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Contemporanea

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Narrativa
Il sole
Nodar Dumbadze

Il sole
undici novelle

traduzione di Rusudan (Ruska) Jorjoliani


Book printed with the subvention given by Il cane
Writers’ House of Georgia

[1973]

Questa storia ebbe il suo inizio nell’agosto del 1941 e la sua


fine dopo due anni esatti. Erano passati solo due mesi dallo
scoppio della guerra, quando nella sua gelida morsa strinse
in co-operation with anche il nostro villaggio. Si dà il caso che il contadino abituato
the Nodar Dumbadze Foundation alla vita senza stenti, lì per lì, non fu in grado di valutare la
portata del disastro che aveva investito il Paese, non riuscì a
rinunciare agli agi, e già in agosto furono in molti a ritrovarsi
con il granaio, la giara e la cassetta dei risparmi vuoti. Perlo-
meno, è così che andò per la nostra famiglia.
Mio nonno Spiridon, sfinito dalla gotta, sedeva davanti al
camino dalla mattina alla sera a scaldarsi le vecchie ossa, ed
era su di me che ricadeva tutto il peso delle faccende familiari.
Anche soltanto la fatica di trascinare dal bosco legna e rametti
secchi, per evitare che il nonno si ritrovasse senza fuoco, era
estenuante.
Già il 25 agosto del 1941 avevamo esaurito tutto. Il nonno
mi fece tirare fuori dalla credenza una damigiana da dieci litri,
tappata con il cartoccio di granturco, piena dell’acquavite che
gli aveva consumato il fegato, e mi disse:
«Questa qui la metti nella gerla, te la porti al mercato di
Čokhatauri e la baratti per un pud1 di granturco. Se qualcuno si
Prima edizione: novembre 2021 azzarda a offrirtene meno, dagliela in testa e tornatene a casa.
Solo io so quanto vale, è di gelso, distillata a ottanta gradi.»
Proprietà letteraria riservata
© 2021 La Vita Felice - Milano 1
Pud [in georgiano: ფუთი, in russo: пуд]: antica unità di misura russa
isbn 978-88-9346- pari a 40 libbre, ossia 18,14 kg. È stata abolita nel 1924 dall’Unione
www.lavitafelice.it Sovietica insieme ad altre unità di misura obsolete russe. Per un certo
info@lavitafelice.it periodo il termine è rimasto comunque in uso.
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Dopodiché diede un ultimo sguardo triste alla damigiana, «Due con la pasta e una con le patate, tutte e tre le porzioni
sospirò, e mi fece segno con la mano: «Vai, vai». servite a parte.»
Al mercato mi imbattei in un tale intenditore di acquavite «E quante limonate?»5
che altro che dargli la damigiana in testa: senza fare storie mi «Tre» risposi io e iniziai già a slacciarmi la cintura.
riempì il sacco di un pud di granella di mais giallo. Ogni chicco Da come l’oste mi fissò ebbi la sensazione che stesse per
era grande quanto un’unghia, per mancia mi infilò in tasca tre domandarmi ancora se ero un po’ ritardato, ma ci ripensò.
tuman,2 mi diede un buffetto sulla guancia e un appuntamento Quando mi ebbe portato tutto, mi chiese con tono carezzevole:
per la settimana successiva nello stesso posto. «E quei tre tuman che mi hai fatto vedere poc’anzi dove sono
A quel punto socchiusi la porta della tavola calda che si tro- finiti?»
vava di fronte alla piazza del mercato, e mi presentai al ban- «Li ho qui!» gli risposi con sicurezza, e tirai fuori dalla tasca
cone con la gerla in spalla. la banconota rossa da tre tuman. L’oste la prese, la esaminò
«Polpette3 ne ha?» domandai all’oste. alla luce, e poi, scostato il grembiulone sudicio sotto il quale
«Soldi ne hai?» mi domandò quello. ne portava un altro ancora più sudicio, l’infilò nel pettino di
«Sì!» quest’ultimo. «Siamo a posto» mi sorrise, e si allontanò.
«Quanti?» Nel locale s’intrufolò un cane basso, lungo e nero, dai fianchi
«Tre tuman.» scavati. Andò su e giù davanti a me, guardandomi di sottecchi.
«Fa’ vedere!» Vedendo che non lo cacciavo via, si avvicinò. Non ebbi il cuore
Glieli mostrai. di dargli la polpetta, ma gli lanciai un po’ di pasta. L’acchiap-
«Allora, siedi, dai, te le porto io.» pò al volo e l’inghiottì all’istante. Allora prese coraggio, mi si
«Tre porzioni!» gli dissi, e posai la gerla a terra. accucciò davanti scodinzolando e inghiottendo la saliva. Gli
«Di’ un po’, giovane... non sarai mica un ritardato?» mi do- lanciai un altro po’ di pasta e lui di nuovo l’afferrò al volo.
mandò l’oste senza mezzi termini. Poi, quando non gli diedi più corda, abbaiò per attirare la mia
«Ho fame!» esclamai. attenzione.
«Cosa vuoi come contorno? Patate o pastasciutta?»4 «Vattene fuori, bestiaccia, ti andasse a fuoco il pelo!» s’in-
furiò l’oste.
2
Tuman: unità monetaria nelle regioni asiatiche, successivamente an-
«Come si chiama?» gli chiesi.
che dell’impero zarista e dell’Urss. Equivaleva a 10 manet (rubli).
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Abbiamo tradotto con la parola “polpetta” il termine che, nella tra- «E che ne so... che il suo padrone sia dannato!»
dizione culinaria russa [in russo: котле́та, in georgiano: კატლეტი, dal
francese côtelette], diffuso in tutta l’Unione Sovietica, indica la carne მაკარონი, in russo: макароны] che nell’area dall’ex Urss designa gene-
tritata e condita, dalla forma rotonda e schiacciata, fritta nell’olio. Di ricamente qualsiasi tipo di pasta.
dimensioni maggiori rispetto alla classica polpetta, viene solitamente 5
Limonata [in georgiano: ლიმონათი, in russo: лимонад]: termine ge-
servita con un contorno di purè di patate, di pasta o di grano saraceno. nerico per indicare, in Georgia e in altre zone dell’Urss, una bevanda
4
Nell’originale è impiegato il termine “maccheroni” [in georgiano: analcolica, dolce e gassata, dal gusto di qualche frutta o pianta locale.
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«E il padrone chi è?» Accucciato sotto il ponte, il cane si copriva il muso ustionato
«Non lo so... Accidenti al suo padrone! Vattene fuori, cane!» con le zampe anteriori; bagnato fradicio, ogni tanto singhioz-
l’oste lo minacciò con un coltello. zava e mandava guaiti strazianti. Provai ad avvicinarlo, ma
Il cane, la coda tra le zampe, sgattaiolò fuori. mi ringhiò contro. L’osservai meglio: era ustionata anche la
Io finii di mangiare, mi rimisi la gerla in spalla e mi avviai zampa destra.
verso l’uscita. Mi resi conto di avere esagerato con il cibo. Fa- «Lasciami avvicinare» gli dissi.
cevo fatica a respirare. «Cosa mi avete fatto?» mi piagnucolò uggiolando.
«Non mi spetta nulla di resto?» provai a chiedere. Mi accucciai davanti a lui. Lui rimase immobile, in attesa.
«Vuoi qualcos’altro?» ribatté l’oste. Dall’occhio sinistro, non colpito, gli scorrevano le lacrime.
«Proprio niente niente?» tentai la sorte. “Che devo fare ora con lui?” pensai. Poi mi sfilai la camicia,
«Povero chi ti dà da mangiare!» compatì mio nonno. la strappai in due, e l’immersi nell’acqua. Appena cominciai
Mentre stavo uscendo, scorsi con la coda dell’occhio il cane a bendargli l’occhio, si mise di nuovo a lacrimare. Quando
intrufolarsi di nuovo nella tavola calda. M’incamminai verso gli bendai anche la zampa, mi leccò la mano. Allora non ce la
il villaggio. Non avevo fatto più di dieci passi che mi giunse feci più: mi sedetti sulla ghiaia e scoppiai a piangere anch’io.
all’orecchio un indescrivibile guaito. D’un tratto il cane, come Un cane capisce sempre il motivo dell’afflizione dell’uomo. Si
impazzito, mi sfrecciò accanto con fragore, si buttò nell’acqua trascinò accanto a me e mi mise il muso in grembo.
sotto il ponte, poi balzò fuori, si voltolò nella ghiaia ed emise Mi ricordai di quando – avrò avuto quattordici anni – la
uggiolii strazianti. Mi voltai. All’ingresso della tavola calda figlia di Ghervasi Jabua, Tina, era andata in sposa a uno di
c’era l’oste con il suo grugno fegatoso che teneva in mano una Nabeghlavi, Arsena Siamašvili. E quella fu la prima volta in
pentola, e questa pentola fumava. cui, rammaricato, avevo pregato in cuor mio: Dio, fammi avere
«L’hai ustionato?» gli chiesi. vent’anni e accidenti a me se permetto che un angelo come
«No, gli ho messo le zampe al calduccio!» sogghignò. Tina sposi uno come quello... E ora pregavo per la seconda
«Sei un figlio di una buona donna tu!» gli dissi. volta: Dio, fammi avere l’età di quell’oste e poi uccidimi pure.
L’oste rimase di stucco, poi si sbarazzò della pentola, si rim- E mai in vita mia avevo desiderato tanto che una mia preghiera
boccò la manica destra e, la faccia blu per la rabbia, si diresse venisse ascoltata, come quel giorno sotto quel ponticello.
verso di me.
«Adesso ti faccio vedere io!» «E questo che roba è, ragazzo?» mi chiese il nonno, stupito,
Misi a terra la gerla, mi chinai e raccolsi una grossa pietra appena tirai fuori dalla gerla il cane ustionato e glielo piazzai
dal ciglio della strada. L’oste si fermò di colpo, come incanta- davanti.
to. Stette per un po’ così, poi, quando il colorito bluastro gli «Un cane» gli risposi.
scomparve dalla faccia, scosse la testa con disappunto e se ne «Da cosa si capirebbe?» il nonno sputò nel camino mezzo
tornò nel locale. spento.
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«L’ha ustionato l’oste con acqua bollente.» faccia della terra. Questo odio per il sesso maschile forse se
«Sarà un mangione!» il nonno incolpò il cane. lo trascinava dal giorno dell’incidente con l’oste.
«È affamato!» io presi le sue difese. I vicini si lamentarono più di una volta:
«Togligli un po’ quei cenci!» mi disse il nonno. «Spiridon, vogliamo tanto venirti a trovare, ma questo ba-
Glieli tolsi. Il nonno esaminò le zone colpite. stardo ci impedisce di mettere piede in casa tua. Per colpa sua
«Quel farabutto l’ha conciato male, scegliendo, tra l’altro, il neanche un fringuello si posa più sul palo della tua staccionata.
periodo peggiore. Siamo in agosto, le ferite ci metteranno un Legalo, o fallo sparire.»
bel po’ a rimarginarsi... Vai a prendere il burro chiarificato e Con il nonno divennero così tanto amici che il vecchio
spalmaglielo sopra, gli darà un minimo di sollievo. È l’occhio avrebbe fatto prima a mettere alla porta me, piuttosto che
che è un problema, la zampa se la lecca e se la risana da solo.» lui. Di tanto in tanto mi faceva da scorta quando uscivo a
Feci come mi disse. E già la mattina seguente nel nostro cor- far legna, o se andavo al mulino, specialmente la sera. Per il
tile abbaiava un cane, in modo ancora debole e timido, è vero, resto del tempo rimaneva stravaccato ai piedi del nonno, in
ma era sicuramente un abbaiare, quello. attesa di un suo ordine. Aveva occhi color miele, malinconici
Quante prove facemmo io e il nonno per indovinare il no- e intelligenti, movenze indolenti, ma bastava che dall’albero
me del cane: una volta lo chiamammo Jeka, un’altra Brolia,6 cadesse una mela o una pera che era pronto a fiondarsi, per
un’altra ancora Julbarsa, ma senza ottenere alcuna reazio- non farsi rubare dal maiale il frutto. Lo ghermiva e lo porta-
ne da parte sua. E dato che non riuscimmo nell’intento, lo va al nonno. Il nonno, dal canto suo, agguantava il cane per
chiamammo semplicemente “Cane”. Nel giro di un mese gli la collottola e gli tirava il pelo con delicatezza in segno di
guarirono sia la zampa che l’occhio. Nelle zone risanate dalla gratitudine. Poi si metteva a sbucciare il frutto, la polpa se la
bruciatura gli rispuntò una peluria nuova, bianca come la mangiava lui, mentre le bucce le gettava al cane, il quale di-
neve. E con questa peluria faceva una tale figura che nel vil- vorava con tale piacere le scorze offerte dalla mano del nonno
laggio, in fatto di bellezza, pochi sarebbero stati i cani degni che sembrava ci fosse penuria di frutta ai piedi dell’albero.
di competere con lui. Il cane era bravo anche ad ascoltare. Solo lui era in grado di
Per il resto, in fatto di intelligenza, non si distingueva par- sorbirsi le storie già mille volte raccontate dal nonno senza
ticolarmente dagli altri esemplari della sua specie. Bisognava battere ciglio. Più era lunga la storia, maggiore era l’attenzio-
però riconoscergli il merito di non avercela mai con donne e ne del cane. E pendeva tanto dalle sue labbra da sembrare
bambini, di saper distinguere tra mille la nostra unica, ova- supplicarlo: «Mi raccomando, non tralasciare una sola parola
iola, ciondolona gallina. Ma, a essere sinceri, un cane che raz- del tuo racconto».
za di cane è se non fa almeno questo? Quanto agli uomini, Un giorno li sorpresi intenti in questa conversazione:
tranne me e il nonno per lui non esisteva nessun’altro sulla «Sia maledetta la guerra! Cane, per avere costretto un ani-
male come te a campare di pere» gli diceva il nonno, scrol-
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Nomi che si danno comunemente ai cani in Georgia. lando tristemente il capo. Il cane, dal canto suo, per come
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dondolava la testa, pareva gli desse ragione: «Puoi dirlo forte, Così passavano i giorni. Io e il nonno campavamo come
puoi dirlo forte!». campano gli uomini in tempo di guerra, e il cane campava
«Te lo sei già dimenticato, Cane, che sapore ha la carne, eh?» come campano i cani.
gli domandava il nonno.
«Eh già!» annuiva la bestia. La notte del 27 agosto del 1943 il villaggio fu svegliato da
«Ma non temere, sai» lo tranquillizzava il nonno, «non aver una terribile cagnara. Era il periodo degli accoppiamenti e nes-
paura, probabilmente manca poco e tornerà a casa Arsena, il suno ci fece molto caso.
papà di Gogita. Penserà a tutto lui, si prenderà cura di noi. Al mattino, Aslan Tavberidze trovò nei pressi della fonte
Che te ne pare?» dei Čanišvili un cane sbranato. Neanche stavolta ci facemmo
Il cane non conosceva mio padre Arsena, ma annuiva lo stes- granché caso, dal momento che non c’è stagione degli amori
so. «Eppure, dovrà finire, prima o poi, questa disgraziata guer- senza tali incidenti. Lo seppellimmo sul posto e ce ne tornam-
ra» continuava il nonno. «Anche questi acciacchi mi dovranno mo a casa.
passare, non credi? Mi rimetterò in piedi, sissignore, andrò a Verso mezzogiorno giunse al villaggio un forestiero che cer-
Mosca, mi butterò in ginocchio davanti a Stalin, e allora vuoi cava un cane. Gli indicarono la casa di Aslan. Fui testimone
che non ci offra un chilo della carne di Hitler? Dovremmo stra- anch’io di quella conversazione:
fogarci e ubriacarci della carne e del sangue di Hitler, quel bel «Piacere! Kirile Mamaladze di Khevi» si presentò il forestiero.
giorno, io e te, Cane. Ma quando verrà quel giorno, quando?» «In cosa posso esserle utile, signore?» gli chiese Aslan.
gli chiedeva il nonno, e il cane ricambiava lo sguardo dagli «Cerco il mio cane. Mi hanno detto che avete trovato un cane
occhi umidi del nonno con un’espressione interrogativa. sbranato e che l’avete seppellito.»
Stavano così seduti, i due compari, sulla balconata assolata, «Sì, l’abbiamo seppellito io e quel ragazzo lì. Non avremmo
e rimuginavano: l’uno, forse, sulla fine della guerra e sul ritor- dovuto?»
no del figlio, l’altro sulla carne... «Si figuri, anzi, le sono grato per il disturbo. Però mi deve
Per il resto, si comportava come una bestia comune. Di notte, mostrare il luogo.»
dormiva all’addiaccio come tutti gli altri cani, e come i suoi si- L’accompagnammo sul posto e gli indicammo il punto. Lui si
mili, al canto del gallo, al miagolio del gatto e all’uggiolio dello mise a dissotterrarlo, tirò fuori la carcassa del cane e l’esaminò.
sciacallo rispondeva abbaiando; assieme a tutti i cani del villag- «Sì, è proprio il mio!» disse infine con convinzione.
gio si metteva a ululare ogni volta che veniva compianto qual- «Vorrebbe per caso organizzare la traslazione della salma,
che morto in guerra, e come loro ringhiava alla luna piena che signore?» sogghignò Aslan.
spuntava rotonda come una ruota del carro dalla Gola dell’Orso. «Altroché, sono furiosissimo. Ieri ha morso il mio bambino,
Durante la stagione degli amori andava a zonzo e, similmente a questo figlio di una cagna. Alla Stazione Pasteur7 mi hanno detto
tutti i cani del villaggio degni di questo nome, annaffiava con la
zampa alzata il sedano novello che fioriva negli orti. 7
Stazione Pasteur [in georgiano: პასტერის სადგური, in russo:
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di portargli la testa per analizzare il cervello e vedere se si de- «Un palo! Non sono mica una bestia!» si offese Badri.
ve fare l’antirabbica al bambino. Di me stesso m’importa poco, «Io però il fucile non te lo presto!»
signor Aslan, ma il mio bambino nato prematuro e dal colorito Badri si rese conto che era tutto inutile e se ne andò.
itterico può mai reggere quaranta siringhe piantate nel ventre?» «Stanotte il cane chiudilo nella stalla!» mi disse il nonno,
sospirò Kirile Mamaladze e tirò fuori dal sacco un’accetta. Io gi- accarezzando la testa dell’animale.
rai i tacchi e me ne tornai a casa senza neppure aspettare Aslan.
Raccontai l’accaduto al nonno. Il primo colpo di fucile riecheggiò nel cortile di Aslan Tavbe-
«È una brutta faccenda» disse il nonno dopo aver riflettuto ridze, e il lamento di un cane lacerò il cielo.
un po’, poi diede un’occhiata al cane spensierato disteso ai suoi «Che giorno è oggi, figliolo?» mi domandò il nonno.
piedi. «Il 23 agosto!» risposi.
Quella sera stessa Badri il tabaccaio si accostò al nostro can- «La notte di San Bartolomeo è alle porte!» disse il nonno, e
cello e chiese al nonno il fucile in prestito. chinò la testa.
«Che te ne fai del fucile, Badri?» gli domandò il nonno. Al primo sparo seguì un secondo, al secondo, un terzo, al
«Devo abbattere il mio cane, Spiridon!» terzo, un quarto... e il fragore si propagò da cortile a cortile.
«Che ti ha fatto?» I latrati, l’abbaiare, i guaiti, i frastuoni, i pianti di bambini, i
«Ma come, non hai saputo che è piombato qui da Khevi un gemiti del bestiame – si confuse tutto. Si udì un colpo nel cor-
cane con la rabbia e che l’ha attaccata a tutti i cani del villag- tile di Badri, in quello di Alistrakho, e poi anche in quello del
gio?» e d’un tratto Badri si rivolse a me: «Ma non c’eri lì pure nostro confinante Makaria, e gli uggiolii e i mugolii del suo
tu, ragazzo, quando quel tizio ha raccontato che il cane gli cane sembrarono sconquassare il mondo.
aveva azzannato il bambino?». «Gli spara con il fucile a pallini, il disgraziato» disse il nonno
«Quell’uomo non ha mica detto che il cane aveva la rabbia!» e si turò le orecchie con mani tremolanti. «E immagina il calva-
bofonchiai io. rio del cane, prima che quello lo carica di nuovo»
«Da quando in qua, ragazzo, un cane a posto azzanna il Durò un’ora intera quell’inenarrabile massacro di cani. Per
padrone, e per di più un neonato?» mi chiese Badri. un’ora rimbombarono cielo e terra attorno a noi. Per un’ora
Non seppi dargli una risposta. il nostro cane impazzito, ringhiando e digrignando le zanne,
«Comunque, per un affare del genere il fucile non te lo pre- attaccava e si dibatteva contro la porta sprangata della stalla.
sto, Badri!» il nonno fu irremovibile. Poi, a poco a poco, il chiasso si acquietò, finché da qualche
«E con cosa lo abbatto allora?» parte non risuonò un ultimo colpo. «Ehee-heheee...» qualcuno
«Con un palo!» urlò con foga, da farsi udire da tutto il villaggio.
«È finita! È sulla tua coscienza lo strazio di queste creature,
пастеровская станция]: erano chiamati così gli ambulatori specializzati Dio, per aver creato l’uomo!» disse il nonno con le braccia le-
nella prevenzione della rabbia. vate al cielo, e il villaggio sprofondò in un silenzio di morte.
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Il gallo cantò, la mucca muggì, suonò la campanella della «Non inimicarti il villaggio, Spiridon, per colpa di una be-
scuola, spuntò il sole dal lato del monte Kontskhoula, belarono stia. Ammazzala e basta. I nostri cani erano forse da meno? O
la capra e il capretto, miagolò anche il gatto, chiocciò anche la per caso tu saresti più cristiano di noi?»
gallina, tuttavia non era sicuramente una mattinata come le «Non lo farò, Badri» rispose il nonno. «Vorrei che quando
altre. Nel villaggio mancava qualcosa, qualcosa di impalpabile muoio ci sia un cane a ululare nel mio cortile».
forse, eppure enorme, materno, affettuoso, benevolo. Quando «Spiridon, se quel cane si è beccato la rabbia e azzanna uno
per il sentiero tra gli steccati passò Aslan con la roncola in dei miei piccoli, darò fuoco alla tua casa,8 con te dentro!» disse
spalla e non era seguito dal cane, mi resi conto che la cosa Badri, e se ne andò barcollando.
enorme che mancava, parte inseparabile del villaggio, la sua Si era già fatto buio, ma fui in grado di vedere il volto pallido
carne e il suo sangue, era il cane, un comune cane bastardo. del nonno.
Fu accolto da un’alba senza cani, nel nostro villaggio, il mese «Badri!» d’un tratto il mio vecchio lo richiamò. Quello si
di agosto del ’43. voltò. «Badri, farabutto che non sei altro, bada a non farmi
Quel mattino il nostro cane non uscì dalla stalla, né abbaiò, commettere qualche peccato, a non farmi riscaldare le vecchie
né toccò il cibo. Quando tornai dalla scuola, lo trovai stravac- ossa alle fiamme del tetto di paglia di casa tua...»
cato con gli occhi chiusi ai piedi del nonno. Sembrava morto. Non so cosa passasse per la testa in quel momento, a Badri,
Gli pulsava leggermente il ventre, e solo da ciò si capiva che pietrificato com’era nell’oscurità, ma io, al posto suo, cono-
era vivo. scendo il peso che il nonno dava alle parole, non avrei potuto
«Come sta?» domandai al nonno. chiudere occhio, quella notte.
«Sta smaltendo la nottata» rispose e aggiunse: «Non ci pen- Verso mezzanotte, in fondo al nostro cortile echeggiarono
sare, è un cane, la dimenticherà presto!» e gli accarezzò affet- due colpi di fucile, uno dietro l’altro. L’ultimo fu seguito da
tuosamente la testa. Il cane non si mosse. un guaito ringhioso di un cane. Balzai dal letto in preda all’an-
All’imbrunire, il tabaccaio Badri si presentò di nuovo al no- goscia, afferrai il fucile e raggiunsi il luogo dello sparo. Qual-
stro cancello. Aveva l’aria di essere ubriaco. cuno sfrecciò tra i rovi e imboccò la discesa. Il nostro cane era
«Buonasera, Spiridon!» salutò. steso ai piedi della staccionata e uggiolava sommessamente.
«Buonasera a te, Badri!» gli rispose il nonno, ma per qualche Lo presi tra le braccia e lo portai dentro casa. Il nonno aveva
ragione non lo invitò a entrare in cortile.
«Senti, Spiridon...» iniziò Badri, e dopo un secondo di esita- 8
Traduciamo semplicemente come “casa” il termine etnografico ოდა
zione riprese: «La gente mormora, dice: “Ieri sera nel cortile di [oda], costruzione abitativa di legno quadrangolare che poggiava su pala-
Spiridon non si è udito nessun colpo di fucile...”». fitte di pietra o di legno, dal tetto coperto di tegole lignee o di terracotta,
solitamente composta da tre-quattro stanze. Era diffusa nella Georgia
«E perché si sarebbe dovuto udire un colpo, ieri sera, Badri?
occidentale (soprattutto in Guria). Nella traduzione di tutti i racconti di
Era la notte di Capodanno, forse? O è finita la guerra, per caso? Dumbadze ambientati in una realtà rurale di Guria, il termine oda è reso
Oppure è tornato dal fronte mio figlio Arsena?» chiese il nonno. con la parola “casa”.
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acceso una lampada a petrolio e sedeva alla turca sulla pelle di «Dai, Cane!» gli dissi, e tirai di nuovo. Si trascinò controvo-
capra. Esaminò il segno che aveva lasciato lo sparo al cane. Un glia, lanciando uno sguardo disperato al nonno.
pallino l’aveva preso alla zampa posteriore. Prima gli disinfet- «Vai con lui, Cane, vai!» gli disse il nonno e con una mano
tò la ferita con l’alcol, poi gliela cosparse di foglie di tabacco e si coprì gli occhi pieni di lacrime. Allora il cane si decise a
gliela fasciò stretta. seguirmi.
«Non è niente, non gli ha neppure sfiorato l’osso!» disse il Attraversammo il villaggio. Svoltammo dalla strada maestra
nonno. Dopodiché guardò il cane come se volesse domandar- e, prendendo il sentiero verso il fiume, scendemmo lungo un
gli qualcosa, e il cane ricambiò il suo sguardo come se volesse pendio sfaldato di ardesia. Il cane mi seguiva zoppicando e per
metterlo a parte di qualcosa. Si osservarono così per un bel po’. tutto il tempo non aveva alzato gli occhi su di me neanche una
«Chi è stato?» mi domandò improvvisamente il nonno. volta. Raggiungemmo la riva del fiume. Gli slegai la corda dal
«Non lo so!» risposi. collo, poi mi sedetti su un pietrone. Rimasi così per qualche
«Lui lo sa, lo sa di certo, ma come potrebbe farcelo capire?» minuto. Il cuore mi batteva forte. Dopo un po’, finalmente, mi
disse il nonno e asciugò le lacrime al cane. si acquietò. Tirai giù il fucile dalla spalla. Fu allora che il cane
alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi. Non fui in grado
Al mattino il nonno volle essere portato sulla balconata. Il di ricambiare il suo sguardo. D’un tratto aprii l’arma, sfilai
cane si drizzò, lo seguì zoppicando e gli si distese ai piedi. entrambe le cartucce dalla canna e le gettai nel fiume. Fu come
La nostra casa, costruita su un’altura, si affacciava sul vil- se mi fossi liberato di un peso enorme. Raddrizzai la schiena
laggio, e il nonno adesso lo contemplava come se si trattasse, e feci un bel respiro. Il cane mi si avvicinò, timido, e mi leccò
più che della propria terra natia, di un villaggio sconosciuto in la mano. Poi, improvvisamente, si mosse e si buttò in acqua.
cui fosse solo di passaggio e che stesse vedendo per la prima Diguazzò, mandò schizzi tutt’attorno, agitò di schiuma la riva,
volta. Infine si voltò verso di me e con voce flebile mi disse: poi saltò fuori, balzellò, e infine rotolò sfinito sulla ghiaia. E io
«È vero, ragazzo mio, non ci si può inimicare un villaggio vidi come il sangue stillò fuori dalla ferita aperta, imbrattando-
per colpa di un cane... Va’, prendi il fucile, mettigli una corda gli la fasciatura bianca, e come gli sgorgarono le lacrime dagli
al collo e... l’importante è che non me lo fai sentire e vedere. occhi intelligenti. Eppure potrei giurare sulla croce che in quel
Portalo oltre il villaggio» momento il cane rideva.
«E che faccio poi, quando ce l’ho portato?» gli chiesi, e sentii “Ora vai, Cane. Evita i villaggi, segui la salita della valle
come prese a tremarmi il mento, come mi si storse il labbro Kalai. Hai un brutto carattere tu, cerca di non farti sorpren-
inferiore. dere da nessuno nel cammino, non ti mettere a ringhiare, sii
«Quello che ha fatto il villaggio intero, figliolo» mi disse, e buono con tutti quelli che incontri, ora è necessario così, sen-
distolse da me lo sguardo. nò qualcuno ti scambia per un cane rabbioso e ti ammazza.
Mi alzai, mi misi il fucile in spalla, posi la corda al collo del Vai, Cane, hai visto tu stesso che nel nostro villaggio non si
cane e la tirai. Non mi seguiva. può stare. Vai e non tornare. Hai sentito cos’ha detto il nonno?
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Un uomo non può inimicarsi la propria gente per colpa di un la mucca di Khakuna Berdzenišvili s’ingozzò di quattro innesti
cane. Non si può davvero, a quanto pare. Io comunque faccio del nostro giardino; a distanza di un mese, dal villaggio spari-
di testa mia, disubbidisco al nonno, e perciò non tornare, non rono senza lasciare traccia la mucca da latte di Nina Dzneladze
farmi questo, ché magari hai davvero la rabbia, non causare e il giovenco di Sipito Matitašvili. Una notte, il granaio12 di
una tale disgrazia al villaggio. Adesso vai, mio amato cane,9 Kirile Titmeria fu svuotato, chicco dopo chicco, di otto pud di
vai...” Tutte queste cose non gliele ho dette a parole, le ho solo granturco. Infine, la gente proruppe in proteste, cominciarono
pensate. Difficile stabilire se l’animale capisse o meno il mio a volare allusioni, sospetti, maldicenze; ci si mise a staccare i
pensiero, fatto sta però che, quando mi alzai e mi diressi verso pali dalle staccionate e a bestemmiarsi a vicenda i cari defunti.
il villaggio, il cane non mi seguì. Il villaggio si destabilizzò, fu sconvolto.
«Com’è andata?» mi chiese il nonno, appena fui di ritorno. Il 15 ottobre venne giù un tale acquazzone che il Gubazouli
Non gli risposi. Mi tolsi il fucile dalla spalla e glielo porsi. Lo spazzò via e si trascinò nel Supsa13 tutti i mulini del nostro
prese, l’aprì ed esaminò la canna alla luce. villaggio che incontrò lungo il suo procedere.
«Se intendi fare così, ragazzo mio, la vita non sarà facile per Il 16 ottobre il nonno mi diede da macinare il granturco in un
te» mi disse e mi restituì l’arma. mulino scampato per miracolo nel villaggio di Goraberežouli.
Verso mezzanotte il mio mais era pronto. Mi ero caricato il
Dopo una settimana, nottetempo, la capra di Ekvtime Si- sacco in spalla e stavo per andarmene, quando dalla porta del
radze fu sgozzata da uno sciacallo direttamente nella stalla; a mulino fece il suo ingresso Kirile Mamaladze di Khevi, e mise
distanza di tre giorni, da un pollaio una volpe sgraffignò due il suo grano da macinare sulla pesa.
chiocce; dieci giorni dopo, la giara10 da dieci pud piena di Tso- «Salute, Teofane!» disse al mugnaio. Quanto a me, non mi
likouri11 di Aslan Tavberidze fu trovata vuota. Un bel giorno, riconobbe.
«Come sta il suo bambino, signore?» gli chiesi.
9
Traduciamo così, in questo contesto, l’espressione d’affetto შენი
«Quale bambino?»
ჭირიმე [šeni čirime, lett. “La tua pestilenza (danno, guaio, disgrazia) a «Quello che era stato morso da un cane con la rabbia!»
me!”, ovvero: “L’abbia io al posto tuo”; “Sia io compartecipe della tua «Non risultò rabbioso, quel cane» disse Kirile e si mise a
disgrazia”, derivante probabilmente dalle formule dei riti di guarigione], calibrare la pesa.
molto diffusa nella lingua parlata informale, a significare soprattutto
«Ma come, signor Kirile?!»
“caro/a”, “tesoro” ecc.
10
Traduciamo con il generico “giara” il temine ჭური [čuri], recipiente
di terracotta per conservare il vino, interrandolo. Questa definizione è 12
Traduciamo con il generico “granaio” il termine [in georgiano:
diffusa nella Georgia occidentale, mentre l’omologo della Georgia orien- ნალია, nalia] che designa una costruzione di legno, di dimensioni più
tale si chiama ქვევრი [q’vevri]. piccole rispetto a un granaio, che si adoperava esclusivamente come
11
Tsolikouri [in georgiano: ცოლიკოური]: vitigno bianco autoctono deposito del granturco, nella Georgia occidentale.
della valle della Colchide, e il rispettivo vino, prodotto soprattutto nella 13
Supsa [in georgiano: სუფსა]: fiume della Georgia occidentale, il
regione di Imereti (Georgia occidentale). più lungo della regione di Guria. Il Gubazouli è uno dei suoi affluenti.
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«Cos’ho detto di tanto incredibile, ragazzo? Alla fine quel un uccello, oppure di un cane... Sappi che, se dovessi tornare,
cane non aveva la rabbia!» ripeté Kirile e continuò a badare è sempre da te che tornerò, non ti lascerò solo. E se tu dovessi
ai fatti suoi. avvertire affetto, gioia e amore in qualcosa, sia anche un sasso,
«Che Dio ti faccia vergognare, Kirile Mamaladze!» proruppi sappi che quel sasso è tuo nonno... Perciò non avere paura della
io, lasciandomi andare sul sacco di farina, perché non riuscivo solitudine, non pensare: sono solo. Non abbandonare questa
a reggermi sulle ginocchia. casa, figliolo, e non lasciar spegnere il focolare. Fai trovare a tuo
«Di chi è figlio, Teofane, questo mascalzone maleducato?» padre, per quando farà ritorno, il fuoco acceso, un pezzetto di
domandò Kirile, sconvolto, al mugnaio. polenta e un bicchiere di vino. Al resto ci penserà lui. È da una
«Di chi sei, ragazzo?» mi chiese il mugnaio. settimana che vedo in sogno tutti quelli che se ne sono andati,
«Non sono di nessuno, io!» dissi, e uscii dal mulino. li vedo tutti. Ma tuo padre non si è fatto vedere. Dunque è vivo.
Il 17 ottobre riflettei per tutto il giorno e per tutta la notte se Conservagli la casa e il nome, non dare soddisfazioni ai nemici.
raccontare o meno al nonno ciò che era accaduto al mulino, e Vedrai che torna, se non quest’anno, l’anno venturo. Anche la
solo verso l’alba decisi che non ne valeva la pena. guerra ha una fine. È l’uomo a cominciarla, ed è sempre lui
Il 18 ottobre il nonno si rifiutò di alzarsi dal letto. a finirla. La guerra non può porre fine all’umanità. Ora vai a
Il 20 ottobre non mi fece andare a scuola. prendere della legna, tanta legna.»
Il 25 ottobre gli si gonfiarono la mano e il piede destri. Quella notte non potei chiudere occhio. Il nonno non disse
Il 27 ottobre mi chiamò e mi consegnò le chiavi della cassetta. più nulla. Non distoglieva lo sguardo dalle fiamme che crepi-
Il 28 ottobre mi fece portare uno sgabello e mi fece sedere tavano nel camino, e con un angolo della bocca, quasi imper-
di fronte a lui, in modo da potermi guardare dritto in faccia. cettibilmente, sorrideva a qualcosa.
«Tutto su questa terra ha un inizio e una fine, figliolo» esor- Il 29 ottobre il liquido gli premette sul torace, ebbe difficoltà
dì. «Oggi o domani, sarò finito anch’io. È brutto per un uomo a respirare, e mi chiese di drizzarlo a sedere sul letto. L’aiutai,
inoltrarsi nell’ignoto, per cui ti direi una bugia, se ti dicessi che e gli infilai i cuscini dietro la schiena.
non ho paura. Ho paura... ma tu non dovresti averla, figliolo... «Arriva, arriva, il benedetto, ma con un passo così pesante»
se vado nel nulla, non c’è nulla da temere, perché nel nulla non farfugliava tra sé e sé.
esiste nulla. E se devo morire trasfigurato14 e niente di più, al- Il 30 ottobre mi chiamò di nuovo e mi diede altre istruzioni:
lora a maggior ragione non dovresti aver paura, resterò nell’al «Preparati, figliolo, preparati, e non avere paura. Domani la
di qua e mi presenterò con un aspetto diverso, di un albero, di tumefazione si sposterà sul cuore. Tutto ha le sue regole, e a
quelle del funerale ci penseranno i vicini. Non preoccuparti. Il
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La parola georgiana che sta per “morire” [in georgiano: mio unico cruccio è che non sia rimasta in famiglia una donna
გარდაცვალება, gardatsvaleba], riferita esclusivamente agli esseri uma-
per il lamento funebre.»
ni, letteralmente vuol dire “trasfigurarsi”, “cambiare il sembiante”. Il
nonno, facendo leva sull’ambiguità del termine, espone al nipote un’idea Il 1° novembre, a notte fonda, il nonno scese dal letto e si
vicina alla trasmigrazione delle anime. piantò al centro della stanza.
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«Ragazzo, Gogita, l’ho visto!» disse con un tono oltremodo «Sei impazzito, Gogita?»
addolorato e sorpreso. «Non mi dire di no, Margalita, ti prego! Vieni a fare il lamen-
«Cos’hai visto, nonno?» gli chiesi e, prima che mi alzassi, to funebre al nonno!»
crollò sopra il tavolo, scivolò giù lentamente e si accasciò su- Margalita scese in cortile e, così com’era, a piedi scalzi, mi
pino sul pavimento. seguì. Entrando nel nostro cortile, la feci andare avanti. Appe-
«Nonno!» accorsi io, ma lui non c’era più. na fu sulle scale, si voltò indietro spaventata.
Era un uomo saggio, mio nonno, e tutto fu fatto secondo le «Non avere paura!» le dissi io con calma e mi sedetti sul
sue volontà. prato davanti alla balconata. Margalita salì, si avvicinò al pa-
Non ebbi paura. Mi vestii, spalancai tutte le finestre e tutte rapetto balaustrato della balconata, si sciolse i capelli e guardò
le porte della casa e uscii sulla balconata. verso il villaggio.
Fuori si stava facendo giorno. Era il 2 novembre. Il cielo era
freddo e lustro come uno specchio, la Bilancia, pallida, era Il giorno del funerale del nonno, il 4 novembre del 1943, fu
sospesa giusto sopra il nostro cortile. Scesi nel prato, misi i una domenica.
piedi scalzi sull’erba umida di rugiada. Fui scosso nel corpo La gente cominciò ad arrivare nel primo pomeriggio. Le
da un brivido gelido. Nel campo frusciavano le stoppie non donne del vicinato, che facevano la nenia funebre, piangevano
falciate. Per qualche ragione pensai: “Forse sanno tutto ed è più me che il nonno.
di me che mormorano”. Quando passai sotto il pero, mi chi- «Povero Gogita-a, che-ne-sa-rà-di-te ne-naaaa!»
nai e raccolsi da terra una pera caduta, la pulii con la manica Io ero fermo presso la porta, con la fascia nera al braccio, e
della camicia e vi affondai i denti. L’addentai e solo allora mi stringevo tranquillo le mani ai partecipanti al lutto. Non una
resi conto di quanto la mia bocca fosse asciutta. Spalancai il lacrima, non un sospiro.
cancello del cortile, uscii sul viottolo e mi accostai al cancello «Piangi, Gogita, sennò ti scoppia il cuore, ragazzo mio!» mi
della vicina. esortò Margalita.
«Margalita!» chiamai. Vedendo che non mi rispondeva nes- Io annuii: sì che avrei pianto... la gente veniva avanti ordina-
suno, alzai la voce. Compivo ogni gesto con calma e pacatez- ta a seconda che fossero parenti acquisiti per matrimonio, per
za. Al secondo richiamo la porta si aprì con un cigolio e sulla battesimo, che fossero di una stessa discendenza genealogica
balconata apparve Margalita. o di uno stesso quartiere. Ogni gruppo era capeggiato da due
«Chi va là?» domandò con voce assonnata. bambini con le teste cinte di corone di tarassaco e da una donna
«Sono io, Gogita!» con i capelli sciolti. Il viottolo, il cortile e la balconata erano
«Che c’è, Gogita? Cosa ti porta qui a notte fonda?» pieni di persone in lacrime. C’era un gran vociare, discutere,
«Scendi un attimo in cortile, devo dirti una cosa.» considerare. Qua e là riecheggiava anche qualche riso soffoca-
«Sei mica ubriaco, Gogita?» to. All’improvviso nel cortile si creò scompiglio, prima ci fu un
«È morto il nonno, Margalita. Vieni a piangerlo, ti prego!» accalcarsi, poi calò un silenzio tombale e i presenti si divisero
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in due file. Dal cancello spalancato fece il suo ingresso il cane, «Sparisci, Badri. Esci da questo cortile!» dissi.
pieno di palline di bardana attaccate al pelo, tutto sporco di Poi mi ricordai anche di quando il nonno mi aveva restituito
fango rosso, arruffato, stremato, con le orecchie e la testa ab- il fucile e mi aveva detto: «Se intendi fare così, ragazzo mio,
bassate. Senza guardarsi attorno passò in mezzo al corridoio la vita non sarà facile per te». Tuttavia, non mi tirai indietro.
di gente, salì sulla balconata, attraversò la stanza grande in cui Ripetei: «Sparisci, Badri. Esci da questo cortile!». E Badri uscì
era deposta la salma, entrò nella stanza da letto del nonno ed dal cortile.
esaminò il suo letto, poi si spostò di nuovo nel salotto. Si avvi- La mattina presto mi svegliò uno schiamazzo. Uscii sulla
cinò alla bara adagiata sull’ottomana. Si sollevò sulle zampe balconata in mutande.
posteriori, poggiò quelle anteriori sull’ottomana, e guardò il «Gogita! Ragazzo! Lega questo figlio d’un cane, sennò ci
nonno. Giaceva bello, candido, placido e benevolo, il nonno, sbrana vivi!» urlava il vicino venuto a riprendersi le sedie.
nel suo feretro. Il cane stette a fissarlo per un po’, poi si voltò, Diedi uno sguardo al villaggio. Dai comignoli delle case sali-
e venne a stendersi senza fiatare ai miei piedi. vano bianche volute di fumo. I galli cantavano, le mucche mug-
«Gloria a Te, Dio!» esclamò qualcuno alle mie spalle. Allora givano, le capre e i capretti belavano, le galline chiocciavano,
non ce la feci più, mi coprii il volto con le mani, e scoppiai a un sole enorme era spuntato da dietro il monte Kontskhoula...
piangere a voce alta. e all’improvviso un’ondata di calore mi pervase il corpo e nelle
Verso le cinque si verificò un altro miracolo. Nel salotto entrò mie orecchie echeggiò un suono simile a un delizioso trillo.
Badri il tabaccaio. Alla vista del cane steso ai miei piedi, trasalì, Nel nostro cortile abbaiava un cane.
ma fece finta di nulla, e venne verso di me per le condoglianze.
A quel punto il cane si alzò. Il pelo gli si rizzò su tutto il corpo,
la coda gli si allungò con cattiveria. Mostrò i canini, ed emise
un ringhio prolungato, terrificante. Badri indietreggiò. Il cane
fece un passo avanti.
«A cuccia, Cane!» disse Badri, e sbiancò.
Il cane era teso come la corda di un arco.
«Lasciami piangere la buonanima del tuo padrone!» il ta-
baccaio fece un sorriso forzato. Il cane ringhiò di più, e fece un
altro passo in avanti.
«Di’ qualcosa, ragazzo, a questo bastardo!» Badri si rivolse
a me, confuso.
Allora mi balenarono nella mente le parole del nonno: “Lui
lo sa di certo chi gli ha sparato, ma come potrebbe farcelo ca-
pire?”.
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Gli zingari

[1980]

In Guria15 gli zingari vengono chiamati “čačani” o “tzigani”.


Fu per questo motivo che quando, a luglio del 1943, nel villag-
gio si diffuse la voce che nei paraggi di Zenobani erano giunti i
tzigani e si erano accampati nella valle di Laš, appresi la notizia
come se si trattasse di un’invasione di briganti, dal momento
che, in Guria, sia “čačano” che “tzigano” sono sinonimi di ma-
scalzone e straccione.
Dunque, una volta deciso di fare un sopralluogo nel loro
accampamento, si dà il caso che per ogni evenienza, proprio
per ciò che si è detto sopra, tenessi in tasca un coltellaccio a
serramanico di mio nonno e in spalla portassi il suo stesso fu-
cile da caccia – l’ultimo colpo partito da quest’arnese risaliva al
1905, e non ce ne sarebbero stati altri, visto che nessuno si era
preso la briga di sistemare il cane staccato durante lo scoppio
di quell’ultimo colpo.
Ebbene, mi avvicinai alla chetichella all’accampamento,
diedi un’occhiata da lontano, e cosa vidi? Gli zingari! I miei
chiassosi, rissosi, ballerini, cantanti, ladruncoli, amabili, oli-
vastri zingari.
Dal canto loro, gli zingari si meravigliarono e si rallegraro-
no così tanto di trovare un ragazzo che conoscesse il russo in
questo villaggio sperduto tra le montagne che quasi quasi mi
adottarono.
Tutta quella giornata la impiegarono ad approntare il campo,
ad allestire la fucina e a impastoiare i cavalli. Al mattino invece,

15
Regione nella Georgia occidentale.
29
una volta accesi i forni, gli uomini si misero a battere i martelli moderare la loro naturale gioia di vivere, la festosità, l’en-
sull’incudine e a forgiare treppiedi, catene per camini, scuri, tusiasmo e l’inclinazione alla ruberia, ma di tanto in tanto
falcetti e falci; mentre le donne – qualcuna incinta, qualche al- si udivano comunque maledizioni in georgiano e bestemmie
tra nubile, ma tutte incantevoli e affascinanti allo stesso modo in zingaresco, che però non sfociavano mai in uno scontro
– invasero come cavallette i frutteti e gli orti del villaggio, con acceso.
dei lattanti che ciondolavano loro dal petto. E non fosse stato Quanto a me, mi accolsero subito come un amico. Non solo,
per la cocciutaggine delle donne di Guria, all’imbrunire sugli appena seppero che ero orfano, mi offrirono un posto nell’ac-
alberi non sarebbero rimaste nemmeno le foglie. campamento e l’onore di diventare uno di loro. «Potresti un
«Dovete divorare e ingoiare tutto in una volta, disgraziate giorno» mi dissero, «arrivare persino a essere il nostro barone.»
e assatanate che non siete altro?! Lasciate qualcosina anche Io preferii, però, rimanere il pastore della capra di mia nonna e
per domani!» inveivano le donne di Guria contro le zingare, e mi accontentai del ruolo d’interprete tra le donne del villaggio
queste creature inquiete, non avvezze all’obbedienza, con una e le zingare, a titolo gratuito, si capisce, dal momento che al
mansuetudine per me inspiegabile smettevano di predare e calar del sole gli zingari, senza chiedere nulla in cambio, mi
anzi rimproveravano nella loro lingua i bambini scatenati che insegnavano a intonare canzoni tzigane, a ballare il tip-tap e a
mal sopportavano la sottomissione ai genitori. suonare la chitarra.
In poche parole, era il caso di dire: la grandine non porta Gli uomini, a dire il vero, non avevano granché bisogno di
carestia. interprete, poiché si limitavano a commerciare in attrezzi agri-
Così tanto è stato detto, scritto, messo in scena e filmato coli e, come ben sapete, quello del commercio e degli scambi è
sugli zingari nel mondo, peraltro con lo stesso titolo di questo un linguaggio internazionale che non necessita di alcun inter-
mio racconto, che difficilmente potrei aggiungervi qualcosa di prete, e tramite esso l’umanità non solo ha iniziato la propria
nuovo. Tuttavia, ciò che è successo nel nostro villaggio nell’ar- esistenza, ma si accinge anche a terminarla.
co di due settimane dell’estate del ’43, credo valga la pena di «Figliolo, portami una buona indovina čačana e saprò io
essere raccontato. come ripagarti. Vorrei chiederle della sorte di Vano mio, per-
Dissi poc’anzi che gli zingari invasero il villaggio come fos- ché la lettera tarda ad arrivare» mi chiedeva una vicina, e io
sero tante cavallette. A quel tempo, se non il villaggio intero mi davo da fare.
almeno la metà era in lutto. Come noto da queste parti, l’in- «Portami quella che hai portato da Agrafina, figliolo, a quan-
sediamento di un villaggio georgiano è diviso per parentela to pare le ha predetto cose buone, e saprò come sdebitarmi!»
genealogica e per quartieri. Perciò, erano così tanti a essere pa- mi chiedeva un’altra, e io mi davo da fare anche in questo caso.
renti prossimi l’uno dell’altro che una notizia di morte giunta Che altro potevo fare?
dal fronte vestiva di gramaglie almeno cinque famiglie. Se non proprio a tutte, almeno a una buona metà delle fami-
Fu dunque in un Paese calato in un simile lutto che erano glie disperate le zingare asciugarono gli occhi pieni di lacrime;
giunti gli zingari ed era per questo motivo che cercavano di soffiarono, ravvivandoli, riattizzandoli, su molti focolari sul
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punto di spegnersi, e tutto ciò in cambio di una manciata di «Fammi la bontà, figliolo, portami una buona indovina
tabacco, di due o tre uova, formaggio da mezza mungitura, čačana, e saprò io come ripagarti. Vorrei chiederle della sorte
un crostino di polenta, un fiasco di Adessa,16 e talvolta anche del mio Griša...»
nulla, soltanto un bicchiere di acqua fresca sorgiva. La nonna Nina aveva gli occhi supplichevoli e pieni di la-
Tuttavia, una di queste storie di divinazione merita di essere crime. Come avrei potuto dirle di no? Mi incamminai e, nel
raccontata. frattempo, per strada, pensavo a chi avrei potuto condurre da
Un mattino entrò nel nostro cortile la comare Dzneladze, e questa poveretta, che aveva già ricevuto a casa la notifica della
chiamò la nonna. morte del figlio, assieme alla lettera tolta dal suo stesso taschi-
«Che c’è, Nina?» l’accolse la nonna. no, tutta strappata dal proiettile, indirizzata alla madre.
«Comare Kerkadze, mi devi prestare il tuo bambino!» Era da più di un anno che si affliggeva. Ci sperava ancora?
«Te lo puoi pure tenere, se lo scovi e lo rendi utile, quel Evidentemente, il cuore materno è un mondo a sé, stenta a cre-
buono a nulla. Io, tanto, non riesco a cavarne nulla: sta tutto il dere a ciò che non ha visto con i propri occhi, e in un cantuccio
giorno a ciondolare con quei tzigani e a strimpellare la chitar- custodisce una minuscola, flebile speranza.
ra. Per dirti, ieri si è portato dietro cinque lazzaroni della sua Preso da questi pensieri, giunsi all’accampamento degli zin-
risma e hanno fatto piazza pulita di tutte le cose sopra o sotto gari. Quasi tutti erano in giro per rimediare qualcosa. Trovai
terra. Non trovi una ciliegia o un porro, neanche a pagarli, nel nella tenda soltanto Oksana, la figlia incinta di Nikola, il capo
mio giardino.» dell’accampamento. Era già al nono mese, faticava a cammi-
«Bella seccatura. Non hanno lasciato proprio nulla?» si di- nare e andava a divinare molto di rado. L’implorai:
spiacque Nina. «Oksana, te lo chiedo per favore. Vieni con me, è una povera
«Come no, gli hanno lasciato tanti di quei pidocchi che è da donna, consolala un po’...»
ieri sera che cerco, senza riuscire, di debellarli». «Ha qualcosa da darmi?» mi chiese, svogliata, Oksana.
«Prestamelo lo stesso!» non mi disdegnò la comare Dzne- «Probabile, se ti manda a chiamare» risposi con esitazione,
ladze. poiché, come tutti i villaggi, in quegli anni di guerra, anche il
«Te l’ho detto: se lo trovi, tienitelo pure!» mi cedette la nonna. nostro era in miseria, e soltanto grazie alla frutta e alla verdura
Udii con le mie orecchie questa conversazione, essendomi tirava avanti. O per meglio dire, moriva di fame.
arrampicato sull’albero con la speranza di scovare qualche «Probabile, probabile... Non lo vedi che faccio fatica anche
ciliegia scampata per miracolo alla razzia del giorno prima. a respirare?»
Saltai giù e andai incontro alla comare Dzneladze. Oksana si alzò in piedi, scontenta, ma non ebbe il cuore di
«Nonna Nina, in cosa posso esserti utile?» rifiutarsi e mi seguì.
Nonna Nina accolse me come fossi il Redentore, è vero, ma
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Adessa [georg. ადესა]: vino rosso scuro derivato da una varietà di alla vista di Oksana si turbò un tantino.
Vitis labrusca, uva fragola, detta “Isabella”. «Chi mi hai portato, ragazzo? Dovesse partorire adesso,
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dove la trovo una levatrice?» disse portandosi la mano alla Oksana tenne a lungo la mano nell’acqua, rimestandola, e
guancia la comare Dzneladze. non appena il sale e lo zucchero si sciolsero, vi buttò dentro la
«Di questo non darti pensiero. Sa il fatto suo» la tranquil- fede della comare Dzneladze. L’anello tintinnò sul fondo della
lizzai. bacinella, rimase per un po’ ritto, poi cadde disteso.
«Cosa sta dicendo?» mi chiese Oksana. «È oro puro?» chiese Oksana.
«Dice che sei molto giovane e si chiede se sei un’indovina...» «Purissimo!» rispose con orgoglio la comare Dzneladze.
mentii. «Su chi dovrei divinare?» si rivolse a me Oksana.
«Che stia tranquilla! Dille di portarmi una bacinella, dell’ac- «Su Griša, figlio mio, figlio mio...» ripeté due volte la comare
qua, una manciata di sale, un anello d’oro e tre zollette di zuc- Dzneladze, dando a intendere che era lui il suo unico cruccio
chero.» e pensiero.
Tradussi tutto alla comare Dzneladze. Oksana si mise a divinare, bisbigliando per una mezz’ora
«Questa qui è fuori di testa, per caso, figliolo? Sono tre anni qualcosa nella sua lingua.
ormai che lo zucchero neanche me lo sogno» si lamentò la non- «Traduci» mi implorava la nonna Nina.
na Nina. Stavolta tradussi alla lettera a Oksana le parole della «Parla nella sua lingua e non comprendo!» le spiegai.
comare Dzneladze. La zingara scoppiò a ridere. D’un tratto Oksana smise di bisbigliare e si voltò verso la
La nonna Nina, tranne lo zucchero, le portò tutto. Poi si sfilò comare Dzneladze.
con difficoltà la fede nuziale dall’anulare della mano destra e «Lo vedo» disse. «Lo vedo, è vivo. È in mezzo ai forestieri,
diede a Oksana anche quella. La zingara, col fiato grosso, si vorrebbe tornare, ma non glielo permettono, è prigioniero...»
sistemò presso il camino, versò dell’acqua nella bacinella e vi «Povero figlio mio» gemette la comare Dzneladze. «Basta
buttò poi il sale. che sia vivo, ci rimanga pure...»
«Senza zucchero si può fare lo stesso?» chiese allarmata la «Ha la testa fasciata con una benda bianca, probabilmente è
comare Dzneladze. ferito, però è vivo...» continuò Oksana.
«No, senza zucchero no!» disse Oksana. La comare Dzneladze lanciò uno sguardo sospettoso prima
«Come facciamo, allora?» si disperò la nonna Nina. a me, poi a Oksana. Di punto in bianco si alzò, tornò con la
A quel punto, da una tasca del suo mantello multicolore e lettera del figlio strappata dal proiettile e la porse alla zingara.
voluminoso Oksana tirò fuori tre zollette di zucchero e le buttò «Di questa che mi dici?»
nell’acqua. Non appena scorse la lettera macchiata di sangue secco,
«Signore Iddio, non far mancare dolcezza e bontà a questa Oksana si alterò in viso.
santa donna!» la comare Dzneladze benedisse la zingara, fa- «Ты куда меня привёл, болван?»17 mi domandò con un filo
cendole anche il segno della croce. di voce.
«Che dice?» si scostò Oksana.
«Ti benedice» le spiegai. 17
Rus.: “Dove mi hai portato, stupido?”.
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Che cosa avrei potuto dire? Chinai la testa, in attesa del suo Attorno a un enorme falò ci furono danze, canti, giochi, liba-
verdetto. La zingara rimase immersa nei suoi pensieri molto gioni, baci, abbracci, schiamazzi, inframmezzati da risse, che
a lungo. Io e la comare Dzneladze la fissavamo con il fiato si protrassero fino al sorgere del sole.
sospeso. Alla fine Oksana disse: Tuttavia, la morale della favola non è questa, né il fatto che la
«La lettera è stata spedita per mano altrui, ed è quest’altro comare Dzneladze diede in dono a Oksana la sua fede nuziale.
che è morto...» No, il fatto più importante si verificò in seguito...
La comare Dzneladze cadde in ginocchio davanti alla zingara. Un bel giorno, il villaggio si svegliò e ci si rese conto che
«Giuramelo sulla vita del figlio che aspetti» la supplicò. dalla valle di Laš non giungeva alcun suono: nottetempo, gli
Quando tradussi a Oksana le parole della donna, la zingara zingari avevano smantellato il campo, avevano fatto fagotto e
rimase di stucco, sbarrò gli occhi, sbiancò in viso e si coprì la si erano portati dietro, assieme a qualche cianfrusaglia, anche
pancia con le mani, come a proteggerla da qualcuno o qual- una capra, due maialini, un vitello e una ventina di galline
cosa, poi si mise a carezzarla, bisbigliando qualcosa nella sua – tutti sgraffignati al villaggio – ed erano scomparsi senza la-
lingua. Ebbi l’impressione che pregasse, e che lo facesse con sciare traccia.
grande ardore, chiedendo perdono al suo Dio o idolo che fosse. Al giorno d’oggi, il valore di questi beni potrebbe sembra-
Improvvisamente le si distese sul volto una quiete celestiale, si re ridicolo, ma a quei tempi si trattava di un vero e proprio
rianimò e con un sorriso triste mi disse: capitale – giacché un uomo per un maialino era in grado di
«Скажи этой старой стерве, что жив её сын... и вот uccidere il prossimo.
знамения. У меня роды начались, родится сын и я его Quanto a inseguirli, avevano tali carri a quattro ruote e dei
Гришей назову!»18 cavalli tanto inarrestabili che era inutile anche il solo pensie-
E mentre traducevo queste parole, con voce tremolante, alla ro. E in più, nessuno sapeva in quale direzione cercarli – se in
nonna Nina, che nel frattempo copriva di baci i piedi nudi di quella di Ozurgeti,19 oppure in quella di Čokhatauri...20
Oksana, le urla della zingara si levarono alte nel cielo. E mentre il villaggio fremeva...
Nel giro di una mezz’oretta il cortile della comare Dzneladze E mentre il villaggio si affannava...
brulicava di gente dell’intero Zenobani e dell’intera tribù zin- E mentre nel villaggio si dibatteva...
garesca. La sera a Zenobani giunse un uomo che portò la notizia:
Sollevata in alto sulle braccia, come se fosse la Madonna, gli la milizia di Čokhatauri, per un sospetto, aveva fermato dei
zingari portarono via la figlia del loro capo assieme al piccolo “čačani”, li aveva costretti a confessare dei furti e chi, a Zeno-
Griša. bani, si ritenesse parte lesa era invitato a presentarsi al centro
E anch’io ero in mezzo a loro. provinciale.
19
Principale città e centro amministrativo della regione di Guria.
18
Rus.: “Di’ a questa vecchia arpia che suo figlio è vivo... ed eccoli i 20
Uno dei centri provinciali (poi capoluogo di provincia) della regione
segni. Sto per partorire, sarà un maschio e lo chiamerò Griša!”. di Guria.
36 37
Andò a presentarsi, se non l’intero, almeno mezzo villaggio: tato o la bestia acchiappata. Dopodiché l’anziano si rivolse al
non solo chi aveva davvero subito un danno, ma anche chi era capo della milizia:
semplicemente desideroso di godersi lo spettacolo. «Cos’è successo, signor Kikitia, perché ci ha chiamati?»
Una volta giunti, nel cortile della milizia scorgemmo gli zin- «Sei forse diventato sordo, Levarsi Berežiani? Vi ho appe-
gari. Non riuscivano a guardarci negli occhi. Mi piangeva il na detto di riprendervi ognuno le vostre cose; a questi qui ci
cuore per la mortificazione. Avrei voluto scoppiare a piangere penso io.»
davvero, e in quell’istante, per un motivo inspiegabile, avrei «Quali cose nostre, signor Kikitia?»
preferito trovarmi dalla parte degli zingari, piuttosto che da «Diamine, è vostra o no questa roba?» perse la pazienza il
quella dei miei compaesani. capo della milizia.
“Davvero non si rendono conto che questi disgraziati non «Era nostra, signor Kikitia!»
sono dei ladri? È che, semplicemente, ce l’hanno nel sangue, «Che vuol dire “era”?» il capo della milizia lanciò uno sguar-
il rubacchiare, e, quasi contro la loro volontà, appena passano do interrogativo ai miei paesani.
accanto a un oggetto, questo oggetto gli si appiccica addosso «Era nostra, signor Kikitia, ma l’abbiamo poi barattata, chi
come una calamita” pensavo io, ma tutti se ne facevano un per un treppiede, chi per una catena... Arsena Gudavadze»
baffo. Levarsi si rivolse a un suo vicino: «Qual è la tua bestia?».
Finalmente emerse dal suo ufficio il capo della milizia, Ki- «È quel maialino dall’orecchio sfregiato» Arsena indicò l’a-
kitia Osepašvili. Si appoggiò sulla balaustra della balconata nimale con la mano.
e si rivolse agli abitanti di Zenobani come un condottiero ai «Ma non l’avevi dato ai čačani in cambio di un treppiede e
partecipanti di una parata militare: una catena?»
«Conoscete questa gente?» «Gliel’ho dato, eccome se gliel’ho dato!»
«Come non conoscerli? Si sono fermati a Zenobani per due «Non si è mai sentito di un treppiede scambiato per un qua-
settimane intere» si fece avanti l’anziano del villaggio, il saggio drupede» scoppiò a ridere Kikitia.
Levarsi Berežiani. «Questi saranno pure affari miei!» disse Arsena con un pi-
«Questa roba è vostra?» Kikitia indicò i capi di bestiame e glio fiero, e si mise in disparte.
gli oggetti rubati, legati e ammassati in un angolo del cortile. «E quest’altro maialino?» domandò Kikitia.
«Questo è mio!» «Non è di nessuno» qualcuno si fece sentire dalla folla.
«Quest’altro è mio!» «Questa capra invece?»
«Questo invece è mio!» si buttò ognuno sulla propria bestia, «E che ne so io?» rispose la Dzneladze, come se la domanda
sul proprio volatile o oggetto. fosse stata posta a lei personalmente, e dopodiché si mise in
«Giù le mani, voi buoni a nulla!» Levarsi Berežiani richiamò disparte anche lei. La capra, belando, la seguì.
i suoi compaesani. «Se non è tua, Nina, allora perché ti segue?» le chiese il capo
Tutti, come fulminati, lasciarono perdere l’oggetto agguan- della milizia.
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«Perché è una capra, Kikitia, ed è senza cervello, proprio Nikola, il capo degli zingari: «Езжайте, дорогие, и извините,
come me» disse la Dzneladze, quindi afferrò l’animale, lo tra- пожалуйста, нет у них к вам никаких претензий».21
scinò a forza verso il carro degli zingari e ve lo legò. Noi e gli zingari lasciammo assieme il cortile della milizia.
«Donne, per quanto ne so, queste galline le avete date alle Rimanemmo gli uni davanti agli altri per un bel po’. Do-
zingare in cambio di divinazione e di buone novelle, non è podiché dal gruppo degli zingari si fece avanti Nikola, andò
così?» si rivolse alle compaesane Levarsi Berežiani. da Levarsi Berežiani e lo riverì baciandolo sul petto. Poi si
«È così, è così» si misero a vociare le donne. voltò senza proferire parola e si sistemò sul pianale del carro
«Allora, se tutto è a posto, cosa vi ha spinti a precipitarvi principale.
qui, a Čokhatauri, in piena notte?» chiese Kikitia, avvilito per D’un tratto si udirono richiami selvaggi, fischi, schiocchi di
l’imprevedibile esito. frusta, trepestio di ruote, e l’intrepida compagnia spiccò il volo
«Pensavamo a qualche altra disgrazia o sciagura, signor Ki- verso Sajavakho.
kitia. Come sappiamo tutti, c’è la guerra e...» Levarsi Berežiani Se ne andarono così i miei zingari: olivastri, vivaci, rissosi,
cercò di giustificare i suoi compaesani. fabbri e ballerini, indovini e ladruncoli. Se ne andarono senza
«Neanche questo vitello avrebbe un proprietario?» Kikitia voltarsi indietro, portando con sé i pochi averi del nostro vil-
fece un ultimo tentativo. laggio, lasciando però acceso, nella valle di Laš, un tale falò di
«Era mio, ma l’ho regalato al capo dei čačani» disse Le- speranza che tuttora arde nel mio cuore.
varsi. Se ne andarono i nostri zingari... e noi, tristi ma felici, molto
«Perché l’avresti fatto, Levarsi? È per caso tuo cugino?» gli soddisfatti del nostro comportamento, iniziammo a piedi la
domandò Kikitia. salita lunga e infinita verso Zenobani.
«L’ho fatto perché sua figlia ha partorito nel nostro villag-
gio e al bambino ha dato il nome della buonanima di Griša
Dzneladze...»
Gli zingari guardavano con meraviglia ora noi, ora il capo
della milizia. Capivano che attorno a loro stava succedendo
qualcosa di strano, ma ancora non avevano un’idea chiara di
che cosa si trattasse esattamente.
«E va bene» disse infine il capo della milizia, «se la mettete
così, tornatevene pure nel vostro Zenobani, ma che non vi pas-
si in mente di poter usare l’autobus. Così come vi siete presi
gioco di me davanti a questi čačani, ora ciabattate indietro al
vostro villaggio» concluse dandoci le spalle. Poi si rivolse a 21
Rus.: “Andatevene pure, cari, e vi prego di scusarci, non hanno
nessuna rimostranza da fare contro di voi”.
40 41
La corrida

[1974]

Dato iniziò il suo racconto come se fosse un cruciverba:


«All’alba entrammo in una città della Spagna...»
«Madrid!» esclamammo contemporaneamente io e Nana.
«Quando si avvera il mio?»22 Nana mi agguantò per i capelli.
«Mai!» le dissi io, e me ne liberai.
«Scemo!» disse Nana, e ritirò la mano.
«Non vi accapigliate, non era Madrid» ci tranquillizzò Dato.
«Saragozza!» disse Lili.
«No!»
«Barcellona!»
«No!»
«Bilbao!»
«No!»
«Siviglia!»
«No!»
«Ma magari non era neanche la Spagna la città in cui siete
entrati?» gli domandò Nana.
«Siete entrati dal mare o dalla terraferma?» m’incuriosii io.
«Dal mare!» disse Dato.
«Valencia» tentai la sorte.
«Valencia, giusto!» disse Dato e mi diede una pacca sul gi-
nocchio, poi riprese il racconto: «Nel pomeriggio ci lasciarono
22
Quando due persone pronunciano contemporaneamente la stessa
frase o parola, si fa a gara a chi tocca prima i capelli dell’altro e chi fa
prima proferisce tale formula: «Quando si avvera il mio desiderio?»,
oppure: «Quando proverò gioia?», e l’altra dovrebbe rispondere con una
supposizione: «Domani», oppure: «Tra un mese», ecc.
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andare in città. Dunque, camminai lungo la costa, di tanto in «E poi?» chiese Lili.
tanto mi giravo a guardare per il timore di perdere di vista «Ebbe inizio il combattimento. Quel giorno si esibiva Do-
l’albero della nostra nave. “Oh, hombre simpàtico!” sentii all’im- minguín: una divinità per gli spagnoli» e Dato si alzò. «Nell’a-
provviso, e vidi davanti a me una Madonna, che mi squadrava rena irruppe un toro candidissimo, solo nei sogni avrò visto
strabiliata...». una bestia del genere. Aveva le corna abbassate del colore am-
«Sì, certo, come no» disse Lili. bra sfumato, lievemente traslucide. La folla proruppe in gemiti
«Non credo ai miei occhi e alle mie orecchie» riprese Dato. di piacere. “Torooo!” A quanto pare, un toro del genere viene
«Dai, continua» lo incoraggiò Nana. portato in arena soltanto una volta all’anno, e solo contro i
«Mi chiese: “Eres xeorxjano?”, se fossi georgiano» Dato ci matador come Dominguín. L’animale, intanto, girò come una
onorò addirittura della traduzione, con una gran faccia tosta. trottola, poi, come se avesse scorto qualcosa di sorprendente, si
«“Sì, seňora, soy xeorxjano!” ammisi che sì, ero georgiano. “Viva fermò con gli occhi incantati. Al centro dell’arena si ergeva Do-
xeorxjanoo!”esclamò la Madonna e mi si gettò al collo. “Oh, minguín, e con un’oscillazione della muleta color sangue e un
paloma blanca, es espaňola usted?” le chiesi: “Lei è spagnola?”, mormorio appena percettibile stava attirando il toro a sé “Toro,
“Claro que si, claro que si!” mi rispose. “Viva Ispaňa!” esclamò e toro, toro.” E, nel frattempo, batteva i piedi al ritmo di samba.»
stavolta mi gettai io al collo della commossa Madonna» disse «È forte Dominguín!» commentò Lili.
Dato, e chiuse gli occhi. «Sànchez Mejías, al suo confronto, era un pivello!» ribatté
«Болван!»23 proferì Lia, e andò in cucina. Dato, senza nemmeno guardare dalla parte della ragazza; mi-
Dato rimase così, a occhi chiusi, finché Lia non rientrò dalla mò la postura di Dominguín, e riprese il racconto: «Improvvi-
cucina e portò con sé il caffè turco fumante. Dato prese la sua samente il toro si staccò dal suolo e si scagliò come un mete-
tazzina, l’annusò con enfasi, ne bevve un sorso e continuò il orite contro il torero. Dominguín si scosse appena, si piegò in
racconto: avanti con grazia e con la muleta coprì gli occhi al toro. L’ani-
«Per farla breve, io e quella donna ci ritrovammo in una male, contrariato, barcollò, non si resse, e con il muso e le corna
corrida. Ovviamente, con i suoi soldi» puntualizzò per ogni solcò la sabbia. “Oléé, oléé!” rimbombò la corrida.
evenienza. «È vero, ci avevano messo in guardia contro le pro- Il toro si rialzò velocemente, si scrollò dalla testa la rena e,
vocazioni e le trappole, dicendoci che la Spagna è sempre la mortificato, balzò di nuovo verso Dominguín. Uno e due, uno e
Spagna, ma che georgiano sarei stato, se il desiderio di una due... il toro caricava e caricava, tuttavia il torero, con sorpren-
donna...» Dato non finì la frase, e guardò verso le ragazze. dente maestria, scansava gli attacchi. L’animale gli sfrecciava
«Un testimone!» disse Nana. accanto come un ventaccio a un pioppo flessuoso, radicato in
«In simili affari non si portano i testimoni!» affermò Dato, e un posto, che ondeggia e fluttua a ogni folata, ma non si spacca.
bevve un altro sorso di caffè. “Oléé, oléé, toroo!” rombava senza posa la corrida.
E il toro si scalmanava e si dibatteva all’interno di questo
23
Rus.: “scemo”, “imbecille”. circolo vizioso di follia. Appena si sfiancò e sostò, si mise in
44 45
azione il picador. Colpì con la picca la groppa dell’animale e su- il pubblico – fatto di un unico, immenso gemito – del saluto del
bito si spostò di lato assieme al suo cavallo. Il sangue zampillò vincitore. Ma tutto ciò si rivelò una tattica: mentre Dominguín
e tinse di rosso il manto candido del toro. L’animale, colto di si dava delle arie, il toro si staccò dal posto a gran velocità...
sorpresa, si girò, e trovandosi davanti, invece dell’uomo, un “Uaaa!” emise d’un tratto il pubblico, e, subito dopo, com-
cavallo bardato di enormi trapunte affastellate, gli si avventò pletamente azzittito, balzò su come un sol uomo. E non so
contro il fianco senza indugio. Tuttavia non ebbe successo, e grazie a che cosa, se all’istinto infallibile del torero o all’im-
allora lo premette con più forza. A quel punto, il cavallo prima provviso gemito della folla, fatto sta che Dominguín si salvò
incespicò, poi crollò a terra assieme al cavaliere e oscillò inerme per un pelo: un secondo in più, un millimetro in più, e tra le sue
con gli zoccoli in aria. E prima che il cavallo già sollevato sulle scapole sarebbero penetrate un paio di terribili corna affilate
zampe anteriori si rizzasse anche su quelle posteriori, il toro, dalla morte...
come se non aspettasse altro, indietreggiò e, adocchiando sul Il toro s’infuriò di nuovo. Si ricominciò di nuovo a oscillare
ventre del cavallo un pezzetto di pelle esposta, lo caricò, e in la muleta come un’ala sanguinolenta della morte, si rinnovò
un batter d’occhio lo squarciò, all’altezza del rumine, come un l’interminabile sequela delle cariche, delle prove di velocità
lenzuolo. Ne udii persino il rumore» disse Dato, estasiato, fa- della vista, di potenza delle gambe, di coraggio, plasticità e
cendoci la dimostrazione visiva di tutto l’accaduto. Poi riprese bellezza. Fu la celebrazione di una grande arte.
a raccontare: E, infine, il toro esaurì tutto il suo vigore, tutta la sua abilità
«Dopodiché, il toro, in preda alla furia, con le corna e il mu- e forza, si svuotò. Si fermò, chinò la testa, e si mise a fissare la
so imbrattati del sangue del cavallo, fu attirato verso il centro terra. Rimase così per un po’, poi tuonò stupito e amareggiato
dell’arena da assistenti matador, mentre il cavallo sbudellato contro la terra, come a dirle: “Dov’è finito il corpo che avevo
e agonizzante veniva trascinato via, al suono di tintinnabuli e un’ora fa, traboccante di sangue, salute, forza e vitalità? Dove
sonagli, da asinelli agghindati a festa». Dato ci fece la dimo- l’hai nascosto?”.
strazione anche di questo. «A quel punto fu la volta dei ban- A quel punto Dominguín estrasse la spada e si mise di fronte
derilleros, che assalirono il toro e gli infilzarono sul garrese le all’animale. Adesso davanti a lui, invece del bianco – come se
banderillas ornate di nastri variopinti. Il toro s’imbestialì ancora l’avessero sostituito – stava un toro rosso...
di più. Sul corpo non gli era rimasta quasi più la superficie
bianca. Soltanto lungo le vertebre gli correva una candida stri- Davanti a lui stava il mio toro rosso, Švinda,24 il sostegno del-
scia scampata per miracolo. Si stava dissanguando, dimenava la nostra famiglia che ci procurava il pane, l’abitazione, il no-
la testa e barcollava come un ubriaco. Infine si fermò, allo stre-
mo delle forze. Dominguín non si permise di sfidarlo in queste
24
Il nome del toro viene dalla parola šindi [in georgiano: შინდი], cor-
niolo (Cornus mas), pianta diffusa nell’Europa centro-orientale, nell’Asia
condizioni. Gli concesse il tempo di tirare il fiato. Il toro non si
Minore e nel Caucaso, dai frutti del colore rosso-scarlatto. Il nome dell’a-
muoveva, sembrava pietrificato. Allora Dominguín gli diede le nimale, Švinda, considerata la desinenza “a” caratteristica nel georgiano
spalle, si voltò verso di noi, sollevò in alto le braccia e omaggiò del diminutivo, può essere tradotto come “Cornioletto”, “Corniolino”.
46 47
stro bue dal garrese e dalle ginocchia benedette. C’era Švinda, zia: la mia Spagna con i suoi baschi, le notti andaluse, le sue
poveretto, dai fianchi scavati, dalla pelle scorticata sul guida- Carmencite e i suoi Don José, le sue nacchere e i suoi allegro,
lesco e sugli stinchi, di fronte a Dominguín. Ruminava senza il suo sole rovente, i suoi repubblicani, la sua Bandiera Rossa,26
gusto paglia secca, si schermiva le pieghe da insetti fastidiosi García Lorca, e il padre dell’universo, Cervantes. Stava sva-
sventolando la coda e le orecchie; dal muso gli colava la bava, nendo da qualche parte uno dei sogni più incantevoli e mai
batteva placido le palpebre su un paio di grandi occhi intelli- realizzati della mia infanzia. Avvertii tutto ciò con una tale
genti, e aspettava con pazienza mio padre che, dopo pranzo, chiarezza che mi arrabbiai con me stesso, e mi alzai in piedi.
l’avrebbe legato al giogo e l’avrebbe rimesso nel solco interrot- «È una baggianata, dall’inizio alla fine, il tuo racconto!» mi
to come la linea della vita nella valle di Alazani.25 rivolsi a Dato, rendendomi subito conto di essere stato forse un
E adesso, proprio questo mio sostegno, questo gran lavo- po’ sgarbato, ma per qualche ragione non mi rimangiai nulla.
ratore, fedele, accudito come un figlio, il mio Švinda, doveva «Perché?» ribatté Dato con il più calmo dei toni. Mi accorsi
essere ucciso per mano di questo fiero figlio della Spagna con tuttavia di come un suo zigomo pallido fu tirato giù due volte
tortura, tradimento, slealtà e sfacciataggine... Mi venne un da un nervo.
groppo alla gola grande quanto un pugno, e dovetti coprirmi il «Perché i cimiteri della Spagna sono pieni di toreri dal petto
viso con le mani. Dopodiché, ingoiai quel groppo assieme alle spaccato e dalle scapole frantumate» risposi.
lacrime e mi alzai. Non mi ricordo come lasciai quella donna, «Mai sentito di un torero sfidato a combattimento da un
la corrida, e uscii fuori. Ho soltanto il ricordo di me esterre- toro» disse Dato con un sorriso.
fatto che sfuggo dal gemito e dal fiato caldo della corrida che «È comunque una baggianata!»
continua a inseguirmi come la lava incandescente eruttata da «Mi meraviglio di te!» si fece sentire Nana.
un vulcano. Tornai sulla nave. Finché la nostra imbarcazione «Ma non ti meravigliare troppo, per l’amor del cielo!» le
circumnavigava la Spagna, non scesi neanche una volta sulla dissi, e mi sedetti.
costa, non misi più piede in terra spagnola» Dato concluse il «Abbasso l’umanità, viva il cannibalismo!» mi applaudì Lili.
suo racconto e sprofondò nella sedia. «Chi se ne frega della tua pseudo umanità da quattro soldi?»
Nella stanza calarono una calma e un silenzio improvvisi. Le feci io.
ragazze, incredule, sedevano come imbambolate, non riuscen- «E il toro?» mi chiese Lili, meravigliata anche lei.
do a proferire parola. Dato aveva cominciato il suo racconto «Quale toro?»
con un tono tra il semiserio e il faceto, e, a dire il vero, nessuno «Il toro bianco, signoria vostra, quello bianco. Non ti ha fatto
di noi si sarebbe aspettato un finale del genere. Ora io sedevo pena?»
sulla mia sedia, a occhi chiusi, e sentivo come si avvolgevano «E di grazia, quale animale, invece del toro, avreste il cuore
lentamente da una rosea caligine i dolci sogni della mia infan- di sacrificare al torero, signora mia?» domandai con scherno.

25
Alazani: fiume della Georgia orientale. 26
In italiano nel testo.
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«Nessuno, signoria vostra!» mi dileggiò Lili. Un brivido mi corse lungo tutto il corpo.
«E allora che cosa dovrebbe fare il povero torero? Come do-
Onorai come si deve, grazie a te, anche il mio morto
vrebbe comportarsi?» Sedetti e scrissi, piangendo, poesie su di te, mio supporto...28
«Che si comporti, signoria vostra, come ci comportiamo noi
georgiani» m’istruì Lili. Concluse Nana. Poi abbassò le mani e mi fece un sorriso
«Sarebbe a dire?» colpevole. Fui liberato di un enorme peso dal cuore. Afferrai
«In ogni caso, uccidere un toro, torturandolo così, è una bar- il cappello e mi avviai verso la porta.
barie.» «Aspetta! Ma dove vai? Non mi devi accompagnare?» mi
«Ah, e ti sembra meglio essere castrati a un anno, domati a chiese Lili e si alzò anche lei.
due, legati al giogo a tre, e per dieci anni, senza la possibilità «Oggi ti accompagna Dato» le dissi, e uscii fuori.
di drizzare le ginocchia e il garrese, arare la terra, seminare, Nei pressi del mercato di Vere, davanti alla macelleria, era
trebbiare, trasportare pietre e ghiaia, avere la schiena scorticata fermo un veicolo-frigorifero lungo come un vagone. I lavo-
a furia di frustate, e poi, una volta invecchiato, debilitato, pelle ratori curdi, con i sacchi di iuta buttati sulla schiena a mo’ di
e ossa, con le vene gonfie, essere sgozzato con un coltellaccio, cappucci dei Ku Klux Klan, vociando trasportavano la carne
scuoiato, appeso a testa in giù sopra un bancone e venduto a nel negozio. Per strada stagnava un puzzo nauseante, miscu-
caro prezzo. È meglio così?!» dissi, e per nascondere l’agita- glio di umidità e sangue rappreso.
zione, mi alzai, andai alla finestra: nella strada sferragliava un Non era certo un bel vedere, eppure mi fermai a osservare.
escavatore, oscillando l’enorme proboscide. Le tazzine posate Due lavoratori issati sul cassone porgevano imprecando quarti
sul tavolinetto tintinnarono in modo snervante. Poi, finalmen- di carne scuoiata a due colleghi accostati di spalle, i quali, im-
te, l’escavatore passò oltre, e nella stanza tornò il silenzio. precando a loro volta, portavano i pezzi irrigiditi come legni
«Да... чем больше любим мы животных, тем они вкуснее»27 dei vari Tsikara, Švinda, Ghvinia, Nikora,29 e li impilavano co-
proferì Lili dopo una pausa, e fece un sorriso stentato. me in una catasta sul bancone della macelleria.
Dato torturava la pipa. Nana sedeva coprendosi il viso con «Hai una sigaretta?» mi chiese uno dei lavoratori usciti dal
le palme delle mani e, improvvisamente, iniziò a declamare negozio, soffiandosi sulle mani intirizzite.
una struggente poesia: 28
Versi tratti dalla poesia Il toro del poeta georgiano Šota Nišnianidze
Erano le nozze... ahimè, il cinereo cuore mi doleva, (1929-1999).
Ti accasciammo, sfiancato, e ti aprimmo la gola... 29
Nella mitologia e nella cultura contadina georgiane, nomi dati ai
buoi. Tsikara [in georgiano: წიქარა]: toro dal manto rosso acceso, è
protagonista di una fiaba tradizionale. Nikora [in georgiano: ნიკორა]:
27
Rus.: “Già... più amiamo gli animali, più risultano gustosi” [frase bovino o equino che ha una macchia rotonda (palla di neve, stella) sul
probabilmente desunta da un aforisma di Vladimir Goloborod’ko (1940- muso. Ghvinia [in georgiano: ღვინია]: diminutivo derivante dalla pa-
2019), letterato, aforista e giornalista russo-ucraino. La citazione esatta rola ghvino (“vino”, in georgiano), mentre Švinda, come accennato sopra,
è: “Più ci prendiamo cura degli animali, più risultano gustosi” (NdT)]. dalla parola šindi (“corniolo”).
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«È gelata?» gli domandai, porgendogli la sigaretta. Il sole
«Certo, quella calda è nei campi a brucare l’erba!» mi rispo-
se, e mi chiese da accendere. [1974]
Onorai come si deve, grazie a te, anche il mio morto
Sedetti e scrissi, piangendo, poesie su di te, mio supporto...
Alla memoria dell’amica Gulda Kaladze, che per la prima volta mi
Mi rammentai della poesia declamata da Nina, e mi venne fece scorgere una luce verde sulla punta del sole calante nel mare.
da piangere. Non dissi più nulla al lavoratore, mi voltai e me
ne andai. Nei pressi del palazzo illuminato della Filarmonica Si degnò di levarsi alle sei del mattino e si pose come un
mi fermai di nuovo, e levai lo sguardo sulla statua della Musa diadema d’oro sul monte Ertsakhu.30
dalle braccia allargate. Mi sorrideva in un modo, la benedetta, «Buongiorno, Ertsakhu!»
con i suoi occhi straordinariamente grandi, verdi e belli, come «Dove sei stato, creatore, la tua attesa mi ha consumato!» si
se mi dicesse: «Che ci puoi fare, signore mio, è così che va il lamentò Ertsakhu.
mondo». «Sono qui!» disse il sole.
«L’anello di ghiaccio mi sta quasi facendo scoppiare la testa,
Il sonno non accennò ad arrivare per un bel po’. Poi l’oscu- respiro a fatica, il mio occhio sveglio non ha visto un minuto
rità si trasformò in una rosea caligine, e sentii come tornava di di tregua per tutta la notte, aiutami!»
nuovo da recondite lontananze il dolce sogno smarrito della «Subito!»
mia infanzia: la mia Spagna, con i suoi baschi, le notti andalu- Il sole si alzò leggermente. Il suo cerchio si ammantò di un
se, le sue Carmencite e i suoi Don José, le sue nacchere e i suoi alone e improvvisamente si profuse in tanta di quella luce che
allegro, il suo sole rovente, il suo Don Chisciotte e il suo Sancio il monte vacillò. L’anello di ghiacciò scricchiolò, poi pian piano
Panza, i suoi repubblicani, la sua Bandiera Rossa, García Lorca, si tese, e d’un tratto si spaccò. Ertsakhu fu scosso da un brivido.
e il padre dell’universo, Cervantes. Mi addormentai cullato in «Sia benedetta la tua potenza, creatore!» esclamò il monte,
una rosea caligine, infinitamente felice di poter ancora rivivere e si pulì il sudore freddo dalla fronte. Il sole sorrise e attorno
uno dei sogni più incantevoli della mia infanzia. all’occhio divino gli comparvero innumerevoli rughe.
«Benedetta la tua potenza!» ripeté Ertsakhu, e si placò per
un attimo.
Il sole si sollevò ancora. Le falde del Caucaso, i crepacci, le

30
Ertsakhu o Ertsakhvi [in georgiano: ერცახუ, ერცახვი]: monte del-
la catena del Caucaso, alto 3910 m, situato nella regione dell’Abkhazia,
Georgia nord-occidentale.
52 53
conche si colmarono del frastuono, del rimbombo e del boato «Mamma, guarda un po’ il sole e Ertsakhu!» gridò.
terribile di inarrestabili valanghe. Ertsakhu fu avvolto dal va- La donna badava al latte messo sul fuoco in una capanna di
pore, dalla nebbia e dalla bruma creata dalla neve sollevata. tronchi. Al richiamo del figlio si voltò per un istante verso est,
Poi a poco a poco si svelò, aprì gli occhi e diede uno sguardo e in quello stesso istante il latte traboccò.
turbato al sole. Quest’ultimo si era alzato ancora più in alto. «Mannaggia a te, figlio mio!» imprecò la madre, tuttavia non
«È iniziata!» proferì Ertsakhu con voce strozzata. riuscì a togliere gli occhi dal sole e da Ertsakhu.
«Che cosa?» s’incuriosì il sole. «Che ti prende, donna, che non dai al ragazzo il tempo di
«La nascita!» svegliarsi?» la rimproverò il marito.
«E di chi?» «Guarda un po’ Ertsakhu!» ribatté la moglie.
«Dei figli, dei nipoti: Kodori, Psou, Kelasuri, Moqvi, Gha- Il contadino stava zappando il campo di mais. Strizzò un
lizga, Čalbaši, Machara, Ketevana...»31 occhio e scrutò così il consueto miracolo.
«Sono tutti tuoi?» «Oggi sarà una bella giornata!» disse, facendosi sentire dalla
«Miei e dei miei fratelli.» moglie, e tornò a zappare.
«Moltiplicatevi!» li benedì il sole.
Ertsakhu sorrise. Quando fu sovrastato dal sole, il mare sonnecchiava e bat-
«Noi siamo al contrario, creatore: abbiamo più figli e meno teva le bianche ciglia sulla sabbia, frusciando.
figli dei figli, i loro figli – ancora meno, e infine una enorme «Sciuuu... sciuuu... sciuuu...»
progenie – il mare!» «Buongiorno!»
Ai piedi del Caucaso dormiva un mare estesissimo, sconfi- «Lunga vita a te!»
nato, inesauribile. «Che fai?»
«Il mare!» si rammentò il sole. «Tre giorni or sono è annegato un umano. L’ho perso in qual-
Ertakhu lanciò uno sguardo alla progenie sua e dei suoi fra- che insenatura. Ero molto agitato, mi dicevo: “E se non riuscissi
telli. Ora, illuminato dal sole, il monte sembrava un gigante, a trovarlo?”. L’ho trovato ieri, e finalmente mi sono calmato.»
nudo fino alla cintola, emerso dalla nebbia. «E chi era?» s’incuriosì il sole.
«Non saprei. A quanto pare, nessuno. Non l’hanno cercato.
Un fanciullo cacciò la capra fuori dal cortile. Quando si ri- L’ho spiaggiato io stesso, e solo allora l’hanno trovato. Erano
chiuse il cancello alle spalle e si diresse verso la casa, improv- in due, e se lo sono portato. Non so nemmeno dove.»
visamente scorse Ertsakhu e un sole enorme sospesi nel cielo «Come mai?» gli chiese il sole.
uno accanto all’altro. «Non posso mica alzarmi e seguire un uomo come puoi fare
tu!» sorrise il mare.
31
Fiumi dell’Abkhazia, che partono dai ghiacciai della catena del Cau- «È iniziato!» disse il sole.
caso meridionale, sfociando poi nel Mar Nero. «Che cosa?» s’incuriosì il mare, e sollevò le palpebre.
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«Sono arrivati gli umani.» «Che disturbi ha?» chiese al malato il primo dottore, e si
Gli esseri umani approdavano sul bagnasciuga da soli o in vergognò lui stesso della domanda.
gruppi. Si svestivano, si stendevano sotto il sole, correvano, si L’infermo aveva tutti i disturbi possibili e immaginabili, solo
voltolavano, si inseguivano, si agguantavano, cercavano ciot- che non riusciva più a dirlo.
toli, conchiglie e pietre forate appariscenti, se li appendevano «Da quanto tempo è in queste condizioni?» chiese il secondo
sul collo, davano fuoco ai fuscelli portati dal mare, oppure, dottore a una giovane donna spaventata, e ne provò imbaraz-
semplicemente, stando in piedi, gettavano ciottoli in acqua. zo anche lui, poiché sapeva bene che erano ormai anni che il
Infine, aprivano tende, ombrelloni, teli, e si sottraevano alla malato si trovava in quelle condizioni.
vista del sole. Il sole, allora, non riusciva a scorgerli. «Aria!» implorò l’infermo.
«È incredibile! Quando non ci sono, scrutano il cielo per set- Spalancarono le finestre.
timane e settimane, ansiosi di vedermi. Ma non appena faccio «Chiudete la porta sul retro, ci sono correnti d’aria, prenderà
capolino, si nascondono all’istante sotto gli ombrelloni, i teli, un raffreddore» si pronunciò il terzo dottore, e si rese conto di
le tende, gli alberi e chissà cos’altro» disse il sole. averlo fatto soltanto per non far dire agli astanti che il terzo
«Cos’altro fanno come si deve?» gli chiese il mare. medico non aveva spiccicato parola. Se ne rese conto, e provò
Il sole si alzò ancora più in alto, e ai suoi occhi gli umani vergogna anche lui.
divennero sempre più piccoli. «Spalancate tutte le porte, tutte le finestre, fate saltare il tet-
to, il pavimento, sbrecciate tutte e quattro le pareti, e datemi
Dal cortile di una villetta recintata con un muro di pietre molta, molta aria...»
sbucò un uomo e corse trottando lungo la carreggiabile. Acco- Al centro della stanza, l’omone ammalato, appoggiandosi
stò il cancello di una villetta vicina, si accasciò su un pietrone alle spalle della giovane moglie e di un amico, si divincolava,
piazzato ai piedi dell’inferriata, e attaccò a chiamare: e con gli occhi pieni di terrore e i polmoni affamati implorava
«Vieni fuori, essere umano, mi sta morendo il figlio!» la parte d’aria spettante all’umanità.
Un essere umano venne fuori e lo consolò: Il padre condusse in disparte il primo dottore e gli chiese:
«Non aver paura!» «Qual è la nostra situazione, signor dottore?»
«Come non aver paura, benedetto, se sta morendo!» «È grave, tuttavia se ci dessimo subito da fare...» mentì il
Allora questo essere umano corse in una direzione diversa e primo dottore.
tornò portando con sé un mucchio di altri esseri umani. Il padre, rincuorato, si rivolse al secondo.
Da quel mucchio se ne staccarono tre ed entrarono dal malato. «Se lo trasferissimo a Mosca d’urgenza...» mentì anche il
«Sono dei professori!» disse qualcuno. secondo dottore.
«Ma davvero?!» «Come si chiama questo disgraziato male?» il padre inter-
Nel cortile sbocciarono silenzio e speranza, contemporanea- rogò stavolta il terzo.
mente. «La morte!» non poté trattenersi quest’ultimo.
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«Come, mi scusi?» Il padre pensò di avere sentito male. «L’amore è un’assuefazione e vicinanza smisurate tra gli
«La morte!» ripeté il terzo dottore. esseri umani, nient’altro!» disse l’uomo, e posò sull’ombelico
«Sì, però, i farmaci?» si confuse il padre. della donna, stesa sulla sabbia a pancia in su a prendersi il sole,
«Il farmaco di questo male è la morte!» il terzo dottore si un ciottolo bianco, caldo.
mise il cappello e se ne andò. Lo seguirono anche il primo e il «Lei crede?» chiese la donna senza aprire gli occhi, e con un
secondo. movimento aggraziato delle belle dita buttò il ciottolo giù dal
«Allora?» chiese la giovane donna al padre rientrato nella ventre.
stanza. «Cinque calorie bruciate, cambiare il lato!» si udì dal rauco alto-
«Dicono che sopravvivrà» disse l’uomo. parlante l’annuncio della guardia medica della spiaggia.
La donna si rigirò.
«Che succede?» chiese il mare al sole addentrato nella stanza. «Altroché crederlo, è così!» replicò l’uomo, e stavolta collocò
«Sta per morire un essere umano!» rispose il sole. i ciottoli proprio in quei graziosi incavi sopra le natiche che si
«Sta morendo così, come se niente fosse e basta?» chiese chiamano fossette di Venere.32 La giovane non si mosse.
sorpreso il mare. Allora il ragazzo l’accarezzò, dalla vertebra cervicale fino
«I dottori l’hanno già abbandonato» gli comunicò il sole e si all’osso sacro, con una mano tremolante. La ragazza si drizzò
strinse nelle spalle. subito a sedere. Sollevò le palpebre appesantite da un mascara
«Tu non abbandonarlo!» disse il mare. nero e mise il giovane uomo a fuoco dei suoi occhi azzurri.
«Come non abbandonarlo, chi ha mai sentito del mio fer- «Com’è impaziente, lei» gli disse.
marmi in un posto?» si meravigliò il sole. Stavolta il ragazzo sbirciò dentro il décolleté per metà sco-
«Non abbandonarlo!» gli ripeté il mare. perto della ragazza, scorgendone i capezzoli bruni.
«Che ci posso fare io se sta morendo. E come se non bastasse, «Io?» domandò, facendo lo stupido.
gli umani l’hanno già abbandonato.» «Lei» disse la donna, e sollevò gli occhi al sole. Il sole non
«Tu non ci pensare agli umani. Quelli si abbandonano l’un riuscì a trattenersi e con concupiscenza accarezzò le spalle e le
l’altro molto spesso e senza tanti scrupoli. Ma se tu non l’ab- cosce della ragazza con mani roventi. La giovane se ne infa-
bandoni, l’uomo non muore. Non farlo!» lo implorò il mare. stidì. Di punto in bianco si alzò, si allungò, si tese, si slanciò.
«Non posso. Io sono in grado di fare soltanto una cosa: Adesso il sole le sfiorò il seno.
ritornare domani alla stessa ora» si giustificò il sole. Sgusciò «Falla venire da me!» chiese il mare al sole. Il sole rise, e si
fuori dalla stanza, scavalcò la ringhiera del balcone e se ne mise allo zenit.
andò. «Falla venire da me!» il mare gli ripeté la richiesta.
«Te ne vai?» chiese il mare.
«Me ne vado» rispose il sole senza voltarsi indietro. 32
Nell’originale georgiano: ღვთის ყავარჯენი [ghvtis kavarjeni], let-
teralmente “appoggio di Dio”.
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«È tutta tua!» disse il sole al mare, e diede una spintarella «Esci un attimo e fammi il favore di allontanare queste cose
alla donna. La giovane si buttò in mare. Mille occhi eccitati, dalla croce e dalla tonaca, non mi pare bello che stiano così
accesi e avidi la seguirono fin dentro l’acqua. vicini» disse il prete e diede uno sguardo di sbieco al cappello
«È vita!» disse la ragazza, si stese a pancia in su e guardò il e alla rivoltella da poliziotto buttati accanto ai suoi indumenti.
sole. Il poliziotto emerse dall’acqua, svogliato, e coprì il cappello
«È vita!» confermò il sole. con i pantaloni, la rivoltella, con la giubba color kaki.
«Così può andare?» chiese al prete.
«Si svesta qui, padre, c’è meno gente» disse il poliziotto33 a «Che l’hai portata a fare?» il prete rispose alla domanda con
un giovane prete, si sedette sulla sabbia e con il dito indice si una domanda, e mise un piede nell’acqua.
pulì il sudore dalla fronte. Il prete si guardò attorno, si tolse il «Che ci posso fare, padre, la mia croce è questa!» sorrise il
berretto viola, lo buttò sulla sabbia, si sfilò poi dal collo un’e- poliziotto e tastò l’arma sotto la giubba.
norme croce d’argento, la pose accanto al berretto e la coprì «È la croce di Satana, quella!» il giovane prete si fece il segno
con la tonaca bianca. della croce, e si tuffò nell’acqua. Quando emerse, aveva gli
«Tanto valeva farsi il bagno sulla spiaggia di Sinope,34 eh? occhi chiusi e un sorriso di piacere stampato sul viso.
Non ci sarebbe stata più gente» disse il prete tra il risentito e «È vita!» disse. Con la catena d’oro che gli pendeva dal collo,
l’ironico. la barba lunga nera e i capelli bagnati che gli spiovevano sulle
«Ormai non se ne trovano più spiagge senza gente, padre» spalle, il prete ora aveva l’aria di un hippy scappato di casa, men-
replicò, risentito a sua volta, il poliziotto, e si mise anche lui a tre il poliziotto, con i suoi capelli tagliati e la barba rasata come si
svestirsi, mandando nel frattempo in cuor suo maledizioni al conviene, sembrava il figlio beneducato di una buona famiglia.
suo superiore per avere dato a lui il compito di fare da pastore «Guardi un po’, padre, come la scrutano quelle ragazze!» il
a questo sciagurato. poliziotto lo fece voltare. Il prete aprì gli occhi. Un po’ discoste
Per primo entrò in acqua il poliziotto. da loro, alcune ragazze svestite, floride, lanciavano sguardi
«È calda?» s’informò il prete. languidi in direzione del giovane prete.
«Entri, padre, è bollente» rispose il poliziotto e si preparò a «Non penseranno mica, quelle lì, che io sia un monaco?»35
tuffarsi. chiese il prete al poliziotto. Quest’ultimo sorrise.
«Sono belle come le quaglie, queste ragazze. Uno le guste-
33
Nell’originale è impiegato il termine “miliziano” [in georgiano: rebbe anche non spennate, eh, padre, che ne dice?»
მილიციონერი, in russo: милиционер], agente appartenente alla “milizia” «Peccato confessato, mezzo perdonato» disse il prete, e sor-
(nome ufficiale delle forze di polizia sovietica). Nella presente traduzio- rise anche lui.
ne abbiamo optato per il termine “poliziotto” per ragioni di scorrevo-
lezza e per evitare l’ambiguità semantica intrinseca al termine italiano
“miliziano”. 35
Secondo il diritto canonico ortodosso, i preti, a differenza dei mo-
34
Sinop, Sinope: città della Turchia, sulla costa del Mar Nero. naci, non sono tenuti a fare il voto di castità.
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“Che bravo ragazzo che sembra questo mascalzone, chissà oppure Callistrato, e invece si chiama Nodar» il giovane si
come mai è entrato nella polizia” pensò il prete, e si addentrò sbellicò dalle risa.
nell’acqua. Rise anche il prete, poi si alzò e diede al poliziotto una pacca
“Che bravo ragazzo che sembra questo mascalzone, chissà sul braccio.
come mai è entrato nella chiesa” pensò dal canto suo il poli- «È il mio nome da laico, quello. Va bene così, ora vestiti!»
ziotto, e si addentrò nell’acqua pure lui. «Stiamo un altro po’, padre» lo supplicò il poliziotto.
«Ha moglie e figli, padre?» gli domandò, nuotandogli vi- «È che fra poco comincia il convegno, altrimenti non avrem-
cino. mo avuto di meglio da fare che stare qui!» disse il prete e si
«No!» mentì il prete, e andò sott’acqua. mise a vestirsi. Da una curva sbucò una Volga nera, dirigendosi
«Saresti mica lo Spirito Santo?» gli chiese il poliziotto, appe- verso i due. «Ecco, te l’avevo detto, anche l’auto è qui.»
na il prete affiorò in superficie. «Un altro po’, padre.»
«Lo Spirito Santo è uno al mondo» rispose il prete e fece il «Non me lo farei ripetere due volte. Se non avessi un discor-
morto a galla. so da fare...» il prete allargò le braccia con dispiacere, e poi fece
«Ma non erano tre?!» lo riprese il poliziotto. ricadere sopra la tonaca quell’enorme croce d’argento. Adesso
«Come tre?» domandò il prete, e si rigirò. era di nuovo un prete. Tuttavia, una volta vestitosi anche il
«Padre, Figlio e lo Spirito Santo!» proferì con un orgoglio da poliziotto, quest’altro pareva più un carcerato.
saccente il poliziotto. «Ci ha quasi ustionati, questo disgraziato!» disse il poliziot-
«Tutti e tre sono uno, ragazzo!» disse il prete. to, e levò lo sguardo al sole.
«Come possono essere tutti e tre uno, padre?» chiese con un «Intendi il sole?» domandò il prete.
tono beffardo il poliziotto. «E cosa sennò, la luna?» rispose, accaldato, il poliziotto.
«Guarda, questo stesso sole che vedi, anch’esso è trino: di- «Fatti immediatamente il segno della croce, e di’: “Dio, ho
sco, aureola e luce. E così, come questi sono inseparabili ed è peccato!”» l’esortò il prete con severità.
impossibile immaginarli, allo stesso modo è inimmaginabile Il poliziotto lanciò uno sguardo incredulo al prete, pensando
la trinità separata, è chiaro?» chiese il prete. che il chierico non sapesse con chi avesse a che fare, e si calò il
«Sì, se lo dice lei» rispose il poliziotto. berretto stellato sulla fronte con un forte gesto di entrambe le
Il prete non replicò, uscì dall’acqua e si sedette sulla sabbia mani. Il prete si rese conto di avere sbagliato, e stavolta tentò
bollente. di spiegarsi con garbo:
«Come si chiama, padre?» gli domandò d’un tratto il poliziotto. «Il sole non merita un tale appellativo, il sole è l’icona di una
«Nodar» il prete afferrò un ciottolo e lo buttò in acqua. Il notte assolata» e levò con ardore uno sguardo verso il corpo
poliziotto scoppiò a ridere. celeste.
«Che hai da ridere?» chiese sorpreso il prete. «E “notte assolata” che cavolo vorrebbe dire?» gli chiese il
«Avrei scommesso che si chiamasse, che so, Onofrio, Luca, poliziotto.
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Il prete rimase di stucco. «Ciò che dicono sul tuo conto è vero?»
«Dio, perdona il peccatore, poiché è uno sciocco, un igno- «Sciocchezze. Io sono tutt’altro essere. Lo sai anche tu che
rante, e non sa quel che dice» il prete intercedette presso Dio l’umano non è in grado di comprenderlo.»
a favore del poliziotto. «E che ne so io, pare sia una tua creatura, l’essere umano»
«E comunque, cosa significherebbe “notte assolata”?» insisté rise il mare.
il poliziotto. «È una menzogna. Io non ho preso parte alla sua creazione.
«Dio!» Quando venni io, lui c’era già. Non fui io a dargli il nome. Fu
«È sia il sole che la notte?» egli stesso a darsi il nome di essere umano, e perciò non ho
«Esatto, ed è talmente luminoso che risulta tenebra, notte, idea di chi sia, di quando nacque, del luogo da cui provenga.»
per l’occhio umano, perciò è notte assolata!» spiegò il prete. Il sole se ne lavò le mani e mandò giù sulla terra tutti i dardi
Il poliziotto rise. di luce a sua disposizione.
«Leva lo sguardo al sole!» gli ordinò d’un tratto il chierico.
Il poliziotto alzò lo sguardo e, non riuscendo a reggere la «Дельфин, я чайка, справа от вас большой косяк!»36 tra-
vista della luminosità, distolse gli occhi. smise l’elicottero al peschereccio.
«Guardalo dritto!» gli ordinò di nuovo il prete. «Я дельфин, вас понял!»37 rispose il peschereccio, e si dispo-
«Non ci riesco, padre!» se a calare in acqua un’enorme rete. A fior di onde blu apparve
«Guardalo, prova a guardarlo a lungo.» una punteggiatura di galleggianti bianchi.
Il poliziotto si sforzò. Simile alla lama affilata di un coltello, «Entrate più a fondo, gli umani vi stanno braccando!» il ma-
la luce sembrava tagliargli le pupille. Il giovane, per evitare re mise in guardia la carovana di pesci.
una figuraccia, cercò di resistere. I pesci cambiarono rotta e si riversarono nel fondo del mare.
«Di che colore è?» gli domandò dopo un po’ il prete. «Дельфин, косяк уходит влево, курс против солнца! Курс
«Color rame!» против солнца!»38 l’elicottero avvertì il peschereccio.
«Continua a guardarlo!» La nave invertì la rotta, si erse contro il sole e, procedendo a
Al poliziotto parve che il sole gli colasse dentro gli occhi e, tutta birra, aggirò il banco di pesci da sinistra. La punteggiatura
con un gesto involontario, se li coprì con la mano. Se li coprì dei gialleggianti si arcuò e in breve tempo si chiuse in un cerchio.
e si meravigliò. «In basso, in basso!» il mare richiamò i pesci, ma il banco
«È diventato nero, padre» disse con voce tremante. «Il sole era già nella rete.
è diventato nero!»
Il prete si voltò e andò verso la macchina.
36
Rus.: “Delfino, qui [parla] Gabbiano, alla vostra destra c’è un grande
banco di pesci!”.
37
Rus.: “Qui Delfino, intesi!”.
«Lo senti?» chiese il mare al sole. 38
Rus.: “Delfino, il banco si dirige a sinistra, direzione contro sole!
«Lo sento» disse il sole, e del giorno fece mezzogiorno. Direzione contro sole!”.
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«Есть!»39 l’elicottero si congratulò dall’alto con il pesche- «Il padre, l’infelice, e la moglie, altrettanto infelice.»
reccio. «Nient’altro?» al sole parve troppo poco.
«Спасибо!»40 trasmise il peschereccio all’elicottero. «Gli rimane anche un abbozzo non terminato, piccolo pic-
«È finita!» sospirò il mare. colo, di una statua...»
Tirarono la rete, e l’acqua si tinse del sangue dei pesci schiac- «Che statua è?»
ciati dal proprio peso nelle maglie. Il ponte della nave si riempì «Non saprei, non ha la testa. Non so nemmeno se sia uomo
di gabbiani garruli, affamati, mentre sulla riva si accalcavano o donna.»
uomini interessati al pesce e allo spettacolo. Il sole rimestò la «Come l’ha rappresentata?»
mano d’oro nella rete piena di pesci, li sparpagliò sul ponte «Ha una bella costituzione, sottile e flessuosa, i fianchi alti
come fossero tante monete d’argento, dopodiché intinse nel e un paio di braccia lunghe, allargate: difficile dire se canti,
mare la mano insanguinata per pulirsela. danzi, nuoti, voglia spiccare un volo, abbracciare qualcuno o
«È così ogni santo giorno!» si lamentò il mare con il sole. qualcosa, se rida o pianga. Magari corre da qualche parte, op-
«È impossibile assistere a questa scena ogni santo giorno!» pure fugge da qualcosa, non saprei...»
disse il sole, e voltò la faccia leggermente verso ovest. «Allora chi lo sa?»
«Probabilmente nessuno. L’uomo si portò con sé il proprio
Dall’una alle quattro del pomeriggio gli esseri umani spari- pensiero.»
rono tutti in una volta come se li avesse inghiottiti la terra, poi «Gli uomini non sanno cosa vogliono» disse il sole.
sbucarono tutti in una volta dalle loro tane, e, a partire dalle «Non dirlo così, sole» il mare tentò di fargli venire lo scru-
quattro, si rimisero a fare all’incirca ciò che avevano fatto dalle polo.
sei del mattino fino all’una. «Non ha chiesto nulla prima di morire?» s’incuriosì il sole.
Il sole era allora adagiato su una nuvola, di un bianco can- «Ha chiesto l’aria.»
dido, dell’ovest, e guardava di sbieco il mondo. «E poi?»
Il sole non pensava a nulla. E quando si abbassò sempre di «Gliel’hanno data!» disse il mare.
più, fino a diventare il sole al tramonto, il mare lo ragguagliò: «E poi?»
«Quell’essere umano, sole, che hai abbandonato stamattina, «Non gli è bastata.»
è morto.» «Non gli è bastata l’aria?» si meravigliò il sole.
«È sparito? È finito?» si desolò il sole. «No» rispose il mare, dispiaciuto.
«No, gli esseri umani non spariscono, né finiscono.» Il sole non disse più nulla, si nascose dietro una nuvola. Il
«Allora, cosa ne è rimasto di lui?» mare si agitò leggermente.

39
Rus.: “Ci siamo!”. La sera, quando al calar del sole mancavano due dita, il corpo
40
Rus.: “Grazie!”. celeste diede ancora uno sguardo alla riva. Tuttavia si trovava
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già così in basso che non distingueva gli uomini dalle donne «Conosci la mia lingua per potermi parlare?»
tra gli esseri in attesa del suo tramonto. Tutti quanti allo stesso «La conosco, sia la tua che quella del mare.»
modo, alla stregua di candelabri placcati d’oro, ardevano sulla «Allora perché non gli rispondi?» gli chiese il sole.
spiaggia, e, avvolti dalla nebbia marina, fumigavano tutti in «Tutto quello che avevo da dire al mare, gliel’ho detto nella
modo simile. Allora il sole allungò il braccio d’oro da ovest a mia giovinezza. Ora non ho più nulla da spartire con lui, tran-
est, sfiorando un tronco nero buttato sulla riva, e chiese al mare: ne il figlio.»
«Questo tronco l’hai spiaggiato adesso, o c’era già e io non «Gli chiedi l’impossibile.»
me ne sono accorto?» «Chiedo il mio, non la carità. Me lo deve» insisté l’uomo,
Il mare era talmente abituato alla presenza di quel tronco inflessibile.
sulla riva che erano ormai cinque anni che non gli prestava più «Sei altezzoso tu, umano!» gli disse il sole.
alcuna attenzione. Appena il sole glielo rammentò, gli diede «Lo sono!» replicò l’uomo, e aggiunse: «Sono anche capace,
un’occhiata, e rise: però!».
«Questo non è un tronco, sole, è un essere umano.» «E di che cosa saresti capace?» gli chiese il sole.
«Chiedigli che cosa vuole, cosa ci fa qui?» «E tu?» gli chiese l’uomo.
«Che gli devo chiedere? Ogni volta che l’ho fatto, mi ha chie- «Io di tutto: posso far evaporare il mare, bruciare la steppa,
sto in cambio qualcosa. Impossibile riempire la coppa dei suoi fare del bosco un deserto, spegnere la vita» elencò il sole.
desideri. Prova tu a chiederglielo» si scansò il mare. «Tutto qui?» domandò l’umano, sorridendo.
«Che cosa ti chiede precisamente?» «E poi ancora, ecco!» esclamò il sole e d’un tratto assunse
«All’inizio mi chiedeva bel tempo, poi fu la volta della legna, l’aspetto di un vaso di terracotta rosso, poi di una giara rove-
poi del pesce, della sabbia, della conchiglia, del sale, della terra. sciata, di un fungo, della cruna d’un ago, dopodiché s’infilò
In questi ultimi trentatré anni mi chiede il figlio, nient’altro. dentro se stesso e si trasformò in un coniglio, poi in un lupo che
“Restituiscimi mio figlio”, mi dice. Come posso io restituirgli trangugiò quel coniglio, poi in un elefante, in un leone, in una
il figlio?» sospirò il mare. tigre, in un gatto, in una coppa, in una teiera, in una coppetta
«Se gliel’hai preso, perché non glielo restituisci?» domandò di vino, in un orecchino, in una collana, in una corona reale, e
il sole. infine tornò a essere di nuovo il sole. «Fra poco io tramonterò e
«Non sono stato io a prendermelo, l’ha fatto qualcun altro, lascerò nel mondo l’oscurità, ma anche quell’oscurità sarò io, io
e poi quell’altro ha dato la colpa a me» si giustificò il mare. sono tutto!» disse il sole, sfinito, e si adagiò su un orlo del cielo.
«Digli che il sole vuole parlargli» l’incaricò il sole. L’essere umano rise di nuovo.
«Umano, il sole ti vuole parlare» con la mano bagnata il «Che hai da ridere?» gli chiese il sole.
mare gli sfiorò il piede nudo. L’umano non si mosse. «Sono io, l’essere umano, a essere tutto» proferì quello.
«Umano, mi senti o no? Sono il sole e vorrei parlare con te.» «Mostrami di cosa saresti capace» il sole gli lanciò la sfida.
«Dica!» rispose l’uomo e levò uno sguardo obliquo al sole. «Io sono capace di farti scomparire completamente, poiché
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tu sei in me. Io posso fare in modo che tu per me non esista terra, il delfino sa che deve vivere e cacciare il pesce nel mare,
affatto, e per giunta con una tale semplicità che ti verrebbe da l’uccello sa che deve volare nel cielo e dormire sull’albero, il
ridere» disse l’umano, e si coprì gli occhi con una mano. «Ecco, rettile sa che deve strisciare e vivere nella terra... Com’è possi-
non ci sei più, fine!» bile che in questo universo non si sia trovato un posto adatto
«Vedo che sei anche arrogante» gli disse il sole, incredulo. a te? Perché vai a zonzo e non sai dove vivere, se nel mare,
«Lo sono!» non smentì l’uomo. «Sono capace di farti cose sulla terraferma o nel cielo? Accontentati o del cielo, o della
peggiori: posso scomporti, spezzettarti, rimpicciolirti» e con terraferma, o del mare... In fin dei conti, chi sei, da dove vieni,
gli indici l’umano si tirò le palpebre verso le tempie. che cosa vuoi, essere umano?» proruppe il sole.
Il sole percepì come venne scomposto, rimpicciolito, fran- Le sue ultime parole l’uomo neanche le udì, poiché il sole
tumato in dieci, cento pezzetti, all’improvviso, nelle pupille era quasi del tutto calato, e ciò che aveva detto era stato udito
dell’uomo. Lo percepì, e si sentì soffocare. soltanto dalla metà ancora in dormiveglia dell’umanità, e per
«Umano, togli la mano!» gli chiese il sole. L’uomo ritirò le giunta in modo indistinto. Il sole si dibatté per un’ultima vol-
mani dalle palpebre. ta e con la coda dell’occhio diede uno sguardo alla spiaggia
Il sole fece un sospiro di sollievo. svuotata. Accanto all’essere umano di prima, c’era adesso un
«Te l’avevo detto che eri in me! Sono io l’universo e tu sei al altro essere più piccolo.
mio servizio. Ecco, persino ora tu tramonti per presentarti al «Con chi stai parlando, nonno?» domandò il piccolo uomo
cospetto di un mio fratello dell’aldilà, e domani ti ripresenterai al grande.
di nuovo al mio cospetto, per servirmi tutto il giorno.» «Con nessuno, parlo con me stesso!» gli sorrise il grande.
«E se non mi presentassi?» disse il sole, ma la sua voce tra- «Guarda, al posto del sole si è accesa una luce verde» il pic-
diva la mancanza di fiducia in sé. colo lo indicò al grande.
«Alle sei del mattino, non un minuto in più, ti presenterai e «Si dice che chi riesce a scorgere una luce verde nel sole che
mi servirai!» gli ripeté l’uomo. tramonta, sarà un uomo felice» disse il grande essere umano
«Ma lo senti?» il sole, offeso, interpellò il mare. al piccolo, e gli posò una mano sulla testa.
«Lo sento!» gli rispose l’umano invece del mare. Quest’ulti- Quel giorno, quasi nessuno scorse la luce verde del sole,
mo sonnecchiava già, tuttavia sentiva tutto, non gli andava di tranne il bambino.
parlare, perciò preferì il silenzio e fece finta di dormire.
Il sole uscì di senno. Sarebbe tornato indietro volentieri, per L’indomani, come se fosse stato convocato, il sole si presentò
fare un dispetto all’umano, ma il tempo – questo signore di alle sei in punto e, come un diadema d’oro, si pose sul monte
tutto – seguiva il suo corso. Il sole era già per metà immerso Ertsakhu.
nel mare.
«Essere umano! Ogni cosa ha un proprio posto in questo uni-
verso. La mucca sa che deve vivere e brucare l’erba su questa
70 71
Non svegliare

[1975]

La scorsa estate la passai al villaggio. Un mattino venne a pren-


dermi un mio amico d’infanzia, Mituša Maršania, e mi convin-
se con le buone ad andare al fiume. Ricordammo l’adolescenza
e pescammo con le mani nel Napitsara. Ci imbattemmo in una
secca e riuscimmo a sparpagliare un batman41 di pesce, tutti
barbi, sul greto del fiume. Al ritorno, passammo dalla sede
del kolchoz. Sostammo in una piazza piccola, circolare e pulita
come una pagnotta cotta nella cenere. Il cesto con i pesci me lo
misi tra le gambe e ai vicini che mi si erano radunati attorno
chiesi del tabacco. Ma chi lo fuma più il tabacco al villaggio,
tutti lì a tirare le sigarette, e per giunta le “Prima”.42
«Te lo porto io, zio, me lo faccio dare dal nonno!» mi disse un
ragazzino mezzo nudo e sgusciò come una lucertola da qual-
che parte. In attesa che mi portasse il tabacco, andai allo stand
dedicato ai dispersi in guerra. Mi misi, involontariamente, a
contare le fotografie esposte sulla bacheca.
Centocinquantuno volti di uomini, dal bonaccione al sor-
preso al corrucciato al ridente all’impensierito all’impaurito
al gioviale all’orgoglioso e allo spensierato mi fissavano dallo
41
Batman [in georgiano: ბათმანი, in russo: батман]: unità di misura di
massa di origine asiatica, diffusa in Iran, nell’impero ottomano, nell’im-
pero russo e nel Caucaso. Veniva impiegata per la misurazione del peso
della seta, dei cereali, dei legumi ecc. Nel XVIII in Georgia erano diffusi
sia il “batman iraniano” (circa 3 kg) sia il “batman ottomano” (circa 7,3
kg). Nel racconto si dovrebbe intendere quello ottomano.
42
“Prima” [in russo: “Прима”]: sigarette prodotte in Urss negli anni ’50-
’60, economiche ma, rispetto alle altrettanto popolari “Belomorkanal”,
di buona qualità.
73
stand. Qualcuno era in borghese, altri indossavano consunti l’aveva trascinato fuori con la forza dalla stanza degli sposi.
cappotti militari, alcuni dei quali con le controspalline. Qual- Era un ragazzo focoso, Važiko, burlone e loquace. «Non disfa-
che foto era chiaramente tagliata – e poi ingrandita – dall’al- re il letto, Tukhia, tanto, due giorni – il tempo di distruggere
bum di famiglia. Molti non li conoscevo proprio o ne avevo Hitler – e torno!» ci aveva scherzato su con la moglie disperata.
un vago ricordo, su qualcun altro fu Mituša a rischiararmi la Non era tornato neanche lui.
memoria. La maggior parte di loro l’avevo scortata per la par- Tamaz Jabua: era al nono anno46 di scuola. L’avevano riman-
tenza sul fronte a suon di tamburi, organetto, zurna,43 danze, dato indietro a casa ben tre volte dal commissariato, dicendogli
applausi, panduri44 e crimančuli.45 Me lo ricordo come se fosse che non erano messi tanto male da avere bisogno di arruolare
stato ieri... pulcini implumi come lui. Era partito di nascosto. La maturità
Daniele Basilaia: era salito sull’albero di cachi giapponese gliel’avevano data dopo, da morto. Oggi sia quel diploma che
dai semi piccoli e stava cogliendo l’uva fragola, quando la una sua foto abbelliscono una parete dell’aula della sua classe,
guerra bussò alla sua porta. Il postino Bakur in persona gli mentre sua madre non si è ancora tolta la veste di panno nero
aveva sostituito la gerla, gridando da sotto in su a Daniele av- grezzo.
volto nell’imbracatura: «Scendi sano e salvo!», e aveva infilato Tsenzori Čelidze, Barnaba Maghularia, Mašai Gogiberidze,
nella gerla vuota la notifica del commissariato. Ladiko Antidze, Bučuta Kalandadze, Leo Potskhišvili e...
Dall’albero sì che era sceso sano e salvo, Daniele, ed era «Questo qui chi è, Mituša?» domandai all’amico, quando il
partito sempre sano e salvo per il fronte, ma da lì non era più mio occhio e la mia memoria fecero cilecca.
tornato. «Non l’hai riconosciuto, amico?» si meravigliò Mituša.
Važiko Tsenteradze: al terzo giorno delle sue nozze, il se- «Picchiami se vuoi, ma non lo riconosco!»
gretario della cellula del partito del kolchoz, Ludvig Kvitaišvili, «Accidenti a te, ma è Kukuri quello, l’acquaiolo, Kukuri di
Tsipnagvara» mi disse Mituša risentito, e spolverò con la mani-
43
Zurna [in georgiano: ზურნა]: strumento musicale a fiato utilizza-
to in diversi Paesi musulmani, diffuso nel Vicino e Medio Oriente, nel
ca il vetro della bacheca in corrispondenza della foto di Kukuri.
Caucaso, in India, nei Balcani. «Kukuri di Tsipnagvara, certo, il fratello di Natela... come
44
Panduri [in georgiano: ფანდური]: strumento musicale a corda origi- non ricordarlo?!»
nario della Georgia. Viene utilizzato nella musica folcloristica per esegui- «E il suo cavallo dov’è? Perché non avete esposto anche una
re melodie popolari, accompagnare ballate eroiche e di corteggiamento.
foto del suo cavallo?» dissi. Quelli che si ricordavano di Kuku-
È munito di tre corde e un manico tastato.
45
Crimančuli [in georgiano: კრიმანჭული, letteralmente falsetto ri, risero tutti. Risi anch’io della mia battutaccia. Dopodiché,
(კრინი, krini) attorcigliato (მანჭული, mančuli)]: canto polifonico carat- alla mia memoria affiorò Kukuri in persona, galleggiò in su-
teristico della regione di Guria, considerato una delle vette della poli- perficie, e fui pervaso da una indicibile tristezza.
fonia georgiana in generale. Cantato da voci maschili, principalmente
in un falsetto con salti di sesta, settima, ottava in una successione di
combinazioni di vocali e di consonanti prive di significato e da un coro 46
Nel sistema scolastico sovietico, unitario di 11 anni, al nono anno
che l’accompagna, richiama lo jodel. corrisponde il primo anno di liceo.
74 75
Era un ragazzo bellissimo, Kukuri di Tsipnagvara. Addetto al Quando il Paese si ritrovò in grande difficoltà, furono chia-
barroccio nel kolchoz, trasportava l’acqua con un’enorme botte mati alle armi assieme, Kukuri e il suo cavallo.
da una piantagione di tè all’altra, rinfrescando le viscere av- Ricordo che in quel periodo al nostro villaggio venne in visi-
vampate alle lavoratrici accaldate e prosciugate dal sole estivo. ta Filipe Makharadze,47 e rivolse le seguenti parole alle persone
Era una festa per le ragazze l’apparizione di Kukuri nella atterrite radunate al circolo:
piantagione. Gli si mettevano attorno in cerchio, e, soffrissero o «Gente, sta arrivando il sanguinario Hitler. Dateci una ma-
meno il caldo, avessero o meno sete, si spruzzavano l’acqua in no, scavate le trincee, affilate le accette e le roncole, sbarrate le
testa, schiamazzando, vociando, e schizzavano di acqua senza strade e impedite al nemico di entrare in Guria!»
tregua anche Kukuri che stava impalato e sorrideva. Lui sì che Dopodiché diede un’occhiata a noi, alla scolaresca seduta
era consapevole del proprio valore. direttamente a terra in prima fila, e ci disse:
«Ora vattene, ragazzo, non lo vedi che hanno le braccia che «Bambori,48 aiutate i vostri genitori, questo Paese è vostro,
non servono più, queste sciagurate, e poi smettono di lavora- non datelo in pasto a quel cannibale di Hitler!» Poi forse pensò
re!» l’esortava Nina, la caposquadra. che non avremmo potuto capire la parola “cannibale” e ce la
«Fammi dare qualche altra occhiata a queste capriole, Nina» tradusse subito:
Kukuri, a sua volta, implorava la caposquadra. «Non consegnate questo paradiso a quel mangiabambori
«E poi eseguirai tu il piano della raccolta del tè, eh?» s’inaci- di Hitler!»
diva Nina, e cacciava via Kukuri a furia di strattoni. Quella notte fu piena di incubi. Scavai la trincea, affilai la
«Non farlo andare, Nina, sennò vedrai come raccolgo questa roncola, e elaborai anche un piano per far esplodere il ponte,
porcheria qua!» una delle ragazze minacciava Nina. ma Mituša fece valere il suo piano strategico:
«Kukuri, che hai gli occhi velati come il tuo cavallo, non lo «Che bisogno c’è di far esplodere il ponte di funi, amico?
vedi come mi batte il cuore e come il tuo amore mi ha ridotta
a una susina secca?» gli faceva dei sorrisini un’altra. 47
Filipe (Filipp) Makharadze (1868-1941): originario di Ozurgeti (re-
«Accidenti a tua madre, Kukuri, perché non ha fatto una gione di Guria), fu un bolševiko, rivoluzionario, politico georgiano. Uno
decina di altri figli come te? La squadra di Nina avrebbe final- dei comandanti dell’Armata Rossa che occupò la Georgia nel 1921, pre-
mente avuto una tregua.» siedette alla Commissione rivoluzionaria della Georgia. Negli anni ’20
e ’30 ricoprì alte cariche nel governo della Repubblica sovietica georgia-
«Kukuri, perdiana! Perché sprechi ogni notte le lenzuola?
na, tra cui quello di primo segretario del Comitato centrale del Partito
Fuoco a te e alle tue lenzuola pure!» lo malediva la più sfrontata. comunista georgiano. Fu sepolto al Pantheon di Mtatsminda, da cui nel
«Basta, ragazze, vergognatevi! Non sta bene a una donna 1989, sulla scia del movimento indipendentista, la sua salma fu traslata
perdere così la testa per un uomo!» si disperava Nina. al cimitero di Khudadov. È curioso che nel luogo esatto della sua vecchia
sepoltura, al Pantheon, dal 2008 riposa proprio Nodar Dumbadze.
A quel punto, Kukuri, bagnato fradicio, stordito, acceso in 48
Abbiamo reso con la parola del dialetto toscano “bamboro” il verna-
volto, si risistemava sul barroccio e spronava verso un’altra colare “ბაღანა” [bagh’ana, bambino], diffuso nella parlata delle regioni
piantagione il suo destriero dall’occhio velato. della Georgia occidentale.
76 77
Tagliamo la fune, e poi voglio proprio vedere come Hitler riu- Anche costui venne mandato al fronte assieme a Kukuri e al
scirà a passare all’altra sponda del Gubazouli.» suo cavallo. Nessuno di loro fece ritorno.
Il mattino dopo del discorso di Filipe Makharadze, ci fu l’e- Questa storia me ne riporta alla mente un’altra.
sodo di mezza Guria verso il fronte. Partirono quello stesso Accadde un mese prima che per Kukuri ci fosse la chiamata
giorno anche Kukuri e il suo cavallo. E vi pare che Kukuri mon- alle armi. Era una domenica. Kukuri aveva condotto al mercato
tò semplicemente il suo equino e si presentò così al commis- la mucca che era la fonte di sostentamento della sua famiglia, e
sariato? Di prima mattina lo fece uscire dalla stalla del kolchoz, l’aveva messa in vendita. Al suo fianco c’era sua sorella Natela,
per un’ora intera lo lavò e lo strigliò nelle acque del Gubazouli, scalza e con addosso un logoro vestito blu. Più che stare a fian-
poi gli intrecciò la criniera e la coda come a un cavallo da circo, co del fratello, erano entrambi seduti su alcuni massi sistemati
gli stese sulla groppa il panno di raso rosso vinto come premio ai piedi di un platano: su quello più grande sedeva Kukuri, su
di produzione della seta, l’affiancò come un commilitone e lo quello più piccolino, Natela.
condusse così, la mano all’imboccatura, al punto di raduno. Kukuri fumava il tabacco a testa china e con un bastoncino
Ci fu una manifestazione sbrigativa davanti al commissa- disegnava qualcosa sul terriccio. Natela, servendosi di un cesto
riato. Ognuno diceva qualcosa, c’era un ruggire di discorsi pieno d’erba che aveva accanto, di tanto in tanto ne ficcava una
patriottici, uno sventolare di slogan, un declamare poesie. Un manciata in bocca alla mucca che mugghiava legata al platano.
poeta locale recitò questi versi: Nessuno negoziava con Kukuri, tutti lì a importunarlo sol-
tanto con le domande:
Cielo turchese, terra smeraldo,
Mio paese natale, «A quanto la vendi ’sta mucca, Kukuri?»
Son tuo, pronto a morirne, «Quanto latte dà, Kukuri, la tua mucca?»
a portarne le gramaglie. «Il suo cacio è burroso?»
Essere sepolto tra le tue zolle – «Non è che ha l’incornata facile, ragazzo?»
In fede, non ti chiedo molto – «Come la chiamate?»
È il mio testamento, ricorda, «Non è che ha il vizio di calciare il secchio?»
una volta che sarò morto. A qualcuno Kukuri rispondeva, a qualcun altro no.
Cielo turchese, terra smeraldo, Infine venne Anania Nibladze.
Mio paese natale, «A quanto la vendi ’sta mucca, ragazzo?»
Così cantava Akakij, Kukuri, al cospetto di Anania, si alzò in piedi. Era un uo-
Al suo calamo lode...49
mo, quello, che poteva permettersi di comprare non soltanto
la mucca di Kukuri, ma l’intero mercato.
49
Versi (tranne gli ultimi due) estrapolati, e messi assieme alla rinfusa,
«La vendo a tremila manet,50 signor Anania!»
dalla lirica Aurora (1892) del grande poeta georgiano Akakij Tsereteli
(1840-1915), considerato, assieme a Ilja Čavčavadze (1837-1907), uno dei
padri della nazione georgiana. 50
Manet [georg. მანეთი]: valuta ufficiale della Repubblica Democra-
78 79
«È caro, ragazzo!» segnò a Kukuri. Lui, a sua volta, li contò e ricontò a lungo,
«Lo so.» dopodiché li avvolse con cura in una pagina di giornale e se
«Allora, se lo sai, perché non abbassi il prezzo?» li infilò in tasca.
«Per lei sono carta straccia ’sti soldi, signor Anania, per me Anania slegò la mucca, e scambiò due parole con un conta-
invece ’sta mucca è fonte di vita.» dino che stava lì vicino.
«Perché la vendi allora?» tagliò corto Anania, e diede uno «Secondo te, per quanti uomini può andare, Akakij?»
sguardo compiaciuto alla gente che si era nel frattempo radu- «Dipende dall’uomo, signor Anania.»
nata. Kukuri non gli rispose. Tornò a sedere sul masso. «Per oggi avrei dieci e per domani sessanta uomini della
«Mi hai sentito?» insisté Anania. zerla51, per costruire il tetto della casa.»
«La vede bene questa ragazzina scalza, Anania?» Kukuri «Difficile che basti, signor Anania.»
guardò l’uomo dal basso verso l’alto, e una vena gli tremò «Se ci aggiungessi un maialino e un tacchino?»
sullo zigomo. «Allora sì che può bastare.»
«Duemilacinquecento!» disse Anania e si portò la mano in «Una mucca è una mucca, comunque!» disse Anania e diede
tasca. un colpetto al fianco dell’animale.
«È da un mese che questa bambora non va a scuola, ha Nel corso di tutta questa conversazione, Kukuri, incredulo,
bisogno delle scarpe e di un vestito» disse Kukuri, e guardò guardava ora il contadino, ora Anania, poi di nuovo il conta-
Natela. dino, poi di nuovo Anania. All’improvviso, gli si gonfiarono
«Accettali, ragazzo, è una bella somma!» qualcuno gli diede le narici e gli si sbiancarono le labbra.
un consiglio. «A che le serve, signor Anania, ’sta mucca?» gli domandò.
«Quando verrò chiamato alle armi, lei e mamma di cosa Anania rise.
camperanno?» Kukuri si rivolse alla persona che lo stava esor- «Per macellarla, per cosa sennò?» fu il contadino a rispon-
tando. dere al posto di Anania.
«Duemilaottocento!» disse Anania e tirò fuori i soldi dalla «Per macellarla?»
tasca... Kukuri diede un’occhiata fugace alle enormi banconote «E che ti pareva?!» si meravigliò Anania.
da cento manet. Anania si umettò il pollice e l’indice e piegò i 51
Abbiamo tradotto con il termine “zerla” la parola georgiana “ნადი”
soldi.
(nadi): specie di lavoro volontario, storicamente accertato e in alcune
«È sua!» disse Kukuri, e distolse lo sguardo dal denaro. comunità rurali della Georgia tuttora esistente, che consisteva nel tacito
Anania contò i soldi con una velocità sorprendente e li con- accordo, soprattutto tra i vicini e i parenti, di aiutarsi a vicenda, dietro il
semplice compenso di una cena, nei pesanti lavori di semina, raccolto e
tica della Georgia (1919-1921) e della Repubblica socialista sovietica ge- costruzione-riparazione dell’abitazione. La “zerla”, inoltre, nelle consue-
orgiana (1921-1923). Un manet era diviso in 100 copechi [georg. კაპიკი]. tudini agricole emiliane e romagnole, era una forma di scambio di servizi
Dopo l’introduzione del rublo sovietico, nella parlata georgiana il termi- e di bestiame, praticata fra piccole unità poderali per alcuni lavori, come
ne “manet” è comunque rimasto a indicare il rublo. per esempio quelli di aratura.
80 81
Kukuri affondò subito la mano nella tasca e tirò fuori l’in- Quest’altro, invece, che mi accingo a raccontare di seguito,
volto di giornale, poi andò dalla mucca e le mise il braccio ebbe luogo nel febbraio del 1943, durante una lezione di lingua
attorno al collo. e letteratura georgiana.
«Ma che dice, signor Anania, come si può macellare una Noi, gli studenti intirizziti dell’ottavo anno della scuola me-
bestia come questa? Si riprenda i suoi soldi. Sono in difficoltà, dia del villaggio di Bondiskhidi, nella provincia di Čokhatauri,
è vero, ma non fino a questo punto.» eravamo accalcati attorno alla stufa a stento accesa con la legna
«Sei forse impazzito, ragazzo? È tardi per ripensarci!» Ana- umida, e attendevamo l’ingresso dell’insegnante di georgiano,
nia tirò a sé la corda. Gioconda Melimonadze.
«Non c’è verso, signor Anania. Prima di macellare lei, dovrà Il villaggio Bondiskhidi si estende su entrambe le sponde
aprire la gola a me. Gli dovrà cadere la mano, al suo macella- della valle del famoso fiume Gubazouli (noto al popolo come
io» Kukuri tolse la corda con cautela dalle mani di Anania, gli la seconda arteria di Guria, la prima è il fiume Supsa) e poi,
infilò i soldi in tasca e si voltò verso la sorella: nel mezzo, è come se fosse stretto a mo’ di cintura alla vita dal
«Vai a riportarla a casa, ’sta mucca!» ponte di funi. Ed è per questo che si chiama così.52 A quanto
«Tremila manet!» disse Anania. pare, tempo addietro, prima che sul fiume sistemassero il pon-
«Riportala a casa, ragazzina!» te di funi, questo posto si chiamava Crocifissione, e non perché
«Tremila e duecento!» Cristo fosse stato crocifisso qui, ma per il fatto che i turchi
«Fa sul serio, signor Anania?» sorrise Kukuri. provenienti dalle parti di Bakhmaro che vi fecero un’incursio-
«Tremila e cinquecento, ragazzo!» disse Anania. Natela si ne, proprio qui crocifissero per la fede cristiana la famigera-
bloccò e fissò il fratello negli occhi. Kukuri rimase di stucco. ta monaca Tsenteradze. Non tenendo conto di Šušanik53 e di
Guardò prima i piedi nudi della sorella, poi i soldi, Anania e Ketevan,54 la monaca Tsenteradze fu la prima donna georgiana
infine la mucca. Rimase così per un po’. La gente seguiva senza 52
Georg. ბონდისხიდი [Bondiskhidi]: letteralmente “ponte di funi”.
fiatare l’insolito spettacolo. 53
Šušanik (440-475 d.C.): santa martire venerata dalla chiesa ortodossa
«Cosa ti ho detto, ragazzina?» Kukuri, con voce soffocata, georgiana e da quella armena. Figlia di un generale armeno e moglie del
rimproverò infine Natela, che stava lì incantata, e diede una petiax di Kartli (uno dei primi regni della Georgia orientale), di fede cri-
spinta al fianco della mucca. stiana, fu uccisa su ordine del marito che professava il culto di Zoroastro.
Il suo martirio è descritto nell’opera agiografica, considerata anche una
«Andiamo a casa, mucca!» Kukuri ora se la prese con l’ani-
delle prime opere letterarie georgiane, Martirio della santa regina Šušanik,
male. La mucca si avviò verso casa. E Kukuri la seguì. scritta dal suo confessore Giacobbe (Iakob di Tsurtavi), presumibilmente
«Poveraccio!» disse Anania. tra il 476 e il 483.
«Che stupido!» disse qualcuno.
54
Ketevan la Martire (1560-1624): moglie del re Davide di Kakheti (uno
dei regni della Georgia orientale) e madre del successore di quest’ultimo,
Questa episodio accadde nella primavera del 1942.
il re Teimuraz. Perseguitata a motivo della sua fede dal re persiano, lo
scià musulmano Abbas I, trascorse quasi dieci anni imprigionata nella
città di Shiraz. Posta dinanzi all’alternativa fra la conversione all’Islam e
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al mondo a essere martirizzata per la fede di Cristo. Di tutto Kukuri e sua sorella Natela erano di Tsipnagvara, mentre io
ciò ogni abitante di Bondiskhidi ne è al corrente – e ne va giu- ero un ragazzo sbalestrato dalla città da un’ondata di guerra e
stamente fiero – grazie alle lezioni della dirigente del circolo fame, rifugiato presso alcuni parenti a Bondiskhidi, e, ai tempi
di ateismo del nostro villaggio, Agnesa Baghaturia. della storia che vi sto raccontando, mi trovavo anch’io assieme
Come un anello d’oro con i castoni di perle attorno, Bon- agli altri vicino alla stufa, con le mani anchilosate dal freddo,
diskhidi è circondato da piccole frazioni abbarbicate sulle col- in attesa della professoressa Gioconda Melimonadze.
line. Più concretamente da: Metsieti, Čačieti, Buqsieti, Tskva-
rameti, Ukuneti, Kviriketi, Kakabeti, Qoqoleti, e Tsipnagvara. Né ci salutò, né ci invitò a prendere i posti, né fece l’appello,
I bambini di Metsieti, Čačieti, Buqsieti, Tskvarameti, Uku- la professoressa Gioconda. Andò alla cattedra, vi buttò sopra
neti, Kviriketi, Kakabeti e Tsipnagvara quasi non si differen- il registro e afferrò la sedia. Poi, con la sedia in mano, si fece
ziano dai bambini di Bondiskhidi, eccetto per il fatto che l’e- strada verso la stufa, scostandoci. Infine si accomodò e tese le
ducazione primaria la ricevono nelle rispettive frazioni e poi, mani intirizzite verso il calore del fuoco.
per proseguire con quella secondaria, passano alla scuola di «Come va, ragazzi? Sentite freddo?» si informò appena si
Bondiskhidi. Bisogna dire, però, che i bambini di Bondiskhi- fu un po’ riscaldata.
di, a furia dei continui andirivieni sopra il ponte per spostar- «Sentiamo freddo, prof.!»
si da una sponda all’altra, hanno il cervello leggermente più «Quanti siete?»
rallentato. In compenso, i bambini di Tsipnagvara hanno uno Dei sedici eravamo otto.
sguardo più malinconico e insonne in confronto a quelli di «Metà classe, prof.!»
Bondiskhidi, poiché la loro frazione dista esattamente sette «Pochini!» scosse la testa.
verste dalla scuola secondaria di Bondiskhidi, e per non fare «Siamo pochini, è vero, ma noi intanto cominciamo. Gli altri
tardi alle lezioni, rispetto agli studenti di tutte le altre frazioni, man mano si uniranno» suggerì Titiko Čanturia.
sono costretti a svegliarsi un’ora prima. Per il resto, Bondiskhi- «E comunque dove sono?» chiese la professoressa.
di, assieme alle sue frazioni, è un comunissimo villaggio di «Saranno per strada, probabilmente...»
Guria e della sua scuola non si può certamente dire che sia «Chi, per esempio?»
l’Accademia di Ikalto.55 «Per esempio, Natela Nižaradze, prof.!»
«Probabilmente verrà, non ci farà questo affronto» disse la
la morte, Ketevan non esitò a consegnarsi ai suoi aguzzini che la uccisero professoressa Gioconda, e guardò verso la porta.
dopo lunghe torture il 12 settembre 1624. Le sue reliquie sono venerate «Non credo farà capitare una simile disgrazia!» commentò
anche dalla Chiesa Cattolica. Guri Gogiberidze.
55
Accademia di Ikalto [georg. იყალთოს აკადემია]: fondata dal teo-
«La sai la lezione?» gli chiese la professoressa.
logo e filosofo georgiano Arsen, tra l’XI e il XII secolo, presso il monastero
di Ikalto, nella regione di Kakheti (Georgia orientale). Fu uno dei centri «Eccome se la so!» esclamò con tono sorpreso Guri.
scolastici e culturali più importanti della Georgia medievale. «Qual era l’argomento, sentiamo...» e Gogiberidze fu salvato
84 85
da un improvviso cigolio della porta. In aula stava entrando così e così, desolata, per oggi non mi sono preparata, per cui
Natela. Era bella quanto suo fratello, Natela, e ora era ferma non sarò presente.»
come un angelo dalle ali congelate nel vano della porta. Ci fu un tale scoppio di ilarità nell’aula che rise non solo
«Oh!» esclamò con finta meraviglia la professoressa Giocon- Natela, ma anche la stessa professoressa.
da. «Che scusa hai?» «Ora avvicinati alla stufa» disse a Natela, cedendole il posto.
«Mia madre si è sentita male, prof.!» mentì Natela, ma se Poi andò alla cattedra, prese il libro e lo sfogliò.
ne vergognò subito, chinò la testa e si mise a fissarsi i piedi «Egnate Ninošvili,56 La disposizione» proferì, e fece un sospiro.
intirizziti per la camminata nella neve.
La professoressa si mangiò la foglia: «Non mettere nella La professoressa Gioconda parlò a lungo della vita dei con-
tomba anzitempo una persona sana, ora!». tadini di Guria e di quella del loro paladino, Egnate Ninošvili,
«Che ci posso fare, prof.? Sono sette verste da casa mia alla affamato e disgraziato quanto loro, dai polmoni logorati dalla
scuola...» tisi. Aveva un modo di raccontare, la benedetta, da commuo-
«Dovresti alzarti prima!» versi lei stessa, senza contare noi che versavamo fiumi di la-
«E quando, a notte fonda?» crime. Tuttavia l’estrema apoteosi dei sentimenti si verificò
«La stai sciogliendo troppo ’sta lingua, ragazza. La sai la allorquando, per eseguire la disposizione ricevuta, Katsia
lezione?» Munjadze57 era uscito a fare il suo turno di guardia alla fer-
Natela chinò ancora di più la testa.
«Parlo con te, Nižaradze. La sai la lezione?» le ripeté la pro- 56
Egnate Ninošvili [georg. ეგნატე ნინოშვილი] (1859-1894): scritto-
fessoressa. re georgiano. Nato nella provincia di Ozurgeti (Guria), in una famiglia di
«No, prof.!» disse Natela scuotendo la testa. servi della gleba, per anni sbarcò il lunario facendo diversi lavori sotto-
Nell’aula calò un silenzio sgradevole. L’insegnante non to- pagati: il tipografo, il segretario, l’operaio nella fabbrica dei Rotschield.
Soltanto per sette anni (1887-1894) poté dedicarsi alla scrittura, prima di
glieva gli occhi di dosso da Natela. Il silenzio si protrasse a morire, a 35 anni, di tubercolosi. La sua prosa è chiara, asciutta, incentra-
lungo. ta sulla descrizione delle condizioni di vita del popolo, dal tono spesso
«Ragazza, in questa neve fangosa, con le cataratte del cielo pessimistico, ma sempre aderente, con estrema onestà intellettuale, alla
aperte, in questo gelo e finimondo, ti alzi così presto, ti incam- realtà dei tempi. È stato riscoperto e molto apprezzato dalla critica so-
vietica, consacrandolo come uno degli autori di punta di sinistra. I suoi
mini per una strada lunga e attorcigliata come una corda da
testi figuravano nelle antologie scolastiche.
bestiame, soltanto per venirmi a dire che non sai la lezione?» le 57
Protagonista del racconto La disposizione (1893), il cui cognome,
chiese, incredula, la professoressa. «Non me lo potevi mandare Munjadze, significa “figlio di un muto” (una delle cifre di Ninošvili era la
a dire? Perché ti metti in un simile pericolo? Non hai paura di scelta dei nomi e cognomi “eloquenti”). È un povero contadino con una
famiglia numerosa da sfamare, che accetta il lavoro di guardia notturna
scivolare e precipitare in qualche dirupo o di essere aggredita
alla ferrovia, secondo una “disposizione” del governo zarista. Affamato,
da un lupo sbucato dal folto di un bosco? Perché fai questo a stanco e affranto dai tanti pensieri, si addormenta sopra le rotaie, e un
te stessa e a noi? Faccelo sapere almeno con un telegramma: treno in corsa lo travolge, tagliandogli la testa.
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rovia e, sfiancato, a stomaco vuoto com’era, aveva poggiato Natela, occupando di nuovo la sedia che le aveva ceduto, e
la testa sulla rotaia. Arrivata a questo punto, la professoressa chiese con un sorriso:
passò al mormorio, fissò gli occhi socchiusi nel vuoto, e citò «Ragazzi, avete qualche domanda riguardo al racconto?»
a memoria: Nessuno fiatò. Che c’era da dire, in effetti, quando tutto era
«Katsia poggiava la testa sulla rotaia e dormiva. E la luna, che chiaro come il giorno: Katsia era morto. E all’improvviso:
pareva corteggiare la sua barba e i baffi arruffati, gli riversava uno «Avrei io una domanda, professoressa!» disse Natela.
sguardo di grazia da lassù, mentre il gorgheggio dell’usignolo acca- I compagni, sorpresi, si voltarono tutti verso di lei.
rezzava l’udito con il suo ih ih ih.» «Sentiamo!» rispose pacata l’insegnante. Natela si allontanò
La professoressa si voltò all’improvviso verso di noi, aprì il dalla stufa, andò al suo banco, e fu da lì che, con una voce un
libro, e lesse con voce fremente: po’ turbata, fece la sua domanda:
«... ecco che il treno si avvicina a Katsia... lui vede nel sogno che si «Professoressa, se il treno ha staccato la testa a Katsia, chi è
accorge molto prima del suo arrivo, balza in piedi, imbraccia il fucile che racconta il suo sogno?!»
e l’aspetta intrepido. Si avvicina un treno completamente ricoperto Se si fossero aperti cielo e terra e la nostra aula fosse spro-
d’oro; al suo interno siedono uomini vestiti d’oro... guardano Katsia fondata negli abissi, avrebbe avuto meno effetto sulla professo-
con risentimento, come se fossero al corrente che Katsia si era ad- ressa Gioconda rispetto alla domanda di Natela. Ci fu un tale
dormentato... “Povero me, ho portato disgrazia alla mia famiglia” scoppio di risa nella classe che i vetri delle finestre tintinnaro-
Katsia sembra parlare tra sé e sé, “ora mi manderanno in Siberia”. no. I ragazzi si buttarono uno addosso all’altro.
... le ruote del convoglio scivolarono sulle rotaie sopra le quali era La professoressa andò alla cattedra, vi piantò sopra i gomiti
sdraiato Katsia, e proseguirono oltre.» e, incredula, si mise la testa tra le mani. Natela tornò a sedere,
La professoressa smise di leggere, era impossibile proseguire girando attorno gli occhi spaventati, non capendo cos’avesse
la lettura dopo tutto questo. Non aveva più la voce. Noi stu- detto di così incredibile. Quando in aula l’ondata di isteria si
denti singhiozzavamo. placò, la professoressa alzò la testa. Il suo volto era più pao-
«E poi, professoressa?» chiese con un mormorio Sisiko nazzo di una barbabietola.
Gigineišvili, scosso. «Stupida Nižaradze, in piedi!» disse. Natela si alzò.
L’insegnante fece fatica a placare il tremolio del mento, man- «Raccogli i tuoi libri!» Natela raccolse i suoi libri.
dò giù le lacrime assieme alla saliva e con una voce appena «Fuori!» Natela si avviò in silenzio verso la porta.
udibile proferì: «Nižaradze, d’ora in poi non farti più vedere alle mie lezio-
«Verso l’alba, il guardiano della stazione trovò sulle rotaie un uo- ni!» le ultime parole della professoressa raggiunsero Natela
mo morto con la testa staccata. Si trattava di Katsia Munjadze.» prima che questa chiudesse la porta alle sue spalle.
La classe cadde in catalessi. Il silenzio terrificante durò cin- La classe si ammmutolì. Nessuno si sarebbe aspettato un
que minuti. Dopodiché, come se si fosse ricordata di qualcosa, epilogo del genere.
la professoressa Gioconda andò vicino alla stufa, fece alzare «Professoressa!» dissi io.
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«Che vuoi, Nanadze?» la professoressa levò lo sguardo su di «Non mi è piaciuto proprio perché ho pianto... non mi piace
me. Io non avevo idea di cosa volessi, semplicemente sentivo neanche ora, e non voglio saperne nulla, prof.»
che se in quel preciso momento non avessi trovato una valvola «In piedi, Nanadze, e raccogli i tuoi libri!»
di sfogo, dicendo qualcosa, sarei soffocato, oppure mi sarebbe Mi aspettavo una simile conclusione, per cui i libri li avevo
scoppiato il cuore. Aprii, dunque, la valvola e, in un modo già raccolti in anticipo.
deciso seppur insensato, attaccai tutto d’un fiato: «E adesso chiuditi la porta alle spalle, Nanadze, e raggiungi
«Cos’è questa storia, professoressa Gioconda, che ci ha atter- la Nižaradze, non sarà andata troppo lontano.»
riti di prima mattina leggendoci e rileggendoci queste disgra- Uscii nel corridoio e mi tirai dietro la porta. D’un tratto ebbi
zie?! Qua il morto di fame, là il poveraccio, qua l’assiderato, l’impressione di essere stato per un’ora intera dentro un forno
là l’affogato, qua il miserabile, là il treno, la rotaia, la morte, rovente, e che qualcuno a un certo punto mi avesse afferrato
la testa che rotola, fuoco e ferro... Le nostre miserie non ci ba- con una mano e buttato direttamente in un ammasso di neve.
stano? ’Sto Egnate Ninošvili, poi, lo vada a leggere ai bambini
sazi, floridi, avvolti nella bambagia, al calduccio, che possano La raggiunsi ai piedi del poggio di Kuduneti. Procedeva a
magari provare compassione per gli altri e condividere con passo lento e a testa china. La chiamai. Si girò, e attese.
loro un pezzo di polenta. Noi non vogliamo studiare ’ste cose «Ha buttato fuori anche me!» le dissi appena la raggiunsi,
nel mezzo di questo inverno, questa fame, guerra e miseria... e e le sorrisi.
in più, sappia che ha buttato fuori Natela Nižaradze per nulla. «Ma che cosa ho detto, Nodar, di così incredibile che siete
È così che stanno le cose!» riuscii a stento a frenare la lingua impazziti tutti in classe?» mi chiese con un’incredulità mista
nella bocca asciutta, e tornai a sedere. a tristezza.
Appena mi sedetti, si alzò la professoressa, di scatto, crean- «Per ciò che riguarda la letteratura, una simile domanda non
do l’impressione che fossimo seduti ai due capi di un’asse e ci è opportuna» le spiegai.
divertissimo a dondolarci su un’altalena. «Perché?»
«Hai finito, Nanadze?» mi chiese. Non ne avevo idea neanch’io.
«Ho finito, prof.!» «Non saprei, ma non si può.»
«Hai detto tutto?» «Ma se risulta una bugia!»
«Sì, prof., ho detto tutto!» «Raccontare un sogno risulta una bugia, è vero, ma la storia
«Non ti piace, dunque, Egnate Ninošvili, eh, Nanadze?» in sé è vera...»
«Non mi piace, prof.!» Natela si strinse nelle spalle. «E tu cos’hai fatto per essere
«Ma non eri tu che qualche minuto fa versavi fiumi di lacri- buttato fuori?»
me, eh, Nanadze? O sono io che ho le allucinazioni?» «Ho avuto una discussione a causa tua.»
«Ero io, prof.!» «Perché?» Natela si sorprese.
«E allora, Nanadze?» «Le ho detto: “Perché ci insegni Egnate Ninošvili, a noi ba-
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stano le nostre miserie!”» e la guardai con un piglio fiero. «Non Quando aprii gli occhi, ci sormontava la guardia campestre,
avevo ragione?» Mikhako Arobelidze, e ci scrutava con uno sguardo severo. Mi
Natela si strinse di nuovo nelle spalle. drizzai a sedere e, ancora stordito dall’inspiegabile e inatteso
«Ci hai discusso per nulla. Per quanto mi riguarda, non mi miracolo, mi misi a fissarlo.
ha angustiata, anzi, al contrario, mi sono sentita rincuorata dal «Che hai combinato, ragazzo? Hai messo nei guai quest’or-
fatto che al mondo esiste gente più disgraziata di noi.» Que- fana?» mi chiese con una voce spezzata.
sta risposta mi colse talmente impreparato che rimasi a bocca «Ma che dice, zio Mikhako?»
aperta, in silenzio. «Che succede qui?»
«Stiamo dormendo, zio Mikhako!»
Facemmo sette verste nella neve senza dirci nulla. Né lei mi «Nient’altro?»
chiese dove fossi diretto, né io volli puntualizzare che la stavo «Cos’altro dev’esserci?»
accompagnando. Niente di insolito per noi, né per coloro che «Certo, se lo dici tu!»
ci venivano incontro nel cammino. Il mondo intero ne era al «Giuro su mia madre, stiamo dormendo, zio Mikhako!»
corrente, e nessuno ci impediva di inseguirci a vicenda. Tutti «Di’: “Giuro sulla mia coscienza!”.»
quanti si rendevano conto che si trattava dell’inizio eccezio- «Lo giuro!»
nalmente candido, pulito e trasparente di una grande storia, «Allora, non la sveglio?»
benché fosse soltanto un inizio, e niente di più. Una volta, è «Non la svegliare!» l’implorai, e mi venne da piangere.
vero, un’ombra tentatrice incombé sui nostri due cuori avvam- Mikhako osservò per un po’ Natela, stesa supina sul fieno.
pati e bruciati da un sole ardente, ma Dio in persona si mise «Sembra un angelo, questa birbona!»
tra di noi. «È vero» concordai con lui.
Mikhako mi posò una mano sulla testa, sorrise, e se ne andò.
Era un autunno, caldo e inondato di sole. Eravamo stesi su- Tutto qui.
pini, io e Natela, in un campo fluviale mietuto di Gubazouli,
ai piedi di un covone. Io le leggevo delle poesie, e d’un tratto Natela s’arrestò nei pressi di quello che fu il mulino dei
entrambi fummo pervasi da una tale euforia ed ebbrezza, da Pitskhišvili, e si mise in ascolto dei suoni provenienti dal villag-
un tale stordimento, furono calati su di noi una tale corona e un gio, poi corse a perdifiato. Io la seguii. Vicino alla chiesa sconsa-
tale raggio di sole da non riuscire più a distinguere nulla. Sen- crata della regina Tamar si fermò di nuovo, e rimase impietrita.
tivamo solo il respiro reciproco e una voce che ci giungeva da «Kukuri!» disse, e si lasciò andare direttamente nel fango.
lontano, da molto lontano. Dopodiché perdemmo l’un l’altra e Dal villaggio giungeva un lamento continuo, terrificante e
tutto si tinse dei colori di un sogno variopinto. Le palpebre ci disperato.
si appesantirono, e piombammo entrambi in un sonno molto Non pianse, né emise alcun suono. Rimase seduta così nel
profondo... fango. Andai al villaggio a chiamare la gente. Non riuscirono
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a rimetterla in piedi. Allora la portarono sollevata sulle braccia «Buongiorno, signor Nodar!» mi salutò.
a sua madre che aveva il volto sconvolto dalle lacrime. «Buongiorno a lei. Entri pure in casa» l’invitai di malavoglia,
Le dissero: «Sta morendo, donna, prenditi cura almeno di e nel frattempo pensavo: “È venuta con un dono, quindi ora
lei...». attaccherà con: ‘Ho da iscrivere mio figlio all’università’, o con:
«Che muoia!» disse la madre. «Il sole si è spento, il cielo è ‘Potrebbe scrivere a questo tale?’, oppure con: ‘Potrebbe fare
crollato, e il mondo si è ormai trasformato in Sodoma e Go- una telefonata a talaltro?’...”.
morra!» «No, signore, sono venuta a trovarla per un minuto solo.»
Natela, per il colpo preso, rimase a letto per un mese intero. «Per cosa si è disturbata, signora?»
Poi pian piano si riprese, ma a scuola non tornò più. «Forse non mi ha riconosciuta, signor Nodar!» fece un sor-
Da quel giorno, rimasi seduto tutto solo all’ultimo banco. riso molto triste.
«A essere sincero, no, signora» mi vergognai, ma non riuscii
«Dai, andiamo, Nodar, sennò fra poco ’sto pesce comincia a mentirle.
a puzzare!» mi disse Mituša, e mi prese per il braccio. Ci al- «Non pensavo che non mi avrebbe riconosciuta» disse lei,
lontanammo dallo stand dei dispersi in guerra e ci avviammo e chinò la testa.
verso casa. «Come mai pensava che l’avrei riconosciuta, signora?» sor-
Non potevo immaginare che una reminiscenza mi potesse risi io.
sprofondare in una tale tristezza, la credevo più divertente, gio- «Sono Natela io, Nižaradze, la sorella di Kukuri» disse.
viale e leggera, prima che la rievocassi tanto minuziosamente, «Natela!» fui pervaso da un’incredibile debolezza nella voce,
ma, a quanto pare, un ricordo d’infanzia, per quanto ilare e nelle braccia, nelle ginocchia... «Natela!» feci un mezzo sorriso,
piacevole possa essere, reca sempre con sé un qualche dolore e mi sedetti su un tronco d’albero messo di traverso lì vicino.
sordo e invisibile agli altri, una tristezza quasi inspiegabile. Lei si avvicinò, mi posò tra i piedi quel barattolo e si accomodò
accanto a me. Per nascondere l’imbarazzo mi misi a rollare il
Al mattino entrò nella mia stanza un cugino e mi informò: tabacco.
«C’è una donna che chiede di te.» «È il miele di maggio, signor Nodar, del mio alveare, traspa-
«Dille di entrare» gli dissi, e smisi di lavorare. rente come ambra.»
«Sta nel cortile, vicino alla staccionata, e non vuole entrare. «Grazie, non era necessario.»
Ti chiede, se non ti dispiace, di andare da lei per un minuto.» «Ho saputo al villaggio che era venuto a trovarci, che ha
Non avevo altra scelta, scesi in cortile. Nei pressi della stac- qualche disturbo al cuore, ’sto miele è un toccasana per il cuo-
cionata era ferma una campagnola di 45-50 anni, con i capelli re... ho saputo anche che ha parlato di mio fratello Kukuri e
grigi, teneva in mano un barattolo di vetro da tre litri pieno del suo cavallo...»
di qualcosa e sorrideva imbarazzata. Aveva un viso candido Annuii con la testa in modo sciocco.
e piacente. «Per quanto tempo rimane qui, signor Nodar? È da solo o
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con tutto il seguito?» parlava a singhiozzo, senza alzare la te- Oh, mio lucciolio,
sta, con voce tremolante. Mia gabbia e cella...
«Come stai, Natela?» l’interruppi all’improvviso. Lei sospirò e a seguire:
e mi guardò negli occhi.
«Anche per te sembrano passati gli anni, signor Nodar! I tuoi occhi alti
Adesso hai ancora qualche disturbo?» Color nei mari del nord presente
«La mia condizione è evidente. Tu, tu come stai, Natela?» I denti – cani bianchi
Mi ringhiano, non è niente.
«Sto come si conviene a una donna di campagna.»
Le tue labbra bramo
«Cioè?»
Immerso nella memoria,
«Raccolgo il tè, zappo la terra, mungo il bestiame, mi prendo
Figlie nate da un sogno –
cura del marito e dei figli.» Le tue sopracciglia,
«Ti sei sposata?» Tese a falciare il fieno...
«Mi sono sposata tardi, signor Nodar... Ho quattro figli, stu-
diano tutti e quattro... Ho un buon marito, un uomo onesto, E mi ricordai con estrema chiarezza di come avessi assorbi-
un lavoratore...» to Galaktion,58 innestandolo sulle radici del mio primo amore
«Entra in casa, Natela!» l’invitai e mi alzai in piedi. nato dai miei sogni infantili, di come avessi attinto a lui a piene
«No, signore mio, non la disturbo oltre» disse, e alzò le spalle mani senza potermi mai sdebitare, e di come avessi nutrito
imbarazzata. Mi resi conto che c’era qualcosa che le premeva con la sua sostanza l’anima affamata del nostro amore, mio e
dire, ma non le sembrava opportuno farlo. di Natela.
«C’è qualcosa che ti preme, Natela? Ti prego di dirmelo sen- «Ho molte altre poesie sue, ma questa è la migliore. Sarebbe
za problemi» la rassicurai. un peccato se si perdesse...» mi disse.
«Ecco, le ho portato questa. Non pensi che... non mi frainten- «L’hai mai fatta vedere a qualcuno questa poesia?»
da... lei è un uomo che ha ormai un nome, servirà più a lei, per «Ma che dice? Come avrei potuto far vedere a qualcuno una
qualcosa, mentre per me...» e mi allungò con mano tremolante poesia scritta su di me?» mi rispose e mi guardò meravigliata.
un pezzo di carta vecchio, logoro. 58
Galaktion Tabidze [georg. გალაქტიონ ტაბიძე] (1891-1959): consi-
«Cos’è questo, Natela?» derato uno dei più grandi poeti georgiani di tutti i tempi. Noto semplice-
mente come “Galaktion”, le sue poesie, di impronta simbolista, influen-
«È una poesia, scritta da lei...»
zarono generazioni di poeti georgiani. Durante il periodo stalinista la
Fui preso da una irrefrenabile curiosità. Aprii il foglio, e mi moglie Olga Okudzava e il cugino poeta Tizian Tabidze furono arrestati
venne un colpo. e giustiziati. Quell’esperienza lo condusse all’alcolismo, all’isolamen-
to, alla depressione e infine al ricovero presso l’ospedale psichiatrico di
Natela di Tsipnagvara Tbilisi, dove morì suicida nel 1959. È sepolto al Pantheon Mtatsminda di
È una bella donzella Tbilisi. Alcune sue poesie sono tradotte in italiano da Luigi Magarotto.
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«Neanche ai figli?» Diderot
«Né ai figli, né ad altro essere vivente» disse.
Avrei voluto scoppiare a piangere. [1973]
«Sei una brava donna, Natela. Perdonami se non ti ho rico-
nosciuta. Ora sì che ti riconosco e capisco chi sei, ma è già tardi,
ahimè. Perdonami, Natela!» Se dalla guerra russo-giapponese gli altri tornarono con tanto
«Non ha nulla da farsi perdonare da me, signore!» sorrise di decorazioni e medaglie, Edemika Vešapidze dalla battaglia
Natela. Poi calò di nuovo il silenzio. di Port Arthur tornò con una sifilide con i fiocchi. In segui-
«Natela!» to, al frutto avariato della sua unione con Dapino Apkhaza-
«Signore?!» va diede il nome Diderot e, come se nulla fosse, congiunse le
«Mi ricordo di tutto, di Kukuri, del suo cavallo, che furono ar- mani sul grembo e si fece portare così da quattro marcantoni
ruolati assieme. Ricordo anche il giorno in cui tu e Kukuri stavate al camposanto di Kontskhoula. Dal canto suo, Diderot, rima-
vendendo la mucca, e di come avete restituito i soldi... e dimmi, sto orfano, rase al suolo la dottrina del suo grande omonimo,
ti ricordi la storia del sogno di Katsia Munjadze e del treno?» l’illuminista francese Denis Diderot, riguardo all’intelligenza
Natela non proferiva parola. innata dell’uomo, e rimase con la testa conficcata per sempre
«Come potresti non ricordarla, in effetti, non è stato il gior- all’altezza del tratto esistente tra il due-per-due e il tre-per-tre.
no della notizia della morte di Kukuri? E poi, forse ricorderai «Ehilà, Diderottino, spione di Port Arthur!»
anche di come ci siamo addormentati entrambi all’improvviso, «Ehilà, Diderottino, bastardo di Ōyama!»59 si sgolano i ra-
mentre io ti leggevo le poesie ai piedi del covone di fieno...» gazzini di Guturi,60 che sguazzano e si buttando uno addosso
Natela si alzò in piedi, dagli occhi le sgorgavano due rivo- all’altro, ridendo, nelle acque del fiume Supsa.
letti di lacrime che si univano sotto il mento. «Fermatevi, se avete fegato, voi figli d’un cane, e vi farò
«Nodar, ragazzo mio, tutto ciò ora dorme in me e non sve- vedere io, a voi e alle vostre madri!» urla inferocito Diderot e
gliarlo, ti prego!» m’implorò. rincorre, minacciando con la pietra impugnata, i ragazzi spar-
Io allora le presi una mano, incallita e screpolata per le fa- pagliati lungo il torrente.
tiche inadatte a una donna, gliela baciai con riverenza, e mi «Diderottino il Ricciolone!»
commossi. Lei ritirò la mano con molta cautela, mi baciò sul
petto all’altezza del cuore, poi si voltò e se ne andò. 59
Ōyama Iwao (1842-1916): militare e politico giapponese. Nella guer-
«Perdonami, Natela!» dissi io. Natela, senza rispondermi, ra russo-giapponese (1904-1905) fu nominato comandante capo delle
varcò il passaggio della staccionata. Io sono rimasto lì in piedi armate giapponesi in Manciuria, che guidò contro l’esercito russo co-
mandato dal generale Kuropatkin, sconfiggendolo più volte a Shaho,
a lungo, con la speranza che si girasse a guardarmi almeno una
Sandepu e infine a Mukden.
volta, ma Natela non si girò. Se ne andò portandosi con sé così, 60
Guturi [georg. გუთური]: villaggio nel comune di Čokhatauri, sulla
senza voltarsi indietro, la mia povera infanzia. riva sinistra del fiume Supsa, in Guria.
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«Diderottino il Caricone!» quella situazione. Ti pareva che non era capace di fermarsi, di
«Diderottino la Schiumazza!» i ragazzini di Guturi gridando mettere giù il carico, sedersi un attimo, tirare il fiato e scambia-
rincorrono Diderot che si precipita lungo il fiume Supsa, e poi re con te due parole? Sarebbe rimasto fermo così, carico come
si rinfrescano nelle correnti di Samgelia le schiene roventi e le un cammello, il collo allungato, gli occhi fuori dalle orbite, e si
piante dei piedi bruciate a furia di correre sulla ghiaia bollente. sarebbe intrattenuto a parlare con te.
Non è mai successo che Diderot avesse davvero scagliato la «Di chi sei figlio tu? Non ti riconosco.»
pietra impugnata contro i ragazzini. Di solito fa disegnare al «Sono io, Nodar, il nipote di Kišvard!»
braccio un cerchio, poi lo ferma a metà strada, osserva la pietra «Oh, sapessi che polpette che mi dava da mangiare gratis
come se fosse una perla invece della pietra e poi se la mette con tuo nonno quando faceva il cuoco alla tavola calda di Guturi.
fare confidenziale nella tasca dei pantaloni logori. Da dove arrivi?»
In Guria a nessuno fa meraviglia un nome come Diderot «Dalla città.»
o simili. Solo a Guturi, prima della guerra patriottica,61 c’e- «State tutti bene?»
rano quattro Otelli, otto Amleti, sette Shakespeare, cinque «Sì.»
Desdemone e tre Ofelie, ma nessuno li ha mai rincorsi con «Per quanto tempo rimani?»
schiamazzi e frastuoni. Diderot era tutt’altra cosa. Diderot, «Per una settimana.»
oltre a essere Diderot, era anche “Ricciolone”, “Caricone” e «Per come sei ridotto, ragazzo, una settimana non ti basta
“Schiumazza”. per riprendere il colorito.»
Diderot era “Ricciolone” perché aveva i capelli ispidi come «Diderottino, cammina, devo prendere l’autobus» gli met-
un riccio e, a parte questo, per una scommessa era in grado di teva fretta il proprietario dei bagagli.
togliere il riccio alla castagna caduta dall’albero con un solo «Compare, dammi il tempo di scambiare due parole con
piede nudo. quest’uomo, sennò lascio il tuo carico qui in mezzo alla strada
“Caricone” lo era, Diderot, per il fatto che nessuno riusci- e quei tre manet te li ficchi dove ti pare!» Diderot metteva in
va a sollevare un peso maggiore di quello che era capace di guardia così il proprietario, poi mi presentava: «È il figlio di
sollevare lui. Quante volte lo vidi, carico di sacchi che gli pen- Ladiko, Kalandadze».
devano da entrambe le spalle e con i cesti pieni zeppi tenuti «Lo conosco, Diderot!»
con entrambe le braccia affaticate, accompagnare qualcuno dal «Quanto sarà felice tua zia di vederti! Avrai certo saputo che
villaggio al centro provinciale, in cambio di un manet o tre. Uno tuo cugino Tamaz è stato morso da un serpente.»
doveva essere un ingenuo o una bestia per salutare Diderot in «Mi trovavo anch’io qui, allora» gli rammentavo.
«Allora saprai anche che è stato arruolato.»
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Grande Guerra Patriottica [Rus.: Великая Отечественная война, ge-
«So anche questo!»
org. დიდი სამამულო ომი]: termine con cui veniva definito nella cul-
tura sovietica il coinvolgimento dell’Urss nella Seconda guerra mondiale «Allora, se sai tutto, che ci sei venuto a fare qui, non potevi
(1941-1945), ovvero il fronte orientale. rimanere in città?» mi chiese Diderot contrariato.
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«Allora, se le cose stanno così, me ne torno indietro.» l’uovo, all’America o al Giappone?» chiese Diderot, e strizzò
«Non ti muovere da qui, aiuto questo disgraziato a portare il gli occhi in attesa della risposta.
carico fino all’autobus e torno subito da te!» mi diceva Diderot «All’America!» esclamò Ekvtime con finta allegria.
e correva via trottando. Poi all’improvviso si voltava e mi im- «Perché?» gli domandò Diderot con un piglio ironico.
plorava: «Ragazzo, ora non ti mettere a chiamarmi “Diderot- «Perché la coda è rivolta verso l’America, signor Diderot»
tino il Caricone”, e quando torno ti porto gratis questa valigia argomentò il Barilotto.
fino al villaggio. Tanto, è lì che devo andare». «Non vuol dire niente!» lo scoraggiò Diderot.
Riuscivo a malapena a inghiottire il nodo che mi premeva al- «Allora è del Giappone!» fece dietrofront Ekvtime.
la gola e, sorridendo, facevo a Diderottino un cenno di assenso (Questo famoso indovinello contiene una fallacia nella pre-
con la testa. Dico sorridendo, ma in realtà non volevo altro che messa, cioè il fatto che un gallo non depone uova, ma a Diderot
farmi un bel pianto. Poi posavo la valigia sul ciglio della strada questa spiegazione non era mai piaciuta, poiché la conosceva
e aspettavo il ritorno a passo trotterellante di Diderottino. tutto il mondo. Lui si era inventato una conclusione diversa,
Per quanto riguarda il soprannome “Schiumazza”, fu affib- nuova, più interessante e imprevedibile.)
biato a Diderot tre anni addietro, e io ne fui testimone. «Povero sciocco, da quando in qua l’America e il Giappone
hanno un confine?» chiese con scherno Diderot al Barilotto.
Ero venuto al villaggio per le vacanze estive. Era una dome- La parruccheria si sbellicò dalle risate.
nica. Tutti i chiacchieroni di Guturi si erano radunati dal par- «Hai il mondo in pugno, signor Diderot» disse allargando le
rucchiere e seguivano con attenzione il confronto tra Diderot braccia lo sconfitto Ekvtime. «Comunque, dove hai imparato
e il barbiere Ekvtime “il Barilotto”. Quando entrai, la disputa questo indovinello?»
era cominciata da un pezzo, per cui nessuno fece caso a me. «A Port Arthur, dove sennò?» disse Diderot come fosse tor-
«Signor Diderot, proponimi un altro indovinello e se non nato da lì l’altro ieri.
riesco a indovinare la risposta, ti raderò gratis per un mese in- «Quando hai avuto il tempo, signor Diderot, di andare a
tero» stava scommettendo Ekvtime “il Barilotto” con Diderot. Port Arthur?»
Il barbiere era chiamato così perché era basso e grassoccio. In «Dove pensi che fossimo io e mio padre nel 1904?» chiese a
tutto il villaggio era l’unica persona che dava del “signore” a sua volta Diderot.
Diderot. Quest’ultimo, ovviamente, non ne avvertiva la mali- «E tua madre dov’era in quel periodo?»
zia e accettava l’appellativo di buon grado. «Ma vallo a spiegare a questo sciocco,» Diderot si voltò verso
«Va bene, allora, Ekvtime, signore mio, prova a indovinare: di noi, «ma se mio padre sposò mia madre quando tornò da
al confine tra due Stati, l’America e il Giappone, è appollaiato Port Arthur!»
un gallo sopra la staccionata, tiene la testa rivolta di là, verso il Tutti i presenti annuirono.
Giappone, e la coda verso l’America. D’un tratto il gallo depo- «E tu dov’eri allora, signor Diderot?» non gli dava tregua il
ne un uovo sulla linea di confine, e ora dimmi: a chi appartiene Barilotto.
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«Ero dentro mio padre, ecco dov’ero!» Per il timore di non eseguire il piano della raccolta del tè,
«Lui sì che può dire di avere una memoria di ferro!» si com- l’inquieta dirigenza provinciale aveva trascinato tutti, dal cor-
plimentò il Barilotto, e d’un tratto, con una voce immensamen- po insegnante alla scolaresca, dal direttore al bidello, al bar-
te preoccupata disse a Diderot felice del complimento: «Signor biere, al sarto, alla lavandaia, al banconista, al mungitore, al
Diderot, non mi piace la tua cera, fammi vedere un attimo la seminatore, al vangatore, allo zappatore, a lavorare nelle pian-
lingua!». tagioni del tè. Su richiesta di Sergia, il coordinatore dei lavori,
Diderot, preso dalla paura, guardò prima noi, poi tirò fuori ci andai anch’io, quel mattino.
con imbarazzo la punta della lingua e vi diede lui stesso uno I germogli del tè erano rampollati fino a una spanna, e i
sguardo strabico da sopra il naso. ragazzi e le ragazze dai grembiuli bianchi e dalle camicie gial-
«Come posso capire qualcosa così, signor Diderot. Concedici lorosse, disseminati tra i filari delle piantagioni, avevano così
un altro po’ della tua lingua, da bravo...» l’esortò Ekvtime. punteggiato di colori il pendio di Bardnala da far dubitare che
Diderot allora strabuzzò gli occhi e srotolò come un cane il giorno prima non avesse piovuto e la pioggia non avesse
rabbioso la sua enorme lingua, e fu a quel punto che Ekvtime il fatto spuntare una miriade di fiori, nel giro di una notte, su
Barilotto spalmò il pennello con la schiuma da barba su quella quella verde falda di montagna.
lingua lunga una spanna. Le foglie del tè, di norma, venivano raccolte per lo più da
«Ahi» proruppe Diderot, ma non riuscendo a chiudere la donne e dalla scolaresca. Degli uomini, invece, qualcuno aiu-
bocca piena di schiuma, si ficcò tra i denti il grembiule sporco tava gli addetti alla pesa e al trasporto, qualcuno se ne stava in
che gli pendeva sul petto e, mugghiando, corse fuori. È dal disparte e, avvolto nel fumo del tabacco, discuteva dei fatti del
momento che corse fuori che se ne aggiunse uno nuovo alla mondo. Il mio compito consisteva nell’annotare sul registro la
lista dei suoi soprannomi. È da quel giorno in poi che Diderot quantità del raccolto e nel farne la cernita. Ero impegnato in
divenne Diderottino la Schiumazza. questo lavoro, quando qualcuno gridò: «Arriva Diderottino la
«Ehilà, Diderottino la Schiumazza, spione di Port Arthur!» Schiumazza!».
«Ehilà, Diderottino la Schiumazza, bastardo di Ōyama!» Diderot stava discendendo il pendio di Bardnala. Con un
«Ehilà, Diderottino la Schiumazza!» gridano i ragazzini di sorriso smagliante distribuiva saluti a destra e a manca, e con
Guturi rincorrendo Diderot che trotta lungo il fiume Supsa e una pietra impugnata avvertiva i ragazzini:
si buttano ridendo uno addosso all’altro. «Buongiorno a voi, bambori. Attenti a non chiamarmi
“Schiumazza”, ora, sennò nessuno mi potrà sfuggire lungo
La storia che mi accingo a raccontarvi ebbe luogo l’anno questa discesa.»
scorso. In primavera ero andato a stare per tre giorni al vil- «Buongiorno a te, Diderottino il Ricciolone!»
laggio. Avrei dovuto dare una mano a mia zia a sostituire le «Cosa vi ho appena detto?!» Diderot tese l’orecchio.
tegole del tetto di casa. Era il mese di maggio, periodo di lavoro «Hai detto di non chiamarti Diderottino la Schiumazza» gli
intensissimo. suggerì qualcuno.
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«Che differenza c’è tra Ricciolone e Schiumazza?» chiese «Né Ricciolone, né Caricone, né Schiumazza, signor Diderot!»
Diderot con severità. «Allora, sollevami ’sta gerla!» Diderot, contento, si buttò sul
«Allora, buongiorno a te, Diderottino il Caricone!». contenitore. La gerla era enorme e pesante.
«Ancora?!» Diderot si fermò e guardò nella direzione da cui «Questa gerla è grande e pesante, signor Diderot, e in più,
arrivava quest’altro appellativo. il tè è umido, ancora bagnato di rugiada. Ti risulterà difficile»
«Allora che possono fare questi bambori, signor Diderot, se l’avvertì Ekvtime il Barilotto.
non possono chiamarti né Ricciolone, né Caricone e né Schiu- Diderot sorrise. Prese per le ascelle il figlio di Qeskina Me-
mazza? Non è che possono essere tutti benevoli come me?» liva che gli stava accanto, lo mise sulla gerla e gli disse: «Tor-
Ekvtime il Barilotto cercò di rendere benevolo Diderot nei con- chiamelo!». Il ragazzino abbassò il contenuto fino a metà.
fronti dei ragazzini. «Aggiungetene altro!» disse Diderot.
«Se è per questo, preferisco che mi chiamano “spione di Port Ne aggiunsero.
Arthur”. Almeno so benissimo che non lo sono...» Diderot di- «Ancora!»
chiarò la sua preferenza, dopodiché venne da me, mi diede una Ne aggiunsero ancora. La gerla si riempì fino all’orlo.
pacca sulla spalla e mi disse: «Nipotino di Kišvard, iscrivimi «Va bene così, birbone, non lo vedi che lo stai spremendo?»
nella lista!». Barilotto buttò il figlio di Qeskina giù dal contenitore. Diderot
«In quale? In quella dei raccoglitori, dei pesatori o dei tra- provò il peso della gerla. Gli parve leggera.
sportatori?» gli chiesi io. «Tutto il villaggio è occupato a raccogliere questo?» ci rim-
«Qual è meglio?» Diderot mi chiese un consiglio. proverò. «Metteteci sopra anche ’sto sacco di juta!»
«Se lo vuoi proprio sapere, Diderot, secondo me non c’è Ce lo misero.
niente di meglio che stendersi a riposare sotto quell’albero, «Un altro!»
ora!» «Sta dando di matto!» disse il Barilotto.
«Steso a riposare lo ero anche a casa, scimunito! Iscrivimi tra «Scommettiamo!» disse Diderot.
i trasportatori!» decise Diderot. «Cento rasature!» esclamò il Barilotto.
Lo iscrissi. «Ma se ti vinco due volte al giorno la rasatura per un anno
«Con quale nome mi hai iscritto?» mi chiese insospettito. intero. Stavolta perché non scommetti tu, nipote di Kišvard, ’sti
Glielo lessi: «Diderot Vešapidze fu Edemika». calzoni tuoi?» Diderot si rivolse a me e fissò i miei pantaloni
«Mostramelo!» texani.
Gielo mostrai. Diderot studiò la lista a lungo, dopodiché si «Non c’è bisogno di scommettere, Diderot, te li do gratis»
voltò verso Ekvtime il Barilotto e gli chiese: «Confermi che è «Ma che gratis, non sono mica un mendicante io!» Diderot
scritto proprio così, Ekvtime?». se ne risentì.
«Confermo!» «Basta che non mi costringi a togliermeli qui. Appena torno
«Niente Ricciolone, né Caricone, né Schiumazza?» a casa, mi cambio e te li porto.»
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Diderot provò di nuovo la gerla, esitò un attimo, ma non si «Vai, Diderottino!»
tirò indietro. «Manca poco, e saranno tuoi i pantaloni di Nodar!»
«Sollevatemela!» disse, e si inginocchiò davanti al contenito- «Dai, non mollare, Diderottino!» l’incoraggiavano i ragaz-
re. Qualcuno portò una corda, così da legare i due sacchi di juta zini.
pieni sopra la gerla già pesante come piombo, e quattro uomini «Se qualcuno gli volesse male, dovrebbe fargli un inchino
riuscirono a stento a fissare il tutto sulla schiena di Diderot. e salutarlo in questo momento!» scherzò qualcuno. La gente
«Tieni duro, Diderottino il Caricone!» l’incoraggiò qualcuno. rise di gusto.
«Non fare cilecca, Ricciolone!» «Dai, Diderottino, ti mancano dieci passi!»
«Va’, Schiumazza, non ti fermare!» «Otto... sette... sei...»
Diderot barcollò, poi d’un tratto afferrò l’albero di aleurite, «Resisti, Diderot!»
e divaricò le gambe. «Tre... due...»
«Ehi, Diderottino, molla la presa, sennò hai perso!» urlò «Uno! Sei forte, Diderot, fortissimo!» urlavano i ragazzi, la
qualcuno. Diderot ritirò la mano dall’albero come se bruciasse folla rumoreggiava.
e barcollò di nuovo. Diderot si lasciò andare sul terreno, accanto alla pesa, con
«Lascia perdere, Diderot! Vedi che me li tolgo subito, questi tutta la gerla addosso. Rimase per un po’ così, come colpito
pantaloni!» l’implorai, ma ormai era impossibile fermarlo. da un ictus, con le braccia e le gambe molli. Quando il colo-
Si mosse. All’inizio seguì il sentiero a zig zag, come se fosse rito bluastro gli passò e nelle labbra sbiancate gli cominciò a
ubriaco, poi allineò il passo, piano piano, poco alla volta, finché scorrere il sangue, sorrise e si stese a pancia all’aria sul prato.
non s’incamminò con un incedere molto pesante, molto posato e Poi si rigirò, e strusciò il viso sudato sull’erba fresca. Quattro
molto lento in direzione del punto di accettazione del raccolto. Le uomini posarono a fatica la gerla sulla pesa. Accorremmo tutti
cinghie gli scavarono solchi profondi un dito nelle spalle, i ten- quanti a vedere. Si controbilanciò all’inizio con una pesiera,
dini del collo gli si tesero come quelle cinghie, gli si gonfiò una poi con una seconda, una terza, una quarta, e, infine, visto
vena bluastra sulla fronte e gli occhi gli si iniettarono di sangue. che le pesiere non bastavano, fu aggiunta una pietra, a quanto
«Fermalo!» implorai Ekvtime il Barilotto. sostennero, di dieci chili.
«Si farebbe prima a fermare il fiume Supsa!» disse Ekvtime. «Avete ammazzato un cristiano, figli d’un cane?» esclamò il
Al punto di accettazione mancavano 250-300 metri. La gen- pesatore Benedikte, sgranando gli occhi per l’incredulità.
te per un po’ era rimasta come incantata: non era un uomo «Quanto pesa?» chiese qualcuno.
quello che vedevano muoversi davanti a loro, ma un enorme, «141 chili!» disse Benedikte.
deforme pezzo di roccia, o un gigantesco mastodonte bipede «Urca!» proruppe la folla. Tutti si girarono verso la direzio-
che avanzava a passo pesante. Poi, all’improvviso, questa folla ne in cui si credeva fosse steso Diderot, ma lui non era più là.
si mosse e si accodò a questo orco fiabesco nel suo cammino. I Andava trottando a testa china, piegato in due e con braccia
ragazzini corsero più avanti di tutti. penzolanti, senza voltarsi indietro, lungo il sentiero dei cam-
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pi fluviali del Supsa. Fu l’unico giorno della sua vita in cui riuscirebbero a sradicarla, anche se, la dannata, rimane appesa
nessuno lo rincorse gridandogli dietro “Diderottino, spione sempre a un filo».
di Port Arthur”, “Diderottino bastardo di Ōyama”, “Diderot- Il Supsa si era pericolosamente ingrossato anche quella pri-
tino il Ricciolone”, “Diderottino il Caricone”, “Diderottino la mavera. E dunque, appena messo piede nel cortile di Diderot,
Schiuamazza”. fui prima pervaso dalla mia paura infantile, poi dalla gioia che
Con una matita rossa segnai 141 chili accanto al nome Dide- la casa facesse ancora una tranquilla mostra di sé e osservasse
rot Vešapidze fu Edemika, e chiusi il registro. il fiume scatenato con un unico occhio acceso nell’oscurità.
La sera mi tolsi di dosso i pantaloni texani che erano piaciuti Il cielo era così rischiarato e punteggiato di stelle che alla
a Diderot, li avvolsi in una pagina di giornale, indossai un altro luna non era rimasto lo spazio per muoversi, ed era appesa in
paio di calzoni, mi misi sottobraccio l’involto e andai a trovare mezzo al cielo impallidita e incantata.
Diderot. È risaputo che i matti nutrono un affetto enorme per gli
animali, specie per i cani, per cui quando entrai nel cortile di
La casetta di legno dal tetto di scandole e a due finestre di Diderot e fui accolto da quattro o cinque cani che scodinzola-
Diderot si ergeva proprio sulla sponda del Supsa. Tutta la mia vano e gagnolavano, non ne fui sorpreso. Sapevo anche che
infanzia l’avevo trascorsa correndo attorno a quella casa e mai un cane non abbaia contro un uomo nella proprietà altrui,
una volta che mi fosse passata per la mente di sbirciarvi dentro, perciò quando una di queste bestie mi abbaiò e mi ringhiò,
non so se a causa del senso di timore o di riguardo che incutono capii che doveva essere di Diderot. Mi fermai, e, non sapendo
sempre le dimore di uomini solitari, e non so nemmeno quale il nome del cane, feci finta di chiamare: «Diderot! Diderot!», e
dei due sensi prevalesse allora. Sta di fatto, però, che io non nel frattempo cercavo con gli occhi una pietra o un bastone. Il
avevo mai dato un’occhiata all’interno della casa di Diderot, cane, all’improvviso, smise di abbaiare, dopodiché mi si stru-
anche se, ogni primavera, non facevo altro che stare per ore e sciò scodinzolando, come a dire: «Benvenuto, signore!», e mi
ore sulla sponda di un Supsa scatenato, aspettando con paura e accompagnò sulla balconata come se facesse gli onori di casa.
trepidazione che da un momento all’altro un’onda si scagliasse La porta della stanza era aperta. Al centro, sopra un tavolo
contro questa casa, la facesse a pezzi e la spazzasse via come un tondo di foggia antica, fumigava una lampada a petrolio. Vi
fuscello. Eppure l’abitazione continuava a ergersi indisturbata, stagnava una caligine simile a quella del tramonto o dell’alba.
immobile e senza badare alla furia del Supsa. Tutte le volte che Appena l’occhio si abituò a questa caligine, scorsi nell’angolo
avevo confessato a mio nonno questo mio timore, lui mi aveva destro un tavolinetto basso sul quale era adagiata un’icona del-
risposto: «Non solo tu, amore di nonno, anch’io sin da piccolo, la Vergine, con davanti un rametto secco di bosso.62 Sulla parete
a ogni stagione del disgelo, mi aspettavo che venisse spazzata di sinistra erano appese due fotografie sbiadite: una giovane
via, ma non è mai successo. Era uno stregone il padre di Dide- 62
Nella tradizione cristiana ortodossa, nella celebrazione della Do-
rot, Edemika, e quella casa ha le fondamenta conficcate dentro menica delle Palme, i rami di bosso sostituiscono simbolicamente i rami
una tale rupe che altro che uno, due fiumi come il Supsa non di palma.
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donna e un uomo dai baffi a punta e con addosso un čocha.63 «Non mi lasciare!». Diderot mi afferrò con la mano e me la
Daphino e Edemika probabilmente, pensai. Sotto le fotografie strinse così forte che fui costretto a tornare a sedere. Non mi
c’era un’ottomana. E su questa era sdraiato Diderot con tutti toglieva gli occhi di dosso e in questi non si scorgeva più la
i vestiti addosso. Vicino alla testa, su un treppiede, era posata vecchia scintilla.
una piccola brocca umida. Nella stanza c’era un’altra sedia, di «Quanti erano?» mi chiese.
vimini e dallo schienale tondo. Potei scorgere tutto questo con «Cosa?» mi meravigliai, non capendo subito che intendeva
un solo sguardo fugace. Non sembrava esserci altro. O meglio, il tè.
c’era anche una lampadina elettrica che pendeva dal soffitto «141 chili, Diderot!»
della stanza, ma non era accesa. «Quanto sarebbe?»
«Diderot, posso?» gli chiesi con timore. «Tantissimo.»
Annuì sorridendo, dopodiché guardò nella direzione della «Cioè quanto?»
sedia di vimini, forse intendendo invitarmi a sedere. «8 pud e 13 chili, Diderot!»
«Ti riposi, Diderot?» «È tanto?»
«No» scosse la testa. «17 batman e 5 chili, Diderot!»
«Ti fa male qualcosa, Diderot?» «Un bel po’, in effetti!»
«Sì» annuì. Un brivido fastidioso mi corse per tutto il corpo. «Ora vado a chiamare un dottore, Diderot!» feci per alzarmi.
Gli andai vicino, gli accostai la brocca alle labbra, l’aiutai a «Non mi lasciare!» m’implorò terrorizzato, e mi strinse il
sollevare la testa e gli feci bere l’acqua. polso con una tale forza da far scricchiolare le ossa. Mi venne
«Cos’è che ti fa male, Diderot?» da urlare, ma ne provai vergogna e resistetti.
«Si è spezzato» mormorò, appena ebbe finito di bere. «Ti ho portato i pantaloni, Diderot!»
«Che cosa?» gli chiesi anch’io, per forza di cose, con un mor- «Che pantaloni, ragazzo?» s’incuriosì, e allentò un po’ la
morio. stretta.
«Non lo so!» «Quelli che hai vinto.»
«Dove ti fa male, Diderot?» «Non capisci mica gli scherzi tu, ragazzo?!» mi chiese.
«Qua e qua...» si mise la mano sinistra sul cuore, la destra se «Tanto, ne ho un altro paio, Diderot...»
la portò alla tempia. «Si è spezzato qua, e poi qua!» Diderot guardò nella direzione del tavolo, sul quale era po-
Fui scosso da un brivido ancora una volta. Mi accorsi solo allo- sato l’involto con i calzoni dentro. Rimase a lungo immerso nei
ra che il volto di Diderot era cinereo, e aveva la paura negli occhi. suoi pensieri, poi si voltò verso di me e mi disse ancora una
«Vado a chiamare un dottore!» dissi e feci per andarmene. volta con un mormorio:
«Ripeti con me: “Mi muoia la madre, mi muoia il padre,
63
Čocha [georg. ჩოხა]: indumento maschile tradizionale del Caucaso,
consistente in un mantello lungo fino alle ginocchia, senza colletto, stret- muoiano e periscano tutti i miei cari, se ti dovessi abbandona-
to in vita e con una fila di “cartucciere” per lato sul petto. re, Diderottino!”.»
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«Mi muoia la madre, mi muoia il padre, muoiano e perisca- stra, «Dio è apparso, Dio! Sia benedetta, Dio, la tua potenza,
no tutti i miei cari, se ti dovessi abbandonare, Diderottino!» come hai fatto, come ci sei riuscito a rischiarare e ordinare tutto
glielo ripetei con voce tremante. in questo modo. Vieni fuori, mostrati a Nodar... vieni fuori...
«Ora vai alla credenza e apri il cassetto inferiore» mi disse due per due fanno quattro, Nodar, tre per tre, nove... rischia-
Diderot e mi liberò la mano con molta cautela. rato e sistemato...» Diderot si portò la mano destra alla tempia,
Andai alla credenza. Lui mi seguì con gli occhi. Mi piegai e con la sinistra stringeva ancora il mio polso. «Ecco, è qui che si
aprii un piccolo cassetto, in basso. è rischiarato tutto... riesco a vedere tutto, sia dentro che fuori.
«C’è dentro qualcosa?» mi chiese Diderot. Il cassetto era pie- Lo vedo, Nodar, lo vedo, muoio dentro ed esco fuori... lascio
no di banconote da uno e da tre manet. «Quanti sono?» dentro tutti i dolori, ed esco fuori... Esci fuori, anima, esci alla
«Tanti.» luce, mia cara anima... Che combini, Dio, sei impazzito?» si
«Cioè?» mise all’improvviso a strillare. «Mi fai morire, Dio? Proprio
«Saranno all’incirca tra i 100 e i 200 manet.» ora che hai rischiarato e raddrizzato tutto, che hai rimesso tutto
«Basteranno per i tuoi pantaloni?» a posto, mi togli l’anima proprio ora? Fermati, ti dico, non ti
«Sei impazzito, Diderot?» muovere, Nodar, trattienilo, chiedigli di non farmi morire, No-
«Ora torna qui a sederti!» dar, ragazzo mio, dov’è la sua giustizia, se mi fa morire ora che
Ci andai. Mi afferrò di nuovo per il polso, ma stavolta con mi ha rischiarato e ordinato tutto? Che esca fuori e si mostri,
più riguardo. che si mostri a te e ti parli! Mi fa morire ora, che non sono più
«Sono tuoi, Nodar! Io ora sto per morire. Con questi pan- né Schiumazza, né Ricciolone... Che combini, Dio, non farmi
taloni che ho addosso è una vergogna seppellire un cristiano. morire, ehi, Nodar, ragazzo mio, intercedi per me, un giorno
Toglimeli e mettimeli ’sti qua, ma non adesso, mi farà male, in più o in meno cosa cambia per Lui, mi dia un altro giorno
dopo, quando sarò morto...» Diderot chiuse gli occhi. Rimase di vita ora che sono così rischiarato, ordinato e a posto... E poi
in silenzio molto, molto a lungo. Se non fosse stato per la forte mi faccia pure morire, chiediglielo, Nodar, spietato e disonesto
stretta della sua mano incandescente, si sarebbe potuto pen- che non sei altro, chiediglielo!» Diderot passò dallo strillare al
sare che stesse dormendo. Anche il respiro sembrava di uno mormorare, poi iniziò ad andargli via la voce fino a che non
che dorme. la perse del tutto, e si rovesciò a pancia in su. Ora riuscivo a
«Nodar, ragazzo, si è rischiarato!» disse Diderot all’improv- capire dai soli movimenti delle sue labbra che continuava a
viso, e si drizzò a sedere sull’ottomana. «Si è rischiarato tutto, implorarmi di chiedere a Dio soltanto un altro, un unico giorno
ragazzo, ed è tornato al proprio posto, bell’e sistemato. È torna- di vita, da vivere così ordinato, a posto e rischiarato.
to tutto al suo posto: la casa, la valle, il Supsa, il cane, la mucca, Fui lì lì sul punto di balzare in piedi e scappare, ma Diderot
la brocca, la lampada a petrolio, il vitello, la stufa, l’icona, mia mi stringeva con una tale forza che per liberarmi sarebbe stato
madre, mio padre. Se prima brancolavo nel buio, ora tutto è necessario tagliargli la mano, e fu allora che mi misi a urlare
rischiarato e rimesso a posto» Diderot guardò fuori dalla fine- anch’io:
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«Aiuto, gente! Diderot sta morendo, ehilà, gente! Chiamate «Dove stai andando, cane?» gli chiesi. La bestia distolse da
un dottore, sta morendo Diderot, Diderooooot! Ehilààà! Uscite me lo sguardo come uno che prova vergogna. Poi abbassò la
fuori, aiutate Diderottino, sta morendo!» Ma fuori c’era solo testa e ritirò la coda tra le gambe.
il Supsa che si stava scatenando, che ruggiva e spazzava via Me ne andai. Dopo un po’ mi voltai a guardare. Il cane con-
alberi e pezzi di terra, nessuno che potesse udire la mia voce. tinuava a seguirmi, solo più discosto.
Allora caddi sulle ginocchia e rivolsi lo sguardo alla Vergine «Dove sei stato, ragazzo, a quest’ora della notte?» mi riscos-
adagiata nell’angolo destro della stanza. se la voce di qualcuno. Ebbi un sussulto. Alzai lo sguardo, era
«Dio, non fare morire Diderottino. Come si può farlo morire Teimuraz Čanišvili, il farmacista del villaggio.
in questo momento, ora che gli si è messo a posto, raddrizzato «Sono stato a trovare Diderot!»
e rischiarato tutto? Dio!» poi mi resi conto un po’ alla volta «Che dice Diderot?»
di come la mano di Diderot cominciò ad afflosciarsi, di come «Diderot è morto, signor Teimuraz, se n’è andato, è decedu-
gli si aprirono le dita e di come la sua mano si abbandonò sul to» gli comunicai.
treppiede, accanto alla brocca. Diderot non respirava più. «Ma dici davvero?» si dispiacque il farmacista. «Bisogna
«È questa la tua giustizia, Dio?» dire, però, che Dio gli ha fatto la grazia. Che vita era la sua?!
Mi alzai in silenzio e uscii fuori. Il cortile era vuoto. I cani Sia benedetta, Dio, la tua giustizia!» si fece il segno della cro-
erano spariti. C’era solo il cane di Diderot accucciato nei pressi ce, mi diede le spalle e si diresse a passo rapido verso la casa
del cancello: aveva la testa poggiata sulle zampe anteriori e mi di Diderot. Il cane, testa bassa e coda tra le gambe, si mise a
fissava con un paio di occhi estremamente intelligenti. seguire il farmacista.
Levai lo sguardo al cielo. Vi stava prendendo campo una nu- Levai gli occhi al cielo. La luna era sparita del tutto.
vola grigiastra, e la luna, con fare colpevole, sembrava nascon-
dersi dietro di essa e voler abbandonare il cielo alla chetichella.
Le acque del Supsa si rompevano ruggendo contro la sponda
rocciosa, la casa di Diderot sembrava di nuovo appesa a un filo,
e io fui di nuovo assalito dalla mia paura infantile.
«Dio, almeno adesso fa’ che un’onda le si franga contro, la
faccia a pezzi e che se la porti il Supsa questa infelice casa!»
lo implorai a voce alta. Il fiume continuava a ruggire con un
furore inaudito. Forse le mie invocazioni non raggiunsero le
altezze divine. La casa se ne stava tranquilla, facendosene un
baffo della furia del disgelo.
Uscii dal cortile. Il cane si alzò e mi seguì trascinando le
zampe.
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Astvats! Inču hamar!

[1983]

Lo zio Gevork morì all’improvviso. Prima si alzò dalla sedia,


si portò la mano sinistra alla tempia. «Mito, ragazzo mio, cre-
do sia finito tutto...» mi disse con una voce persa. Dopodiché
tornò a sedere, fissò gli occhi oltremodo increduli, sbarrati, al
cielo, e proferì in armeno: «Astvats! Inču hamar!», cadde con la
testa canuta in avanti sulla scacchiera, e morì. Riuscirono con
difficoltà a togliergli dalla mano la mia regina nera.

Lo zio Gevork era un uomo di circa quaranta, quarantacin-


que anni. Viveva nel nostro cortile, in un monolocale, assieme
alla moglie e alla figlia. Quest’ultima, Neli, era una ragazza di
incredibile bellezza. Gliel’aveva rapita per sposarla, nel dopo-
guerra, Trupka Gogia, uno del quartiere di Svaneti. Neli veniva
a trovare i genitori solitamente di domenica, dando modo alla
nonna Aneta e al nonno Gevork di godere della presenza del
nipotino, e la sera se ne tornava dalla famiglia del marito.
Il rapporto tra me, mamma e lo zio Gevork era basato sulla
simpatia e sulla benevolenza. Il fatto è che quando Trupka Go-
gia portò via a Gevork la sua Neli, nessuno si era preso la briga
di difenderla e di inseguirla, tranne me, il che mi era costato
un occhio pesto e due calci umilianti incassati nel mio stesso
cortile, ma, in compenso, mi ero guadagnato affetto, fiducia e
simpatia smisurati da parte della zia Aneta e dello zio Gevork.
Questa simpatia si manifestava innanzitutto nel fatto che lo
zio Gevork non giocava a scacchi con nessuno, tranne che con
me. Il torneo si svolgeva quasi ogni giorno secondo lo stesso

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copione, accompagnato da quasi le stesse battute. Io giocavo sante dello zio Gevork. Giocavamo a scacchi in cortile, proprio
sempre con i bianchi, sempre su scommessa, e in palio c’erano davanti alla porta della sua unica stanza. Appena scendevo,
sempre due bottiglie di Saperavi64 con l’antipasto65 annesso, c’era già la scacchiera pronta ad attendermi.
nel quale dominava il ravanello rosso. «Baro!»68 lo salutavo, e gli tendevo la mano.
Lo zio Gevork, dopo essere rincasato dal lavoro e aver fatto Lui non me la stringeva subito, aspettava che facessi la pri-
il pranzo, faceva un’ora di siesta, poi usciva in cortile con ad- ma mossa, per poi farla lui in risposta, registrarla in un taccu-
dosso il pigiama a righe da carcerato e chiamava mia madre ino, e solo allora mi stringeva la mano, dicendomi:
dal pianoterra: «Buongiorno a te! Raddoppiamo la puntata?»
«Sua Altissima Eccellenza, signora Aniko, è già tornato dalle «No.»
lezioni il suo Capablanca66 da strapazzo?» «Vicini, siete testimoni: non si raddoppia la puntata!» avver-
«È tornato, è tornato» rispondeva mia madre dall’alto. tiva i vicini che trafficavano nel cortile, immersi nel loro daffa-
«Allora, abbia la bontà di verificare se non è immerso nelle re, e che a loro volta annuivano con la testa. I primi tempi ci si
sue abituali fatiche artistiche, e gli dica che il suo vicino Botvin- accalcavano attorno come api, ma in seguito, avendone avuto
nik67 gli chiede l’onore di concedergli qualche minuto del suo abbastanza dei nostri litigi e delle nostre bizze, persero questa
preziosissimo capitale di tempo...» abitudine un poco alla volta. Raramente a qualcuno veniva la
«Tu e la tua lingua! Invece di imparare un georgiano così le- curiosità e si intrometteva nei nostri battibecchi. Per il resto,
zioso avresti fatto meglio ad apprendere una parola di armeno. io e lo zio Gevork godevamo nel cortile di piena autonomia, il
Saresti diventato qualcuno, disgraziato, ché così non sei né di che, per certi versi, ci faceva molto comodo.
qua, né di là» gli rispondeva mia madre, e poi chiamava me: «Compagno Gevork, figlio di Artavaz, perché annota le
«Vai giù, ragazzo, ti vuole quello sciroccato tuo pari». mosse?» attaccavo briga.
Non esisteva al mondo un narratore più eloquente e interes- «È la regola!»
«Ma se io non le annoto?»
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Saperavi [georg. საფერავი]: tipo di vitigno autuctono della Ge- «Dovresti!»
orgia orientale (Kakheti), dalle bacche nere e dal sapore acidulo. Viene «E se non so come si fa?»
utilizzato per produrre il vino più noto della Georgia, il “Saperavi”, ap- «Allora sei un analfabeta e un ignorantone! Facciamo che
punto.
io annoto e tu ci metti una croce o una tua impronta digitale.»
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Nell’originale è impiegato il calco georgiano del termine russo
“закуска” [zakuska, antipasto], che designa un assortimento di antipasti, «Che impronta digitale, mica sono un carcerato io!» Sottili-
per lo più freddi, che si mangiano accompagnati dalla vodka o da altri neavo con particolare enfasi la parola “carcerato”, poiché lo zio
alcolici, prima o in sostuzione dei pasti veri e propri. Gevork era stato in prigionia e ricordare quei giorni gli dava
66
José Raúl Capablanca (1888-1942): scacchista cubano, campione del
mondo dal 1921 al 1927.
67
Michail Botvinnik (1911-95): scacchista sovietico. Grande Maestro 68
Georg. ბარო [baro]: calco georgiano del saluto informale armeno
Internazionale, è stato più volte campione del mondo. “բարով” (barov, ciao).
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sui nervi. Non è che lo facessi per cattiveria, è che quando lo «Perché sarei un traditore della patria, ragazzo?» lo zio Ge-
zio Gevork era irritato sbagliava puntualmente le mosse, e mi vork si alzava in piedi.
si presentava così la possibilità di vincere. Era per questo mo- «Perché ti sei consegnato a Hitler.»
tivo che cercavo continuamente di innervosirlo. «Mica sono stato l’unico!»
«Ehi, niente allusioni adesso, birbone. Io mica ti rinfaccio «Chi se ne frega degli altri!»
che in economia politica, in pianificazione dell’agricoltura «Sì, ma se ero assieme agli altri? Scacco! Che potevo farci?
popolare, in statistica, in diritto e in materialismo dialettico Togli la mano da quel pezzo, è mio...»
hai l’insuffucienza» lo zio Gevork si metteva a elencare le mie «Dovevi farti avanti e dire: “Compagno Hitler, io non pos-
materie sulle dita. so farmi trascinare da questi codardi...”. Perché non mi dici
«Allora chi è che studia al posto mio, tu, per caso? Allora, Gardez!?»71
com’è che vengo promosso ogni anno?» «Da quando in qua si dice Gardez! al re, scimunito! E dopo?
«È quello che mi chiedo anch’io!» Continua...» mi chiedeva lo zio Gevork e, in attesa della rispo-
«E tu dove ti saresti istruito così bene? Durante la prigio- sta, tornava a sedere.
nia?» chiedevo allo zio Gevork e lo guardavo dritto negli occhi. «Proprio così avresti dovuto dire: “Io non posso farmi
«Quale prigionia?» lo zio Gevork parlava a denti stretti e, trascinare da questi qui, e la mia patria cielo-turchese-terra-
impaurito, si guardava attorno. smeraldo...”.»72
«In quella in cui, una volta superato Navtlughi,69 hai pro- «Mi ricordo di te da quand’eri ancora in fasce, ed è da allora
seguito fino a Rostov70 gridando “Heil Hitler“ a mani alzate, che sei un birichino, nulla è cambiato in te. In barba a Darwin
invece di gridare “Urrà”» gli dicevo io. e alla sua evoluzione, non credo potrai mai diventare un uo-
«Gevork, sei un uomo saggio, non abbassarti al livello di mo» lo zio Gevork si prendeva gioco di Darwin. «Eccoti qua,
questo pivello, sennò ti scucirà uno schiaffo, e ciò non ti farà наглядное пособие,73 l’evoluzione in persona! Puh!» sputava
onore» lo zio Gevork avvertiva se stesso, e nel frattempo di lato.
combinava i suoi pezzi con l’intento di farmi venire la tre- «Allora insisti che non sei il traditore della patria!» non gli
marella. davo tregua.
«Oh, che mossa alla curda!» mi grattavo la nuca. «Sarei stato un traditore della patria se avessi condotto Hitler
«All’armena!» mi correggeva lo zio Gevork. in disparte e, da bravo Giuda, gli avessi detto: “Compagno Hit-
«Da un traditore della patria non mi sarei dovuto aspettare ler, il compagno Stalin si nasconde nel Giardino di Getsemani!”.»
nulla di meno!»
71
Gardez la reine! (fr.) o semplicemente Gardez!: nel gioco degli scacchi,
69
Navtlughi [georg. ნავთლუღი]: vecchio quartiere di Tbilisi, a sud-est espressione obsoleta usata per indicare lo scacco alla regina.
della città, sulla riva sinistra del fiume Mtkvari. È la principale zona di 72
Citazione della poesia Aurora (1892) di Akakij Tsereteli: Cielo
transito verso est. turchese, terra smeraldo, /Mio paese natale [...].
70
Rostov sul Don: città della Russia meridionale. 73
Rus.: supporto, materiale visivo, esempio vivente.
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«Dove?» e mettili sul mio conto... Il ravanello è in via Clara Zetkin, il
«Povero buzzurro!» lo zio Gevork scuoteva la testa con di- pane in via 25 febbraio, sai che a me piace quel loro pane di
sappunto. segale, è buono ed economico, il vino n° 5, dovrebbe essere il
«Dunque, vuoi dire che non saresti il traditore neanche della Saperavi...»
divisione?» «Cos’è che mi hai detto?» Aneta usciva dalla stanza con le
«No!» mani sui fianchi.
«Né del battaglione, né del plotone, né della squadra?» non «Niente, Anetuccia, ti ho detto di prestargli ancora una volta
allentavo la presa. un tuman, dal mio conto» diceva lo zio Gevork con una voce
«Ragazzo, vuoi attaccare briga? Se ho mai tradito qualcuno, sempre più flebile.
è stata la mia Aneta, e solo una volta in vita mia, e per giunta «Imbroglioni e filibustieri che non siete altro, pensate di po-
durante la trasferta, e per giunta a Kutaisi, e per giunta una ter imbrogliare Aneta Giorgobiani? Be’, vi rispondo picche!
ventina di anni fa, con una cameriera. È chiaro?» Ora smammate da qui tutti e due, sennò altro che il n° 5, vi
«Non è chiaro!» m’incaponivo io. darò da bere acqua ragia e stricnina, vi darò, ciarlatani! Lo
«Aneta, prima che faccia qualche stupidaggine e schiacci so bene che vi siete messi d’accordo e mi spillate soldi ogni
come una cimice questo briccone, porta qui fuori due bottiglie domenica. Mi deve già centoventi manet questo bamboccio,
e la borsa di paglia» si rivolgeva alla moglie lo zio Gevork. sul tuo conto.»
«Ha perso di nuovo?» la zia Aneta, dentro la stanza, se la «Sei ingiusta, donna, non te ne vergogni?» si meravigliava
rideva sotto i baffi. lo zio Gevork.
«Ridete, ridete, arriverà anche il mio momento!» li avver- «Allora, perché almeno una volta non vince lui e non ci vai
tivo io. tu a prendere il vino?» chiedeva Aneta con un cipiglio di sfida.
«Dunque, prima che questo momento arrivi, mia cara Aneta, «Ma se è la stessa cosa, Anetuccia! Se dovessi perdere io e
metti le due bottiglie nella borsa di paglia...» dovessi andare a prendere io il vino, dovrei comunque chiedere
«Che siano due o cinque bottiglie, poco importa, tanto, i i soldi a te, non ti pare, tesoro mio?» le spiegava lo zio Gevork.
soldi non ce li ho...» comunicavo allo zio Gevork e facevo per «Mannaggia a chi ha detto di te che eri un armeno, uno
alzarmi. parsimonioso, uno che conosceva il valore dei soldi. Che vin-
«Sieditiii!» mi diceva lui allungando la vocale, e mi posava cita è se devo essere io a dargli i soldi, la bottiglia, preparargli
sulla testa il suo pugno enorme. «Vuoi che mi mettano dentro da mangiare, versargli il vino, e voi lì a tracannare soltanto e
proprio per omicidio?» basta?» diceva la zia Aneta, e nel frattempo posava sul tavolo
«Non ce li ho, abbi pietà. Non sei un uomo? Non hai figli?» un tuman già bell’e pronto, le bottiglie infilate nella borsa di
cercavo di suscitargli compassione. paglia, e ci squadrava come fa il controllore del tram con i
«Se avessi un figlio come te, lo ucciderei tre volte al giorno. passeggeri senza biglietto. Io e lo zio Gevork chinavamo la
Aneta, presta ancora una volta un tuman a questo disgraziato, testa mortificati.
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«Va’, ragazzo, prima che ci ripensi!» mi sussurrava lo zio Gevork qualcosa di carino sul conto dell’Armenia, no? Ma
Gevork. se non avevo idea di cosa dirgli? Cominciavo, comunque, a
balbettare:
Il vino ce lo bevevamo sempre dentro casa. Era incredibile «Zio Gevork, non esiste al mondo un Paese come l’Arme-
anche il fatto che, sebbene non ci fossimo mai messi d’accordo, nia...»
né ci fosse lì qualcuno a tapparci la bocca, appena prendevamo «Che ne puoi sapere tu, birbone, se non hai mai messo piede
in mano i bicchieri pieni di un vino color sangue, il turpiloquio in Armenia...» sorrideva lo zio Gevork.
e la spiritosaggine sparivano all’improvviso da qualche parte, «E allora? In compenso, ne ho letto e sentito parlare parec-
ed erano la mestizia, la contrizione, la sincerità, lo humour, la chio. Solo quello, l’Echmiadzin,74 e poi il fatto che l’umanità ha
fantasia e l’amore a insediarsi al loro posto. fatto i primi passi della sua seconda vita sul monte Ararat...»75
Il primo brindisi, va da sé, era dedicato alla zia Aneta e a Gli umidi occhi blu dello zio Gevork brillavano come due sme-
mia madre. Il successivo, ai genitori, quello successivo anco- raldi. «Per farla breve, sareste un Paese perfetto, se non aveste
ra, alla Georgia, e subito dopo veniva quello dell’Armenia. un difetto...»
Diceva una cosa incredibile, lo zio Gevork, riguardo al nostro «Quale difetto?» mi chiedeva lo zio Gevork con circospezio-
Paese: ne, e posava il bicchiere pieno sul tavolo.
«La vostra Georgia, Mito mio, somiglia a un destriero molto «Non avete il mare, zio Gevork, il mare!» proferivo con tono
bello e di razza, bardato con una sella d’oro. Per vostra di- tragico.
sgrazia, questo destriero è tenuto in un campo così attraente «Quel che è vero, è vero» sospirava lo zio Gevork.
ed esposto da far venire a ogni passante la voglia di saltar- «Ma fa niente, avete comunque il Sevan.76 Che cavolo è, se
gli sulla groppa, tirare le redini e farsi una cavalcata con uno non un mare?» lo rincuoravo io.
schiamazzo da condottiero, a furia di urrà. È così sin dalla sua «Che razza di mare è il Sevan, ragazzo, non ha nemmeno un
nascita. Tuttavia, grazie a Dio, il destriero stesso è così delicato porto» lo zio Gevork faceva un sorriso stentato.
e irritabile da non farsi montare dal primo farabutto che capita. «E voi perché non ci costruite un porto? Lo chiamate Sevan-
Permette solo ai più meritevoli, di tanto in tanto, di montarlo,
e anche loro, se dovessero perdere il senso della misura, ven-
74
Echmiadzin [in armeno: Էջմիածին]: città sacra dell’Armenia, sede
del Catholicos, il capo della Chiesa Apostolica Armena.
gono disarcionati e buttati giù a rotta di collo. Tu sei ancora un 75
Monte Ararat: oggi sul territorio turco, storicamente aveva fatto
bambino e non lo sai, ma io sono stato testimone di molte scene parte dell’Armenia. Secondo il quarto versetto dell’ottavo capitolo del
del genere... È un Paese meraviglioso, questa vostra Georgia, Libro della Genesi (Genesi 8:4), in seguito a un’alluvione, l’Arca di Noè
e lunga vita a essa!» si posò sulle “montagne di Ararat”. La maggior parte degli storici e degli
studiosi della Bibbia concorda sul fatto che “Ararat” sia il nome ebraico
Ora, io che non sono un ingrato, una bestia che bruca l’erba
di Urartu, il predecessore geografico dell’Armenia.
ed è muta, che sono anzi un essere umano e ho il dono della 76
Lago Sevan [in armeno: Սևանա լիճ]: è il più grande lago dell’Armenia
parola, avrei avuto il dovere, dal canto mio, di dire allo zio e uno dei più grandi laghi dʼalta quota al mondo (1898 m).
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stopoli e siete a posto...» mi accorgevo di stare esagerando con sbronzare alla grande» disse lo zio Gevork e, prima che gli
lo zelo. potessi rispondere, fece la sua prima mossa.
«Ehi, birbone, niente spiritosaggini!» mi ammoniva lo zio «Ci sto!» esclamai, e feci in risposta la mia mossa.
Gevork, ridendo di gusto, e predisponeva un nuovo brindisi. «Come stai, ragazzo? Come va la sessione d’esami?» s’in-
formò lo zio Gevork.
Mi stavo preparando per la sessione d’esami, per questo ve- «Mi sto preparando, non è ancora cominciata.»
devo lo zio Gevork di rado. Nell’ultimo mese, vuoi per la mia «Come ti senti, sei pronto?»
negligenza, vuoi per i troppi impegni dello zio Gevork stesso, «Lo conosci il mio motto, zio Gevork, no? Sufficienza e sa-
non saprei dire con certezza, non ci eravamo visti nemmeno lute!»
una volta. A dirla tutta, ero talmente preso dallo studio da non «Fai bene...»
essermi ricordato di lui per tutto quel tempo. «Zio Gevork, perché non annoti le mosse? Hai per caso di-
Un giorno ero a casa a prendere gli appunti di diritto di menticato come si legge e si scrive? E poi, perché hai deciso di
superficie. Mia madre era fuori sul ballatoio che trafficava con ubriacarti con il cognac, il Saperavi non ti fa più nessun effetto
qualcosa e scambiava due chiacchiere con le vicine. D’un tratto o cosa?» provai a passare al tono faceto, ma notai che lo zio
udii la voce dello zio Gevork che la chiamava. Erano le 13.00 Gevork non era dell’umore giusto, era pallido in viso e aveva
circa. A quell’ora sarebbe dovuto essere al lavoro. le labbra bluastre.
«Signora Aniko, Mituša è in casa?» «Non ha senso, figliolo, non ha alcun senso» mi fece un sor-
«Sì, Gevork, sta studiando!» riso forzato. «E quanto al volermi sbronzare con il cognac, è
«Gli dica di scendere da me, appena ha un minuto libero» un’invenzione del diavolo, il cognac, ti fa perdere i sensi, men-
le chiese lo zio Gevork. tre il vino è una bevanda nobile, divina...»
«Scendi giù, ragazzo, mi sa che Gevork ha qualche guaio «Questo è vero. La differenza tra il vino e il cognac è come
serio» la mamma entrò nella mia stanza. quella tra il cielo e la terra» convenni.
«Da cosa l’hai capito?» le domandai. Richiusi il quaderno «Non fare più un simile paragone. Non c’è alcuna differenza
degli appunti e mi alzai. e distanza tra il cielo e la terra, esattamente come non c’è tra
«Non so, mi ha parlato in modo umano e pietoso.» il corpo e l’indumento... il cielo è l’indumento della terra, e
Scesi le scale di corsa ed entrai senza permesso nella stanza quest’indumento è l’universo, la terra è dunque compresa nel
di Gevork. Lo trovai seduto al tavolo, con la scacchiera pronta cielo, cioè nell’universo, e l’universo è Dio. E sai che cos’è Dio?
davanti... la zia Aneta non era in casa. Quell’eternità in cui sono comprese tutte le cose e ogni cosa
«Baro, zio Gevork!» lo salutai con finta spensieratezza. in cui essa stessa è oggettivata. È chiaro?» mi domandò lo zio
«Buongiorno a te, amore di zio, accomodati!» mi rispose sor- Gevork e mi carezzò la testa con una mano.
ridendo. Mi sedetti. «Oggi ti vorrei sfidare con i bianchi, per Trattenni il fiato. Non avevo mai visto né sentito uno zio
un cognac. Che vinca o perda, sarò io a comprarlo. Mi devo Gevork così incomprensibile e così intelligente.
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«Non c’ho capito niente, zio Gevork!» gli dissi sinceramente. «Come?»
«Ora lo capirai!» mi rispose, e mi soffiò un alfiere in men «Così. Se l’universo è stato creato da Dio ed è la sua creatu-
che non si dica. ra, dovrebbe pure cantargli, no? Chi ha mai cresciuto un figlio
«Ridammelo!» lo supplicai. senza una ninna nanna, eh, ragazzo?» sorrise lo zio Gevork.
«Prenditelo, oggi è la giornata della carità!» disse lo zio Ge- «E ora che faccio, Mituccio, te la mangio ’sta stupida regina o
vork e mi ridiede l’alfiere, canticchiando: te la restituisco ancora una volta?»
«Zio Gevork, dimmi la verità: oggi sei stato al lavoro o in
Čičinadze,77 accidenti a te
Per aver voluto lo zahes, chiesa?»
Illuminando ogni anfratto e strada «Perché?» corrugò la fronte.
Persi le labbra della mia ragazza. «Sembri molto saggio e preoccupato» gli dissi.
Lo zio Gevork si accese una sigaretta. La fumò a lungo, se-
Modulava la voce in modo così dolce, piacevole, delicato e guendo con gli occhi le volute di fumo azzurro. Mi rispose
aggraziato da farmi rimanere a bocca aperta. Era la prima volta solo dopo che l’ebbe finita, schiacciando la cicca contro il po-
in assoluto che sentivo lo zio Gevork cantare. sacenere.
«Uau!» esclamai sorpreso. «Oggi mi hanno convocato di nuovo, Mito.»
«Hai apprezzato?» mi chiese, compiaciuto, lo zio Gevork. «Ma dove, zio Gevork?»
«Canti da Dio, zio Gevork! Ma, uomo benedetto, dov’eri «Là» fece un cenno verso l’alto con la testa «per la questione
finora?» della prigionia.»
«Che cosa curiosa che hai detto, che canterei da Dio. Ma chi «Dai, non è ancora finita?» mi amareggiai.
l’ha mai visto Dio cantare?» «A quanto pare, no!»
«Chissà se Dio canta davvero» chiesi a me stesso, benché «Che vuole di preciso quel figlio d’un cane?»
a voce alta, e mi diedi da solo una risposta: «In effetti, a chi è «Mi muove due accuse, o meglio, tre. Uno: come mai sono
che dovrebbe cantare, Dio, se tutto il mondo canta e inneggia caduto prigioniero, due: perché non mi sono tolto la vita, tre:
a Lui?». perché cantavo nel coro...»
«Se Dio canta, canta probabilmente al creato!» disse lo zio «Quale coro?» caddi dalle nuvole.
Gevork. «E che ne so io. Quando tornavamo dalla cava di pietra, stan-
77
Besarion Čičinadze (georg. ბესარიონ ჭიჭინაძე) (1887-1937): in- chi morti, io e un ragazzo russo, Kostja Suvorov, cercavamo di
gegnere georgiano. Negli anni 1919-21 fu il dirigente del Dipartimento distrarre i ragazzi sfiniti: lui suonava la balalajka, e io cantavo:
delle infrastrutture viarie della Georgia. Negli anni 1922-1927 diresse i
lavori della costruzione della stazione idroelettrica di Avčala Superiore Clap - clap, clap - clap
(noto con l’acronimo zahes), sul fiume Mtkvari, a 22 km circa dalla ca- Madama cocorita,
pitale Tbilisi. Fu la prima stazione idroelettrica a elevata potenza mai clap - clap, clap - clap,
costruita in Georgia. Perché un rublo non mi dà?
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Questa qui la cantavamo per i russi, mentre per i georgiani «Ma, Dio benedetto, invece di stare a raccontare a me com’è
quella che t’ho canticchiato poc’anzi. Giuro su Dio, sulle sacre andata, perché non la racconti a lui per filo e per segno?» mi
icone, sulla fede, di non avere mai cantato nulla per i tedeschi, agitai.
anzi, erano loro a cantarci il Suliko.78 E ora quel disonesto non «Come posso raccontargliela, ragazzo, se quando lo guardo
mi dà pace dicendomi che cantavo per forza per i tedeschi, e gli vedo scritto sulla fronte a caratteri cubitali: Входа нет!».79
poi perché sono caduto prigioniero... lo so e non glielo voglio «La prossima volta portami con te!» proruppi sconvolto. Lo
dire, per caso? Dopo che un sergente guercio ci ha scaraventati zio Gevork rise. «Non ridere. Dico sul serio. La prossima volta
dentro un vagone merci a Navtlughi, sbarrando la porta da che ti convoca, portami con te.»
fuori, a distanza di tre giorni furono i tedeschi ad aprirci quella «D’accordo, figliolo, ti porto con me. Ora però rimetti a posto
porta. Ora vallo a spiegare a questo qui come mai sono caduto quel cavallo e quella regina. Sono entrambi tuoi, hai per caso
prigioniero... come mai non mi sono ucciso. E chi è che aveva intenzione di mangiarli entrambi?»
un’arma? E ammesso che ce l’avessi, non è mica così facile uc- «So bene come mangiarli!» dissi senza rifletterci e scombinai
cidersi...» lo zio Gevork si accese un’altra sigaretta. Gli tremava i pezzi.
la mano. «Gli dico: figliolo, quanti anni hai?» Lo zio Gevork, senza scomporsi, con molta calma e tranquil-
«A chi?» lità, sistemò di nuovo i pezzi.
«A quella dannazione del mio inquirente.» «Che è, hai capito che stavi perdendo e li hai scombinati per
«Come fa di cognome?» questo? Gioca, dai, non fare il muso, tanto abbiamo ancora
«Ora te lo dico. Ha un cognome con annesso il nome...» tre giorni pieni...» mi disse lo zio Gevork, fece la sua mossa
«Aleksi-Meskhišvili!» e l’annotò. «Come vedi, sto anche annotando. Dai, gioca, che
«No.» aspetti?»
«Gogisvanidze.» Fu come se lo zio Gevork si fosse d’un tratto rianimato, gli
«Ecco, ora mi ricordo: Gigiberia. Dunque, gli chiedo quanti tornò il colorito, si accese in volto, dalle labbra gli scomparve
anni ha per essere così precipitoso e severo, e lui mi fa: “Non la tinta bluastra, si mise perfino a fare dello spirito.
sono affari tuoi. Ti do tre giorni di tempo e se a queste tre do- «Com’è che è stato quella volta che ti hanno chiesto all’e-
mande non rispondi in modo esauriente, per ciò che succederà same chi avesse tradotto Il Capitale di Marx in georgiano, e tu
te la potrai prendere solo con te stesso”.» hai risposto che era stato Engels... Dai, racconta un po’ com’è
che è andata...»
78
Suliko [georg: სულიკო]: poesia d’amore scritta nel 1895 da Akakij E all’improvviso lo zio Gevork si alzò, si portò la mano sini-
Tsereteli. La sua trasposizione musicale ad opera di Varinka Tsereteli fu stra alla tempia. «Mito, ragazzo mio, credo sia finito tutto...» mi
la canzone preferita di Iosif Stalin e, di conseguenza, divenne celebre in
disse con una voce persa. Dopodiché tornò a sedere, fissò gli
tutta l’Unione Sovietica e nel blocco orientale. Il titolo dell’opera è una
parola georgiana, usata anche come nome proprio, che significa “anima”,
“animuccia”. 79
Rus.: “Vietato l’ingresso!”.
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occhi oltremodo increduli, sbarrati, al cielo, proferì in armeno: disperata, ferendosi le guance, la zia Aneta. Abbracciai per
«Astvats! Inču hamar!», cadde con la testa canuta in avanti sulla prima Neli, poi la zia Aneta, e uscii nel cortile con gli occhi
scacchiera e morì. e la testa gonfi.
Si fecero le tre del pomeriggio. La gente cominciò ad accal-
Le esequie dello zio Gevork si celebrarono il martedì della carsi e nel vano della porta apparve lo zio Gevork sollevato dai
prima settimana di giugno del 1950. parenti così in alto da far pensare che, più che essere portato,
Per mezzogiorno i due sbocchi di via Ninošvili e tutti gli fosse lui da solo a incedere nell’aria.
incroci erano chiusi. Il funerale ebbe iniziò. Al Mercato dei «Non andartene, papino...» l’implorava Neli.
Disertori80 acquistai una moltitudine di rose bianche e con in «Non mi lasciare, Gevork!» lo supplicava la zia Aneta, ma
mano questo enorme mazzo entrai nella piccola camera arden- lo zio Gevork non poteva più fermarsi. Avanzava, avanzava
te occupata tutta a giro dai parenti in lutto. Il mazzo risultava senza sosta.
talmente grande che non mi si vedeva la faccia, per cui i paren- La processione svoltò a sinistra. Una volta superata la clinica
ti all’inizio neanche mi riconobbero, ma appena mi avvicinai per malattie veneree e imboccata la salita di via della Costitu-
alla bara, mi piegai, deposi i fiori ai piedi dello zio Gevork e zione, si udì all’improvviso un prolungato fischio. La proces-
mi raddrizzai, si levò un tale lamento che ebbi dapprima un sione si arrestò.
tuffo al cuore, poi mi commossi e mi misi a frignare come un «Che succede?» chiese sorpreso colui che capeggiava il cor-
bambino a cui hanno dato le botte. teo, il colonnello in pensione Valerian Gabisonia.
«Papino, guarda quanto bene pare ti abbia voluto Mituša, «Dove andate?» chiese, a sua volta, un poliziotto imberbe e,
portandoti tutte queste rose...» disse piangendo Neli. come si seppe in seguito, alle prime armi.
«Vieni, vieni qua, sventurato» Neli aveva passato il testi- «Non avessi riguardo per tutta questa gente ti direi io dov’è
mone del lamento funebre alla zia Aneta. «Vieni qua, affa- che stiamo andando, incosciente, ma comunque... stiamo an-
mato, senza borsa di studio, senza mezzi e perdente che non dando a un matrimonio, noi...».
sei altro, vieni a giocare a scacchi come ai vecchi tempi e dal Il poliziotto alle prime armi si turbò, rendendosi conto di
momento che non ti potrà dire “scacco” allora sì che te ne ac- averla sparata grossa, chiedendo “dove andate” invece di “da
corgerai che il tuo zio Gevork non c’è piùùù... Alzati in piedi, dove venite”, ma non si diede per vinto:
Gevork, e chiedigli dove li ha presi i soldi questo sventurato «Copritela immediatamente!» disse.
per comprare tutte queste rose, so bene che costano tre ma- «Cosa?» Gabisonia perdette le staffe.
net ciascuna al mercatoooo... diglielo, ragazzo, diglielo. Non «Coprite immediatamente la bara con il coperchio!» il poli-
avere timore, racconta tutto a tuo zio Gevoooork...» piangeva ziotto ripeté l’ordine con tono severo, e si portò la mano alla
fondina vuota della rivoltella.
Il nome con cui è noto tra gli abitanti di Tbilisi il mercato agroali-
80 «Copritelo, copritelo, sennò chissà che non gli s’incantino
mentare del quartiere Didube della città. gli occhi alla vista di una vita così bella!» disse qualcuno dei
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partecipanti al corteo. Qualcun altro rise così forte da far girare «Ma tu chi sei?» mi domandò uno dei becchini, quello che
le teste di tutta la processione. avrebbe dovuto portare via le vanghe e il piccone.
«È un attacco isterico, gli passerà!» un terzo cercò di tran- «Uno studente del quarto anno della Facoltà di Economia
quillizzare la gente. e Segretario del Comitato dell’Unione dei Giovani Comunisti,
«Pazienza, oggi è la tua giornata e tienitela stretta, ma doma- Dimitri Darčia figlio di Vladimer» dissi io e sorrisi.
ni ti trascinerò con le mie proprie mani dal colonnello Čelidze e «Non intendevo questo, volevo sapere chi fossi per il de-
ti taglierò le spalline, la lingua e le orecchie tutte in una volta» funto.»
Valerian Gabisonia minacciò il poliziotto, il quale, non so se per Non gli risposi, aprii la bottiglia di cognac e riempii il cic-
paura o per rabbia, sbiancò in viso, girò i tacchi e se ne andò. chetto.
Una volta messo il coperchio sulla bara e sollevatala di nuo- «Sei il figlio?»
vo, la processione si avviò verso il camposanto di Kukia. «No.»
Erano i tempi in cui le corone e le bande musicali comincia- «Un figlio della sorella, del fratello, un figliastro...»
vano a non andare più di moda, per cui in mezzo alla miriade «Non sono nessuno. Sono semplicemente un amico, un suo
di fiori che abbellivano il corteo dello zio Gevork, spiccava debitore...»
un’unica corona, portata da due operai curdi in testa alla pro- «Quanto gli dovevi per stare ancora qui, mentre sua moglie
cessione, e che recava una dedica commovente: «Al caro Ge- e la figlia se ne sono già andate...» s’incuriosì il becchino.
vork Aslamazov figlio di Artavaz, da parte delle donne di via «Ho un grande, impagabile debito con lui. L’ultima volta
Ninošvili». mi ha vinto queste due bottiglie di cognac, ma non ho avuto il
La popolazione rese grandi omaggi a zio Gevork. Da via tempo di sdebitarmi. Mi è morto tra le braccia durante una par-
Ninošvili fino al camposanto di Kukia, la sua salma fu portata tita a scacchi... vorrei sdebitarmi adesso. Tu come ti chiami?»
a braccia. «Io mi chiamo Artaš, lui è Tedo.»
«Allora datemi una mano, da fratelli, a pagare il mio debito»
Presso la tomba rimanemmo in tre, io e i due becchini. gli chiesi.
Quando finimmo di sistemare tutto, uno dei becchini si av- «Certo, ti daremo una mano, ma due bottiglie di cognac sono
volse la fune sul braccio, l’annodò e se la buttò in spalla. I due troppe, ci ubriacheremo. Beviamone una, e l’altra la spargiamo
fecero per andarsene. sul tumulo» disse Tedo.
«Aspettate un altro po’!» gli chiesi e mi sedetti su un terra- «Ma così gli arriva?» chiesi.
pieno vicino al tumulo. I becchini si scambiarono uno sguardo. «Come no, dammi la bottiglia» si prese la bottiglia e la rove-
Dopodiché deposero gli attrezzi e si sedettero a terra davanti sciò sulla tomba. «Come si chiamava il defunto?»
a me, senza parlare. Io tirai fuori dallo zaino mezzo chilo di «Zio Gevork.»
salame, mezzo chilo di pane integrale, due bottiglie di cognac «Zio Gevork, Dio ti abbia in gloria, e questo cognac sia un’of-
e un affusolato cicchetto da vino. ferta all’anima tua, un debito da parte di Dimitri...» il cognac
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si spargeva dalla bottiglia gorgogliando, e la terra smossa di di nuovo il segno della croce e guardò il compagno non meno
recente se ne imbeveva all’istante. sorpreso di lui.
«Visto quanto velocemente gli è arrivata l’offerta?» disse Te- «Allora, cos’è che ha detto?» trattenni il fiato in attesa della
do, sorrise compiaciuto e mi restituì la bottiglia vuota. risposta, e fissai Tedo.
«Ora beviamo anche noi» feci io e sollevai il cicchetto pieno. «Dio, per quale ragione?» mormorò Tedo.
«Poco fa vi ho detto che io dovevo tanto a quest’uomo da non
potermi sdebitare per tutta la vita. Non pensate che si tratti di
soldi...»
«Ma allora cos’è che gli devi?» si meravigliò Tedo.
«È l’amore che gli devo...»
«Mi pare che tu lo stia ripagando...» disse Artaš dopo un
attimo di silenzio. «Magari qualcuno si sdebitasse così anche
con me...»
«A zio Gevork!» dissi in modo conciso e tracannai in fretta.
Poi versai ai becchini.
«Che Dio l’abbia in gloria!» dissero entrambi. Si fecero il
segno della croce e bevvero uno alla volta.
«Artaš» mi rivolsi d’un tratto al becchino, «sia dal nome che
dal volto sembri un armeno. Parli l’armeno?»
«E che armeno sarei se non lo parlassi? Non solo io, anche
Tedo lo parla» mi rispose meravigliato.
«Allora, da fratello, come si dice “Dio” in armeno?»
«Ehi, testa d’asino di un giovane comunista, non vi basta
bestemmiare in georgiano, ora lo volete fare anche in armeno?»
mi chiese Artaš, e fece un sorriso stentato.
«Ma no, figurati. È che quando lo zio Gevork stava mo-
rendo mi è sembrato che dicesse qualcosa a Dio, prima di
spirare...»
«Che cosa ha detto?» s’incuriosì Artaš, e si sollevò sulle gi-
nocchia.
«Astvats! Inču hamar!»
«Ha detto davvero così?» mi chiese sorpreso Artaš, si fece
138 139
Il sangue

[1976]

Il ragazzo dai capelli tagliati corti stava sotto il tiglio con la te-
sta abbassata, puntava uno sguardo triste sui propri piedi nudi
sporchi di fango, teneva in mano un gancio pieno di ghiozzi
infilzati, e pensava: “Quanto somiglia questo vecchietto a mio
padre: capelli bianchi, sopracciglia nere, naso largo, occhi ri-
denti e un po’ malinconici, voce roca. Se chiudo gli occhi e
provo a immaginarmelo, forse diventa proprio come mio pa-
dre...”, e il ragazzo chiuse gli occhi.
«È lui la ragione per cui l’abbiamo chiamata, signor Qišvard.
Non riesco più a tenerlo, che posso farci, si è del tutto inselvati-
chito e uscito di riga. Vede lei stesso che, mentre gli altri tengono
in mano i libri, lui va giorno e notte dietro ai ghiozzi nella par-
te superiore del Kukha.81 Poco tempo fa ha buttato un’anguria
dentro il pozzo che abbiamo in comune con i Gopodze, che si è
spaccata, signore mio, e per questo motivo è da una settimana
che in due famiglie beviamo il kompot82 invece dell’acqua.»
«Qualcuno mi uccida! Ma davvero, ragazzo? Non si preoc-
cupi, signora Julia, appena lo porto con me in Guria, lo appen-
do per gli stinchi su un platano!»
«Non so come intende appenderlo, signor Qišvard, ma so
che sua madre è fortunata a non vedere suo figlio comportarsi
così... sua madre, ma anche suo padre...»
81
Kukha [georg. კუხა]: fiume nel comune di Khoni (regione di Ime-
reti, Georgia occidentale).
82
Kompot [rus. компот]: bevanda dolce non alcolica a base di frutta
bollita immersa nello sciroppo di zucchero, originaria delle regioni
nordiche della Russia, diffusa in tutta l’Europa dell’Est.
141
«Che ne pensa, signora Julia, è già troppo tardi per rimettere potrò mai avere la meglio su di lui, e, in più, ho già due belve
in riga questo disgraziato?» simili e anche peggiori di cui occuparmi – Zurab e Vakhtang, i
«Che ci puoi fare con uno così, signor Qišvard: una settima- figli del mio Kolja. Potrà vedere con i propri occhi, ché fra poco
na fa gli ho dato un pud di granturco da portare a macinare al tornano dal pascolo...»
mulino dei Kopadze, ed è tornato indietro con sole due ocche.83 «I suoi genitori, finché erano vivi, non mi hanno fatto avvi-
Il resto pare lo abbia dato a un certo Valiko Kukhalašvili di cinare al bambino, signora Julia, e ora come faccio a scaldargli
Kuntauti, per i suoi bambini infermicci, il nostro novello bri- il cuore, a conquistare la sua fiducia, a farlo diventare uno di
gante Arsena:84 “Hanno fame quelli,” mi fa, “sono numerosi”.» famiglia, sono un estraneo per lui, del tutto estraneo...»
«Qualcuno mi uccida! Ma davvero, ragazzo?» «Non ne sarei così convinto, signor Qišvard, è un maschio e
«Questo è niente! Due giorni fa lui e quello straccione suo preferisce stare con un maschio. Per non parlare del fatto che
pari di Kukuri Ugulava hanno rubato le pesche al loro inse- sarà lui a portare avanti il suo cognome...»
gnante di geografia, Datiko Tsverava, e a quanto pare le han- «Almeno studia un po’, signora Julia?»
no barattate per del tabacco con un tale Lave Bakhtadze di «Ma per carità, che deve studiare uno che ruba le pesche al
Matkhoji.» proprio insegnante e vende i cucchiai d’argento della propria
«Ma davvero, ragazzo?» nonna per comprarsi un libro amorale e depravato com il De-
«Ma signor Qišvard, cos’è questa storia che ripete sempre cameron? Me lo dica lei, signor Qišvard!»
“Ma davvero, ragazzo”, “Ma davvero, ragazzo”? Che fa, non «Ma davvero, ragazzo? Me lo porto in Guria, signora Julia,
crede a me che sono una donna di una certa età?» e lo appendo per gli stinchi su un platano, vedrà!»
«Non mi permetterei mai, signora Julia. Mi chiedevo solo se «È qui davanti a lei, signore, lo può ben vedere: noi parlia-
si potesse rimediare...». mo, parliamo, e lui non batte ciglio, le nostre parole gli arriva-
«Nulla di irrimediabile, signor Qišvard. Ha solo bisogno no come un rumore di sottofondo.»
della mano di un uomo. Io, che sono una donna debole, non Il ragazzo continuava a stare sotto il tiglio, tenendo gli occhi
chiusi, e pensava: “Si è stancata, la povera nonna Julia. Che voce
83
Occa (okka, oka) [georg.ოყა]: unità di misura di massa usata dolce che aveva prima e adesso come le si è inasprita, non me
nell’impero ottomano, equivalente a 400 dirham (dramme ottomani). Nel n’ero accorto finora. O forse mi suona così solo in confronto alla
tardo impero il suo valore era stato standardizzato a 1,2829 chilogrammi.
voce calma e tranquilla del nonno. Si è stancata, probabilmente,
84
Arsena Odzelašvili (Arsena di Marabda, il brigante Arsena) [georg.
არსენა ოძელაშვილი] (1797-1842): fuorilegge georgiano, dalla fama ma ora speriamo non mi faccia andare con questo vecchietto
popolare simile a quella di Robin Hood, di uno che “toglieva ai ricchi e che a quanto pare è mio nonno e che somiglia così tanto a mio
dava ai poveri”, e dall’aura di chi combatteva contro le ingiustizie del padre, e non farò nulla che possa dispiacerle, solo non mi faccia
sistema zarista. Secondo la leggenda, fu ucciso in uno scontro a fuoco
andare con lui... non mi faccia andare... non mi faccia andare...”.
con una squadra di cosacchi. Protagonista di numerosi canti epici, nel
1923 il regista sovietico Vladimir Barskij gli dedicò un film muto, Il bri- «È un orfano, signora Julia, ’sto ragazzo, e oltre che delle
gante Arsena. scudisciate ha bisogno anche di un po’ di carezze...»
142 143
«C’è orfano e orfano, signor Qišvard. Che ci posso fare io, se «Lo appenda con quel che le pare, signor Qišvard. Basta che
non mi dà la possibilità di accarezzarlo?» me lo toglie di torno.»
«Ma davvero, ragazzo? Non le dà dunque la possibilità, ve- «Gli stinchi, è per gli stinchi che l’appendo, signora Julia!»
dremo quando l’appendo per gli stinchi su un platano, una «Che Dio l’ascolti e aiuti il ragazzo.»
volta che saremo in Guria. Quando me lo posso portare, si- «Se non l’aiuta, vedrà, lo scuoio vivo, da far piangere i sassi!»
gnora Julia?» «Arrivederci, signor Qišvard!»
«È qui a sua disposizione, signor Qišvard, se lo porti quando «Stia bene, signora Julia!»
vuole, mica gli ci vorranno chissà quali preparativi!»
«Come posso portarmelo così, nudo come un bruco, signora Questo atto di consegna-ricezione ebbe luogo nel mese di
Julia?» agosto del 1938 nella cittadina di Khoni, a mezzogiorno, tra la
«Era proprio così, nudo come un bruco, quando l’ho portato nonna materna originaria di Imereti, signora Julia Mikeladze,
qui da Avčala, signor Qišvard, e come vuole che gli procuri ora e il nonno paterno originario di Guria, Qišvard Lomjaria, di
abiti ricamati in argento?» Nodar Lomjaria. E un’ora dopo, il ragazzo, ovvero Nodar
«Povero figliolo!» Lomjaria, nato il 14 luglio del 1928 a Tbilisi, in una famiglia di
«Perché non mangia un boccone prima di ripartire, signor impiegati statali, seguiva come un vitellino tirato per la cor-
Qišvard?» da, sventolando le orecchie, il nonno scoraggiato e dalla testa
«Non si preoccupi, signora Julia, mangeremo qualcosa a china, lungo le strade di Khoni impolverate e arroventate dal
Samtredia, e lì siamo a due tiri di schioppo da casa nostra.» calore del sole.
«Allora la Vergine vi faccia fare buon viaggio e San Giorgio Da Khoni fino a Kulaši nonno e nipote viaggiarono a bordo
vi protegga.» di una carrozza a due posti, mentre, da Kulaši a Samtredia,
«Dio l’aiuti, signora Julia!» su una carrozza aperta a più posti. Non mangiarono nulla a
«Ecco, tenga anche questi, signor Qišvard!» Samtredia. Montarono su un autocarro della fabbrica del tè
«E questi che cosa sono, signora Julia?» diretto a Čokhatauri, e da lì s’incamminarono a piedi per la
«Sono i documenti del ragazzo, signor Qišvard. A settembre lo strada che portava a Intabueti.
manderete a scuola, immagino, e gli serviranno. C’è scritto den- Il nonno andava avanti, il nipote – dietro. Il nonno era mala-
tro che dovrà andare in quarta. Hanno fatto un piccolo errore, è to e gemeva in modo sommesso. Quando adocchiava un viag-
vero, e invece di Lomjaria Nodar hanno scritto Lomjaria Nadir,85 giatore che si avvicinava, smetteva di gemere, lo salutava con
ma, se lo vuole proprio sapere, il suo vero nome è quello.» un inchino, gli dava il tempo di passare, e, appena si ritrovava
«Ma davvero, ragazzo? Vedrà quando saremo in Guria e lo la strada di nuovo libera, riprendeva a gemere. Evidentemente,
appenderò per gli stinchi su un platano.» nel farlo provava qualche sollievo. Di tanto in tanto si voltava
a guardare il ragazzo, come è solito fare un cavallo anziano e
85
Georg. ნადირ: [ნადირი (nadir, nadiri): belva]. macilento che si gira speranzoso verso il puledro – frutto del
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suo ultimo parto – rimasto indietro, per accertarsi che lo stia la a un ometto come te. Oppure hai qualche pensiero e non me
seguendo, dopodiché il vecchio riprendeva il cammino gemen- lo vuoi dire?» gli chiese il nonno.
do. Tutto qui. Per il resto, per l’intero percorso, non si scambia- «No, nonno, non penso a nulla» mentì il ragazzo. Il nonno
rono una sola parola. Il ragazzo seguiva il vecchio e pensava: risprofondò nei suoi pensieri.
“Quest’uomo che ora mi precede, con il cappello di feltro «Eppure dovresti ormai abituarti a pensare, amore di nonno,
marrone calcato in testa, sciancato e gemente, che promette di è ora!» disse il vecchio, si alzò e si rimise in cammino, gemendo
appendermi per gli stinchi su un platano e di scuoiarmi vivo sommessamente, alla volta del villaggio. Il ragazzo lo seguì
una volta giunti a casa, è il padre di mio padre, e mio nonno. come un vitello tirato per un lunga corda avvoltagli attorno
È una qualche forza sconosciuta a spingermi e a spronarmi a al collo.
seguirlo così, da schiavo sottomesso, altrimenti chi mi impe-
direbbe di deviare il passo, su una strada aperta da tutti i lati. Il ragazzo dai capelli arruffati, viso abbronzato, stava sotto
Tuttavia una qualche forza non me lo permette, mi trattiene, il platano appoggiato sul manico della zappa come un uomo
mi fa correre, accaldato come sono, con le dita dei piedi che che ha faticato tutto il giorno, puntando uno sguardo triste sui
sporgono dalle scarpe e i talloni scorticati per il troppo cam- propri piedi nudi sporchi di fango, e pensava:
mino, dietro a questo vecchietto. Rifiutato dalla nonna, senza “Come sembra invecchiata in un anno, com’è smagrita e ha
neanche aver salutato i cugini, chi me lo fa fare? Che forza è perso anche la voce, come si è curvata, il viso le si è coperto
mai questa? Qual è il suo nome?” di rughe, e come somiglia comunque a mia madre – la voce, i
Questi erano i pensieri del ragazzo lungo la strada di Inta- capelli, il modo di camminare – alla donna giovane, bella come
bueti, e questi pensieri gli stavano facendo scoppiare la testa. una figura delle icone, dai capelli setosi, occhi color miele, dalla
«A cosa pensi, amore di nonno?» il vecchio all’improvviso voce dolce come un trillo e dal sorriso candido che era mia ma-
si rivolse al nipote. dre... Se ora chiudo gli occhi e provo a immaginarmela, forse
«A nulla!» rispose in fretta il ragazzo, turbato, poiché si sa- questa vecchia diventa del tutto come mia madre... ” pensò il
rebbe aspettato qualsiasi domanda, tranne quella. ragazzo, ma non lo fece. Provò paura.
Il vecchio si fermò a sedere su un costone, sul ciglio della «Signor Qišvard, non mi ha dato pace né nella veglia né nel
strada. Dopo che ebbe tirato un po’ il fiato e gemuto abba- sonno l’ombra della buonanima di mia figlia. Né sono riuscita
stanza, guardò il ragazzo seduto su una pietra non discosto a sfuggire al mio cuore e alla mia coscienza. Non va avanti,
da lui. Lo squadrò per un po’, poi si mise a contare sulle dita, senza di lui, la mia vita. Dal giorno in cui se l’è portato qui, il
piegandole una alla volta, a partire dal 28: 28, 29, 30, 31, 32, 33, mio cuore non ha trovato un attimo di pace. Me lo ridia indie-
34, 35, 36, 37, 38. Si fermò, dunque, al 38, dopodiché attaccò a tro, signor Qišvard, il mio bambino...»
contare sulle dita già piegate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11. «Bambino, signora Julia, lo era quando me lo sono portato
«Sei nato nel ’28 tu, amore di nonno. Ora siamo nel ’38, dun- via da lei. Ora è un uomo, ed è qui davanti a lei. Se vorrà ve-
que sei nell’undicesimo anno. Non sta bene non pensare a nul- nire, io non potrò certo trattenerlo.»
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«È offeso con me, signor Qišvard, solo un uomo persuasi- «Gli servono le cure materne, bisogna che qualcuno gliele
vo e saggio come lei può rendere di nuovo benevolo il suo lavi, gliele stiri le cose, che l’aiuti a lavarsi, a sfregarsi la schie-
cuore.» na, a pettinarsi... Lei non può prendere il posto di sua madre,
«Lei a casa ne ha due, i figli di Kolja, signora Julia, e a me signor Qišvard!»
non vuole lasciare neanche questo solo e unico?» «Non mi è risultato difficile prendermi cura di lui, signora
«I numeri e le conte non funzionano quando si tratta di nipo- Julia. Infatti non mi pare di averla chiamata, né di averle chie-
ti, signor Qišvard, a quanto pare. Averne cento è come averne sto aiuto!»
uno soltanto.» «Ha ragione, ma ha comunque bisogno di qualcuno che gli
«Ha ragione, signora Julia, i numeri non si addicono ai ni- tenga i piedi al calduccio prima di andare a dormire, che gli
poti, ma che ci posso fare se dopo la mia morte il novero dei stia dietro a scuola...»
Lomjaria dovrà cominciare da lui?» «La scuola di qui non ha niente da rimproverargli, signora
«Non voglio mica cambiargli il cognome, signor Qišvard. Julia, mentre la vostra scuola gli ha dato il certificato di “belva”
Anzi, se vuole, do il suo cognome anche a quei due. Basta che e ha confermato anche lei che fosse quello il suo vero nome,
ora me lo lascia portare con me.» ma non si è rivelata la verità...»
«Una che mi toglie il mio, signora Julia, potrà mai darmi il «Se Dio esistesse, signor Qišvard, mi si sarebbe dovuta pa-
suo?» ralizzare la lingua per aver detto una cosa simile!»
«Non mi faccia andare all’altro mondo con questo peso sulla «Ora, non è che pensa, signora Julia, che, stando con me, il
coscienza, signor Qišvard. Con che faccia mi presento a sua ragazzo sia diventato un angelo? O che abbia smesso di rubare
madre nell’aldilà?» le pesche?»
«Io e lei siamo in prima fila, signora Julia, nessuno sa chi ta- «Che secchi l’albero il cui frutto qualcuno glielo dovesse le-
glierà il filo del traguardo, e, se dovessi farlo io, con che faccia sinare!»
mi presento io a sua madre o a suo padre?» «Non ha nemmeno smesso di dare via il granturco, stando
«Che non giunga mai alle mie orecchie una simile notizia, con me...»
signor Qišvard!» «È suo ciò che mi appartiene, signor Qišvard, e se dovesse
«È lui il mio campo, la mia macina e il mio mulino, il mio dare fuoco a tutto, nessuno avrà da ridire.»
vigneto, il mio bastone, la mia tomba e anche la pietra tombale. «Né ha smesso di fumare tabacco, signora Julia.»
Non glielo posso cedere, signora Julia, e mi uccida, se vuole!» «Ma davvero, ragazzo?»
«Sarò io a uccidermi qui, davanti a lei, signor Qišvard...» «Non c’è bisogno di chiedere a lui, basta chiederlo a me ché
«Ma non lo dica neanche per scherzo, signora Julia. Ragazzo, mi ha svuotato sia le tasche che la tabacchiera...»
ci vuoi andare?» «Pazienza, signor Qišvard. Non ha detto lei stesso che è un
«È solo per rispetto a lei, signor Qišvard, che...» uomo ormai?!»
«Ma davvero, ragazzo?» «Mi dia un mese, signora Julia. Dovrei prendere un premio
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di produzione per la seta, mi darò da fare, non posso mica farlo sbalestrava dalla parte del nonno, come se qualcuno lo stesse
venire così, nudo come un bruco?» strattonando, gli bruciava le viscere e gli trapassava entrambe
«Basta che me lo lascia portare via adesso, signor Qišvard, e le scapole, da destra a sinistra, come un’asta di ferro incande-
sono disposta a togliermeli io i vestiti e a darli a lui.» scente. Era una sensazione sconvolgente, inesprimibile con le
«Certo, gli staranno proprio a pennello, i suoi vestiti.» parole, che lasciava ammutoliti, annichiliti. E il ragazzo l’av-
«Beato lei che è in vena di spiritosaggini. Sono io quella di- vertiva ora attraverso le palpitazioni, ora per il nodo alla gola,
sgraziata e amareggiata!» ora attraverso il sudore freddo, ma anche per la vampata di
«Gliel’ho già detto, signora Julia, che non è più un bambino calore, per il sussulto e per il dolore, senza tuttavia riuscire a
e, se vuole venire, io di certo non lo trattengo.» trovargli un nome.
«Pende dalle sue labbra, signor Qišvard, ogni sua parola per La donna si alzò, andò dal ragazzo e se lo strinse al petto.
lui è un comandamento uscito dalla bocca del Redentore, e solo «Amore di nonna tu, mio sole e mia luce, vita mia e piantina
se glielo dicesse lei...» della mia Aniko. Vieni con me, tesoro di nonna, e regalami altri
«Non ha pietà, signora Julia? Come posso dire a mio nipote: due giorni di vita!» piangeva la vecchia, e le sue lacrime calde
“Esci fuori dal mio cortile e vai appresso a qualcun altro?”.» si versavano copiose sulla testa del ragazzo.
«Io non sono qualcun altro, signor Qišvard. Sono anch’io Quando ne ebbe abbastanza di piangere, tirò a sé il nipote
sangue del suo sangue. Mi rimane sì e no un anno di vita e con delicatezza, ma lui rimase fermo come un palo nocchieru-
non me l’accorci di più, mi faccia la grazia di questo bambino, to, come una trave di ferro, come un tronco d’albero conficcato
glielo chiedo in ginocchio...» a fondo nella terra.
«Non è il caso, signora Julia...» «Va’, amore di nonno, va’, figliolo, segui la tua vecchia non-
«Vi bacio le ginocchia...» na, e quando si sarà saziata del tuo affetto, allora torna, e nel
«Si alzi, signora Julia, non mi faccia questo...» frattempo starai mancando pure a me, e così via... Che ti pare-
«Dio, benedici questo sant’uomo...» va? Ti pareva così facile essere nipoti? È arduo, amore di non-
«Non auguro al suo peggior nemico l’essere benedetto come no, fare il nipote, soprattutto di vecchietti allocchiti come me
lo sarò io d’ora in avanti...» e tua nonna. Va’ con lei, figliolo. La tua roncola, il tuo torchio,
«Santa Maria, madre di Dio...» la tua accetta, la zappa, la gerla, la mucca, la capra e il maiale
«Va’, amore di nonno!» non andranno da nessuna parte. Sappi che ti aspetteranno...»
Questa conversazione ebbe luogo a un anno esatto dalla vi- Il ragazzo rimaneva impalato, e si meravigliava di come il
cenda narrata sopra, tra il nonno di Guria e la nonna di Ime- nonno riuscisse a indicare con la mano ognuno di questi ogget-
reti. Non si trattava più di un atto di consegna e ricezione, ma ti o animali senza nemmeno guardare: la roncola era buttata in
del gemito di due cuori, di un braccio di ferro tra due sangui un angolo del cortile, l’accetta in un altro, la gerla in un terzo, il
diversi che ribollivano a causa del ragazzo. Questa forza invi- canestro in un quarto, la mucca era legata a un capo del cortile,
sibile a momenti lo sbilanciava dalla parte della nonna, poi lo la capra a un altro, il vitello a un altro ancora, e il maiale pure.
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«Ecco il tuo zaino, ecco i tuoi libri: il georgiano, la storia, e Era seduto accanto al camino, Qišvard Lomjaria, in attesa
abbiamo qualcos’altro io e te? Nient’altro. Le tue scarpe e la che si scaldasse l’acqua dentro un piccolo calderone di rame
camicia sono qui, i pantaloni ce li hai addosso. Fino a Samtre- messo sul fuoco. Fissava le fiamme, e rimuginava: “Che pen-
dia cammina a piedi nudi, sennò ti si staccheranno le suole alle sieri infiniti che ti fa venire, il benedetto”. Pensava, e al contem-
scarpe, mettitele in spalla, ecco, così... mi raccomando, allora...» po cercava di sfuggire in qualche modo ai propri pensieri, ma
Qišvard Lomjaria si rese allora conto che suo nipote in quel quando mai un uomo è riuscito a sfuggire ai propri pensieri?
momento era un palo nocchieruto, una trave di ferro, un albe- Non è mica Dio, l’uomo. “Non avrei dovuto lasciare andare
ro, un alburno, conficcato nel terreno così in profondità da non quel ragazzo, è che non ho resistito alla vista dello stato pieto-
poterlo strappare, sradicare, con le tenerezze, era necessario so di quella donna, ma ora mi trovo io stesso nelle condizioni
qualcosa di più decisivo affinché il ragazzo si smuovesse, ma di quella donna. Tra una settimana prendo e vado da lei, mi
che cosa? getto alle sue ginocchia e l’imploro di ridarmi il mio ragaz-
Qišvard Lomjaria capì anche che suo nipote si trovava ora zo, e se non ci sta, allora prendo e le dico di punto in bianco:
all’interno di un cerchio, e che due sangui forti lo tiravano da «Ridammi, donna, il sangue del mio sangue. Nessuno ha il
una parte e dall’altra, e che avrebbe avuto la meglio il più for- diritto, tranne Dio, di togliermelo». A quel punto lei mi dirà
te dei due. Ma qual era quello più forte? E prima che in ciò si la stessa cosa e io, dato che non sono Dio ma un uomo, come
districasse il sangue stesso, uno dei due – o lui, o la nonna del potrò mai strapparle via il nipote che è suo quanto mio? Se
ragazzo – avrebbe dovuto chiudere, recidere la vena di uno dei fossi Dio, ecco, allora... è arduo essere un uomo, molto arduo,
sangui ribelli, e fu Qišvard Lomjaria, ancora una volta, a farlo, molto più arduo che essere Dio. Grazie a Dio, di questo se ne
prima della nonna del ragazzo. convinse Gesù Cristo, il nostro Redentore stesso... È arduo ve-
«Va’, ragazzo, ne ho abbastanza delle ciance con te!» nire al mondo da uomo che deve tornare terra, molto arduo...
Il nipote lanciò uno sguardo sconvolto al nonno. “Tra una settimana esatta mi alzo, mi metto in cammino e mi
«Va’, e non voltarti indietro!» il vecchio girò i tacchi ed entrò getto alle ginocchia di quella donna. Ma come posso resistere
in casa. ancora una settimana? Me ne vado dopodomani, o meglio, do-
Il ragazzo si arrabbiò con il nonno tanto in fretta quanto in mani, mi alzo domattina presto e... Dio, fa’ che stanotte faccia
fretta provò pietà per la nonna. Gli occhi gli si riempirono di giorno presto...”.
lacrime, il mento cominciò a tremargli, abbassò la testa, e, come Era seduto accanto al camino, Qišvard Lomjaria, in attesa
un vitello tirato per una lunga corda avvoltagli al collo, andò che si scaldasse l’acqua messa sul fuoco, e gli frullavano questi
dietro alla nonna che procedeva curva, fasciata di gramaglie, pensieri, quando si aprì la porta ed entrò nella stanza il ragazzo
pietosamente consunta ed emaciata, ridotta a un pugno, per con le scarpe appese alla spalla, scalzo, la testa bassa.
le strade di Čokhatauri impolverate e arroventate dal calore «Sia benedetta la tua giustizia, Dio!»
del sole. «Sono tornato!» disse il ragazzo.
«Sapevo che saresti tornato» rispose il vecchio. Dopodiché
152 153
Qišvard Lomjaria tolse l’acqua dal fuoco e gli mise al calduccio Hellados
i piedi stanchi, al nipote, con le sue proprie mani. Gli preparò
il letto sull’ottomana e lui andò a dormire nella stanza piccola. [1978]
A notte fonda il nonno udì la voce del nipote:
«Posso dormire con te, nonno?»
«Vieni, amore di nonno!» gli rispose il vecchio e si scostò «Gemal, Violinuccio!»
verso il muro. Il nipote si avvicinò, scivolò dentro il letto e si «Janguli, moccioso!»
appiccicò alla schiena del nonno girato verso il muro. «Gemal, cafone!»
“Che freddo che è, il povero nonno” pensò il nipote. «Janguli, avido greco!»
“Che caldo che è, il birbone” pensò il nonno. «Gemal, caccoloso!»
Dopo un po’ il vecchio chiese al ragazzo: «Bullo dei marmocchi!»
«Sai, amore di nonno, cos’è che ti ha fatto tornare?» «Testa d’asino!»
«No!» rispose il ragazzo. «Pastore d’asino!»
«Te lo dico io: è opera di quel miracolo, amore di nonno, che «Femminuccia!»
è il sangue.» «Teppista!»
Oltre a queste parole, quella notte, nonno e nipote non si «Minchione di Tbilisi!»
dissero altro. Nessuno dei due pensava a qualcosa, e nessuno «Fanculo tu e tua madre, Janguli!»
dei due parlava. «I mana su ine prostiti ghineka, Gemal!»
Nonno e nipote dormivano cullati da un sonno sereno.
Solo il sangue parlava, e pensava, e di cosa parlasse e a cosa Janguli era il figlio di Christo Aleksandrid, un greco di
pensasse, solo Dio lo sapeva! Sokhumi.86 Secco come un fuscello e dal petto largo, aveva
un bel naso dritto, gli occhi nero carbone e le braccia lunghe
come quelle di una scimmia. Stando in piedi, gli arrivavano
fino alle ginocchia, quelle enormi zampe. Aveva quattordici
anni, e ai ragazzi del quartiere, suoi coetanei, incuteva gran
terrore. Sapeva menare le mani che era una meraviglia! Po-
teva prendere a cazzotti due o tre avversari contemporane-
amente senza fargli muovere un dito. Agile come un felino,
duro come la selce, e in buona salute, andava in giro, fosse

86
Sokhumi (Sukhumi) [georg. სოხუმი]: la maggiore città dell’Abkha-
zia (Georgia nord-occidentale), affacciata sul Mar Nero.
154 155
estate o inverno, con addosso una camicia di raso nera, aperta lino, non voglio che senta troppo la mancanza della madre
sul petto. e il peso dell’essere un orfano. Mi aiuti, mi chieda pure il
Viveva nella contrada Venezia, sulla riva del fiume Čalbaš, doppio di quello che chiede agli altri, basta che l’accetti come
assieme al padre. Sua madre era mancata quando lui era tal- allievo.»
mente piccolo da non ricordarla del tutto. Possedevano un ap- La Navrodskaja prima volle testare il mio orecchio, poi la
pezzamento di terreno con un minuscolo orto, una mucca e un mia conoscenza delle note, mi esaminò poi le dita, con la mano
puledro di asino grigio. Vendevano latte, matsoni87 ed erbaggi mi tastò il callo sotto il mento, titubò per un po’, dopodiché
nel vicinato e al mercato di Sokhumi. Janguli non frequentava andò in un’altra stanza. Tornò portando con sé un violino, lo
la scuola, dava una mano al padre nei lavori agricoli e di tanto scordò smanettando i piroli, e mi disse di accordarlo. La zia
in tanto andava in giro a vendere con l’asinello. Passava il resto mi guardava con apprensione, e, quando l’ebbi accordato, tirò
del tempo ciondolando per la strada. Era solito piantonare il un sospiro di sollievo.
passaggio a livello della ferrovia, e si divertiva a rovistare nelle «Allora, adesso prova a suonare La marmotta di Beethoven!»
tasche dei ragazzi all’uscita della scuola, e, con il loro consenso mi disse Elena Mikhailovna, poi sprofondò nella poltrona, e si
o con la forza, gli prendeva tabacco, spiccioli, oggetti lucci- dispose all’ascolto. All’udire il nome di Beethoven, a mia zia
canti, catene, matite colorate, penne. L’indomani, questi stessi venne un colpo.
oggetti, li vendeva a prezzi ragionevoli a quegli stessi ragazzi, «Gentilissima Elena Mikhailovna, non è che potrebbe fargli
dopodiché giocava con loro scommettendo sui loro soldi, glieli eseguire qualche altro compositore, magari minore?» chiese
vinceva, e tornava a casa con le tasche piene. alla Navrodskaja, e con un fazzoletto si asciugò la fronte ma-
Ogni giorno questa storia. dida di sudore.
Questo dittatore di quattordici anni aveva reso tutti i ragazzi «Come, non sa suonare La marmotta?» domandò a mia zia la
della contrada Venezia suoi schiavi obbedienti. Tra questi c’era Navrdoskaja, tutta sorpresa, e inarcò le sopracciglia.
anche mio cugino Koka. Io mi resi conto che era giunto il momento, tanto agognato
Era il bullo del quartiere, Janguli. nella mia vita, in cui avrei potuto liberarmi una volta per tutte
La nostra conoscenza ebbe inizio nell’autunno del 1938. Ap- dal giogo della musica, impostomi da mia madre all’età di sei
pena arrivato da Tbilisi, per non farmi sentire troppo il peso anni e sotto il peso del quale ero stato istruito senza pietà. Sa-
dell’essere orfano, mia zia Nina l’indomani stesso mi condusse rebbe bastato, in quel preciso istante, proferire la parolina ma-
da Elena Mikhailovna Navrodskaja, un’insegnante di musica gica – il “no”, e sarebbe finito tutto. Tuttavia, non so se fu per
rinomata in tutta Sokhumi, e le si gettò alle ginocchia: il volto tormentato della zia, o per lo sguardo incredulo della
«È rimasto orfano, sua madre gli faceva fare lezioni di vio- Navrodskaja, o per l’orgoglio smisurato di un ragazzino di
tredici anni, oppure per qualche altra forza a me sconosciuta,
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Matsoni (matzoon) [georg. მაწონი]: tipo di yogurt originario del
Caucaso, che fa parte della dieta quotidiana dei popoli di tutta la regione, fatto sta che presi in mano l’archetto e la stanza fu d’un tratto
soprattutto dei georgiani e degli armeni. inondata dalla semplice e geniale melodia della Marmotta.
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Quando ebbi finito di suonare, notai che la zia aveva gli Mi voltai di nuovo indietro. Janguli stava pulendo le noci, e
occhi pieni di lacrime, mentre sul volto della Navrodskaja si mi rideva in faccia con aria di sfida.
era disteso un sorriso soddisfatto... Ed Elena Mikhailovna Na-
vrodskaja mi accettò. Per andare alla scuola n° 13, alla quale mi aveva iscritto la
Al ritorno a casa, all’avvicinarci al passaggio a livello, c’im- zia, dovevo attraversare la ferrovia, per cui l’incontro giorna-
battemmo in Janguli seduto alla turca sull’acciottolato. Rom- liero tra me e Janguli divenne pressocché inevitabile.
peva le noci con un pezzo di mattone. Per circa un mese non mi degnò di attenzione. Stava in mez-
«Buongiorno, Nina Ivanovna!» salutò mia zia, appena gli zo ai ragazzi del quartiere e giocava come sempre agli aliossi
passammo accanto. o a qualche altro gioco di gruppo.
«Buongiorno a te!» tagliò corto la zia. C’è da notare però che, appena mi adocchiava, per pavoneg-
«E Koka dov’è?» le chiese Janguli. giarsi calcava subito il cappello sugli occhi o tirava un calcio
«Non è mica uno scansafatiche come te, Koka. È a scuola!» a qualcuno dei ragazzi, e mi lanciava uno sguardo obliquo.
rispose la zia. Io, dal canto mio, nel passargli accanto, facevo mostra di non
«E questo qui chi è?» essere minimamente interessato a lui e al suo gregge. Anche
«Non t’interessa!» gli disse la zia Nina, e mi spinse avanti. se non vedevo l’ora di unirmi a loro, dandogli prova della
Janguli fece un fischio prolungato. Noi proseguimmo per la mia forza e destrezza, ma per ora nel quartiere ero ancora un
nostra strada. estraneo, sprovvisto di compagni, amici e gregari. Non avevo
«Ehi, Violinuccio!» mi giunse d’un tratto da dietro. Mi voltai nessuno che mi spalleggiasse, tranne il mio cuginetto Koka,
sorpreso. perciò non osavo avvicinarmi. Di una cosa avevo un chiaro
Janguli stava strizzando un occhio, torceva il collo, aveva sentore, però: il nostro rapporto stava bruciando pian piano
tirato fuori la lingua, e muoveva il braccio destro contro il sini- come la miccia di una dinamite, andava rimpicciolendosi, av-
stro a mo’ di seghetto. Capii che si beffava di me che suonavo vicinandosi sempre di più al pistone, e un bel giorno sarebbe
il violino. Sentii il sangue montarmi alla testa per la rabbia. esploso.
«Scimmione!» gli gridai, e agitai il pugno. E a distanza di un mese esatto, giunse anche quel giorno.
«Passa da me domani, ché ho della legna da segare» mi ri- Elena Mikhailovna era impegnata con un allievo. Io sedevo
spose ridendo. nella sala d’attesa, aspettando il mio turno.
«Sei il solito teppista, eh?» mia zia scosse la testa con disap- Sopra un tavolo rotondo c’era un acquario e, all’interno, in
punto. mezzo alle alghe, alle graziose conchiglie e pietre, guizzavano
«Ma chi è?» le chiesi. dei pesciolini dorati dalle pinne dischiuse a ventaglio, spalan-
«È un ragazzo greco, Janguli. Suo padre porta da noi il latte. cando le bocche in modo buffo, emettendo bollicine d’aria. Per
Non ti voglio vedere in sua compagnia, è un teppista, bighel- qualche ragione mi sembrò che i pesciolini fossero terribilmen-
lona giorno e notte per strada.» te affamati; per questo diguazzavano così. Tirai subito fuori
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dalla tasca un panino di pane di segale e formaggio avvolto in vo impalato. «Entra, entra!» ripeté, posandomi la mano sulla
una pagina di giornale, lo sminuzzai e lo buttai nell’acquario. spalla e dandomi una leggera spinta verso la stanza. Io non mi
La superficie dell’acqua si cosparse di briciole di pane e di mossi dal posto. «Non ti sei preparato per oggi?» mi doman-
formaggio. I pesciolini all’inizio si allarmarono, nascondendosi dò Elena Mikhailovna con severità e, dato che continuavo a
dietro le pietre e le conchiglie, ma in seguito, come se avessero non reagire, seguì meravigliata la traiettoria del mio sguardo
intuito la mia buona intenzione, si riversarono fuori dai na- incantato... e successe ciò che possono comprendere solo gli
scondigli e si gettarono come impazziti sul cibo. ittiofili: come se le avessero falciato le gambe, Elena Mikhai-
Contemplavo con immenso piacere quel turbinio dorato. lovna sprofondò nella poltrona, le labbra le divennero blu e
L’acquario era in preda all’agitazione e al tumulto come un con voce tremante mi chiese:
oceano in miniatura. I pesciolini vorticavano e danzavano sca- «Ты что наделал, паршивый мальчишка?!»88
tenati. Poi la loro giocosità scemò gradualmente. L’acquario «Non me lo immaginavo, Elena Mikhailovna, gli ho dato
si acquietò, si calmò. Ora i pesciolini, appesantiti e dalle pan- soltanto pane di segale e formaggio...»
ce gonfie, si muovevano con indolenza tra pietre e conchiglie «Отравил!»89 proruppe esasperata, dopodiché si mise la te-
smaltate. Uno alla volta si accostarono alla parete di vetro e, sta tra le mani e gemette come una madre in lutto. Ricordo
come se volessero ringraziarmi, pulsarono davanti a me oscil- che farfugliavo, mi giustificavo, e cercavo di tranquillizzare in
lando leggermente la coda. All’improvviso, uno di loro, quel- qualche modo la mia maestra di musica, ma era tutto inutile...
lo più grosso di tutti, si rovesciò, e cominciò a nuotare sulla Si alzò, andò all’acquario, e tirò fuori dall’acqua i pesciolini
schiena. Seguivo sbalordito questo strano spettacolo. Presto esanimi a uno a uno: li baciava, poi li rimetteva nell’acquario,
lo imitarono anche gli altri. Era come se l’acquario intero fos- accompagnando i gesti con meravigliose parole d’affetto.
se stato girato sottosopra: ora tutti i pesciolini vi nuotavano «Милые мои, золотые, ненаглядные, отравили, убили вас.»90
a pancia in su, muovendo con foga le branchie... Affondai la A quel punto si voltò verso di me, aveva la faccia stravolta,
mano nell’acqua e provai a rigirarli, ma niente da fare, quelli le tremava il mento e dagli occhi le sgorgavano fiotti di lacrime.
si rimettevano subito a pancia in su. In preda alla paura, tirai D’un tratto fletté una mano aperta e mi diede un tale schiaffo
velocemente la mano fuori dall’acqua. Mi resi conto che era che per poco non stramazzai al suolo.
accaduto qualcosa di terribile. Nell’acquario si era spenta la «Вон из моего дома, варвар. Чтоб твоей ноги не было
vita. I pesciolini dorati, intossicati, galleggiavano esanimi a больше здесь! Вон!»91
pelo dell’acqua. Un brivido di orrore mi corse per tutto il cor- Inghiottii entrambi, sia lo schiaffo che le lacrime, presi sot-
po. Afferrai l’astuccio del violino e feci per scappar via, ma
d’un tratto si aprì la porta e apparve Elena Mikhailovna. Stava
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Rus.: “Cos’hai combinato, disgustoso ragazzo?”.
89
Rus.: “Li hai avvelenati!”.
accompagnando fuori l’allievo che mi aveva preceduto, facen- 90
Rus.: “Miei cari, dorati, adorati, vi hanno avvelenati, vi hanno uc-
dogli delle raccomandazioni. cisi”.
«Entra!» mi disse, appena ebbe congedato l’altro. Io rimane- 91
Rus.: “Fuori da casa mia, barbaro! Non metterai più piede qui! Fuori!”.
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tobraccio il violino e, senza fare rumore, mi richiusi la porta «Non fumo!»
dietro le spalle. «Soldi!»
«Non ne ho!»
M’incamminai verso casa sconvolto, mortificato, redivivo. «Rovescia le tasche!»
Al passaggio a livello Janguli e i suoi gregari si divertivano «Rovesciatele tu!»
a giocare. Mi venne voglia di unirmi a loro. Tanto, non avevo Tra i ragazzi ci fu un mormorio. Janguli si confuse, ma non
la faccia di tornare a casa. Appena mi avvicinai ai ragazzi, stra- lo diede a vedere, e fu a quel punto che ripiegò sul violino.
scicai i piedi, poi mi fermai di proposito e mi chinai come se «Giù le mani!» gli dissi, e allungai il braccio verso lo stru-
volessi aggiustarmi i lacci delle scarpe. mento, ma Janguli ci arrivò prima, aprì la custodia, tirò fuori
«Ehilà, Violinuccio!» riconobbi la voce di Janguli. Mi rad- il violino, e me lo porse.
drizzai e lo guardai negli occhi. «Dai, suona, distrai i miei ragazzi!»
«Che vuoi?» gli chiesi. «Non suono!»
«Vieni qui!» mi fece un segno con l’indice. «Allora che te lo trascini a fare? Sei un somaro che va a scroc-
«Perché non vieni tu, se hai qualcosa da dirmi!» gli risposi. co?»
Janguli scambiò sguardi increduli con i suoi sottomessi, ancora Non gli risposi nulla, mi tesi verso il violino per riprender-
più increduli di lui, e si mosse verso di me a passo lento. melo, ma Janguli indietreggiò, nascondendo lo strumento die-
«Ma tu sai chi sono io?» mi domandò con un piglio fiero. tro la schiena.
«Lo so!» replicai io. «Petja! Fema! Kurlik! Pancio! Ghena! Avete mai sentito il
«Allora perché non vieni quando ti chiamo?» suono di un violino?» domandò ai ragazzi. Questi nitrirono
«Chi sei tu per chiamarmi?» gli dissi con disprezzo e, per come dei puledri.
ogni evenienza, misi a terra il violino. Janguli rivolse ancora «Solo alla radio!» disse Petja, e nitrì di nuovo.
una volta uno sguardo incredulo ai suoi ragazzi, i quali aveva- «Dai, Janguli, faccelo sentire!»
no smesso di giocare e stavano facendo cerchio attorno a noi. Fui il primo tra tutti a sentire il suono del mio violino: Jangu-
«Janguli, insegnagli chi sei!» l’esortò qualcuno dal cerchio. li gli fece fare un leggero cerchio nell’aria, e me lo ruppe in testa
«Suonagliele, Janguli!» per lunghezza. «Sbam... crac...» stridé lo strumento e si spaccò
«Fagli provare un ceffone dei tuoi!» in due. La parte inferiore penzolò come un moncherino sotto
«Prima vediamo di che pasta è fatto!» disse Janguli e mi quella superiore, e per un po’ continuò a emettere un suono
diede un buffetto sulla guancia. orribile. I ragazzi rotolarono per terra.
«Giù le mani» gli dissi e scostai la testa. Mi si fermò il cuore, sentii il sangue montarmi alla testa,
«Ma guarda guarda!» si sorprese Janguli. le orecchie tapparmisi. Non sentivo più niente, vedevo sol-
«Guarda pure quanto vuoi!» risposi. tanto i ragazzi che si rotolavano a terra, il violino spezzato in
«Sigaretta!» mi allungò d’un tratto la mano. due, la mandibola ossuta un po’ protesa in avanti di Janguli.
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E all’improvviso, chiamate a raccolta tutte le mie forze, sferrai «Ti devo parlare!» si avvicinò Janguli.
un pugno secco su quella mandibola. «Di che cosa?»
Quando mi tornarono di nuovo l’udito e la coscienza, vidi «Qui non è il caso!» disse lui, lanciando un’occhiata ai ragaz-
che Janguli sedeva sul selciato, mi guardava sorpreso e si mas- zi e agli insegnanti che uscivano dalla scuola.
saggiava la mascella con la mano destra. Era calato un silenzio «E dove, allora?»
tombale. Io mi voltai senza proferire parola e me ne tornai a casa. «Oltre la ferrovia, sotto il ponte.»
Quella sera, Petja, nostro vicino e il braccio destro di Jangu- «Come ti pare!» gli risposi e lo seguii.
li, ci portò a casa sia il violino che la custodia. Li buttò vicino Janguli andava avanti. Poi venivamo io e Koka. Petja ci veni-
all’ingresso, e scappò via. va dietro, a una certa distanza. Forse per impedirci di scappare.
Mia zia fece una specie di lamento funebre in cui all’inizio «Siamo nei guai!» disse Koka, sconfortato. Era più piccolo
figurava Petja, poi il violino, poi Janguli Aleksandrid, poi io, di me di due anni e aveva avuto più di un assaggio del ceffone
e infine mia madre. di Janguli.
Ora che mi ricordo, quel lamento recitava più o meno così: «Non aver paura!» lo tranquillizzai, benché, a dirla tutta,
«Che tu cresca tanto male quanto sei malfatto, Petjaaaa... ma avevo paura anch’io. Lungo la discesa del terrapieno della
in effetti cosa ci si può aspettare da uno come te e da quell’er- ferrovia, Koka tentò di tagliare la corda, ma feci in tempo ad
bivendolo di tuo padre... Che ne potete sapere voi del valore di afferrarlo per il polso, stringendoglielo con tutte le forze:
questo violino, ché credete che Stradivari e Paganini siano stati «Non scappare, è da infami!»
dei segantini... È a quel Janguli Aleksandrid che devo chiedere «Tu non lo conosci. Ci gonfierà entrambi di botte!» piagnu-
conto e ragione, ma in effetti che può capirne della musica un colò Koka.
puledro cresciuto al suono dei ragli d’asinoooo? È questo no- «E che fa, non è che ci ammazza» gli dissi. Koka mi seguì
vello teppista insediato a casa mia che devo ammazzareeee... come un vitellino condotto al macello.
Mia dannata e infelice sorella Aniko, che mi hai lasciato questo Janguli si fermò sotto il ponte della ferrovia. Si guardò attor-
delinquente da tenere a bada, come se non avessi già abbastan- no. Non c’era anima viva. Ci fermammo anche noi.
za guai. Accidenti al tuo destino, accidenti alla mia stella...» «Eccoci qua, che vuoi dunque?» domandai a Janguli.
Si concluse allora la mia odissea musicale e iniziò una nuova Janguli chinò la testa, e rimase così per un po’, rimuginando
era della mia vita, quella della lotta per la sopravvivenza. su qualcosa.
Alzò la testa all’improvviso.
L’indomani, io e mio cugino Koka trovammo ad attenderci «Ieri tu mi hai umiliato agli occhi del quartiere. Mi hai steso
Janguli e Petja alla cancellata della scuola. All’inizio il cuore mi con un colpo solo... Mi hai colto di sorpresa, ecco perché ci sei
batté forte, ma passai accanto ai due come se il giorno prima riuscito, e la risposta non l’hai ricevuta solo perché non sono
non fosse successo nulla. riuscito a rimettermi in piedi. Avrei voluto alzarmi, ma non ci
«Violinuccio!» era la voce di Petja. Mi fermai. sono riuscito» Il suo parlare pacato e sincero mi guastò ancor
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di più l’umore. Janguli riprese: «Io sono il bullo di questo quar- chiusi, Janguli a mani aperte. Un mio colpo emetteva un suo-
tiere e continuerò a esserlo...». no sordo, mentre quello suo faceva rimbombare la terra, per
«Io non voglio essere un bullo del quartiere, lasciami in pa- quanto scrocchiavano le mie mascelle.
ce!» fui sincero anch’io. Petja incoraggiava Janguli con dei richiami in greco, mentre
«Se tu fossi più grande di me, ti avrei lasciato in pace, ma Koka mi esortava in georgiano:
hai un anno in meno di me, perciò no che non ti posso lasciare «Vacci di testa, di testa, Gemal!».
in pace. Non possono esserci due bulli in un quartiere. O tu, Sapevo che la cosa migliore sarebbe stata avvicinarsi di più
o io...» e andarci di testa, ma tutte le volte che provai ad afferrarlo,
«Te l’ho detto che non voglio essere un bullo!» gli ripetei. nudo com’era dalla cintola in su e unto di sudore, mi sgusciò
«Così non può andare. Dobbiamo fare a botte!» disse Janguli. via dalle mani. Un altro ceffone ancora, e sentii il sangue zam-
«Va bene, facciamo a botte!» ci stetti. pillarmi dal naso.
«Facciamolo onestamente!» dise Janguli. Mentre ero intento a pulirmi il sangue dal naso, Janguli me
«Che vuol dire onestamente?» mi meravigliai. ne mollò un altro, e mi ritrovai seduto per terra esattamente
«Non devono intervenire né Petja, né Koka. Niente insulti, come era capitato il giorno prima a Janguli, con la differenza
niente sassate, niente colpi a chi cade!» che, se lui non fu in grado di rimettersi in piedi, io lo ero, lo
«D’accordo!» ero eccome, ma rialzarsi a quel punto non aveva alcun senso:
«Se ti batto, domani te le do sotto gli occhi di quegli stessi avevo perso.
ragazzi del quartiere davanti ai quali mi hai steso. E poi ti la- Janguli mi concedette un po’ di tempo, ma, vedendo che non
scio in pace» mi avvertì. mi rialzavo, cominciò a rimettersi la camicia, e io potei leggere
«Chi la dura, la vince!» dissi io. di nuovo la parola tatuata sul suo petto: Hellados.
Non mi rispose nulla. Si tolse la camicia nera di raso e la «A domani!» mi disse Janguli, e mi accorsi solo allora che
buttò per terra. Appena si fu svestito, mi venne un colpo, a aveva il labbro superiore gonfio e il sopracciglio destro spac-
guardarlo: aveva un petto così largo, e, come se non bastasse, cato.
aveva una parola tatuata a caratteri latini color blu sopra il «A domani!» gli risposi, e mi rialzai.
capezzolo sinistro: Hellados, che mi turbò parecchio. Janguli e Petja salirono sul terrapieno e si avviarono lungo
Janguli disse qualcosa a Petja in greco. Petja esitò. Allora la ferrovia. Io e Koka rimanemmo sotto il ponte.
Janguli gli ripeté l’ordine. A quel punto Petja cavò di tasca due «Fa niente, ne ha incassate un bel po’ anche lui!» mi consolò
grandi sassi e li buttò via seccato. Janguli ora fissò gli occhi su Koka.
Koka. Quest’ultimo si rovesciò le tasche vuote. «Non importa, tanto domani lo malmeno!» dissi.
«Cominciamo!» disse Janguli. «Dovresti guardarti allo specchio!» disse Koka.
«Cominciamo!» dissi io e posi lo zaino per terra. «Sono tanto gonfio?» chiesi.
Lo scontro durò due o tre minuti. Io mi battevo a pugni «Come una brioche!» rispose, e distolse gli occhi.
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«Fanculo a lui!» e suo cugino, il disertore della nostra tribù e il traditore della
Stavolta mia zia non mi recitò un lamento funebre, anzi mi patria, il caccoloso Koka! Codesto forestiero viso pallido, inve-
mise degli impacchi freddi sul viso. L’indomani, però, ruppe ce di apprezzare la nostra ospitalità, generosità e magnanimi-
il barattolo di matsoni in testa a Christo, il padre di Janguli, tà, vuole accaparrarsi la nostra terra, il nostro mare, il nostro
esattamente come mi aveva rotto in testa il violino Janguli, e fiume, il nostro oro e argento, i nostri pascoli e le nostre aiuole
minacciò di far marcire in prigione quel delinquente e teppista benedetti...»
di suo figlio per aver menato con tanta spietatezza un pioniere «Bando alle ciance!» interruppi il suo discorso. «Dobbiamo
sovietico. fare a botte!»
Janguli si fermò e mi guardò fisso negli occhi, poi riprese la
Il giorno seguente non andai a scuola per far rimarginare le parola:
ferite. Il terzo giorno, il passaggio a livello della ferrovia era «Adesso io vi mostrerò come si fanno le polpette dai visi
gremito di ragazzi del quartiere. Appena io e Koka ci avvici- pallidi...»
nammo, fummo accolti con i fischi. «Non fare il buffone, cominciamo!»
«Ehi, Violinuccio, hai avuto il tuo battesimo?» «Ehi, tu, caccoloso!» si rivolse a Koka, «Va’ a chiamare il
«Non lo lasci in pace finché non ti uccide?» pronto soccorso, digli di essere qui tra cinque minuti e di
«Non è che qui siamo a Tbilisi!» portare via tuo cugino reso disabile» i ragazzi scoppiarono
Tutta la cricca era già al corrente della mia batosta. Erano a ridere.
tutti lì, tranne Janguli. Non risposi a nessuno, buttai lo zaino «Oggi è a te che servirà l’ambulanza» dissi io e mi alzai. I
sul selciato, mi ci sedetti sopra e attesi l’apparizione di Janguli. ragazzi fecero cerchio. Janguli anche stavolta disse qualcosa
«Arriva Janguli!» gridò d’un tratto qualcuno. in greco a Petja. Questi si alterò in viso e si mise a sfibbiarsi la
«Ora comincia lo spettacolo!» disse qualcun altro. cintura. Guardavo incredulo la cinghia spessa un dito di Petja.
«Buongiorno!» fece un saluto generale, Janguli, e, appena mi Mi balenò in testa: “Davvero mi vuole picchiare con la cintu-
vide seduto sul selciato, sbarrò gli occhi per la sorpresa. ra?”. Petja consegnò la cinghia a Janguli e andò a rimettersi in
«La brioche è venuta con i propri piedi, non ti resta che sboc- cerchio. Janguli tutto spavaldo proiettò lo sguardo tutt’attorno
concellarla, Janguli!» gli disse Petja. e annunciò pubblicamente:
«La spalmi con il burro o con il caviale?» «Contro il viso pallido io non mi batterò con entrambe le
Janguli non prestò attenzione ai chiacchieroni, levò in alto mani. Oggi costui dovrà essere malmenato con una mano sola!
il braccio a mo’ di tribuno, calmando la folla, e rivolse alla sua Petja, vieni a legarmi il braccio!»
gente un discorso storico, come sono soliti fare i capotribù. Si levarono grida di ammirazione tra i ragazzi. Io ne fui at-
«Ragazzi!» esordì «mi rivolgo a voi, ai liberi figli della tribù territo. Janguli si portò il braccio sinistro teso al fianco. Petja
della contrada Venezia, io, Janguli Aleksandrid, il capo da voi andò a mettergli la cinghia attorno ai fianchi in modo da pren-
eletto! Eccoli davanti a voi, il minchione viso pallido di Tbilisi dergli anche il braccio, e poi strinse con tutte le forze.
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«Non fare il teatrino, tira fuori il braccio, e ci battiamo così» fugace al padre. Quest’ultimo ci dava le spalle e perciò non
gli dissi con una voce spezzata. mi poteva vedere.
«Non mi abbasserò a battermi con te con entrambe le ma- «Per fare a botte!» replicai io.
ni» disse Janguli. I ragazzi proruppero ancora in esclamazioni «Chi è?» gli chiese il padre, senza voltarsi.
entusiastiche. «Un mio compagno.»
«Allora non ci sto!» feci io e ripresi lo zaino. «Janguli è impegnato, sta andando al mercato!» Christo si gi-
«Hai paura, eh?» mi chiese Janguli. rò. Mi riconobbe subito e se ne meravigliò: «Avete fatto pace?».
«Non è che ho paura, non mi va e basta. Libera il braccio e «Abbiamo fatto pace!» risposi io.
vedrai se non ti malmeno comunque!» «Non è meglio così? Siete entrambi dei ragazzi in gamba!»
«Muoviti, o sarò io a malmenarti!» disse Janguli, irritato. si rallegrò Christo e mi invitò a entrare.
«Dai, stendilo!» mi sussurrò Koka. Io scossi la testa con ca- «Ho fretta» dissi, dopodiché mi rivolsi a Janguli: «Quando
parbietà. A quel punto Janguli si avvicinò e mi mollò un ceffo- torni dal mercato?».
ne. Il viso mi si avvampò come se mi avessero tirato dell’acqua «La sera.»
bollente. Tuttavia, non gli restituii il colpo. Janguli me ne mollò «Ti aspetterò sotto il ponte della ferrovia!» gli dissi, e me ne
un altro, poi un altro ancora. Mi accorsi, però, che non si acca- andai.
niva. Più che malmenare, sembrava più che altro un prendere
a schiaffi. E, visto che insistevo a non rendergli la pariglia, La sera mi trovavo sotto il ponte ad attendere Janguli. Ar-
Janguli si fermò. Io mi girai e uscii dal cerchio. I ragazzi mi rivò. Senza rivolgermi la parola, legò l’asino alla staccionata
fecero passare senza fiatare. degli Adamia, si tolse la camicia, l’appese sull’arcione dell’a-
«Ehi, Violinuccio!» mi giunse da dietro la voce di Petja, e nimale e così potei leggere ancora una volta la parola magica
subito dopo un improvviso, terribile schiocco di un ceffone incisa sul suo largo petto: Hellados.
dato a mano aperta. Era quella di Janguli contro la mascella di Quel giorno fu l’asino l’unico testimone del nostro scontro.
Petja, stavolta. Stavolta durò più a lungo. Fu Janguli a colpirmi per pri-
Non mi voltai a guardare, poiché piangevo, e non volevo mo, nonostante i miei disperati tentativi di essere il primo.
che i ragazzi vedessero le mie lacrime. Di una cosa, però, ero Non caddi, vacillai soltanto. Quando fu lì lì per assestarmene
certo: stavolta aveva perso Janguli. un altro, inclinai la testa indietro, e la sua mano aperta mi
sfrecciò accanto, scrosciando, a un palmo dal naso. Tuttavia,
L’indomani, di prima mattina, mi trovavo presso il cancello l’abbrivo fu così forte che Janguli non riuscì a trattenersi, la
del cortile degli Aleksandrid. Christo Aleksandrid stava bar- forza d’inerzia gli fece fare un piccolo volteggio, e ora mi
dando l’asino vicino a una piccola stalla. Janguli gli dava una stava davanti di lato, con la mandibola sospesa nell’aria esat-
mano. Appena mi vide, lasciò il lavoro e si accostò al cancello. tamente come al primo scontro. E, prima che si rigirasse, gli
«Sei venuto a lamentarti?» mi chiese, e diede un’occhiata sferrai un pugno con tutte le forze che avevo. Janguli cadde
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affondando la faccia nel terriccio. Per un po’ rimase senza da domani ci insultiamo a vicenda, e chi la spunta, il posto
muoversi. Credevo non si rialzasse più, ma balzò in piedi è suo!».
all’improvviso, e si lanciò verso di me a una velocità incre- «D’accordo!» convenni.
dibile. La sua mano aperta e il mio pugno chiuso colpirono i
reciproci bersagli contemporaneamente: io persi l’equilibrio, L’indomani, io e Janguli stavamo di nuovo all’interno del
caddi su un ginocchio e istintivamente mi coprii il volto con cerchio dei ragazzi e ci coprivamo di improperi.
le mani. Una volta tolte le mani e aperti gli occhi, mi accorsi «Gemal, testa d’asino!»
che Janguli stava nella mia stessa posizione genuflessa e si «Janguli, erbivendolo greco!»
puliva il sangue dal labbro spaccato. Mi guardai le mani e mi «Fifone di Tbilisi!»
resi conto che anch’io perdevo sangue dal naso. Mi sforzai ad «Moccioso!»
alzarmi. Fece lo stesso anche Janguli. «Caccoloso!»
Ci siamo osservati a vicenda a lungo. Avvertivo il suo respi- «Pastore d’asino!»
ro pesante e profondo, probabilmente lui avvertiva a sua volta «Ciuchino!»
il mio. Aspettavo di essere attaccato da un momento all’altro. «Cetriolo marinato!»
Eppure la cosa sorprendente era che non avevo più né l’umore «Pesce rombo!»
né la voglia di continuare a menare le mani. Mi sentii pervaso «Ghiozzo!»
da un certo compiacimento interiore. Capii che da quel giorno «Medusa!»
in poi Janguli non mi avrebbe mai più vessato. «Cretino!»
«Basta così!» disse d’un tratto lui, e abbassò le braccia. «Paganini!»
«Basta così!» dissi anch’io, e tirai un sospiro di sollievo. «Pe- D’un tratto, senza neanche accorgermene, mi ritrovai con
rò domani dovremmo scontrarci in presenza dei ragazzi!» mi l’armamentario di parolacce vuoto, e così mi fermai. Janguli
assicurai per ogni evenienza. era in attesa, dato che toccava a me.
«Non c’è bisogno. Dirò io ai ragazzi che sei uno tosto» e «Avanti, sennò hai perso!» Koka mi diede una gomitata.
dopo una breve pausa aggiunse: «Ma il posto di bullo non te «Sono a secco!» gli dissi.
lo posso cedere». «Insulta sua madre!» mi diede manforte.
«Non lo voglio proprio!» gli dissi. «Niente insulti alle madri!»
«Se ti va, puoi essere un secondo bullo!» mi propose l’onore «“Fanculo tua madre” che insulto è?»
del vice. «Non so come si dice in russo!»
«Non lo voglio. Ognuno per la propria strada!» rifiutai di «Diglielo in georgiano, tanto non lo capisce!» Koka non mi
nuovo, mi voltai e mi allontanai. diede tregua, e mi fece commettere uno sbaglio.
«Aspetta!» mi disse. Mi fermai. «Così non può andare, «Fanculo tu e tua madre, Janguli!» dissi in georgiano, e trat-
non possiamo mica fare a botte ogni giorno. Facciamo che tenni il fiato in attesa della risposta.
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«I mana su ine prostiti ghineka, Gemal!» mi rispose Janguli. «Ma se non mi ha insultato!»
Capii che insultava a sua volta mia madre, eppure pronunciava «Ieri mi ha chiesto dove fosse tua madre. Io gli ho detto che
le parole con una tale grazia che erano un’Ave Maria per le mie non c’è più. Ecco perché non ti ha insultato» disse Koka.
orecchie, e così insistei: Rimasi di stucco.
«Fanculo tu e tua madre, Janguli!» «Perché non me l’hai detto ieri stesso, stronzetto?»
«I mana su ine prostiti ghineka, Gemal!» ripeté anche lui come «E che ne sapevo io...» Koka chinò la testa.
una cantilena. «Janguli!» lo richiamai, ma era già lontano e la mia voce non
Questa storia andò avanti per una buona metà dell’anno. lo raggiunse, oppure lo raggiunse e fece finta di nulla.
Poi gli animi si calmarono. Io e Janguli riducemmo i reciproci Da quel giorno lo rivalutai moltissimo. Gli scontri e le inimi-
armamentari di parolacce a un insulto essenziale per ciascuno cizie tra noi finirono una volta per tutte. Tuttavia non diven-
e così, a ogni incontro, con un cenno della mano ci scambiava- tammo mai grandi amici. Incontrandoci, ci salutavamo con
mo a mo’ di saluto il «Fanculo tu e tua madre, Janguli!» e l’«I un cenno della mano e un sorriso, e se capitava che venisse lui
mana su ine prostiti ghineka, Gemal!» invece del padre a portare da noi il latte o il matzoni con il suo
asino, allora facevamo quattro chiacchiere sul prezzo del latte
Era una giornata di sole. Io e Koka stavamo tornando da o del matzoni, oppure su suo padre, sugli erbaggi, sull’asino.
scuola. Una volta arrivati al passaggio a livello, ci imbattemmo Niente di più.
in Janguli che, come sempre, si intratteneva con i ragazzi del
quartiere. Appena mi vide, smise di giocare, e venne verso di Un giorno venne a portarci del latte. Io l’accolsi nel cortile, e
me. Ebbi la premura di non farmi insultare per primo, così quando lo guardai bene, stentai a riconoscerlo: il suo viso era
l’accolsi a metà strada con un bel: «Fanculo tu e tua madre, tutto un gonfiore e aveva gli occhi pesti.
Janguli!». «Che ti è successo?» gli chiesi sorpreso.
Si fermò come incantato e mi guardò negli occhi. Attesi a Era impossibile che fosse stato uno del quartiere a conciarlo
lungo la sua risposta, ma quello non proferì parola. così. Era chiaramente opera di qualcuno più grande di lui.
«Fanculo tu e tua madre, Janguli!» ripetei. «Non è niente!» mi rispose, e distolse gli occhi.
Janguli chinò la testa e si allontanò così, a testa bassa e a pas- «Sei conciato per le feste!» gli dissi.
so lento. Lo seguii con gli occhi, incredulo, avviarsi verso casa. «Fa niente!» disse lui, e sorrise.
«Visto come se l’è svignata? Ha finito di fare il bullo!» dissi «Di’ chi è, e se non riesci a batterlo da solo, vengo con te
a Koka. anch’io!» gli proposi. Scosse la testa in segno di rifiuto. «L’asino
«Altroché finito, è adesso che comincia!» mi rispose Koka e lascialo qui e andiamoci subito!» insistei. Posai il barattolo del
fece un sorriso forzato. latte sui gradini e mi accinsi ad accompagnarlo.
«In che senso?» «Lascia perdere, non possiamo batterlo!» fece un sorriso
«Ti ha battuto, in questo senso.» amaro.
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«Ma come, io e te non possiamo batterlo?» feci lo spaccone. ferrovia...» Janguli esitò un attimo, poi riprese di nuovo: «È
«Né io, né tu, e nemmeno tutta la contrada Venezia...» Mida... Mida, e poi anche tu...». Era la prima volta che Janguli
«E chi sarebbe costui?» domandai perplesso. pronunciava il nome “Mida” in mia presenza. Non gli chiesi
«Mio padre!» disse Janguli. chi fosse, poiché Koka mi aveva già messo al corrente: si trat-
«Tuo padre?» tava della figlia di una greca sposata a un abkhazo. Era la più
«Mio padre, sì.» bella ragazza di Sokhumi, e Janguli ne era innamorato.
«Com’è che ha avuto il cuore di ridurti così?» gli chiesi in- «Adesso ti è chiaro?» mi domandò Janguli e mi guardò negli
credulo, e gli posai la mano sulla guancia tumefatta. occhi. Un brivido mi corse per tutto il corpo. Era la prima volta
«È colpa mia!» in vita mia che sentivo parole simili.
«Che hai combinato?» «Sì, ma allora questo che cosa significa?» gli scostai un lem-
«Fra tre giorni qui a Sokhumi arriva una nave. I greci della bo della camicia e lessi ad alta voce la scritta tatuata in blu:
nostra comunità pensano di fare ritorno in Grecia. E anche mio Hellados.
padre...» Janguli tacque. «Questa è soltanto una parola tatuata, Gemal. La patria è
«E poi?» gli domandai. più a fondo, più addentro...» disse Janguli e si mise una mano
«E poi, niente, io non vado con lui, non voglio partire... Papà sul petto.
dice che quella è la nostra patria, la nostra terra natia, la grande Io mandai giù un nodo alla gola grande quanto un pugno e,
Ellada... Dice che il sangue dei nostri antenati ci chiama, e noi prima che gli potessi rispondere qualcosa, Janguli aveva affer-
abbiamo l’obbligo di tornare...» rato l’asino, gli aveva tirato le redini, ed era uscito dal cortile.
«Allora perché non vai con lui?» gli domandai, sinceramente
sorpreso. Il terzo giorno, di prima mattina, Janguli si fece trovare nel
Janguli rimase in silenzio a lungo, con la testa abbassata, nostro cortile, con il suo asino sprovvisto di finimenti.
lisciando le orecchie a sventola dell’asino. A ogni stiratina della «Papà ha venduto tutto: la mucca, la casa, il cortile, ma nes-
sua mano le orecchie si distendevano docilmente, ma subito suno vuole prendersi l’asino. La vostra gente ritiene che sia
dopo si drizzavano e tornavano a sventolare con una strana una vergogna tenere un asino, eppure è un animale così ama-
ostinazione, come se seguissero la nostra conversazione, inten- bile... laborioso, docile... non posso mica lasciarlo per strada.
ti a non perderne una sola parola. Ma a chi potrei lasciarlo? Noi greci ce ne andiamo tutti... non
«Come ti posso spiegare...» disse infine Janguli «io di mia ci vuole nulla a mantenerlo, gli basta una manciata d’erba...»
madre non ho alcun ricordo, mio padre invece o è all’orto o parlava a singhiozzi, accarezzando l’asino sulla gola e inghiot-
in giro a lavorare tutto il santo giorno. Io sono cresciuto nella tendo le lacrime.
contrada Venezia, per strada... La mia Ellada, la mia patria, «Te ne vai allora?»
è Sokhumi, è la contrada Venezia, è il fiume Čalbaš, è Koka, «Me ne vado. Lo terrai tu, vero?»
Petja, Kurlika, Fema... è il Mar Nero, il mio asino, il ponte della «Lo terrò.»
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«Non lo cacciare via!» armeno e un po’ in georgiano... L’enorme e bianca Poseidone
«Non lo farò, Janguli!» era attraccata con la poppa. Il mare era leggermente agitato
«Di’ a Nina Ivanovna di non cacciarlo via!» e la nave, per come oscillava e ondeggiava la prua, sembrava
«Glielo dirò, Janguli!» anch’essa congedarsi da noi.
«Koka ti darà una mano, non ci vuole niente a prendersene Io, schiacciato contro la ringhiera del molo assieme ad altri
cura...» ragazzi, cercavo con gli occhi Janguli tra i greci sporti dalla
«Niente, Janguli.» prua della nave. D’un tratto lo scorsi. Aveva addosso la solita
«Gli basta una manciata d’erba.» camicia nera di raso, aperta sul petto. Stava davanti al padre,
«Sì, Janguli!» ed ebbi la sensazione che l’uomo lo trattenesse da dietro con
«Si chiama Apollo!» le mani.
«Lo so, Janguli!» «Janguli! Janguli!» mi misi a strillare e ad agitare le braccia.
«Accarezzalo qualche volta!» Lui mi cercò a lungo, molto a lungo, in mezzo alla folla. Alla
«Lo farò, Janguli!» fine mi trovò forse grazie alla mia voce e, appena mi vide,
«Ora vado, la nave salpa stasera!» sollevò in alto entrambe le braccia.
«Vai, Janguli» «Janguli, Janguli, addio!»
«Addio, Gemal!» «Gemal, egho aghapo i mana su!» “Gemal, io amo tua madre!”
«Verrò al porto, Janguli!» mi gridava in greco da lassù, e ancora una volta mi sembrò che
Mi abbracciò, tenendomi a lungo stretto al petto. Poi mi Janguli cantasse. Non resistetti alla sua voce e alla sua vista,
lasciò libero con fare frettoloso e corse via a tutta forza. Cor- diedi le spalle alla nave e m’incamminai piangendo verso casa.
se senza voltarsi, come se sfuggisse a qualcosa di terribile, di
sconvolgente. Il terzo giorno, all’altezza della foce del fiume Kelasuri, il
mare restituì il corpo di un giovane ragazzo. O meglio, furono
Verso sera l’intera Sokhumi si era riversata al porto. C’era i pescatori starovery92 a trascinarlo fuori, e, una volta adagiatolo
anche la banda musicale, canti, danze, un agitare i fazzoletti, sulla sabbia, chiamarono noi, un gruppo di ragazzi che nuo-
c’erano molti fiori, c’erano dei grazie, degli arrivederci, degli tavamo lì vicino, per cercare di identificare il corpo. Il ragazzo
addii, ma ciò che abbondava più di ogni altra cosa erano le aveva il volto sfigurato. Nessuno fu in grado di capire chi fosse.
lacrime. Io soltanto lo riconobbi, appena lessi, sconvolto, incisa in blu
Gli abitanti di Sokhumi si separavano da una parte organica sul suo petto largo la parola Hellados.
del loro corpo, dal sangue del loro sangue: i greci. Questi era-
92
Starovery: [rus. староверы, “vecchi credenti”]: movimento religioso
no già sulla nave, il Poseidone, di un bianco candido come una
russo che nel 1666-1667 si oppose alle scelte della gerarchia ortodossa
nuvola, e da lassù, agitando le braccia, ci gridavano qualcosa, russa, arrivando a separarsene in segno di protesta contro le riforme
un po’ in greco, un po’ in russo, un po’ in abkhazo, un po’ in ecclesiastiche introdotte dal Patriarca Nikon.
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Mi misi a correre a perdifiato, senza voltarmi indietro, lungo Chazarula
la spiaggia, la riva, la ferrovia, la contrada Venezia, e irruppi
in casa come un forsennato... [1981]
«Che ti è preso, ragazzo?» mi domandò la zia, atterrita nel
vedermi così turbato.
«Zia Nina... È tornato Janguli...» le dissi. Poi caddi sulle gi- Quando parlai con l’albero per la prima volta, avevo quattordici
nocchia davanti a lei, le misi la testa sul grembo, e piansi la- anni. Lui era vecchiotto, di circa cinquantacinque, sessant’anni,
crime amare. quasi quanto mia nonna. Era un melo e si chiamava Chazarula.
Ricordo che ai tempi, d’inverno, i suoi frutti la nonna me li
portava a Tbilisi. Arrivava al mattino dalla stazione, sprigio-
nando e profondendo i profumi di campagna, mi abbracciava
stringendomi a sé, e faceva scivolare dentro il mio letto una
mela grande quanto un pugno, fredda, bruttina, tutta raggrin-
zita, e mi diceva: «Questa qui, amore di nonna, è del Chazarula
del tuo giardino, è vero che è aggricciata come la Daphino di
Aslmaskhana, ma presa a stomaco vuoto, non c’è cosa miglio-
re. Mangia, tesoro della nonna...». Era davvero buonissima la
mela del Chazarula del nostro giardino.
Durante la guerra divenni un rifugiato in campagna, e così
ebbi modo di conoscere Chazarula personalmente. Stava so-
pra la cantina, con qualche cavità qua e là, qualche zona di
secchezza incipiente, ma comunque fiero, bello, vigoroso, con
i rami espansi e un’enorme ombra sotto le fronde. Dai suoi
rami penzolavano vari mestoli da vino,93 spazzole per giara,94
93
Nell’originale sono impiegati due termini, კოპე [kope] e ორშიმო
[oršimo], che designano oggetti etnografici appartenenti alla tradizione
vinicola georgiana. Si tratta di recipienti, contenitori, per attingere il vino
dalla giara interrata, fatti dalla buccia-involucro di Lagenaria siceraria,
ovvero zucca da vino (zucca a fiasco), attaccati a un bastone o a un’asta
per essere immersi nel vino. La differenza tra kope e oršimo è che il primo
era diffuso soprattutto in Guria e aveva un’apertura direttamente nel
recipiente, dentro il quale veniva introdotta l’asta.
94
Nell’originale è impiegato il termine ორჩხუში [orčxuši] che designa
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piccole brocche. Eppure, a quanto pareva, era il terzo anno che «E io che dovrei fare? Lo dovrei tagliare?»
non fioriva e dunque non dava più frutti ormai. «Prima gli devi mettere paura. E dopo, se non si ravvede,
All’inizio della primavera del 1942, di prima mattina, mi dovremmo certamente tagliarlo.»
svegliò la nonna. Teneva in mano un’accetta dalla lama affilata E la nonna mi spiegò come avrei dovuto mettere paura a
e luccicante come un rasoio. Chazarula. Poi appoggiò l’accetta al mio cuscino e si diresse
«Che intenzioni hai, nonna?» mi finsi allarmato, e nascosi la verso la porta.
testa sotto la coperta. «E tu credi che mi intenderà?» dissi ridendo.
«Non fare il teatrino, birbone. Alzati e datti da fare, prima «Dovrebbe, se ha un po’ di cervello» mi rispose la nonna.
che ti trascini giù da quell’ottomana per le orecchie» mi rab- «E tu dove vai?»
buffò ben bene la nonna. «Dovrebbe svolgersi a quattr’occhi, la vostra conversazione»
«Che cosa hai da fare, a quest’ora dell’alba, nonna?» prote- mi disse la nonna e si chiuse la porta dietro di sé.
stai. Mi alzai, mi misi l’accetta sulla spalla, salii sopra la cantina
«Ha bisogno di una mano maschile. Non mi teme, non mi e andai da Chazarula che aveva i germogli gonfi fino a scop-
considera più, in quanto donna» disse la nonna corrugando piarne.
la fronte. “Chissà se un albero può davvero intendere un uomo” mi
«Ti riferisci a Hitler, nonna, o al nostro caposquadra?» venne da pensare, e sorrisi.
«Ancora! Che ti ho detto io?» Tenni bene l’accetta e, chiamate a raccolta tutte le forze, feci il
«Mi sto alzando, signora, ma fammi almeno capire di chi movimento di colpirlo, ma mi fermai a metà strada, toccai de-
stiamo parlando!» dissi, e mi misi a vestirmi. licatamente l’attaccatura dell’albero, e, facendo finta di essere
«Parlo di quell’indecente, sfacciato e spudorato Chazarula. indeciso, pronunciai a mo’ di “Essere o non Essere”:
Com’è possibile un tale tradimento in tempi così duri?» mi «Lo taglioooo, o non lo taglio?! Lo taglioooo, o non lo taglio?!
domandò la nonna. Lo taglioooo, o non lo taglio?!»
«Ma parli così di un albero?» mi meravigliai. Poi tornai di nuovo ai miei pensieri e, dopo aver rimuginato
«Esattamente.» e titubato per un bel po’, feci finta di lasciar perdere, pronun-
«Cioè di un melo?» non credevo alle mie orecchie. ciando le seguenti parole a voce così alta da farmi sentire non
«Un melo che non dà le mele, che razza di melo è?» alla mia solo da Chazarula, ma pure dal coperchio di pietra della giara,
domanda la nonna mi rispose con un’altra domanda, e si diede giù in cantina:
lei stessa una risposta: «È legna da ardere, da oggi in poi». «Mannaggia a lui. Gli darò ancora un anno, tanto non scap-
pa, e se insiste a non fiorire, l’anno prossimo lo taglierò fino
anch’esso un oggetto della tradizione vinicola georgiana. Si tratta di una
alle radici!»
specie di “spazzola” fatta di listelli essiccati della corteccia di betulla o ci-
liegio, pressati e legati in un mazzo che veniva poi attaccato alla punta di Insomma, seguii alla lettera le istruzioni della nonna, e die-
un’asta. Diffusa in tutta la Georgia, veniva impiegata per pulire le giare. di un’occhiata a Chazarula dal basso verso l’alto. Rimaneva
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imperterrito, senza battere ciglio, e si faceva abbagliare, espo- Simile a un vecchietto candido, consumato dal lavoro, ag-
nendosi con tutto il corpo, dai raggi di un sole appena sorto. ghindato con una camicia rosa chiaro aperta sul petto, Chaza-
Scoppiai di nuovo a ridere, ma stavolta risi non tanto della rula si ergeva fiero sopra la cantina e ci lanciava uno sguardo
nonna, quanto di me stesso. Attaccai l’accetta su un ceppo ac- di sfida.
canto a Chazarula, e tornai dentro casa. «Cosa ti avevo detto?» disse la nonna.
«Com’è finita?» mi chiese la nonna. «Dio, non farmi impazzire» dissi io.
«Come doveva finire? Gli ho messo una gran fifa. Non lo Chazarula fiorì che era uno spettacolo, attirò le api, fece i
vedi infatti come trema, il poveretto?» le risposi con irriverenza frutti, li fece maturare in abbondanza, che era una meraviglia;
e le indicai l’albero, facendola voltare. E appena ci voltammo sommerse sia noi che i nostri vicini di frutta secca, di arak e di
a guardare, mi misi a ridere: Chazarula tremava davvero con confettura. E dal momento che il nostro bestiame si consumò
tutto il corpo... i denti a furia di masticare le mele di Chazarula, cominciam-
Nel villaggio aveva fatto una capatina la tramontana. mo ogni giorno a portarle a secchiate alla mucca di Teofane
Dugladze.
La primavera era sbocciata, e, salendo dalla valle di Guba- «Lasciala in pace, ragazzo, ’sta mucca. Non le darai tregua
zouli, onorò anche il nostro cortile. A piedi nudi e con il vestito finché non farà il kompot di mele?» si mostrò infastidito, Teo-
sollevato come una passeggiatrice, andò avanti e indietro sul fane, un giorno.
nostro prato di loglio rigoglioso, e fece uscire di senno tutti, «Che combini, Chazarula? Vuoi fare uscire di testa tutto il
dai volatili alle bestie alle piante. Tutto esplose. paese?» chiesi a Chazarula, alle porte dell’inverno, quando feci
Fiorirono il mandorlo, l’amolo, il susino, il melo cinerino,95 il cadere con il bastone l’ultima mela rimasta in cima, spizzicata
pesco, il pero, fiorì persino l’arbusto di aluča...96 e nel frattempo dal merlo e dalla tordella.
Chazarula stava lì fermo, e, come un uomo in dormiveglia, «Se sei un albero, ti chiami melo e fai i frutti: è questo il
sbatteva le ciglia, e nient’altro, senza che nessuno indovinasse miglior modo di esserlo!» mi rispose Chazarula e fece scric-
le sue intenzioni. chiolare le vecchie giunture.
Un giorno, di prima mattina, la nonna venne a svegliarmi Quello è stato l’ultimo anno della fioritura di Chazarula.
ancora una volta, e mi indicò Chazarula. In seguito le tentai tutte per mettergli paura, lo supplicai, lo
«Guarda, figliolo!» implorai, ma niente, Chazarula aveva finito, aveva smesso di
essere Chazarula.
95
Georg. ნაცარა ვაშლი [nats’ara vašli]: letteralmente “mela cineri- A distanza di due anni, mentre attingevamo il vino dalla
na”. Tipo di mela di origine inglese (Parker’s Peppin), molto diffusa nella giara, la nonna levò gli occhi al cielo, poi li spostò su Cha-
Georgia occidentale (soprattutto in Guria, Samegrelo, Abkhazia e Ačara).
zarula, scosse la testa con disappunto e disse quelle parole
96
Georg. ალუჩა [aluča], ovvero Prunus vachuschtii, specie di prugna
originaria del Caucaso. La salsa che vi si ricava è uno dei contorni più come se stesse parlando non tanto con me, quanto con uno
apprezzati della cucina georgiana. sconosciuto:
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«Stanotte nevicherà. Siamo a corto di legna, moriremo di gazzo da maledirlo così?!» domandò alla nonna Anania Sa-
freddo. Chazarula dovrà essere tagliato». lukvadze, che passava per caso nel sentiero tra gli steccati ed
«Diamogli tempo anche quest’anno, nonna, e lo tagliamo era entrato da noi.
l’anno prossimo. Io provo a mettergli paura ancora una volta» «Come non maledirlo, signor Anania. Ecco, l’anno scorso
le proposi. gli ho fatto mettere paura a quell’infruttifero Chazarula, ora lo
«È finita, figliolo. Come non riusciresti a mettere paura a me, supplico di tagliarlo e si rifiuta, dice che quello intende tutto»
così a lui» la nonna scosse la testa dispiaciuta. lo informò la nonna e gli porse un bicchiere traboccante di un
«Allora sappi che io non potrò tagliarlo» opposi un netto limpido Adessa.
rifiuto. «Buongiorno e Dio la benedica, signora Darejan, assieme alla
«Come sarebbe a dire che non potrai tagliarlo? È tua nonna sua progenie!» Anania Salukvadze fece il brindisi e sorseggiò
che te lo dice, o un cane?» si offese la nonna. il vino con un tale gusto da farmi venire l’acquolina in bocca,
«La nonna, certo, ma non potrò comunque» m’incaponii. come se non stessi già presso la giara scoperchiata.
«Per quale motivo?» si meravigliò la nonna. «Dunque, ci intenderebbe, eh?» chiese Anania, e si pulì con
«Ma non sei stata tu a dirmi che l’albero capisce ogni parola la mano il labbro superiore tinto di rosso.
detta da noi?» le rammentai. «Non solo ci intenderebbe, Anania mio, ma è arrivato a dire
«Ma no, amore di nonna, non devi badare troppo alle ciance che ci vedrebbe pure» spiattellò la nonna, «ma non posso in-
di una vecchia grulla. È già così difficile che si intendano gli colpare lui, sono stata io a farlo uscire di senno e dovrei essere
uomini tra di loro, figuriamoci un albero. Ma non lo vedi che io a mettermi la testa nel cappio.»
sul fronte gli uomini si divorano vivi l’un l’altro? Ho scherzato, «Non è che il ragazzo ha bevuto questo vino, stamattina?»
quella volta, figliolo, ci hai creduto?» la nonna provò a farmi domandò Anania Salukvadze.
cambiare idea. «Sì, uno o due bicchieri!» alla nonna tornò la speranza.
«Non posso tagliarlo in ogni caso. E poi, secondo me, quello «Allora, se mi dà un altro bicchiere, signora Darejan, le dirò
lì non solo è in grado di intenderci, ma pure di vederci. Guarda, per certo chi dei due fu a farlo uscire di senno, se lei o il vino»
visto come ha distolto lo sguardo da noi?» dissi alla nonna e le sorrise l’uomo.
le indicai Chazarula. La nonna gli riempì di nuovo il bicchiere. Anania lo tracann-
«Mamma mia, mamma mia, che cosa tocca udire alle mie nò senza fiatare, e fece una lunghissima pausa.
orecchie!» la nonna recitò come in un lamento funebre, tor- «Io credo, signora Darejan, che siete stati entrambi, sia lei
mentandosi le guance. «Ma non è colpa tua, sono stata io a che il vino, a farlo uscire di senno, ma per pervenire a una
farti perdere la ragione, e dovrò essere io a rimediare. Vicini, conclusione più convincente, avrei bisogno di un altro bicchie-
aiutatemi, venite a legare questo matto disgraziato!» la nonna re di vino». La nonna glielo diede, ma fossi stato io al posto
indirizzò il lamento verso il villaggio. di Anania, ci avrei pensato due volte, tanto fulminante fu lo
«Che succede, donna Kalandadze, che le ha fatto quel ra- sguardo della nonna. Anania lo tracannò ancora senza fiatare,
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ma stavolta non stette a pensarci troppo, passando direttamen- «Perché non tagli l’albero?» mi chiese a sua volta Anania.
te all’esposto: «Mi fa pena.»
«È stato sicuramente il vino, signora Darejan, ma adesso «Un albero, ti fa pena un albero, ragazzo? Ma se i tuoi coe-
glielo farò ritrovare io, il senno, a questo ragazzo» e Anania si tanei strisciano sotto i carri armati, in Russia!»
rivolse a me: «Dunque, tu affermi che l’albero ci vedrebbe?». «Povero il nostro Stato, se intende mettere in ginocchio la
«Esatto!» confermai. Germania con l’aiuto di pivellini come lui» la nonna aveva
«E una pietra?» preso a cuore la sorte dello Stato.
«Anche una pietra.» «Non lo dica neanche per scherzo, signora Darejan!» eslamò
«E il fiume?» contrariato Anania.
«Anche il fiume!» «Ma come non dirlo? Non riesco a fargli ammazzare una
«Benissimo, ragazzo. Però, signora Darejan, non si può dire gallina, né un capretto, e non riesco a fargli tagliare un albero,
che non sia interessante: ammettiamo che lei è Chazarula, e, ché dice che gli fa pena. E il maiale che avrebbe dovuto macel-
secondo le ciance di questo ragazzo, ci vede e ci sente, e d’un lare l’anno scorso per Natale, l’abbiamo trovato per mircaolo
tratto si accorge che arriva un uomo, un omaccione come me quest’anno a Intabueti, e il coltello ce l’aveva ancora conficcato
per esempio, con un’accetta sulla spalla, e vuole tagliarla. Lei nella gola... È così che si fa?» gli domandò la nonna.
vede che questo qui vuole tagliarla, vede tutto, ma non può «È la verità, ragazzo?» mi chiese Anania.
scappare, non può andare da nessuna parte. Non c’è da impaz- «È la verità, zio Anania» confermai «ma le tue prediche sono
zire, eh, signora Darejan?» domandò alla nonna, e ancora una inutili, tanto il Chazarula non lo taglio!»
volta le porse il bicchiere da riempire di vino. La nonna non «Ti farebbe pena, dunque?»
ebbe alcuna fretta di farlo. «E versamelo, donna, ché il bello «Non me la dovrebbe fare?» gli domandai a mia volta.
arriva adesso!» Anania esortò la nonna. Lei glielo riempì. «E va bene, ti fa pena, accidenti a te. Mi dia un altro bicchie-
«Ragazzo, è vero che sei uno di città, ma ormai è ora che tu re, signora Darejan, e vedrà se domattina questo Chazarula
abbracci la filosofia del contadino. Tre sono le cose che un con- non lo trova bell’e sistemato. Raderò al suolo tutto ’sto spiazzo
tadino non può tenere in casa: una bestia infeconda, un albero con le mie mani. Ora non ne ho le forze.»
infruttifero e una donna...» Anania esitò e guardò la nonna. La nonna gli riempì di nuovo il bicchiere. Anania lo tracannò.
«Che ha da guardare, Anania, concluda ciò che dice. Se non «Signora Darejan, non è che avrebbe qualche antipasto da
avessi avuto dei figli, questo nipote qua come me lo sarei pro- spizzicare?» chiese, come per caso, Anania.
curata?» rise la nonna. «Sì, una cosa l’avrei, signor Anania. Un palo!» gli disse la
«Giusto... e una donna sterile, dunque... ma non è il caso nonna.
di tua nonna Darejan, che ha avuto sette figli. Ecco, è così che Anania uscì dal cortile senza fiatare, e seguì la strada in salita.
stanno le cose.» «Non stava scendendo poc’anzi, signor Anania, ora com’è
«Che vuoi da me, zio Anania?» gli chiesi. che sta risalendo?» gli rammentò la nonna.
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«Avevo un lavoro da fare laggiù, signora Darejan, ma che pare era sepolto come un tesoro, per più di sessant’anni, nel
frutti tanto bene la vigna del direttore del kolchoz quanto bene cuore delle sue radici, e lui, ignaro, continuava premuroso a
io potrei fare quel lavoro, nelle condizioni in cui sono adesso!» tesservi attorno quel reticolo vitale... e con altrettanta premura
Anania fece un gesto di rinunciarci con la mano. vi faceva da guardiano. Il liquido rosso sgorgava senza arre-
«Allora, signor Anania, mi faccia il favore di appoggiarsi starsi dalla giara spaccata... e Chazarula prosciugava la giara,
alla staccionata di Šakro, ché la mia sta in piedi per miracolo» imbevendosi senza fine di quello strano liquido rosso come
gli chiese la nonna. Anania si spostò subito dall’altro lato del uno che è terribilmente assetato, e riempiendosi pian piano di
viottolo, e si appese alla staccionata di Šakro Mikaberidze. Si calore, allegria, di un brivido piacevole mai provato prima, con
voltò indietro ancora una volta. passione e trasporto... Chazarula si ubriacò, e all’improvviso
«Ragazzo!» mi chiamò. «Dunque, dici che ci vede, il tuo il mondo gli si schiarì.
Chazarula? Baggianate! Se non ci vedo neanche io, altro che il Prima, quand’era giovane, Chazarula si chiedeva meravi-
tuo Chazarula!» ridacchiò Anania, e proseguì la strada a passo gliato come fosse possibile che gli esseri umani esistessero
vacillante tra una staccionata e l’altra. senza avere le radici affondate nella terra, che si muovessero
attorno a lui e in generale, ma infine se ne fece una ragione
Il ragazzo aveva ragione. Vedeva tutto e sentiva tutto, e smise del tutto di pensare a questo fenomeno per lui tanto
quell’albero acquattato e spoglio. Viaggiò nei pensieri fino a inspiegabile e incomprensibile, poiché non credeva ci fosse al
mezzanotte, dopodiché Chazarula ebbe una stretta al cuore, mondo qualcosa o qualcuno in grado di spiegarglielo. Ma quel
e tirò a sé le radici... e la giara, avvolta dal reticolo di quelle giorno era avvenuto un miracolo. La giara si svuotò, Chazarula
radici, si mosse leggermente. Chazarula l’avvertì e stavolta ti- ne assorbì l’ultima goccia e, all’improvviso, comprese il segreto
rò ancora più forte... la giara si scrostò in più punti, ma senza dell’uomo e di questo straordinario liquido... Chazarula non
subire alcun danno all’interno. A quel punto Chazarula strin- si meravigliava più del perché gli umani si baciassero, pian-
se a sé il reticolo delle radici ancora una volta, e sulla giara gessero tenendo le coppe, perché si rincorressero, litigassero,
comparve la prima crepa. Il liquido rosso si riversò dalla giara ridessero, cantassero con le braccia l’uno sulla spalla dell’altro,
lentamente, finendo sulle porosità delle radici di Chazarula. perché danzassero attorno a lui, perché pulissero con tanta
L’albero l’assaggiò con cautela e s’imbevé di quel liquido rosso. premura le giare e vi versassero dentro con tanta cura quel
Un brivido anomalo gli corse per tutto il corpo... Chazarula liquido miracoloso. Chazarula comprese tutto questo, e venne
sussultò una volta, ma pian piano quel brivido si trasformò voglia anche a lui di cantare, correre, abbracciarsi, baciarsi,
in un piacere inspiegabile, così l’albero tentò di trarre a sé la piangere e danzare, ma che poteva fare, Chazarula, essendo un
giara con più foga. Quest’ultima si spaccò in più punti e il albero e non un uomo, se non quello di cui era capace. Perciò
liquido rosso zampillò sulle radici dell’albero come una piog- si dondolò e rintronò fino al mattino... E al mattino, Chazarula
gia vivificante in un’estate siccitosa. E Chazarula si buttò con avvertì un colpo sordo a un fianco, che però non gli fece male,
avidità sul liquido rosso, su quel miracolo rosso, che a quanto proprio alcun male, per cui non gli prestò molta attenzione,
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dopodiché un colpo simile l’avvertì anche all’altro fianco, ma targo, e il liquido negli alberi si accumula a febbraio» disse la
Chazarula non vi badò neanche stavolta. Questi colpi dura- nonna, e toccò con la mano il liquido rosso stillato dalla pianta,
rono per almeno un’ora, e, infine, Chazarula sentì una spinta se la portò al viso, l’annusò e mi guardò atterrita. «Scoperchia
da sinistra a destra, una spinta forte, poi uno scricchiolio, uno la giara!» mi ordinò. Io tolsi subito il coperchio, e guardammo
scricchiolio continuo, e, se all’inizio si inclinò lentamente, tutt’a contemporaneamente dentro il recipiente. Era vuota...
un tratto cadde a corpo morto sulla terra. E ora Chazarula sentì «Giara della Resurrezione nei Cieli, Madre del Salvatore,
lo stridere delle proprie braccia, delle proprie spalle e giuntu- Specchio della Verità, Santa Maria, aiutaci Tu a non smarrire la
re, benché neanche stavolta avvertisse un dolore particolare. ragione» pronunciò la nonna con voce tremante, levò entrambe
Chiuse soltanto gli occhi, e cadde in un sonno dolce, molto le braccia al cielo e cadde lentamente sulle ginocchia.
dolce e profondo.
Chazarula fu scosso da un brivido freddo e aprì gli occhi. Ve-
«Alzati, figliolo, Anania pare abbia tagliato Chazarula, sta- dendolo da quella posizione inconsueta, il mondo gli sembrò
mattina!» mi svegliò all’alba la nonna. «Ecco, prendi questa rovesciato su un lato, e se ne meravigliò. All’inizio se lo spiegò
accetta e stralcia almeno i rami» mi disse e se ne andò in cucina. con l’effetto di quel liquido rosso, ma in seguito, quando scorse
La nonna non si era sbagliata: era caduta la neve, nottetem- quel ragazzo seduto tutto abbacchiato sul suo stesso ceppo con
po, e il villaggio era così bello da sembrare una sposa velata di il mento poggiato sul manico dell’accetta, e poi, presso la giara
bianco pronta per l’altare. Soltanto nel nostro cortile aleggiava scoperchiata, scorse anche quella vecchietta vestita di nero,
un’aria di lutto. Sopra la cantina giaceva come un morto l’e- inginocchiata nella neve candida, con le braccia levate al cielo,
norme tronco appena tagliato, fracassato e dai rami spezzati, capì di non essere più vivo. E Chazarula chiuse di nuovo gli
di Chazarula. Salii in cantina controvoglia. E prima che mi occhi. Per sempre, stavolta.
mettessi a sfrondare ciò che rimaneva dell’albero, mi sedetti
sul suo ceppo, e rimasi di stucco. Dal suo midollo fuoriusciva
un liquido rosso, color sangue.
«Nonna!» la chiamai turbato.
«Che c’è?» mi lanciò un’occhiata da sotto.
«Sali un attimo.»
«Che è successo?»
«Sali e vedrai tu stessa.»
La nonna salì.
«Cos’è questo?» mi chiese sorpresa.
«Il sangue dell’albero, forse» risposi sgomento.
«È impossibile, siamo a gennaio e tutte le piante sono in le-
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L’ingrato

[1973]

Nel villaggio di Tsipnagvara, al camposanto della famiglia


dei Berežiani, riposavano così tanti rappresentanti centenari
di questo cognome che al centesimo anniversario di Guduli
non ci pensò nessuno. Senza andare troppo lontano, Guduli
stesso si dimenticò del proprio compleanno. Quella mattina si
alzò assieme al gallo Longino, e per prima cosa interagì con il
cane del vicino che gli si era messo tra i piedi:
«Mi raccomando, Ghiottone, vediamo quante uova mi sgraf-
figni oggi dal covo.»
Dopodiché fu la volta del gallo sceso giù dal trespolo che
Guduli coprì di rimproveri: «Ehi tu, che non mi lasci dormire
al mattino e fai con me lo sbruffone, faresti meglio a control-
lare le tue pollastrelle, ché il gallo di Ardalion Brokišvili le ha
puntate».
Quando ne ebbe abbastanza dei rimproveri, attraversò il cor-
tile ed entrò nel casotto-cucina. S’inginocchiò davanti al foco-
lare, scovò nella cenere un tizzone, e vi mise sopra qualche fu-
scello secco. Vi soffiò più di una volta, e, appena il fuoco fu ben
ravvivato, vi accostò una brocca piena d’acqua. Quando l’acqua
divenne tiepida, la versò in un vaso per latte, si rimboccò la ma-
nica destra e spalancò la porta della stalla. La mucca legata alla
rastrelliera fissò sul padrone un paio di occhi enormi, e muggì.
«Buongiorno, signora!» la salutò e le diede una pacca sulla
natica. La mucca smise di ruminare, si alzò svogliata, si spostò
nella zona asciutta, e si preparò a dare il latte. Guduli si sistemò
il treppiede sotto le chiappe e si sedette accosto alle mammelle
raggrinzite della mucca.
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Gli diede poco latte. «Ma che ne sa tua madre, ragazzo? Non lo sai che il cervello
«Sei proprio uscita di riga, disgraziata!» la rimproverò Gu- di una donna se lo mangiò la capra tra le fratte? Guarda me,
duli e le sfilò la corda dal corno. che sono cresciuto a latte non bollito!» si arrabbiò Guduli e gli
«Che posso farci, sono invecchiata» si giustificò la mucca. porse il secchio.
Guduli le aprì il cancello e la fece andare nel campo di stop- Uča sospirò e accostò il recipiente alla bocca. Guduli vedeva
pie. «Va’ in culo a un lupo affamato, va’. Non sei una mucca, come si riempiva, gorgogliando, il piccolo ventre del ragazzo, e
sei una capra, tu...» cercava di non ridere. Infine Uča ansimò, si pulì con la manica
La mucca entrò nel campo e cominciò a piluccare l’erbaccia, della camicia il labbro superiore bianco di latte, e allungò il
svogliata. vaso al vecchio.
«Dammi una mano anche tu!» gli chiese. Guduli si riprese il
«Buongiorno, Guduli!» secchio e guardò il sole.
Guduli sedeva sui gradini della casa, aveva accanto il vaso «Uča, ragazzo mio, che fai, non hai intenzione di andare a
con il latte, osservava come un bambino curioso il sole spunta- scuola, oggi?»
to in mezzo a due picchi di montagna, e non pensava a nulla. «Oggi è domenica!» sorrise Uča.
«Buongiorno, Guduli!» «È sabato, ragazzino!» corrugò la fronte Guduli.
Guduli guardò dalla parte da cui proveniva la voce. Sotto il «È domenica!» insisté il ragazzo.
pero era fermo Uča Melimonadze e si grattava la testa. «Mannaggia a me, mannaggia!» Guduli si diede una manata
«Come te lo devo insegnare, ragazzino, che non mi devi sul ginocchio.
chiamare Guduli, ma nonno Guduli?» «Che c’è, nonnno Guduli? Per te non è mica lo stesso se è sa-
«Buongiorno, nonno Guduli!» bato o domenica? A scuola mica ci vai...» lo tranquillizzò Uča.
«Buongiorno a te!» «Che giorno è oggi?»
«La mamma ti manda a dire che dovresti offrire a Uča un «Il giorno è domenica 28, il mese novembre, l’anno 1970»
po’ di confettura!» Uča gli trasmise il messaggio. gli disse Uča con dovizia di particolari, e gli sorrise di nuovo.
Guduli sorrise. «Mannaggia a me!» ripeté Guduli, e si rimise in piedi.
«Il latte non può andare?» Senza fare caso all’aria meravigliata di Uča, entrò nel salotto
«La confettura, dice!» ripeté Uča. e fissò gli occhi sul calendario inchiodato sopra il suo giaciglio.
«Ma se prima non prendi il latte, non ti do la confettura!» Lo studiò a lungo. Alla fine strappò la pagina dal calendario,
gli disse Guduli. uscì sulla balconata e tornò a sedere sui gradini di pietra.
«Fammelo vedere» gli chiese Uča e ficcò la testa nel vaso del «Che succede, nonno Guduli?» Uča gli si mise accanto. Ap-
latte. «La mamma mi ha raccomandato: “Non bere il latte non poggiò il gomito sul suo grembo e lo guardò da sotto in su con
bollito di Guduli Berežiani come un vitello prematuro, sennò occhi pieni di curiosità.
ti becchi la brucellosi”» disse Uča, e alzò la testa dal recipiente. Guduli non gli rispose, tirò fuori gli occhiali dal taschino sul
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petto, li inforcò, e lesse per filo e per segno tutto ciò che era terribile stanchezza, come se proprio in quel momento avesse
scritto sulla pagina del calendario: finito di circumnavigare la Terra per la dodicesima volta. Pose
le mani nodose sulle ginocchia ossute e se le carezzò a lungo,
Il 53esimo anniversario della Grande Rivoluzione d’Ottobre.
Il 28 novembre – domenica finché il tremore non gli fu passato.
Il sole sorge – 8.06 «Avete sentito, ginocchia mie? Se per questi 100 anni aves-
Il sole tramonta – 17.32 simo io e voi camminato facendo le tratte da Tsipnagvara a
Durata giorno – 9.26 Ozurgeti, da Ozurgeti a Batumi, da Batumi a Mosca, da Mosca
Novilunio – 24 novembre alla Germania, dalla Germania all’America, poi da quell’altra
La luna sorge – 10.55 parte fino al Giappone, passando di nuovo per Ozurgeti e
La luna cala – 20.31 per Tsipnagvara, avremmo fatto 12 giri attorno a questa be-
1820 – nacque Friedrich Engels nedetta Terra» Guduli sprofondò nei pensieri. «Non è stato
Poi lesse con attenzione la storia scritta sul retro della pagina possibile» fece un sorriso amaro. «Non è stato possibile, ma
del calendario: Dio ci è testimone: in tutto questo tempo non ci siamo fermati
per un solo attimo, io e voi» Guduli fu di nuovo trasportato
Lo sapevate che...
dai pensieri, e sorrise di nuovo. «Dunque, a quanto pare, in
In un giorno l’uomo fa circa 20 mila passi? In un anno questa
cifra raggiunge 7 milioni. Dunque la somma dei passi dell’uomo
tutti questi anni abbiamo camminato avanti e indietro nel-
nel giro di 70 anni è di 500 milioni. Questa distanza – circa 384 lo stesso luogo... abbiamo camminato tanto, però. Abbiamo
mila km – è uguale a quella tra la Terra e la luna. tessuto una bella rete. Tuttavia, non ho nessun rimpianto, vi
sono grato anche solo per aver trasportato senza stancarvi, in
Guduli levò lo sguardo al cielo e s’imbatté nel sole. Poi spo-
questi cent’anni, il mucchio delle mie ossa e della mia carne
stò lo sguardo verso ovest e scorse una luna agli sgoccioli. Il
da un viottolo all’altro, da un cortile all’altro, e nel vicinato.
sole e la luna stavano assieme sulla volta celeste, ma per qual-
Vi sono molto grato, signori miei, molto grato!» disse Guduli
che ragione a Guduli sembrò che il sole, in quel momento, si
ad alta voce e si massaggiò di nuovo con le palme delle mani
trovasse più vicino rispetto alla luna. Riprese a leggere:
le rotule rinsecchite.
I 384 mila km sono più lunghi della lunghezza di 9 equatori Il 28 novembre del 1970, alle 8 del mattino, Guduli Berežiani
messi assieme. Ordunque, nell’arco di 70 anni un uomo può compì cent’anni. Ci pensò su, Guduli, e all’improvviso il cuo-
circumnavigare la Terra per ben 9 volte. re gli prese a battere nel petto come un uccellino catturato in
una rete. Guduli si sorprese, e se ne intimorì. Gli succedeva
Guduli ebbe le vertigini. Se nell’arco di 70 anni si potreb-
quand’era giovane: nella piazza del paese, prima di sparare nel
bero fare 9 giri attorno alla Terra, nell’arco di 100 anni quanti
tiro a segno, prima di montare il cavallo all’inizio della marula,97
sarebbero? Forse 10, 11 giri... Guduli si guardò le gambe. Le gi-
nocchia gli tremarono leggermente, all’improvviso avvertì una 97
Marula [georg. მარულა]: corsa di cavalli a lunga distanza, caratte-
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prima della lotta libera con i gemelli di Zosime Kerkadze, e alla «Se l’albero sente la roncola e l’accetta, allora siamo messi
vista della loro sorella Taliko. Guduli ebbe paura che il cuore davvero male, Uča, figliolo, allora inutilmente l’uomo si pen-
gli scappasse dal petto come un uccellino si libera dalla rete, e te dei suoi peccati al cospetto di Dio.» Guduli si preparò per
si portò la mano al capezzolo sinistro. Il cuore gli palpitò per una nuova domanda, ma il ragazzino non gli domandò nulla,
mezzo minuto buono. Tutta la sua giovinezza gli scorse davanti fece scorrere cautamente il pollice sulla lama scintillante della
agli occhi, nel giro di quel mezzo minuto, e fu come se d’un trat- roncola e si diede lui stesso una risposta:
to il cuore gli sgusciasse via dalle mani, che prendesse il volo. «La sente, eccome se la sente!» disse, e sedette accanto al
Guduli trattenne il fiato e un sudore freddo gli imperlò la fron- vecchio.
te. Divenne leggero come una piuma, come se si fosse dissolto Guduli ci pensò su, e mise una mano sulla testa dai capelli
nell’aria, si fosse disfatto. Ma all’improvviso il cuore sembrò rosso fuoco di Uča.
tornare come un uccellino al proprio nido: si assestò le ali, si «Uča, questa mattina tuo nonno Guduli ha compiuto
accomodò ben bene e tornò al suo daffare abituale, appartato cent’anni.»
ma moderato, pacato. Guduli respirò liberamente, i polmoni gli Uča diede al vecchio un’occhiata di sbieco, e gli sorrise.
si riempirono di aria fresca, limpida, si pulì il sudore freddo con «Che hai da ridere, ragazzino?»
una manica, fece un sospiro di sollievo, e sorrise. «Ma, nonno Guduli, non avevi cent’anni anche l’anno scor-
«Te ne sono grato, signore mio, molto grato!» disse, e si ca- so, e quello prima ancora?»
rezzò il cuore con una mano. «Come avrei potuto avere cent’anni, birbone, l’anno scorso
Il dono dei cent’anni elargito da Dio ai Berežiani fu ben ac- e quello prima ancora?» se ne risentì Guduli.
cetto da Guduli un’ora prima, e aveva dunque messo piede nel «Allora quanti ne avevi?»
centunesimo anno di vita con la sua consueta abilità e sagacia. «L’anno scorso ne avevo novantanove. È oggi che ne ho com-
piuti cento.»
Guduli scese in cortile, passò per il sentiero che portava al «Ma se sei sempre stato così!» Uča gli sorrise di nuovo.
fossato, andò al centro del campo di stoppie e si sedette all’om- «Non ridere come uno scimunito, ragazzino. Sempre così è
bra di un pero, suo coetaneo. Uča lo seguì. stato tuo padre!»
«Questa roncola non gli fa male a questo pero, nonno Gu- «La mamma ha detto di te che gli anni né ti si aggiungono,
duli?» gli domandò Uča e staccò la roncola conficcata con la né ti si tolgono, dice: ha fermato il tempo, quello stregone!»
punta nel tronco dell’albero. Guduli guardò negli occhi del bambino e vi scorse dentro la
“Cominciamo”, pensò Guduli, “da qui al tramonto mi su- propria infanzia da folletto, poi distolse lo sguardo da Uča e gli
bisserà di un milione di domande.” fece la domanda come se si rivolgesse a qualcun altro:
«Dunque, dice che non muoio, eh?»
ristica della Georgia occidentale (nelle regioni di Guria, Imereti, Same-
grelo). La distanza da percorre era di circa 20,25 km, e ne prendevano «No, dice.»
parte sia i fantini adulti che adolescenti. «Che avrei fermato il tempo, eh?»
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«Sì, così dice.» «E adesso?»
«Come potrei farlo?, figliolo, il tempo non può essere fer- «È tornato giorno!» disse Uča, e sorrise.
mato neanche da cento coppie di buoi» Guduli scosse la testa «Ecco, proprio così è anche l’occhio di Dio» Guduli fece un
con rammarico. sospiro di sollievo.
«Allora cos’è che lo può fermare?» s’incuriosì il ragazzino. «Ma non siamo mica uguali, io e lui!» disse Uča, e si drizzò
«Verrà il tempo, e si fermerà forse da solo» disse Guduli, e a sedere.
rise delle proprie parole. «Siete uguali, eccome se lo siete! Questo mondo è tuo, chi
Rise anche Uča, e si stese sul prato a pancia in su. potrebbe calpestarlo che sia migliore di te?» Guduli gli aggiu-
«Guarda, nonno Guduli, il sole e la luna stanno assieme nel dicò il mondo e si strinse al petto la testolina di Uča che era
cielo!» indicò al vecchio la volta celeste. simile a un ciocco ardente. Il ragazzino avrebbe voluto fargli
«L’ho già notato, amore di nonno!» qualche altra domanda, ma Guduli gli mise la mano sulla boc-
«E com’è possibile ’sta cosa, che nel cielo sia giorno e notte ca già dischiusa, e l’avvertì: «Non mi fare più alcuna domanda,
nello stesso momento?» domandò Uča.
altrimenti uccido prima te e poi me».
“Questo ragazzino mi farà impazzire” pensò Guduli, e fece
«Te ne faccio un’altra soltanto, e poi basta» lo pregò Uča.
finta di nulla.
«Va bene, ma non più di una!» gli raccomandò Guduli.
«Com’è possibile?» Uča non desistette.
«La mamma stamattina mi ha detto: “Tuo padre, Dito Meli-
«Questo cielo è l’occhio di Dio e può contenere tutto, il be-
monadze, è un brigante, un abrek,98 un bruto e figlio d’un cane.
nedetto, sia il giorno che la notte» gli spiegò Guduli.
Per noi è morto”. È la verità?»
«Com’è che è l’occhio di Dio?»
Guduli rimase di sasso: che cosa avrebbe potuto rispondere
«La stai sciogliendo troppo, ’sta lingua, ragazzino!» si esa-
a questo cucciolo, di cui stringeva al petto la testolina simile
sperò Guduli.
a un ciocco infuocato, che gli riscaldava le vecchie ossa e lo
«Com’è che è?» insisté Uča. Guduli avvertì una vampata di
calore e si sbottonò il colletto. interrogava con occhi pieni di curiosità?
«Vediamo, tu l’occhio ce l’hai, giusto?» domandò d’un tratto «È la verità, amore di nonno, ma tu non devi ripeterlo, è co-
al ragazzino. munque tuo padre» Guduli finalmente riuscì a dire qualcosa.
«E questo cosa sarebbe?» Uča si portò l’indice a un occhio. «Perché?»
«E adesso chiudilo!» 98
Abrek [georg. აბრაგი, rus. абрек]: termine di origine nordcaucasica,
Uča chiuse subito gli occhi. acquisito dal georgiano per indicare un fuorilegge, un fuoriuscito (so-
«Che è successo?» prattutto in Guria, Samegrelo e Abkhazia), una specie di ribelle solitario
insorto contro l’ingiustizia sociale e più tardi, durante le guerre di con-
«È calata la notte.»
quista del Caucaso da parte della Russia, per intendere un combattente
«Ora aprilo!» per l’indipendenza del proprio popolo (soprattutto nei popoli del Nord
Uča spalancò gli occhi. del Caucaso).
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«Uno che abbandona un bambino come te e va appresso a Passò un’ora. A Guduli tornò la voce.
una donna a Stavropol, che cos’è se non un bruto, amore di «Tu va’, amore di nonno, e lasciami solo!»
nonno?» «Vado a chiamare la mamma, è qui vicino, a Kitoula, a rac-
Uča non gli fece più domande, si alzò e si avviò verso il cogliere i residui del granturco.»
cancello a testa china. «Sono a posto, non chiamare nessuno.»
“Non avrei dovuto dirglielo. Pensa che suo padre sia un «Vado a dirlo alla mamma.»
angelo, come potrebbe immaginare che è invece un satanasso” «Non mi fa male nulla, ragazzo!»
pensò tra sé e sé Guduli, e gli si strinse il cuore. «Allora perché piangevi, se non ti fa male?»
«Ehi, Uča, ragazzo mio!» lo richiamò. «Ti ho detto una bugia, ti ho messo alla prova per vedere se
Uča non si voltò. mi volevi davvero bene.»
«Torna, Uča, amore di nonno!» «Com’è che oggi mi dici sempre le bugie?»
Uča si fermò, ma continuò a non voltarsi. «Guardami, ragaz- «Che ci posso fare, sono un vecchio rincitrullito. Ora vai,
zo mio, altro che bruto, tuo padre è Tariel, Fridon e Avtandil99 lasciami da solo, ho bisogno di un po’ di riposo.»
assieme! Non capisci mica le battute tu, eh, birbone?!» Uča se ne andò. Una volta arrivato al cancello, si voltò an-
Uča lanciò a Guduli uno sguardo di sottecchi, per accertarsi cora.
che dicesse sul serio. «Vai, amore di nonno, vai!» Guduli l’esortò con una voce
Guduli gli sorrise, e gli fece un cenno con la mano: «Vieni, calma.
amore di nonno, vieni». Uča uscì dal cancello.
Uča si mosse a passo lento verso il vecchio, e improvvisa-
mente Guduli s’incantò... A tutta prima pensò che fosse un fal- Guduli stava immobile, appoggiato all’albero, e fissava in-
so allarme, ma dal momento che quella sensazione terrificante cantato la terra. Non pensava a nulla, la sua mente si era inari-
che gli si versava come acqua bollente nel corpo intirizzito non dita del tutto, e vi giaceva sul fondo soltanto un enorme vuoto.
accennava a passare, Guduli capì che era l’inizio della fine. Taceva tutto, intorno. Il villaggio, il bestiame, le piante, anche
«Dio, non farmi questo!» chiese il vecchio a Dio, ma Dio era il cielo e la terra. Guduli seguiva con gli occhi come cadevano
impietoso. Guduli Berežiani avvertiva un umidore agghiac- i frutti dal pero e si spaccavano a contatto con il prato, ma non
ciante all’interno delle cosce. «Uča, figliolo, aiutami!» proruppe ne sentiva il tonfo. Guduli vedeva come fuoriusciva l’acqua
involontariamente e, prima che il ragazzino accorresse, il vec- dal fossato, ma non ne sentiva il gorgoglio. Vedeva come il
chio era caduto su entrambe le ginocchia come un uomo che venticello faceva oscillare i fuscelli di paglia, ma non ne sen-
prega sotto un albero, ed era scoppiato a piangere. tiva il fruscio. Vedeva come la mucca, accostando il cancello e
allungando il collo, lo chiamava, ma non ne udiva il muggito.
99
Avtandil, Tariel e Fridon: cavalieri virtuosi protagonisti del poema
medievale georgiano Il cavaliere con la pelle di tigre di Šota Rustaveli, Vedeva come il gallo Longino, appollaiato sulla staccionata, si
ritenuto il più grande poeta georgiano di tutti i tempi. batteva le forti ali sui fianchi, come spalancava il becco strabuz-
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zando gli occhi, ma non ne sentiva il canto. Ogni cosa animata «Buongiorno, signor Guduli!»
o non animata sembrava morta. C’era solo l’attesa, un’attesa Guduli si riscosse.
che divorava l’anima, continua, infinita, chiusa a pugno, fram- «Che succede, Ksenia?» il vecchio non gradì la visita della
mischiata con il terrore, e conficcata da qualche parte nella madre di Uča. Ora, in quel preciso istante, Guduli aveva biso-
fronte. Appoggiato con una spalla contro l’albero, pietrificato gno come non mai di rimanere da solo.
e con le braccia cascanti, Guduli stesso sembrava un albero, «Uča mi ha detto che forse non si sentiva bene!»
bitorzoluto, vecchio, cavo, verminoso, che sta in piedi ormai «Non è niente, Ksenia mia, ho avuto qualche palpitazione,
da un secolo e non aspetta altro che un uomo con un’accetta. ma ormai mi è passata.»
«Povero te, Guduli Berežiani, povero te!» «Ha bisogno di qualcosa, signor Guduli? Potrei chiamare il
Guduli non si ricordava per quanto tempo fosse rimasto in dottore.»
quella posizione. Riprese coscienza soltanto quando a quell’in- «Niente, Ksenia!»
sieme di attesa e dolore si mescolò una goccia di speranza. “Ci siamo, ora si comincia con: medico, infermiera, ospe-
E il cuore gli ricominciò a battere. La speranza lo raggiunse dale” – qualcosa di simile a una scossa elettrica passò per la
volando da qualche parte e si fece spazio nel nido del cuore,
mente di Guduli.
scostandolo un po’. Quella speranza spalancò la porta a ogni
«Non è che vuole le gocce di valeriana?»
cosa. Guduli sentì per prima cosa il battito del proprio cuore,
«No, Ksenia.»
poi il fruscio della paglia, poi il muggito della mucca, poi il gor-
“La vita è finita. Che vita è quella portata avanti a gocce di
goglio dell’acqua, e infine udì anche il canto del gallo Longino.
valeriana?”
«Eccovi, benedetti!» mormorò Guduli e si mosse timidamen-
«Validol,100 forse?»
te. Si diresse verso casa. Non accadde nulla. Guardò il sole,
«Niente Validol!»
considerevolmente inclinato verso ovest. Non accadde nulla,
«Che faccio allora? Mi dispiace non poterla aiutare.»
né si ripeté alcunché, forse tutto fu un’imprevedibile casuali-
“Lei è la prima. Manca poco e se ne dispiaceranno tutti, ami-
tà... forse neanche accadde nulla...
Guduli si soffermò sui gradini. Poi fece il primo, il secondo, ci e nemici” pensò Guduli.
il terzo, il quarto, e al quinto gradino si fermò di nuovo. E di «Va’, Ksenia, bada alle tue cose, io sono a posto.»
nuovo sprofondò ogni cosa, di nuovo il tempo e lo spazio si «A quanto pare quel disgraziato di mio figlio le ha accennato
fermarono. qualcosa a proposito della morte, come se io mi fossi permes-
“Ha fermato il tempo, quello stregone!” si rammentò della sa di dire qualcosa del genere. Mi dica lei, signor Guduli, e a
frase della madre di Uča e gli venne il sudore freddo. quello lì gli strapperò la lingua!»
Guduli Berežiani avvertì ancora una volta quell’agghiac- «Che discorsi, Ksenia!»
ciante umidore all’interno delle cosce, e si lasciò andare come 100
Validol: nome commerciale con cui era conosciuto in Urss l’Iso-
falciato sui gradini di pietra. valerato di metile, un vasodilatatore, che si poteva avere senza ricetta.
206 207
“Ma quanto parla ’sta donna, non me n’ero mai accorto pri- «Non mi farò scrupolo, Ksenia!»
ma” pensò tra sé Guduli. «Stia bene, allora!»
«Che sia maledetta la bocca a cui l’ha sentita dire, quello «Dio ti benedica!»
sciagurato di mio figlio, una cosa simile.» Ksenia si allontanò. Guduli la seguì con gli occhi. La donna
“Come maledice se stessa, ’sta donna. Ma se so bene che è sta- andava avanti sana, integra, piena, e carica come un albero
ta lei! Uča non mi avrebbe mai detto una bugia” pensò Guduli. da frutto. Mentre Guduli era posato sui gradini di pietra co-
«Non imprecare, donna, torna a casa e bada al lavoro!» il me frutta secca e consegnava l’ultimo sprazzo di freschezza ai
vecchio corrugò la fronte. raggi di un sole calante verso ovest.
«A quanto pare, oggi ha compiuto cent’anni, signor Guduli. Che disgrazia. È appena vede un uomo giovane e in salute
Che Dio le dia la forza e la salute per campare per altri cent’an- che uno vecchio si ricorda della sua decrepitezza e del suo
ni» lo benedì Ksenia. tormento. Finché vede uno che è vecchio e malato, c’è speran-
«Ti ringrazio, Ksenia!» si commosse Guduli. za, c’è conforto, ma la vista di uno giovane e florido suscita
«I suoi non verranno dalla città a trovarla, signor Guduli? solitudine, rimpianto e dispiacere per il tempo e la giovinezza
Un anniversario di cent’anni non è cosa da tutti i giorni.» passati. Eppure dovrebbe essere il contrario. Oggi, mentre te-
«Sì che verranno, Ksenia!» neva Uča stretto al petto, Guduli espresse almeno cento volte
“Un mese, due mesi, tre mesi, dopodiché un malato è inviso un desiderio inconfessato:
a tutti” pensò tra sé Guduli. “Dio, fa’ che io abbia la sua età adesso, e prendi in cambio
«Lei sì che può vantarsi dei suoi figli, signor Guduli! Uno tutto ciò che vuoi.” E ora, guardando Ksenia che si muoveva
sta a Batumi, uno a Poti, un altro a Kutaisi, un altro ancora verso il cancello, pensò la stessa cosa: “Dio, dammi gli anni di
a Tbilisi. Hanno occupato l’intera Georgia come un esercito questa donna in questo momento, e chiedimi pure in cambio
ottomano. E poi, tutti di bell’aspetto, tutti istruiti. E i nipoti, quel che ti pare”. Guduli avvertì come gli si avvamparono le
quanti ne ha, signor Guduli?» guance per la vergogna. Si sentì in colpa, Guduli Berežiani, per
«Quest’anno fanno 23, compresi i figli dei nipoti. Ma a me non aver tenuto conto dei cent’anni che Dio gli aveva concesso.
che ne viene? Per me non c’è nessuno.» Se ne vergognò, ma il desiderio l’espresse comunque.
«È comunque un uomo fortunato, signor Guduli.» Prima che il sole tramontasse, Guduli provò per altre tre
«Certo, lo sono eccome!» volte l’agghiacciante umidore all’interno delle cosce. Allora
“Dio, quando la finirà di parlare ’sta benedetta!” Guduli Berežiani si alzò in piedi, si voltò verso il sole calante e,
«Ora vado e farò venire Uča.» appena quest’ultimo si allineò all’orizzonte, tanto da sembrare
«Non disturbarti, Ksenia. Mi riposo un po’, e poi verrò io a un orcio di terracotta messo sottosopra, s’inchinò e s’inginoc-
trovarvi.» chiò umilmente al suo cospetto.
«Se dovesse avere bisogno di me, non si faccia scrupolo di «Addio, signor sole. Un grande, supremo e altissimo grazie
chiamarmi, come farebbe con sua figlia.» a te!»
208 209
«Per cosa?» si meravigliò il sole. Guduli posò la lampada a petrolio sulla pietra. Tolse con
«Per tutto, signor sole. Anche soltanto per aver illuminato a delicatezza lo strato di argilla al coperchio della giara, le zolle
giorno ogni notte dei miei cent’anni!» le mise da parte, accanto alla zappa. S’inginocchiò davanti alla
«È stato un piacere!» Il sole non gli rinfacciò nulla, e tra- giara e con attenzione, con molta attenzione, alzò il coperchio
montò. di pietra della giara. Fece un vigoroso respiro, la giara da trenta
«Grazie, signor sole, un supremo grazie!» pud, e alitò in faccia a Guduli un forte soffio di un frizzante
Tsolikouri. Guduli inspirò profondamente l’aria che inebriava
Guduli aprì il cancello alla mucca e la condusse alla stal- l’occhio e la mente, e guardò all’interno della giara. Quest’ulti-
la. L’animale si fermò sulla passerella. Guduli ci pensò su un ma gli restituì uno sguardo tentatore. Guduli afferrò il mestolo
attimo, poi buttò la corda per terra, carezzò la mucca con la da vino, lo calò dentro il recipiente, e l’inclinò con un tremolio
mano dal garrese fino alla natica, gli tolse dal muso bavoso della mano. Il mestolo si riempì di vino gloglottando.
un fuscello e le grattò la bella fronte. L’animale lo guardò e si «Benedetti siano il tuo zedaše,101 il tuo fondo, il tuo coperchio,
preparò a dargli il latte. e la vite che ti vivifica, signora mia! Ti sono grato, molto grato!»
«Oggi non ti mungo. Stenditi e riposati. Te ne sono grato in Guduli fece risuonare la voce all’interno della giara, e accostò
ogni caso, signora mia!» le disse Guduli. il mestolo alle labbra.
«Per cosa?» si sorprese la mucca. «Per cosa?» proferì di rimando, tutta sorpresa, la giara.
«Anche solo per avermi dato ogni santo giorno una tazza «Per avermi fatto celebrare con dignità, per cent’anni, ogni
di latte!» occasione di festa o di lutto.»
«È stato un piacere!» gli disse la mucca, e si stese. «È stato un piacere!» disse la giara, e respirò profondamente.
«Grazie, signora mucca, infinite grazie!» «Grazie, signora mia, infinite grazie!»

Guduli andò sul retro della casa e, prima che chiudesse la Guduli sedeva a un tavolo basso e teneva in mano una cop-
porta del pollaio dietro alle galline accoccolate, tirò la cresta al petta piena di vino. La luce sprigionata dalla lampada a pe-
gallo Longino. Quest’ultimo mosse gli occhi grandi quanto le trolio attaccata a un piedritto della balconata gli si riversava
monete da cinque copeche e agitò la cresta. sulla testa come un’aureola. I rivoletti di lacrime stillati dai
«Domani fai il tuo canto all’ora che desideri, signor Longino. suoi occhi gli si ricongiungevano sotto il mento e si versava-
E ora stammi bene. Ti sono grato, molto grato» no a mo’ di libagione sulla pagnotta cotta nella cenere e sulla
«Per cosa?» si meravigliò il gallo Longino. mezza mungitura di formaggio posati sopra il tavolo. Stava
«Anche solo per avermi svegliato ogni santo giorno.» piangendo, Guduli Berežiani.
«È stato un piacere!» gli disse Longino, e si mise a dormire. 101
Zedaše [georg. ზედაშე]: nella tradizione vinicola e religiosa ge-
«Grazie mille, signor Longino, grazie infinite!» orgina, vino consacrato che si faceva fermentare in un’apposita giara,
impiegando il vitigno più pregiato.
210 211
Un’ora prima Guduli si era fatto il giro di tutta la proprietà. proprio valore. Gli disse semplicemente, prima di chiudere gli
Aveva visto che l’aratro era consumato, l’accetta era ridotta alla occhi: «È stato un piacere».
sola testa, il falcetto, dimezzato, la vanga, consumata come una “Gloria a te, natura! Che sollievo sapere che tutto questo
saponetta. Guduli si teneva accanto, sopra il tavolo, un coltello rimane nel mondo e non muore assieme all’uomo” pensò Gu-
da carovaniere, sottile e traslucido come la carta. Povero Gudu- duli tra sé e sé.
li, si è consumato persino il ferro, si è consumato, e figuriamoci E poi Guduli passò a benedire il proprio cuore, la propria
cosa succede all’uomo. mano destra, gli occhi, le orecchie e la mente.
Poteva giurare sulla bontà di quel vino, Guduli, che non era «Vi sono grato, signori miei, molto grato.»
per la vita che si dispiaceva, ma per il tempo, speso a pensare «Per cosa?» gli chiese il cuore, sorpreso.
alla morte. Guduli sapeva di non essere malato, di non avere «Come per cosa?» si meravigliò a sua volta Guduli. «Il fatto
disturbi particolari, semplicemente era finito, Guduli, nient’al- che per cent’anni non sono diventato orbo, non ho perso l’udi-
tro. Si era consumato come quell’aratro, si era ridotto alla sola to, il braccio non mi si è fermato, la mente non mi si è anneb-
testa come l’accetta, si era dimezzato come il falcetto, si era biata, e tu non ti sei arrestato neanche una volta, ti pare poco?»
consumato come la vanga, diventato sottile e traslucido come «È stato un piacere, Guduli, un vero piacere!» gli disse il
quel coltello da carovaniere. cuore, allo stremo delle forze, e si apprestò a riposare.
Guduli quel giorno si era congedato con ogni cosa: con il «Molte grazie, signore mio, infinite grazie!»
cielo e la terra, con la casa e il cortile, con ogni colore e raggio,
con l’albero e l’erba, con il cane e il porco, con tutto. Il tempo A Guduli venne in mente di andare a salutare quel ragaz-
più lungo l’impiegò per salutare il pero, suo coetaneo. zino e sua madre. Avrebbe voluto chiamarla, ma non si ricor-
«Addio, signore mio!» disse Guduli al pero, e lo sfiorò con dava più il nome della donna. “Dio, fammi venire in mente il
la mano. «Sei quello più perfetto e il più benfatto tra di noi, nome della madre di quel bambino! E il bambino com’è che
albero! Hai la radice affondata nel cuore della terra, sulle si chiama? Dio, non fare questo a Guduli Berežiani, non gli
spalle ti si adagia il cielo. Ti ho picchettato cento volte, e annebbiare la mente e la coscienza, rammentagli il nome di
altrettante volte sei germogliato. Hai riparato sotto la tua quel ragazzino...”
ombra tre genezioni della mia discendenza e chissà quan- Era impietoso, Dio, non rammentò a Guduli né il nome del
te altre ne riparerai ancora. Da quanti anni è che dai i tuoi ragazzino, né quello della madre.
frutti, e finora non ti sei fatto attaccare da un solo verme. Allora il vecchio si drizzò in piedi, si aprì tutti i bottoni sul
Fai da dimora e da tempio a una buona metà dei volatili e petto, e si accostò alla balaustra della balconata.
degli uccelli canterini del nostro villaggio. Sei la frescura, il «Ehi, tu, vicina!» chiamò.
polmone e il cuore della mia casa. Te ne sono grato, signore «Che cosa c’è, signor Guduli?»
mio, enormemente grato». «Chi sei tu?»
Il pero non gli chiese il perché, poiché conosceva bene il «Sono io, Ksenia, signor Guduli, non mi riconosce?»
212 213
“Ksenia, Ksenia, Ksenia, è il nome della benedetta donna.” «In effetti, è stata una cosa inaspettata...» riuscii a proferire
«Il bambino è in casa?» qualche parola.
«Intende Uča, signore?» «Altro che inaspettata, una cosa inaudita, signore. Con che
“Uča, Uča, che felicità! Si chiama Uča, quel birbone, Uča!” faccia torno ora a Tbilisi? Come posso spiegare un’enormità
«Ksenia, ora a casa mia sta per succedere qualcosa, e bada a del genere? Si è impuntato a non voler vivere con noi, dicendo
che il ragazzo non si impressioni.» che non poteva abbandonare la tomba della mamma. E poi, la
«Ma che dice, signor Guduli?!» mucca qua, la gallina là... pare fossero chissà cosa una mucca
«Ti scongiuro, non far venire qui il ragazzo, e non consen- pelle e ossa, un gallo spennacchiato, e una casa che cadeva a
tirgli di vedermi finché non arrivano gli uomini del paese.» pezzi... L’anno scorso si è addirittura permesso di dirmi, signo-
«Che intenzioni ha, signor Guduli? Ha voglia di scherzare re mio, che non avrebbe potuto abbandonare Uča.»
per caso? Eppure non l’ha mai fatto finora!» «Ma chi sarebbe questo Uča?» m’informai per educazione.
«Addio, Ksenia. Dio mi è testimone che voglio bene a ognu- «E che ne so... il figlio della vicina. È stato abbandonato per-
no di voi, e che sono grato, infinitamente grato a tutti.» sino dal padre prima ancora di nascere, e lui che si ergeva a
«Ma signor Guduli!» suo paladino... E, in fin dei conti, chi è ’sto Uča Melimonadze?
Guduli tornò dentro casa e si chiuse la porta alle spalle. Ne ho otto di Uča come lui a casa...»
«Guduli, signor Guduli...» «Certo, è un quadro complesso!» convenni, e feci per an-
Echeggiò un colpo di fucile nel cortile dei Berežiani. Il rim- darmene.
bombo fu così forte che tutti i vetri delle finestre del villaggio «Gli fosse mancato qualcosa» Dimitri non mi volle mollare,
si misero a tintinnare. «quest’estate mia moglie gli ha comprato della biancheria in-
vernale a Parigi, i vestiti, gli indumenti non gli mancavano...
Arrivarono da ogni parte a dare l’ultimo saluto a Guduli Chi ha mai avuto l’onore, in questo villaggio, di una simile
Berežiani. Non mancavano i familiari in lutto, tuttavia nessuno sepoltura? La verità è che fu sempre un ingrato, e finì i suoi
versava lacrime particolarmente copiose. Non solo, suo figlio giorni così, da vero ingrato.»
maggiore, Dimitri, invece di stare nelle vicinanze della bara, «Non so come consolarla, signor Dimitri!» mi avvilii.
era fermo sotto il pero a braccia conserte come un Napoleone «Nossignore, nessuno mi può consolare, ma le sono comun-
angustiato per la Waterloo, e ricevava così i partecipanti al que grato perché si è disturbato a venire.»
lutto. «Ma si figuri! Arrivederci!»
«Sono partecipe del vostro profondo dolore, signor Dimitri!» «Ma dove va, favorisca al banchetto funebre, ci onori fino
gli feci le mie condoglianze, tendendogli la mano. alla fine. Mituša, pensaci tu all’ospite.» Dimitri mi mise nelle
«Non può capirlo, signor Nodar, non può capirlo, ci ha sver- mani dell’addetto al vino102 già ubriaco.
gognati tutti, quell’ingrato. Un turco infedele non avrebbe trat-
tato un cristiano come lui ha trattato noi figli.» 102
Georg. მერიქიფე [meriqife]: chi serve il vino a una tavolata georgiana.
214 215
Il signor Dimitri parlava ad alta voce, poiché il funerale si Indice
svolgeva con il sottofondo – a dire il vero a un volume un
tantino alto – del Requiem di Mozart, le cui note si riversavano
da un apparecchio radio appeso all’albero del pero, rendendo
difficile, alla gente che veniva a dare l’estremo saluto a Guduli
Berežiani, scambiare due parole.
Il sole
Finalmente riuscii a liberarmi da quell’ubriaco di Mituša e
5 Il cane
sgattaiolai al cancello senza farmi notare. Nei pressi del can-
cello, seduto a terra ai piedi della staccionata, scorsi un ragaz- 29 Gli zingari
zino dai capelli rossi di circa sette anni. Teneva la testa tra le 43 La corrida
ginocchia e piangeva amaramente.
«Come ti chiami, ragazzino?» gli chiesi, e gli accarezzai la 53 Il sole
testa. 73 Non svegliare
«Mi chiamo Uča, io, Melimonadze!» mi guardò dal basso
99 Diderot
verso l’alto. Poi affondò di nuovo il visino lentigginoso tra le
ginocchia e continuò a piangere. 119 Astvats! Inču hamar!
«Cresci sano e forte, ragazzo!» lo benedii e uscii dal cancello. 141 Il sangue
Quando mi voltai indietro, notai che in quel momento Dimitri
155 Hellados
stava parlando con qualche altro malcapitato. Tuttavia, a causa
dell’apparecchio radio che riproduceva il Requiem di Mozart 181 Chazarula
a un volume un tantino alto, non riuscii a cogliere una sola 195 L’ingrato
parola di quello che diceva.

216
Contemporanea

ultimi volumi pubblicati:

155. Giuseppe Carfagno, La Masseria delle ginestre


156. Bruno Cobianchi, Se ci sarà tempo
157. Bruno Ferrari, Ancora qui
158. Paolo Parrini, Oltre il buio della notte
159. Luciana Benotto, Sofonisba
160. Gaetano Giuseppe Magro, Assenza di segnale
161. Giacomo A. Graziani, La corteccia del mondo. Poesie
162. AA.VV., Incontri d’amore
163. Tiziano Rossi, Piccola orchestra. Antifavole e dicerìe
164. Enzo Lamartora, Disamore. Poesie 2016-2017
165. Çlirim Muça, 2084
166. Francesca Silvia Loiacono, Appena nata
167. Giorgio Cesati Cassin, Uno scrittore e un libertino a Bordighera
168. Maria Grazia Palazzo, Toto corde
169. Paola Cremonese, Trottola azzurra
170. Roberto Sanfilippo, L’acqua e la sete
171. Giuseppe Farinelli, Il vecchio e la Tatù
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posso. Atto unico in tre scene
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185. Luciana Benotto, Sofonisba alla corte del re. Intrigo spagnolo
187. Alexandra Cenni, Spuma d’onde e scogliera di stelle. Poesie
Questa edizione del libro
Il sole
di Nodar Dumbadze
è stata stampata su carta che non contribuisce
alla distruzione delle foreste primarie
da Tempo Libro Srl
in Milano

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