatrice, fu sempre attenta alla sua immagine e
al rapporto con i sudditi, che da parte loro la amarono molto, de-
dicandole monumenti, poesie (Carducci), rifugi di montagna (sul
Monte Rosa), dolci, una rivista («Margherita. Giornale delle Signore
italiane» dell’editore Treves), una famosa pizza, strade in varie città e
molto altro. Per un periodo si parlò di vera e propria voga del “mar-
gheritismo”. In ogni caso, il lusso del suo abbigliamento fu parte in-
tegrante dell’immagine di regalità che la regina volle costruire per la
casa Savoia, e i suoi particolari vestiti e gioielli furono forse il primo
esempio di un riconoscibile “stile italiano” per oltre cinquant’anni.
Ma c’erano anche spinte di altro tipo, ben incarnate in un’altra
donna d’eccezione, Rosa Genoni. Appassionata di politica e di moda,
la giovane sartina di Tirano (presso Sondrio) aveva studiato l’orga-
nizzazione dell’abbigliamento a Parigi, ed era convinta che si potesse
replicare anche in Italia. Esistevano infatti straordinarie tradizioni sti-
listiche e produttive a cui ispirarsi, a cominciare da quelle del Rina-
scimento, e c’erano tutte le potenzialità per creare un abbigliamento
originale e tutto italiano. E doveva essere una moda democratica: bi-
sognava fare dialogare l’arte come fonte di ispirazione con la tecno-
logia come metodo di produzione. In altre parole, Rosa Genoni era
a favore della produzione di massa di qualità in un’epoca in cui non
III. Flashback: la moda in camicia nera 61
1 E. Paulicelli, Rosa Genoni. La Moda è una cosa seria. Milano Expo 1906 e la
2010, p. 21.
3 Volt [V. Fani], Manifesto della moda femminile futurista, in «Roma Futurista»,
29 febbraio 1920.
4
E. Crispolti, Il futurismo e la moda: Balla e gli altri, Marsilio, Venezia 1986.
62 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
5 Archivio Fai, Fondo Villa Necchi Campiglio, Album 00, Amici 1929-1962, foto
era fisso: giacca lunga con cinturone e bandoliera, con sotto camicia
e cravatta, e poi calzoni infilati negli stivali di pelle, guanti e infine,
elemento originale, il fez, copricapo ripreso dagli arditi. Tutto rigo-
rosamente nero. Spesso queste divise erano realizzate in orbace, un
tessuto pesante e ruvido che si otteneva dalle capre sarde. È fin trop-
po facile dedurre da questa diffusione il desiderio del fascismo di
militarizzare e disciplinare la società. L’uso della divisa ha senz’altro
il ruolo di disciplinare i soggetti che la portano, nello spirito come
nel corpo che ne è l’espressione sociale esterna; per via della costri-
zione rappresentata dalla conformità del completo, uguale per tutti
e senza possibilità di minime variazioni individuali, sottolinea infatti
la sottomissione a un principio generale comune. Nello stesso tem-
po però la divisa separa chi la indossa dalla collettività, sottolinea i
legami speciali all’interno del gruppo, favorisce sentimenti di solida-
rietà6. Lo si vede dalle tante foto di gruppo dei fascisti: distaccandosi
dai disprezzati borghesi con i loro abiti grigi ma anche dai militari
con le divise tradizionali, loro, con un’uniforme trasgressiva, tutta
nera e con il fez, si riconoscevano orgogliosamente come un gruppo
speciale. Inoltre la divisa disegnava un certo tipo di corpo maschile,
che metteva in evidenza il torace (ampio e definito da spalline per
squadrare le spalle) e comportava una certa rigidezza, forzando un
po’ la postura per farla risultare ben eretta – nell’Ottocento addirit-
tura si cucivano le divise più strette per irrigidire e fare risaltare il
petto maschile e si portavano pantaloni con fettucce sotto ai piedi
per tenerli belli dritti7. Anche dalle divise passò la costruzione di un
immaginario fascista.
Ma cosa indossavano le persone nella vita quotidiana? Per ren-
dercene conto concretamente, immaginiamo nuovamente di poter
tornare indietro nel tempo e trovarci in una casa di lavoratori a metà
degli anni Trenta8. Una volta individuata la stanza da letto dei geni-
tori, un po’ scura e monumentale, eccoci di fronte all’oggetto che ci
6 L.B. Arthur, Dress and social control of the body, in Religion, dress and the body,
Berg, Oxford-New York 1999, pp. 1-7; J. Craik, Uniforms Exposed: From Conformity
to Transgression, Berg, Oxford-New York 2005.
7 E. Hackspiel-Mikosch, Uniforms and the creation of ideal masculinity, in The Men’s
Fashion Reader, a cura di P. McNeil e V. Karaminas, Berg, Oxford 2009, pp. 121-124.
8 Come in precedenza, la descrizione di questo armadio è stata scritta in base ai ri-
2015. Per la famiglia a cui si fa qui riferimento, cfr. le interviste a Raimondo B. nato nel
1932 e Concetta A. nata nel 1933, raccolte da A. Bonanno nel 2014.
III. Flashback: la moda in camicia nera 65
Nazionale della Moda, Edizioni del Prisma, Catania 2000, pp. 43-44, 57-65.
10 Ivi, pp. 89-99; A.M. Ruggiero, L’immagine della donna italiana nelle riviste fem-
minili durante gli anni del Fascismo, in «Officine della storia», 9, aprile 2013, http://
www.officinadellastoria.info.
68 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
2. Abiti ed ecosistema
Uno degli aspetti più affascinanti del vestire è che illumina i no-
stri rapporti profondi con l’ambiente. Ci racconta cioè come noi
umani abbiamo intessuto legami di collaborazione, sfruttamento ma
anche coevoluzione con molte specie animali e vegetali.
I nostri più antichi progenitori avevano imparato a cucirsi abiti
di pelli d’animale con aghi fatti d’osso; nel Paleolitico superiore pro-
babilmente già fabbricavano stringhe, reti, ceste e semplici forme di
cappelli e proto-vestiti, come mostrano le “Veneri paleolitiche”, sta-
tuette femminili dai tratti sessuali molto accentuati ritrovate in varie
zone d’Europa (che datano appunto tra 27.000 e 20.000 anni fa)12. La
grande rivoluzione agricola che trasformò i cacciatori-raccoglitori
nomadi in coltivatori stanziali fu spinta dal bisogno di assicurarsi
fonti di cibo più ampie e sicure – ma anche materiali tessili adeguati.
Gli animali smisero di fornire solo pelli e carne occasionalmente in
seguito alla caccia, ma fornirono latte, pelli, carne e pelo in maniera
continuativa grazie all’allevamento. E il primo animale a essere ad-
domesticato (dopo il cane), quello più importante di tutti, presente
in tutti i miti fu uno solo: la pecora.
Docile e di piccola taglia, eccellente produttrice di latte e di car-
ne, la pecora ha un prezioso vello di calda lana che può essere ta-
gliato una volta all’anno e che molto presto si imparò a utilizzare
prima come feltro e poi come filato e tessuto (i primi furono forse
i sumeri)13. La sua lana fu tanto apprezzata che molti allevamenti
si specializzarono per ottenerne di migliore qualità, con due precisi
11 E. Paulicelli, Fashion under Fascism. Beyond the Black Shirt, Berg, Oxford-New
try, Gender, and Status in the Upper Paleolithic, in «Current Anthropology», 4, 41,
2000, pp. 511-537.
13
D.R. Headrick, Technology: A World History, Oxford University Press, Oxford
2009, pp. 5, 27-28.
III. Flashback: la moda in camicia nera 69
obiettivi: una fibra più fine e lunga, un colore più bianco possibile
(in origine, il colore era spesso tendente al marroncino-rossastro). La
pecora si diffuse così quasi ovunque, anche se non era presente in
America dove c’erano invece lama e alpaca (la lana di questi ultimi,
finissima, era riservata alle classi più elevate, ad esempio tra gli In-
cas). La capra, che pure forniva un vello prezioso, non poté rivaleg-
giare. La storia culturale conserva perciò profonde tracce di questo
ruolo preminente in rapporto agli uomini. Lo zodiaco che è giunto
a noi dopo molti passaggi (proveniente ancora dalla Mesopotamia)
non ha dubbi a mettere il poderoso ariete nella prima posizione,
quella corrispondente alla rinascita della primavera; gli Argonauti
greci mostrarono tutto il loro valore impadronendosi in Colchide
del favoloso vello d’oro, appartenuto a un mitico montone; nella
tradizione ebraica la figura dell’agnello sacrificale, una volta effetti-
vamente immolato nel tempio, assunse un ruolo centrale divenendo
simbolo dello stesso figlio di Dio.
Per inciso, va ricordato che nell’Italia moderna era in piena fio-
ritura anche la produzione di cuoi e pellami, per restare sull’utilizzo
di prodotti animali. All’inizio del Novecento, in particolare, c’era
stata una forte spinta grazie a nuove macchine e nuovi prodotti che
semplificavano e velocizzavano la concia tradizionale. Nel 1911 il
censimento segnalava la presenza di 30 mila laboratori, più nume-
rosi e con un giro di affari superiore a quello dell’abbigliamento.
Anche in questo caso, le pelli provenivano in minima parte dall’Italia
ma erano importate da Asia, Africa e America, e quindi lavorate
per potere rifornire le industrie produttrici di articoli di consumo,
soprattutto valigie, borse e calzature, ma anche articoli industriali,
come molti tipi di cinghie. Diffusi in tutta Italia, questi laboratori
si concentravano spesso in zone specializzate: in Campania, dove
fioriva l’industria dei guanti; nelle Marche e in Lombardia (Varese,
Vigevano), importanti poli calzaturieri; in Toscana, per rifornire va-
ligerie e produttori di accessori in pelle14.
Per ritornare ai tessuti, va detto che quelli più antichi proveni-
vano invece dal regno vegetale15. Il lino, prima di tutti. Molto in uso
nell’antico Egitto per gli abiti dei ricchi e per gli involucri dei morti,
era abbastanza facile da ottenere. Bastava mettere a bagno i lunghi
steli della pianta e si ottenevano fibre flessibili e lucenti, molto adatte
per i climi caldi. L’unico problema è che non era facile colorarle e
quindi si usava abbinarvi ornamenti molto colorati – non è un ca-
so che la gioielleria egizia sia ancora oggi ricordata per la maestria
nell’uso dei colori. Il lino era anche utilizzato per i suoi semi, così
come un’altra pianta, la canapa, più robusta, era usata per molteplici
scopi dai tessuti ai cordami e alla carta. Solo molto più tardi essa
fu abbinata culturalmente principalmente al suo uso sotto forma di
medicinale e droga. Ma il re della fibre tessili fu certamente un fiocco
bianco e delicato che in origine cresceva spontaneamente in India
e nel Centro e Sudamerica: il cotone. Non è difficile identificare un
ristretto numero di piante che ha avuto un’importanza fondamen-
tale nel corso della storia, tanto da giustificare rotte commerciali,
causato guerre, fondato o minato poteri consolidati (a iniziare dalle
spezie). Fra queste c’è certamente il cotone. Conosciuta e lavorata
da almeno tremila anni, questa pianta ha una notevole resa, produce
fibre facili da lavorare, si tinge facilmente, è leggera ma resistente e si
è rivelata particolarmente adatta alla produzione meccanizzata. Già
molto diffusa nel medioevo in varie parti del mondo, Cina compresa,
fu uno dei prodotti centrali su cui si basò la prima Rivoluzione in-
dustriale, soprattutto nella Gran Bretagna che si riforniva di materia
prima in India; e fu per le piantagioni di cotone che aumentò la tratta
di schiavi verso l’America, accrescendo la concorrenza con il Nord
industriale e la rivolta morale contro la schiavitù che furono alla base
della guerra di secessione negli Stati Uniti. Ancora oggi, è la pianta
tessile più diffusa a livello globale16.
E l’Italia come entra in questa lunga storia? Il suo ruolo fu quasi
sempre quello di paese trasformatore, anche guardando indietro: la
produzione di materia prima locale esisteva ma non era in genere di
elevata qualità. In compenso, come si è visto, ci si specializzò in tutte
le successive fasi della lavorazione, al punto da fare del paese un fon-
damentale punto di riferimento per la produzione tessile. Con una
importantissima eccezione. Perché se il re dei tessuti era il cotone, se
16 G. Riello, Cotton: The Fabric that Made the Modern World, Cambridge Univer-
26 A. Colli, Fibre chimiche, in Storia d’Italia, Annali 19. La moda, a cura di C.M.
sostituto della lana derivato dalla caseina del latte, il lanital, inventato
da Antonio Ferretti: un filato morbido e caldo, solo meno resistente
della lana (sarà ripreso nel dopoguerra come merinova). E alla Snia
si affiancavano altre importanti realtà produttive, come la Rhodiaseta
della Montecatini, la Soie de Châtillon, la Cisa e varie altre29.
Al regime non sembrava vero di vedere un simile cambiamento
epocale proprio allora, grazie a innovazioni tecnologiche a cui anche
l’Italia aveva in qualche misura contribuito. Nell’ottica di una po-
litica protezionistica, e dal 1935 apertamente autarchica, sembrava
la quadratura del cerchio. I settori tessili italiani andavano bene da
sempre sul lavorato e semi-lavorato, ma dovevano importare gran
parte delle materie prime. Ora si prospettava la possibilità di pro-
durre autonomamente le fibre. E così si delineò con chiarezza la
politica del regime, al di là delle molte affermazioni propagandisti-
che: favorire le industrie italiane e soprattutto promuovere i nuovi
filati artificiali. La strategia fu chiarissima. Nel 1937 e 1938 furono
firmati “volontariamente” accordi per cui gli imprenditori cotonieri
e lanieri si impegnavano a utilizzare ingenti quantità di fibre artifi-
ciali nelle loro produzioni; nel 1939 si fissò addirittura per decreto
l’obbligo di utilizzare in ogni tessuto di lana e cotone un minimo
del 20 per cento di filato prodotto in Italia, naturale o artificiale che
fosse. Nello stesso tempo, le fibre artificiali erano sostenute da dazi
protettivi nei confronti della concorrenza estera30.
E i consumatori? Il loro ruolo fu ritenuto di secondo piano. Cer-
to non mancarono iniziative per pubblicizzare i nuovi prodotti, sia
cavalcando l’italianità (erano i tessili dell’indipendenza) sia magnifi-
candone le caratteristiche. Disegni e manifesti dei principali produt-
tori apparvero regolarmente sui giornali femminili e non mancarono
campagne e rassegne, fra cui quella già citata della Mostra autarchica
del 1940. Si può dire che molti degli sforzi per promuovere la moda
italiana siano intrecciati a questo tipo di promozione. Ecco, que-
sto forse è il punto centrale per valutare le campagne del fascismo,
poiché il vero obiettivo del regime fu lo sviluppo del settore tessile
industriale, in tutte le sue componenti, e quindi stimolare la produ-
zione migliorando la bilancia commerciale. Il segmento più a valle,
locali – solo una prova generale di quello che sarebbe successo dopo
la guerra, quando la DuPont riprese a fabbricare prodotti civili, e le
rivendite di calze di nylon furono assediate da code di lunghe ore. An-
cora una volta furono i consumatori a indicare la strada. Ma non fu una
storia del tutto a lieto fine. Carothers non poté vedere i risultati del suo
lavoro. Non era uno scienziato secondo i classici stereotipi. Soggetto a
gravi crisi depressive da tempo, autoconvintosi di avere fallito in tutti
i suoi obiettivi, nell’aprile del 1937 prese una stanza in un albergo di
Filadelfia e si suicidò bevendo una soluzione di cianuro31. Ancora oggi
forse non è conosciuto come merita. Ma il “suo” nylon era destinato a
grandi sviluppi (fu prodotto anche in Italia su licenza già dal 1939)32. Se
fra le due guerre il rayon regna sovrano, nel secondo dopoguerra sarà
la produzione di nylon ad accelerare, tanto che negli anni Sessanta la
famiglia delle nuove fibre sintetiche (di facile produzione e derivate da
carbone o petrolio) supererà quella delle fibre a base di cellulosa (che
richiede l’impiego di polpa di alberi o altre basi vegetali)33.
Abbiamo parlato finora di fibre. Ma questo periodo vide fiorire
in Italia altre proposte. Una delle più innovative fu quella della Pi-
relli, nata nel 1872 per produrre articoli in gomma. L’albero della
gomma, l’Hevea brasiliensis, era ben conosciuto dalle antiche po-
polazioni mesoamericane che lo chiamavano legno piangente (cahu-
chu) e lo utilizzavano non solo per il famoso e spietato gioco della
palla ma per produrre svariati oggetti. Nel 1820 lo scozzese Charles
Macintosh scoprì che la gomma, cioè il lattice rappreso della pianta,
si poteva sciogliere a caldo nella nafta e poi stendere facilmente su
un tessuto, rendendolo perfettamente impermeabile. Una piccola
grande scoperta che migliorò di colpo il comfort quotidiano. Questa
strada fu seguita anche dalla Pirelli, che puntò le sue fortune sulla
produzione di cavi per comunicazione e poi sui pneumatici, ma vi
31 M.E. Hermes, Enough for one lifetime: Wallace Carothers, inventor of nylon,
American Chemical Society and the Chemical Heritage Foundation, York 1996.
32 Le fibre intelligenti cit., p. 43.
33 Le informazioni qui riassunte sono tratte dalla ricca collezione di documenti
sullo sviluppo e la promozione del nylon da parte dell’impresa DuPont e sulla figura
di W.H. Carothers contenuta presso l’Hagley Museum and Library. Cfr. in particolare:
DuPont Company Product Information photographs, 1895-1968; DuPont Company
Textile Fabrics Department videotapes, photographs, slides and promotions, 1918-
2004; David A. Hounshell and John K. Smith research notes for Science and Corpo-
rate Strategy, 1903-1986.
III. Flashback: la moda in camicia nera 79
34 Archivio storico Pirelli, Bozzetti di G. Restellini per pubblicità delle suole e dei
soprabiti e mantelli impermeabili, anni da 1880 a 1900. Vari documenti sono reperibili
online sul sito http://search.fondazionepirelli.org/pirelli.
36 Archivio storico Pirelli, Loviano, Bozzetto per pubblicità degli impermeabili Pi-
relli, 1910-1914.
37 Archivio storico Pirelli, G. Muggiani, Bozzetto per pubblicità degli impermea-
bili Pirelli, 1920-25; G. Tabet, Bozzetto per pubblicità degli impermeabili Pirelli, 16
novembre 1929.
38 Archivio storico Pirelli, D. Bonamini, Bozzetto per pubblicità degli impermeabili
trarre nelle sue uniformi sempre perfette (cucite apposta per lui);
nella vita civile si fece notare per un abbigliamento ricercatissimo, che
seguiva con maniacale perfezione i canoni del vestire elegante, non
mancando di aggiungere qualche elemento di trasgressione da dandy.
Per lui, che si autodefiniva un “animale di lusso”, la moda era insieme
parte integrante della ricerca estetica ed elemento di promozione del-
la sua figura pubblica. Potremmo dire che ne manipolasse abilmente
i codici, così come faceva per il linguaggio. E su vestiti, stoffe e doni
preziosi giocava la carta della seduzione con le sue amanti.
Una visita al museo del Vittoriale è illuminante e impressionan-
te. Il guardaroba di D’Annunzio che si può ammirare è sterminato,
con centinaia di capi. Si comincia con le camicie: camicie in seta in
quantità, tinta unita, righine, o in cotone con collo e polsini di seta
avorio, in tela batista operata (da utilizzare con colli aggiuntivi, rigidi
o flosci). Seguivano le giacche: di panno di lana, gabardine, spiga-
te, tweed, lana operata, grisaglia, flanella, da cavallo, frac, smoking,
profilate in seta, nere, grigie, blu, marroni, bianche – senza contare
le numerose uniformi su misura estive e invernali. A queste si abbi-
navano i pantaloni, per lo più di lana, e i gilet, spesso in piquet – e
naturalmente infinite cravatte di seta o papillon bianchi o neri. Per
protezione esterna, ecco sfilare impermeabili, cappotti in loden, lana,
gabardine, cachemire, per lo più scuri, doppio o singolo petto, con
colli di astrakan o volpe, foderati in rat musqué; giacche in pelle e
anche una pelliccia d’orso con collo in volpe rossa. Non dimentichia-
mo i cappelli: panama, flosci, berretti, bombette, cilindri, pagliette,
colbacchi, oltre a molti berretti militari – e gli amati guanti in nappa o
capretto. Una cosa a cui D’Annunzio teneva moltissimo erano le cal-
zature. Ne aveva centinaia: scarpe di tutti i tipi (in vitello, cuoio o ca-
pretto scamosciato, bianche, nere, marroni, allacciate, abbottonate, a
mocassino) e poi stivali alti di vitello, gambali in cuoio, stivaletti bassi
allacciati o abbottonati, sandali aperti in rafia o capretto, pantofole in
panno. E per la casa? Ecco accappatoi di spugna fantasia, vestaglie da
camera o da notte in seta, pigiami di seta, giacche da casa in velluto o
panno di lana. Né mancava l’attenzione all’intimo, composto per lo
più da coordinati in cotone e soprattutto in seta bianca; calze di vari
i colori, anche qui quasi sempre in seta; e fazzoletti di seta42.
Una vera ossessione per i vestiti e anche una vera ossessione per la
seta. Tessuto per il quale realizzava personalmente fantasiosi disegni,
che faceva poi stampare da Paul Andrée Léonard di Milano per realiz-
zare fazzoletti e vestiti da donna da regalare. Con la stessa attenzione
curava la fattura dei vestiti e delle scarpe per sé e per le sue amate, a
cominciare da Luisa Baccara. In molti casi inviava dettagliate istruzio-
ni scritte per la realizzazione dei capi, esibendo le sue conoscenze nel
settore, senza fare poi una piega di fronte a conti decisamente salati43.
Ma a chi si affidava in questa sua ricerca di una perfezione assoluta?
Semplice, ai migliori nomi della sartoria italiana e internazionale, con
l’aggiunta di qualche negozio bene affermato. Le etichette dei suoi
abiti ci mostrano un ricco panorama, con nomi che spaziano da Mila-
no, Firenze, Roma e Venezia, fino a Parigi e Londra44.
Le scelte di D’Annunzio ci riportano all’assoluta centralità delle
figure dei sarti fra le due guerre. Molti erano famosi ed avevano
grandi sartorie da uomo o atelier da donna, e proseguiranno la loro
attività con successo nel secondo dopoguerra, come visto in prece-
denza. Ma è importante sottolineare le capacità tecniche di queste
persone, vero fondamento della qualità dell’abbigliamento italiano,
apprezzata dal vate (e non solo da lui). Molte sartorie avevano svi-
luppato una propria linea o almeno una propria specializzazione,
dando vita a vere e proprie “scuole di stile”. Il caso più noto è quello
dei sarti da uomo napoletani. La confraternita dei sartori a Napoli
era nata nel 1351 – ma, senza andare così lontano, è da fine Otto-
cento che si distinguono nomi di spicco come la famiglia Caggiula,
Alfonso De Nicola e poi Cesare Attolini (sarto di Vittorio Emanuele
III), che porranno le basi per il successo nel dopoguerra di Eugenio
Marinella, Kiton, i Rubinacci e vari altri, con un’onda lunga che an-
dò a toccare anche sarti e boutique di località turistiche come Capri,
Ischia, Positano45. Ma perché tanto successo? La qualità del taglio,
le rifiniture perfette, senz’altro, ma anche una riconoscibilità che è
giunta fino a noi. La giacca, per cominciare. È più corta, soprattutto
samo 2012.
44 Archivio del Vittoriale degli Italiani; Conformismo e trasgressione cit.
45
La creatività sartoriale campana. Abbigliamento maschile e moda mare, a cura di
M.A. Taglialatela e A. Spinelli, Arte’m, Napoli 2010.
III. Flashback: la moda in camicia nera 83
dietro, con una manica stretta e accorciata per fare uscire di più il
polsino, e dotata di un’attaccatura arricciata, con spalle senza imbot-
titura. Il risultato è un capo meno rigido del normale. Le rifiniture
sono importanti: il taschino è obliquo (a barchetta), le impunture so-
no doppie e sottili, la fodera è leggera e spesso aperta. Caratteristiche
subito riconoscibili poi sono gli ampi risvolti del collo e l’allacciatura
a tre bottoni (ma il primo va sempre portato slacciato). Quindi una
giacca raffinata ma più leggera e morbida di quella tipica della sar-
toria inglese. Un marchio di fabbrica.
Per le donne c’era maggiore varietà. Come ricordato, le grandi
sartorie guardavano soprattutto ai modelli parigini. Una volta per
diffonderli c’erano le bambole: bellissime bambole con la testa di
porcellana e che avevano un ricco corredo di abitini all’ultima moda
parigina, così che le clienti potessero vedere realizzato in pratica l’a-
bito da comprare. Ancora nell’Ottocento le bambole con sembianze
da adolescenti realizzate da aziende come la Jumeau erano richiestis-
sime; nel secolo successivo cominciarono a declinare o a trasformarsi
in giocattoli veri e propri (oggi sono oggetti da collezione venduti
a caro prezzo)46. Nel Novecento le grandi sartorie mandavano loro
rappresentanti ad acquistare i nuovi modelli alle collezioni che si
tenevano a Parigi due volte all’anno, a prezzi elevatissimi. Ma non
deve stupire: si è calcolato che nel 1929 una collezione primaria con
300 capi nuovi costasse due milioni di franchi, circa 150 milioni di
lire, una cifra davvero esorbitante47. Pochi potevano permetterselo.
Ma esistevano altre vie. In primo luogo, le riviste francesi e italiane
pubblicavano ampi resoconti, illustrazioni e fotografie delle sfilate
(pur specificando che era proibita la riproduzione) – ma era sicuro
che molti vi si ispirassero. Inoltre le riviste pubblicavano moltissi-
mi altri modelli, di fonte eterogenea (vecchi modelli, variazioni di
classici, proposte di altre sartorie) che potevano essere presi come
base – vari giornali fornivano istruzioni per la realizzazione pratica
e persino cartamodelli. C’è da dire poi, anche in questo caso, che
molte sartorie, non solo quelle primarie, avevano i loro modelli da
46 J. Peers, The Fashion Doll: From Bébé Jumeau to Barbie, Berg, Oxford-New
York 2004.
47 V. Pouillard, L’alta moda in Francia. Rotture e continuità fra le due guerre, in
«Annali di storia dell’impresa», 18, 2007, pp. 75-103; M. Canella, Dalla sartoria al
prêt-à-porter. Le origini del sistema moda in Italia, in I consumi della vita quotidiana, a
cura di E. Scarpellini, il Mulino, Bologna 2013, pp. 62-76.
III. Flashback: la moda in camicia nera 85
vol. V, Industrie tessili, dell’abbigliamento e del cuoio, Istat, Roma 1950, p. 89.
50 Ivi, p. 123.
51 M. Bellocchio, Aghi e cuori. Sartine e patronesse nella Torino d’inizio secolo,
Centro Studi Piemontesi, Torino 2000, pp. 19-38; V. Maher, Un mestiere da raccontare.
Sarte e sartine torinesi tra le due guerre, in «Memoria. Rivista di storia delle donne»,
8, 1983, pp. 52-71; F. Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la
Camera del Lavoro (1891-1918), Franco Angeli, Milano 2007, pp. 145-152.
52 E. Tosi Brandi, Artisti del quotidiano: sarti e sartorie storiche in Emilia-Romagna,
54 Cfr. ad esempio tre foto di diverso periodo in Archivio storico Alinari: Labora-
torio di sartoria e pelletteria: gruppo di signore con le macchine da cucire, s.l. 1890-
1899, FVQ-F-225254-0000; Una giovane donna lavora con la macchina da cucire,
Roma 1916, CDP-A-MAL703-0039; Una donna lavora con la macchina da cucire,
Firenze 1950, CDP-A-MAL703-0037.
55 The Culture of Sewing: Gender, Consumption and Home Dressmaking, a cura
di B. Burman, Berg, Oxford 1999 (in particolare I saggi di N.P. Fernadez, T. Putnam,
N. Oddy); R. Oldenziel, M. Hård, Consumers, Tinkerers, Rebels: The People Who
Shaped Europe, Palgrave, Basingstoke 2013, pp. 29-35; P.A. de la Cruz-Fernández,
Marketing the Hearth: Ornamental Embroidery and the Building of the Multinational
Singer Sewing Machine Company, in «Enterprise and Society», 15, 2014, pp 442-471.
III. Flashback: la moda in camicia nera 87
rino 1965.
57 M. Vasta, Innovazione tecnologica e capitale umano in Italia (1880-1914), il Mu-
culotte” a Torino, ivi, 25 febbraio 1911; Una signora in “jupe culotte” sequestrata per tre
ore e mezza in un negozio, ivi, 31 marzo 1911; La “jupe-culotte” urlata a Catania, ivi, 20
marzo 1911. Cfr. anche 1911. Calendario italiano, a cura di L. Benadusi e S. Colarizi,
Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 123-132.
60
P. Bernasconi, La donna e i calzoni, in «Corriere della Sera», 8 aprile 1911.
90 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
corpi. Queste nuove forme di potere derivano infatti dai nuovi sape-
ri, cioè da quei discorsi creati da esperti e istituzioni per dare senso
alle cose, per convincerci di ciò che è giusto, bello, opportuno. La
società è governata non più dunque dal tremendo potere del re ma
piuttosto da tanti poteri esercitati nella quotidianità, che ci dicono
cosa fare e non fare, e modellano – l’autore avrebbe preferito il ter-
mine disciplinano – i nostri comportamenti e i nostri corpi. Di con-
seguenza la “resistenza” opposta a questi saperi non può che partire
dal corpo e dalle sue adiacenze61. Ecco perché i pantaloni indossati
dalle donne, anziché essere visti come l’ennesima bizzarria femmi-
nile, scatenarono violente reazioni: con il loro simbolismo, erano un
attacco diretto alla divisione dei ruoli all’interno della società e, in
ultima analisi, a una delle forme in cui il potere si manifestava nella
società. Del resto, anche senza scomodare famosi filosofi, il senso
del proverbio popolare su “chi porta i pantaloni in casa” non lascia
dubbi sul legame simbolico di tale indumento con il potere.
Se la prima battaglia dei pantaloni fu persa a causa dell’ostilità
incontrata, il discorso tuttavia proseguì. Anche perché si inseriva
all’interno di un movimento più vasto di riforma e semplificazione
degli abiti femminili che era iniziato in epoca vittoriana. La parti-
colarità del dress reform era che non si basava su aspetti legati alla
moda o all’estetica, ma su considerazioni di tipo sociale, medico e
morale62. Non a caso era sostenuto non solo da attiviste per i diritti
delle donne, ma da associazioni culturali e politiche di vario tipo,
maschili e femminili, e da circoli medici. Il loro principale obiettivo
polemico era soprattutto il corsetto, dopo che le gonne gonfie per via
di crinoline e panieri si erano via via assottigliate a fine Ottocento63.
La polemica contro il busto stretto non era certo nuova, considerate
le temute conseguenze sulla salute, ma ora assumeva toni diversi e
si legava al crescente discorso del controllo scientifico e medico sul
corpo. Quello che si voleva ora era ottenere corpi più efficienti, in
vista del lavoro produttivo al quale anche le donne erano chiamate,
2001.
III. Flashback: la moda in camicia nera 91
più controllati dal punto di vista medico e igienico, più adatti alla
“modernità”64. Tutto questo si legò in qualche modo anche all’op-
posizione artificio/naturalità che si stava sviluppando in campo cul-
turale. La presentazione di una figura femminile molto artefatta, con
una silhouette modellata grazie a imbottiture, sottogonne e corsetti
– per cui sembrava una clessidra con la parte inferiore particolar-
mente rigonfia – perse progressivamente valore culturale. Ciò che
per molto tempo era stata una costruzione tipica delle élite, sofisti-
cata, ricercata e difficile da ottenere, un vero segno distintivo, ora
appariva una forzatura inaccettabile della figura “naturale”, cioè di
una linea che seguiva maggiormente le linee corporee, senza grandi
costrizioni. Il Novecento è segnato da questa ricerca continua verso
una figura naturale, libera, e di conseguenza verso un abbigliamen-
to morbido che faciliti i movimenti. E anche questo confluì nella
tendenza verso una maggiore autodeterminazione della donna nello
spazio pubblico, che iniziò a essere meno riservata e più propensa a
vedersi come soggetto sulle nuove scene della modernità65.
Se, come abbiamo detto, i primi decenni del Novecento furono
un punto di svolta fondamentale nella formazione di una diversa
figura femminile, ciò avvenne anche perché questo discorso trovò
un inaspettato campo di prova e affermazione: lo sport. Si è detto e
scritto molto sul ruolo centrale che lo sport assume nel Novecento:
si partì da esercitazioni preparatorie atletico-militari o svaghi per
raffinate élite aristocratiche per approdare in seguito a pratiche di
massa e forme di spettacolarizzazione commerciale che fanno gi-
rare fiumi di denaro. Da qualche parte, a metà di questo percorso,
si situa un’importante svolta riguardante il corpo e l’abbigliamento
delle donne.
Cominciamo dall’equitazione, per rifarci al tema iniziale. Per i
lunghi secoli in cui il cavallo fu quasi l’unico mezzo per spostarsi,
essa era ovviamente praticata da molti, donne comprese. Fino al XII
in Britain, 1880-1939, Oxford University Press, Oxford 2010; M. Hau, The Cult of
Health and Beauty in Germany: A Social History 1890-1930, Chicago University Press,
Chicago 2003.
65 L. Conor, The Spectacular Modern Woman: Feminine Visibility in the 1920s,
Indiana University Press, Bloomington 2004; A. Gigli Marchetti, Dalla crinolina alla
minigonna: la donna, l’abito e la società dal diciottesimo al ventesimo secolo, Clueb,
Bologna 1995.
92 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
Tourre-Malen, Femmes à cheval. La féminisation des sports et des loisirs équestres: une
avancée?, Belin, Paris 2006.
67 A. Gigli Marchetti, La donna, l’abito e la società dal XVIII al XX secolo, Clueb,
Bologna 1995, pp. 152-155, 198-200; Sport e stile. 150 anni d’immagine al femminile,
a cura di M. Canella, S. Giuntini e M. Turinetto, Skira, Milano 2011.
III. Flashback: la moda in camicia nera 93
quali raccolti da L. Laurenzi, Mare e Moda. Una giornata al mare nell’Italia degli anni
trenta, http://video.repubblica.it/luce/vita-italiana. I primi costumi da bagno in tessu-
to elastico erano stati brevettati dall’americana Jantzen nel 1921. Cfr. Archives Center,
National Museum of American History, Jantzen Knitting Mills Collection, 1925-1977.
70 Cfr. alcune sue fotografie sul sito http://www.radiomarconi.com/marconi/al-
fonsina/index.html.
71
Crane, Questioni di moda cit., pp. 140-144.
94 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
1 La letteratura sulla Londra degli anni Sessanta è vasta; cfr. ad esempio sui temi
to, Roma 1965, n. DAA-F-000567-0000; Id., Due ragazze sedute a terra davanti ad una
Fiat 500, Dufoto [Roma] 1965, n. DAA-F-000569-0000. Cfr. anche Archivio Luce,
Caleidoscopio Ciac C1767, 31 agosto 1966 (Inchiesta sui “capelloni”).
3 Cfr. ad esempio: P. Bugialli, Tempi duri per i “capelloni” che bivaccano a Trinità
dei Monti, in «Corriere della Sera», 6 novembre 1965; Spedizione punitiva a Roma
contro i “beatniks” zazzeruti, ivi, 6 novembre 1965; Incursione di genitori disperati nel
villaggio di “Nuova Barbonia”, ivi, 24 maggio 1967.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 99
1968: http://temi.repubblica.it/espresso-il68/category/foto.
5 I.V., Ecco le minigonne a spasso per Milano, in «Corriere della Sera», 28 maggio
1966.
6 Archivio storico Luce, Radar R0155, 25 ottobre 1967; ivi, Tempi Nostri T1243,
1° maggio 1972.
100 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
ford 2000; T. Polhemus, Streetstyle: From Sidewalk to Catwalk, Thames & Hudson,
London 1994. Cfr. anche The Men’s Fashion Reader, a cura di P. McNeil e V. Karami-
nas, Berg, Oxford-New York 2009, pp. 347-404.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 101
cura di G. Riello e P. McNeil, Routledge, London 2010, pp. 504-513; Miller, Fashion
and Music cit., pp. 51-69.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 103
15 Archivio storico Alinari, Omosessuale a passeggio per una via di Roma, Team,
1973, n. TEA-S-001075-0006. Per una discussione sulle oscillazioni delle culture e de-
gli stili omosessuali tra gli estremi dell’effeminatezza e del machismo cfr. T. Edwards,
La moda. Concetti, pratiche, politica (2011), Einaudi, Torino 2012, pp. 158-162.
16 La descrizione anche di questo armadio è realizzata grazie all’inchiesta citata
2. L’American look
Usa, 1955.
18 P.P. Pasolini, Il “folle” slogan dei jeans Jesus, in «Corriere della Sera», 17 maggio
1973. Cfr. anche G. Zincone, In vendita anche Gesù, ivi, 7 maggio 1973; Il pretore
moralista di Palermo: caccia a tutti i manifesti dei jeans blasfemi, ivi, 11 maggio 1973.
19
C. Guagnoni, Questa è la ragazza del mini-jeans che fanno scandalo, in «Corriere
della Sera», 9 aprile 1974.
106 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
cura di E. Mora, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 196-202; R. Arnold, American
Look. Fashion and the Image of Women in 1930’s and 1940’s New York, I.B. Tauris,
London-New York 2009.
21 Cfr. Archives Center, National Museum of American History, The California
W.R. Scott, California Casual: Lifestyle, Marketing and Men’s Leisure Wear, 1930-1960,
in The Men’s Fashion Reader cit., pp. 153-167; Id., Dressing down: Modernism, ma-
sculinity, and the men’s leisurewear industry in California, 1930-1960, Dissertation,
University of California, Berkeley 2007.
23 U. Volli, Jeans, Lupetti, Milano 1991; Denim. Una storia di cotone e di arte, a
cura di G. Rossi, Fashion System, Milano 2012; Global Denim, a cura di D. Miller e
S. Woodward, Berg, London-New York 2011.
108 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
3. Un mondo di colori
alla sua abilità. Più cupa la vicenda in Pelle d’asino, dove una princi-
pessa tenta di sottrarsi al matrimonio incestuoso con suo padre, il re,
chiedendogli come doni un vestito color dell’aria, uno colore della
luna, uno come il sole e infine uno fatto con la pelle di un asino che
produceva oro, anziché sterco; riuscirà a fuggire vestita con la pelle
dell’asino per condurre in incognito una vita di miseria, fino a quando
un giovane principe si innamorerà di lei e verrà riconosciuta come
la figlia perduta del re28. E ancora, per passare ad Andersen, trovia-
mo Le scarpette rosse, fiaba contro la vanità femminile che punisce
duramente la protagonista innamorata delle sue belle scarpe: queste
non smetteranno più di ballare e portarla in giro, finché sarà costret-
ta a farsi tagliare i piedi, chiedere perdono e infine volare redenta
in Paradiso29. Certo, per la nostra sensibilità alcune situazioni sono
un po’ forti, ma non dobbiamo dimenticare che queste favole erano
raccontate non solo per intrattenere ma per educare e insegnare una
morale, compresa la punizione per l’inadempienza.
Queste fiabe, che fanno parte del nostro patrimonio culturale co-
mune, ci insegnano però anche altre cose. Ad esempio il ruolo del
vestiario e, ancora di più, l’importanza dei colori. Concentriamoci
su quest’ultima. In fondo è logico che sia così, visto il profondo si-
gnificato simbolico dell’universo cromatico. Proprio questo viene in
mente dopo avere visionato decine di fotografie e filmati del periodo,
quando d’improvviso vediamo una foto diversa, speciale: è a colori!
Purtroppo l’abbondante documentazione visuale che possediamo è
in bianco e nero per la maggior parte (foto di giornali, video tv e cine,
foto private) e questo fa sottovalutare un fatto primario: la nuova
moda del periodo fu anche una rivoluzione di colori. Le preesistenti
regole dell’abbigliamento non erano meno severe nei riguardi dei
colori che nelle forme degli abiti, come si è visto in precedenza. Per
gli uomini erano molto limitative: per gli abiti da lavoro bene il blu e
il grigio (raramente altri colori, come il marrone solo d’autunno, co-
munque mai tinte vivaci); le stoffe sempre a tinta unita, salvo sottilis-
sime righine; le camicie bianche o azzurre sempre a maniche lunghe
(a maniche corte solo d’estate in occasioni informali, senza giacca);
lano 2012.
112 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
31 Per gli aspetti storici e culturali dei colori si fa riferimento all’opera di M. Pa-
stoureau, in particolare I colori dei nostri ricordi, Ponte alle Grazie, Milano 2011; Id.,
Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2002; Id., Nero. Storia di un colore,
Ponte alle Grazie, Milano 2008; Id., Verde. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Mi-
lano 2013. Cfr. inoltre M. Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1999.
32
R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strut-
turale (1967), Einaudi, Torino 1970, p. 150.
114 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
33Levitico 19,19.
34C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), Il Saggiatore, Milano 2011, p. 73.
35 M. Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Il
London 2007.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 115
37 R.L. Blaszczyk, The Color Revolution, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2012.
38 F. Aftalion, A history of the international chemical industry: from the “early days”
to 2000, Chemical Heritage Press, Philadelphia 2001; S. Califano, Storia della chimica,
vol. 2, Dalla chimica fisica alle molecole della vita, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Le
fibre intelligenti cit., pp. 43-51.
116 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
41 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica
ad oggi, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 141-159. Cfr. anche Id., La politica dei colo-
118 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
ri. Emozioni e passioni nella storia d’Italia dal Risorgimento al ventennio fascista, Le
Monnier, Firenze 2014.
43 Quelli dello scontro in piazza, in «Corriere della Sera», 6 novembre 1973; I pic-
chiatori “neri” di San Babila, ivi, 16 aprile 1973; La “Spoon River” di Milano, ivi, 30
luglio 1988. Cfr. inoltre A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza,
Roma-Bari 2008.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 119
44 N. Aspesi, Nel paese delle meraviglie, prefazione a G. Malossi, Liberi tutti. 20 an-
pa che documentano l’attività dal 1967 alla cessione alla Edwin Company nel 1990, e
poi oltre con il marchio Love Therapy.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 121
popolazione adulta italiana, Torino 1976, tabelle 27-40. Cfr. anche V. Pinchera, La
moda in Italia e in Toscana. Dalle origini alla globalizzazione, Marsilio, Venezia 2009,
pp. 219-225.
47 D. Giochetti, Tre riviste per i «ragazzi tristi» degli anni sessanta, in «Impegno»,
1980, p. 111.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 123
51 Ente italiano della moda, L’abbigliamento informale-sportswear cit., pp. 37, 40.
52 C.M. Belfanti, Calze e maglie. Moda e innovazione nell’industria della maglieria
dal Rinascimento a oggi, Tre Lune, Mantova 2005, pp. 34-47.
53 N. White, Reconstructing Italian Fashion. America and the Development of the
124 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
Italian Fashion Industry, Berg, Oxford 2000; E. Merlo, Moda italiana. Storia di un’in-
dustria dall’Ottocento a oggi, Marsilio, Venezia 2003, pp. 76-83.
54 Belfanti, Calze e maglie cit., pp. 133-142; E. Benenati, La scelta del paternalismo.
Un’azienda dell’abbigliamento tra fascismo e anni ’50, Rosenberg & Sellier, Torino
1994, pp. 78-85.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 125
55 Belfanti, Calze e maglie cit., pp. 142-150; G. Favero, Benetton. I colori del suc-
cesso, Egea, Milano 2005; Maglifico! Sublime Italian Knitscape, a cura di F. Poletti,
Silvana, Milano 2016; Sulla pubblicità storica del settore cfr. Messaggi... di maglia.
Mostra storica dei manifesti pubblicitari dal 1923 a oggi, Piemmei, Milano 1986.
126 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
in Postwar America, in «The Business History Review», 3, 80, 2006, pp. 506-514.
57 Hagley Museum and Library, DuPont Textile Product Information collection
84.259, box 67, sf. Italy – Feb. 1961, comunicato n. 59 con relative tre foto, Ginevra,
20 febbraio 1961.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 127
58 Ivi, box 67, sf. Italy – Feb. 1961, Information on Italian pictures, 6 febbraio 1961.
1962.
128 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
1962. Il testo della foto di Brioni ed altre fotografie delle stesse collezioni sono repe-
ribili ivi, box 18.
63 Ivi, box 6, Note to the Editor, 1° agosto 1963; serie di fotografie accompagnate
datate 1969.
68 Ivi, box 52.
IV. La moda rivoluzionaria (1965-1975) 129
69 Istat, Annuario statistico italiano 1956 cit., pp. 300-305; Id., Annuario statistico
italiano 1960, Roma 1963, pp. 287-292; Id., Annuario statistico italiano 1971, Roma
1972, pp. 240-246.
130 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
coglie foto di appassionati e alcuni fondi fotografici professionali. Per questa sezione
sono state visionate le foto di varie manifestazioni, in particolare quella degli operai
di Porto Marghera nel 1977, nel 1980 e nel 1982; per l’ordine democratico a Venezia
il 15 aprile 1978; delle donne Pci a Roma nel giugno 1979; contro i missili Cruise a
Venezia nel 1981; per la pace a Milano nel 1982; per la scala mobile a Roma nel 1985 e
altre ancora; oltre a numerose manifestazioni sportive nell’area di Venezia e ad album
privati di fotografie dal 1975 al 1995.
2
G. Alessi, La moda del 1980, n. 594673, Venezia 1980, in Album di famiglia. Foto
Miscellanea, http://www.albumdivenezia.it.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 133
3 Anche questa descrizione è stata realizzata grazie ai risultati della citata inchie-
sta e di varie interviste. Di particolare utilità l’intervista dell’A. con G. Bertasso del
13 ottobre 2015. Per il caso in oggetto, cfr. in particolare le interviste a Gaetano G.
nato nel 1966 e Mariella I. nata nel 1967, raccolte da A. Bonanno nel 2014; nonché il
gruppo di interviste effettuate a Roma nell’estate 2014 da G. Incalza.
134 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
E dire che non abbiamo visto neppure tutto, dal momento che le
ante superiori sono troppo in alto! Ma non è solo questo. Se all’inizio
ci aveva colpito la quantità, ora che abbiamo esaminato questo guar-
daroba da vicino, dobbiamo dire che ci colpisce ancor più la qualità.
Qualità della confezione, delle stoffe, della varietà dei capi e, perché no,
delle firme famose che portano. Insomma, abbiamo di fronte forse la
rivoluzione maggiore avvenuta nel campo dell’abbigliamento italiano.
La domanda a questo punto sorge spontanea: cosa ha causato
questo generale mutamento dell’intera fascia medio-alta dei consu-
matori verso uno stile più moderno e sofisticato? La risposta la co-
nosciamo già: gli stilisti italiani. Furono loro a iniziare una profonda
trasformazione che interessò le classi medie e causò una vera e pro-
pria trasformazione del concetto stesso di lusso nell’abbigliamento.
Questo lo sappiamo. Forse è meno semplice da capire come avvenne
esattamente questa trasformazione, perché fu proprio in questo pe-
riodo (e non prima o dopo), e come mai fu proprio l’Italia a guidare
questo mutamento a livello internazionale (e non Parigi o Londra, ad
esempio) – tutte cose che oggi si danno per scontate, ma sulle quali
nessuno, in quegli anni, avrebbe scommesso una lira. Anche perché
la massima vetrina della moda italiana, a parte il successo di nomi
singoli e la qualità indiscussa dei tessuti, sembrava un po’ appanna-
ta. A metà degli anni Sessanta la Sala Bianca di Pitti a Firenze non
attirava più compratori come una volta; le case di alta moda erano in
continua lite; la stessa idea di alta moda sartoriale come riferimento
principale per le creazioni di abiti era in crisi. L’abbandono delle sfi-
late fiorentine da parte delle case di moda romane aveva danneggiato
Firenze, ma Roma non era riuscita a fungere da nuovo perno, nono-
stante schierasse nomi come Valentino Garavani, Renato Balestra,
le sorelle Fendi, Laura Biagiotti4. Così nel 1965 Giorgini rattristato
si dimise e la manifestazione proseguì cercando un rilancio con un
maggiore allargamento verso la moda boutique di piccole serie arti-
gianali, con risultati alterni5. All’estero, alcuni ebbero la percezione
che la fiammata della moda italiana degli anni Cinquanta, quando
aveva seriamente sfidato Parigi attraendo i migliori buyer americani,
si fosse un po’ spenta negli anni Sessanta. Restava un fenomeno inte-
13 ottobre 1974; cfr. anche Id., Anni 30, 40 e 50: ma dov’è la moda d’oggi?, ivi, 8
aprile 1972.
10
Id., La “signora di trent’anni fa” protagonista della nuova moda, in «Corriere
della Sera», 27 marzo 1975.
138 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
fabbricare un prodotto valido adatto per tutti. Per una buona metà
del Novecento e, in certi settori, per quasi tre quarti di secolo, i con-
sumatori accettarono tutto perché avevano fame di nuovi prodotti
industriali. E i produttori si concentrarono unicamente sugli aspetti
produttivi, in modo da creare una bella macchina o un bel vestito da
vendere a un prezzo competitivo: questi beni si sarebbero letteralmen-
te venduti da soli. Ma con la crescita e diversificazione delle industrie
da un lato, e la maggiore affluenza dei consumatori dall’altro, qualcosa
si ruppe in questo meccanismo (buona produzione uguale vendita).
O forse ci si accorse che le cose erano più complicate. Non bastava
infatti produrre per vendere; intanto ci voleva un po’ di pubblicità, e
a volte neppure quella bastava. Dov’era il problema? Il primo teorico
a usare un linguaggio nuovo fu Wendell Smith nel 195612. Egli parlò
di “mercato segmentato”: non era vero che i consumatori fossero una
massa uniforme; al contrario, esistevano tanti segmenti differenti con
gusti e bisogni diversi dovuti in primo luogo a reddito, poi classe so-
ciale (gli impiegati non consumano le stesse cose degli operai a parità
di reddito, come già aveva osservato Maurice Halbwachs)13, genere
(uomini e donne comprano cose diverse, come ben sanno per primi i
produttori di abiti), età (considerati oltretutto i cambiamenti culturali
degli anni Sessanta), localizzazione geografica (per via delle tradizioni
storiche locali), aspetti psicologici, occasioni di acquisto e molto altro
ancora (il risultato finale sarà una mappatura di diversi “stili di vita”).
Insomma, la torta del mercato non era omogenea ma aveva molti strati
e ognuno aveva un gusto diverso. A questa situazione, si adattavano
meglio forme di produzione flessibili, del tipo della lean production
utilizzata dalla Toyota già negli anni Ottanta14. Il punto semmai era
identificare almeno i segmenti principali del mercato dei consumatori
e comprenderne i cambiamenti nel tempo.
Ebbene, gli anni Settanta segnano una svolta a questo riguardo,
che interessa direttamente la moda e spiega la nascita dello stilismo
a Milano.
des besoins dans les sociétés industrielles contemporaines, Alcan, Paris 1913.
14 J.P. Womack, D.T. Jones, D. Roos, The Machine That Changed the World,
dei consumi: un confronto tra Italia e Stati Uniti (1980-2010), in Consumi e politica
nell’Italia repubblicana, a cura di S. Cavazza, il Mulino, Bologna 2013, pp. 129-134.
142 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
mondiale aveva visto una forte crescita nei redditi delle fasce popolari
rispetto alle altre, e quindi una consistente riduzione della disugua-
glianza sociale. Molti ritenevano che questo sarebbe stato il trend del
futuro: benessere per tutti. Fatto, questo, molto significativo in un
paese come l’Italia che da sempre registrava un forte divario tra ricchi
e poveri. Ma non fu così. Già negli anni Settanta ci furono le avvisa-
glie di un capovolgimento di questo trend, già chiaro negli Stati Uniti;
la crisi del 1991-92 determinò addirittura un’inversione dell’indice di
Gini, che misura la disuguaglianza, e cioè un nuovo aumento della
distanza tra le fasce sociali. Ciò per via di un duplice movimento: uno
spostamento della ricchezza sempre più verso l’alto della scala e un
forte miglioramento del lavoro autonomo rispetto a quello dipenden-
te. I conti tornano. Dagli anni Settanta si forma dunque rapidamente
una nuova fascia di money maker, di yuppie, di lavoratori qualificati,
manager, comunicatori, pubblicitari, imprenditori dei servizi, pro-
duttori di beni di consumo che si distaccano dai ceti medi tradizionali
(impiegati, professionisti, artigiani), non solo per il reddito ma anche
per lo stile di vita. Essi rappresentano l’elemento distintivo e carat-
terizzante della nuova economia globalizzata. Ma allora, ancora, chi
poteva vestire queste nuove fasce socioeconomiche?
Proviamo a dare una risposta. Dal lato dell’offerta, il settore
dell’abbigliamento era certo in grado di rispondere alle richieste,
almeno dal punto di vista quantitativo. Possiamo immaginarlo gra-
ficamente come un cilindro, dove la parte inferiore corrispondeva
alla confezione industriale di base (pensata per i ceti meno abbienti)
e quella superiore, un po’ più ristretta in verità, corrispondeva alla
confezione di qualità, che ormai stava sostituendo in gran parte il
capo sartoriale. Proprio qui troviamo i marchi che abbiamo già in-
contrato (Facis, Cori, Lebole, Vestebene, Lubiam, ecc.) e che oggi
potremmo etichettare come premium brands – in altre parole marchi
importanti della confezione che garantivano un buon prodotto a un
prezzo equilibrato. Al di sopra del cilindro c’era poi una microsfera,
autonoma e superesclusiva, che corrispondeva all’alta moda su mi-
sura, e che poteva interessare meno dell’uno per cento della popola-
zione. Fine. Abbiamo visto però che in questi anni prendono forma
rilevanti segmenti di mercato (giovani, donne, money makers) che
non si ritrovano nell’offerta esistente. In primo luogo per motivi cul-
turali. Sono categorie che attribuiscono grande importanza al look,
decisivo sia in ambito lavorativo sia in ambito sociale; un look che ri-
144 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
1978, pp. 61-74; F. Coltorti, G. Mussati, Gepi e Tescon. Due interventi delle Partecipa-
zioni statali, Franco Angeli, Milano 1976.
152 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
loro attività, sotto la guida dei giovani eredi, come nel caso di Pietro
Marzotto, o di manager (come Riccardo e Gianfranco Jucker ai co-
tonifici Cantoni e Ottolini o di Renato Lombardi)30, e lo stesso vale
per varie imprese di abbigliamento (Tabella 6).
Ma il vero dato saliente degli anni Settanta, a parte l’intervento
pubblico, è il fenomeno di decentramento, che diede forza ai distretti.
Diversi fattori spinsero in questa direzione: la scarsa incidenza dei
fattori tecnologici e di economia di scala, almeno nel settore abbiglia-
mento (a differenza del tessile); il mutamento del mercato e dei gusti
dei consumatori, che imponevano maggiore flessibilità e velocità di
risposta rispetto alle grandi strutture; e infine una crescente concor-
renza dei paesi meno sviluppati, con bassissimi costi del lavoro, che
favorivano le produzioni in microimprese di tipo familiare o con lavo-
ro meno tutelato. Molte grandi aziende reagirono così alle difficoltà
con una politica di decentramento a livello regionale, favorendo lo
sviluppo e anche l’ammodernamento dei piccoli artigiani locali31.
Le piccole imprese dei distretti iniziarono così, o meglio conti-
nuarono con maggiore intensità, a produrre capi di pregio a prezzi
molto contenuti. Fu la base di una straordinaria crescita che durò
vent’anni, con una accelerazione particolare dal 1975, quando la
produzione tessile/calzaturiera da 7 miliardi e 300 milioni, calcolati
in euro, triplicò a 22 miliardi e 600 milioni nel 1980, raddoppiò an-
cora nel successivo quinquennio, toccando 45 miliardi e 500 milioni
nel 1985, e crebbe più gradualmente in seguito, rallentata dalla crisi
di inizio anni Novanta, raddoppiando di nuovo in un altro decennio,
fino a 94 miliardi e 700 milioni nel 1995. Questa crescita, che serviva
il mercato interno e in misura crescente l’export, vide brillare soprat-
tutto l’abbigliamento, molto più dinamico del tessile tradizionale, e
insieme le calzature, tanto che nel 1965 l’Italia era divenuto il primo
produttore di scarpe in Europa (soprattutto quelle di pelle e cuoio,
mentre quelle sintetiche e di gomma risentivano di più della concor-
renza dei paesi asiatici)32.
1965-1970, t. 2, Ipsoa, Milano 1984, pp. 133-134; cfr. anche Id., Le industrie tessili
e dell’abbigliamento, ivi, pp. 120-132; Id., L’industria della calzatura, del cuoio e delle
pelli e Le industrie tessili, ivi, vol. 1971-1977, t. 2, Ipsoa, Milano 1985, pp. 143-153.
33 A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, To-
rino 1965.
34 M.E. Porter, The Competitive Advantage of Nations, Free Press, New York
1990.
35
P. Krugman, Geography and Trade, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991.
154 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
Chi sono dunque questi famosi stilisti? Per il grande pubblico sono an-
zitutto gente piena di fantasia che ad ogni stagione riesce a tirar fuori la
nuova immagine della moda e, quel che più conta, a imporla alle donne che,
altrimenti, proprio non saprebbero cosa mettersi addosso. È gente giovane,
dedita ai viaggi in giro per il mondo alla ricerca di idee che trae vuoi dal fol-
clore più colorato, vuoi dai ragazzi delle strade e delle scuole detentori di un
loro modo di vestire spontaneo e stimolante, vuoi, infine, dalle biblioteche
della storia del costume ricche di suggestioni bell’e pronte per essere tradot-
te in maniera più o meno riuscita, più o meno ironica, nella moda di oggi.
Per gli industriali della confezione gli stilisti sono invece degli esseri
diabolici, dei matti, degli scriteriati folletti dispettosi che pare si diver-
tano a mandare all’aria i lunghi faticosi piani della programmazione in-
dustriale, buttando sul mercato, ogni poco, anzi ogni pochissimo, le loro
idee che realizzate in tempi brevi dalle piccole industrie e dall’artigianato
e divulgate dalla stampa, arrivano presto al pubblico e tendono a fare
invecchiare i prodotti dell’industria quando ancora devono nascere38.
l’Armani Silos a Milano, che fornisce un significativo spaccato della sua carriera ar-
tistica e produttiva. Molto numerosi poi, su Armani e tutti i principali stilisti, sono i
libri fotografici, le biografie e i ritratti di taglio giornalistico e divulgativo, autorizzati
e non. Le biografie qui riportate sono estrapolate dallo spoglio delle principali riviste
di moda, in particolare «Vogue Italia» dal 1966 per la parte stilistica, e da quotidiani,
in particolare «MF Milano Finanza» e «MF Fashion», per la parte finanziaria ed eco-
nomica. In alcuni casi i dati sono integrati con materiali dell’archivio della Federazione
dei Cavalieri del Lavoro di Roma.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 159
dello stilista è dato dalla Fondazione Gianfranco Ferrè a Milano, guidata da Rita
Airaghi.
42 Per la storia e le creazioni di Valentino si può consultare l’interessante sito
http://www.valentinogaravanimuseum.com.
43
I dati si riferiscono al bilancio del 1997 (cfr. «MF Fashion», 3 novembre 1998).
160 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
I marchi storici
Alle nuove tendenze si allineano anche marchi storici, nati cioè
prima degli anni Settanta. Fino a quel momento era prevalsa la figura
dell’imprenditore tessile, che al più si serviva a volte della consulenza
di un sarto. Ora molti comprendono il senso della “svolta stilistica”:
non basta più produrre come subfornitore, meglio passare alle licenze
(che pure hanno un elemento di rischio perché possono essere non
rinnovate), e meglio ancora costruire un proprio marchio autonomo,
anche in parallelo. Il focus aziendale non è più sulla produzione ma
si allarga al marketing, concentrandosi sul brand. Ecco allora che gli
imprenditori di seconda o terza generazione si trasformano in stilisti
oppure assumono stabilmente creativi affidando loro un ruolo centra-
le. Siamo di fronte quindi a veri imprenditori-stilisti, che si affiancano
agli stilisti puri che abbiamo visto, componendo un quadro variegato.
Qualche esempio? Pensiamo ai Missoni, straordinari interpreti
delle nuove tendenze, grazie alla reinvenzione della maglia e a un’o-
riginale interpretazione del colore. Partiti nel 1954 con un piccolo
maglificio a nord di Milano, subito famosi per i loro cardigan, sep-
pero rilanciare le loro maglie colorate per l’abbigliamento informale
ma anche urbano. Molto apprezzati fin dagli inizi negli Stati Uniti,
i Missoni aprirono un grande stabilimento produttivo a Sumirago
per avere il controllo della loro attività in tutte le fasi, se si eccettua
una linea data in licenza a Marzotto (M Missoni disegnata dalla figlia
Angela). Ottimo esempio di impresa con struttura familiare che sa
crescere e aprirsi ai mercati internazionali44.
Allo stesso modo, imprese operanti da tempo nella pelletteria si
trasformano in imprese di moda. La più nota è forse la ditta fondata
dai fratelli Prada a Milano nel 1913, come vedremo, ma possiamo ri-
cordare anche la Trussardi, nata a Bergamo nel 1911 per la produzio-
44 Si segnalano per la storia del marchio le molte iniziative della Fondazione Ot-
successo da 30 anni, vol. 2, Class Editore, Milano 2005 (riprodotto in Professione PR.
Immagine e comunicazione nell’Archivio Vitti, a cura di E. Puccinelli, Skira, Milano
2011, p. 85). Il riferimento è a un’espressione di Francesco Alberoni.
46 L’archivio di Andrea Pfister è custodito presso il Centro di ricerca MIC dell’U-
del fondatore Guccio che era scomparso nel 1953, lancia prodotti
iconici molto apprezzati dal jet set del tempo (come la borsa Jackie O
per Jacqueline Kennedy). In seguito si apriranno problemi di eredità
e di gestione, negli anni Settanta, con la terza generazione, tanto da
costringere la famiglia a uscire dalla proprietà nel 1993 a favore della
Investcorp international (Bahrain) che risanerà e lancerà l’impresa in
borsa, mentre, grazie al creativo Tom Ford, il brand riprenderà quo-
ta a livello internazionale47. Sempre a Firenze, oltre a Ferragamo, di
cui parleremo a breve, e la rapida intensa esperienza di Enrico Cove-
ri, inizia la sua avventura Roberto Cavalli, stilista e pittore affascinato
dalla riproduzione su tessuto di elementi naturali, producendo con
continuità soprattutto dagli anni Novanta.
In un altro importante polo produttivo, quello di Biella, fra i tanti
nomi storici, è da segnalare l’evoluzione della Ermenegildo Zegna.
Dal lontano 1910 della fondazione, l’azienda si espande, generazio-
ne dopo generazione (fino ai fratelli Giorgio e poi Giulio), prima con
i tessuti e poi anche con l’abbigliamento. Dagli anni Ottanta, forte
anche delle competenze acquisite con importanti joint venture, co-
me quella già ricordata con Versace, la casa punta progressivamente
sulla costruzione di un proprio marchio nell’alta gamma, sostenuto
da una importante attività di produzione soprattutto italiana e da
una organizzazione commerciale molto rivolta all’estero. Una falsa-
riga seguita da altre grandi aziende di moda maschile, come la Cer-
ruti, sempre nel biellese, o anche le lombarde Canali e Corneliani, la
fiorentina Stefano Ricci, un po’ più tardi la veneta Pal Zileri, e infine
Herno, un’azienda novarese specializzata in impermeabili e più tardi
capi sportivi, che lavorò spesso su licenza (ad esempio con Jil San-
der) per poi lanciare il proprio marchio sia per uomo sia per donna.
Questo discorso ci ricorda un altro fatto importante, e cioè che
gli stilisti aprirono le passerelle alla moda uomo. Non che mancas-
se una tradizione sartoriale maschile ben stabilita, in Italia come a
Londra e Parigi, come si è visto; ma in fondo resisteva l’idea che il
vestito elegante da uomo fosse stabile, tradizionale, formale; mentre
era il vestito da donna a mutare di continuo con le stagioni. Sulla
scia dell’evoluzione culturale ed economica degli anni Sessanta e
47 Nella centralissima Piazza della Signoria a Firenze ha aperto dal 2011 un museo
Le donne
Perché dedicare un paragrafo alle donne stiliste? Per dare con-
to di un enigma e di una trasformazione. L’enigma è presto detto:
perché mai la maggioranza degli stilisti è costituita da uomini in un
settore dedicato da sempre principalmente alle donne, come clienti
e anche come produttrici, fossero semplici sartine o sarte famose?
È un po’ lo stesso problema che si pone nel campo della cucina,
storicamente nelle mani delle donne, ma dove i grandi chef sono
principalmente uomini.
Il punto qui riguarda la posizione culturale tradizionale riguardo
ai ruoli dei generi. La donna doveva mantenere preferibilmente un
profilo familiare o al più svolgere piccole attività artigianali; l’uomo
invece era la “persona pubblica” per eccellenza, colui che lavorava
in azienda, trattava con i clienti, gestiva i soldi, e in generale appa-
riva sulla scena. La crescita in senso imprenditoriale delle imprese
di moda favorì in questo contesto la presenza maschile – allo stesso
modo per cui le donne rimasero tra i fornelli nella cucina di casa, ma
il cuoco professionista, in spazi pubblici come ristoranti e alberghi,
risultò più facilmente un uomo.
studia e crea con poche lavoranti modelli originali, con grande atten-
zione ai tessuti e alla maglia, agli abbinamenti di forme e colori, e una
passione nel rappresentare animali. Si fa notare nelle mostre, sulle pas-
serelle di Giorgini ed è tra le protagoniste della spinta verso la moda
pronta, che ha in Milano il nuovo riferimento. Qui crea aziende sue
ed è pioniera delle politiche di licensing e di estensione della marca
con accessori personali e design per la casa (famoso il suo profumo “K
di Krizia” del 1980). Anche Laura Biagiotti fu artefice della proprie
fortune, anche se partiva dall’esperienza di un’avviata sartoria di alta
moda creata dalla madre a Roma. Pure lei sfilò a Firenze e poi deci-
se di puntare sulle passerelle milanesi, abbinando alla qualità stilistica
dei suoi prodotti, soprattutto di maglia, l’attenzione alla produzione
industriale. I profumi giocarono anche qui un ruolo importante nella
costruzione del fatturato (“Roma”). Sempre nella capitale, le cinque
sorelle Fendi ereditarono dai genitori un piccolo atelier specializzato in
pellicce di pregio ma dagli anni Settanta trasformano profondamente il
brand. Grazie anche all’estro di Karl Lagerfeld, il marchio lanciò capi
pronti innovativi con parti di pelliccia oppure no, capi pronti di moda
e via via accessori anche per la casa, tutto rigorosamente firmato con la
caratteristica FF. Più a nord, a Vicenza, Laura Moltedo fonda una pel-
letteria specializzata in borse e accessori (Bottega Veneta), primo passo
di un lungo cammino che la porterà verso l’abbigliamento di lusso.
Poi ci sono le coppie famose. Abbiamo già parlato di Ottavio
Missoni e Rosita Jelmini, che iniziarono e proseguirono insieme la
loro avventura nella moda, dove in effetti era la moglie ad avere
esperienze nel tessile provenendo da una famiglia di artigiani tes-
sili. Una curiosità: Ottavio ottenne l’onorificenza di Cavaliere del
Lavoro nel 1993, Rosita nel 2014. Altro caso interessante è quello
di Ferragamo. Dopo avere lanciato con successo il suo marchio di
calzature di pregio negli Stati Uniti, Salvatore Ferragamo tornò a
Firenze, dove dal 1927 sperimentò modelli e materiali anche poveri
per continuare le sue creazioni negli anni del fascismo e della guerra.
Il dopoguerra lo vide impegnato in un rilancio ma nel 1960 morì,
lasciando in eredità alla giovane moglie Wanda Miletti l’azienda e
sei figli. Sarà Wanda a consolidare la fama di scarpe e pelletterie,
allargandosi anche all’abbigliamento e facendo crescere l’impresa
sui mercati internazionali, mantenendo rigorosamente l’ispirazione
e il nome originale (“Salvatore Ferragamo spa”). In Emilia, Mariel-
la e Walter Burani fondano nel 1961 un’impresa per produrre ab-
166 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
partito a Giano nel 1985, con una forte propensione agli investimen-
ti tecnologici e alla commercializzazione all’estero. La valorizzazione
del tessuto di base è anche alla radice dell’espansione dell’impresa
fondata da Gerolamo “Gimmo” Etro, famoso per i tessuti caratte-
rizzati dal motivo paisley; soprattutto con la seconda generazione e i
suoi quattro figli, l’azienda amplierà la sua produzione ad accessori,
profumi e infine a collezioni d’abbigliamento.
Prosegue anche in questa fase la grande attenzione per i capi
sportivi, presenti in moltissime collezioni, anche se alcuni marchi
fanno del fashion sportswear il fulcro della loro produzione. Come
Moncler, un’impresa nata in Francia e specializzata in abbigliamen-
to da montagna, fra cui i famosi piumini imbottiti di piume d’oca.
Dagli anni Novanta il marchio divenne di proprietà italiana e, dopo
vari passaggi, si consolidò in maggioranza in mano a Remo Ruffini a
Milano. Ma come detto, molte sono le case da aggiungere a questo
elenco: la già citata Herno, Alberto Aspesi, Cp company di Carlo
Rivetti, Blauer (Fgf industries) di Enzo Fusco, Industries Sportswear
Company e molti altri; mentre resta molto competitiva la produzio-
ne basata sulla maglieria, sportiva o con un mix di filati di pregio e
fibre tecno, come fanno le emiliane Gilmar della famiglia Gerani, in
particolare con il marchio Iceberg, e Blufin di Anna Molinari, con
Blumarine. Nelle calzature, si impongono vecchi e nuovi marchi di
scarpe da ginnastica, a cominciare da quelle Superga, marchio attivo
a Torino dal 1911 e noto per le scarpe in cotone e gomma vulcaniz-
zata, a lungo di proprietà della Pirelli.
Parlando di stile sportivo, il discorso non può che tornare sui
fashion jeans, che tanta parte hanno avuto nello sviluppo di prime e
seconde linee di moda. E qui va ricordato il ruolo giocato da vari im-
prenditori del Nord-Est, cioè di una delle aree trainanti dello sviluppo
di questi anni. È il 1978 e tre soci fondano il Genious group: Adriano
Goldschmied, Claudio Buziol e Renzo Rosso, lanciando marchi come
Replay e Diesel. Faranno scuola. Anni più tardi i tre si separano ma
i loro brand, vecchi e nuovi, continuano a crescere. Renzo Rosso, in
particolare, accanto al core business Diesel, nel tempo acquisisce e
produce nomi famosi, fra i quali Martin Margiela e Marni, oltre ad
acquisire licenze per Dsquared2, Just Cavalli, Marc Jacobs, Vivienne
Westwood – tutto sotto l’ombrello della Otb (Only the Brave). E alla
fine lancerà un brand da passerella come Diesel Black Gold, facendo
quasi al contrario la strada degli stilisti che avevano aperto verso il
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 169
54 R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strut-
il centinaio per tutti gli anni Ottanta, per poi decrescere parzialmente56.
Ma le vendite restano alte: nel 1995, ad esempio, i femminili nel loro in-
sieme rappresentano oltre il 20 per cento nelle vendite dei settimanali e
il 23 per cento dei periodici, mantenendosi costantemente il principale
settore57. Né si poteva dire che il loro messaggio avesse poco impatto
sui consumatori, visto che molte indagini di mercato svolte fin dagli
anni Settanta testimoniavano come le donne giudicassero influenti per
i loro acquisti di moda proprio le riviste femminili, ad esempio al primo
posto in un’indagine del 1971 con il 62 per cento, davanti alle vetrine
dei negozi (59 per cento), alle sfilate (48), ai consigli delle sarte (43),
ai grandi magazzini e alle donne eleganti (42 entrambi) e ancora dal
personale dei negozi (37) e infine dalle amiche (29)58.
Il merito di questo grande successo va però suddiviso, non ci sono
soltanto gli editori. In primo luogo, quelli che danno forma e sostanza
alle riviste sono i giornalisti di moda, il cui ruolo non deve essere sot-
tovalutato. Molti di loro, anzi molte, visto che sono in maggioranza
donne, sono riuscite ad attirare l’attenzione sul nuovo Made in Italy,
a creare interesse, a inventarsi un modo per comunicarlo. Da poche
esperte che scrivevano su giornali di nicchia, le giornaliste di moda
diventano una categoria professionale influente. Molte di loro conia-
no nuovi termini e lanciano personaggi, come la veterana Anna Piaggi
dalle pagine di «Vogue». Altre conquistano faticosamente spazi prima
inimmaginabili sulle pagine dei grandi quotidiani, unendo analisi di
costume, moda e politica, come fanno Natalia Aspesi («la Repubbli-
ca»), Camilla Cederna, Lina Sotis, tutte grandi firme del giornalismo
italiano, o anche Adriana Mulassano e Paola Pollo («Corriere della
Sera»). Molti sono i nomi che vengono in mente per le riviste: Vera
Montanari, Cristina Brigidini, Pia Soli, Carla Vanni, Daniela Giussa-
ni, Ariela Goggi, senza dimenticare i giornalisti uomini, presenti in
misura crescente nelle testate pionieristicamente dedicate alla moda
uomo, come Franco Sartori e Flavio Lucchini («Uomo Vogue») o
in riviste di settore specializzate, come Gianni Bertasso («Fashion»,
«Mood»). Per inciso, quasi tutto passa attraverso la stampa, la tele-
visione qui ha un ruolo marginale, anche se non mancano giornaliste
specializzate come Mariella Milani. È il linguaggio di massa della tv
59 Lo sguardo italiano. Fotografie di moda dal 1951 a oggi, a cura di M.L. Frisa, F.
famosa del mondo, Rizzoli, Milano 2012. È disponibile l’archivio online della rivista
su http://www.voguearchive.it.
64 Puccinelli, Professione PR cit. L’archivio di Barbara Vitti è depositato presso il
Centro di ricerca MIC (Moda Immagine Consumi) dell’Università degli Studi di Milano.
176 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
65 Sui codici linguistici della moda cfr. G. Sergio, Dal “marabù” al “bodysuit”:
“Vogue Italia” e la lingua della moda, in Fashion Studies cit., pp. 97-114.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 177
69 Dal 2018 un ulteriore passo associativo vede tutte le aziende di tessile, ab-
bigliamento, accessori, articoli ottici e pelletteria (Smi, Fiamp, Anfao, Aimpes, Aip
e altre) raggrupparsi in Confindustria Moda, seconda rappresentanza di settore in
Confindustria.
70 Svendsen, Filosofia della moda cit., pp. 109-110.
71
H. Koda, K. Yohannan, Model as Muse: Embodying Fashion, Metropolitan Mu-
seum of Art-Yale University Press, New York-New Haven 2009.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 179
dell’abito e del marchio, a volte quella del tessuto, ogni tanto il no-
me del fotografo, e quasi mai il nome della modella, come è facile
osservare sfogliando gli archivi fotografici.
La svolta per la categoria avvenne negli anni Settanta, grazie an-
che all’avvento della moda pronta italiana. Per costruire al meglio
l’immagine di un brand che comunicasse un messaggio di distinzione
sociale a un nuovo pubblico, relativamente ampio, era necessario un
sistematico lavoro promozionale attraverso la pubblicità e la stampa,
come si è visto. Certo, l’ideale era trovare un momento catalizzatore,
spettacolare, che attirasse l’attenzione di tutti. Cosa c’era di meglio di
una sfilata-spettacolo? Si otteneva un duplice scopo: la presentazione
commerciale degli abiti stagionali e insieme un ritorno di immagine
e una pubblicità indiretta che ben giustificavano costi organizzativi
anche elevatissimi. Ecco allora che le sfilate, rigorosamente divise
nelle due collezioni autunno/inverno e primavera/estate (a gennaio e
giugno per l’uomo, febbraio e settembre per la donna), divennero l’e-
vento clou del sistema mediatico della moda, con le modelle in prima
fila davanti ai riflettori. E si assestò un preciso ordine delle principali
manifestazioni internazionali: New York, Londra, Milano, Parigi.
Gianni Versace puntò per primo sul fascino delle top model,
quasi pensando a uno star system per certi versi analogo a quello
hollywoodiano. In una sua famosa sfilata per l’autunno 1991, sulla
passerella si incrociarono Linda Evangelista bionda platinata, una
sofistica Christy Turlington, Cindy Crawford con una capigliatura
leonina, Naomi Campbell con un taglio a caschetto e altre anco-
ra (Helena Christensen, Carla Bruni, Claudia Schiffer, Stephanie
Seymour). Prima sfilarono tutte con abiti neri, stivali e accessori
pure neri, poi con combinazioni nero-colore. Dopo l’uscita di quasi
cento abiti, alla fine le quattro più note modelle del momento, Evan-
gelista, Crawford, Campbell e Turlington uscirono insieme, ognuna
con un vestito corto di colore diverso (rosso, nero, giallo e blu), ab-
bracciate, e cantando le parole della musica di fondo: Freedom! ’90
di George Michael. Fu un momento esaltante, con tutto il pubblico
in piedi, comprese molte celebrities del mondo dello spettacolo invi-
tate all’evento72. Fu forse la consacrazione delle supermodelle come
72 È possibile vedere foto e video di questa sfilata su una pagina di «Vogue» che
presenta alcune delle più famose sfilate degli anni Novanta (quella di Versace è la n. 2):
180 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
http://www.vogue.com/13298028/marc-jacobs-versace-prada-vogues-25-best-90s-
shows.
73 P.C. Gibson, Fashion and celebrity culture, Bloomsbury Academic, Oxford-
tic economy of fashion: markets and value in clothing and modelling, Berg, Oxford-New
York 2009, pp. 71-72. Sul tema della magrezza cfr. U. Thoms, Consuming Bodies: The
Commodification and Technification of Slenderness in the Twentieth Century, in Globa-
lizing Beauty: Aesthetics in the Twentieth Century, a cura di H. Berghoff e T. Kühne,
Palgrave Macmillan, New York 2013, pp. 41-59.
V. La democratizzazione del lusso (1975-1995) 181
76 Vedi le immagini della sfilata di Prada nella già citata pagina di «Vogue» (sfilata n. 3).
182 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
1. La globalizzazione
Fashion Studies cit., pp. 21-25; M. Maynard, Dress and globalisation, Manchester Uni-
versity Press, Manchester-New York 2004; R. Ross, Clothing: a global history, Polity,
Cambridge 2008.
6 N. Barile, Made in Italy: da ‘country of origin’ a metabrand, in Fatto in Italia. La
cultura del made in Italy (1960-2000), a cura di P. Colaiacomo, Meltemi, Roma 2006,
pp. 133-157.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 187
gna 1969; Id., Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione
(1963), Einaudi, Torino 1971.
8 M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in
2001.
10 M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose. oggetti, valori, consumo (1979),
lanuovasardegna.gelocal.it/sassari/foto-e-video/2014/12/12/fotogalleria/ritratti-di-
famiglia-della-sassari-dei-nostri-giorni-1.10484148#2.
12 Pure la descrizione di questi due guardaroba è stata realizzata in base ai risultati
della citata inchiesta e di varie interviste. Di particolare utilità l’intervista dell’A. con
G. Bertasso del 13 ottobre 2015. Per i casi in oggetto, cfr. in particolare le interviste a
Francesca M., nata nel 1988, e Marco B., nato nel 1993, raccolte da A. Bonanno nel
2014; nonché la serie di interviste effettuata a Roma nell’estate 2014 da G. Incalza.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 189
uscire. Nei ripiani inferiori sono riposte varie sneaker o altre scarpe
sportive per questi usi, portate spesso slacciate. Non mancano poi
maglie, felpe, pantaloncini, anche jeans vecchi tagliati corti. Tra gli
accessori, notiamo alcune sciarpe, un orologio digitale, occhiali da
sole (di vari colori, a specchio, classici Ray-Ban), cappellini colorati
e un orecchino.
In realtà l’armadio non è pienissimo, perché i vestiti vecchi ven-
gono eliminati regolarmente, divenendo regali per famiglie che ne
hanno bisogno o doni alla Caritas. Così è sparito anche il completo
intero che lo studente aveva ricevuto per i suoi 18 anni, un completo
giacca e pantaloni, ora sostituito nelle occasioni importanti da jeans
e camicie firmate. Interessante.
Non c’è dubbio che questi due guardaroba siano il frutto di scelte
molto precise, che costruiscono con attenzione personalità defini-
te. Colpisce la disinvoltura con cui questi studenti si muovono fra
prodotti di gamma diversa, costruendo un mix alto-basso; l’uso di
Internet per acquisti e informazioni; la cura dell’immagine nel suo
complesso; e soprattutto la personalizzazione che realizzano. È co-
me se fossero lo specchio di un consumatore postmoderno, attento e
consapevole in tutte le sue scelte, e al centro della scena con un ruolo
preminente (senza dimenticare che il consumatore italiano spende in
media un po’ più dei colleghi europei in abbigliamento). Rispondere
alle sue esigenze è dunque la seconda sfida per il sistema moda Italia
del nuovo millennio.
2. Outsourcing e finanziarizzazione
les and apparel, in «Journal of Modern Italian Studies», 1, 20, 2015, pp. 111-126;
L. Lazzeretti, F. Capone, Cluster evolution in mature Industrial cluster. The case of
Prato Marshallian Industrial Districts after the entrance of Chinese firm populations
(1945-2011), paper pubblicato online, 2014, http://druid8.sit.aau.dk/acc_papers/
xkll123i9ot5otcvb9dh8xv1ibiq.pdf.
192 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
End of Mass Production, Yale University Press, New Haven-London 2012, pp. 237-
241.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 193
più noto è stata l’acquisizione del Valentino Fashion group nel 2007
da parte del fondo Permira, che in seguito l’ha ceduto nel 2012 a un
fondo del Qatar, la Mayhoola for investments. Quest’ultimo, molto
interessato al lusso internazionale, controlla anche Pal Zileri. In altri
casi, le acquisizioni si limitano a una parte del capitale e l’impegno
è meno esplicito.
Diversa la spinta dietro agli strategic buyers, cioè società che ope-
rano già nel settore. Qui c’è l’interesse a fondere un marchio italiano
con le proprie competenze in vista dell’apertura di nuovi mercati, e
questo spesso facilita una sinergia produttiva o più spesso distribu-
tiva. Possiamo ricordare ad esempio la cinese Shenzhen Marisfrolg
Fashion, nota casa di abbigliamento per uomo e donna che opera
soprattutto in Cina e Corea, che compra Krizia nel 2014, o Trinity,
azienda distributrice di vari marchi del lusso nella grande Cina, che
ingloba Cerruti nel 2010. Più complessa è la vicenda che porta la
Gianfranco Ferré, o almeno una parte di essa, sotto le bandiere del
Paris group international (Emirati arabi uniti).
Ci sono poi i due grandi gruppi del lusso francese, primari pro-
tagonisti sul mercato italiano. Il principale è Lvmh (Louis Vuitton
Moët Hennessy), creato nel 1989 a Parigi e guidato da Bernard Ar-
nault. Il gruppo è in realtà un ibrido perché nasce dalla fusione di
un grande nome della moda come Louis Vuitton e due società di
vini e liquori, la Moët & Chandon produttrice di champagne e la
Hennessy produttrice di cognac. Il suo punto di forza è il marchio
Christian Dior, e attorno a questo ha costruito una fitta rete di par-
tecipate: la prima fu Fendi, acquisita in più riprese tra il 2000 e il
2007; poi la quota di maggioranza in Emilio Pucci nel 2000; segui-
rono Rossimoda, impresa di punta nella produzione di calzature per
marche prestigiose, nel 2001-2003; Acqua di Parma per i profumi
nel 2001-2003; Bulgari per i gioielli nel 2011; la maggioranza di Loro
Piana, altro produttore di abbigliamento di grande pregio, nel 2013
– e senza farsi mancare anche il caffè più famoso delle vie milanesi
della moda, Cova.
Il secondo gruppo è Kering (già PPR), fondato sempre a Parigi
nel 1963 da François Pinault. Il gruppo unisce un settore più spor-
tivo, rappresentato ad esempio dal marchio Puma, a una più ampia
divisione del lusso. Qui alcuni dei marchi centrali sono di acquisi-
zione italiana, ottenuti tra il 1999 e il 2006: Gucci in primo luogo,
oggi uno dei marchi centrali, unitamente a Sergio Rossi (ritornata
196 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
22 Il divorzio Hpi-Marzotto alla prova della Borsa, in «Corriere della Sera», 6 mag-
gio 1997. Per la cronaca delle vicende cfr. i principali quotidiani e «MF Fashion» di
marzo-maggio 1997; G. Mondolo, Il gran rifiuto di Marzotto, in «la Repubblica», 4
maggio 1997.
198 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
23 Hpi-Marzotto: Bersani, una vicenda che non lascia indifferenti, Agi (Agenzia
ne italiana, mentre fallì la scalata a Gucci che, dopo una lunga battaglia
legale, finì definitivamente al rivale François Pinault25.
Questi tentativi mettono a nudo alcune problematiche tipiche
del capitalismo italiano, ricco di grandi talenti individuali, tuttavia
povero di imprese aggreganti di grandi dimensioni. Ma va detto an-
che che stiamo parlando di un settore relativamente giovane, che ha
visto la sua affermazione economica dagli anni Settanta, se non do-
po. Dunque un comparto alle prese anche con il problema delicato
dei passaggi generazionali, da tempo risolto dalle grandi case fran-
cesi nate nell’Ottocento – in vari modi, come dimostra ad esempio
la recente costituzione di H51, una holding familiare che raggruppa
la maggior parte dei circa 60 eredi della sesta generazione del fon-
datore Thierry Hermès (l’altro grande marchio francese, Chanel, è
controllato dai fratelli Alain e Gérard Wertheimer).
Un’analisi delle caratteristiche delle principali imprese di moda at-
tuali mostra però il cammino fatto e la maturità da esse raggiunta, con
ottime performance economiche rispetto ad altri settori. Va premesso
che il ventennio 1996-2015 è stato complesso per il settore tessile-ab-
bigliamento-pelle. Era iniziato con una fase di lenta crescita, facendo
segnare valori alterni nella produzione (da 94 miliardi di euro nel 1996
a 108 nel 2000 fino a 109 nel 2007). L’andamento del valore aggiunto,
che misura specificamente l’incremento di valore che il settore è in gra-
do di produrre, risultò sostanzialmente stagnante per gli anni Novanta
e in calo agli inizi del decennio seguente, salvo una ripresa positiva dal
2005. Ma poi arrivò la grande crisi del 2008. Il 2009 fu l’annus horri-
bilis: la produzione precipitò a 88 miliardi di euro, quasi fosse tornata
indietro di 15 anni. In seguito risalì a fatica, così che il suo valore com-
plessivo risultò ridotto nella formazione del Pil nazionale (Tabella 7).
La grande crisi ha dunque causato un ridimensionamento del settore,
accompagnato dallo spostamento di varie lavorazioni all’estero; in buo-
na parte, questo fenomeno ha interessato soprattutto le fasce basse e
medie del comparto, per cui si può dire che vi sia stata una ristruttura-
zione sia di tipo quantitativo sia qualitativo che ha spinto verso l’alto.
13 ottobre 1999; M.S. Sacchi, Santo Versace: “Così la morte di Gianni ha fermato il primo
polo del lusso italiano”, in «Corriere.it», 15 luglio 2013. Cfr. per la cronaca della vicenda
i principali quotidiani e «MF Fashion» nel periodo ottobre 1999 e novembre 2001 (cfr.
il database storico presente su www.mffashion.com).
200 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
26 Area Studi Mediobanca, Società della moda in Italia (2010-2015), Milano 2016,
duce, vol. 3, La filiera abbigliamento-moda, Giannini, Napoli 2015, pp. 23-26; Istituto
nazionale di statistica, Annuario statistico italiano 2015, Istat, Roma 2015. Si ringrazia
inoltre l’ufficio studi Smi per i dati forniti.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 201
livello europeo, l’Italia è leader con il 36,4 per cento del fatturato (e
il 35,3 del valore aggiunto), davanti a Germania con 10,4 (soprattut-
to concorrenziale nei tessuti tecnici), Francia 9,9, Spagna 6,5, Regno
Unito 5. In pratica, a livello mondiale, l’Italia è seconda come export
di abbigliamento (dopo la Cina) e ugualmente seconda come export
di calzature (sempre dopo la Cina) e invece quinta come export di
tessile (dopo Cina, India, Germania e Stati Uniti)28. Particolarmente
notevole la produzione nel settore calzature, dove l’Italia segue da
lontano la Cina, ma con significative differenze di prezzi: una scarpa
cinese è esportata al prezzo medio di 4,44 dollari, una scarpa italiana
a 48 dollari, chiarendo bene le rispettive fasce di mercato29. L’export,
in ripresa dal 2013, si segnala nel lungo periodo per due fattori: il
primo, è la netta preminenza raggiunta da tempo da abbigliamento
(17,8 miliardi di euro) e settore pelle-cuoio (17,8 ugualmente) rispetto
al tessile (9,4 miliardi), una volta decisamente superiore. Il secondo,
è il restringimento progressivo del mercato europeo, con Germania
e Francia sempre in testa, che ora vale il 51 per cento del totale, e il
parallelo allargamento di quello extra Ue, ora al 49 per cento, con una
forte crescita dei paesi asiatici, oltre alla conferma degli Stati Uniti30.
Anche dal punto di vista delle importazioni, da sempre più diversifica-
te, si conferma sempre il ruolo primario dell’Europa, seguita dall’Asia
e, più lontano, dai paesi dell’area mediterranea31. È interessante notare
come, con tutte queste variazioni, il comparto nel complesso abbia
sempre visto un saldo commerciale attivo con l’estero (Tabella 9).
Riguardo ai distretti, questi hanno ovviamente risentito dell’an-
damento congiunturale. Alla rilevazione del 2001 erano scesi a 181
nel complesso (dai 199 di dieci anni prima) e in quella del 2011 erano
141, con una secca perdita di territori e di addetti, sempre concen-
trati però nel “triangolo distrettuale” di Lombardia, Veneto, Emilia-
28 Dati Wto e UNcomtrade: cfr. Studi e ricerche per il Mezzogiorno, Un Sud che
imprese. Annuario 2014, Istat, Roma 2014, in part. pp. 117-118; Ice, L’italia nell’eco-
nomia internazionale. Rapporto Ice 20 14-2015, Roma 2015.
31 Istituto italiano di statistica, Annuario statistico italiano 2015 cit., pp. 535-542;
Id., Interscambio commerciale in valore per area e paese del prodotto: Divisioni Ateco
2007 “CB14” Articoli di abbigliamento (anche in pelle e in pelliccia), “CB15” Articoli in
pelle (escluso abbigliamento) e simili, dicembre 2015, dati Coeweb-Istat.
202 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
industriali e sistemi locali del lavoro 2001, Istat, Roma 2006; Id., 9° Censimento dell’in-
dustria e dei servizi e Censimento delle istituzioni non profit. I distretti industriali 2011,
Istat, Roma 2015; Studi e ricerche per il Mezzogiorno, Un Sud che innova e produce,
vol. 3 cit., p. 25.
33 P. Palmi, Le fabbriche della creatività. Un’analisi organizzativa dei distretti evo-
luti, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 16-32; I distretti industriali del terzo millennio.
Dalle economie di agglomerazione alle strategie d’impresa, a cura di F. Guelpa e S.
Miceli, il Mulino, Bologna 2007.
34 Direzione Studi e Ricerche Intesa San Paolo, Economia e finanza dei distretti
36 Area Studi Mediobanca, Top 15 moda Italia e aziende moda Italia: 2010-2014 e
38 B. Vitti, Anno 1967. Milano diventa di moda, in Milano è la moda cit. (riprodotto
competere nelle industrie ibride, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 187-220.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 209
47 T. Polhemus, Style Surfing: What to Wear in the 3rd Millennium, Thames &
bre 2014.
49 Con Palmanova village Blackstone a quota 5 outlet e 650 store, in «MF Finanza»,
19 giugno 2015.
210 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
52 E.F. McQuarrie, J. Miller, B.J. Phillips, The Megaphone Effect: Taste and Au-
dience in Fashion Blogging, in «Journal of Consumer Research», 40, June 2012, pp.
136-158.
53 K. Detterbeck, N. LaMoreaux, M. Sciangula, Off the Cuff: How Fashion Blog-
gers Find and Use Information, in «Art Documentation: Journal of the Art Libraries
Society of North America», 33, 2, September 2014, pp. 345-358.
54
D. Muggleton, Inside Subculture: The Postmodern Meaning of Style, Berg, Ox-
ford-New York 2000.
214 La stoffa dell’Italia. Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
55 Area Studi Mediobanca, Top 15 moda Italia cit., pp. 1-2; Contactlab and Exane
60 Ivi, p. 14.
61 Id., Altagamma retail evolution, Milano 2015, p. 15.
VI. Le sfide del ventunesimo secolo 217
sono molto variegati: dagli stracci degli abitanti dei ghetti urbani o del-
le aree post apocalittiche ai vestiti candidi, barocchi o stile steampunk
delle classi egemoni. La distopia si nutre di ineguaglianze.
Nell’attesa, possiamo constatare come il futuro sia già un po’ qui.
Molti tessuti hi-tech sono ormai disponibili: abiti con all’interno mi-
crochip, led, gps, rfid, sensori bluetooth e altro sono già prodotti e
possono dialogare con cellulari e computer, raccogliendo e inviando
informazioni anche sulla nostra salute. Lo stesso vale per i tessuti
cosmetici e medicali, impregnati di sostanze che vengono rilasciate
poco a poco a contatto con la pelle, evitando punture o problemi
di ingestione (sono ottimi anche contro gli insetti). Molte di que-
ste applicazioni hanno ancora una limitata commercializzazione; al
contrario, ad esempio, dei tessuti per lo sport e l’antinfortunistica
che già ora indossiamo: favoriscono la traspirazione, proteggono da
intemperie e sbalzi di clima, difendono da urti e shock. E non man-
cano le fibre fotoluminescenti per aiutarci al buio62.
L’Italia, da sempre molto attenta all’innovazione tecnologica so-
prattutto nel tessile, ha una buona posizione in queste produzioni.
Non a caso è uno dei leader nel segmento più alto del tessile tecnico
e dell’abbigliamento sportivo di alta gamma63. Tra l’altro, il distretto
di Prato, una volta noto per la rigenerazione degli stracci e ora spesso
alla ribalta per la presenza di ditte cinesi, comprende imprese all’a-
vanguardia nella ricerca tecnologica64. Anche perché non si tratta
solo di applicare la tecnologia a tessuti e abiti: i consumatori richie-
dono anche un’attenzione allo stile, per cui si può parlare di vero e
proprio techno fashion. Non solo. L’innovazione comprenderà sem-
pre più anche le ultime fasi della filiera, per cui i prodotti saranno su
misura per ogni cliente, passando definitivamente dalla produzione
di massa alla personalizzazione del prodotto e della vendita.
Ma quale sarà il ruolo dell’Italia in questi nuovi scenari? Lascian-
do da parte per il momento orizzonti molto futuribili, si può proiet
tare l’attuale andamento in avanti di alcuni anni. Come ricordano
ce, and Technology, Springer, Vienna 2008; R. Pailes-Friedman, Smart Textiles for De-
signers: Inventing the Future of Fabrics, Laurence King, London 2016.
63 Ufficio studi Acimit, Il commercio mondiale di tessile-abbigliamento: uno scena-
67 Camera Nazionale della Moda Italiana, Manifesto della sostenibilità per la moda
2016.
69 K. Fletcher, Sustainable Fashion and Textiles: Design Journeys, Earthscan, Lon-
diritti degli animali. Quanto tempo è passato dagli anni in cui vip
come la Callas sfoggiavano con orgoglio una ricca pelliccia! Oggi le
pellicce non sono quasi più utilizzate dagli stilisti, per motivi di poli-
tically correctness e perché sostituite da materiali sintetici altrettanto
validi. Infine ci sono le fibre sintetiche. Il poliestere non richiede
terra e acqua, solo una quantità di energia di poco superiore al coto-
ne. Ma proviene da idrocarburi, quindi materiali non rinnovabili, e
pone problemi di smaltimento. Allora qual è la soluzione? La verità
è che non c’è una fibra miracolosa per tutto, ma bisogna pensare ad
abbinare fibre naturali e sintetiche a seconda dei casi e dei luoghi70.
I diritti e la sicurezza dei lavoratori sono un punto importante
sia nella lavorazione delle materie prime sia, ancor più, nella produ-
zione tessile (terzo punto del manifesto). Ciò riguarda soprattutto le
lavorazioni in outsourcing, che non esimono il committente dal con-
trollare le condizioni di lavoro. Così come deve controllare l’impiego
di materie nocive e inquinanti soprattutto nelle delicate fasi della
tintura e del finissaggio. Infine, si prevede un controllo su materiali
di imballo e controlli nella fase di vendita.
Ma qui, diciamo subito, subentra come protagonista il consuma-
tore. Perché è proprio nelle nostre modalità di uso dei vestiti che si
nascondono molte sorprese. Una ricerca svolta nei Paesi Bassi ha
stabilito che in media un abito resta nel guardaroba per 3 anni e
5 mesi, viene indossato effettivamente 44 giorni e lavato/asciugato
circa 20 volte (cioè ogni 2-3 giorni quando lo si indossa). Ebbene,
questi 20 lavaggi, casalinghi o professionali, provocano un impatto
ambientale superiore a quello dell’intero ciclo di produzione! E que-
sto in termini energia, acqua e detergenti. Il lavaggio di un capo in
poliestere, ad esempio, consuma 6 volte la quantità di energia che è
stata necessaria per la sua produzione71. La lezione da trarre, quindi,
è che dobbiamo prestare attenzione ai modi e ai tempi dei lavaggi.
Allo stesso modo, andrebbe assicurato un lungo ciclo di vita al
prodotto, da riciclare alla fine, ma solo dopo che è stato riparato e
rimodellato – cosa che ci rimanda alla vecchia tradizione di riusare,
rivoltare e passare i capi all’interno della famiglia, che è stata la norma
per secoli. Come ci ricorda una fiaba di Andersen, dove una piantina
73 Waste End. Economia circolare, nuova frontiera del made in Italy, numero mo-
Fonte: elaborazioni da Istat, Serie storiche 150 anni, Roma 2011; Id., Censimento dell’industria e
servizi 2011, Roma 2013.
Anni Abbigliamento e calzature Totale spesa non alimentare % abb. e calz. su totale
1973 14,69 84,20 17,45
1974 17,09 98,80 17,30
1975 19,27 124,40 15,49
1976 22,70 150,54 15,08
1977 25,30 175,57 14,41
1978 27,27 194,41 14,02
1979 36,73 236,50 15,53
1980 46,07 301,62 15,27
1981 53,56 359,99 14,87
1982 59,19 421,87 14,03
1983 61,00 458,28 13,31
1984 65,23 518,95 12,57
1985 73,42 613,14 11,97
1986 78,73 680,95 11,56
1987 92,95 743,53 12,50
1988 101,32 818,58 12,37
1989 109,65 930,71 11,78
1990 114,09 1003,28 11,37
1991 118,74 1106,33 10,73
1992 110,61 1145,76 9,65
1993 102,42 1123,07 9,12
1994 111,37 1246,11 8,93
Tabelle 227
Anni Abbigliamento e calzature Totale spesa non alimentare % abb. e calz. su totale
1995 111,15 1304,30 8,52
1996 111,79 1365,36 8,18
1997 135,79 1623,64 8,36
1998 139,34 1673,02 8,32
1999 138,86 1688,65 8,22
2000 144,58 1773,52 8,15
2001 152,70 1767,45 8,63
2002 149,18 1772,03 8,41
2003 154,62 1858,27 8,32
2004 157,21 1928,18 8,15
2005 152,05 1941,42 7,83
2006 156,28 1993,91 7,83
2007 156,19 2013,78 7,75
2008 149,57 2009,45 7,44
2009 142,23 1980,71 7,18
2010 142,01 1986,68 7,14
2011 133,59 2010,83 6,64
2012 119,85 1950,95 6,14
2013 109,00 1898,00 5,74
2014 114,41 2052,44 5,57
2015 115,81 2057,87 5,62
Fonte: elaborazioni da Istat, Serie storiche 150 anni, Roma 2011; Id., I consumi delle famiglie,
Roma, anni vari (2013 a 2016).
228 Tabelle
Fibre
Fibre
Totale chimiche
Totale filati chimiche
Filati Tessuti tessuti Seta tratta non
Anni (cotone + cellulosiche
di cotone di cotone (cotone + greggia cellulosiche
altre fibre) (artificiali,
altri tessuti) (sintetiche
rayon ecc.)
ecc.)
1901-10 150.357 150.357 ... ... 5.467
1911-20 173.972 173.972 ... ... 3.750
1921-30 180.225 180.225 117.330 118.741 4.913 16.177 112.025
1931-40 173.328 173.328 93.482 120.769 3.031 88.805 1.196
1941-50 87.736 119.584 57.636 56.725 1.720 88.594 329
1951-60 169.043 205.970 115.029 156.725 1.114 136.192 13.104
1961-70 184.583 241.346 119.612 179.209 570 194.025 137.014
1971-80 155.240 228.236 114.511 176.760 61 120.253 374.816
Diffusione regionale
Piemonte 21.356 14.059 27.062 41.121 408.038
Liguria 5.618 3.258 8.087 11.345 80.566
Lombardia 31.241 27.831 47.778 75.609 813.500
Venezia tridentina 2.778 1.801 2.206 4.007 27.996
Veneto 13.852 9.474 13.739 23.213 156.202
Venezia Giulia e Zara 4.772 2.914 5.547 8.461 64.699
Emilia 14.490 8.435 18.242 26.677 178.932
Toscana 13.549 8.112 18.467 26.579 191.088
Marche 6.685 3.669 5.908 9.577 37.664
Umbria 2.426 1.148 2.040 3.188 17.788
Lazio 7.464 5.592 8.699 14.291 129.584
Abruzzo e Molise 5.466 4.707 2.060 6.767 21.930
Campania 11.422 10.648 8.721 19.369 125.644
Puglia 8.287 5.100 7.544 12.644 72.638
Lucania 1.744 1.515 554 2.069 7.671
Calabrie 5.654 4.443 2.144 6.587 15.938
Sicilia 8.726 5.590 7.529 13.119 57.096
Sardegna 2.921 1.878 2.222 4.100 22.617
Totale Italia 168.451 120.174 188.549 308.723 2.429.591
Fonte: elaborazioni da Istat, Censimento industriale e commerciale 1937-1939, vol. V, Industrie tessili,
dell’abbigliamento e del cuoio, Roma 1950.
230 Tabelle
Femmine
Abiti 22.484 9,3 12.923 5,0
Abiti eleganti 6.311 2,6 3.787 1,5
Soprabiti, impermeabili 8.052 3,3 7.524 2,9
Giacche 3.115 1,3 1.612 0,6
Pantaloni 4.567 1,9 11.643 4,5
Tailleur 9.448 3,9 4.350 1,7
Gonne 20.046 8,3 17.274 6,7
Giacconi, giubbetti 1.067 0,4 2.789 1,1
Jeans 556 0,2 3.378 1,3
Maglie, pullover 12.066 5,0 25.718 10,0
Camicette 20.649 8,5 17.094 6,7
Fonte: elaborazioni da Ente italiano della moda, Il mercato dell’abbigliamento ed il guardaroba
della popolazione adulta italiana, Torino 1978 (tabelle da 27 a 40).
Tabelle 231
Tabella 6. La produzione di abbigliamento nel 1971 (imprese con più di 500 addetti
e distribuzione regionale)
Valore Valore
Anni Anni
(in milioni di euro) (in milioni di euro)
1970 3.354,823 1992 72.889,940
1971 3.538,518 1993 74.581,661
1972 3.985,950 1994 83.494,340
1973 5.033,925 1995 94.728,119
1974 6.596,802 1996 94.164,729
1975 7.350,439 1997 97.965,436
1976 9.814,596 1998 101.849,175
1977 12.084,202 1999 99.170,729
1978 14.316,443 2000 107.896,903
1979 18.407,101 2001 114.128,934
1980 22.645,961 2002 112.785,116
1981 26.249,284 2003 108.726,978
1982 29.973,342 2004 104.773,101
1983 33.545,829 2005 103.090,988
1984 40.079,011 2006 105.223,392
1985 45.456,236 2007 109.084,180
1986 46.778,820 2008 105.632,955
1987 50.359,228 2009 88.258,458
1988 55.674,210 2010 96.436,012
1989 61.214,151 2011 103.866,066
1990 64.111,791 2012 96.867,857
1991 65.770,029
Fonte: elaborazioni su dati Istat (Aggregati dei conti nazionali per branca di attività economica,
NACE Rev. 1.1 e Rev. 2, I. Stat). In caso di ricalcolo, si è utilizzato il dato più recente.
Tabelle 233
2001 2011
N. distretti Unità locali Addetti N. distretti Unità locali Addetti
Tessili e
50 332.502 1.415.876 32 314.275 1.277.893
abbigliamento
Calzature,
24 138.111 565.022 17 108.648 428.977
cuoio e pelle
Tabella 10. I principali gruppi del settore moda in Italia. Tessile, abbigliamento, pelle,
calzature e accessori (imprese con fatturato oltre 200 milioni di euro nel 2014)
Fatturato
2014
Denominazione Principali marchi
(migliaia
di euro)
1 Luxottica Group 7.652.317 Arnette – ESS – K & L Eyewear – Luxottica
– Mosley Tribes – Oakley – Oliver People
– Persol – Ray-Ban – Sferoflex – Vogue
Eyewear – Alain Mikli – Sunglass Hut – Vari
marchi in licenza (occhiali)
2 Prada 3.551.696 Prada – Miu Miu – Church’s – Car shoe
3 Giorgio Armani 2.535.478 Giorgio Armani – Armani Collezioni –
Giorgio Armani Privé – Emporio Armani
– AJ Armani Jeans – EA7 – AX Armani
Exchange – Armani Junior – Giorgio Armani
Beauty – Armani Casa
4 Calzedonia Holding 1.846.747 Calzedonia – Intimissimi – Tezenis –
Falconeri – Signorvino (enoteche) – Cash &
Carry by Calzedonia Group (punti vendita)
5 Otb 1.535.855 Diesel – 55 DSL – Diesel Black Gold –
Marni – Maison Margiela – Viktor & Rolf
– Staff International – In licenza: John
Galliano, Dsquared2, Hello Kitty, Just
Cavalli, Marc Jacobs, Vivienne Westwood
6 Salvatore Ferragamo 1.320.901 Ferragamo – Salvatore Ferragamo – In
licenza: Emanuel Ungaro
7 Max Mara Fashion 1.309.962 Max Mara – Sportmax – Weekend by
Group Max Mara – Max&Co – Mrella – I Blues –
Pennyblack – Marina Rinaldi – Persona
8 Benetton Group 1.296.253 United Colors of Benetton – Sisley – Sisley
Young – Undercolors of Benetton
9 Ermenegildo Zegna 1.210.481 Ermenegildo Zegna – Z Zegna – Agnona
Holditalia
10 Safilo Group 1.178.683 Carrera – Polaroid – Safilo – Smith – Oxydo
– vari marchi in licenza (occhiali)
11 D&G 1.044.716 Dolce & Gabbana
12 Tod’s 965.532 Tod’s – Hogan – Fay – In licenza: Roger
Vivier
13 Lir 933.911 Geox – Diadora
14 Valentino Fashion 721.471 Valentino – Valentino Garavani – RED
Group Valentino – In licenza: M Missoni
15 Zara Italia 705.122 Zara
16 Moncler 694.189 Moncler
17 Miroglio 655.621 Motivi – Oltre – Fiorella Rubino – Elena
Mirò – Luisa Viola – Per Te by Krizia –
Caractère – Diana Gallesi
236 Tabelle
Fatturato
2014
Denominazione Principali marchi
(migliaia
di euro)
18 LVMH Italia 652.517 Louis Vuitton – Dior – Fendi – Berluti –
Céline – Donna Karan – Nowness – Emilio
Pucci – Givenchy – Kenzo – Loewe – Marc
Jacobs – Stefano Bi – Thomas Pink – Bulgari
– Arnys – Loro Piana
19 H&M Hennes & 638.522 H&M – COS – & Other Stories – Cheap
Mauritz Monday – Monki – Weekday – H&M Home
20 Engifin 584.906 Filodoro – Golden Lady – Omsa – Philippe
Matignon – Hue – Sisi – No-nonsense –
Golden Point
21 Teddy 549.581 Terranova – Calliope – Rinascimento –
Kitana – Miss Miss
22 Givi Holding 548.746 Versace – Gianni Versace – Versace
Collection – Versus Versace – Versace Jeans –
Young Versace
23 Gucci Logistica 512.832 Gucci – Alexander McQueen
24 Loro Piana 505.502 Loro Piana – The Gift of Kings – Tasmanian
– Zelander – Loro Piana The Wave – Wish
– Cashmere Wish – Loro Piana Zibeline –
Zelander Flower – Denim Flower – Loro
Piana Baby Cashmere – Pecora Nera – The
Lotus Flower – Storm System – Loro
25 De Rigo 369.059 Police – Lozza – Sting – Sting Xs – Vari
marchi in licenza (occhiali)
26 Marcolin 362.133 Marcolin – Web – National – Vari marchi in
licenza (occhiali)
27 Piazza Italia 356.340 Piazza Italia
28 Brunello Cucinelli 355.909 Brunello Cucinelli – d’Avenza
29 Tecnica Group 331.061 Tecnica – Nordica – Blizzard – Lowa –
Rollerblade – Bladerunner – Moon Boot –
Dolomite – In licenza sui mercati esteri: Leki,
X-Socks
30 Compar 330.366 Bata – Weinbrenner – North Star –
Bubblegummers – Bata City – Bata
Superstore – Bata Factory Store – Athlethes
World
31 Marzotto – 317.989 Marzotto Tessuti – Guabello – Marlane –
Manifattura Lane Fratelli Tallia di Delfino – Esthetia/G.B.
Gaetano Marzotto Conte – Tessuti di Sondrio – NTB Nuova
& Figli Tessilbrenta – Redaelli Velluti – Linificio e
Canapificio Nazionale – Lanerossi Coperte –
Ratti – Redaelli 1893 – Niedieck – Girmes
32 Gefin – Gruppo Etro 313.623 Etro – Vari marchi
33 Fendi 312.858 Fendi – Roma
Tabelle 237
Fatturato
2014
Denominazione Principali marchi
(migliaia
di euro)
34 Liu Jo 299.144 Liu Jo
35 Adidas Italy 291.582 Adidas Originals – Adidas Neo – Adidas by
Stella McCartney – Porsche Design Sport by
Adidas – Vari marchi in licenza
36 Pianoforte Holding 285.020 Yamamay – Jacked – Carpisa
37 Bottega Veneta 269.687 Bottega Veneta
38 Rino Mastrotto 265.544 Rino Mastrotto Group
Group
39 Furla 261.542 Furla
40 Chanel 251.935 Chanel
41 Aeffe 251.538 Alberta Ferretti – Moschino – Pollini –
Philosophy – Moschino Cheap and Chic –
Love Moschino – Vari marchi in licenza
42 Fulgar 235.738 Fulgar – Stretchone Body Care – Scintel –
Ddy – Q-skin – Q-nova
43 Imac 229.862 Imac – Primigi – Igi&Co – Enval Soft
44 Conbipel 223.945 Conbipel – Niama – Esisto
45 Onward Luxury 221.229 Jil Sander – Jil Sander Navy – Veronique
Group Branquinho – Vari marchi in licenza
46 Conceria Pasubio 219.624 Pasubio Leather
47 Canali Holding 215.546 Canali 1934
48 Twin Set – Simona 212.112 Twin-Set Simona Barbieri – Scee by Twin-Set
Barbieri
49 Roberto Cavalli 209.373 Roberto Cavalli – Just Cavalli – Roberto
Cavalli Junior – Cavalli Class
50 Fashion Box 209.075 Replay – We Are Replay – Replay and Sons –
Red Seal by Replay – White Seal by Replay
51 Dafin 203.836 Dani
52 Bag 203.836 Nero Giardini – NG Nero Giardini – Nero
Giardini Junior
Fonte: Area Studi Mediobanca, Focus “Aziende Moda Italia” (2010-2014), Milano, febbraio 2016
(l’elenco dei principali marchi è solo indicativo e si riferisce alla situazione nel 2014).
INDICI
INDICE DEI NOMI
Premessa vii
Tabelle 225