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Narrativa
Il sole
Nodar Dumbadze
Il sole
undici novelle
[1973]
[1980]
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Regione nella Georgia occidentale.
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una volta accesi i forni, gli uomini si misero a battere i martelli moderare la loro naturale gioia di vivere, la festosità, l’en-
sull’incudine e a forgiare treppiedi, catene per camini, scuri, tusiasmo e l’inclinazione alla ruberia, ma di tanto in tanto
falcetti e falci; mentre le donne – qualcuna incinta, qualche al- si udivano comunque maledizioni in georgiano e bestemmie
tra nubile, ma tutte incantevoli e affascinanti allo stesso modo in zingaresco, che però non sfociavano mai in uno scontro
– invasero come cavallette i frutteti e gli orti del villaggio, con acceso.
dei lattanti che ciondolavano loro dal petto. E non fosse stato Quanto a me, mi accolsero subito come un amico. Non solo,
per la cocciutaggine delle donne di Guria, all’imbrunire sugli appena seppero che ero orfano, mi offrirono un posto nell’ac-
alberi non sarebbero rimaste nemmeno le foglie. campamento e l’onore di diventare uno di loro. «Potresti un
«Dovete divorare e ingoiare tutto in una volta, disgraziate giorno» mi dissero, «arrivare persino a essere il nostro barone.»
e assatanate che non siete altro?! Lasciate qualcosina anche Io preferii, però, rimanere il pastore della capra di mia nonna e
per domani!» inveivano le donne di Guria contro le zingare, e mi accontentai del ruolo d’interprete tra le donne del villaggio
queste creature inquiete, non avvezze all’obbedienza, con una e le zingare, a titolo gratuito, si capisce, dal momento che al
mansuetudine per me inspiegabile smettevano di predare e calar del sole gli zingari, senza chiedere nulla in cambio, mi
anzi rimproveravano nella loro lingua i bambini scatenati che insegnavano a intonare canzoni tzigane, a ballare il tip-tap e a
mal sopportavano la sottomissione ai genitori. suonare la chitarra.
In poche parole, era il caso di dire: la grandine non porta Gli uomini, a dire il vero, non avevano granché bisogno di
carestia. interprete, poiché si limitavano a commerciare in attrezzi agri-
Così tanto è stato detto, scritto, messo in scena e filmato coli e, come ben sapete, quello del commercio e degli scambi è
sugli zingari nel mondo, peraltro con lo stesso titolo di questo un linguaggio internazionale che non necessita di alcun inter-
mio racconto, che difficilmente potrei aggiungervi qualcosa di prete, e tramite esso l’umanità non solo ha iniziato la propria
nuovo. Tuttavia, ciò che è successo nel nostro villaggio nell’ar- esistenza, ma si accinge anche a terminarla.
co di due settimane dell’estate del ’43, credo valga la pena di «Figliolo, portami una buona indovina čačana e saprò io
essere raccontato. come ripagarti. Vorrei chiederle della sorte di Vano mio, per-
Dissi poc’anzi che gli zingari invasero il villaggio come fos- ché la lettera tarda ad arrivare» mi chiedeva una vicina, e io
sero tante cavallette. A quel tempo, se non il villaggio intero mi davo da fare.
almeno la metà era in lutto. Come noto da queste parti, l’in- «Portami quella che hai portato da Agrafina, figliolo, a quan-
sediamento di un villaggio georgiano è diviso per parentela to pare le ha predetto cose buone, e saprò come sdebitarmi!»
genealogica e per quartieri. Perciò, erano così tanti a essere pa- mi chiedeva un’altra, e io mi davo da fare anche in questo caso.
renti prossimi l’uno dell’altro che una notizia di morte giunta Che altro potevo fare?
dal fronte vestiva di gramaglie almeno cinque famiglie. Se non proprio a tutte, almeno a una buona metà delle fami-
Fu dunque in un Paese calato in un simile lutto che erano glie disperate le zingare asciugarono gli occhi pieni di lacrime;
giunti gli zingari ed era per questo motivo che cercavano di soffiarono, ravvivandoli, riattizzandoli, su molti focolari sul
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punto di spegnersi, e tutto ciò in cambio di una manciata di «Fammi la bontà, figliolo, portami una buona indovina
tabacco, di due o tre uova, formaggio da mezza mungitura, čačana, e saprò io come ripagarti. Vorrei chiederle della sorte
un crostino di polenta, un fiasco di Adessa,16 e talvolta anche del mio Griša...»
nulla, soltanto un bicchiere di acqua fresca sorgiva. La nonna Nina aveva gli occhi supplichevoli e pieni di la-
Tuttavia, una di queste storie di divinazione merita di essere crime. Come avrei potuto dirle di no? Mi incamminai e, nel
raccontata. frattempo, per strada, pensavo a chi avrei potuto condurre da
Un mattino entrò nel nostro cortile la comare Dzneladze, e questa poveretta, che aveva già ricevuto a casa la notifica della
chiamò la nonna. morte del figlio, assieme alla lettera tolta dal suo stesso taschi-
«Che c’è, Nina?» l’accolse la nonna. no, tutta strappata dal proiettile, indirizzata alla madre.
«Comare Kerkadze, mi devi prestare il tuo bambino!» Era da più di un anno che si affliggeva. Ci sperava ancora?
«Te lo puoi pure tenere, se lo scovi e lo rendi utile, quel Evidentemente, il cuore materno è un mondo a sé, stenta a cre-
buono a nulla. Io, tanto, non riesco a cavarne nulla: sta tutto il dere a ciò che non ha visto con i propri occhi, e in un cantuccio
giorno a ciondolare con quei tzigani e a strimpellare la chitar- custodisce una minuscola, flebile speranza.
ra. Per dirti, ieri si è portato dietro cinque lazzaroni della sua Preso da questi pensieri, giunsi all’accampamento degli zin-
risma e hanno fatto piazza pulita di tutte le cose sopra o sotto gari. Quasi tutti erano in giro per rimediare qualcosa. Trovai
terra. Non trovi una ciliegia o un porro, neanche a pagarli, nel nella tenda soltanto Oksana, la figlia incinta di Nikola, il capo
mio giardino.» dell’accampamento. Era già al nono mese, faticava a cammi-
«Bella seccatura. Non hanno lasciato proprio nulla?» si di- nare e andava a divinare molto di rado. L’implorai:
spiacque Nina. «Oksana, te lo chiedo per favore. Vieni con me, è una povera
«Come no, gli hanno lasciato tanti di quei pidocchi che è da donna, consolala un po’...»
ieri sera che cerco, senza riuscire, di debellarli». «Ha qualcosa da darmi?» mi chiese, svogliata, Oksana.
«Prestamelo lo stesso!» non mi disdegnò la comare Dzne- «Probabile, se ti manda a chiamare» risposi con esitazione,
ladze. poiché, come tutti i villaggi, in quegli anni di guerra, anche il
«Te l’ho detto: se lo trovi, tienitelo pure!» mi cedette la nonna. nostro era in miseria, e soltanto grazie alla frutta e alla verdura
Udii con le mie orecchie questa conversazione, essendomi tirava avanti. O per meglio dire, moriva di fame.
arrampicato sull’albero con la speranza di scovare qualche «Probabile, probabile... Non lo vedi che faccio fatica anche
ciliegia scampata per miracolo alla razzia del giorno prima. a respirare?»
Saltai giù e andai incontro alla comare Dzneladze. Oksana si alzò in piedi, scontenta, ma non ebbe il cuore di
«Nonna Nina, in cosa posso esserti utile?» rifiutarsi e mi seguì.
Nonna Nina accolse me come fossi il Redentore, è vero, ma
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Adessa [georg. ადესა]: vino rosso scuro derivato da una varietà di alla vista di Oksana si turbò un tantino.
Vitis labrusca, uva fragola, detta “Isabella”. «Chi mi hai portato, ragazzo? Dovesse partorire adesso,
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dove la trovo una levatrice?» disse portandosi la mano alla Oksana tenne a lungo la mano nell’acqua, rimestandola, e
guancia la comare Dzneladze. non appena il sale e lo zucchero si sciolsero, vi buttò dentro la
«Di questo non darti pensiero. Sa il fatto suo» la tranquil- fede della comare Dzneladze. L’anello tintinnò sul fondo della
lizzai. bacinella, rimase per un po’ ritto, poi cadde disteso.
«Cosa sta dicendo?» mi chiese Oksana. «È oro puro?» chiese Oksana.
«Dice che sei molto giovane e si chiede se sei un’indovina...» «Purissimo!» rispose con orgoglio la comare Dzneladze.
mentii. «Su chi dovrei divinare?» si rivolse a me Oksana.
«Che stia tranquilla! Dille di portarmi una bacinella, dell’ac- «Su Griša, figlio mio, figlio mio...» ripeté due volte la comare
qua, una manciata di sale, un anello d’oro e tre zollette di zuc- Dzneladze, dando a intendere che era lui il suo unico cruccio
chero.» e pensiero.
Tradussi tutto alla comare Dzneladze. Oksana si mise a divinare, bisbigliando per una mezz’ora
«Questa qui è fuori di testa, per caso, figliolo? Sono tre anni qualcosa nella sua lingua.
ormai che lo zucchero neanche me lo sogno» si lamentò la non- «Traduci» mi implorava la nonna Nina.
na Nina. Stavolta tradussi alla lettera a Oksana le parole della «Parla nella sua lingua e non comprendo!» le spiegai.
comare Dzneladze. La zingara scoppiò a ridere. D’un tratto Oksana smise di bisbigliare e si voltò verso la
La nonna Nina, tranne lo zucchero, le portò tutto. Poi si sfilò comare Dzneladze.
con difficoltà la fede nuziale dall’anulare della mano destra e «Lo vedo» disse. «Lo vedo, è vivo. È in mezzo ai forestieri,
diede a Oksana anche quella. La zingara, col fiato grosso, si vorrebbe tornare, ma non glielo permettono, è prigioniero...»
sistemò presso il camino, versò dell’acqua nella bacinella e vi «Povero figlio mio» gemette la comare Dzneladze. «Basta
buttò poi il sale. che sia vivo, ci rimanga pure...»
«Senza zucchero si può fare lo stesso?» chiese allarmata la «Ha la testa fasciata con una benda bianca, probabilmente è
comare Dzneladze. ferito, però è vivo...» continuò Oksana.
«No, senza zucchero no!» disse Oksana. La comare Dzneladze lanciò uno sguardo sospettoso prima
«Come facciamo, allora?» si disperò la nonna Nina. a me, poi a Oksana. Di punto in bianco si alzò, tornò con la
A quel punto, da una tasca del suo mantello multicolore e lettera del figlio strappata dal proiettile e la porse alla zingara.
voluminoso Oksana tirò fuori tre zollette di zucchero e le buttò «Di questa che mi dici?»
nell’acqua. Non appena scorse la lettera macchiata di sangue secco,
«Signore Iddio, non far mancare dolcezza e bontà a questa Oksana si alterò in viso.
santa donna!» la comare Dzneladze benedisse la zingara, fa- «Ты куда меня привёл, болван?»17 mi domandò con un filo
cendole anche il segno della croce. di voce.
«Che dice?» si scostò Oksana.
«Ti benedice» le spiegai. 17
Rus.: “Dove mi hai portato, stupido?”.
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Che cosa avrei potuto dire? Chinai la testa, in attesa del suo Attorno a un enorme falò ci furono danze, canti, giochi, liba-
verdetto. La zingara rimase immersa nei suoi pensieri molto gioni, baci, abbracci, schiamazzi, inframmezzati da risse, che
a lungo. Io e la comare Dzneladze la fissavamo con il fiato si protrassero fino al sorgere del sole.
sospeso. Alla fine Oksana disse: Tuttavia, la morale della favola non è questa, né il fatto che la
«La lettera è stata spedita per mano altrui, ed è quest’altro comare Dzneladze diede in dono a Oksana la sua fede nuziale.
che è morto...» No, il fatto più importante si verificò in seguito...
La comare Dzneladze cadde in ginocchio davanti alla zingara. Un bel giorno, il villaggio si svegliò e ci si rese conto che
«Giuramelo sulla vita del figlio che aspetti» la supplicò. dalla valle di Laš non giungeva alcun suono: nottetempo, gli
Quando tradussi a Oksana le parole della donna, la zingara zingari avevano smantellato il campo, avevano fatto fagotto e
rimase di stucco, sbarrò gli occhi, sbiancò in viso e si coprì la si erano portati dietro, assieme a qualche cianfrusaglia, anche
pancia con le mani, come a proteggerla da qualcuno o qual- una capra, due maialini, un vitello e una ventina di galline
cosa, poi si mise a carezzarla, bisbigliando qualcosa nella sua – tutti sgraffignati al villaggio – ed erano scomparsi senza la-
lingua. Ebbi l’impressione che pregasse, e che lo facesse con sciare traccia.
grande ardore, chiedendo perdono al suo Dio o idolo che fosse. Al giorno d’oggi, il valore di questi beni potrebbe sembra-
Improvvisamente le si distese sul volto una quiete celestiale, si re ridicolo, ma a quei tempi si trattava di un vero e proprio
rianimò e con un sorriso triste mi disse: capitale – giacché un uomo per un maialino era in grado di
«Скажи этой старой стерве, что жив её сын... и вот uccidere il prossimo.
знамения. У меня роды начались, родится сын и я его Quanto a inseguirli, avevano tali carri a quattro ruote e dei
Гришей назову!»18 cavalli tanto inarrestabili che era inutile anche il solo pensie-
E mentre traducevo queste parole, con voce tremolante, alla ro. E in più, nessuno sapeva in quale direzione cercarli – se in
nonna Nina, che nel frattempo copriva di baci i piedi nudi di quella di Ozurgeti,19 oppure in quella di Čokhatauri...20
Oksana, le urla della zingara si levarono alte nel cielo. E mentre il villaggio fremeva...
Nel giro di una mezz’oretta il cortile della comare Dzneladze E mentre il villaggio si affannava...
brulicava di gente dell’intero Zenobani e dell’intera tribù zin- E mentre nel villaggio si dibatteva...
garesca. La sera a Zenobani giunse un uomo che portò la notizia:
Sollevata in alto sulle braccia, come se fosse la Madonna, gli la milizia di Čokhatauri, per un sospetto, aveva fermato dei
zingari portarono via la figlia del loro capo assieme al piccolo “čačani”, li aveva costretti a confessare dei furti e chi, a Zeno-
Griša. bani, si ritenesse parte lesa era invitato a presentarsi al centro
E anch’io ero in mezzo a loro. provinciale.
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Principale città e centro amministrativo della regione di Guria.
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Rus.: “Di’ a questa vecchia arpia che suo figlio è vivo... ed eccoli i 20
Uno dei centri provinciali (poi capoluogo di provincia) della regione
segni. Sto per partorire, sarà un maschio e lo chiamerò Griša!”. di Guria.
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Andò a presentarsi, se non l’intero, almeno mezzo villaggio: tato o la bestia acchiappata. Dopodiché l’anziano si rivolse al
non solo chi aveva davvero subito un danno, ma anche chi era capo della milizia:
semplicemente desideroso di godersi lo spettacolo. «Cos’è successo, signor Kikitia, perché ci ha chiamati?»
Una volta giunti, nel cortile della milizia scorgemmo gli zin- «Sei forse diventato sordo, Levarsi Berežiani? Vi ho appe-
gari. Non riuscivano a guardarci negli occhi. Mi piangeva il na detto di riprendervi ognuno le vostre cose; a questi qui ci
cuore per la mortificazione. Avrei voluto scoppiare a piangere penso io.»
davvero, e in quell’istante, per un motivo inspiegabile, avrei «Quali cose nostre, signor Kikitia?»
preferito trovarmi dalla parte degli zingari, piuttosto che da «Diamine, è vostra o no questa roba?» perse la pazienza il
quella dei miei compaesani. capo della milizia.
“Davvero non si rendono conto che questi disgraziati non «Era nostra, signor Kikitia!»
sono dei ladri? È che, semplicemente, ce l’hanno nel sangue, «Che vuol dire “era”?» il capo della milizia lanciò uno sguar-
il rubacchiare, e, quasi contro la loro volontà, appena passano do interrogativo ai miei paesani.
accanto a un oggetto, questo oggetto gli si appiccica addosso «Era nostra, signor Kikitia, ma l’abbiamo poi barattata, chi
come una calamita” pensavo io, ma tutti se ne facevano un per un treppiede, chi per una catena... Arsena Gudavadze»
baffo. Levarsi si rivolse a un suo vicino: «Qual è la tua bestia?».
Finalmente emerse dal suo ufficio il capo della milizia, Ki- «È quel maialino dall’orecchio sfregiato» Arsena indicò l’a-
kitia Osepašvili. Si appoggiò sulla balaustra della balconata nimale con la mano.
e si rivolse agli abitanti di Zenobani come un condottiero ai «Ma non l’avevi dato ai čačani in cambio di un treppiede e
partecipanti di una parata militare: una catena?»
«Conoscete questa gente?» «Gliel’ho dato, eccome se gliel’ho dato!»
«Come non conoscerli? Si sono fermati a Zenobani per due «Non si è mai sentito di un treppiede scambiato per un qua-
settimane intere» si fece avanti l’anziano del villaggio, il saggio drupede» scoppiò a ridere Kikitia.
Levarsi Berežiani. «Questi saranno pure affari miei!» disse Arsena con un pi-
«Questa roba è vostra?» Kikitia indicò i capi di bestiame e glio fiero, e si mise in disparte.
gli oggetti rubati, legati e ammassati in un angolo del cortile. «E quest’altro maialino?» domandò Kikitia.
«Questo è mio!» «Non è di nessuno» qualcuno si fece sentire dalla folla.
«Quest’altro è mio!» «Questa capra invece?»
«Questo invece è mio!» si buttò ognuno sulla propria bestia, «E che ne so io?» rispose la Dzneladze, come se la domanda
sul proprio volatile o oggetto. fosse stata posta a lei personalmente, e dopodiché si mise in
«Giù le mani, voi buoni a nulla!» Levarsi Berežiani richiamò disparte anche lei. La capra, belando, la seguì.
i suoi compaesani. «Se non è tua, Nina, allora perché ti segue?» le chiese il capo
Tutti, come fulminati, lasciarono perdere l’oggetto agguan- della milizia.
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«Perché è una capra, Kikitia, ed è senza cervello, proprio Nikola, il capo degli zingari: «Езжайте, дорогие, и извините,
come me» disse la Dzneladze, quindi afferrò l’animale, lo tra- пожалуйста, нет у них к вам никаких претензий».21
scinò a forza verso il carro degli zingari e ve lo legò. Noi e gli zingari lasciammo assieme il cortile della milizia.
«Donne, per quanto ne so, queste galline le avete date alle Rimanemmo gli uni davanti agli altri per un bel po’. Do-
zingare in cambio di divinazione e di buone novelle, non è podiché dal gruppo degli zingari si fece avanti Nikola, andò
così?» si rivolse alle compaesane Levarsi Berežiani. da Levarsi Berežiani e lo riverì baciandolo sul petto. Poi si
«È così, è così» si misero a vociare le donne. voltò senza proferire parola e si sistemò sul pianale del carro
«Allora, se tutto è a posto, cosa vi ha spinti a precipitarvi principale.
qui, a Čokhatauri, in piena notte?» chiese Kikitia, avvilito per D’un tratto si udirono richiami selvaggi, fischi, schiocchi di
l’imprevedibile esito. frusta, trepestio di ruote, e l’intrepida compagnia spiccò il volo
«Pensavamo a qualche altra disgrazia o sciagura, signor Ki- verso Sajavakho.
kitia. Come sappiamo tutti, c’è la guerra e...» Levarsi Berežiani Se ne andarono così i miei zingari: olivastri, vivaci, rissosi,
cercò di giustificare i suoi compaesani. fabbri e ballerini, indovini e ladruncoli. Se ne andarono senza
«Neanche questo vitello avrebbe un proprietario?» Kikitia voltarsi indietro, portando con sé i pochi averi del nostro vil-
fece un ultimo tentativo. laggio, lasciando però acceso, nella valle di Laš, un tale falò di
«Era mio, ma l’ho regalato al capo dei čačani» disse Le- speranza che tuttora arde nel mio cuore.
varsi. Se ne andarono i nostri zingari... e noi, tristi ma felici, molto
«Perché l’avresti fatto, Levarsi? È per caso tuo cugino?» gli soddisfatti del nostro comportamento, iniziammo a piedi la
domandò Kikitia. salita lunga e infinita verso Zenobani.
«L’ho fatto perché sua figlia ha partorito nel nostro villag-
gio e al bambino ha dato il nome della buonanima di Griša
Dzneladze...»
Gli zingari guardavano con meraviglia ora noi, ora il capo
della milizia. Capivano che attorno a loro stava succedendo
qualcosa di strano, ma ancora non avevano un’idea chiara di
che cosa si trattasse esattamente.
«E va bene» disse infine il capo della milizia, «se la mettete
così, tornatevene pure nel vostro Zenobani, ma che non vi pas-
si in mente di poter usare l’autobus. Così come vi siete presi
gioco di me davanti a questi čačani, ora ciabattate indietro al
vostro villaggio» concluse dandoci le spalle. Poi si rivolse a 21
Rus.: “Andatevene pure, cari, e vi prego di scusarci, non hanno
nessuna rimostranza da fare contro di voi”.
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La corrida
[1974]
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Alazani: fiume della Georgia orientale. 26
In italiano nel testo.
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«Nessuno, signoria vostra!» mi dileggiò Lili. Un brivido mi corse lungo tutto il corpo.
«E allora che cosa dovrebbe fare il povero torero? Come do-
Onorai come si deve, grazie a te, anche il mio morto
vrebbe comportarsi?» Sedetti e scrissi, piangendo, poesie su di te, mio supporto...28
«Che si comporti, signoria vostra, come ci comportiamo noi
georgiani» m’istruì Lili. Concluse Nana. Poi abbassò le mani e mi fece un sorriso
«Sarebbe a dire?» colpevole. Fui liberato di un enorme peso dal cuore. Afferrai
«In ogni caso, uccidere un toro, torturandolo così, è una bar- il cappello e mi avviai verso la porta.
barie.» «Aspetta! Ma dove vai? Non mi devi accompagnare?» mi
«Ah, e ti sembra meglio essere castrati a un anno, domati a chiese Lili e si alzò anche lei.
due, legati al giogo a tre, e per dieci anni, senza la possibilità «Oggi ti accompagna Dato» le dissi, e uscii fuori.
di drizzare le ginocchia e il garrese, arare la terra, seminare, Nei pressi del mercato di Vere, davanti alla macelleria, era
trebbiare, trasportare pietre e ghiaia, avere la schiena scorticata fermo un veicolo-frigorifero lungo come un vagone. I lavo-
a furia di frustate, e poi, una volta invecchiato, debilitato, pelle ratori curdi, con i sacchi di iuta buttati sulla schiena a mo’ di
e ossa, con le vene gonfie, essere sgozzato con un coltellaccio, cappucci dei Ku Klux Klan, vociando trasportavano la carne
scuoiato, appeso a testa in giù sopra un bancone e venduto a nel negozio. Per strada stagnava un puzzo nauseante, miscu-
caro prezzo. È meglio così?!» dissi, e per nascondere l’agita- glio di umidità e sangue rappreso.
zione, mi alzai, andai alla finestra: nella strada sferragliava un Non era certo un bel vedere, eppure mi fermai a osservare.
escavatore, oscillando l’enorme proboscide. Le tazzine posate Due lavoratori issati sul cassone porgevano imprecando quarti
sul tavolinetto tintinnarono in modo snervante. Poi, finalmen- di carne scuoiata a due colleghi accostati di spalle, i quali, im-
te, l’escavatore passò oltre, e nella stanza tornò il silenzio. precando a loro volta, portavano i pezzi irrigiditi come legni
«Да... чем больше любим мы животных, тем они вкуснее»27 dei vari Tsikara, Švinda, Ghvinia, Nikora,29 e li impilavano co-
proferì Lili dopo una pausa, e fece un sorriso stentato. me in una catasta sul bancone della macelleria.
Dato torturava la pipa. Nana sedeva coprendosi il viso con «Hai una sigaretta?» mi chiese uno dei lavoratori usciti dal
le palme delle mani e, improvvisamente, iniziò a declamare negozio, soffiandosi sulle mani intirizzite.
una struggente poesia: 28
Versi tratti dalla poesia Il toro del poeta georgiano Šota Nišnianidze
Erano le nozze... ahimè, il cinereo cuore mi doleva, (1929-1999).
Ti accasciammo, sfiancato, e ti aprimmo la gola... 29
Nella mitologia e nella cultura contadina georgiane, nomi dati ai
buoi. Tsikara [in georgiano: წიქარა]: toro dal manto rosso acceso, è
protagonista di una fiaba tradizionale. Nikora [in georgiano: ნიკორა]:
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Rus.: “Già... più amiamo gli animali, più risultano gustosi” [frase bovino o equino che ha una macchia rotonda (palla di neve, stella) sul
probabilmente desunta da un aforisma di Vladimir Goloborod’ko (1940- muso. Ghvinia [in georgiano: ღვინია]: diminutivo derivante dalla pa-
2019), letterato, aforista e giornalista russo-ucraino. La citazione esatta rola ghvino (“vino”, in georgiano), mentre Švinda, come accennato sopra,
è: “Più ci prendiamo cura degli animali, più risultano gustosi” (NdT)]. dalla parola šindi (“corniolo”).
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«È gelata?» gli domandai, porgendogli la sigaretta. Il sole
«Certo, quella calda è nei campi a brucare l’erba!» mi rispo-
se, e mi chiese da accendere. [1974]
Onorai come si deve, grazie a te, anche il mio morto
Sedetti e scrissi, piangendo, poesie su di te, mio supporto...
Alla memoria dell’amica Gulda Kaladze, che per la prima volta mi
Mi rammentai della poesia declamata da Nina, e mi venne fece scorgere una luce verde sulla punta del sole calante nel mare.
da piangere. Non dissi più nulla al lavoratore, mi voltai e me
ne andai. Nei pressi del palazzo illuminato della Filarmonica Si degnò di levarsi alle sei del mattino e si pose come un
mi fermai di nuovo, e levai lo sguardo sulla statua della Musa diadema d’oro sul monte Ertsakhu.30
dalle braccia allargate. Mi sorrideva in un modo, la benedetta, «Buongiorno, Ertsakhu!»
con i suoi occhi straordinariamente grandi, verdi e belli, come «Dove sei stato, creatore, la tua attesa mi ha consumato!» si
se mi dicesse: «Che ci puoi fare, signore mio, è così che va il lamentò Ertsakhu.
mondo». «Sono qui!» disse il sole.
«L’anello di ghiaccio mi sta quasi facendo scoppiare la testa,
Il sonno non accennò ad arrivare per un bel po’. Poi l’oscu- respiro a fatica, il mio occhio sveglio non ha visto un minuto
rità si trasformò in una rosea caligine, e sentii come tornava di di tregua per tutta la notte, aiutami!»
nuovo da recondite lontananze il dolce sogno smarrito della «Subito!»
mia infanzia: la mia Spagna, con i suoi baschi, le notti andalu- Il sole si alzò leggermente. Il suo cerchio si ammantò di un
se, le sue Carmencite e i suoi Don José, le sue nacchere e i suoi alone e improvvisamente si profuse in tanta di quella luce che
allegro, il suo sole rovente, il suo Don Chisciotte e il suo Sancio il monte vacillò. L’anello di ghiacciò scricchiolò, poi pian piano
Panza, i suoi repubblicani, la sua Bandiera Rossa, García Lorca, si tese, e d’un tratto si spaccò. Ertsakhu fu scosso da un brivido.
e il padre dell’universo, Cervantes. Mi addormentai cullato in «Sia benedetta la tua potenza, creatore!» esclamò il monte,
una rosea caligine, infinitamente felice di poter ancora rivivere e si pulì il sudore freddo dalla fronte. Il sole sorrise e attorno
uno dei sogni più incantevoli della mia infanzia. all’occhio divino gli comparvero innumerevoli rughe.
«Benedetta la tua potenza!» ripeté Ertsakhu, e si placò per
un attimo.
Il sole si sollevò ancora. Le falde del Caucaso, i crepacci, le
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Ertsakhu o Ertsakhvi [in georgiano: ერცახუ, ერცახვი]: monte del-
la catena del Caucaso, alto 3910 m, situato nella regione dell’Abkhazia,
Georgia nord-occidentale.
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conche si colmarono del frastuono, del rimbombo e del boato «Mamma, guarda un po’ il sole e Ertsakhu!» gridò.
terribile di inarrestabili valanghe. Ertsakhu fu avvolto dal va- La donna badava al latte messo sul fuoco in una capanna di
pore, dalla nebbia e dalla bruma creata dalla neve sollevata. tronchi. Al richiamo del figlio si voltò per un istante verso est,
Poi a poco a poco si svelò, aprì gli occhi e diede uno sguardo e in quello stesso istante il latte traboccò.
turbato al sole. Quest’ultimo si era alzato ancora più in alto. «Mannaggia a te, figlio mio!» imprecò la madre, tuttavia non
«È iniziata!» proferì Ertsakhu con voce strozzata. riuscì a togliere gli occhi dal sole e da Ertsakhu.
«Che cosa?» s’incuriosì il sole. «Che ti prende, donna, che non dai al ragazzo il tempo di
«La nascita!» svegliarsi?» la rimproverò il marito.
«E di chi?» «Guarda un po’ Ertsakhu!» ribatté la moglie.
«Dei figli, dei nipoti: Kodori, Psou, Kelasuri, Moqvi, Gha- Il contadino stava zappando il campo di mais. Strizzò un
lizga, Čalbaši, Machara, Ketevana...»31 occhio e scrutò così il consueto miracolo.
«Sono tutti tuoi?» «Oggi sarà una bella giornata!» disse, facendosi sentire dalla
«Miei e dei miei fratelli.» moglie, e tornò a zappare.
«Moltiplicatevi!» li benedì il sole.
Ertsakhu sorrise. Quando fu sovrastato dal sole, il mare sonnecchiava e bat-
«Noi siamo al contrario, creatore: abbiamo più figli e meno teva le bianche ciglia sulla sabbia, frusciando.
figli dei figli, i loro figli – ancora meno, e infine una enorme «Sciuuu... sciuuu... sciuuu...»
progenie – il mare!» «Buongiorno!»
Ai piedi del Caucaso dormiva un mare estesissimo, sconfi- «Lunga vita a te!»
nato, inesauribile. «Che fai?»
«Il mare!» si rammentò il sole. «Tre giorni or sono è annegato un umano. L’ho perso in qual-
Ertakhu lanciò uno sguardo alla progenie sua e dei suoi fra- che insenatura. Ero molto agitato, mi dicevo: “E se non riuscissi
telli. Ora, illuminato dal sole, il monte sembrava un gigante, a trovarlo?”. L’ho trovato ieri, e finalmente mi sono calmato.»
nudo fino alla cintola, emerso dalla nebbia. «E chi era?» s’incuriosì il sole.
«Non saprei. A quanto pare, nessuno. Non l’hanno cercato.
Un fanciullo cacciò la capra fuori dal cortile. Quando si ri- L’ho spiaggiato io stesso, e solo allora l’hanno trovato. Erano
chiuse il cancello alle spalle e si diresse verso la casa, improv- in due, e se lo sono portato. Non so nemmeno dove.»
visamente scorse Ertsakhu e un sole enorme sospesi nel cielo «Come mai?» gli chiese il sole.
uno accanto all’altro. «Non posso mica alzarmi e seguire un uomo come puoi fare
tu!» sorrise il mare.
31
Fiumi dell’Abkhazia, che partono dai ghiacciai della catena del Cau- «È iniziato!» disse il sole.
caso meridionale, sfociando poi nel Mar Nero. «Che cosa?» s’incuriosì il mare, e sollevò le palpebre.
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«Sono arrivati gli umani.» «Che disturbi ha?» chiese al malato il primo dottore, e si
Gli esseri umani approdavano sul bagnasciuga da soli o in vergognò lui stesso della domanda.
gruppi. Si svestivano, si stendevano sotto il sole, correvano, si L’infermo aveva tutti i disturbi possibili e immaginabili, solo
voltolavano, si inseguivano, si agguantavano, cercavano ciot- che non riusciva più a dirlo.
toli, conchiglie e pietre forate appariscenti, se li appendevano «Da quanto tempo è in queste condizioni?» chiese il secondo
sul collo, davano fuoco ai fuscelli portati dal mare, oppure, dottore a una giovane donna spaventata, e ne provò imbaraz-
semplicemente, stando in piedi, gettavano ciottoli in acqua. zo anche lui, poiché sapeva bene che erano ormai anni che il
Infine, aprivano tende, ombrelloni, teli, e si sottraevano alla malato si trovava in quelle condizioni.
vista del sole. Il sole, allora, non riusciva a scorgerli. «Aria!» implorò l’infermo.
«È incredibile! Quando non ci sono, scrutano il cielo per set- Spalancarono le finestre.
timane e settimane, ansiosi di vedermi. Ma non appena faccio «Chiudete la porta sul retro, ci sono correnti d’aria, prenderà
capolino, si nascondono all’istante sotto gli ombrelloni, i teli, un raffreddore» si pronunciò il terzo dottore, e si rese conto di
le tende, gli alberi e chissà cos’altro» disse il sole. averlo fatto soltanto per non far dire agli astanti che il terzo
«Cos’altro fanno come si deve?» gli chiese il mare. medico non aveva spiccicato parola. Se ne rese conto, e provò
Il sole si alzò ancora più in alto, e ai suoi occhi gli umani vergogna anche lui.
divennero sempre più piccoli. «Spalancate tutte le porte, tutte le finestre, fate saltare il tet-
to, il pavimento, sbrecciate tutte e quattro le pareti, e datemi
Dal cortile di una villetta recintata con un muro di pietre molta, molta aria...»
sbucò un uomo e corse trottando lungo la carreggiabile. Acco- Al centro della stanza, l’omone ammalato, appoggiandosi
stò il cancello di una villetta vicina, si accasciò su un pietrone alle spalle della giovane moglie e di un amico, si divincolava,
piazzato ai piedi dell’inferriata, e attaccò a chiamare: e con gli occhi pieni di terrore e i polmoni affamati implorava
«Vieni fuori, essere umano, mi sta morendo il figlio!» la parte d’aria spettante all’umanità.
Un essere umano venne fuori e lo consolò: Il padre condusse in disparte il primo dottore e gli chiese:
«Non aver paura!» «Qual è la nostra situazione, signor dottore?»
«Come non aver paura, benedetto, se sta morendo!» «È grave, tuttavia se ci dessimo subito da fare...» mentì il
Allora questo essere umano corse in una direzione diversa e primo dottore.
tornò portando con sé un mucchio di altri esseri umani. Il padre, rincuorato, si rivolse al secondo.
Da quel mucchio se ne staccarono tre ed entrarono dal malato. «Se lo trasferissimo a Mosca d’urgenza...» mentì anche il
«Sono dei professori!» disse qualcuno. secondo dottore.
«Ma davvero?!» «Come si chiama questo disgraziato male?» il padre inter-
Nel cortile sbocciarono silenzio e speranza, contemporanea- rogò stavolta il terzo.
mente. «La morte!» non poté trattenersi quest’ultimo.
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«Come, mi scusi?» Il padre pensò di avere sentito male. «L’amore è un’assuefazione e vicinanza smisurate tra gli
«La morte!» ripeté il terzo dottore. esseri umani, nient’altro!» disse l’uomo, e posò sull’ombelico
«Sì, però, i farmaci?» si confuse il padre. della donna, stesa sulla sabbia a pancia in su a prendersi il sole,
«Il farmaco di questo male è la morte!» il terzo dottore si un ciottolo bianco, caldo.
mise il cappello e se ne andò. Lo seguirono anche il primo e il «Lei crede?» chiese la donna senza aprire gli occhi, e con un
secondo. movimento aggraziato delle belle dita buttò il ciottolo giù dal
«Allora?» chiese la giovane donna al padre rientrato nella ventre.
stanza. «Cinque calorie bruciate, cambiare il lato!» si udì dal rauco alto-
«Dicono che sopravvivrà» disse l’uomo. parlante l’annuncio della guardia medica della spiaggia.
La donna si rigirò.
«Che succede?» chiese il mare al sole addentrato nella stanza. «Altroché crederlo, è così!» replicò l’uomo, e stavolta collocò
«Sta per morire un essere umano!» rispose il sole. i ciottoli proprio in quei graziosi incavi sopra le natiche che si
«Sta morendo così, come se niente fosse e basta?» chiese chiamano fossette di Venere.32 La giovane non si mosse.
sorpreso il mare. Allora il ragazzo l’accarezzò, dalla vertebra cervicale fino
«I dottori l’hanno già abbandonato» gli comunicò il sole e si all’osso sacro, con una mano tremolante. La ragazza si drizzò
strinse nelle spalle. subito a sedere. Sollevò le palpebre appesantite da un mascara
«Tu non abbandonarlo!» disse il mare. nero e mise il giovane uomo a fuoco dei suoi occhi azzurri.
«Come non abbandonarlo, chi ha mai sentito del mio fer- «Com’è impaziente, lei» gli disse.
marmi in un posto?» si meravigliò il sole. Stavolta il ragazzo sbirciò dentro il décolleté per metà sco-
«Non abbandonarlo!» gli ripeté il mare. perto della ragazza, scorgendone i capezzoli bruni.
«Che ci posso fare io se sta morendo. E come se non bastasse, «Io?» domandò, facendo lo stupido.
gli umani l’hanno già abbandonato.» «Lei» disse la donna, e sollevò gli occhi al sole. Il sole non
«Tu non ci pensare agli umani. Quelli si abbandonano l’un riuscì a trattenersi e con concupiscenza accarezzò le spalle e le
l’altro molto spesso e senza tanti scrupoli. Ma se tu non l’ab- cosce della ragazza con mani roventi. La giovane se ne infa-
bandoni, l’uomo non muore. Non farlo!» lo implorò il mare. stidì. Di punto in bianco si alzò, si allungò, si tese, si slanciò.
«Non posso. Io sono in grado di fare soltanto una cosa: Adesso il sole le sfiorò il seno.
ritornare domani alla stessa ora» si giustificò il sole. Sgusciò «Falla venire da me!» chiese il mare al sole. Il sole rise, e si
fuori dalla stanza, scavalcò la ringhiera del balcone e se ne mise allo zenit.
andò. «Falla venire da me!» il mare gli ripeté la richiesta.
«Te ne vai?» chiese il mare.
«Me ne vado» rispose il sole senza voltarsi indietro. 32
Nell’originale georgiano: ღვთის ყავარჯენი [ghvtis kavarjeni], let-
teralmente “appoggio di Dio”.
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«È tutta tua!» disse il sole al mare, e diede una spintarella «Esci un attimo e fammi il favore di allontanare queste cose
alla donna. La giovane si buttò in mare. Mille occhi eccitati, dalla croce e dalla tonaca, non mi pare bello che stiano così
accesi e avidi la seguirono fin dentro l’acqua. vicini» disse il prete e diede uno sguardo di sbieco al cappello
«È vita!» disse la ragazza, si stese a pancia in su e guardò il e alla rivoltella da poliziotto buttati accanto ai suoi indumenti.
sole. Il poliziotto emerse dall’acqua, svogliato, e coprì il cappello
«È vita!» confermò il sole. con i pantaloni, la rivoltella, con la giubba color kaki.
«Così può andare?» chiese al prete.
«Si svesta qui, padre, c’è meno gente» disse il poliziotto33 a «Che l’hai portata a fare?» il prete rispose alla domanda con
un giovane prete, si sedette sulla sabbia e con il dito indice si una domanda, e mise un piede nell’acqua.
pulì il sudore dalla fronte. Il prete si guardò attorno, si tolse il «Che ci posso fare, padre, la mia croce è questa!» sorrise il
berretto viola, lo buttò sulla sabbia, si sfilò poi dal collo un’e- poliziotto e tastò l’arma sotto la giubba.
norme croce d’argento, la pose accanto al berretto e la coprì «È la croce di Satana, quella!» il giovane prete si fece il segno
con la tonaca bianca. della croce, e si tuffò nell’acqua. Quando emerse, aveva gli
«Tanto valeva farsi il bagno sulla spiaggia di Sinope,34 eh? occhi chiusi e un sorriso di piacere stampato sul viso.
Non ci sarebbe stata più gente» disse il prete tra il risentito e «È vita!» disse. Con la catena d’oro che gli pendeva dal collo,
l’ironico. la barba lunga nera e i capelli bagnati che gli spiovevano sulle
«Ormai non se ne trovano più spiagge senza gente, padre» spalle, il prete ora aveva l’aria di un hippy scappato di casa, men-
replicò, risentito a sua volta, il poliziotto, e si mise anche lui a tre il poliziotto, con i suoi capelli tagliati e la barba rasata come si
svestirsi, mandando nel frattempo in cuor suo maledizioni al conviene, sembrava il figlio beneducato di una buona famiglia.
suo superiore per avere dato a lui il compito di fare da pastore «Guardi un po’, padre, come la scrutano quelle ragazze!» il
a questo sciagurato. poliziotto lo fece voltare. Il prete aprì gli occhi. Un po’ discoste
Per primo entrò in acqua il poliziotto. da loro, alcune ragazze svestite, floride, lanciavano sguardi
«È calda?» s’informò il prete. languidi in direzione del giovane prete.
«Entri, padre, è bollente» rispose il poliziotto e si preparò a «Non penseranno mica, quelle lì, che io sia un monaco?»35
tuffarsi. chiese il prete al poliziotto. Quest’ultimo sorrise.
«Sono belle come le quaglie, queste ragazze. Uno le guste-
33
Nell’originale è impiegato il termine “miliziano” [in georgiano: rebbe anche non spennate, eh, padre, che ne dice?»
მილიციონერი, in russo: милиционер], agente appartenente alla “milizia” «Peccato confessato, mezzo perdonato» disse il prete, e sor-
(nome ufficiale delle forze di polizia sovietica). Nella presente traduzio- rise anche lui.
ne abbiamo optato per il termine “poliziotto” per ragioni di scorrevo-
lezza e per evitare l’ambiguità semantica intrinseca al termine italiano
“miliziano”. 35
Secondo il diritto canonico ortodosso, i preti, a differenza dei mo-
34
Sinop, Sinope: città della Turchia, sulla costa del Mar Nero. naci, non sono tenuti a fare il voto di castità.
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“Che bravo ragazzo che sembra questo mascalzone, chissà oppure Callistrato, e invece si chiama Nodar» il giovane si
come mai è entrato nella polizia” pensò il prete, e si addentrò sbellicò dalle risa.
nell’acqua. Rise anche il prete, poi si alzò e diede al poliziotto una pacca
“Che bravo ragazzo che sembra questo mascalzone, chissà sul braccio.
come mai è entrato nella chiesa” pensò dal canto suo il poli- «È il mio nome da laico, quello. Va bene così, ora vestiti!»
ziotto, e si addentrò nell’acqua pure lui. «Stiamo un altro po’, padre» lo supplicò il poliziotto.
«Ha moglie e figli, padre?» gli domandò, nuotandogli vi- «È che fra poco comincia il convegno, altrimenti non avrem-
cino. mo avuto di meglio da fare che stare qui!» disse il prete e si
«No!» mentì il prete, e andò sott’acqua. mise a vestirsi. Da una curva sbucò una Volga nera, dirigendosi
«Saresti mica lo Spirito Santo?» gli chiese il poliziotto, appe- verso i due. «Ecco, te l’avevo detto, anche l’auto è qui.»
na il prete affiorò in superficie. «Un altro po’, padre.»
«Lo Spirito Santo è uno al mondo» rispose il prete e fece il «Non me lo farei ripetere due volte. Se non avessi un discor-
morto a galla. so da fare...» il prete allargò le braccia con dispiacere, e poi fece
«Ma non erano tre?!» lo riprese il poliziotto. ricadere sopra la tonaca quell’enorme croce d’argento. Adesso
«Come tre?» domandò il prete, e si rigirò. era di nuovo un prete. Tuttavia, una volta vestitosi anche il
«Padre, Figlio e lo Spirito Santo!» proferì con un orgoglio da poliziotto, quest’altro pareva più un carcerato.
saccente il poliziotto. «Ci ha quasi ustionati, questo disgraziato!» disse il poliziot-
«Tutti e tre sono uno, ragazzo!» disse il prete. to, e levò lo sguardo al sole.
«Come possono essere tutti e tre uno, padre?» chiese con un «Intendi il sole?» domandò il prete.
tono beffardo il poliziotto. «E cosa sennò, la luna?» rispose, accaldato, il poliziotto.
«Guarda, questo stesso sole che vedi, anch’esso è trino: di- «Fatti immediatamente il segno della croce, e di’: “Dio, ho
sco, aureola e luce. E così, come questi sono inseparabili ed è peccato!”» l’esortò il prete con severità.
impossibile immaginarli, allo stesso modo è inimmaginabile Il poliziotto lanciò uno sguardo incredulo al prete, pensando
la trinità separata, è chiaro?» chiese il prete. che il chierico non sapesse con chi avesse a che fare, e si calò il
«Sì, se lo dice lei» rispose il poliziotto. berretto stellato sulla fronte con un forte gesto di entrambe le
Il prete non replicò, uscì dall’acqua e si sedette sulla sabbia mani. Il prete si rese conto di avere sbagliato, e stavolta tentò
bollente. di spiegarsi con garbo:
«Come si chiama, padre?» gli domandò d’un tratto il poliziotto. «Il sole non merita un tale appellativo, il sole è l’icona di una
«Nodar» il prete afferrò un ciottolo e lo buttò in acqua. Il notte assolata» e levò con ardore uno sguardo verso il corpo
poliziotto scoppiò a ridere. celeste.
«Che hai da ridere?» chiese sorpreso il prete. «E “notte assolata” che cavolo vorrebbe dire?» gli chiese il
«Avrei scommesso che si chiamasse, che so, Onofrio, Luca, poliziotto.
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Il prete rimase di stucco. «Ciò che dicono sul tuo conto è vero?»
«Dio, perdona il peccatore, poiché è uno sciocco, un igno- «Sciocchezze. Io sono tutt’altro essere. Lo sai anche tu che
rante, e non sa quel che dice» il prete intercedette presso Dio l’umano non è in grado di comprenderlo.»
a favore del poliziotto. «E che ne so io, pare sia una tua creatura, l’essere umano»
«E comunque, cosa significherebbe “notte assolata”?» insisté rise il mare.
il poliziotto. «È una menzogna. Io non ho preso parte alla sua creazione.
«Dio!» Quando venni io, lui c’era già. Non fui io a dargli il nome. Fu
«È sia il sole che la notte?» egli stesso a darsi il nome di essere umano, e perciò non ho
«Esatto, ed è talmente luminoso che risulta tenebra, notte, idea di chi sia, di quando nacque, del luogo da cui provenga.»
per l’occhio umano, perciò è notte assolata!» spiegò il prete. Il sole se ne lavò le mani e mandò giù sulla terra tutti i dardi
Il poliziotto rise. di luce a sua disposizione.
«Leva lo sguardo al sole!» gli ordinò d’un tratto il chierico.
Il poliziotto alzò lo sguardo e, non riuscendo a reggere la «Дельфин, я чайка, справа от вас большой косяк!»36 tra-
vista della luminosità, distolse gli occhi. smise l’elicottero al peschereccio.
«Guardalo dritto!» gli ordinò di nuovo il prete. «Я дельфин, вас понял!»37 rispose il peschereccio, e si dispo-
«Non ci riesco, padre!» se a calare in acqua un’enorme rete. A fior di onde blu apparve
«Guardalo, prova a guardarlo a lungo.» una punteggiatura di galleggianti bianchi.
Il poliziotto si sforzò. Simile alla lama affilata di un coltello, «Entrate più a fondo, gli umani vi stanno braccando!» il ma-
la luce sembrava tagliargli le pupille. Il giovane, per evitare re mise in guardia la carovana di pesci.
una figuraccia, cercò di resistere. I pesci cambiarono rotta e si riversarono nel fondo del mare.
«Di che colore è?» gli domandò dopo un po’ il prete. «Дельфин, косяк уходит влево, курс против солнца! Курс
«Color rame!» против солнца!»38 l’elicottero avvertì il peschereccio.
«Continua a guardarlo!» La nave invertì la rotta, si erse contro il sole e, procedendo a
Al poliziotto parve che il sole gli colasse dentro gli occhi e, tutta birra, aggirò il banco di pesci da sinistra. La punteggiatura
con un gesto involontario, se li coprì con la mano. Se li coprì dei gialleggianti si arcuò e in breve tempo si chiuse in un cerchio.
e si meravigliò. «In basso, in basso!» il mare richiamò i pesci, ma il banco
«È diventato nero, padre» disse con voce tremante. «Il sole era già nella rete.
è diventato nero!»
Il prete si voltò e andò verso la macchina.
36
Rus.: “Delfino, qui [parla] Gabbiano, alla vostra destra c’è un grande
banco di pesci!”.
37
Rus.: “Qui Delfino, intesi!”.
«Lo senti?» chiese il mare al sole. 38
Rus.: “Delfino, il banco si dirige a sinistra, direzione contro sole!
«Lo sento» disse il sole, e del giorno fece mezzogiorno. Direzione contro sole!”.
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«Есть!»39 l’elicottero si congratulò dall’alto con il pesche- «Il padre, l’infelice, e la moglie, altrettanto infelice.»
reccio. «Nient’altro?» al sole parve troppo poco.
«Спасибо!»40 trasmise il peschereccio all’elicottero. «Gli rimane anche un abbozzo non terminato, piccolo pic-
«È finita!» sospirò il mare. colo, di una statua...»
Tirarono la rete, e l’acqua si tinse del sangue dei pesci schiac- «Che statua è?»
ciati dal proprio peso nelle maglie. Il ponte della nave si riempì «Non saprei, non ha la testa. Non so nemmeno se sia uomo
di gabbiani garruli, affamati, mentre sulla riva si accalcavano o donna.»
uomini interessati al pesce e allo spettacolo. Il sole rimestò la «Come l’ha rappresentata?»
mano d’oro nella rete piena di pesci, li sparpagliò sul ponte «Ha una bella costituzione, sottile e flessuosa, i fianchi alti
come fossero tante monete d’argento, dopodiché intinse nel e un paio di braccia lunghe, allargate: difficile dire se canti,
mare la mano insanguinata per pulirsela. danzi, nuoti, voglia spiccare un volo, abbracciare qualcuno o
«È così ogni santo giorno!» si lamentò il mare con il sole. qualcosa, se rida o pianga. Magari corre da qualche parte, op-
«È impossibile assistere a questa scena ogni santo giorno!» pure fugge da qualcosa, non saprei...»
disse il sole, e voltò la faccia leggermente verso ovest. «Allora chi lo sa?»
«Probabilmente nessuno. L’uomo si portò con sé il proprio
Dall’una alle quattro del pomeriggio gli esseri umani spari- pensiero.»
rono tutti in una volta come se li avesse inghiottiti la terra, poi «Gli uomini non sanno cosa vogliono» disse il sole.
sbucarono tutti in una volta dalle loro tane, e, a partire dalle «Non dirlo così, sole» il mare tentò di fargli venire lo scru-
quattro, si rimisero a fare all’incirca ciò che avevano fatto dalle polo.
sei del mattino fino all’una. «Non ha chiesto nulla prima di morire?» s’incuriosì il sole.
Il sole era allora adagiato su una nuvola, di un bianco can- «Ha chiesto l’aria.»
dido, dell’ovest, e guardava di sbieco il mondo. «E poi?»
Il sole non pensava a nulla. E quando si abbassò sempre di «Gliel’hanno data!» disse il mare.
più, fino a diventare il sole al tramonto, il mare lo ragguagliò: «E poi?»
«Quell’essere umano, sole, che hai abbandonato stamattina, «Non gli è bastata.»
è morto.» «Non gli è bastata l’aria?» si meravigliò il sole.
«È sparito? È finito?» si desolò il sole. «No» rispose il mare, dispiaciuto.
«No, gli esseri umani non spariscono, né finiscono.» Il sole non disse più nulla, si nascose dietro una nuvola. Il
«Allora, cosa ne è rimasto di lui?» mare si agitò leggermente.
39
Rus.: “Ci siamo!”. La sera, quando al calar del sole mancavano due dita, il corpo
40
Rus.: “Grazie!”. celeste diede ancora uno sguardo alla riva. Tuttavia si trovava
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già così in basso che non distingueva gli uomini dalle donne «Conosci la mia lingua per potermi parlare?»
tra gli esseri in attesa del suo tramonto. Tutti quanti allo stesso «La conosco, sia la tua che quella del mare.»
modo, alla stregua di candelabri placcati d’oro, ardevano sulla «Allora perché non gli rispondi?» gli chiese il sole.
spiaggia, e, avvolti dalla nebbia marina, fumigavano tutti in «Tutto quello che avevo da dire al mare, gliel’ho detto nella
modo simile. Allora il sole allungò il braccio d’oro da ovest a mia giovinezza. Ora non ho più nulla da spartire con lui, tran-
est, sfiorando un tronco nero buttato sulla riva, e chiese al mare: ne il figlio.»
«Questo tronco l’hai spiaggiato adesso, o c’era già e io non «Gli chiedi l’impossibile.»
me ne sono accorto?» «Chiedo il mio, non la carità. Me lo deve» insisté l’uomo,
Il mare era talmente abituato alla presenza di quel tronco inflessibile.
sulla riva che erano ormai cinque anni che non gli prestava più «Sei altezzoso tu, umano!» gli disse il sole.
alcuna attenzione. Appena il sole glielo rammentò, gli diede «Lo sono!» replicò l’uomo, e aggiunse: «Sono anche capace,
un’occhiata, e rise: però!».
«Questo non è un tronco, sole, è un essere umano.» «E di che cosa saresti capace?» gli chiese il sole.
«Chiedigli che cosa vuole, cosa ci fa qui?» «E tu?» gli chiese l’uomo.
«Che gli devo chiedere? Ogni volta che l’ho fatto, mi ha chie- «Io di tutto: posso far evaporare il mare, bruciare la steppa,
sto in cambio qualcosa. Impossibile riempire la coppa dei suoi fare del bosco un deserto, spegnere la vita» elencò il sole.
desideri. Prova tu a chiederglielo» si scansò il mare. «Tutto qui?» domandò l’umano, sorridendo.
«Che cosa ti chiede precisamente?» «E poi ancora, ecco!» esclamò il sole e d’un tratto assunse
«All’inizio mi chiedeva bel tempo, poi fu la volta della legna, l’aspetto di un vaso di terracotta rosso, poi di una giara rove-
poi del pesce, della sabbia, della conchiglia, del sale, della terra. sciata, di un fungo, della cruna d’un ago, dopodiché s’infilò
In questi ultimi trentatré anni mi chiede il figlio, nient’altro. dentro se stesso e si trasformò in un coniglio, poi in un lupo che
“Restituiscimi mio figlio”, mi dice. Come posso io restituirgli trangugiò quel coniglio, poi in un elefante, in un leone, in una
il figlio?» sospirò il mare. tigre, in un gatto, in una coppa, in una teiera, in una coppetta
«Se gliel’hai preso, perché non glielo restituisci?» domandò di vino, in un orecchino, in una collana, in una corona reale, e
il sole. infine tornò a essere di nuovo il sole. «Fra poco io tramonterò e
«Non sono stato io a prendermelo, l’ha fatto qualcun altro, lascerò nel mondo l’oscurità, ma anche quell’oscurità sarò io, io
e poi quell’altro ha dato la colpa a me» si giustificò il mare. sono tutto!» disse il sole, sfinito, e si adagiò su un orlo del cielo.
«Digli che il sole vuole parlargli» l’incaricò il sole. L’essere umano rise di nuovo.
«Umano, il sole ti vuole parlare» con la mano bagnata il «Che hai da ridere?» gli chiese il sole.
mare gli sfiorò il piede nudo. L’umano non si mosse. «Sono io, l’essere umano, a essere tutto» proferì quello.
«Umano, mi senti o no? Sono il sole e vorrei parlare con te.» «Mostrami di cosa saresti capace» il sole gli lanciò la sfida.
«Dica!» rispose l’uomo e levò uno sguardo obliquo al sole. «Io sono capace di farti scomparire completamente, poiché
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tu sei in me. Io posso fare in modo che tu per me non esista terra, il delfino sa che deve vivere e cacciare il pesce nel mare,
affatto, e per giunta con una tale semplicità che ti verrebbe da l’uccello sa che deve volare nel cielo e dormire sull’albero, il
ridere» disse l’umano, e si coprì gli occhi con una mano. «Ecco, rettile sa che deve strisciare e vivere nella terra... Com’è possi-
non ci sei più, fine!» bile che in questo universo non si sia trovato un posto adatto
«Vedo che sei anche arrogante» gli disse il sole, incredulo. a te? Perché vai a zonzo e non sai dove vivere, se nel mare,
«Lo sono!» non smentì l’uomo. «Sono capace di farti cose sulla terraferma o nel cielo? Accontentati o del cielo, o della
peggiori: posso scomporti, spezzettarti, rimpicciolirti» e con terraferma, o del mare... In fin dei conti, chi sei, da dove vieni,
gli indici l’umano si tirò le palpebre verso le tempie. che cosa vuoi, essere umano?» proruppe il sole.
Il sole percepì come venne scomposto, rimpicciolito, fran- Le sue ultime parole l’uomo neanche le udì, poiché il sole
tumato in dieci, cento pezzetti, all’improvviso, nelle pupille era quasi del tutto calato, e ciò che aveva detto era stato udito
dell’uomo. Lo percepì, e si sentì soffocare. soltanto dalla metà ancora in dormiveglia dell’umanità, e per
«Umano, togli la mano!» gli chiese il sole. L’uomo ritirò le giunta in modo indistinto. Il sole si dibatté per un’ultima vol-
mani dalle palpebre. ta e con la coda dell’occhio diede uno sguardo alla spiaggia
Il sole fece un sospiro di sollievo. svuotata. Accanto all’essere umano di prima, c’era adesso un
«Te l’avevo detto che eri in me! Sono io l’universo e tu sei al altro essere più piccolo.
mio servizio. Ecco, persino ora tu tramonti per presentarti al «Con chi stai parlando, nonno?» domandò il piccolo uomo
cospetto di un mio fratello dell’aldilà, e domani ti ripresenterai al grande.
di nuovo al mio cospetto, per servirmi tutto il giorno.» «Con nessuno, parlo con me stesso!» gli sorrise il grande.
«E se non mi presentassi?» disse il sole, ma la sua voce tra- «Guarda, al posto del sole si è accesa una luce verde» il pic-
diva la mancanza di fiducia in sé. colo lo indicò al grande.
«Alle sei del mattino, non un minuto in più, ti presenterai e «Si dice che chi riesce a scorgere una luce verde nel sole che
mi servirai!» gli ripeté l’uomo. tramonta, sarà un uomo felice» disse il grande essere umano
«Ma lo senti?» il sole, offeso, interpellò il mare. al piccolo, e gli posò una mano sulla testa.
«Lo sento!» gli rispose l’umano invece del mare. Quest’ulti- Quel giorno, quasi nessuno scorse la luce verde del sole,
mo sonnecchiava già, tuttavia sentiva tutto, non gli andava di tranne il bambino.
parlare, perciò preferì il silenzio e fece finta di dormire.
Il sole uscì di senno. Sarebbe tornato indietro volentieri, per L’indomani, come se fosse stato convocato, il sole si presentò
fare un dispetto all’umano, ma il tempo – questo signore di alle sei in punto e, come un diadema d’oro, si pose sul monte
tutto – seguiva il suo corso. Il sole era già per metà immerso Ertsakhu.
nel mare.
«Essere umano! Ogni cosa ha un proprio posto in questo uni-
verso. La mucca sa che deve vivere e brucare l’erba su questa
70 71
Non svegliare
[1975]
[1983]
119
copione, accompagnato da quasi le stesse battute. Io giocavo sante dello zio Gevork. Giocavamo a scacchi in cortile, proprio
sempre con i bianchi, sempre su scommessa, e in palio c’erano davanti alla porta della sua unica stanza. Appena scendevo,
sempre due bottiglie di Saperavi64 con l’antipasto65 annesso, c’era già la scacchiera pronta ad attendermi.
nel quale dominava il ravanello rosso. «Baro!»68 lo salutavo, e gli tendevo la mano.
Lo zio Gevork, dopo essere rincasato dal lavoro e aver fatto Lui non me la stringeva subito, aspettava che facessi la pri-
il pranzo, faceva un’ora di siesta, poi usciva in cortile con ad- ma mossa, per poi farla lui in risposta, registrarla in un taccu-
dosso il pigiama a righe da carcerato e chiamava mia madre ino, e solo allora mi stringeva la mano, dicendomi:
dal pianoterra: «Buongiorno a te! Raddoppiamo la puntata?»
«Sua Altissima Eccellenza, signora Aniko, è già tornato dalle «No.»
lezioni il suo Capablanca66 da strapazzo?» «Vicini, siete testimoni: non si raddoppia la puntata!» avver-
«È tornato, è tornato» rispondeva mia madre dall’alto. tiva i vicini che trafficavano nel cortile, immersi nel loro daffa-
«Allora, abbia la bontà di verificare se non è immerso nelle re, e che a loro volta annuivano con la testa. I primi tempi ci si
sue abituali fatiche artistiche, e gli dica che il suo vicino Botvin- accalcavano attorno come api, ma in seguito, avendone avuto
nik67 gli chiede l’onore di concedergli qualche minuto del suo abbastanza dei nostri litigi e delle nostre bizze, persero questa
preziosissimo capitale di tempo...» abitudine un poco alla volta. Raramente a qualcuno veniva la
«Tu e la tua lingua! Invece di imparare un georgiano così le- curiosità e si intrometteva nei nostri battibecchi. Per il resto,
zioso avresti fatto meglio ad apprendere una parola di armeno. io e lo zio Gevork godevamo nel cortile di piena autonomia, il
Saresti diventato qualcuno, disgraziato, ché così non sei né di che, per certi versi, ci faceva molto comodo.
qua, né di là» gli rispondeva mia madre, e poi chiamava me: «Compagno Gevork, figlio di Artavaz, perché annota le
«Vai giù, ragazzo, ti vuole quello sciroccato tuo pari». mosse?» attaccavo briga.
Non esisteva al mondo un narratore più eloquente e interes- «È la regola!»
«Ma se io non le annoto?»
64
Saperavi [georg. საფერავი]: tipo di vitigno autuctono della Ge- «Dovresti!»
orgia orientale (Kakheti), dalle bacche nere e dal sapore acidulo. Viene «E se non so come si fa?»
utilizzato per produrre il vino più noto della Georgia, il “Saperavi”, ap- «Allora sei un analfabeta e un ignorantone! Facciamo che
punto.
io annoto e tu ci metti una croce o una tua impronta digitale.»
65
Nell’originale è impiegato il calco georgiano del termine russo
“закуска” [zakuska, antipasto], che designa un assortimento di antipasti, «Che impronta digitale, mica sono un carcerato io!» Sottili-
per lo più freddi, che si mangiano accompagnati dalla vodka o da altri neavo con particolare enfasi la parola “carcerato”, poiché lo zio
alcolici, prima o in sostuzione dei pasti veri e propri. Gevork era stato in prigionia e ricordare quei giorni gli dava
66
José Raúl Capablanca (1888-1942): scacchista cubano, campione del
mondo dal 1921 al 1927.
67
Michail Botvinnik (1911-95): scacchista sovietico. Grande Maestro 68
Georg. ბარო [baro]: calco georgiano del saluto informale armeno
Internazionale, è stato più volte campione del mondo. “բարով” (barov, ciao).
120 121
sui nervi. Non è che lo facessi per cattiveria, è che quando lo «Perché sarei un traditore della patria, ragazzo?» lo zio Ge-
zio Gevork era irritato sbagliava puntualmente le mosse, e mi vork si alzava in piedi.
si presentava così la possibilità di vincere. Era per questo mo- «Perché ti sei consegnato a Hitler.»
tivo che cercavo continuamente di innervosirlo. «Mica sono stato l’unico!»
«Ehi, niente allusioni adesso, birbone. Io mica ti rinfaccio «Chi se ne frega degli altri!»
che in economia politica, in pianificazione dell’agricoltura «Sì, ma se ero assieme agli altri? Scacco! Che potevo farci?
popolare, in statistica, in diritto e in materialismo dialettico Togli la mano da quel pezzo, è mio...»
hai l’insuffucienza» lo zio Gevork si metteva a elencare le mie «Dovevi farti avanti e dire: “Compagno Hitler, io non pos-
materie sulle dita. so farmi trascinare da questi codardi...”. Perché non mi dici
«Allora chi è che studia al posto mio, tu, per caso? Allora, Gardez!?»71
com’è che vengo promosso ogni anno?» «Da quando in qua si dice Gardez! al re, scimunito! E dopo?
«È quello che mi chiedo anch’io!» Continua...» mi chiedeva lo zio Gevork e, in attesa della rispo-
«E tu dove ti saresti istruito così bene? Durante la prigio- sta, tornava a sedere.
nia?» chiedevo allo zio Gevork e lo guardavo dritto negli occhi. «Proprio così avresti dovuto dire: “Io non posso farmi
«Quale prigionia?» lo zio Gevork parlava a denti stretti e, trascinare da questi qui, e la mia patria cielo-turchese-terra-
impaurito, si guardava attorno. smeraldo...”.»72
«In quella in cui, una volta superato Navtlughi,69 hai pro- «Mi ricordo di te da quand’eri ancora in fasce, ed è da allora
seguito fino a Rostov70 gridando “Heil Hitler“ a mani alzate, che sei un birichino, nulla è cambiato in te. In barba a Darwin
invece di gridare “Urrà”» gli dicevo io. e alla sua evoluzione, non credo potrai mai diventare un uo-
«Gevork, sei un uomo saggio, non abbassarti al livello di mo» lo zio Gevork si prendeva gioco di Darwin. «Eccoti qua,
questo pivello, sennò ti scucirà uno schiaffo, e ciò non ti farà наглядное пособие,73 l’evoluzione in persona! Puh!» sputava
onore» lo zio Gevork avvertiva se stesso, e nel frattempo di lato.
combinava i suoi pezzi con l’intento di farmi venire la tre- «Allora insisti che non sei il traditore della patria!» non gli
marella. davo tregua.
«Oh, che mossa alla curda!» mi grattavo la nuca. «Sarei stato un traditore della patria se avessi condotto Hitler
«All’armena!» mi correggeva lo zio Gevork. in disparte e, da bravo Giuda, gli avessi detto: “Compagno Hit-
«Da un traditore della patria non mi sarei dovuto aspettare ler, il compagno Stalin si nasconde nel Giardino di Getsemani!”.»
nulla di meno!»
71
Gardez la reine! (fr.) o semplicemente Gardez!: nel gioco degli scacchi,
69
Navtlughi [georg. ნავთლუღი]: vecchio quartiere di Tbilisi, a sud-est espressione obsoleta usata per indicare lo scacco alla regina.
della città, sulla riva sinistra del fiume Mtkvari. È la principale zona di 72
Citazione della poesia Aurora (1892) di Akakij Tsereteli: Cielo
transito verso est. turchese, terra smeraldo, /Mio paese natale [...].
70
Rostov sul Don: città della Russia meridionale. 73
Rus.: supporto, materiale visivo, esempio vivente.
122 123
«Dove?» e mettili sul mio conto... Il ravanello è in via Clara Zetkin, il
«Povero buzzurro!» lo zio Gevork scuoteva la testa con di- pane in via 25 febbraio, sai che a me piace quel loro pane di
sappunto. segale, è buono ed economico, il vino n° 5, dovrebbe essere il
«Dunque, vuoi dire che non saresti il traditore neanche della Saperavi...»
divisione?» «Cos’è che mi hai detto?» Aneta usciva dalla stanza con le
«No!» mani sui fianchi.
«Né del battaglione, né del plotone, né della squadra?» non «Niente, Anetuccia, ti ho detto di prestargli ancora una volta
allentavo la presa. un tuman, dal mio conto» diceva lo zio Gevork con una voce
«Ragazzo, vuoi attaccare briga? Se ho mai tradito qualcuno, sempre più flebile.
è stata la mia Aneta, e solo una volta in vita mia, e per giunta «Imbroglioni e filibustieri che non siete altro, pensate di po-
durante la trasferta, e per giunta a Kutaisi, e per giunta una ter imbrogliare Aneta Giorgobiani? Be’, vi rispondo picche!
ventina di anni fa, con una cameriera. È chiaro?» Ora smammate da qui tutti e due, sennò altro che il n° 5, vi
«Non è chiaro!» m’incaponivo io. darò da bere acqua ragia e stricnina, vi darò, ciarlatani! Lo
«Aneta, prima che faccia qualche stupidaggine e schiacci so bene che vi siete messi d’accordo e mi spillate soldi ogni
come una cimice questo briccone, porta qui fuori due bottiglie domenica. Mi deve già centoventi manet questo bamboccio,
e la borsa di paglia» si rivolgeva alla moglie lo zio Gevork. sul tuo conto.»
«Ha perso di nuovo?» la zia Aneta, dentro la stanza, se la «Sei ingiusta, donna, non te ne vergogni?» si meravigliava
rideva sotto i baffi. lo zio Gevork.
«Ridete, ridete, arriverà anche il mio momento!» li avver- «Allora, perché almeno una volta non vince lui e non ci vai
tivo io. tu a prendere il vino?» chiedeva Aneta con un cipiglio di sfida.
«Dunque, prima che questo momento arrivi, mia cara Aneta, «Ma se è la stessa cosa, Anetuccia! Se dovessi perdere io e
metti le due bottiglie nella borsa di paglia...» dovessi andare a prendere io il vino, dovrei comunque chiedere
«Che siano due o cinque bottiglie, poco importa, tanto, i i soldi a te, non ti pare, tesoro mio?» le spiegava lo zio Gevork.
soldi non ce li ho...» comunicavo allo zio Gevork e facevo per «Mannaggia a chi ha detto di te che eri un armeno, uno
alzarmi. parsimonioso, uno che conosceva il valore dei soldi. Che vin-
«Sieditiii!» mi diceva lui allungando la vocale, e mi posava cita è se devo essere io a dargli i soldi, la bottiglia, preparargli
sulla testa il suo pugno enorme. «Vuoi che mi mettano dentro da mangiare, versargli il vino, e voi lì a tracannare soltanto e
proprio per omicidio?» basta?» diceva la zia Aneta, e nel frattempo posava sul tavolo
«Non ce li ho, abbi pietà. Non sei un uomo? Non hai figli?» un tuman già bell’e pronto, le bottiglie infilate nella borsa di
cercavo di suscitargli compassione. paglia, e ci squadrava come fa il controllore del tram con i
«Se avessi un figlio come te, lo ucciderei tre volte al giorno. passeggeri senza biglietto. Io e lo zio Gevork chinavamo la
Aneta, presta ancora una volta un tuman a questo disgraziato, testa mortificati.
124 125
«Va’, ragazzo, prima che ci ripensi!» mi sussurrava lo zio Gevork qualcosa di carino sul conto dell’Armenia, no? Ma
Gevork. se non avevo idea di cosa dirgli? Cominciavo, comunque, a
balbettare:
Il vino ce lo bevevamo sempre dentro casa. Era incredibile «Zio Gevork, non esiste al mondo un Paese come l’Arme-
anche il fatto che, sebbene non ci fossimo mai messi d’accordo, nia...»
né ci fosse lì qualcuno a tapparci la bocca, appena prendevamo «Che ne puoi sapere tu, birbone, se non hai mai messo piede
in mano i bicchieri pieni di un vino color sangue, il turpiloquio in Armenia...» sorrideva lo zio Gevork.
e la spiritosaggine sparivano all’improvviso da qualche parte, «E allora? In compenso, ne ho letto e sentito parlare parec-
ed erano la mestizia, la contrizione, la sincerità, lo humour, la chio. Solo quello, l’Echmiadzin,74 e poi il fatto che l’umanità ha
fantasia e l’amore a insediarsi al loro posto. fatto i primi passi della sua seconda vita sul monte Ararat...»75
Il primo brindisi, va da sé, era dedicato alla zia Aneta e a Gli umidi occhi blu dello zio Gevork brillavano come due sme-
mia madre. Il successivo, ai genitori, quello successivo anco- raldi. «Per farla breve, sareste un Paese perfetto, se non aveste
ra, alla Georgia, e subito dopo veniva quello dell’Armenia. un difetto...»
Diceva una cosa incredibile, lo zio Gevork, riguardo al nostro «Quale difetto?» mi chiedeva lo zio Gevork con circospezio-
Paese: ne, e posava il bicchiere pieno sul tavolo.
«La vostra Georgia, Mito mio, somiglia a un destriero molto «Non avete il mare, zio Gevork, il mare!» proferivo con tono
bello e di razza, bardato con una sella d’oro. Per vostra di- tragico.
sgrazia, questo destriero è tenuto in un campo così attraente «Quel che è vero, è vero» sospirava lo zio Gevork.
ed esposto da far venire a ogni passante la voglia di saltar- «Ma fa niente, avete comunque il Sevan.76 Che cavolo è, se
gli sulla groppa, tirare le redini e farsi una cavalcata con uno non un mare?» lo rincuoravo io.
schiamazzo da condottiero, a furia di urrà. È così sin dalla sua «Che razza di mare è il Sevan, ragazzo, non ha nemmeno un
nascita. Tuttavia, grazie a Dio, il destriero stesso è così delicato porto» lo zio Gevork faceva un sorriso stentato.
e irritabile da non farsi montare dal primo farabutto che capita. «E voi perché non ci costruite un porto? Lo chiamate Sevan-
Permette solo ai più meritevoli, di tanto in tanto, di montarlo,
e anche loro, se dovessero perdere il senso della misura, ven-
74
Echmiadzin [in armeno: Էջմիածին]: città sacra dell’Armenia, sede
del Catholicos, il capo della Chiesa Apostolica Armena.
gono disarcionati e buttati giù a rotta di collo. Tu sei ancora un 75
Monte Ararat: oggi sul territorio turco, storicamente aveva fatto
bambino e non lo sai, ma io sono stato testimone di molte scene parte dell’Armenia. Secondo il quarto versetto dell’ottavo capitolo del
del genere... È un Paese meraviglioso, questa vostra Georgia, Libro della Genesi (Genesi 8:4), in seguito a un’alluvione, l’Arca di Noè
e lunga vita a essa!» si posò sulle “montagne di Ararat”. La maggior parte degli storici e degli
studiosi della Bibbia concorda sul fatto che “Ararat” sia il nome ebraico
Ora, io che non sono un ingrato, una bestia che bruca l’erba
di Urartu, il predecessore geografico dell’Armenia.
ed è muta, che sono anzi un essere umano e ho il dono della 76
Lago Sevan [in armeno: Սևանա լիճ]: è il più grande lago dell’Armenia
parola, avrei avuto il dovere, dal canto mio, di dire allo zio e uno dei più grandi laghi dʼalta quota al mondo (1898 m).
126 127
stopoli e siete a posto...» mi accorgevo di stare esagerando con sbronzare alla grande» disse lo zio Gevork e, prima che gli
lo zelo. potessi rispondere, fece la sua prima mossa.
«Ehi, birbone, niente spiritosaggini!» mi ammoniva lo zio «Ci sto!» esclamai, e feci in risposta la mia mossa.
Gevork, ridendo di gusto, e predisponeva un nuovo brindisi. «Come stai, ragazzo? Come va la sessione d’esami?» s’in-
formò lo zio Gevork.
Mi stavo preparando per la sessione d’esami, per questo ve- «Mi sto preparando, non è ancora cominciata.»
devo lo zio Gevork di rado. Nell’ultimo mese, vuoi per la mia «Come ti senti, sei pronto?»
negligenza, vuoi per i troppi impegni dello zio Gevork stesso, «Lo conosci il mio motto, zio Gevork, no? Sufficienza e sa-
non saprei dire con certezza, non ci eravamo visti nemmeno lute!»
una volta. A dirla tutta, ero talmente preso dallo studio da non «Fai bene...»
essermi ricordato di lui per tutto quel tempo. «Zio Gevork, perché non annoti le mosse? Hai per caso di-
Un giorno ero a casa a prendere gli appunti di diritto di menticato come si legge e si scrive? E poi, perché hai deciso di
superficie. Mia madre era fuori sul ballatoio che trafficava con ubriacarti con il cognac, il Saperavi non ti fa più nessun effetto
qualcosa e scambiava due chiacchiere con le vicine. D’un tratto o cosa?» provai a passare al tono faceto, ma notai che lo zio
udii la voce dello zio Gevork che la chiamava. Erano le 13.00 Gevork non era dell’umore giusto, era pallido in viso e aveva
circa. A quell’ora sarebbe dovuto essere al lavoro. le labbra bluastre.
«Signora Aniko, Mituša è in casa?» «Non ha senso, figliolo, non ha alcun senso» mi fece un sor-
«Sì, Gevork, sta studiando!» riso forzato. «E quanto al volermi sbronzare con il cognac, è
«Gli dica di scendere da me, appena ha un minuto libero» un’invenzione del diavolo, il cognac, ti fa perdere i sensi, men-
le chiese lo zio Gevork. tre il vino è una bevanda nobile, divina...»
«Scendi giù, ragazzo, mi sa che Gevork ha qualche guaio «Questo è vero. La differenza tra il vino e il cognac è come
serio» la mamma entrò nella mia stanza. quella tra il cielo e la terra» convenni.
«Da cosa l’hai capito?» le domandai. Richiusi il quaderno «Non fare più un simile paragone. Non c’è alcuna differenza
degli appunti e mi alzai. e distanza tra il cielo e la terra, esattamente come non c’è tra
«Non so, mi ha parlato in modo umano e pietoso.» il corpo e l’indumento... il cielo è l’indumento della terra, e
Scesi le scale di corsa ed entrai senza permesso nella stanza quest’indumento è l’universo, la terra è dunque compresa nel
di Gevork. Lo trovai seduto al tavolo, con la scacchiera pronta cielo, cioè nell’universo, e l’universo è Dio. E sai che cos’è Dio?
davanti... la zia Aneta non era in casa. Quell’eternità in cui sono comprese tutte le cose e ogni cosa
«Baro, zio Gevork!» lo salutai con finta spensieratezza. in cui essa stessa è oggettivata. È chiaro?» mi domandò lo zio
«Buongiorno a te, amore di zio, accomodati!» mi rispose sor- Gevork e mi carezzò la testa con una mano.
ridendo. Mi sedetti. «Oggi ti vorrei sfidare con i bianchi, per Trattenni il fiato. Non avevo mai visto né sentito uno zio
un cognac. Che vinca o perda, sarò io a comprarlo. Mi devo Gevork così incomprensibile e così intelligente.
128 129
«Non c’ho capito niente, zio Gevork!» gli dissi sinceramente. «Come?»
«Ora lo capirai!» mi rispose, e mi soffiò un alfiere in men «Così. Se l’universo è stato creato da Dio ed è la sua creatu-
che non si dica. ra, dovrebbe pure cantargli, no? Chi ha mai cresciuto un figlio
«Ridammelo!» lo supplicai. senza una ninna nanna, eh, ragazzo?» sorrise lo zio Gevork.
«Prenditelo, oggi è la giornata della carità!» disse lo zio Ge- «E ora che faccio, Mituccio, te la mangio ’sta stupida regina o
vork e mi ridiede l’alfiere, canticchiando: te la restituisco ancora una volta?»
«Zio Gevork, dimmi la verità: oggi sei stato al lavoro o in
Čičinadze,77 accidenti a te
Per aver voluto lo zahes, chiesa?»
Illuminando ogni anfratto e strada «Perché?» corrugò la fronte.
Persi le labbra della mia ragazza. «Sembri molto saggio e preoccupato» gli dissi.
Lo zio Gevork si accese una sigaretta. La fumò a lungo, se-
Modulava la voce in modo così dolce, piacevole, delicato e guendo con gli occhi le volute di fumo azzurro. Mi rispose
aggraziato da farmi rimanere a bocca aperta. Era la prima volta solo dopo che l’ebbe finita, schiacciando la cicca contro il po-
in assoluto che sentivo lo zio Gevork cantare. sacenere.
«Uau!» esclamai sorpreso. «Oggi mi hanno convocato di nuovo, Mito.»
«Hai apprezzato?» mi chiese, compiaciuto, lo zio Gevork. «Ma dove, zio Gevork?»
«Canti da Dio, zio Gevork! Ma, uomo benedetto, dov’eri «Là» fece un cenno verso l’alto con la testa «per la questione
finora?» della prigionia.»
«Che cosa curiosa che hai detto, che canterei da Dio. Ma chi «Dai, non è ancora finita?» mi amareggiai.
l’ha mai visto Dio cantare?» «A quanto pare, no!»
«Chissà se Dio canta davvero» chiesi a me stesso, benché «Che vuole di preciso quel figlio d’un cane?»
a voce alta, e mi diedi da solo una risposta: «In effetti, a chi è «Mi muove due accuse, o meglio, tre. Uno: come mai sono
che dovrebbe cantare, Dio, se tutto il mondo canta e inneggia caduto prigioniero, due: perché non mi sono tolto la vita, tre:
a Lui?». perché cantavo nel coro...»
«Se Dio canta, canta probabilmente al creato!» disse lo zio «Quale coro?» caddi dalle nuvole.
Gevork. «E che ne so io. Quando tornavamo dalla cava di pietra, stan-
77
Besarion Čičinadze (georg. ბესარიონ ჭიჭინაძე) (1887-1937): in- chi morti, io e un ragazzo russo, Kostja Suvorov, cercavamo di
gegnere georgiano. Negli anni 1919-21 fu il dirigente del Dipartimento distrarre i ragazzi sfiniti: lui suonava la balalajka, e io cantavo:
delle infrastrutture viarie della Georgia. Negli anni 1922-1927 diresse i
lavori della costruzione della stazione idroelettrica di Avčala Superiore Clap - clap, clap - clap
(noto con l’acronimo zahes), sul fiume Mtkvari, a 22 km circa dalla ca- Madama cocorita,
pitale Tbilisi. Fu la prima stazione idroelettrica a elevata potenza mai clap - clap, clap - clap,
costruita in Georgia. Perché un rublo non mi dà?
130 131
Questa qui la cantavamo per i russi, mentre per i georgiani «Ma, Dio benedetto, invece di stare a raccontare a me com’è
quella che t’ho canticchiato poc’anzi. Giuro su Dio, sulle sacre andata, perché non la racconti a lui per filo e per segno?» mi
icone, sulla fede, di non avere mai cantato nulla per i tedeschi, agitai.
anzi, erano loro a cantarci il Suliko.78 E ora quel disonesto non «Come posso raccontargliela, ragazzo, se quando lo guardo
mi dà pace dicendomi che cantavo per forza per i tedeschi, e gli vedo scritto sulla fronte a caratteri cubitali: Входа нет!».79
poi perché sono caduto prigioniero... lo so e non glielo voglio «La prossima volta portami con te!» proruppi sconvolto. Lo
dire, per caso? Dopo che un sergente guercio ci ha scaraventati zio Gevork rise. «Non ridere. Dico sul serio. La prossima volta
dentro un vagone merci a Navtlughi, sbarrando la porta da che ti convoca, portami con te.»
fuori, a distanza di tre giorni furono i tedeschi ad aprirci quella «D’accordo, figliolo, ti porto con me. Ora però rimetti a posto
porta. Ora vallo a spiegare a questo qui come mai sono caduto quel cavallo e quella regina. Sono entrambi tuoi, hai per caso
prigioniero... come mai non mi sono ucciso. E chi è che aveva intenzione di mangiarli entrambi?»
un’arma? E ammesso che ce l’avessi, non è mica così facile uc- «So bene come mangiarli!» dissi senza rifletterci e scombinai
cidersi...» lo zio Gevork si accese un’altra sigaretta. Gli tremava i pezzi.
la mano. «Gli dico: figliolo, quanti anni hai?» Lo zio Gevork, senza scomporsi, con molta calma e tranquil-
«A chi?» lità, sistemò di nuovo i pezzi.
«A quella dannazione del mio inquirente.» «Che è, hai capito che stavi perdendo e li hai scombinati per
«Come fa di cognome?» questo? Gioca, dai, non fare il muso, tanto abbiamo ancora
«Ora te lo dico. Ha un cognome con annesso il nome...» tre giorni pieni...» mi disse lo zio Gevork, fece la sua mossa
«Aleksi-Meskhišvili!» e l’annotò. «Come vedi, sto anche annotando. Dai, gioca, che
«No.» aspetti?»
«Gogisvanidze.» Fu come se lo zio Gevork si fosse d’un tratto rianimato, gli
«Ecco, ora mi ricordo: Gigiberia. Dunque, gli chiedo quanti tornò il colorito, si accese in volto, dalle labbra gli scomparve
anni ha per essere così precipitoso e severo, e lui mi fa: “Non la tinta bluastra, si mise perfino a fare dello spirito.
sono affari tuoi. Ti do tre giorni di tempo e se a queste tre do- «Com’è che è stato quella volta che ti hanno chiesto all’e-
mande non rispondi in modo esauriente, per ciò che succederà same chi avesse tradotto Il Capitale di Marx in georgiano, e tu
te la potrai prendere solo con te stesso”.» hai risposto che era stato Engels... Dai, racconta un po’ com’è
che è andata...»
78
Suliko [georg: სულიკო]: poesia d’amore scritta nel 1895 da Akakij E all’improvviso lo zio Gevork si alzò, si portò la mano sini-
Tsereteli. La sua trasposizione musicale ad opera di Varinka Tsereteli fu stra alla tempia. «Mito, ragazzo mio, credo sia finito tutto...» mi
la canzone preferita di Iosif Stalin e, di conseguenza, divenne celebre in
disse con una voce persa. Dopodiché tornò a sedere, fissò gli
tutta l’Unione Sovietica e nel blocco orientale. Il titolo dell’opera è una
parola georgiana, usata anche come nome proprio, che significa “anima”,
“animuccia”. 79
Rus.: “Vietato l’ingresso!”.
132 133
occhi oltremodo increduli, sbarrati, al cielo, proferì in armeno: disperata, ferendosi le guance, la zia Aneta. Abbracciai per
«Astvats! Inču hamar!», cadde con la testa canuta in avanti sulla prima Neli, poi la zia Aneta, e uscii nel cortile con gli occhi
scacchiera e morì. e la testa gonfi.
Si fecero le tre del pomeriggio. La gente cominciò ad accal-
Le esequie dello zio Gevork si celebrarono il martedì della carsi e nel vano della porta apparve lo zio Gevork sollevato dai
prima settimana di giugno del 1950. parenti così in alto da far pensare che, più che essere portato,
Per mezzogiorno i due sbocchi di via Ninošvili e tutti gli fosse lui da solo a incedere nell’aria.
incroci erano chiusi. Il funerale ebbe iniziò. Al Mercato dei «Non andartene, papino...» l’implorava Neli.
Disertori80 acquistai una moltitudine di rose bianche e con in «Non mi lasciare, Gevork!» lo supplicava la zia Aneta, ma
mano questo enorme mazzo entrai nella piccola camera arden- lo zio Gevork non poteva più fermarsi. Avanzava, avanzava
te occupata tutta a giro dai parenti in lutto. Il mazzo risultava senza sosta.
talmente grande che non mi si vedeva la faccia, per cui i paren- La processione svoltò a sinistra. Una volta superata la clinica
ti all’inizio neanche mi riconobbero, ma appena mi avvicinai per malattie veneree e imboccata la salita di via della Costitu-
alla bara, mi piegai, deposi i fiori ai piedi dello zio Gevork e zione, si udì all’improvviso un prolungato fischio. La proces-
mi raddrizzai, si levò un tale lamento che ebbi dapprima un sione si arrestò.
tuffo al cuore, poi mi commossi e mi misi a frignare come un «Che succede?» chiese sorpreso colui che capeggiava il cor-
bambino a cui hanno dato le botte. teo, il colonnello in pensione Valerian Gabisonia.
«Papino, guarda quanto bene pare ti abbia voluto Mituša, «Dove andate?» chiese, a sua volta, un poliziotto imberbe e,
portandoti tutte queste rose...» disse piangendo Neli. come si seppe in seguito, alle prime armi.
«Vieni, vieni qua, sventurato» Neli aveva passato il testi- «Non avessi riguardo per tutta questa gente ti direi io dov’è
mone del lamento funebre alla zia Aneta. «Vieni qua, affa- che stiamo andando, incosciente, ma comunque... stiamo an-
mato, senza borsa di studio, senza mezzi e perdente che non dando a un matrimonio, noi...».
sei altro, vieni a giocare a scacchi come ai vecchi tempi e dal Il poliziotto alle prime armi si turbò, rendendosi conto di
momento che non ti potrà dire “scacco” allora sì che te ne ac- averla sparata grossa, chiedendo “dove andate” invece di “da
corgerai che il tuo zio Gevork non c’è piùùù... Alzati in piedi, dove venite”, ma non si diede per vinto:
Gevork, e chiedigli dove li ha presi i soldi questo sventurato «Copritela immediatamente!» disse.
per comprare tutte queste rose, so bene che costano tre ma- «Cosa?» Gabisonia perdette le staffe.
net ciascuna al mercatoooo... diglielo, ragazzo, diglielo. Non «Coprite immediatamente la bara con il coperchio!» il poli-
avere timore, racconta tutto a tuo zio Gevoooork...» piangeva ziotto ripeté l’ordine con tono severo, e si portò la mano alla
fondina vuota della rivoltella.
Il nome con cui è noto tra gli abitanti di Tbilisi il mercato agroali-
80 «Copritelo, copritelo, sennò chissà che non gli s’incantino
mentare del quartiere Didube della città. gli occhi alla vista di una vita così bella!» disse qualcuno dei
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partecipanti al corteo. Qualcun altro rise così forte da far girare «Ma tu chi sei?» mi domandò uno dei becchini, quello che
le teste di tutta la processione. avrebbe dovuto portare via le vanghe e il piccone.
«È un attacco isterico, gli passerà!» un terzo cercò di tran- «Uno studente del quarto anno della Facoltà di Economia
quillizzare la gente. e Segretario del Comitato dell’Unione dei Giovani Comunisti,
«Pazienza, oggi è la tua giornata e tienitela stretta, ma doma- Dimitri Darčia figlio di Vladimer» dissi io e sorrisi.
ni ti trascinerò con le mie proprie mani dal colonnello Čelidze e «Non intendevo questo, volevo sapere chi fossi per il de-
ti taglierò le spalline, la lingua e le orecchie tutte in una volta» funto.»
Valerian Gabisonia minacciò il poliziotto, il quale, non so se per Non gli risposi, aprii la bottiglia di cognac e riempii il cic-
paura o per rabbia, sbiancò in viso, girò i tacchi e se ne andò. chetto.
Una volta messo il coperchio sulla bara e sollevatala di nuo- «Sei il figlio?»
vo, la processione si avviò verso il camposanto di Kukia. «No.»
Erano i tempi in cui le corone e le bande musicali comincia- «Un figlio della sorella, del fratello, un figliastro...»
vano a non andare più di moda, per cui in mezzo alla miriade «Non sono nessuno. Sono semplicemente un amico, un suo
di fiori che abbellivano il corteo dello zio Gevork, spiccava debitore...»
un’unica corona, portata da due operai curdi in testa alla pro- «Quanto gli dovevi per stare ancora qui, mentre sua moglie
cessione, e che recava una dedica commovente: «Al caro Ge- e la figlia se ne sono già andate...» s’incuriosì il becchino.
vork Aslamazov figlio di Artavaz, da parte delle donne di via «Ho un grande, impagabile debito con lui. L’ultima volta
Ninošvili». mi ha vinto queste due bottiglie di cognac, ma non ho avuto il
La popolazione rese grandi omaggi a zio Gevork. Da via tempo di sdebitarmi. Mi è morto tra le braccia durante una par-
Ninošvili fino al camposanto di Kukia, la sua salma fu portata tita a scacchi... vorrei sdebitarmi adesso. Tu come ti chiami?»
a braccia. «Io mi chiamo Artaš, lui è Tedo.»
«Allora datemi una mano, da fratelli, a pagare il mio debito»
Presso la tomba rimanemmo in tre, io e i due becchini. gli chiesi.
Quando finimmo di sistemare tutto, uno dei becchini si av- «Certo, ti daremo una mano, ma due bottiglie di cognac sono
volse la fune sul braccio, l’annodò e se la buttò in spalla. I due troppe, ci ubriacheremo. Beviamone una, e l’altra la spargiamo
fecero per andarsene. sul tumulo» disse Tedo.
«Aspettate un altro po’!» gli chiesi e mi sedetti su un terra- «Ma così gli arriva?» chiesi.
pieno vicino al tumulo. I becchini si scambiarono uno sguardo. «Come no, dammi la bottiglia» si prese la bottiglia e la rove-
Dopodiché deposero gli attrezzi e si sedettero a terra davanti sciò sulla tomba. «Come si chiamava il defunto?»
a me, senza parlare. Io tirai fuori dallo zaino mezzo chilo di «Zio Gevork.»
salame, mezzo chilo di pane integrale, due bottiglie di cognac «Zio Gevork, Dio ti abbia in gloria, e questo cognac sia un’of-
e un affusolato cicchetto da vino. ferta all’anima tua, un debito da parte di Dimitri...» il cognac
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si spargeva dalla bottiglia gorgogliando, e la terra smossa di di nuovo il segno della croce e guardò il compagno non meno
recente se ne imbeveva all’istante. sorpreso di lui.
«Visto quanto velocemente gli è arrivata l’offerta?» disse Te- «Allora, cos’è che ha detto?» trattenni il fiato in attesa della
do, sorrise compiaciuto e mi restituì la bottiglia vuota. risposta, e fissai Tedo.
«Ora beviamo anche noi» feci io e sollevai il cicchetto pieno. «Dio, per quale ragione?» mormorò Tedo.
«Poco fa vi ho detto che io dovevo tanto a quest’uomo da non
potermi sdebitare per tutta la vita. Non pensate che si tratti di
soldi...»
«Ma allora cos’è che gli devi?» si meravigliò Tedo.
«È l’amore che gli devo...»
«Mi pare che tu lo stia ripagando...» disse Artaš dopo un
attimo di silenzio. «Magari qualcuno si sdebitasse così anche
con me...»
«A zio Gevork!» dissi in modo conciso e tracannai in fretta.
Poi versai ai becchini.
«Che Dio l’abbia in gloria!» dissero entrambi. Si fecero il
segno della croce e bevvero uno alla volta.
«Artaš» mi rivolsi d’un tratto al becchino, «sia dal nome che
dal volto sembri un armeno. Parli l’armeno?»
«E che armeno sarei se non lo parlassi? Non solo io, anche
Tedo lo parla» mi rispose meravigliato.
«Allora, da fratello, come si dice “Dio” in armeno?»
«Ehi, testa d’asino di un giovane comunista, non vi basta
bestemmiare in georgiano, ora lo volete fare anche in armeno?»
mi chiese Artaš, e fece un sorriso stentato.
«Ma no, figurati. È che quando lo zio Gevork stava mo-
rendo mi è sembrato che dicesse qualcosa a Dio, prima di
spirare...»
«Che cosa ha detto?» s’incuriosì Artaš, e si sollevò sulle gi-
nocchia.
«Astvats! Inču hamar!»
«Ha detto davvero così?» mi chiese sorpreso Artaš, si fece
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Il sangue
[1976]
Il ragazzo dai capelli tagliati corti stava sotto il tiglio con la te-
sta abbassata, puntava uno sguardo triste sui propri piedi nudi
sporchi di fango, teneva in mano un gancio pieno di ghiozzi
infilzati, e pensava: “Quanto somiglia questo vecchietto a mio
padre: capelli bianchi, sopracciglia nere, naso largo, occhi ri-
denti e un po’ malinconici, voce roca. Se chiudo gli occhi e
provo a immaginarmelo, forse diventa proprio come mio pa-
dre...”, e il ragazzo chiuse gli occhi.
«È lui la ragione per cui l’abbiamo chiamata, signor Qišvard.
Non riesco più a tenerlo, che posso farci, si è del tutto inselvati-
chito e uscito di riga. Vede lei stesso che, mentre gli altri tengono
in mano i libri, lui va giorno e notte dietro ai ghiozzi nella par-
te superiore del Kukha.81 Poco tempo fa ha buttato un’anguria
dentro il pozzo che abbiamo in comune con i Gopodze, che si è
spaccata, signore mio, e per questo motivo è da una settimana
che in due famiglie beviamo il kompot82 invece dell’acqua.»
«Qualcuno mi uccida! Ma davvero, ragazzo? Non si preoc-
cupi, signora Julia, appena lo porto con me in Guria, lo appen-
do per gli stinchi su un platano!»
«Non so come intende appenderlo, signor Qišvard, ma so
che sua madre è fortunata a non vedere suo figlio comportarsi
così... sua madre, ma anche suo padre...»
81
Kukha [georg. კუხა]: fiume nel comune di Khoni (regione di Ime-
reti, Georgia occidentale).
82
Kompot [rus. компот]: bevanda dolce non alcolica a base di frutta
bollita immersa nello sciroppo di zucchero, originaria delle regioni
nordiche della Russia, diffusa in tutta l’Europa dell’Est.
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«Che ne pensa, signora Julia, è già troppo tardi per rimettere potrò mai avere la meglio su di lui, e, in più, ho già due belve
in riga questo disgraziato?» simili e anche peggiori di cui occuparmi – Zurab e Vakhtang, i
«Che ci puoi fare con uno così, signor Qišvard: una settima- figli del mio Kolja. Potrà vedere con i propri occhi, ché fra poco
na fa gli ho dato un pud di granturco da portare a macinare al tornano dal pascolo...»
mulino dei Kopadze, ed è tornato indietro con sole due ocche.83 «I suoi genitori, finché erano vivi, non mi hanno fatto avvi-
Il resto pare lo abbia dato a un certo Valiko Kukhalašvili di cinare al bambino, signora Julia, e ora come faccio a scaldargli
Kuntauti, per i suoi bambini infermicci, il nostro novello bri- il cuore, a conquistare la sua fiducia, a farlo diventare uno di
gante Arsena:84 “Hanno fame quelli,” mi fa, “sono numerosi”.» famiglia, sono un estraneo per lui, del tutto estraneo...»
«Qualcuno mi uccida! Ma davvero, ragazzo?» «Non ne sarei così convinto, signor Qišvard, è un maschio e
«Questo è niente! Due giorni fa lui e quello straccione suo preferisce stare con un maschio. Per non parlare del fatto che
pari di Kukuri Ugulava hanno rubato le pesche al loro inse- sarà lui a portare avanti il suo cognome...»
gnante di geografia, Datiko Tsverava, e a quanto pare le han- «Almeno studia un po’, signora Julia?»
no barattate per del tabacco con un tale Lave Bakhtadze di «Ma per carità, che deve studiare uno che ruba le pesche al
Matkhoji.» proprio insegnante e vende i cucchiai d’argento della propria
«Ma davvero, ragazzo?» nonna per comprarsi un libro amorale e depravato com il De-
«Ma signor Qišvard, cos’è questa storia che ripete sempre cameron? Me lo dica lei, signor Qišvard!»
“Ma davvero, ragazzo”, “Ma davvero, ragazzo”? Che fa, non «Ma davvero, ragazzo? Me lo porto in Guria, signora Julia,
crede a me che sono una donna di una certa età?» e lo appendo per gli stinchi su un platano, vedrà!»
«Non mi permetterei mai, signora Julia. Mi chiedevo solo se «È qui davanti a lei, signore, lo può ben vedere: noi parlia-
si potesse rimediare...». mo, parliamo, e lui non batte ciglio, le nostre parole gli arriva-
«Nulla di irrimediabile, signor Qišvard. Ha solo bisogno no come un rumore di sottofondo.»
della mano di un uomo. Io, che sono una donna debole, non Il ragazzo continuava a stare sotto il tiglio, tenendo gli occhi
chiusi, e pensava: “Si è stancata, la povera nonna Julia. Che voce
83
Occa (okka, oka) [georg.ოყა]: unità di misura di massa usata dolce che aveva prima e adesso come le si è inasprita, non me
nell’impero ottomano, equivalente a 400 dirham (dramme ottomani). Nel n’ero accorto finora. O forse mi suona così solo in confronto alla
tardo impero il suo valore era stato standardizzato a 1,2829 chilogrammi.
voce calma e tranquilla del nonno. Si è stancata, probabilmente,
84
Arsena Odzelašvili (Arsena di Marabda, il brigante Arsena) [georg.
არსენა ოძელაშვილი] (1797-1842): fuorilegge georgiano, dalla fama ma ora speriamo non mi faccia andare con questo vecchietto
popolare simile a quella di Robin Hood, di uno che “toglieva ai ricchi e che a quanto pare è mio nonno e che somiglia così tanto a mio
dava ai poveri”, e dall’aura di chi combatteva contro le ingiustizie del padre, e non farò nulla che possa dispiacerle, solo non mi faccia
sistema zarista. Secondo la leggenda, fu ucciso in uno scontro a fuoco
andare con lui... non mi faccia andare... non mi faccia andare...”.
con una squadra di cosacchi. Protagonista di numerosi canti epici, nel
1923 il regista sovietico Vladimir Barskij gli dedicò un film muto, Il bri- «È un orfano, signora Julia, ’sto ragazzo, e oltre che delle
gante Arsena. scudisciate ha bisogno anche di un po’ di carezze...»
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«C’è orfano e orfano, signor Qišvard. Che ci posso fare io, se «Lo appenda con quel che le pare, signor Qišvard. Basta che
non mi dà la possibilità di accarezzarlo?» me lo toglie di torno.»
«Ma davvero, ragazzo? Non le dà dunque la possibilità, ve- «Gli stinchi, è per gli stinchi che l’appendo, signora Julia!»
dremo quando l’appendo per gli stinchi su un platano, una «Che Dio l’ascolti e aiuti il ragazzo.»
volta che saremo in Guria. Quando me lo posso portare, si- «Se non l’aiuta, vedrà, lo scuoio vivo, da far piangere i sassi!»
gnora Julia?» «Arrivederci, signor Qišvard!»
«È qui a sua disposizione, signor Qišvard, se lo porti quando «Stia bene, signora Julia!»
vuole, mica gli ci vorranno chissà quali preparativi!»
«Come posso portarmelo così, nudo come un bruco, signora Questo atto di consegna-ricezione ebbe luogo nel mese di
Julia?» agosto del 1938 nella cittadina di Khoni, a mezzogiorno, tra la
«Era proprio così, nudo come un bruco, quando l’ho portato nonna materna originaria di Imereti, signora Julia Mikeladze,
qui da Avčala, signor Qišvard, e come vuole che gli procuri ora e il nonno paterno originario di Guria, Qišvard Lomjaria, di
abiti ricamati in argento?» Nodar Lomjaria. E un’ora dopo, il ragazzo, ovvero Nodar
«Povero figliolo!» Lomjaria, nato il 14 luglio del 1928 a Tbilisi, in una famiglia di
«Perché non mangia un boccone prima di ripartire, signor impiegati statali, seguiva come un vitellino tirato per la cor-
Qišvard?» da, sventolando le orecchie, il nonno scoraggiato e dalla testa
«Non si preoccupi, signora Julia, mangeremo qualcosa a china, lungo le strade di Khoni impolverate e arroventate dal
Samtredia, e lì siamo a due tiri di schioppo da casa nostra.» calore del sole.
«Allora la Vergine vi faccia fare buon viaggio e San Giorgio Da Khoni fino a Kulaši nonno e nipote viaggiarono a bordo
vi protegga.» di una carrozza a due posti, mentre, da Kulaši a Samtredia,
«Dio l’aiuti, signora Julia!» su una carrozza aperta a più posti. Non mangiarono nulla a
«Ecco, tenga anche questi, signor Qišvard!» Samtredia. Montarono su un autocarro della fabbrica del tè
«E questi che cosa sono, signora Julia?» diretto a Čokhatauri, e da lì s’incamminarono a piedi per la
«Sono i documenti del ragazzo, signor Qišvard. A settembre lo strada che portava a Intabueti.
manderete a scuola, immagino, e gli serviranno. C’è scritto den- Il nonno andava avanti, il nipote – dietro. Il nonno era mala-
tro che dovrà andare in quarta. Hanno fatto un piccolo errore, è to e gemeva in modo sommesso. Quando adocchiava un viag-
vero, e invece di Lomjaria Nodar hanno scritto Lomjaria Nadir,85 giatore che si avvicinava, smetteva di gemere, lo salutava con
ma, se lo vuole proprio sapere, il suo vero nome è quello.» un inchino, gli dava il tempo di passare, e, appena si ritrovava
«Ma davvero, ragazzo? Vedrà quando saremo in Guria e lo la strada di nuovo libera, riprendeva a gemere. Evidentemente,
appenderò per gli stinchi su un platano.» nel farlo provava qualche sollievo. Di tanto in tanto si voltava
a guardare il ragazzo, come è solito fare un cavallo anziano e
85
Georg. ნადირ: [ნადირი (nadir, nadiri): belva]. macilento che si gira speranzoso verso il puledro – frutto del
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suo ultimo parto – rimasto indietro, per accertarsi che lo stia la a un ometto come te. Oppure hai qualche pensiero e non me
seguendo, dopodiché il vecchio riprendeva il cammino gemen- lo vuoi dire?» gli chiese il nonno.
do. Tutto qui. Per il resto, per l’intero percorso, non si scambia- «No, nonno, non penso a nulla» mentì il ragazzo. Il nonno
rono una sola parola. Il ragazzo seguiva il vecchio e pensava: risprofondò nei suoi pensieri.
“Quest’uomo che ora mi precede, con il cappello di feltro «Eppure dovresti ormai abituarti a pensare, amore di nonno,
marrone calcato in testa, sciancato e gemente, che promette di è ora!» disse il vecchio, si alzò e si rimise in cammino, gemendo
appendermi per gli stinchi su un platano e di scuoiarmi vivo sommessamente, alla volta del villaggio. Il ragazzo lo seguì
una volta giunti a casa, è il padre di mio padre, e mio nonno. come un vitello tirato per un lunga corda avvoltagli attorno
È una qualche forza sconosciuta a spingermi e a spronarmi a al collo.
seguirlo così, da schiavo sottomesso, altrimenti chi mi impe-
direbbe di deviare il passo, su una strada aperta da tutti i lati. Il ragazzo dai capelli arruffati, viso abbronzato, stava sotto
Tuttavia una qualche forza non me lo permette, mi trattiene, il platano appoggiato sul manico della zappa come un uomo
mi fa correre, accaldato come sono, con le dita dei piedi che che ha faticato tutto il giorno, puntando uno sguardo triste sui
sporgono dalle scarpe e i talloni scorticati per il troppo cam- propri piedi nudi sporchi di fango, e pensava:
mino, dietro a questo vecchietto. Rifiutato dalla nonna, senza “Come sembra invecchiata in un anno, com’è smagrita e ha
neanche aver salutato i cugini, chi me lo fa fare? Che forza è perso anche la voce, come si è curvata, il viso le si è coperto
mai questa? Qual è il suo nome?” di rughe, e come somiglia comunque a mia madre – la voce, i
Questi erano i pensieri del ragazzo lungo la strada di Inta- capelli, il modo di camminare – alla donna giovane, bella come
bueti, e questi pensieri gli stavano facendo scoppiare la testa. una figura delle icone, dai capelli setosi, occhi color miele, dalla
«A cosa pensi, amore di nonno?» il vecchio all’improvviso voce dolce come un trillo e dal sorriso candido che era mia ma-
si rivolse al nipote. dre... Se ora chiudo gli occhi e provo a immaginarmela, forse
«A nulla!» rispose in fretta il ragazzo, turbato, poiché si sa- questa vecchia diventa del tutto come mia madre... ” pensò il
rebbe aspettato qualsiasi domanda, tranne quella. ragazzo, ma non lo fece. Provò paura.
Il vecchio si fermò a sedere su un costone, sul ciglio della «Signor Qišvard, non mi ha dato pace né nella veglia né nel
strada. Dopo che ebbe tirato un po’ il fiato e gemuto abba- sonno l’ombra della buonanima di mia figlia. Né sono riuscita
stanza, guardò il ragazzo seduto su una pietra non discosto a sfuggire al mio cuore e alla mia coscienza. Non va avanti,
da lui. Lo squadrò per un po’, poi si mise a contare sulle dita, senza di lui, la mia vita. Dal giorno in cui se l’è portato qui, il
piegandole una alla volta, a partire dal 28: 28, 29, 30, 31, 32, 33, mio cuore non ha trovato un attimo di pace. Me lo ridia indie-
34, 35, 36, 37, 38. Si fermò, dunque, al 38, dopodiché attaccò a tro, signor Qišvard, il mio bambino...»
contare sulle dita già piegate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11. «Bambino, signora Julia, lo era quando me lo sono portato
«Sei nato nel ’28 tu, amore di nonno. Ora siamo nel ’38, dun- via da lei. Ora è un uomo, ed è qui davanti a lei. Se vorrà ve-
que sei nell’undicesimo anno. Non sta bene non pensare a nul- nire, io non potrò certo trattenerlo.»
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«È offeso con me, signor Qišvard, solo un uomo persuasi- «Gli servono le cure materne, bisogna che qualcuno gliele
vo e saggio come lei può rendere di nuovo benevolo il suo lavi, gliele stiri le cose, che l’aiuti a lavarsi, a sfregarsi la schie-
cuore.» na, a pettinarsi... Lei non può prendere il posto di sua madre,
«Lei a casa ne ha due, i figli di Kolja, signora Julia, e a me signor Qišvard!»
non vuole lasciare neanche questo solo e unico?» «Non mi è risultato difficile prendermi cura di lui, signora
«I numeri e le conte non funzionano quando si tratta di nipo- Julia. Infatti non mi pare di averla chiamata, né di averle chie-
ti, signor Qišvard, a quanto pare. Averne cento è come averne sto aiuto!»
uno soltanto.» «Ha ragione, ma ha comunque bisogno di qualcuno che gli
«Ha ragione, signora Julia, i numeri non si addicono ai ni- tenga i piedi al calduccio prima di andare a dormire, che gli
poti, ma che ci posso fare se dopo la mia morte il novero dei stia dietro a scuola...»
Lomjaria dovrà cominciare da lui?» «La scuola di qui non ha niente da rimproverargli, signora
«Non voglio mica cambiargli il cognome, signor Qišvard. Julia, mentre la vostra scuola gli ha dato il certificato di “belva”
Anzi, se vuole, do il suo cognome anche a quei due. Basta che e ha confermato anche lei che fosse quello il suo vero nome,
ora me lo lascia portare con me.» ma non si è rivelata la verità...»
«Una che mi toglie il mio, signora Julia, potrà mai darmi il «Se Dio esistesse, signor Qišvard, mi si sarebbe dovuta pa-
suo?» ralizzare la lingua per aver detto una cosa simile!»
«Non mi faccia andare all’altro mondo con questo peso sulla «Ora, non è che pensa, signora Julia, che, stando con me, il
coscienza, signor Qišvard. Con che faccia mi presento a sua ragazzo sia diventato un angelo? O che abbia smesso di rubare
madre nell’aldilà?» le pesche?»
«Io e lei siamo in prima fila, signora Julia, nessuno sa chi ta- «Che secchi l’albero il cui frutto qualcuno glielo dovesse le-
glierà il filo del traguardo, e, se dovessi farlo io, con che faccia sinare!»
mi presento io a sua madre o a suo padre?» «Non ha nemmeno smesso di dare via il granturco, stando
«Che non giunga mai alle mie orecchie una simile notizia, con me...»
signor Qišvard!» «È suo ciò che mi appartiene, signor Qišvard, e se dovesse
«È lui il mio campo, la mia macina e il mio mulino, il mio dare fuoco a tutto, nessuno avrà da ridire.»
vigneto, il mio bastone, la mia tomba e anche la pietra tombale. «Né ha smesso di fumare tabacco, signora Julia.»
Non glielo posso cedere, signora Julia, e mi uccida, se vuole!» «Ma davvero, ragazzo?»
«Sarò io a uccidermi qui, davanti a lei, signor Qišvard...» «Non c’è bisogno di chiedere a lui, basta chiederlo a me ché
«Ma non lo dica neanche per scherzo, signora Julia. Ragazzo, mi ha svuotato sia le tasche che la tabacchiera...»
ci vuoi andare?» «Pazienza, signor Qišvard. Non ha detto lei stesso che è un
«È solo per rispetto a lei, signor Qišvard, che...» uomo ormai?!»
«Ma davvero, ragazzo?» «Mi dia un mese, signora Julia. Dovrei prendere un premio
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di produzione per la seta, mi darò da fare, non posso mica farlo sbalestrava dalla parte del nonno, come se qualcuno lo stesse
venire così, nudo come un bruco?» strattonando, gli bruciava le viscere e gli trapassava entrambe
«Basta che me lo lascia portare via adesso, signor Qišvard, e le scapole, da destra a sinistra, come un’asta di ferro incande-
sono disposta a togliermeli io i vestiti e a darli a lui.» scente. Era una sensazione sconvolgente, inesprimibile con le
«Certo, gli staranno proprio a pennello, i suoi vestiti.» parole, che lasciava ammutoliti, annichiliti. E il ragazzo l’av-
«Beato lei che è in vena di spiritosaggini. Sono io quella di- vertiva ora attraverso le palpitazioni, ora per il nodo alla gola,
sgraziata e amareggiata!» ora attraverso il sudore freddo, ma anche per la vampata di
«Gliel’ho già detto, signora Julia, che non è più un bambino calore, per il sussulto e per il dolore, senza tuttavia riuscire a
e, se vuole venire, io di certo non lo trattengo.» trovargli un nome.
«Pende dalle sue labbra, signor Qišvard, ogni sua parola per La donna si alzò, andò dal ragazzo e se lo strinse al petto.
lui è un comandamento uscito dalla bocca del Redentore, e solo «Amore di nonna tu, mio sole e mia luce, vita mia e piantina
se glielo dicesse lei...» della mia Aniko. Vieni con me, tesoro di nonna, e regalami altri
«Non ha pietà, signora Julia? Come posso dire a mio nipote: due giorni di vita!» piangeva la vecchia, e le sue lacrime calde
“Esci fuori dal mio cortile e vai appresso a qualcun altro?”.» si versavano copiose sulla testa del ragazzo.
«Io non sono qualcun altro, signor Qišvard. Sono anch’io Quando ne ebbe abbastanza di piangere, tirò a sé il nipote
sangue del suo sangue. Mi rimane sì e no un anno di vita e con delicatezza, ma lui rimase fermo come un palo nocchieru-
non me l’accorci di più, mi faccia la grazia di questo bambino, to, come una trave di ferro, come un tronco d’albero conficcato
glielo chiedo in ginocchio...» a fondo nella terra.
«Non è il caso, signora Julia...» «Va’, amore di nonno, va’, figliolo, segui la tua vecchia non-
«Vi bacio le ginocchia...» na, e quando si sarà saziata del tuo affetto, allora torna, e nel
«Si alzi, signora Julia, non mi faccia questo...» frattempo starai mancando pure a me, e così via... Che ti pare-
«Dio, benedici questo sant’uomo...» va? Ti pareva così facile essere nipoti? È arduo, amore di non-
«Non auguro al suo peggior nemico l’essere benedetto come no, fare il nipote, soprattutto di vecchietti allocchiti come me
lo sarò io d’ora in avanti...» e tua nonna. Va’ con lei, figliolo. La tua roncola, il tuo torchio,
«Santa Maria, madre di Dio...» la tua accetta, la zappa, la gerla, la mucca, la capra e il maiale
«Va’, amore di nonno!» non andranno da nessuna parte. Sappi che ti aspetteranno...»
Questa conversazione ebbe luogo a un anno esatto dalla vi- Il ragazzo rimaneva impalato, e si meravigliava di come il
cenda narrata sopra, tra il nonno di Guria e la nonna di Ime- nonno riuscisse a indicare con la mano ognuno di questi ogget-
reti. Non si trattava più di un atto di consegna e ricezione, ma ti o animali senza nemmeno guardare: la roncola era buttata in
del gemito di due cuori, di un braccio di ferro tra due sangui un angolo del cortile, l’accetta in un altro, la gerla in un terzo, il
diversi che ribollivano a causa del ragazzo. Questa forza invi- canestro in un quarto, la mucca era legata a un capo del cortile,
sibile a momenti lo sbilanciava dalla parte della nonna, poi lo la capra a un altro, il vitello a un altro ancora, e il maiale pure.
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«Ecco il tuo zaino, ecco i tuoi libri: il georgiano, la storia, e Era seduto accanto al camino, Qišvard Lomjaria, in attesa
abbiamo qualcos’altro io e te? Nient’altro. Le tue scarpe e la che si scaldasse l’acqua dentro un piccolo calderone di rame
camicia sono qui, i pantaloni ce li hai addosso. Fino a Samtre- messo sul fuoco. Fissava le fiamme, e rimuginava: “Che pen-
dia cammina a piedi nudi, sennò ti si staccheranno le suole alle sieri infiniti che ti fa venire, il benedetto”. Pensava, e al contem-
scarpe, mettitele in spalla, ecco, così... mi raccomando, allora...» po cercava di sfuggire in qualche modo ai propri pensieri, ma
Qišvard Lomjaria si rese allora conto che suo nipote in quel quando mai un uomo è riuscito a sfuggire ai propri pensieri?
momento era un palo nocchieruto, una trave di ferro, un albe- Non è mica Dio, l’uomo. “Non avrei dovuto lasciare andare
ro, un alburno, conficcato nel terreno così in profondità da non quel ragazzo, è che non ho resistito alla vista dello stato pieto-
poterlo strappare, sradicare, con le tenerezze, era necessario so di quella donna, ma ora mi trovo io stesso nelle condizioni
qualcosa di più decisivo affinché il ragazzo si smuovesse, ma di quella donna. Tra una settimana prendo e vado da lei, mi
che cosa? getto alle sue ginocchia e l’imploro di ridarmi il mio ragaz-
Qišvard Lomjaria capì anche che suo nipote si trovava ora zo, e se non ci sta, allora prendo e le dico di punto in bianco:
all’interno di un cerchio, e che due sangui forti lo tiravano da «Ridammi, donna, il sangue del mio sangue. Nessuno ha il
una parte e dall’altra, e che avrebbe avuto la meglio il più for- diritto, tranne Dio, di togliermelo». A quel punto lei mi dirà
te dei due. Ma qual era quello più forte? E prima che in ciò si la stessa cosa e io, dato che non sono Dio ma un uomo, come
districasse il sangue stesso, uno dei due – o lui, o la nonna del potrò mai strapparle via il nipote che è suo quanto mio? Se
ragazzo – avrebbe dovuto chiudere, recidere la vena di uno dei fossi Dio, ecco, allora... è arduo essere un uomo, molto arduo,
sangui ribelli, e fu Qišvard Lomjaria, ancora una volta, a farlo, molto più arduo che essere Dio. Grazie a Dio, di questo se ne
prima della nonna del ragazzo. convinse Gesù Cristo, il nostro Redentore stesso... È arduo ve-
«Va’, ragazzo, ne ho abbastanza delle ciance con te!» nire al mondo da uomo che deve tornare terra, molto arduo...
Il nipote lanciò uno sguardo sconvolto al nonno. “Tra una settimana esatta mi alzo, mi metto in cammino e mi
«Va’, e non voltarti indietro!» il vecchio girò i tacchi ed entrò getto alle ginocchia di quella donna. Ma come posso resistere
in casa. ancora una settimana? Me ne vado dopodomani, o meglio, do-
Il ragazzo si arrabbiò con il nonno tanto in fretta quanto in mani, mi alzo domattina presto e... Dio, fa’ che stanotte faccia
fretta provò pietà per la nonna. Gli occhi gli si riempirono di giorno presto...”.
lacrime, il mento cominciò a tremargli, abbassò la testa, e, come Era seduto accanto al camino, Qišvard Lomjaria, in attesa
un vitello tirato per una lunga corda avvoltagli al collo, andò che si scaldasse l’acqua messa sul fuoco, e gli frullavano questi
dietro alla nonna che procedeva curva, fasciata di gramaglie, pensieri, quando si aprì la porta ed entrò nella stanza il ragazzo
pietosamente consunta ed emaciata, ridotta a un pugno, per con le scarpe appese alla spalla, scalzo, la testa bassa.
le strade di Čokhatauri impolverate e arroventate dal calore «Sia benedetta la tua giustizia, Dio!»
del sole. «Sono tornato!» disse il ragazzo.
«Sapevo che saresti tornato» rispose il vecchio. Dopodiché
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Qišvard Lomjaria tolse l’acqua dal fuoco e gli mise al calduccio Hellados
i piedi stanchi, al nipote, con le sue proprie mani. Gli preparò
il letto sull’ottomana e lui andò a dormire nella stanza piccola. [1978]
A notte fonda il nonno udì la voce del nipote:
«Posso dormire con te, nonno?»
«Vieni, amore di nonno!» gli rispose il vecchio e si scostò «Gemal, Violinuccio!»
verso il muro. Il nipote si avvicinò, scivolò dentro il letto e si «Janguli, moccioso!»
appiccicò alla schiena del nonno girato verso il muro. «Gemal, cafone!»
“Che freddo che è, il povero nonno” pensò il nipote. «Janguli, avido greco!»
“Che caldo che è, il birbone” pensò il nonno. «Gemal, caccoloso!»
Dopo un po’ il vecchio chiese al ragazzo: «Bullo dei marmocchi!»
«Sai, amore di nonno, cos’è che ti ha fatto tornare?» «Testa d’asino!»
«No!» rispose il ragazzo. «Pastore d’asino!»
«Te lo dico io: è opera di quel miracolo, amore di nonno, che «Femminuccia!»
è il sangue.» «Teppista!»
Oltre a queste parole, quella notte, nonno e nipote non si «Minchione di Tbilisi!»
dissero altro. Nessuno dei due pensava a qualcosa, e nessuno «Fanculo tu e tua madre, Janguli!»
dei due parlava. «I mana su ine prostiti ghineka, Gemal!»
Nonno e nipote dormivano cullati da un sonno sereno.
Solo il sangue parlava, e pensava, e di cosa parlasse e a cosa Janguli era il figlio di Christo Aleksandrid, un greco di
pensasse, solo Dio lo sapeva! Sokhumi.86 Secco come un fuscello e dal petto largo, aveva
un bel naso dritto, gli occhi nero carbone e le braccia lunghe
come quelle di una scimmia. Stando in piedi, gli arrivavano
fino alle ginocchia, quelle enormi zampe. Aveva quattordici
anni, e ai ragazzi del quartiere, suoi coetanei, incuteva gran
terrore. Sapeva menare le mani che era una meraviglia! Po-
teva prendere a cazzotti due o tre avversari contemporane-
amente senza fargli muovere un dito. Agile come un felino,
duro come la selce, e in buona salute, andava in giro, fosse
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Sokhumi (Sukhumi) [georg. სოხუმი]: la maggiore città dell’Abkha-
zia (Georgia nord-occidentale), affacciata sul Mar Nero.
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estate o inverno, con addosso una camicia di raso nera, aperta lino, non voglio che senta troppo la mancanza della madre
sul petto. e il peso dell’essere un orfano. Mi aiuti, mi chieda pure il
Viveva nella contrada Venezia, sulla riva del fiume Čalbaš, doppio di quello che chiede agli altri, basta che l’accetti come
assieme al padre. Sua madre era mancata quando lui era tal- allievo.»
mente piccolo da non ricordarla del tutto. Possedevano un ap- La Navrodskaja prima volle testare il mio orecchio, poi la
pezzamento di terreno con un minuscolo orto, una mucca e un mia conoscenza delle note, mi esaminò poi le dita, con la mano
puledro di asino grigio. Vendevano latte, matsoni87 ed erbaggi mi tastò il callo sotto il mento, titubò per un po’, dopodiché
nel vicinato e al mercato di Sokhumi. Janguli non frequentava andò in un’altra stanza. Tornò portando con sé un violino, lo
la scuola, dava una mano al padre nei lavori agricoli e di tanto scordò smanettando i piroli, e mi disse di accordarlo. La zia
in tanto andava in giro a vendere con l’asinello. Passava il resto mi guardava con apprensione, e, quando l’ebbi accordato, tirò
del tempo ciondolando per la strada. Era solito piantonare il un sospiro di sollievo.
passaggio a livello della ferrovia, e si divertiva a rovistare nelle «Allora, adesso prova a suonare La marmotta di Beethoven!»
tasche dei ragazzi all’uscita della scuola, e, con il loro consenso mi disse Elena Mikhailovna, poi sprofondò nella poltrona, e si
o con la forza, gli prendeva tabacco, spiccioli, oggetti lucci- dispose all’ascolto. All’udire il nome di Beethoven, a mia zia
canti, catene, matite colorate, penne. L’indomani, questi stessi venne un colpo.
oggetti, li vendeva a prezzi ragionevoli a quegli stessi ragazzi, «Gentilissima Elena Mikhailovna, non è che potrebbe fargli
dopodiché giocava con loro scommettendo sui loro soldi, glieli eseguire qualche altro compositore, magari minore?» chiese
vinceva, e tornava a casa con le tasche piene. alla Navrodskaja, e con un fazzoletto si asciugò la fronte ma-
Ogni giorno questa storia. dida di sudore.
Questo dittatore di quattordici anni aveva reso tutti i ragazzi «Come, non sa suonare La marmotta?» domandò a mia zia la
della contrada Venezia suoi schiavi obbedienti. Tra questi c’era Navrdoskaja, tutta sorpresa, e inarcò le sopracciglia.
anche mio cugino Koka. Io mi resi conto che era giunto il momento, tanto agognato
Era il bullo del quartiere, Janguli. nella mia vita, in cui avrei potuto liberarmi una volta per tutte
La nostra conoscenza ebbe inizio nell’autunno del 1938. Ap- dal giogo della musica, impostomi da mia madre all’età di sei
pena arrivato da Tbilisi, per non farmi sentire troppo il peso anni e sotto il peso del quale ero stato istruito senza pietà. Sa-
dell’essere orfano, mia zia Nina l’indomani stesso mi condusse rebbe bastato, in quel preciso istante, proferire la parolina ma-
da Elena Mikhailovna Navrodskaja, un’insegnante di musica gica – il “no”, e sarebbe finito tutto. Tuttavia, non so se fu per
rinomata in tutta Sokhumi, e le si gettò alle ginocchia: il volto tormentato della zia, o per lo sguardo incredulo della
«È rimasto orfano, sua madre gli faceva fare lezioni di vio- Navrodskaja, o per l’orgoglio smisurato di un ragazzino di
tredici anni, oppure per qualche altra forza a me sconosciuta,
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Matsoni (matzoon) [georg. მაწონი]: tipo di yogurt originario del
Caucaso, che fa parte della dieta quotidiana dei popoli di tutta la regione, fatto sta che presi in mano l’archetto e la stanza fu d’un tratto
soprattutto dei georgiani e degli armeni. inondata dalla semplice e geniale melodia della Marmotta.
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Quando ebbi finito di suonare, notai che la zia aveva gli Mi voltai di nuovo indietro. Janguli stava pulendo le noci, e
occhi pieni di lacrime, mentre sul volto della Navrodskaja si mi rideva in faccia con aria di sfida.
era disteso un sorriso soddisfatto... Ed Elena Mikhailovna Na-
vrodskaja mi accettò. Per andare alla scuola n° 13, alla quale mi aveva iscritto la
Al ritorno a casa, all’avvicinarci al passaggio a livello, c’im- zia, dovevo attraversare la ferrovia, per cui l’incontro giorna-
battemmo in Janguli seduto alla turca sull’acciottolato. Rom- liero tra me e Janguli divenne pressocché inevitabile.
peva le noci con un pezzo di mattone. Per circa un mese non mi degnò di attenzione. Stava in mez-
«Buongiorno, Nina Ivanovna!» salutò mia zia, appena gli zo ai ragazzi del quartiere e giocava come sempre agli aliossi
passammo accanto. o a qualche altro gioco di gruppo.
«Buongiorno a te!» tagliò corto la zia. C’è da notare però che, appena mi adocchiava, per pavoneg-
«E Koka dov’è?» le chiese Janguli. giarsi calcava subito il cappello sugli occhi o tirava un calcio
«Non è mica uno scansafatiche come te, Koka. È a scuola!» a qualcuno dei ragazzi, e mi lanciava uno sguardo obliquo.
rispose la zia. Io, dal canto mio, nel passargli accanto, facevo mostra di non
«E questo qui chi è?» essere minimamente interessato a lui e al suo gregge. Anche
«Non t’interessa!» gli disse la zia Nina, e mi spinse avanti. se non vedevo l’ora di unirmi a loro, dandogli prova della
Janguli fece un fischio prolungato. Noi proseguimmo per la mia forza e destrezza, ma per ora nel quartiere ero ancora un
nostra strada. estraneo, sprovvisto di compagni, amici e gregari. Non avevo
«Ehi, Violinuccio!» mi giunse d’un tratto da dietro. Mi voltai nessuno che mi spalleggiasse, tranne il mio cuginetto Koka,
sorpreso. perciò non osavo avvicinarmi. Di una cosa avevo un chiaro
Janguli stava strizzando un occhio, torceva il collo, aveva sentore, però: il nostro rapporto stava bruciando pian piano
tirato fuori la lingua, e muoveva il braccio destro contro il sini- come la miccia di una dinamite, andava rimpicciolendosi, av-
stro a mo’ di seghetto. Capii che si beffava di me che suonavo vicinandosi sempre di più al pistone, e un bel giorno sarebbe
il violino. Sentii il sangue montarmi alla testa per la rabbia. esploso.
«Scimmione!» gli gridai, e agitai il pugno. E a distanza di un mese esatto, giunse anche quel giorno.
«Passa da me domani, ché ho della legna da segare» mi ri- Elena Mikhailovna era impegnata con un allievo. Io sedevo
spose ridendo. nella sala d’attesa, aspettando il mio turno.
«Sei il solito teppista, eh?» mia zia scosse la testa con disap- Sopra un tavolo rotondo c’era un acquario e, all’interno, in
punto. mezzo alle alghe, alle graziose conchiglie e pietre, guizzavano
«Ma chi è?» le chiesi. dei pesciolini dorati dalle pinne dischiuse a ventaglio, spalan-
«È un ragazzo greco, Janguli. Suo padre porta da noi il latte. cando le bocche in modo buffo, emettendo bollicine d’aria. Per
Non ti voglio vedere in sua compagnia, è un teppista, bighel- qualche ragione mi sembrò che i pesciolini fossero terribilmen-
lona giorno e notte per strada.» te affamati; per questo diguazzavano così. Tirai subito fuori
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dalla tasca un panino di pane di segale e formaggio avvolto in vo impalato. «Entra, entra!» ripeté, posandomi la mano sulla
una pagina di giornale, lo sminuzzai e lo buttai nell’acquario. spalla e dandomi una leggera spinta verso la stanza. Io non mi
La superficie dell’acqua si cosparse di briciole di pane e di mossi dal posto. «Non ti sei preparato per oggi?» mi doman-
formaggio. I pesciolini all’inizio si allarmarono, nascondendosi dò Elena Mikhailovna con severità e, dato che continuavo a
dietro le pietre e le conchiglie, ma in seguito, come se avessero non reagire, seguì meravigliata la traiettoria del mio sguardo
intuito la mia buona intenzione, si riversarono fuori dai na- incantato... e successe ciò che possono comprendere solo gli
scondigli e si gettarono come impazziti sul cibo. ittiofili: come se le avessero falciato le gambe, Elena Mikhai-
Contemplavo con immenso piacere quel turbinio dorato. lovna sprofondò nella poltrona, le labbra le divennero blu e
L’acquario era in preda all’agitazione e al tumulto come un con voce tremante mi chiese:
oceano in miniatura. I pesciolini vorticavano e danzavano sca- «Ты что наделал, паршивый мальчишка?!»88
tenati. Poi la loro giocosità scemò gradualmente. L’acquario «Non me lo immaginavo, Elena Mikhailovna, gli ho dato
si acquietò, si calmò. Ora i pesciolini, appesantiti e dalle pan- soltanto pane di segale e formaggio...»
ce gonfie, si muovevano con indolenza tra pietre e conchiglie «Отравил!»89 proruppe esasperata, dopodiché si mise la te-
smaltate. Uno alla volta si accostarono alla parete di vetro e, sta tra le mani e gemette come una madre in lutto. Ricordo
come se volessero ringraziarmi, pulsarono davanti a me oscil- che farfugliavo, mi giustificavo, e cercavo di tranquillizzare in
lando leggermente la coda. All’improvviso, uno di loro, quel- qualche modo la mia maestra di musica, ma era tutto inutile...
lo più grosso di tutti, si rovesciò, e cominciò a nuotare sulla Si alzò, andò all’acquario, e tirò fuori dall’acqua i pesciolini
schiena. Seguivo sbalordito questo strano spettacolo. Presto esanimi a uno a uno: li baciava, poi li rimetteva nell’acquario,
lo imitarono anche gli altri. Era come se l’acquario intero fos- accompagnando i gesti con meravigliose parole d’affetto.
se stato girato sottosopra: ora tutti i pesciolini vi nuotavano «Милые мои, золотые, ненаглядные, отравили, убили вас.»90
a pancia in su, muovendo con foga le branchie... Affondai la A quel punto si voltò verso di me, aveva la faccia stravolta,
mano nell’acqua e provai a rigirarli, ma niente da fare, quelli le tremava il mento e dagli occhi le sgorgavano fiotti di lacrime.
si rimettevano subito a pancia in su. In preda alla paura, tirai D’un tratto fletté una mano aperta e mi diede un tale schiaffo
velocemente la mano fuori dall’acqua. Mi resi conto che era che per poco non stramazzai al suolo.
accaduto qualcosa di terribile. Nell’acquario si era spenta la «Вон из моего дома, варвар. Чтоб твоей ноги не было
vita. I pesciolini dorati, intossicati, galleggiavano esanimi a больше здесь! Вон!»91
pelo dell’acqua. Un brivido di orrore mi corse per tutto il cor- Inghiottii entrambi, sia lo schiaffo che le lacrime, presi sot-
po. Afferrai l’astuccio del violino e feci per scappar via, ma
d’un tratto si aprì la porta e apparve Elena Mikhailovna. Stava
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Rus.: “Cos’hai combinato, disgustoso ragazzo?”.
89
Rus.: “Li hai avvelenati!”.
accompagnando fuori l’allievo che mi aveva preceduto, facen- 90
Rus.: “Miei cari, dorati, adorati, vi hanno avvelenati, vi hanno uc-
dogli delle raccomandazioni. cisi”.
«Entra!» mi disse, appena ebbe congedato l’altro. Io rimane- 91
Rus.: “Fuori da casa mia, barbaro! Non metterai più piede qui! Fuori!”.
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tobraccio il violino e, senza fare rumore, mi richiusi la porta «Non fumo!»
dietro le spalle. «Soldi!»
«Non ne ho!»
M’incamminai verso casa sconvolto, mortificato, redivivo. «Rovescia le tasche!»
Al passaggio a livello Janguli e i suoi gregari si divertivano «Rovesciatele tu!»
a giocare. Mi venne voglia di unirmi a loro. Tanto, non avevo Tra i ragazzi ci fu un mormorio. Janguli si confuse, ma non
la faccia di tornare a casa. Appena mi avvicinai ai ragazzi, stra- lo diede a vedere, e fu a quel punto che ripiegò sul violino.
scicai i piedi, poi mi fermai di proposito e mi chinai come se «Giù le mani!» gli dissi, e allungai il braccio verso lo stru-
volessi aggiustarmi i lacci delle scarpe. mento, ma Janguli ci arrivò prima, aprì la custodia, tirò fuori
«Ehilà, Violinuccio!» riconobbi la voce di Janguli. Mi rad- il violino, e me lo porse.
drizzai e lo guardai negli occhi. «Dai, suona, distrai i miei ragazzi!»
«Che vuoi?» gli chiesi. «Non suono!»
«Vieni qui!» mi fece un segno con l’indice. «Allora che te lo trascini a fare? Sei un somaro che va a scroc-
«Perché non vieni tu, se hai qualcosa da dirmi!» gli risposi. co?»
Janguli scambiò sguardi increduli con i suoi sottomessi, ancora Non gli risposi nulla, mi tesi verso il violino per riprender-
più increduli di lui, e si mosse verso di me a passo lento. melo, ma Janguli indietreggiò, nascondendo lo strumento die-
«Ma tu sai chi sono io?» mi domandò con un piglio fiero. tro la schiena.
«Lo so!» replicai io. «Petja! Fema! Kurlik! Pancio! Ghena! Avete mai sentito il
«Allora perché non vieni quando ti chiamo?» suono di un violino?» domandò ai ragazzi. Questi nitrirono
«Chi sei tu per chiamarmi?» gli dissi con disprezzo e, per come dei puledri.
ogni evenienza, misi a terra il violino. Janguli rivolse ancora «Solo alla radio!» disse Petja, e nitrì di nuovo.
una volta uno sguardo incredulo ai suoi ragazzi, i quali aveva- «Dai, Janguli, faccelo sentire!»
no smesso di giocare e stavano facendo cerchio attorno a noi. Fui il primo tra tutti a sentire il suono del mio violino: Jangu-
«Janguli, insegnagli chi sei!» l’esortò qualcuno dal cerchio. li gli fece fare un leggero cerchio nell’aria, e me lo ruppe in testa
«Suonagliele, Janguli!» per lunghezza. «Sbam... crac...» stridé lo strumento e si spaccò
«Fagli provare un ceffone dei tuoi!» in due. La parte inferiore penzolò come un moncherino sotto
«Prima vediamo di che pasta è fatto!» disse Janguli e mi quella superiore, e per un po’ continuò a emettere un suono
diede un buffetto sulla guancia. orribile. I ragazzi rotolarono per terra.
«Giù le mani» gli dissi e scostai la testa. Mi si fermò il cuore, sentii il sangue montarmi alla testa,
«Ma guarda guarda!» si sorprese Janguli. le orecchie tapparmisi. Non sentivo più niente, vedevo sol-
«Guarda pure quanto vuoi!» risposi. tanto i ragazzi che si rotolavano a terra, il violino spezzato in
«Sigaretta!» mi allungò d’un tratto la mano. due, la mandibola ossuta un po’ protesa in avanti di Janguli.
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E all’improvviso, chiamate a raccolta tutte le mie forze, sferrai «Ti devo parlare!» si avvicinò Janguli.
un pugno secco su quella mandibola. «Di che cosa?»
Quando mi tornarono di nuovo l’udito e la coscienza, vidi «Qui non è il caso!» disse lui, lanciando un’occhiata ai ragaz-
che Janguli sedeva sul selciato, mi guardava sorpreso e si mas- zi e agli insegnanti che uscivano dalla scuola.
saggiava la mascella con la mano destra. Era calato un silenzio «E dove, allora?»
tombale. Io mi voltai senza proferire parola e me ne tornai a casa. «Oltre la ferrovia, sotto il ponte.»
Quella sera, Petja, nostro vicino e il braccio destro di Jangu- «Come ti pare!» gli risposi e lo seguii.
li, ci portò a casa sia il violino che la custodia. Li buttò vicino Janguli andava avanti. Poi venivamo io e Koka. Petja ci veni-
all’ingresso, e scappò via. va dietro, a una certa distanza. Forse per impedirci di scappare.
Mia zia fece una specie di lamento funebre in cui all’inizio «Siamo nei guai!» disse Koka, sconfortato. Era più piccolo
figurava Petja, poi il violino, poi Janguli Aleksandrid, poi io, di me di due anni e aveva avuto più di un assaggio del ceffone
e infine mia madre. di Janguli.
Ora che mi ricordo, quel lamento recitava più o meno così: «Non aver paura!» lo tranquillizzai, benché, a dirla tutta,
«Che tu cresca tanto male quanto sei malfatto, Petjaaaa... ma avevo paura anch’io. Lungo la discesa del terrapieno della
in effetti cosa ci si può aspettare da uno come te e da quell’er- ferrovia, Koka tentò di tagliare la corda, ma feci in tempo ad
bivendolo di tuo padre... Che ne potete sapere voi del valore di afferrarlo per il polso, stringendoglielo con tutte le forze:
questo violino, ché credete che Stradivari e Paganini siano stati «Non scappare, è da infami!»
dei segantini... È a quel Janguli Aleksandrid che devo chiedere «Tu non lo conosci. Ci gonfierà entrambi di botte!» piagnu-
conto e ragione, ma in effetti che può capirne della musica un colò Koka.
puledro cresciuto al suono dei ragli d’asinoooo? È questo no- «E che fa, non è che ci ammazza» gli dissi. Koka mi seguì
vello teppista insediato a casa mia che devo ammazzareeee... come un vitellino condotto al macello.
Mia dannata e infelice sorella Aniko, che mi hai lasciato questo Janguli si fermò sotto il ponte della ferrovia. Si guardò attor-
delinquente da tenere a bada, come se non avessi già abbastan- no. Non c’era anima viva. Ci fermammo anche noi.
za guai. Accidenti al tuo destino, accidenti alla mia stella...» «Eccoci qua, che vuoi dunque?» domandai a Janguli.
Si concluse allora la mia odissea musicale e iniziò una nuova Janguli chinò la testa, e rimase così per un po’, rimuginando
era della mia vita, quella della lotta per la sopravvivenza. su qualcosa.
Alzò la testa all’improvviso.
L’indomani, io e mio cugino Koka trovammo ad attenderci «Ieri tu mi hai umiliato agli occhi del quartiere. Mi hai steso
Janguli e Petja alla cancellata della scuola. All’inizio il cuore mi con un colpo solo... Mi hai colto di sorpresa, ecco perché ci sei
batté forte, ma passai accanto ai due come se il giorno prima riuscito, e la risposta non l’hai ricevuta solo perché non sono
non fosse successo nulla. riuscito a rimettermi in piedi. Avrei voluto alzarmi, ma non ci
«Violinuccio!» era la voce di Petja. Mi fermai. sono riuscito» Il suo parlare pacato e sincero mi guastò ancor
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di più l’umore. Janguli riprese: «Io sono il bullo di questo quar- chiusi, Janguli a mani aperte. Un mio colpo emetteva un suo-
tiere e continuerò a esserlo...». no sordo, mentre quello suo faceva rimbombare la terra, per
«Io non voglio essere un bullo del quartiere, lasciami in pa- quanto scrocchiavano le mie mascelle.
ce!» fui sincero anch’io. Petja incoraggiava Janguli con dei richiami in greco, mentre
«Se tu fossi più grande di me, ti avrei lasciato in pace, ma Koka mi esortava in georgiano:
hai un anno in meno di me, perciò no che non ti posso lasciare «Vacci di testa, di testa, Gemal!».
in pace. Non possono esserci due bulli in un quartiere. O tu, Sapevo che la cosa migliore sarebbe stata avvicinarsi di più
o io...» e andarci di testa, ma tutte le volte che provai ad afferrarlo,
«Te l’ho detto che non voglio essere un bullo!» gli ripetei. nudo com’era dalla cintola in su e unto di sudore, mi sgusciò
«Così non può andare. Dobbiamo fare a botte!» disse Janguli. via dalle mani. Un altro ceffone ancora, e sentii il sangue zam-
«Va bene, facciamo a botte!» ci stetti. pillarmi dal naso.
«Facciamolo onestamente!» dise Janguli. Mentre ero intento a pulirmi il sangue dal naso, Janguli me
«Che vuol dire onestamente?» mi meravigliai. ne mollò un altro, e mi ritrovai seduto per terra esattamente
«Non devono intervenire né Petja, né Koka. Niente insulti, come era capitato il giorno prima a Janguli, con la differenza
niente sassate, niente colpi a chi cade!» che, se lui non fu in grado di rimettersi in piedi, io lo ero, lo
«D’accordo!» ero eccome, ma rialzarsi a quel punto non aveva alcun senso:
«Se ti batto, domani te le do sotto gli occhi di quegli stessi avevo perso.
ragazzi del quartiere davanti ai quali mi hai steso. E poi ti la- Janguli mi concedette un po’ di tempo, ma, vedendo che non
scio in pace» mi avvertì. mi rialzavo, cominciò a rimettersi la camicia, e io potei leggere
«Chi la dura, la vince!» dissi io. di nuovo la parola tatuata sul suo petto: Hellados.
Non mi rispose nulla. Si tolse la camicia nera di raso e la «A domani!» mi disse Janguli, e mi accorsi solo allora che
buttò per terra. Appena si fu svestito, mi venne un colpo, a aveva il labbro superiore gonfio e il sopracciglio destro spac-
guardarlo: aveva un petto così largo, e, come se non bastasse, cato.
aveva una parola tatuata a caratteri latini color blu sopra il «A domani!» gli risposi, e mi rialzai.
capezzolo sinistro: Hellados, che mi turbò parecchio. Janguli e Petja salirono sul terrapieno e si avviarono lungo
Janguli disse qualcosa a Petja in greco. Petja esitò. Allora la ferrovia. Io e Koka rimanemmo sotto il ponte.
Janguli gli ripeté l’ordine. A quel punto Petja cavò di tasca due «Fa niente, ne ha incassate un bel po’ anche lui!» mi consolò
grandi sassi e li buttò via seccato. Janguli ora fissò gli occhi su Koka.
Koka. Quest’ultimo si rovesciò le tasche vuote. «Non importa, tanto domani lo malmeno!» dissi.
«Cominciamo!» disse Janguli. «Dovresti guardarti allo specchio!» disse Koka.
«Cominciamo!» dissi io e posi lo zaino per terra. «Sono tanto gonfio?» chiesi.
Lo scontro durò due o tre minuti. Io mi battevo a pugni «Come una brioche!» rispose, e distolse gli occhi.
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«Fanculo a lui!» e suo cugino, il disertore della nostra tribù e il traditore della
Stavolta mia zia non mi recitò un lamento funebre, anzi mi patria, il caccoloso Koka! Codesto forestiero viso pallido, inve-
mise degli impacchi freddi sul viso. L’indomani, però, ruppe ce di apprezzare la nostra ospitalità, generosità e magnanimi-
il barattolo di matsoni in testa a Christo, il padre di Janguli, tà, vuole accaparrarsi la nostra terra, il nostro mare, il nostro
esattamente come mi aveva rotto in testa il violino Janguli, e fiume, il nostro oro e argento, i nostri pascoli e le nostre aiuole
minacciò di far marcire in prigione quel delinquente e teppista benedetti...»
di suo figlio per aver menato con tanta spietatezza un pioniere «Bando alle ciance!» interruppi il suo discorso. «Dobbiamo
sovietico. fare a botte!»
Janguli si fermò e mi guardò fisso negli occhi, poi riprese la
Il giorno seguente non andai a scuola per far rimarginare le parola:
ferite. Il terzo giorno, il passaggio a livello della ferrovia era «Adesso io vi mostrerò come si fanno le polpette dai visi
gremito di ragazzi del quartiere. Appena io e Koka ci avvici- pallidi...»
nammo, fummo accolti con i fischi. «Non fare il buffone, cominciamo!»
«Ehi, Violinuccio, hai avuto il tuo battesimo?» «Ehi, tu, caccoloso!» si rivolse a Koka, «Va’ a chiamare il
«Non lo lasci in pace finché non ti uccide?» pronto soccorso, digli di essere qui tra cinque minuti e di
«Non è che qui siamo a Tbilisi!» portare via tuo cugino reso disabile» i ragazzi scoppiarono
Tutta la cricca era già al corrente della mia batosta. Erano a ridere.
tutti lì, tranne Janguli. Non risposi a nessuno, buttai lo zaino «Oggi è a te che servirà l’ambulanza» dissi io e mi alzai. I
sul selciato, mi ci sedetti sopra e attesi l’apparizione di Janguli. ragazzi fecero cerchio. Janguli anche stavolta disse qualcosa
«Arriva Janguli!» gridò d’un tratto qualcuno. in greco a Petja. Questi si alterò in viso e si mise a sfibbiarsi la
«Ora comincia lo spettacolo!» disse qualcun altro. cintura. Guardavo incredulo la cinghia spessa un dito di Petja.
«Buongiorno!» fece un saluto generale, Janguli, e, appena mi Mi balenò in testa: “Davvero mi vuole picchiare con la cintu-
vide seduto sul selciato, sbarrò gli occhi per la sorpresa. ra?”. Petja consegnò la cinghia a Janguli e andò a rimettersi in
«La brioche è venuta con i propri piedi, non ti resta che sboc- cerchio. Janguli tutto spavaldo proiettò lo sguardo tutt’attorno
concellarla, Janguli!» gli disse Petja. e annunciò pubblicamente:
«La spalmi con il burro o con il caviale?» «Contro il viso pallido io non mi batterò con entrambe le
Janguli non prestò attenzione ai chiacchieroni, levò in alto mani. Oggi costui dovrà essere malmenato con una mano sola!
il braccio a mo’ di tribuno, calmando la folla, e rivolse alla sua Petja, vieni a legarmi il braccio!»
gente un discorso storico, come sono soliti fare i capotribù. Si levarono grida di ammirazione tra i ragazzi. Io ne fui at-
«Ragazzi!» esordì «mi rivolgo a voi, ai liberi figli della tribù territo. Janguli si portò il braccio sinistro teso al fianco. Petja
della contrada Venezia, io, Janguli Aleksandrid, il capo da voi andò a mettergli la cinghia attorno ai fianchi in modo da pren-
eletto! Eccoli davanti a voi, il minchione viso pallido di Tbilisi dergli anche il braccio, e poi strinse con tutte le forze.
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«Non fare il teatrino, tira fuori il braccio, e ci battiamo così» fugace al padre. Quest’ultimo ci dava le spalle e perciò non
gli dissi con una voce spezzata. mi poteva vedere.
«Non mi abbasserò a battermi con te con entrambe le ma- «Per fare a botte!» replicai io.
ni» disse Janguli. I ragazzi proruppero ancora in esclamazioni «Chi è?» gli chiese il padre, senza voltarsi.
entusiastiche. «Un mio compagno.»
«Allora non ci sto!» feci io e ripresi lo zaino. «Janguli è impegnato, sta andando al mercato!» Christo si gi-
«Hai paura, eh?» mi chiese Janguli. rò. Mi riconobbe subito e se ne meravigliò: «Avete fatto pace?».
«Non è che ho paura, non mi va e basta. Libera il braccio e «Abbiamo fatto pace!» risposi io.
vedrai se non ti malmeno comunque!» «Non è meglio così? Siete entrambi dei ragazzi in gamba!»
«Muoviti, o sarò io a malmenarti!» disse Janguli, irritato. si rallegrò Christo e mi invitò a entrare.
«Dai, stendilo!» mi sussurrò Koka. Io scossi la testa con ca- «Ho fretta» dissi, dopodiché mi rivolsi a Janguli: «Quando
parbietà. A quel punto Janguli si avvicinò e mi mollò un ceffo- torni dal mercato?».
ne. Il viso mi si avvampò come se mi avessero tirato dell’acqua «La sera.»
bollente. Tuttavia, non gli restituii il colpo. Janguli me ne mollò «Ti aspetterò sotto il ponte della ferrovia!» gli dissi, e me ne
un altro, poi un altro ancora. Mi accorsi, però, che non si acca- andai.
niva. Più che malmenare, sembrava più che altro un prendere
a schiaffi. E, visto che insistevo a non rendergli la pariglia, La sera mi trovavo sotto il ponte ad attendere Janguli. Ar-
Janguli si fermò. Io mi girai e uscii dal cerchio. I ragazzi mi rivò. Senza rivolgermi la parola, legò l’asino alla staccionata
fecero passare senza fiatare. degli Adamia, si tolse la camicia, l’appese sull’arcione dell’a-
«Ehi, Violinuccio!» mi giunse da dietro la voce di Petja, e nimale e così potei leggere ancora una volta la parola magica
subito dopo un improvviso, terribile schiocco di un ceffone incisa sul suo largo petto: Hellados.
dato a mano aperta. Era quella di Janguli contro la mascella di Quel giorno fu l’asino l’unico testimone del nostro scontro.
Petja, stavolta. Stavolta durò più a lungo. Fu Janguli a colpirmi per pri-
Non mi voltai a guardare, poiché piangevo, e non volevo mo, nonostante i miei disperati tentativi di essere il primo.
che i ragazzi vedessero le mie lacrime. Di una cosa, però, ero Non caddi, vacillai soltanto. Quando fu lì lì per assestarmene
certo: stavolta aveva perso Janguli. un altro, inclinai la testa indietro, e la sua mano aperta mi
sfrecciò accanto, scrosciando, a un palmo dal naso. Tuttavia,
L’indomani, di prima mattina, mi trovavo presso il cancello l’abbrivo fu così forte che Janguli non riuscì a trattenersi, la
del cortile degli Aleksandrid. Christo Aleksandrid stava bar- forza d’inerzia gli fece fare un piccolo volteggio, e ora mi
dando l’asino vicino a una piccola stalla. Janguli gli dava una stava davanti di lato, con la mandibola sospesa nell’aria esat-
mano. Appena mi vide, lasciò il lavoro e si accostò al cancello. tamente come al primo scontro. E, prima che si rigirasse, gli
«Sei venuto a lamentarti?» mi chiese, e diede un’occhiata sferrai un pugno con tutte le forze che avevo. Janguli cadde
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affondando la faccia nel terriccio. Per un po’ rimase senza da domani ci insultiamo a vicenda, e chi la spunta, il posto
muoversi. Credevo non si rialzasse più, ma balzò in piedi è suo!».
all’improvviso, e si lanciò verso di me a una velocità incre- «D’accordo!» convenni.
dibile. La sua mano aperta e il mio pugno chiuso colpirono i
reciproci bersagli contemporaneamente: io persi l’equilibrio, L’indomani, io e Janguli stavamo di nuovo all’interno del
caddi su un ginocchio e istintivamente mi coprii il volto con cerchio dei ragazzi e ci coprivamo di improperi.
le mani. Una volta tolte le mani e aperti gli occhi, mi accorsi «Gemal, testa d’asino!»
che Janguli stava nella mia stessa posizione genuflessa e si «Janguli, erbivendolo greco!»
puliva il sangue dal labbro spaccato. Mi guardai le mani e mi «Fifone di Tbilisi!»
resi conto che anch’io perdevo sangue dal naso. Mi sforzai ad «Moccioso!»
alzarmi. Fece lo stesso anche Janguli. «Caccoloso!»
Ci siamo osservati a vicenda a lungo. Avvertivo il suo respi- «Pastore d’asino!»
ro pesante e profondo, probabilmente lui avvertiva a sua volta «Ciuchino!»
il mio. Aspettavo di essere attaccato da un momento all’altro. «Cetriolo marinato!»
Eppure la cosa sorprendente era che non avevo più né l’umore «Pesce rombo!»
né la voglia di continuare a menare le mani. Mi sentii pervaso «Ghiozzo!»
da un certo compiacimento interiore. Capii che da quel giorno «Medusa!»
in poi Janguli non mi avrebbe mai più vessato. «Cretino!»
«Basta così!» disse d’un tratto lui, e abbassò le braccia. «Paganini!»
«Basta così!» dissi anch’io, e tirai un sospiro di sollievo. «Pe- D’un tratto, senza neanche accorgermene, mi ritrovai con
rò domani dovremmo scontrarci in presenza dei ragazzi!» mi l’armamentario di parolacce vuoto, e così mi fermai. Janguli
assicurai per ogni evenienza. era in attesa, dato che toccava a me.
«Non c’è bisogno. Dirò io ai ragazzi che sei uno tosto» e «Avanti, sennò hai perso!» Koka mi diede una gomitata.
dopo una breve pausa aggiunse: «Ma il posto di bullo non te «Sono a secco!» gli dissi.
lo posso cedere». «Insulta sua madre!» mi diede manforte.
«Non lo voglio proprio!» gli dissi. «Niente insulti alle madri!»
«Se ti va, puoi essere un secondo bullo!» mi propose l’onore «“Fanculo tua madre” che insulto è?»
del vice. «Non so come si dice in russo!»
«Non lo voglio. Ognuno per la propria strada!» rifiutai di «Diglielo in georgiano, tanto non lo capisce!» Koka non mi
nuovo, mi voltai e mi allontanai. diede tregua, e mi fece commettere uno sbaglio.
«Aspetta!» mi disse. Mi fermai. «Così non può andare, «Fanculo tu e tua madre, Janguli!» dissi in georgiano, e trat-
non possiamo mica fare a botte ogni giorno. Facciamo che tenni il fiato in attesa della risposta.
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«I mana su ine prostiti ghineka, Gemal!» mi rispose Janguli. «Ma se non mi ha insultato!»
Capii che insultava a sua volta mia madre, eppure pronunciava «Ieri mi ha chiesto dove fosse tua madre. Io gli ho detto che
le parole con una tale grazia che erano un’Ave Maria per le mie non c’è più. Ecco perché non ti ha insultato» disse Koka.
orecchie, e così insistei: Rimasi di stucco.
«Fanculo tu e tua madre, Janguli!» «Perché non me l’hai detto ieri stesso, stronzetto?»
«I mana su ine prostiti ghineka, Gemal!» ripeté anche lui come «E che ne sapevo io...» Koka chinò la testa.
una cantilena. «Janguli!» lo richiamai, ma era già lontano e la mia voce non
Questa storia andò avanti per una buona metà dell’anno. lo raggiunse, oppure lo raggiunse e fece finta di nulla.
Poi gli animi si calmarono. Io e Janguli riducemmo i reciproci Da quel giorno lo rivalutai moltissimo. Gli scontri e le inimi-
armamentari di parolacce a un insulto essenziale per ciascuno cizie tra noi finirono una volta per tutte. Tuttavia non diven-
e così, a ogni incontro, con un cenno della mano ci scambiava- tammo mai grandi amici. Incontrandoci, ci salutavamo con
mo a mo’ di saluto il «Fanculo tu e tua madre, Janguli!» e l’«I un cenno della mano e un sorriso, e se capitava che venisse lui
mana su ine prostiti ghineka, Gemal!» invece del padre a portare da noi il latte o il matzoni con il suo
asino, allora facevamo quattro chiacchiere sul prezzo del latte
Era una giornata di sole. Io e Koka stavamo tornando da o del matzoni, oppure su suo padre, sugli erbaggi, sull’asino.
scuola. Una volta arrivati al passaggio a livello, ci imbattemmo Niente di più.
in Janguli che, come sempre, si intratteneva con i ragazzi del
quartiere. Appena mi vide, smise di giocare, e venne verso di Un giorno venne a portarci del latte. Io l’accolsi nel cortile, e
me. Ebbi la premura di non farmi insultare per primo, così quando lo guardai bene, stentai a riconoscerlo: il suo viso era
l’accolsi a metà strada con un bel: «Fanculo tu e tua madre, tutto un gonfiore e aveva gli occhi pesti.
Janguli!». «Che ti è successo?» gli chiesi sorpreso.
Si fermò come incantato e mi guardò negli occhi. Attesi a Era impossibile che fosse stato uno del quartiere a conciarlo
lungo la sua risposta, ma quello non proferì parola. così. Era chiaramente opera di qualcuno più grande di lui.
«Fanculo tu e tua madre, Janguli!» ripetei. «Non è niente!» mi rispose, e distolse gli occhi.
Janguli chinò la testa e si allontanò così, a testa bassa e a pas- «Sei conciato per le feste!» gli dissi.
so lento. Lo seguii con gli occhi, incredulo, avviarsi verso casa. «Fa niente!» disse lui, e sorrise.
«Visto come se l’è svignata? Ha finito di fare il bullo!» dissi «Di’ chi è, e se non riesci a batterlo da solo, vengo con te
a Koka. anch’io!» gli proposi. Scosse la testa in segno di rifiuto. «L’asino
«Altroché finito, è adesso che comincia!» mi rispose Koka e lascialo qui e andiamoci subito!» insistei. Posai il barattolo del
fece un sorriso forzato. latte sui gradini e mi accinsi ad accompagnarlo.
«In che senso?» «Lascia perdere, non possiamo batterlo!» fece un sorriso
«Ti ha battuto, in questo senso.» amaro.
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«Ma come, io e te non possiamo batterlo?» feci lo spaccone. ferrovia...» Janguli esitò un attimo, poi riprese di nuovo: «È
«Né io, né tu, e nemmeno tutta la contrada Venezia...» Mida... Mida, e poi anche tu...». Era la prima volta che Janguli
«E chi sarebbe costui?» domandai perplesso. pronunciava il nome “Mida” in mia presenza. Non gli chiesi
«Mio padre!» disse Janguli. chi fosse, poiché Koka mi aveva già messo al corrente: si trat-
«Tuo padre?» tava della figlia di una greca sposata a un abkhazo. Era la più
«Mio padre, sì.» bella ragazza di Sokhumi, e Janguli ne era innamorato.
«Com’è che ha avuto il cuore di ridurti così?» gli chiesi in- «Adesso ti è chiaro?» mi domandò Janguli e mi guardò negli
credulo, e gli posai la mano sulla guancia tumefatta. occhi. Un brivido mi corse per tutto il corpo. Era la prima volta
«È colpa mia!» in vita mia che sentivo parole simili.
«Che hai combinato?» «Sì, ma allora questo che cosa significa?» gli scostai un lem-
«Fra tre giorni qui a Sokhumi arriva una nave. I greci della bo della camicia e lessi ad alta voce la scritta tatuata in blu:
nostra comunità pensano di fare ritorno in Grecia. E anche mio Hellados.
padre...» Janguli tacque. «Questa è soltanto una parola tatuata, Gemal. La patria è
«E poi?» gli domandai. più a fondo, più addentro...» disse Janguli e si mise una mano
«E poi, niente, io non vado con lui, non voglio partire... Papà sul petto.
dice che quella è la nostra patria, la nostra terra natia, la grande Io mandai giù un nodo alla gola grande quanto un pugno e,
Ellada... Dice che il sangue dei nostri antenati ci chiama, e noi prima che gli potessi rispondere qualcosa, Janguli aveva affer-
abbiamo l’obbligo di tornare...» rato l’asino, gli aveva tirato le redini, ed era uscito dal cortile.
«Allora perché non vai con lui?» gli domandai, sinceramente
sorpreso. Il terzo giorno, di prima mattina, Janguli si fece trovare nel
Janguli rimase in silenzio a lungo, con la testa abbassata, nostro cortile, con il suo asino sprovvisto di finimenti.
lisciando le orecchie a sventola dell’asino. A ogni stiratina della «Papà ha venduto tutto: la mucca, la casa, il cortile, ma nes-
sua mano le orecchie si distendevano docilmente, ma subito suno vuole prendersi l’asino. La vostra gente ritiene che sia
dopo si drizzavano e tornavano a sventolare con una strana una vergogna tenere un asino, eppure è un animale così ama-
ostinazione, come se seguissero la nostra conversazione, inten- bile... laborioso, docile... non posso mica lasciarlo per strada.
ti a non perderne una sola parola. Ma a chi potrei lasciarlo? Noi greci ce ne andiamo tutti... non
«Come ti posso spiegare...» disse infine Janguli «io di mia ci vuole nulla a mantenerlo, gli basta una manciata d’erba...»
madre non ho alcun ricordo, mio padre invece o è all’orto o parlava a singhiozzi, accarezzando l’asino sulla gola e inghiot-
in giro a lavorare tutto il santo giorno. Io sono cresciuto nella tendo le lacrime.
contrada Venezia, per strada... La mia Ellada, la mia patria, «Te ne vai allora?»
è Sokhumi, è la contrada Venezia, è il fiume Čalbaš, è Koka, «Me ne vado. Lo terrai tu, vero?»
Petja, Kurlika, Fema... è il Mar Nero, il mio asino, il ponte della «Lo terrò.»
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«Non lo cacciare via!» armeno e un po’ in georgiano... L’enorme e bianca Poseidone
«Non lo farò, Janguli!» era attraccata con la poppa. Il mare era leggermente agitato
«Di’ a Nina Ivanovna di non cacciarlo via!» e la nave, per come oscillava e ondeggiava la prua, sembrava
«Glielo dirò, Janguli!» anch’essa congedarsi da noi.
«Koka ti darà una mano, non ci vuole niente a prendersene Io, schiacciato contro la ringhiera del molo assieme ad altri
cura...» ragazzi, cercavo con gli occhi Janguli tra i greci sporti dalla
«Niente, Janguli.» prua della nave. D’un tratto lo scorsi. Aveva addosso la solita
«Gli basta una manciata d’erba.» camicia nera di raso, aperta sul petto. Stava davanti al padre,
«Sì, Janguli!» ed ebbi la sensazione che l’uomo lo trattenesse da dietro con
«Si chiama Apollo!» le mani.
«Lo so, Janguli!» «Janguli! Janguli!» mi misi a strillare e ad agitare le braccia.
«Accarezzalo qualche volta!» Lui mi cercò a lungo, molto a lungo, in mezzo alla folla. Alla
«Lo farò, Janguli!» fine mi trovò forse grazie alla mia voce e, appena mi vide,
«Ora vado, la nave salpa stasera!» sollevò in alto entrambe le braccia.
«Vai, Janguli» «Janguli, Janguli, addio!»
«Addio, Gemal!» «Gemal, egho aghapo i mana su!» “Gemal, io amo tua madre!”
«Verrò al porto, Janguli!» mi gridava in greco da lassù, e ancora una volta mi sembrò che
Mi abbracciò, tenendomi a lungo stretto al petto. Poi mi Janguli cantasse. Non resistetti alla sua voce e alla sua vista,
lasciò libero con fare frettoloso e corse via a tutta forza. Cor- diedi le spalle alla nave e m’incamminai piangendo verso casa.
se senza voltarsi, come se sfuggisse a qualcosa di terribile, di
sconvolgente. Il terzo giorno, all’altezza della foce del fiume Kelasuri, il
mare restituì il corpo di un giovane ragazzo. O meglio, furono
Verso sera l’intera Sokhumi si era riversata al porto. C’era i pescatori starovery92 a trascinarlo fuori, e, una volta adagiatolo
anche la banda musicale, canti, danze, un agitare i fazzoletti, sulla sabbia, chiamarono noi, un gruppo di ragazzi che nuo-
c’erano molti fiori, c’erano dei grazie, degli arrivederci, degli tavamo lì vicino, per cercare di identificare il corpo. Il ragazzo
addii, ma ciò che abbondava più di ogni altra cosa erano le aveva il volto sfigurato. Nessuno fu in grado di capire chi fosse.
lacrime. Io soltanto lo riconobbi, appena lessi, sconvolto, incisa in blu
Gli abitanti di Sokhumi si separavano da una parte organica sul suo petto largo la parola Hellados.
del loro corpo, dal sangue del loro sangue: i greci. Questi era-
92
Starovery: [rus. староверы, “vecchi credenti”]: movimento religioso
no già sulla nave, il Poseidone, di un bianco candido come una
russo che nel 1666-1667 si oppose alle scelte della gerarchia ortodossa
nuvola, e da lassù, agitando le braccia, ci gridavano qualcosa, russa, arrivando a separarsene in segno di protesta contro le riforme
un po’ in greco, un po’ in russo, un po’ in abkhazo, un po’ in ecclesiastiche introdotte dal Patriarca Nikon.
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Mi misi a correre a perdifiato, senza voltarmi indietro, lungo Chazarula
la spiaggia, la riva, la ferrovia, la contrada Venezia, e irruppi
in casa come un forsennato... [1981]
«Che ti è preso, ragazzo?» mi domandò la zia, atterrita nel
vedermi così turbato.
«Zia Nina... È tornato Janguli...» le dissi. Poi caddi sulle gi- Quando parlai con l’albero per la prima volta, avevo quattordici
nocchia davanti a lei, le misi la testa sul grembo, e piansi la- anni. Lui era vecchiotto, di circa cinquantacinque, sessant’anni,
crime amare. quasi quanto mia nonna. Era un melo e si chiamava Chazarula.
Ricordo che ai tempi, d’inverno, i suoi frutti la nonna me li
portava a Tbilisi. Arrivava al mattino dalla stazione, sprigio-
nando e profondendo i profumi di campagna, mi abbracciava
stringendomi a sé, e faceva scivolare dentro il mio letto una
mela grande quanto un pugno, fredda, bruttina, tutta raggrin-
zita, e mi diceva: «Questa qui, amore di nonna, è del Chazarula
del tuo giardino, è vero che è aggricciata come la Daphino di
Aslmaskhana, ma presa a stomaco vuoto, non c’è cosa miglio-
re. Mangia, tesoro della nonna...». Era davvero buonissima la
mela del Chazarula del nostro giardino.
Durante la guerra divenni un rifugiato in campagna, e così
ebbi modo di conoscere Chazarula personalmente. Stava so-
pra la cantina, con qualche cavità qua e là, qualche zona di
secchezza incipiente, ma comunque fiero, bello, vigoroso, con
i rami espansi e un’enorme ombra sotto le fronde. Dai suoi
rami penzolavano vari mestoli da vino,93 spazzole per giara,94
93
Nell’originale sono impiegati due termini, კოპე [kope] e ორშიმო
[oršimo], che designano oggetti etnografici appartenenti alla tradizione
vinicola georgiana. Si tratta di recipienti, contenitori, per attingere il vino
dalla giara interrata, fatti dalla buccia-involucro di Lagenaria siceraria,
ovvero zucca da vino (zucca a fiasco), attaccati a un bastone o a un’asta
per essere immersi nel vino. La differenza tra kope e oršimo è che il primo
era diffuso soprattutto in Guria e aveva un’apertura direttamente nel
recipiente, dentro il quale veniva introdotta l’asta.
94
Nell’originale è impiegato il termine ორჩხუში [orčxuši] che designa
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piccole brocche. Eppure, a quanto pareva, era il terzo anno che «E io che dovrei fare? Lo dovrei tagliare?»
non fioriva e dunque non dava più frutti ormai. «Prima gli devi mettere paura. E dopo, se non si ravvede,
All’inizio della primavera del 1942, di prima mattina, mi dovremmo certamente tagliarlo.»
svegliò la nonna. Teneva in mano un’accetta dalla lama affilata E la nonna mi spiegò come avrei dovuto mettere paura a
e luccicante come un rasoio. Chazarula. Poi appoggiò l’accetta al mio cuscino e si diresse
«Che intenzioni hai, nonna?» mi finsi allarmato, e nascosi la verso la porta.
testa sotto la coperta. «E tu credi che mi intenderà?» dissi ridendo.
«Non fare il teatrino, birbone. Alzati e datti da fare, prima «Dovrebbe, se ha un po’ di cervello» mi rispose la nonna.
che ti trascini giù da quell’ottomana per le orecchie» mi rab- «E tu dove vai?»
buffò ben bene la nonna. «Dovrebbe svolgersi a quattr’occhi, la vostra conversazione»
«Che cosa hai da fare, a quest’ora dell’alba, nonna?» prote- mi disse la nonna e si chiuse la porta dietro di sé.
stai. Mi alzai, mi misi l’accetta sulla spalla, salii sopra la cantina
«Ha bisogno di una mano maschile. Non mi teme, non mi e andai da Chazarula che aveva i germogli gonfi fino a scop-
considera più, in quanto donna» disse la nonna corrugando piarne.
la fronte. “Chissà se un albero può davvero intendere un uomo” mi
«Ti riferisci a Hitler, nonna, o al nostro caposquadra?» venne da pensare, e sorrisi.
«Ancora! Che ti ho detto io?» Tenni bene l’accetta e, chiamate a raccolta tutte le forze, feci il
«Mi sto alzando, signora, ma fammi almeno capire di chi movimento di colpirlo, ma mi fermai a metà strada, toccai de-
stiamo parlando!» dissi, e mi misi a vestirmi. licatamente l’attaccatura dell’albero, e, facendo finta di essere
«Parlo di quell’indecente, sfacciato e spudorato Chazarula. indeciso, pronunciai a mo’ di “Essere o non Essere”:
Com’è possibile un tale tradimento in tempi così duri?» mi «Lo taglioooo, o non lo taglio?! Lo taglioooo, o non lo taglio?!
domandò la nonna. Lo taglioooo, o non lo taglio?!»
«Ma parli così di un albero?» mi meravigliai. Poi tornai di nuovo ai miei pensieri e, dopo aver rimuginato
«Esattamente.» e titubato per un bel po’, feci finta di lasciar perdere, pronun-
«Cioè di un melo?» non credevo alle mie orecchie. ciando le seguenti parole a voce così alta da farmi sentire non
«Un melo che non dà le mele, che razza di melo è?» alla mia solo da Chazarula, ma pure dal coperchio di pietra della giara,
domanda la nonna mi rispose con un’altra domanda, e si diede giù in cantina:
lei stessa una risposta: «È legna da ardere, da oggi in poi». «Mannaggia a lui. Gli darò ancora un anno, tanto non scap-
pa, e se insiste a non fiorire, l’anno prossimo lo taglierò fino
anch’esso un oggetto della tradizione vinicola georgiana. Si tratta di una
alle radici!»
specie di “spazzola” fatta di listelli essiccati della corteccia di betulla o ci-
liegio, pressati e legati in un mazzo che veniva poi attaccato alla punta di Insomma, seguii alla lettera le istruzioni della nonna, e die-
un’asta. Diffusa in tutta la Georgia, veniva impiegata per pulire le giare. di un’occhiata a Chazarula dal basso verso l’alto. Rimaneva
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imperterrito, senza battere ciglio, e si faceva abbagliare, espo- Simile a un vecchietto candido, consumato dal lavoro, ag-
nendosi con tutto il corpo, dai raggi di un sole appena sorto. ghindato con una camicia rosa chiaro aperta sul petto, Chaza-
Scoppiai di nuovo a ridere, ma stavolta risi non tanto della rula si ergeva fiero sopra la cantina e ci lanciava uno sguardo
nonna, quanto di me stesso. Attaccai l’accetta su un ceppo ac- di sfida.
canto a Chazarula, e tornai dentro casa. «Cosa ti avevo detto?» disse la nonna.
«Com’è finita?» mi chiese la nonna. «Dio, non farmi impazzire» dissi io.
«Come doveva finire? Gli ho messo una gran fifa. Non lo Chazarula fiorì che era uno spettacolo, attirò le api, fece i
vedi infatti come trema, il poveretto?» le risposi con irriverenza frutti, li fece maturare in abbondanza, che era una meraviglia;
e le indicai l’albero, facendola voltare. E appena ci voltammo sommerse sia noi che i nostri vicini di frutta secca, di arak e di
a guardare, mi misi a ridere: Chazarula tremava davvero con confettura. E dal momento che il nostro bestiame si consumò
tutto il corpo... i denti a furia di masticare le mele di Chazarula, cominciam-
Nel villaggio aveva fatto una capatina la tramontana. mo ogni giorno a portarle a secchiate alla mucca di Teofane
Dugladze.
La primavera era sbocciata, e, salendo dalla valle di Guba- «Lasciala in pace, ragazzo, ’sta mucca. Non le darai tregua
zouli, onorò anche il nostro cortile. A piedi nudi e con il vestito finché non farà il kompot di mele?» si mostrò infastidito, Teo-
sollevato come una passeggiatrice, andò avanti e indietro sul fane, un giorno.
nostro prato di loglio rigoglioso, e fece uscire di senno tutti, «Che combini, Chazarula? Vuoi fare uscire di testa tutto il
dai volatili alle bestie alle piante. Tutto esplose. paese?» chiesi a Chazarula, alle porte dell’inverno, quando feci
Fiorirono il mandorlo, l’amolo, il susino, il melo cinerino,95 il cadere con il bastone l’ultima mela rimasta in cima, spizzicata
pesco, il pero, fiorì persino l’arbusto di aluča...96 e nel frattempo dal merlo e dalla tordella.
Chazarula stava lì fermo, e, come un uomo in dormiveglia, «Se sei un albero, ti chiami melo e fai i frutti: è questo il
sbatteva le ciglia, e nient’altro, senza che nessuno indovinasse miglior modo di esserlo!» mi rispose Chazarula e fece scric-
le sue intenzioni. chiolare le vecchie giunture.
Un giorno, di prima mattina, la nonna venne a svegliarmi Quello è stato l’ultimo anno della fioritura di Chazarula.
ancora una volta, e mi indicò Chazarula. In seguito le tentai tutte per mettergli paura, lo supplicai, lo
«Guarda, figliolo!» implorai, ma niente, Chazarula aveva finito, aveva smesso di
essere Chazarula.
95
Georg. ნაცარა ვაშლი [nats’ara vašli]: letteralmente “mela cineri- A distanza di due anni, mentre attingevamo il vino dalla
na”. Tipo di mela di origine inglese (Parker’s Peppin), molto diffusa nella giara, la nonna levò gli occhi al cielo, poi li spostò su Cha-
Georgia occidentale (soprattutto in Guria, Samegrelo, Abkhazia e Ačara).
zarula, scosse la testa con disappunto e disse quelle parole
96
Georg. ალუჩა [aluča], ovvero Prunus vachuschtii, specie di prugna
originaria del Caucaso. La salsa che vi si ricava è uno dei contorni più come se stesse parlando non tanto con me, quanto con uno
apprezzati della cucina georgiana. sconosciuto:
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«Stanotte nevicherà. Siamo a corto di legna, moriremo di gazzo da maledirlo così?!» domandò alla nonna Anania Sa-
freddo. Chazarula dovrà essere tagliato». lukvadze, che passava per caso nel sentiero tra gli steccati ed
«Diamogli tempo anche quest’anno, nonna, e lo tagliamo era entrato da noi.
l’anno prossimo. Io provo a mettergli paura ancora una volta» «Come non maledirlo, signor Anania. Ecco, l’anno scorso
le proposi. gli ho fatto mettere paura a quell’infruttifero Chazarula, ora lo
«È finita, figliolo. Come non riusciresti a mettere paura a me, supplico di tagliarlo e si rifiuta, dice che quello intende tutto»
così a lui» la nonna scosse la testa dispiaciuta. lo informò la nonna e gli porse un bicchiere traboccante di un
«Allora sappi che io non potrò tagliarlo» opposi un netto limpido Adessa.
rifiuto. «Buongiorno e Dio la benedica, signora Darejan, assieme alla
«Come sarebbe a dire che non potrai tagliarlo? È tua nonna sua progenie!» Anania Salukvadze fece il brindisi e sorseggiò
che te lo dice, o un cane?» si offese la nonna. il vino con un tale gusto da farmi venire l’acquolina in bocca,
«La nonna, certo, ma non potrò comunque» m’incaponii. come se non stessi già presso la giara scoperchiata.
«Per quale motivo?» si meravigliò la nonna. «Dunque, ci intenderebbe, eh?» chiese Anania, e si pulì con
«Ma non sei stata tu a dirmi che l’albero capisce ogni parola la mano il labbro superiore tinto di rosso.
detta da noi?» le rammentai. «Non solo ci intenderebbe, Anania mio, ma è arrivato a dire
«Ma no, amore di nonna, non devi badare troppo alle ciance che ci vedrebbe pure» spiattellò la nonna, «ma non posso in-
di una vecchia grulla. È già così difficile che si intendano gli colpare lui, sono stata io a farlo uscire di senno e dovrei essere
uomini tra di loro, figuriamoci un albero. Ma non lo vedi che io a mettermi la testa nel cappio.»
sul fronte gli uomini si divorano vivi l’un l’altro? Ho scherzato, «Non è che il ragazzo ha bevuto questo vino, stamattina?»
quella volta, figliolo, ci hai creduto?» la nonna provò a farmi domandò Anania Salukvadze.
cambiare idea. «Sì, uno o due bicchieri!» alla nonna tornò la speranza.
«Non posso tagliarlo in ogni caso. E poi, secondo me, quello «Allora, se mi dà un altro bicchiere, signora Darejan, le dirò
lì non solo è in grado di intenderci, ma pure di vederci. Guarda, per certo chi dei due fu a farlo uscire di senno, se lei o il vino»
visto come ha distolto lo sguardo da noi?» dissi alla nonna e le sorrise l’uomo.
le indicai Chazarula. La nonna gli riempì di nuovo il bicchiere. Anania lo tracann-
«Mamma mia, mamma mia, che cosa tocca udire alle mie nò senza fiatare, e fece una lunghissima pausa.
orecchie!» la nonna recitò come in un lamento funebre, tor- «Io credo, signora Darejan, che siete stati entrambi, sia lei
mentandosi le guance. «Ma non è colpa tua, sono stata io a che il vino, a farlo uscire di senno, ma per pervenire a una
farti perdere la ragione, e dovrò essere io a rimediare. Vicini, conclusione più convincente, avrei bisogno di un altro bicchie-
aiutatemi, venite a legare questo matto disgraziato!» la nonna re di vino». La nonna glielo diede, ma fossi stato io al posto
indirizzò il lamento verso il villaggio. di Anania, ci avrei pensato due volte, tanto fulminante fu lo
«Che succede, donna Kalandadze, che le ha fatto quel ra- sguardo della nonna. Anania lo tracannò ancora senza fiatare,
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ma stavolta non stette a pensarci troppo, passando direttamen- «Perché non tagli l’albero?» mi chiese a sua volta Anania.
te all’esposto: «Mi fa pena.»
«È stato sicuramente il vino, signora Darejan, ma adesso «Un albero, ti fa pena un albero, ragazzo? Ma se i tuoi coe-
glielo farò ritrovare io, il senno, a questo ragazzo» e Anania si tanei strisciano sotto i carri armati, in Russia!»
rivolse a me: «Dunque, tu affermi che l’albero ci vedrebbe?». «Povero il nostro Stato, se intende mettere in ginocchio la
«Esatto!» confermai. Germania con l’aiuto di pivellini come lui» la nonna aveva
«E una pietra?» preso a cuore la sorte dello Stato.
«Anche una pietra.» «Non lo dica neanche per scherzo, signora Darejan!» eslamò
«E il fiume?» contrariato Anania.
«Anche il fiume!» «Ma come non dirlo? Non riesco a fargli ammazzare una
«Benissimo, ragazzo. Però, signora Darejan, non si può dire gallina, né un capretto, e non riesco a fargli tagliare un albero,
che non sia interessante: ammettiamo che lei è Chazarula, e, ché dice che gli fa pena. E il maiale che avrebbe dovuto macel-
secondo le ciance di questo ragazzo, ci vede e ci sente, e d’un lare l’anno scorso per Natale, l’abbiamo trovato per mircaolo
tratto si accorge che arriva un uomo, un omaccione come me quest’anno a Intabueti, e il coltello ce l’aveva ancora conficcato
per esempio, con un’accetta sulla spalla, e vuole tagliarla. Lei nella gola... È così che si fa?» gli domandò la nonna.
vede che questo qui vuole tagliarla, vede tutto, ma non può «È la verità, ragazzo?» mi chiese Anania.
scappare, non può andare da nessuna parte. Non c’è da impaz- «È la verità, zio Anania» confermai «ma le tue prediche sono
zire, eh, signora Darejan?» domandò alla nonna, e ancora una inutili, tanto il Chazarula non lo taglio!»
volta le porse il bicchiere da riempire di vino. La nonna non «Ti farebbe pena, dunque?»
ebbe alcuna fretta di farlo. «E versamelo, donna, ché il bello «Non me la dovrebbe fare?» gli domandai a mia volta.
arriva adesso!» Anania esortò la nonna. Lei glielo riempì. «E va bene, ti fa pena, accidenti a te. Mi dia un altro bicchie-
«Ragazzo, è vero che sei uno di città, ma ormai è ora che tu re, signora Darejan, e vedrà se domattina questo Chazarula
abbracci la filosofia del contadino. Tre sono le cose che un con- non lo trova bell’e sistemato. Raderò al suolo tutto ’sto spiazzo
tadino non può tenere in casa: una bestia infeconda, un albero con le mie mani. Ora non ne ho le forze.»
infruttifero e una donna...» Anania esitò e guardò la nonna. La nonna gli riempì di nuovo il bicchiere. Anania lo tracannò.
«Che ha da guardare, Anania, concluda ciò che dice. Se non «Signora Darejan, non è che avrebbe qualche antipasto da
avessi avuto dei figli, questo nipote qua come me lo sarei pro- spizzicare?» chiese, come per caso, Anania.
curata?» rise la nonna. «Sì, una cosa l’avrei, signor Anania. Un palo!» gli disse la
«Giusto... e una donna sterile, dunque... ma non è il caso nonna.
di tua nonna Darejan, che ha avuto sette figli. Ecco, è così che Anania uscì dal cortile senza fiatare, e seguì la strada in salita.
stanno le cose.» «Non stava scendendo poc’anzi, signor Anania, ora com’è
«Che vuoi da me, zio Anania?» gli chiesi. che sta risalendo?» gli rammentò la nonna.
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«Avevo un lavoro da fare laggiù, signora Darejan, ma che pare era sepolto come un tesoro, per più di sessant’anni, nel
frutti tanto bene la vigna del direttore del kolchoz quanto bene cuore delle sue radici, e lui, ignaro, continuava premuroso a
io potrei fare quel lavoro, nelle condizioni in cui sono adesso!» tesservi attorno quel reticolo vitale... e con altrettanta premura
Anania fece un gesto di rinunciarci con la mano. vi faceva da guardiano. Il liquido rosso sgorgava senza arre-
«Allora, signor Anania, mi faccia il favore di appoggiarsi starsi dalla giara spaccata... e Chazarula prosciugava la giara,
alla staccionata di Šakro, ché la mia sta in piedi per miracolo» imbevendosi senza fine di quello strano liquido rosso come
gli chiese la nonna. Anania si spostò subito dall’altro lato del uno che è terribilmente assetato, e riempiendosi pian piano di
viottolo, e si appese alla staccionata di Šakro Mikaberidze. Si calore, allegria, di un brivido piacevole mai provato prima, con
voltò indietro ancora una volta. passione e trasporto... Chazarula si ubriacò, e all’improvviso
«Ragazzo!» mi chiamò. «Dunque, dici che ci vede, il tuo il mondo gli si schiarì.
Chazarula? Baggianate! Se non ci vedo neanche io, altro che il Prima, quand’era giovane, Chazarula si chiedeva meravi-
tuo Chazarula!» ridacchiò Anania, e proseguì la strada a passo gliato come fosse possibile che gli esseri umani esistessero
vacillante tra una staccionata e l’altra. senza avere le radici affondate nella terra, che si muovessero
attorno a lui e in generale, ma infine se ne fece una ragione
Il ragazzo aveva ragione. Vedeva tutto e sentiva tutto, e smise del tutto di pensare a questo fenomeno per lui tanto
quell’albero acquattato e spoglio. Viaggiò nei pensieri fino a inspiegabile e incomprensibile, poiché non credeva ci fosse al
mezzanotte, dopodiché Chazarula ebbe una stretta al cuore, mondo qualcosa o qualcuno in grado di spiegarglielo. Ma quel
e tirò a sé le radici... e la giara, avvolta dal reticolo di quelle giorno era avvenuto un miracolo. La giara si svuotò, Chazarula
radici, si mosse leggermente. Chazarula l’avvertì e stavolta ti- ne assorbì l’ultima goccia e, all’improvviso, comprese il segreto
rò ancora più forte... la giara si scrostò in più punti, ma senza dell’uomo e di questo straordinario liquido... Chazarula non
subire alcun danno all’interno. A quel punto Chazarula strin- si meravigliava più del perché gli umani si baciassero, pian-
se a sé il reticolo delle radici ancora una volta, e sulla giara gessero tenendo le coppe, perché si rincorressero, litigassero,
comparve la prima crepa. Il liquido rosso si riversò dalla giara ridessero, cantassero con le braccia l’uno sulla spalla dell’altro,
lentamente, finendo sulle porosità delle radici di Chazarula. perché danzassero attorno a lui, perché pulissero con tanta
L’albero l’assaggiò con cautela e s’imbevé di quel liquido rosso. premura le giare e vi versassero dentro con tanta cura quel
Un brivido anomalo gli corse per tutto il corpo... Chazarula liquido miracoloso. Chazarula comprese tutto questo, e venne
sussultò una volta, ma pian piano quel brivido si trasformò voglia anche a lui di cantare, correre, abbracciarsi, baciarsi,
in un piacere inspiegabile, così l’albero tentò di trarre a sé la piangere e danzare, ma che poteva fare, Chazarula, essendo un
giara con più foga. Quest’ultima si spaccò in più punti e il albero e non un uomo, se non quello di cui era capace. Perciò
liquido rosso zampillò sulle radici dell’albero come una piog- si dondolò e rintronò fino al mattino... E al mattino, Chazarula
gia vivificante in un’estate siccitosa. E Chazarula si buttò con avvertì un colpo sordo a un fianco, che però non gli fece male,
avidità sul liquido rosso, su quel miracolo rosso, che a quanto proprio alcun male, per cui non gli prestò molta attenzione,
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dopodiché un colpo simile l’avvertì anche all’altro fianco, ma targo, e il liquido negli alberi si accumula a febbraio» disse la
Chazarula non vi badò neanche stavolta. Questi colpi dura- nonna, e toccò con la mano il liquido rosso stillato dalla pianta,
rono per almeno un’ora, e, infine, Chazarula sentì una spinta se la portò al viso, l’annusò e mi guardò atterrita. «Scoperchia
da sinistra a destra, una spinta forte, poi uno scricchiolio, uno la giara!» mi ordinò. Io tolsi subito il coperchio, e guardammo
scricchiolio continuo, e, se all’inizio si inclinò lentamente, tutt’a contemporaneamente dentro il recipiente. Era vuota...
un tratto cadde a corpo morto sulla terra. E ora Chazarula sentì «Giara della Resurrezione nei Cieli, Madre del Salvatore,
lo stridere delle proprie braccia, delle proprie spalle e giuntu- Specchio della Verità, Santa Maria, aiutaci Tu a non smarrire la
re, benché neanche stavolta avvertisse un dolore particolare. ragione» pronunciò la nonna con voce tremante, levò entrambe
Chiuse soltanto gli occhi, e cadde in un sonno dolce, molto le braccia al cielo e cadde lentamente sulle ginocchia.
dolce e profondo.
Chazarula fu scosso da un brivido freddo e aprì gli occhi. Ve-
«Alzati, figliolo, Anania pare abbia tagliato Chazarula, sta- dendolo da quella posizione inconsueta, il mondo gli sembrò
mattina!» mi svegliò all’alba la nonna. «Ecco, prendi questa rovesciato su un lato, e se ne meravigliò. All’inizio se lo spiegò
accetta e stralcia almeno i rami» mi disse e se ne andò in cucina. con l’effetto di quel liquido rosso, ma in seguito, quando scorse
La nonna non si era sbagliata: era caduta la neve, nottetem- quel ragazzo seduto tutto abbacchiato sul suo stesso ceppo con
po, e il villaggio era così bello da sembrare una sposa velata di il mento poggiato sul manico dell’accetta, e poi, presso la giara
bianco pronta per l’altare. Soltanto nel nostro cortile aleggiava scoperchiata, scorse anche quella vecchietta vestita di nero,
un’aria di lutto. Sopra la cantina giaceva come un morto l’e- inginocchiata nella neve candida, con le braccia levate al cielo,
norme tronco appena tagliato, fracassato e dai rami spezzati, capì di non essere più vivo. E Chazarula chiuse di nuovo gli
di Chazarula. Salii in cantina controvoglia. E prima che mi occhi. Per sempre, stavolta.
mettessi a sfrondare ciò che rimaneva dell’albero, mi sedetti
sul suo ceppo, e rimasi di stucco. Dal suo midollo fuoriusciva
un liquido rosso, color sangue.
«Nonna!» la chiamai turbato.
«Che c’è?» mi lanciò un’occhiata da sotto.
«Sali un attimo.»
«Che è successo?»
«Sali e vedrai tu stessa.»
La nonna salì.
«Cos’è questo?» mi chiese sorpresa.
«Il sangue dell’albero, forse» risposi sgomento.
«È impossibile, siamo a gennaio e tutte le piante sono in le-
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L’ingrato
[1973]
Guduli andò sul retro della casa e, prima che chiudesse la Guduli sedeva a un tavolo basso e teneva in mano una cop-
porta del pollaio dietro alle galline accoccolate, tirò la cresta al petta piena di vino. La luce sprigionata dalla lampada a pe-
gallo Longino. Quest’ultimo mosse gli occhi grandi quanto le trolio attaccata a un piedritto della balconata gli si riversava
monete da cinque copeche e agitò la cresta. sulla testa come un’aureola. I rivoletti di lacrime stillati dai
«Domani fai il tuo canto all’ora che desideri, signor Longino. suoi occhi gli si ricongiungevano sotto il mento e si versava-
E ora stammi bene. Ti sono grato, molto grato» no a mo’ di libagione sulla pagnotta cotta nella cenere e sulla
«Per cosa?» si meravigliò il gallo Longino. mezza mungitura di formaggio posati sopra il tavolo. Stava
«Anche solo per avermi svegliato ogni santo giorno.» piangendo, Guduli Berežiani.
«È stato un piacere!» gli disse Longino, e si mise a dormire. 101
Zedaše [georg. ზედაშე]: nella tradizione vinicola e religiosa ge-
«Grazie mille, signor Longino, grazie infinite!» orgina, vino consacrato che si faceva fermentare in un’apposita giara,
impiegando il vitigno più pregiato.
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Un’ora prima Guduli si era fatto il giro di tutta la proprietà. proprio valore. Gli disse semplicemente, prima di chiudere gli
Aveva visto che l’aratro era consumato, l’accetta era ridotta alla occhi: «È stato un piacere».
sola testa, il falcetto, dimezzato, la vanga, consumata come una “Gloria a te, natura! Che sollievo sapere che tutto questo
saponetta. Guduli si teneva accanto, sopra il tavolo, un coltello rimane nel mondo e non muore assieme all’uomo” pensò Gu-
da carovaniere, sottile e traslucido come la carta. Povero Gudu- duli tra sé e sé.
li, si è consumato persino il ferro, si è consumato, e figuriamoci E poi Guduli passò a benedire il proprio cuore, la propria
cosa succede all’uomo. mano destra, gli occhi, le orecchie e la mente.
Poteva giurare sulla bontà di quel vino, Guduli, che non era «Vi sono grato, signori miei, molto grato.»
per la vita che si dispiaceva, ma per il tempo, speso a pensare «Per cosa?» gli chiese il cuore, sorpreso.
alla morte. Guduli sapeva di non essere malato, di non avere «Come per cosa?» si meravigliò a sua volta Guduli. «Il fatto
disturbi particolari, semplicemente era finito, Guduli, nient’al- che per cent’anni non sono diventato orbo, non ho perso l’udi-
tro. Si era consumato come quell’aratro, si era ridotto alla sola to, il braccio non mi si è fermato, la mente non mi si è anneb-
testa come l’accetta, si era dimezzato come il falcetto, si era biata, e tu non ti sei arrestato neanche una volta, ti pare poco?»
consumato come la vanga, diventato sottile e traslucido come «È stato un piacere, Guduli, un vero piacere!» gli disse il
quel coltello da carovaniere. cuore, allo stremo delle forze, e si apprestò a riposare.
Guduli quel giorno si era congedato con ogni cosa: con il «Molte grazie, signore mio, infinite grazie!»
cielo e la terra, con la casa e il cortile, con ogni colore e raggio,
con l’albero e l’erba, con il cane e il porco, con tutto. Il tempo A Guduli venne in mente di andare a salutare quel ragaz-
più lungo l’impiegò per salutare il pero, suo coetaneo. zino e sua madre. Avrebbe voluto chiamarla, ma non si ricor-
«Addio, signore mio!» disse Guduli al pero, e lo sfiorò con dava più il nome della donna. “Dio, fammi venire in mente il
la mano. «Sei quello più perfetto e il più benfatto tra di noi, nome della madre di quel bambino! E il bambino com’è che
albero! Hai la radice affondata nel cuore della terra, sulle si chiama? Dio, non fare questo a Guduli Berežiani, non gli
spalle ti si adagia il cielo. Ti ho picchettato cento volte, e annebbiare la mente e la coscienza, rammentagli il nome di
altrettante volte sei germogliato. Hai riparato sotto la tua quel ragazzino...”
ombra tre genezioni della mia discendenza e chissà quan- Era impietoso, Dio, non rammentò a Guduli né il nome del
te altre ne riparerai ancora. Da quanti anni è che dai i tuoi ragazzino, né quello della madre.
frutti, e finora non ti sei fatto attaccare da un solo verme. Allora il vecchio si drizzò in piedi, si aprì tutti i bottoni sul
Fai da dimora e da tempio a una buona metà dei volatili e petto, e si accostò alla balaustra della balconata.
degli uccelli canterini del nostro villaggio. Sei la frescura, il «Ehi, tu, vicina!» chiamò.
polmone e il cuore della mia casa. Te ne sono grato, signore «Che cosa c’è, signor Guduli?»
mio, enormemente grato». «Chi sei tu?»
Il pero non gli chiese il perché, poiché conosceva bene il «Sono io, Ksenia, signor Guduli, non mi riconosce?»
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“Ksenia, Ksenia, Ksenia, è il nome della benedetta donna.” «In effetti, è stata una cosa inaspettata...» riuscii a proferire
«Il bambino è in casa?» qualche parola.
«Intende Uča, signore?» «Altro che inaspettata, una cosa inaudita, signore. Con che
“Uča, Uča, che felicità! Si chiama Uča, quel birbone, Uča!” faccia torno ora a Tbilisi? Come posso spiegare un’enormità
«Ksenia, ora a casa mia sta per succedere qualcosa, e bada a del genere? Si è impuntato a non voler vivere con noi, dicendo
che il ragazzo non si impressioni.» che non poteva abbandonare la tomba della mamma. E poi, la
«Ma che dice, signor Guduli?!» mucca qua, la gallina là... pare fossero chissà cosa una mucca
«Ti scongiuro, non far venire qui il ragazzo, e non consen- pelle e ossa, un gallo spennacchiato, e una casa che cadeva a
tirgli di vedermi finché non arrivano gli uomini del paese.» pezzi... L’anno scorso si è addirittura permesso di dirmi, signo-
«Che intenzioni ha, signor Guduli? Ha voglia di scherzare re mio, che non avrebbe potuto abbandonare Uča.»
per caso? Eppure non l’ha mai fatto finora!» «Ma chi sarebbe questo Uča?» m’informai per educazione.
«Addio, Ksenia. Dio mi è testimone che voglio bene a ognu- «E che ne so... il figlio della vicina. È stato abbandonato per-
no di voi, e che sono grato, infinitamente grato a tutti.» sino dal padre prima ancora di nascere, e lui che si ergeva a
«Ma signor Guduli!» suo paladino... E, in fin dei conti, chi è ’sto Uča Melimonadze?
Guduli tornò dentro casa e si chiuse la porta alle spalle. Ne ho otto di Uča come lui a casa...»
«Guduli, signor Guduli...» «Certo, è un quadro complesso!» convenni, e feci per an-
Echeggiò un colpo di fucile nel cortile dei Berežiani. Il rim- darmene.
bombo fu così forte che tutti i vetri delle finestre del villaggio «Gli fosse mancato qualcosa» Dimitri non mi volle mollare,
si misero a tintinnare. «quest’estate mia moglie gli ha comprato della biancheria in-
vernale a Parigi, i vestiti, gli indumenti non gli mancavano...
Arrivarono da ogni parte a dare l’ultimo saluto a Guduli Chi ha mai avuto l’onore, in questo villaggio, di una simile
Berežiani. Non mancavano i familiari in lutto, tuttavia nessuno sepoltura? La verità è che fu sempre un ingrato, e finì i suoi
versava lacrime particolarmente copiose. Non solo, suo figlio giorni così, da vero ingrato.»
maggiore, Dimitri, invece di stare nelle vicinanze della bara, «Non so come consolarla, signor Dimitri!» mi avvilii.
era fermo sotto il pero a braccia conserte come un Napoleone «Nossignore, nessuno mi può consolare, ma le sono comun-
angustiato per la Waterloo, e ricevava così i partecipanti al que grato perché si è disturbato a venire.»
lutto. «Ma si figuri! Arrivederci!»
«Sono partecipe del vostro profondo dolore, signor Dimitri!» «Ma dove va, favorisca al banchetto funebre, ci onori fino
gli feci le mie condoglianze, tendendogli la mano. alla fine. Mituša, pensaci tu all’ospite.» Dimitri mi mise nelle
«Non può capirlo, signor Nodar, non può capirlo, ci ha sver- mani dell’addetto al vino102 già ubriaco.
gognati tutti, quell’ingrato. Un turco infedele non avrebbe trat-
tato un cristiano come lui ha trattato noi figli.» 102
Georg. მერიქიფე [meriqife]: chi serve il vino a una tavolata georgiana.
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Il signor Dimitri parlava ad alta voce, poiché il funerale si Indice
svolgeva con il sottofondo – a dire il vero a un volume un
tantino alto – del Requiem di Mozart, le cui note si riversavano
da un apparecchio radio appeso all’albero del pero, rendendo
difficile, alla gente che veniva a dare l’estremo saluto a Guduli
Berežiani, scambiare due parole.
Il sole
Finalmente riuscii a liberarmi da quell’ubriaco di Mituša e
5 Il cane
sgattaiolai al cancello senza farmi notare. Nei pressi del can-
cello, seduto a terra ai piedi della staccionata, scorsi un ragaz- 29 Gli zingari
zino dai capelli rossi di circa sette anni. Teneva la testa tra le 43 La corrida
ginocchia e piangeva amaramente.
«Come ti chiami, ragazzino?» gli chiesi, e gli accarezzai la 53 Il sole
testa. 73 Non svegliare
«Mi chiamo Uča, io, Melimonadze!» mi guardò dal basso
99 Diderot
verso l’alto. Poi affondò di nuovo il visino lentigginoso tra le
ginocchia e continuò a piangere. 119 Astvats! Inču hamar!
«Cresci sano e forte, ragazzo!» lo benedii e uscii dal cancello. 141 Il sangue
Quando mi voltai indietro, notai che in quel momento Dimitri
155 Hellados
stava parlando con qualche altro malcapitato. Tuttavia, a causa
dell’apparecchio radio che riproduceva il Requiem di Mozart 181 Chazarula
a un volume un tantino alto, non riuscii a cogliere una sola 195 L’ingrato
parola di quello che diceva.
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Contemporanea