Sei sulla pagina 1di 146

FËDOR DOSTOEVSKIJ

Memorie dal sottosuolo

traduzione e cura di
Serena Prina

NERI POZZA EDITORE


Titolo originale:
3anucкu uз noдnoлbя
Zapiski iz podpol’ja

© 2021 Neri Pozza Editore, Vicenza

ISBN 978-88-545-2320-3
Il nostro indirizzo internet è: www.neripozza.it
I.
Il sottosuolo*

Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo nient’affatto


attraente. Credo di essere malato di fegato. D’altronde non ne so un
accidente della mia malattia e per certo non so che cosa mi faccia male.
Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i
dottori. Per di più sono pure superstizioso al massimo grado; be’, comunque
non tanto da non rispettare la medicina. (Sono abbastanza istruito da non
essere superstizioso, eppure sono superstizioso.) Nossignori, è per cattiveria
che non mi voglio curare. Ecco, questo, certo, non vi compiacerete di
capirlo. E invece io lo capisco. Io, s’intende, non sono in grado di spiegarvi
a chi precisamente in questo caso giocherò un brutto tiro con la mia
cattiveria; so perfettamente che anche ai dottori non posso in alcun modo
“nuocere” con il mio non curarmi; meglio di chicchessia so che in tal modo
danneggerò me soltanto, e nessun altro. Ma comunque, se non mi curo,
ecco che lo faccio con cattiveria. Il fegatuccio fa male, e lasciamo che ne
faccia ancora di più!
È ormai parecchio che vivo a questo modo, una ventina d’anni. Adesso
di anni ne ho quaranta. In precedenza prestavo servizio, mentre adesso non
lo faccio più. Ero un impiegato cattivo1. Ero maleducato, e provavo piacere
nell’esserlo. Mica prendevo bustarelle, e dunque con qualcosa dovevo ben
gratificarmi. (Pessima battuta; ma non la cancellerò. L’ho scritta pensando
che sarebbe stata molto arguta; e adesso che ho visto io stesso che volevo
soltanto pavoneggiarmi vigliaccamente, a bella posta non la cancellerò!)
Quando capitava che dei postulanti s’accostassero per avere informazioni
alla scrivania alla quale sedevo, digrignavo i denti e provavo un godimento
insaziabile se mi riusciva di affliggere qualcuno. Il che quasi sempre mi
riusciva. Per la maggior parte si trattava di un popolo timoroso: si sa, erano
postulanti. Ma tra quelli spavaldi c’era un certo ufficiale che in particolare
non potevo sopportare. Non voleva in alcun modo assoggettarsi e faceva un
rumore abominevole con la sciabola. Con lui per un anno e mezzo avevo
sostenuto una vera guerra proprio per quella sciabola. Alla fine avevo avuto
la meglio. Smise di fare rumore. D’altronde ciò accadde ancora all’epoca
della mia giovinezza. Ma sapete, signori, in cosa consisteva il punto
principale della mia cattiveria? Il tutto consisteva in questo, e in questo si
racchiudeva il massimo dello schifo: nel fatto che io ogni momento, persino
nel momento stesso della bile più violenta, vergognosamente ero tra me e
me consapevole di non essere affatto un uomo cattivo, e nemmeno
incattivito, ma soltanto uno che si limitava a fare paura senza una ragione ai
passeri, e che in ciò trovava un diletto. Ho la schiuma alla bocca, ma basta
che mi si porti una qualche bambolina, che mi venga data una tazzina di tè
con un pezzetto di zucchero, e io mi calmo. Mi si sdilinquisce persino
l’anima, anche se poi, è certo, digrignerò i denti contro di me e per la
vergogna soffrirò d’insonnia per alcuni mesi. È proprio così che sono fatto
io.
Poco fa ho mentito a mio riguardo dicendo che ero un impiegato cattivo.
Ho mentito con cattiveria. Facevo semplicemente delle monellerie, tanto coi
postulanti che coll’ufficiale, ma in sostanza non riuscivo mai a essere
davvero cattivo. Ogni momento ero consapevole di come in me ci fossero
moltissimi elementi in contraddizione con tale condizione. Sentivo che
s’affollavano in me, quegli elementi in contraddizione. Sapevo che per tutta
la vita s’erano affollati in me, e che da me chiedevano di uscire all’esterno,
ma io non li lasciavo, non li lasciavo, a bella posta non li lasciavo uscire
fuori. Mi tormentavano fino alla vergogna; mi conducevano al limite delle
convulsioni e… alla fine m’erano venuti a noia, come m’erano venuti a
noia! Ma non vi sembra forse, signori, che adesso dinanzi a voi mi stia
pentendo, che in qualche modo vi stia chiedendo perdono? Sono convinto
che è così che vi sembra… E, d’altronde, v’assicuro che mi è del tutto
indifferente anche se questa è la vostra impressione…
Non soltanto non ero capace di diventare cattivo, ma in seguito non
sono stato capace di essere niente: né cattivo né buono, né una canaglia né
un uomo d’onore, né un eroe né un insetto. Adesso vivacchio nel mio
angoletto, stuzzicandomi con la maligna e del tutto inutile consolazione
che, comunque sia, un uomo intelligente non può seriamente diventare
alcunché, e che solo uno sciocco può diventare qualcosa. Sissignore,
l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente tenuto
a essere una creatura principalmente priva di carattere; invece una persona
di carattere, uno che agisce, è una creatura principalmente limitata. È una
convinzione che ho da quarant’anni. Adesso di anni ne ho quaranta, e
quarant’anni sono tutta una vita; quindi questa è la più profonda vecchiaia.
Oltre i quarant’anni non è dignitoso vivere, è volgare, immorale! Chi vive
più di quarant’anni? Rispondete sinceramente, in tutta onestà. Ve lo dico io
chi lo fa: lo fanno gli sciocchi e i mascalzoni. Questo lo dirò sul muso a tutti
i vecchi, a tutti quei vecchi rispettabili, a tutti quei vecchi profumati e dalle
chiome canute! Lo dirò sul muso al mondo intero! Ho il diritto di parlare
così perché io stesso arriverò a vivere fino a sessant’anni. Arriverò a vivere
fino a settanta! Sì, vivrò fino a ottanta!… Aspettate! Lasciatemi tirare il
fiato…
Di certo state pensando, signori, che vi voglia far ridere? Vi sbagliate
anche in questo. Non sono affatto quel genere di buontempone che pensate,
o che forse potete pensare che io sia; d’altronde, se voi, irritati da tutte
queste chiacchiere (e già lo sento che siete irritati) intendete chiedermi chi
io sia precisamente, allora vi risponderò: sono un assessore di collegio2. Ho
prestato servizio per avere di che mettere sotto i denti (ma unicamente per
questo), e quando l’anno scorso uno dei miei lontani parenti mi ha lasciato
seimila rubli nel suo testamento spirituale, subito me ne sono andato a
riposo e mi sono stabilito nel mio angolo. Anche in precedenza vivevo in
quest’angolo, ma adesso mi ci sono stabilito. La mia stanza è brutta,
orrenda, al limitare della città. La mia serva è una baba3 di campagna,
vecchia, cattiva per stupidità, e per di più emana sempre un cattivo odore.
Mi dicono che il clima pietroburghese sta diventando nocivo alla mia salute
e che con i miei mezzi insignificanti è molto caro vivere a Pietroburgo.
Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi consiglieri esperti e così
saggi, e di tutti questi signori che scrollano il capo. Ma io resterò a
Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! E non me ne andrò perché…
Eh! Ma comunque è del tutto la stessa cosa, che me ne vada o no.
E, d’altronde: di cosa può parlare una persona per bene traendone il
massimo piacere?
Risposta: di sé. E così anch’io parlerò di me.
____________
*
Tanto l’autore delle memorie che le Memorie stesse sono, s’intende, fittizi. Ciò nondimeno
personaggi come colui che ha scritto queste memorie, non solo possono ma devono persino esistere
nella nostra società, prendendo in considerazione le circostanze nelle quali in generale la nostra
società s’è andata formando. Volevo portare all’attenzione del pubblico in un modo più evidente del
solito uno dei personaggi del tempo appena trascorso. Si tratta di uno dei rappresentanti di una
generazione ancora vivente. Nel frammento intitolato Il sottosuolo questo personaggio presenta se
stesso, la propria opinione ed è come se volesse chiarire quelle cause per cui s’è manifestato e doveva
manifestarsi nel nostro ambiente. Nel frammento successivo ci saranno invece le vere “memorie” di
questo personaggio a proposito di alcuni avvenimenti della sua vita.
Fëdor Dostoevskij
II.

Adesso mi vien voglia di raccontarvi, signori, che vi vada o meno di starlo a


sentire, del perché non sono stato in grado di diventare nemmeno un insetto.
Vi dirò solennemente che molte volte avevo voluto diventare un insetto. Ma
addirittura nemmeno di questo sono stato ritenuto degno. Vi giuro, signori,
che l’avere una coscienza troppo viva è una malattia, un’autentica,
completa malattia. Per la vita quotidiana dell’uomo sarebbe più che
sufficiente una normale coscienza umana, ovvero la metà, anche un quarto
di meno di quella porzione che tocca in sorte all’uomo evoluto del nostro
infelice diciannovesimo secolo, e soprattutto a quello che ha l’eccezionale
sfortuna di abitare a Pietroburgo, la città più astratta e premeditata di tutto il
globo terrestre. (Ci sono città premeditate e non premeditate.) Sarebbe del
tutto sufficiente, per esempio, quella quantità di coscienza della quale
vivono tutti i cosiddetti uomini spontanei e quelli d’azione. Sono pronto a
scommettere che state pensando che scrivo tutto ciò per fare una bravata,
per fare lo spiritoso riguardo agli uomini d’azione, e che sempre per fare
una bravata di cattivo gusto faccio rumore con la sciabola, proprio come il
mio ufficiale. Ma, signori, chi mai può vantarsi delle proprie malattie, e per
di più pavoneggiarsene?
D’altronde, che sto dicendo? Lo fanno tutti; ci si vanta delle proprie
malattie, e io, forse, lo faccio più di chiunque altro. Non staremo qui a
discutere; la mia obiezione è assurda. Ma comunque sono profondamente
convinto che non solo una coscienza troppo viva, ma persino una qualsiasi
forma di coscienza sia una malattia. Su questo punto insisto. Ma mettiamo
ora da parte quest’argomento. Ditemi piuttosto una cosa: perché capitava
che, come a farlo apposta, in quegli stessi, sì, proprio in quegli stessi
momenti nei quali ero maggiormente in grado di essere cosciente di tutte le
sfumature “del bello e del sublime”4, come si diceva da noi a quell’epoca, a
me accadeva non solo di non essere cosciente di niente, ma di commettere
degli atti così squallidi, tali che… be’, sì, in poche parole, degli atti che, in
poche parole, forse tutti quanti commettono, ma che, neanche a farlo
apposta, a me venivano in mente proprio allora, quando ero maggiormente
cosciente che non li si dovesse affatto commettere? Più ero cosciente del
bene e di tutto quel “bello e sublime”, più profondamente mi calavo nella
mia fanghiglia, e più ero capace di impantanarmici dentro. Ma il tratto
principale stava nel fatto che tutto ciò non pareva accadere in me per caso,
bensì proprio come se così dovesse essere. Come se quella fosse la mia
condizione più normale, e nient’affatto una malattia e una forma di
perversione, di modo che, alla fine, mi passò persino la voglia di lottare
contro tale perversione. Andò a finire che ci mancò poco credessi (e forse
davvero ci credetti) che quella potesse essere la mia condizione normale. E
inizialmente, in un primo momento, quanti tormenti dovetti patire in quella
lotta! Non credevo che così capitasse anche agli altri, e per questo per tutta
la vita avevo celato dentro di me questo segreto. Mi vergognavo (forse
persino adesso ancora mi vergogno); ero arrivato al punto di provare un
qualche piacerucolo segreto, anormale, vile se capitava di tornarmene a
casa nel mio angolo, in una qualche ripugnante notte pietroburghese, e
prendere con forza coscienza che proprio quel giorno avevo di nuovo
compiuto una porcheria, che quello che era stato fatto non si poteva disfare,
e interiormente, in segreto, rodere, rodermi con i miei stessi denti per questo
e struggermi al punto che l’amarezza, alla fine, si tramutava in una qualche
infame, maledetta dolcezza e, alla fine, in una decisa, vera e propria voluttà!
Sì, in una voluttà, in una voluttà! Su questo punto insisto. Proprio per
questo avevo cominciato a dire che continuo a voler senz’altro sapere se
anche per gli altri esistono simili voluttà. Vi spiegherò: la voluttà veniva
precisamente da una coscienza troppo chiara della mia umiliazione; dal
fatto che sentivo da solo di aver toccato il fondo; che, per quanto la cosa
fosse brutta, non poteva essere altrimenti; che non c’erano vie d’uscita, che
ormai non ce l’avrei mai fatta a diventare un altro uomo; che persino se
fossero rimasti ancora tempo e fede per diventare qualcosa di diverso, forse
io stesso non avrei voluto cambiare; e anche se ne avessi avuto voglia, non
avrei comunque fatto nulla, perché in effetti, forse, non c’era nulla in cui
trasformarsi. Ma la cosa principale – e la fine delle fini – era che tutto ciò si
verificava secondo le leggi normali e fondamentali di una coscienza
accresciuta e secondo l’inerzia emanata direttamente da quelle leggi, e di
conseguenza lì non solo non era possibile cambiare, ma non era
semplicemente possibile fare alcunché. Da questa coscienza accresciuta, per
esempio, ne consegue che sì, sei una canaglia – come se per una canaglia
fosse una consolazione il sapere di essere davvero tale. Ma basta così… Eh,
ne ho dette di cose, ma che cosa ho spiegato?… In che modo si spiega la
faccenda della voluttà? Ma la spiegherò! Comunque sia, ne verrò a capo! È
proprio per questo che ho impugnato la penna…
Io, per esempio, sono terribilmente permaloso. Sono vendicativo e
suscettibile, come un gobbo o come un nano ma, in verità, mi sono capitati
certi momenti in cui, se qualcuno m’avesse appioppato uno schiaffo, io,
forse, ne sarei stato persino lieto. Sto parlando seriamente: di certo anche
allora sarei riuscito a provare un qualche genere di voluttà, s’intende una
voluttà della disperazione, ma anche nella disperazione capitano le voluttà
più ardenti, in particolare quando già con grande forza si è coscienti di
trovarsi in una situazione senza alcuna via d’uscita. E quindi, nel caso dello
schiaffo, ci si sente schiacciati dalla coscienza di come ti abbiano affondato
nel fango. La cosa principale, comunque, è che per quanto la si rigiri, risulta
sempre che io per primo sia colpevole di tutto e, il che è ancor più
offensivo, colpevole senza colpa e, per così dire, secondo le leggi della
natura. Colpevole, in primo luogo, perché sono più intelligente di tutti
quelli che mi circondano. (Costantemente mi sono considerato più
intelligente di tutti quelli che mi circondavano e a volte, dovete credermi,
persino di questo mi sono vergognato. Per lo meno per tutta la vita ho
sempre guardato gli altri di traverso e non sono mai stato in grado di
guardare la gente dritto negli occhi.) Colpevole perché, per concludere, se
anche in me ci fosse stata della magnanimità, non m’avrebbe portato altro
che ulteriori tormenti per via della coscienza di tutta la sua inutilità. Io,
certo, non avrei saputo che farmene della mia magnanimità: né avrei saputo
perdonare, perché l’offensore, forse, mi aveva colpito seguendo le leggi
della natura, e le leggi della natura non possono essere perdonate; né avrei
saputo dimenticare, perché, anche se si tratta di leggi della natura,
comunque mi sarei sentito offeso. Per concludere, se anche avessi persino
voluto essere del tutto privo di magnanimità, ma al contrario avessi
desiderato vendicarmi dell’offensore, non sarei stato in grado di vendicarmi
di nulla con nessuno perché, di certo, non mi sarei deciso a fare alcunché,
nemmeno se avessi potuto. Perché non mi sarei deciso? A questo proposito
avrei proprio voglia di dire due parole.
III.

Ma com’è che vanno le cose, per esempio, con quelli che sanno vendicarsi
e, in generale, si sanno difendere? Vengono presi, mettiamo, da un
sentimento di vendetta, di modo che in tutto il loro essere in quel periodo
non esiste più null’altro che, appunto, quel sentimento. Un signore del
genere va dritto al suo scopo, come un toro inferocito, dopo aver abbassato
le corna, e forse soltanto un muro lo può fermare. (A proposito: davanti a
un muro i signori del genere, ovvero gli uomini spontanei e quelli d’azione,
si danno sinceramente per vinti. Per loro il muro non costituisce una
deviazione, come per esempio per noi, persone che pensano e che,
conseguentemente, non fanno nulla; non è un pretesto per lasciare la strada
intrapresa, un pretesto nel quale chi è nostro fratello di solito non crede
nemmeno lui, ma del quale è sempre molto lieto. No, si danno per vinti in
tutta sincerità. Per loro il muro possiede qualcosa di tranquillizzante, di
moralmente risolutivo e definitivo, persino qualcosa di mistico… Ma di
questo muro se ne parlerà in seguito.) Be’, un simile uomo spontaneo io lo
considero un uomo autentico, normale, quale lo voleva vedere la più tenera
delle madri – la natura, che amorevole l’ha generato su questa terra. Un
simile uomo io l’invidio fino alla bile più estrema. È sciocco, di questo non
discuto con voi ma, forse, l’uomo normale deve essere sciocco, che ne
sapete, voialtri? Forse ciò è persino molto bello. E sono tanto più convinto
di questo, per così dire, sospetto, che se, per esempio, si prende l’antitesi
dell’uomo normale, ovvero un uomo fortemente cosciente, uscito, certo,
non dal grembo della natura, ma dalla storta di un alambicco (si tratta già
quasi di misticismo, signori, ma io sospetto anche di questo), allora
quest’uomo della storta a tal punto si dà per vinto al cospetto della propria
antitesi, che egli stesso, con tutta la sua coscienza accresciuta, in tutta
onestà arriva a considerarsi un topo, e non un uomo. D’accordo, un topo
dalla coscienza accresciuta, ma pur sempre un topo, mentre lì c’è un uomo,
e di conseguenza… e così via. E, soprattutto, è lui stesso, lui stesso che si
considera un topo; nessuno glielo ha chiesto; e questo è un punto
importante. Esaminiamo adesso questo topo in azione. Mettiamo, per
esempio, che anche lui sia stato offeso (e quasi sempre è stato offeso), e che
anche lui desideri vendicarsi. In lui s’è accumulata forse ancor più cattiveria
che nell’homme de la nature et de la vérité5. Il piccolo desiderio ripugnante
e vile di ripagare l’offensore con lo stesso male, forse, lo roderà in modo
ancora più ripugnante di quanto non faccia nell’homme de la nature et de la
vérité, perché l’homme de la nature et de la vérité, per sua innata stupidità,
considera la propria vendetta una semplice questione di giustizia; e il topo,
come conseguenza della sua coscienza accresciuta, nega che qui possa
trattarsi di giustizia. Si giunge finalmente alla questione stessa, all’atto
stesso della vendetta. Il topo sventurato, oltre alla propria abiezione
originaria, ha già fatto in tempo a costruirsi attorno una difesa, in forma di
questioni e dubbi, fatta di altre abiezioni; a una prima questione ne avrà
ricondotte così tante altre irrisolte, che senza volerlo attorno gli si
ammasserà una sorta di fatale brodaglia, una sorta di fetida fanghiglia,
costituita dai suoi dubbi, dalle inquietudini e, per finire, dagli sputi,
versatigli addosso dagli uomini spontanei, da coloro che agiscono, che gli
stanno solennemente attorno in veste di giudici e di dittatori e che ridono di
lui con tutta la forza delle loro gole sane. S’intende che al topo non resterà
che tentare di proteggersi con la zampetta e, con un sorriso di affettato
disprezzo, al quale nemmeno lui stesso crede, se ne sguscerà vergognoso
verso il suo buchetto. Lì, nel suo infame, fetido sottosuolo il nostro topo
offeso, battuto e deriso, senza indugio sprofonderà nella sua cattiveria
fredda, velenosa e, soprattutto, sempiterna. Per quarant’anni di fila ricorderà
fin nei minimi, nei più vergognosi dettagli, la propria offesa, e nel farlo,
ogni volta, aggiungerà altri dettagli ancora più vergognosi, con malanimo
punzecchiandosi e irritandosi con la propria fantasia. Si vergognerà lui
stesso della propria fantasia, ma comunque ricorderà tutto quanto, tutto
quanto ripasserà nella memoria, s’inventerà cose fantastiche su di sé, col
pretesto che potrebbero anch’esse accadere, e non perdonerà nulla. Anzi,
potrà persino cominciare a vendicarsi, ma in qualche modo, a pezzi e
bocconi, a piccole dosi, da dietro la stufa, in incognito, senza credere né al
proprio diritto di vendicarsi, né al successo della propria vendetta, e
sapendo in anticipo che per tutti i suoi tentativi di vendicarsi sarà lui a
soffrirne cento volte di più di colui del quale si vendica, e che quello, forse,
nemmeno se ne avrà ad accorgere. Sul letto di morte di nuovo ricorderà
ogni cosa, con gli interessi accumulati in tutto quel tempo e… Ma ecco che
proprio in questa fredda, abominevole mezza disperazione, mezza fede, in
questo cosciente seppellimento di sé da vivo, per il dolore, nel sottosuolo
per quarant’anni, in questa mancanza di vie d’uscita della propria posizione,
costituita a forza e comunque in parte dubbia, in tutto questo veleno di
desideri insoddisfatti, e penetrati all’interno, in tutta questa febbre di
esitazioni, di decisioni prese per sempre e di pentimenti sopraggiunti un
attimo dopo – proprio in ciò si racchiude il succo di quella strana voluttà
della quale parlavo. Essa è a tal punto sottile, a tal punto a volte si sottrae
alla coscienza, che le persone un poco limitate o persino semplicemente le
persone con i nervi saldi non riescono a capirvi alcunché. «Forse anche
quelli che non hanno mai preso degli schiaffi non ci capiranno nulla»
aggiungerete voi, facendo un ampio sorriso, e in tal modo cortesemente
alluderete al fatto che in vita mia ho forse anch’io sperimentato lo schiaffo,
ed è per questo che ne parlo da esperto. Sono pronto a scommettere che lo
state pensando. Ma tranquillizzatevi, signori, non ho mai ricevuto uno
schiaffo, v’assicuro che mi è del tutto indifferente anche se questa è la
vostra impressione. Forse mi rammarico persino di averne distribuiti pochi,
di schiaffi, in vita mia. Ma basta così, non una parola di più su questo tema
di straordinario interesse per voi.
Continuo tranquillamente a parlare delle persone dai nervi saldi, che
non comprendono la nota raffinatezza della voluttà. Questi signori in alcuni
casi, per esempio, anche se mugghiano come tori, a tutta gola, anche se ciò,
mettiamo pure, porta loro un sommo onore, cionondimeno, come ho già
detto, una volta messi di fronte all’impossibilità subito si placano.
L’impossibilità: sarebbe come dire un muro di pietra. Quale muro di pietra?
Be’, s’intende, le leggi della natura, le deduzioni delle scienze naturali, la
matematica. Perché, quando t’avranno dimostrato, tanto per fare un
esempio, che discendi dalla scimmia, non avrai certo motivo di storcere il
naso, lo dovrai prendere per quello che è6. Perché, quando ti avranno
dimostrato che, in sostanza, una gocciolina del tuo proprio grasso ti deve
essere più cara di centomila dei tuoi simili e che in questo risultato si
risolvono alla fine tutte le cosiddette virtù e doveri e simili spropositi e
pregiudizi, allo stesso modo lo devi accettare, c’è poco da fare, perché due
per due – è matematica. Provatevi a contraddirla.
«Fateci la grazia» vi grideranno, «impossibile ribellarsi a ciò: due per
due fa quattro! La natura non sta mica a chiederlo a voi; non ha niente a che
fare coi vostri desideri e col fatto che a voi piacciano o meno le sue leggi.
Siete obbligato a prenderla così com’è, e di conseguenza, ad accettare anche
tutti i suoi risultati. Il muro significa che c’è un muro… e così via, e così
via». Signore Iddio, che me ne importa delle leggi della natura e
dell’aritmetica quando a me per qualche motivo queste leggi e il due per
due fa quattro non piacciono? S’intende che non mi metterò a rompere quel
muro a testate se in effetti non avrò le forze per farlo, ma nemmeno mi
riconcilierò con esso per il solo motivo che mi ritrovo davanti un muro di
pietra e che non ho forze sufficienti.
Come se un simile muro di pietra rappresentasse davvero una forma di
acquietamento e davvero racchiudesse in sé una parola di pace unicamente
perché è un due per due che fa quattro. Oh, assurdità delle assurdità! Meglio
allora capire tutto, di tutto avere coscienza, di tutte le impossibilità e di tutti
i muri di pietra; non riconciliarsi con nessuna di queste impossibilità e
nessuno di questi muri di pietra, se vi ripugna il farlo; seguire il percorso
delle più ineluttabili combinazioni logiche fino alle conclusioni più
ributtanti sull’eterno tema che persino riguardo al muro di pietra, in qualche
modo, è come se il colpevole fossi sempre tu, anche se di nuovo è più che
lampante che non lo sei affatto, e come conseguenza di ciò, digrignando i
denti in silenzio e impotente, voluttuosamente immobilizzarsi nell’inerzia,
sognando che, visto come stanno le cose, non hai nemmeno nessuno col
quale infuriarti; che non si trova un oggetto, e che mai si troverà; che qui si
cambiano le carte in tavola, si bara, si imbroglia; che è solo una brodaglia,
che non si sa cosa e non si sa chi ma, nonostante tutto questo tuo non sapere
e tutti questi imbrogli, tu comunque soffri, e tanto meno sai, tanto maggiore
è la sofferenza!
IV.

«Ah, ah, ah! Ma dopo una cosa del genere cercherete qualche voluttà anche
nel mal di denti!» esclamerete voi con una risata.
«E allora? Anche nel mal di denti c’è voluttà» risponderò. «Mi hanno
fatto male i denti per un mese intero; so di cosa stiamo parlando. In questo
caso, certo, non c’è da infuriarsi in silenzio, qui si geme; ma non si tratta di
lamenti sinceri, sono lamenti con una certa dose di malignità, e proprio
nella malignità sta il punto. In questi lamenti s’esprime anche la voluttà del
sofferente; se non vi avvertisse della voluttà non si metterebbe neppure a
gemere. È un buon esempio, signori, e intendo svilupparlo. In questi
lamenti s’esprime, in primo luogo, tutta la vanità umiliante per la nostra
coscienza della vostra sofferenza; tutta la legittimità della natura, sulla
quale, s’intende, voi sputate, ma per via della quale comunque patite,
mentre lei no. S’esprime la piena coscienza che un nemico non ce l’avete,
ma che avete la sofferenza; la coscienza che voi, pur con tutti i possibili
Wagenheim7, siete completamente schiavi dei vostri denti; che, se qualcuno
lo volesse, i vostri denti smetterebbero di farvi male, ma non vuole, così che
faranno male per altri tre mesi; e che, per finire, se continuerete ancora a
non essere d’accordo e comunque protesterete, per la vostra consolazione
non vi resterà che fustigarvi da soli, o colpire fino a farvi ancora più male il
vostro muro con un pugno, e decisamente null’altro. Be’, proprio da queste
offese sanguinose, proprio da queste derisioni fatte non si sa da chi, avrà
alla fine inizio la voluttà, che a volte può arrivare fino alla massima
lascivia. Io vi chiedo, signori, d’ascoltare qualche volta anche i lamenti di
un uomo istruito del diciannovesimo secolo che soffre di mal di denti, e
proprio il secondo o terzo giorno di malattia, quando ormai comincia a non
gemere come gemeva il primo giorno, ovvero non semplicemente per il
fatto che gli fanno male i denti; non come geme un qualsiasi rozzo mužik8,
ma un uomo toccato dal progresso e dalla civilizzazione europea, un uomo
«che s’è staccato dal suolo e dai princìpi del popolo»9, come oggi ci
s’esprime. I suoi lamenti diventano brutti, schifosamente cattivi e si
protraggono per giorni e notti intere. E d’altronde sa già da solo che non
troverà alcun sollievo in quei lamenti; meglio di tutti gli altri sa che
inutilmente strapazza e infastidisce sé e gli altri; sa che persino anche il
pubblico al cui cospetto si sta dando così da fare, e tutta la sua famiglia
ormai gli porgono orecchio con ripugnanza, non gli credono affatto e dentro
di loro capiscono che potrebbe gemere in un altro modo, più semplice,
senza gorgheggi e senza fronzoli, e che lui schiamazza solo così, per
cattiveria, per malignità. Ma ecco che proprio in tutte queste
consapevolezze e in queste infamie è racchiusa la voluttà. «Già, io vi
disturbo, vi squarcio il cuore, non faccio chiudere occhio a nessuno in casa.
Così che non dormite, sentite anche voi ogni momento che mi fanno male i
denti. Adesso per voi non sono certo l’eroe che in precedenza volevo
apparirvi, ma solo un cattivo omiciattolo, uno chenapan10. E che sia così!
Sono molto contento che mi abbiate beccato. Vi ripugna sentire i miei
lamenti vigliacchetti? Che vi ripugni pure; ecco che vi farò un gorgheggio
ancora più ripugnante…» Non capite nemmeno adesso, signori? No,
evidentemente occorre arrivare al pieno e profondo sviluppo della coscienza
per comprendere tutti i meandri di questa voluttà! Ridete? Ne sono molto
lieto. I miei scherzi, signori, sono di cattivo gusto, instabili, sconnessi, pieni
di diffidenza nei propri confronti. Ma questo perché io stesso non ho
rispetto di me. Forse che un uomo che ha coscienza di sé può in qualche
modo nutrire rispetto nei propri confronti?
V.

È forse possibile, può forse nutrire anche una minima forma di rispetto nei
propri confronti un uomo che persino nel sentimento stesso della propria
umiliazione ha tentato di cercare della voluttà? Non sto adesso parlando per
un’artificiosa forma di pentimento. E poi in generale non posso sopportare
di dire: «Scusate, paparino, non lo farò più», non perché non sia capace di
dirlo, ma al contrario, forse, proprio perché ne sono stato fin troppo capace,
altroché! Capitava che come a bella posta mi andassi a ficcare in situazioni
del genere, quando io stesso non ero colpevole d’aver pensato o sognato
nulla di nulla. Era proprio questa la cosa più ripugnante. Nel farlo di nuovo
mi s’inteneriva il cuore, mi pentivo, spargevo lacrime e, certo, mi facevo
fesso da solo, anche se non stavo affatto fingendo. Il mio cuore già allora
era in qualche modo insudiciato… Lì non si poteva nemmeno dare la colpa
alle leggi della natura, anche se le leggi della natura mi hanno offeso per
tutta la vita in modo costante, e più di ogni altra cosa. È ripugnante
rammentare tutto ciò, e anche allora lo era. Poiché dopo un minuto con
rabbia già mi capitava di immaginare che tutto quello non fosse che
menzogna, menzogna, una menzogna disgustosa e finta, intendo dire tutti
quei pentimenti, tutte quelle umiliazioni, tutte quelle promesse di rinascita.
Ma chiedetemi per cosa io mi storpiassi e mi tormentassi a quel modo. La
risposta: per il fatto che era molto noioso starsene seduti con le mani in
mano; ed ecco che mi abbandonavo a quel genere di fronzoli. Davvero, è
così. Osservatevi con più attenzione, signori, e allora capirete che è così.
M’inventavo delle avventure e mi creavo la vita, per vivere almeno un po’,
in qualche maniera. Quante volte m’è capitato, be’, ecco, per esempio,
d’offendermi così, per nulla, a bella posta; e intanto lo sai da te che ti sei
offeso per nulla, che è tutta una posa, ma sei comunque arrivato al punto
che alla fine, davvero, in effetti ti sei offeso. A me per tutta la vita in
qualche modo è sempre piaciuto giocare tiri del genere, al punto che verso
la fine ho addirittura perso il potere su me stesso. Una volta mi volevo
innamorare per forza. M’è capitato persino due volte. Ne ho sofferto,
signori, ve l’assicuro. Nel profondo dell’anima non si crede di stare
soffrendo, la derisione serpeggia, e invece comunque soffri, e in modo
persino vero, autentico; sei preda della gelosia, sei fuori di te… E tutto
questo per noia, signori, tutto viene dalla noia; l’inerzia mi soffocava.
D’altronde il diretto, legittimo, naturale frutto della coscienza è l’inerzia,
ovvero il cosciente starsene seduto con le mani in mano. Di questo ho già
parlato in precedenza. Lo ripeto, lo ripeto con forza: tutti gli uomini
spontanei e quelli d’azione sono d’azione proprio perché sono ottusi e
limitati. Come spiegarlo? Ecco come: a seguito della propria limitatezza,
scambiano le cause più prossime e secondarie per le principali, e in tal
modo più in fretta e più facilmente degli altri si convincono di aver trovato
il fondamento immutabile del proprio agire, e allora in qualche modo si
placano; e questa è la cosa più importante. Giacché per cominciare ad agire
occorre che si sia del tutto preventivamente tranquilli, e che non sia rimasto
alcun dubbio. Ma come faccio, io, a tranquillizzarmi? Dove vado a trovare
le cause primarie sulle quali poggiarmi, dove sono le fondamenta? Dove le
vado a prendere? Mi impegno a riflettere, e di conseguenza per me qualsiasi
causa primaria subito se ne trascina dietro un’altra, ancora più primaria, e
così via, all’infinito. Tale è precisamente l’essenza di qualsiasi coscienza e
riflessione. Dunque anche qui si tratta di leggi della natura. E alla fine qual
è mai il risultato? Sempre lo stesso. Rammentate: poco fa parlavo di
vendetta. (Voi, probabilmente, non ci avete fatto caso.) È stato detto:
l’uomo si vendica perché nella vendetta trova una forma di giustizia.
Significa che ha trovato la causa primaria, ha trovato il fondamento, e
precisamente: la giustizia. Dunque, è tranquillo su tutti i fronti, e di
conseguenza si vendica anche con calma e successo, essendo convinto di
compiere un’azione onorevole e giusta. Ma qui di giustizia io non ne vedo,
non ci trovo nemmeno alcuna virtù, di conseguenza, se mi metterò a
vendicarmi, allora lo farò solo per cattiveria. La cattiveria, certo, potrebbe
avere la meglio su tutto, su tutti i miei dubbi e, dunque, potrebbe davvero
con successo tornare utile assieme alla causa primaria, precisamente perché
essa non è la causa. Ma che fare se in me non ho nemmeno la cattiveria (e
poco fa sono partito proprio da questo). La cattiveria, in me, sempre e di
nuovo come conseguenza di quelle maledette leggi della coscienza, subisce
una scomposizione chimica. Guardi, e l’oggetto si volatilizza, le ragioni
evaporano, il colpevole non viene trovato, l’offesa cessa di essere un’offesa
e diventa il fato, qualcosa di simile al mal di denti, del quale nessuno è
colpevole, e conseguentemente di nuovo non resta che quella stessa via
d’uscita, ovvero colpire con ancora maggior dolore quello stesso muro. E
allora mandi tutto a quel paese, perché non hai trovato la causa primaria.
Ma prova invece a lasciarti prendere dal sentimento alla cieca, senza
ragionamenti, senza alcuna causa primaria, scacciando la coscienza, anche
se solo per il momento presente; odia o ama, al solo scopo di non restartene
seduto con le mani in mano. Nel giro di due giorni, e questo è già il termine
massimo, comincerai a disprezzarti per avere coscientemente imbrogliato te
stesso. Il risultato: una bolla di sapone e l’inerzia. Oh, signori, forse io mi
considero un uomo intelligente solo perché, per tutta la vita, non ho mai
potuto dare inizio o concludere un bel nulla. Sarò pure un chiacchierone, un
innocuo, fastidioso chiacchierone, come lo siamo tutti. Ma che farci se la
destinazione unica e diretta di ciascun uomo intelligente è la chiacchiera,
ovvero il travasare intenzionalmente il vuoto nel vuoto?
VI.

Oh, se non facessi nulla soltanto per pigrizia! Signori, come mi rispetterei
in quel caso. Mi rispetterei precisamente perché almeno sarei in condizione
di avere in me la pigrizia; in me ci sarebbe almeno un tratto in qualche
modo positivo, del quale io stesso sarei sicuro. Alla domanda: chi è costui?
Subito seguirebbe la risposta: un fannullone; e sarebbe piacevolissimo
sentir dire questo di sé. Significherebbe che si è definiti positivamente,
significherebbe che di me si può dire «Fannullone!» e questo sarebbe bene
un titolo e una funzione, sarebbe una carriera, signori! Voi scherzate, ma è
così. Allora sarei un membro di diritto del primissimo dei club, e
m’occuperei soltanto di nutrire un incommensurabile rispetto nei miei
confronti. Conoscevo un signore che per tutta la vita era andato fiero
d’essere un intenditore di Lafitte. Riteneva la cosa una sorta di virtù e non
aveva mai dubitato di sé. Morì con una coscienza non solo tranquilla, ma
addirittura trionfante, e aveva assolutamente ragione. In quel caso io mi
saprei scegliere una carriera: sarei un fannullone e un crapulone, ma non
uno comune, quanto piuttosto, per esempio, uno capace di provare un
sentimento per tutto ciò che è bello e sublime. Che ve ne pare? È da tempo
che me lo porto dentro. Questo “bello e sublime” mi ha pesato parecchio
sulla nuca nei miei quarant’anni; ma qui si tratta dei miei quarant’anni,
mentre in quel caso, oh, allora sarebbe stato ben diverso! Subito mi sarei
cercato anche un’attività adeguata, e precisamente: bere alla salute di tutto
ciò che è bello e sublime. Avrei cavillato ogni singolo caso, per poter in
primo luogo spargere una lacrima nel mio boccale, e poi bere a tutto ciò che
è bello e sublime. Allora avrei tramutato tutto quanto al mondo in qualcosa
di bello e sublime; nella schifezza più indiscutibile e ripugnante avrei
scovato il bello e il sublime. Sarei diventato lacrimevole come una spugna
fradicia. Un pittore, per esempio, ha fatto un quadro degno di Ge11. Subito
bevo alla salute del pittore che ha fatto un quadro degno di Ge, perché amo
tutto ciò che è bello e sublime. Un poeta ha scritto come piace a qualcuno;
subito bevo alla salute di questo “qualcuno”, perché amo tutto ciò che è
“bello e sublime”. Per questo esigo rispetto nei miei confronti, importunerò
chi non mi mostrerà il dovuto rispetto. Vivo tranquillo, muoio trionfante –
ma questo è un incanto, un autentico incanto! E intanto avrei messo su una
tale pancia, mi sarei procurato una tal tripla pappagorgia, un tale naso
rubizzo che, chiunque m’avesse incontrato per strada, avrebbe detto,
guardandomi: «Ecco qui uno che vale! Ecco un essere davvero positivo!»
Sia come volete, ma giudizi del genere fa davvero un gran piacere sentirli
nel nostro secolo negativo, signori.
VII.

Ma tutti questi sono sogni dorati. Oh, dite, chi è stato il primo a dichiarare,
chi il primo a proclamare che l’uomo fa porcherie solo perché non conosce i
suoi veri interessi; e che se invece lo si illuminasse, gli si aprissero gli occhi
su quelli che sono i suoi veri, normali interessi, quell’uomo subito
cesserebbe di fare porcherie, subito diventerebbe nobile e buono perché,
essendo istruito e comprendendo quali siano i suoi veri vantaggi, vedrebbe
precisamente nel bene tale vantaggio, ed essendo risaputo che nessun uomo
può agire consapevolmente contro i propri vantaggi, di conseguenza, per
così dire, comincerebbe a fare del bene per necessità? Oh, piccolo caro! Oh,
puro piccolo innocente! Ma quando mai, in primo luogo, è capitato in tutti
questi millenni che un uomo abbia agito solo per il suo proprio vantaggio
personale? Che fare dunque dei milioni di fatti che testimoniano che le
persone, consapevolmente, ovvero comprendendo appieno quali fossero i
loro autentici vantaggi, li abbiano lasciati in secondo piano e si siano buttate
su un’altra strada, verso il rischio, a casaccio, senza che nulla e nessuno le
costringesse, ma come se precisamente si limitassero a non desiderare la via
indicata, e volessero invece, testarde, arbitrarie, aprirsene un’altra, difficile,
assurda, andando a scovarla quasi nelle tenebre. Significa che forse per loro
quell’ostinazione e quell’arbitrio erano più piacevoli di qualsiasi
vantaggio… Un vantaggio! Che cos’è mai un vantaggio? Ci provereste
davvero a definire con precisione in cosa consista esattamente un vantaggio
per l’uomo? E se dovesse capitare che il vantaggio per l’uomo qualche
volta non solo possa, ma persino debba con precisione consistere
nell’augurarsi, in alcuni casi, qualcosa di male invece di qualcosa di
vantaggioso? E se fosse così, se anche solo potesse esistere questo caso,
allora tutta quanta la regola si sbriciolerebbe. Che ne pensate, esiste un caso
del genere? Ridete; ridete pure, signori, ma almeno rispondete: sono stati
davvero computati tutti i vantaggi per gli uomini? Non ce ne sono alcuni
che non solo non sono rientrati in una qualche classificazione, ma che
nemmeno ci possono rientrare? D’altronde voi, signori, per quel che ne so
avete redatto tutto il vostro elenco di vantaggi per gli uomini con le medie
desunte dai valori statistici e dalle formule economico-scientifiche. I vostri
vantaggi sono la prosperità, la ricchezza, la libertà, la quiete, e via dicendo;
di modo che l’uomo, per esempio, che in modo chiaro e consapevole
andasse contro tutto quest’elenco, secondo voi, be’, sì, certo, anche secondo
me, sarebbe un oscurantista o un pazzo completo, non è forse così? Ma ecco
quello che è sorprendente: com’è che succede che tutti questi esperti di
statistica, questi saggi e amanti del genere umano, al cospetto del computo
dei vantaggi per l’uomo, costantemente ne tralasciano uno? Non lo
prendono nemmeno in considerazione così come dovrebbero, e da questo
fatto dipende l’intero calcolo. Non sarebbe una gran disgrazia se si
prendesse questo vantaggio e lo si inserisse nella lista. Ma proprio qui sta il
guaio rovinoso, nel fatto che questo bizzarro vantaggio non rientra in alcuna
classificazione, non riesce a entrare in nessuna lista. Io, per esempio, ho un
conoscente… Eh, signori! Ma forse è pure un conoscente vostro; e di chi, di
chi non è conoscente! Apprestandosi all’azione, questo signore subito si
metterà a esporvi, con magniloquenza e chiarezza, come precisamente gli
occorre comportarsi secondo le leggi della ragione e della verità. Non solo:
con impeto e passione vi parlerà degli interessi autentici, normali, degli
uomini; con scherno rimprovererà gli sciocchi miopi, che non comprendono
né i propri vantaggi, né l’autentico significato della virtù; e, dopo un quarto
d’ora esatto, senza alcun motivo improvviso ed esterno, ma precisamente
per qualcosa di interiore, che è più forte di tutti i suoi interessi, farà
qualcosa di totalmente inatteso, ovvero andrà senza mezzi termini contro
quello che lui stesso ha appena detto: e contro le leggi della ragione, e
contro il proprio vantaggio, be’, in poche parole, contro tutto… Vi avverto
che il mio conoscente è un personaggio collettivo, e che quindi accusare lui
soltanto è in qualche modo difficile. E per l’appunto, signori, non esiste
forse in effetti una cosa che quasi a ogni uomo sia più cara dei migliori dei
suoi vantaggi, o piuttosto (per non andare a infrangere la logica), una cosa
che è un vantaggio vantaggiosissimo (e che è proprio quella che si lascia da
parte, ecco di cosa si parlava poc’anzi) da essere più importante e
vantaggiosa di tutti gli altri vantaggi e per la quale l’uomo, all’occorrenza, è
pronto ad andare contro tutte le leggi, ovvero contro la ragione, l’onore, la
quiete, la prosperità, in poche parole contro tutte quelle cose meravigliose e
utili, al solo scopo di raggiungere quel vantaggio primario, il più
vantaggioso, che gli è più caro d’ogni altra cosa.
«Be’, comunque sia, si tratta pur sempre di un vantaggio» potreste
interrompermi. Permettete, dobbiamo ancora spiegarci, e qui non è una
questione di calembour, ma del fatto che questo vantaggio è appunto
sorprendente in quanto infrange tutte le nostre classificazioni e
costantemente manda in frantumi tutti i sistemi costituiti dagli amanti del
genere umano per la felicità del genere umano stesso. In poche parole,
disturba tutto. Ma prima che vi nomini questo vantaggio, mi voglio
compromettere personalmente e per questo comunico ardito che tutti quei
bellissimi sistemi, tutte quelle teorie per la spiegazione all’umanità dei suoi
autentici e normali interessi di modo che essa, sentendosi spinta dalla
necessità a raggiungerli, diventi sull’istante buona e nobile, per il momento,
a mio modo di vedere, non sono che dei sofismi! Sissignori, dei sofismi!
D’altronde il voler sostenere una teoria del rinnovamento di tutto il genere
umano per mezzo della creazione di un sistema dei suoi propri vantaggi è, a
mio modo di vedere, quasi la stessa cosa che… ma sì, sostenere, per
esempio, seguendo quanto affermato da Buckle12, che in virtù della
civilizzazione l’uomo s’addolcisce, e conseguentemente diventa meno
sanguinario e meno incline alla guerra. Pare proprio che egli arrivi a tale
conclusione seguendo la logica. Ma l’uomo nutre una tale passione per il
sistema e per il vantaggio astratto che è pronto ad alterare scientemente la
verità, è pronto a chiudere occhi e orecchi, a non vedere e a non sentire, al
solo scopo di giustificare la propria logica. Ho scelto quest’esempio perché
è un esempio lampante. Ma guardatevi attorno: il sangue scorre a fiumi, e
per di più in modo gaio, come fosse champagne. Eccovi qui tutto il nostro
diciannovesimo secolo, nel quale ha vissuto anche Buckle. Eccovi
Napoleone, tanto il grande che l’attuale13. Eccovi l’America del Nord, e la
sua unione eterna nei secoli. Eccovi, per concludere, quel caricaturale
Schleswig-Holstein14… E in cosa mai ci ha addolciti la civilizzazione? La
civilizzazione si limita a produrre nell’uomo una molteplicità di sensazioni
e… decisamente null’altro. Ma attraverso lo sviluppo di tale molteplicità di
nuovo l’uomo, forse, arriverà al punto di trovare la voluttà nel sangue.
Questo gli è già ben accaduto. Avete notato che i più raffinati massacratori
erano quasi tutti dei signori civilizzati, ai quali i vari Attila e Sten’ka
Razin15 non erano degni nemmeno di lustrare gli stivali, e se non saltano
all’occhio in modo così evidente come Attila e Sten’ka Razin, è proprio
perché ormai li si incontra troppo spesso, sono troppo comuni, non si fa più
caso a loro. Per lo meno, per via della civilizzazione l’uomo, se non più
sanguinario, è diventato, senz’altro, sanguinario in modo peggiore, più
schifoso che in passato. In passato nello spargimento di sangue vedeva una
giustizia e con la coscienza tranquilla sterminava chi di dovere; adesso
invece, anche se noi consideriamo lo spargimento di sangue alla stregua di
una schifezza, tuttavia di questa schifezza ci occupiamo assai più che in
precedenza. Cos’è peggio? Decidete voi. Si dice che Cleopatra (scusatemi
per l’esempio preso dalla storia romana) amasse conficcare delle spille
dorate nelle mammelle delle sue schiave e provasse godimento alle loro
grida e contorsioni. Voi direte che ciò avveniva in un’epoca barbara,
relativamente parlando; che anche adesso l’epoca è barbara, perché (sempre
relativamente parlando) anche adesso si conficcano delle spille; che anche
adesso l’uomo, pur avendo imparato a vedere a volte in modo più chiaro di
quanto facesse in quell’epoca barbara, è ancora ben lontano dall’aver
imparato ad agire così come la ragione e le scienze gli indicano. Ma
comunque voi siete del tutto convinti che senz’altro imparerà, quando
saranno definitivamente passate certe vecchie e brutte abitudini e quando il
buon senso e la scienza avranno appieno rieducato e cominciato a dirigere
in modo normale la natura umana. Voi siete convinti che allora l’uomo
stesso smetterà volontariamente di sbagliare e, per così dire, volente o
nolente, non vorrà più separare la propria volontà dai propri normali
interessi. Ma non solo: allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo
(anche se ciò, a parer mio, è già un lusso) che in effetti egli non possiede né
la volontà né il capriccio, e non li ha mai posseduti, e che lui stesso non è
nulla più di qualcosa di simile al tasto di un pianoforte o allo spinotto di un
organo; e che, soprattutto, al mondo ci sono ancora le leggi della natura; di
modo che, qualsiasi cosa faccia, non viene per nulla fatta secondo il suo
volere, ma di per sé, secondo le leggi della natura. Di conseguenza basta
solo scoprire queste leggi della natura e l’uomo non dovrà già più
rispondere delle proprie azioni e vivere gli sarà estremamente lieve. Tutte le
azioni umane, di per loro, saranno computate secondo quelle leggi, in modo
matematico, in una sorta di tavola dei logaritmi, fino a 108.000, e riportate
in un calendario; o, ancor meglio, appariranno in alcune edizioni
benintenzionate, del genere dei nostri attuali dizionari enciclopedici, nelle
quali tutto sarà computato e spiegato con tale precisione che al mondo non
ci saranno più né azioni né avventure.
E allora, siete sempre voi a dirlo, si verranno a stabilire nuovi rapporti
economici, del tutto pronti e anche enumerati con precisione matematica, di
modo che in un solo istante spariranno tutte le possibili questioni, in quanto
per esse vi saranno tutte le possibili risposte. Allora si costituirà il palazzo
di cristallo16. Allora… Be’, in poche parole, allora arriverà in volo l’uccello
Kagan17. Certo, non si può in alcun modo garantire (e sono io adesso a
dirlo) che allora non si avrà a che fare, per esempio, con una noia terribile
(perché che cosa mai si potrà fare quando tutto sarà computato secondo una
tabella?), ma in compenso tutto sarà estremamente ragionevole. Certo,
cos’è che non ci s’inventa per noia! Si conficcano anche le spille dorate, ma
ciò sarebbe ancora nulla. Quello che è davvero brutto (e sono di nuovo io a
dirlo) è che allora, forse, si potrebbero accogliere persino con gioia le spille
dorate. Già, perché l’uomo è stupido, terribilmente stupido. Ovvero, anche
se stupido non lo è affatto, in compenso è a tal punto ingrato che, anche
volendo cercare qualcuno più ingrato di lui, non lo si troverebbe. Io, per
esempio, non mi meraviglierei affatto se all’improvviso, di punto in bianco,
nel bel mezzo della generale sensatezza del futuro, si facesse avanti un
qualche gentleman18 con una fisionomia ingrata o, per meglio dire,
retrograda e beffarda, si puntellasse le mani sui fianchi e dicesse a noi tutti:
allora, signori, non dovremmo assestare un bel calcio, una volta per sempre,
a tutta questa ragionevolezza, e distruggerla, con il solo e unico scopo di
mandare al diavolo tutti questi logaritmi e tornarcene a vivere secondo la
nostra stupida volontà? Questo non sarebbe ancora nulla, ma la cosa
offensiva sarebbe che senz’altro troverebbe dei seguaci: così è fatto l’uomo.
E tutto ciò deriva dalla più insignificante delle cause, che non parrebbe
nemmeno degna di essere menzionata: e precisamente dal fatto che l’uomo,
sempre e dovunque, chiunque egli sia, ha sempre amato agire come voleva
e assolutamente non come gli ordinavano la ragionevolezza e il vantaggio;
si può infatti volere anche contro il proprio vantaggio, e a volte lo si deve
volere positivamente (questa per lo meno è la mia idea). Il proprio volere
libero e senza freni, il proprio capriccio, sia pure il più folle, la propria
fantasia, a volte inasprita addirittura fino alla pazzia, ecco cos’è appunto
quello stesso vantaggio più vantaggioso, che non s’adatta a nessuna
classificazione e per via del quale tutti i sistemi e le teorie costantemente se
ne vanno al diavolo. E dove sono andati a prenderlo tutti questi sapienti che
l’uomo ha assoluto bisogno di un volere ragionevolmente vantaggioso?
L’uomo ha bisogno solo e soltanto di un volere indipendente, qualsiasi sia il
costo di una simile indipendenza e qualsiasi ne siano i risultati. Ma il volere
lo sa il diavolo…
VIII.

«Ah, ah, ah! Ma quel volere, in sostanza, se proprio desiderate saperlo,


nemmeno esiste!» mi interrompete ridendo. «La scienza già adesso è
riuscita ad anatomizzare l’uomo, di modo che ora ci è noto che il volere e il
cosiddetto libero arbitrio altro non sono che…»
«Aspettate, signori, io stesso volevo cominciare a questo modo. Io, lo
confesso, mi sono persino spaventato. Ero sul punto di gridare che il volere
lo sa il diavolo da cosa dipenda e che per questo, forse, dovremmo rendere
grazie a Dio, quando mi sono ricordato della scienza e… mi sono bloccato.
E a quel punto voi avete cominciato a parlare. Ma in effetti, be’, se per
davvero troveranno chissà quando la formula di tutti i nostri voleri e dei
nostri capricci, ovvero da cosa dipendano, secondo quali precise leggi si
verifichino, come precisamente si diffondano, dove tendano in questo o
quel caso, e così via, così via, ovvero un’autentica formula matematica –
allora l’uomo magari potrebbe subito, forse, anche smettere di volere e,
anzi, magari smetterebbe di certo. Che gusto c’è a volere secondo una
tabella? E ancora: subito si trasformerebbe da uomo a spinotto di un organo
o roba del genere: perché cos’è mai un uomo senza desideri, senza volontà
e senza volere, se non uno spinotto sulla canna di un organo? Che ne
pensate? Consideriamo le possibilità: può accadere una cosa simile o no?»
«Uhm…» fate voi, «le cose che vogliamo per la maggior parte sono
erronee per via di una considerazione erronea di quelli che sono i nostri
vantaggi. Per questo a volte vogliamo una vera e propria scempiaggine,
perché in quella scempiaggine vediamo, per nostra stupidità, la via più
semplice per il raggiungimento di un vantaggio che avevamo in precedenza
supposto. Be’, ma quando tutto questo sarà chiarito, calcolato su un
pezzetto di carta (il che è molto possibile, perché è infame e insensato
credere fin da prima che l’uomo non potrà mai conoscere certe leggi della
natura), allora, s’intende, non vi saranno più i cosiddetti desideri. Poiché se
il volere un giorno dovesse entrare davvero in combutta con la ragione,
allora sì che cominceremmo finalmente a ragionare, e non a volere
propriamente perché non è possibile, per esempio, conservando la ragione,
volere delle sciocchezzuole e in tal modo andare scientemente contro la
ragione e desiderare quel che ci è dannoso… Ma siccome tutto il nostro
volere e tutti i nostri ragionamenti potranno essere in effetti calcolati dato
che un giorno si arriverà a scoprire le leggi del nostro cosiddetto libero
arbitrio, allora, dunque, e scherzi a parte, si potrà mettere insieme una sorta
di tabella, di modo che in effetti noi vorremo sulla base di quella tabella. Se
a me, per esempio, un giorno dovessero dimostrare che se io ho mostrato al
tale le fiche è stato precisamente perché non potevo non mostrarle e che
dovevo immancabilmente mostrargli il tal dito, allora che cosa mai
resterebbe di libero in me, in particolare se sono un uomo colto e ho portato
a compimento un qualche corso di scienze? Allora potrei calcolare tutta la
mia vita per i successivi trent’anni; in poche parole, se le cose si dovessero
organizzare così, non avremmo nulla da fare; comunque ci toccherebbe
accettare. E poi, in generale, senza mai stancarci, dobbiamo ripeterci che
immancabilmente in un simile momento e in simili circostanze la natura
non verrà certo a interrogarci; che occorrerà accettarla così com’è, e non
così come noi fantastichiamo, e che se in effetti aspiriamo alla tabella e al
calendario, be’, e… mettiamo persino alla storta dell’alambicco, che farci,
occorre accettare anche l’alambicco! Altrimenti si farà accettare da solo,
senza bisogno del nostro permesso…»
Già, ma ecco dove per me sta il busillis! Signori, mi scuserete se mi
sono messo a filosofeggiare; qui ci sono quarant’anni di sottosuolo!
Permettete che fantastichi un pochino. Vedete: la ragione, signori, è una
buona cosa, questo è fuor di discussione, ma la ragione è solo la ragione e
soddisfa solo le capacità razionali dell’uomo, mentre il volere è
l’espressione della vita tutta, ovvero di tutta la vita umana, compresa la
ragione e tutti i suoi svariati pruriti. E anche se la nostra vita in questa sua
espressione si presenta come una qualche porcheriola, è comunque pur
sempre la vita, e non soltanto l’estrazione di una radice quadrata. Io, per
esempio, voglio vivere in modo del tutto naturale per soddisfare tutta la mia
capacità di vivere, e non per soddisfare la mia sola capacità di raziocinio,
ovvero qualcosa come una ventesima parte di tutta la mia capacità di vivere.
Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto quello che ha fatto in tempo
a imparare (e certe cose forse nemmeno mai le imparerà; e anche se questa
non è certo una consolazione, perché non lo si dovrebbe dire apertamente?),
ma la natura umana agisce tutta nel suo complesso, in tutto quello che essa
contiene, in modo consapevole e inconsapevole, e anche se mente,
comunque vive. Ho il sospetto, signori, che voi mi guardiate con
commiserazione; mi ripetete che un uomo istruito ed evoluto, quale sarà
l’uomo del futuro, non potrà, in poche parole, scientemente volere qualcosa
che non sia per lui vantaggioso, e che questa è matematica. Ma per la
centesima volta vi ripeto che esiste un solo caso, un caso soltanto in cui
l’uomo possa a bella posta, consapevolmente augurarsi persino qualcosa di
dannoso, di stupido, persino di stupidissimo, e precisamente: per avere il
diritto di augurarsi persino la più stupida delle cose e non essere vincolato
dall’obbligo di desiderare per sé soltanto qualcosa di intelligente. E questa
cosa stupidissima, questo suo capriccio, in effetti, signori, può davvero
essere la cosa più vantaggiosa per il nostro fratello di tutto quanto esista al
mondo, in particolare in alcuni casi. Di frequente può essere più
vantaggiosa di tutti i vantaggi persino anche quando ci procura un chiaro
danno e contraddice le più sane conclusioni della nostra ragione a proposito
dei vantaggi, perché in ogni caso ci conserva quel che abbiamo di più
importante e più caro, ovvero la nostra personalità e la nostra individualità.
Certo, alcuni affermano che questo è in effetti quanto di più caro l’uomo
possa avere; il volere, certamente, può, se vuole, anche legarsi alla ragione,
in particolare se non ne abusa e se la usa con moderazione; ciò è cosa utile e
a volte persino lodevole. Ma il volere molto spesso e persino nella maggior
parte dei casi è in discordia completa e ostinata con la ragione e… e… e
sapete che anche questo è salutare e persino a volte molto lodevole?
Signori, supponiamo che l’uomo non sia stupido. (In effetti, questo di lui
non lo si può proprio dire, anche solo perché se fosse stupido, allora chi mai
sarebbe intelligente?) Ma anche se non è stupido, comunque sia è
mostruosamente ingrato! È ingrato in un modo fenomenale. Penso persino
che la miglior definizione di uomo sia: un essere bipede e ingrato. Ma
questo non è ancora tutto; questo ancora non è il suo difetto principale; il
principalissimo dei suoi difetti è il costante comportamento scorretto,
costante a partire dal diluvio universale fino al periodo schleswig-
holsteiniano, e, conseguentemente, l’irragionevolezza; poiché è persino
risaputo che l’irragionevolezza non ha altra origine se non il
comportamento scorretto. Provate a dare un’occhiata alla storia
dell’umanità; che ci vedrete? Qualcosa di maestoso? Magari ci sarà pure
qualcosa di maestoso; anche il solo colosso di Rodi, tanto per fare un
esempio, varrà pure qualcosa! Non per nulla il signor Anaevskij19
testimonia al riguardo che alcuni affermano si tratti di un’opera di mani
umane, altri invece sostengono che sia stata creata dalla natura stessa. Siete
colpiti dalla varietà di colori? Magari ci sarà pure la varietà di colori; varrà
pure qualcosa anche solo distinguere in tutti i secoli e presso tutti i popoli
quali divise da parata fossero da militari e quali da civili20, e se ci si
mettono anche le divise normali c’è da rompersi la testa; nessuno storico
riuscirebbe a venirne a capo. Qualcosa di uniforme? Be’, magari ci sarà
pure l’uniformità: quanto ad azzuffarsi, s’azzuffano anche adesso, e in
precedenza s’azzuffavano e anche in seguito lo faranno, concorderete che
questo è persino fin troppo uniforme. In poche parole, si può dire qualsiasi
cosa della storia universale, tutto quello che può passare per la testa
all’immaginazione più turbata. Una sola cosa non può essere detta: che sia
ragionevole. Alla prima parola qualcosa vi andrebbe di traverso,
impedendovi di continuare. Ed ecco cos’altro s’incontra a ogni piè sospinto:
di continuo nella vita si presentano persone così costumate e ragionevoli,
così sapienti e amanti del genere umano, da darsi precisamente come scopo
di tutta la loro esistenza quello di comportarsi nel modo più morigerato e
ragionevole possibile, per così dire, di illuminare il loro prossimo,
sostanzialmente per potergli dimostrare che è in effetti in questo mondo è
possibile vivere in un modo tanto morigerato che ragionevole. E allora? È
risaputo che molti di questi amanti dell’umanità, presto o tardi, verso la fine
della loro vita si sono traditi, dando origine a qualche aneddoto, a volte
persino dei più sconvenienti. Adesso vi chiedo: che cosa ci si può mai
aspettare da un uomo in quanto essere dotato di tali strane qualità?
Copritelo pure di tutti i beni terreni, affogatelo in una felicità che gli arrivi
fin sopra la testa, di modo che solo delle bollicine riescano a raggiungere la
superficie della suddetta felicità, come fosse acqua; dategli una tale
agiatezza economica che non abbia assolutamente più niente da fare se non
dormire, mangiare panpepati e occuparsi di far sì che la storia universale
non abbia a interrompersi, ebbene: anche allora, a voi, quell’uomo, anche
allora, per pura ingratitudine, da una semplice pasquinata tirerà fuori una
qualche porcheria. Metterà a rischio persino i panpepati e a bella posta
desidererà lo sproposito più pernicioso, l’assurdità più antieconomica, al
solo scopo di aggiungere a tutta quella ragionevolezza positiva il proprio
pernicioso elemento fantastico. Proprio i suoi sogni fantastici, la sua
volgarissima stupidità, vorrà tenerseli per sé all’unico scopo di poter
confermare a se stesso (proprio come se fosse poi così necessario) che gli
uomini sono sempre uomini e non tasti di pianoforte, sui quali, anche se
sono le stesse leggi della natura a suonare di propria mano, c’è il rischio che
suonino a tal punto, che non ci sarà altro da volere oltre a quanto previsto
nelle già citate tabelle. Ma questo ancora non è niente: persino nel caso che
egli in effetti si dovesse rivelare un tasto di pianoforte, se glielo si
dimostrasse persino con le scienze naturali e matematiche, neanche allora
rinsavirebbe, ma apposta farebbe qualcosa contro, unicamente per pura
ingratitudine; insomma, per far valere la propria opinione. E in quel caso, se
dovesse ritrovarsi senza mezzi per fare ciò, s’inventerebbe la distruzione e
il caos, s’inventerebbe varie sofferenze e farebbe comunque valere la
propria opinione! Manderebbe la maledizione in giro per il mondo, e
siccome soltanto l’uomo può maledire (si tratta di un suo privilegio, che lo
distingue in modo particolare da tutti gli altri animali), allora lui, forse, con
la sola maledizione riuscirebbe a ottenere quello che vuole, ovvero
convincersi in effetti di essere un uomo e non un tasto di pianoforte! Se
direte che anche tutto ciò può essere calcolato secondo una tabellina, tanto
il caos, quanto la tenebra, e la maledizione, così che la sola possibilità del
calcolo preventivo basterà a fermare tutto quanto e a far sì che la ragione
pigli quello che le spetta, allora l’uomo a bella posta in questo caso
diventerà pazzo, in modo da non avere più alcuna forma di ragione e far
valere la propria opinione! Io ci credo, sono pronto a risponderne, perché
tutta quanta la faccenda umana, a quanto pare, in effetti consiste solo nel
fatto che l’uomo ogni momento doveva dimostrare a se stesso di essere un
uomo, e non uno spinotto! Sia pure a rischio della propria pelle, ma doveva
dimostrarlo; sia pure da troglodita, ma lo doveva fare. E dopo una cosa del
genere, come non peccare, come non lodare il fatto che questo ancora non
ci sia, e che il volere per ora soltanto il diavolo sa da cosa dipenda…
Voi mi gridate (se solo ancora mi ritenete degno del vostro grido) che
nessuno mai mi toglierà la mia libera volontà21; che lì si adopereranno
soltanto per far sì che la mia stessa libera volontà, spontaneamente, vada a
coincidere con i miei normali interessi, con le leggi della natura e con
l’aritmetica.
«Eh, signori, ma quale libera volontà ci sarà quando la faccenda arriverà
alle tabelle e all’aritmetica, quando non ci sarà altro che un due per due fa
quattro? Due per due anche senza la mia libera volontà farà quattro.
Sarebbe dunque questa la mia libera volontà?»
IX.

Signori, io, certo, sto scherzando, e lo so da me che lo faccio senza


successo, ma d’altra parte non si può mica prendere tutto per uno scherzo.
Forse sto scherzando, e nel contempo digrigno i denti. Signori, sono
tormentato da tutta una serie di questioni; risolvetele per me. Ecco, voi, per
esempio, volete far dimenticare a una persona le vecchie abitudini e
correggere la sua volontà, conformemente alle esigenze della scienza e del
buon senso. Ma come fate a sapere che l’uomo non solo possa, ma anche
debba essere così modificato? Da cosa concludete che il volere umano
debba necessariamente essere così corretto? In poche parole, come fate a
sapere che una simile correzione porterà un effettivo vantaggio all’uomo? E
se la si deve dire tutta, perché siete così sicuramente convinti che il non
andare contro i vantaggi autentici, normali, garantiti dagli argomenti della
ragione e dell’aritmetica, per l’uomo sia in effetti sempre più vantaggioso e
costituisca una legge per l’umanità tutta? Per il momento si tratta ancora
solo di una vostra supposizione. Mettiamo che si tratti di una legge della
logica, ma forse nient’affatto dell’umanità. Voi, forse, pensate, signori, che
io sia pazzo?
Permettete che faccia una precisazione. Sono d’accordo: l’uomo è un
animale che principalmente crea, destinato ad aspirare scientemente a uno
scopo e a occuparsi dell’arte dell’ingegneria, ovvero a costruirsi in eterno e
senza interruzione una strada, non importa verso quale direzione. Ma ecco
precisamente perché, forse, a volte gli viene voglia di tergiversare e di fare
una piccola deviazione, dato che è comunque destinato ad aprirsi quella
strada; e ancora, forse, perché, per quanto in generale l’uomo spontaneo e
d’azione possa essere stupido, comunque anche a lui a volte viene il
pensiero che quella strada va quasi sempre non importa verso quale
direzione, e che la cosa principale non sta tanto nel dove vada, ma nel fatto
che comunque semplicemente vada, e che lui, bravo bambino, trascurando
l’arte dell’ingegneria, non s’abbandoni all’ozio pernicioso che, com’è noto,
è il padre di tutti i vizi. L’uomo ama creare e aprire strade, e questo è fuor di
discussione. Ma perché allora ama anche, con tale passione, la distruzione e
il caos? Ecco, spiegatemelo un po’ voi! Ma a questo proposito ho io stesso
voglia di dire un paio di parole a parte. Non sarà forse che ami così la
distruzione e il caos (è fuor di discussione che a volte li ami molto, è
proprio così), perché d’istinto ha lui stesso paura di raggiungere lo scopo e
di completare l’edificio che sta creando? Per quel che ne sapete, lui, forse,
quell’edificio lo ama solo da lontano, e nient’affatto da vicino; forse ama
soltanto edificarlo, e non viverci dentro, lasciandolo in seguito aux animaux
domestiques, come per esempio alle formiche, ai montoni, e così via, così
via. Ecco, le formiche hanno invece gusti del tutto differenti. Esse
posseggono un solo edificio sorprendente di quello stesso genere, in eterno
indistruttibile: il formicaio.
Col formicaio le degnissime formiche hanno cominciato, col formicaio
è probabile che finiranno, il che fa grande onore alla loro perseveranza e
positività. Ma l’uomo è un essere sventato e degno di biasimo e, forse,
come farebbe un giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del
raggiungimento dello scopo, e non lo scopo in sé. E, chi lo sa (impossibile
garantirlo), forse anche qualsiasi scopo sulla terra al quale l’umanità tenda
si riduce soltanto a quest’unica continuità del processo del raggiungimento,
o per dirla altrimenti: alla vita stessa, e non propriamente allo scopo in sé,
che, s’intende, non sarà altro che quel due per due fa quattro, ovvero una
formula: ma quel due per due fa quattro già non è più vita, signori, bensì il
principio della morte. Per lo meno l’uomo ha sempre in qualche modo
avuto paura di questo due per due fa quattro, e io anche adesso ne ho paura.
Mettiamo che un uomo non faccia altro che cercare questi due per due fa
quattro, attraversi gli oceani, sacrifichi la vita in questa sua ricerca, ma di
trovarli, di scovarli davvero, per Dio, in qualche modo ne abbia paura.
Giacché sente che appena li avrà scovati, allora non ci sarà più nulla da
cercare. Gli operai, terminato un lavoro, per lo meno ricevono dei soldi,
vanno alla bettola, poi finiscono al commissariato, ed ecco che sono
impegnati per un’altra settimana. Ma l’uomo, invece, dove andrà? Per lo
meno ogni volta in lui si nota qualcosa di goffo al momento del
raggiungimento di simili scopi. Il raggiungere lo ama, ma l’atto vero e
proprio del raggiungere non gli garba affatto, e questo è, certo, terribilmente
ridicolo. In poche parole, l’uomo è costruito in modo comico; e in tutto ciò,
evidentemente, è racchiuso un qualche calembour. Ma il due per due fa
quattro è comunque una cosa oltremodo insopportabile. Il due per due fa
quattro è, a parer mio, solo pura insolenza. Il due per due fa quattro ha
un’aria spavalda, si mette di traverso sulla vostra strada con le mani sui
fianchi e sputa. Concordo che il due per due fa quattro sia una cosa
meravigliosa, ma se proprio bisogna mettersi a elogiare qualsiasi cosa,
allora anche il due per due fa cinque è a volte una cosetta carinissima.
E perché mai siete così fermamente, solennemente convinti che solo ciò
che è normale sia positivo; in poche parole, che solo la prosperità sia un
vantaggio per l’uomo? Non si sbaglia la ragione quando considera i
vantaggi? Non è possibile che l’uomo non ami solo la prosperità? Non
potrebbe forse amare proprio altrettanto anche la sofferenza? Non potrebbe
la sofferenza essergli altrettanto vantaggiosa quanto la prosperità? E l’uomo
a volte ama terribilmente la sofferenza, fino alla passione, e questo è un
fatto. Qui non c’è nemmeno da andare a consultare la storia universale;
chiedetelo a voi stessi, se solo siete uomini e almeno un poco avete vissuto.
Per quel che riguarda la mia opinione personale, allora amare soltanto la
prosperità è persino in qualche modo sconveniente. Che sia un bene, che sia
un male non so, ma a volte fare a pezzi qualcosa è anch’esso un grande
piacere. In senso stretto non sono a favore né della sofferenza né della
prosperità. Sono a favore… del mio proprio capriccio e del fatto che mi sia,
all’occorrenza, garantito. La sofferenza, per esempio, nei vaudevilles non è
ammessa, questo lo so. Nel palazzo di cristallo è pure impensabile: la
sofferenza è dubbio, è negazione, e che palazzo di cristallo sarebbe se vi
fosse possibile dubitare? E intanto sono convinto che l’uomo non si
sottrarrà mai all’autentica sofferenza, ovvero alla distruzione e al caos. La
sofferenza è infatti l’unica causa della coscienza. E anche se all’inizio
avevo annunciato che la coscienza, secondo me, è la massima sfortuna per
l’uomo, comunque so bene che l’uomo la ama e non la cambierebbe con
nessun altro appagamento. La coscienza, per esempio, sta infinitamente più
in alto del due per due. Dopo il due per due, s’intende, non resta certo nulla,
non solo da fare, ma persino anche da apprendere. Non resterà che turare i
nostri cinque sensi e sprofondare nella contemplazione. Be’, anche con la
coscienza si giungerà allo stesso risultato, ovvero anche qui non ci sarà
niente da fare, ma per lo meno a volte ci si potrà fustigare, e questo
comunque porterà un po’ di vita. Anche se sarà una cosa retrograda, sarà
comunque meglio di niente.
X.

Voi credete nell’edificio di cristallo, indistruttibile per l’eternità, ovvero tale


che non gli si potrà mostrare la lingua di soppiatto, né fare un gesto osceno
tenendo la mano in tasca. Be’, e io, forse, ho paura di quest’edificio proprio
perché è di cristallo e per l’eternità è indistruttibile, e non sarà mai possibile
mostrargli la lingua di soppiatto.
Già, perché vedete: se invece del palazzo ci fosse un pollaio e
cominciasse a piovere, io, forse, mi infilerei anche nel pollaio per non
infradiciarmi, ma comunque non prenderei mai il pollaio per un palazzo, in
virtù della gratitudine d’esser stato protetto dalla pioggia. Voi ridete, dite
addirittura che in quel caso non c’è differenza tra un pollaio e una reggia.
Già, vi rispondo io, se si vivesse per il solo motivo di non infradiciarsi.
Ma che farci se mi sono ficcato in testa che non viviamo soltanto per
questo motivo, e che se si deve proprio vivere, allora tanto vale farlo in una
reggia? Questo è il mio volere, è il mio desiderio. Lo raschierete via da me
solo quando riuscirete a cambiare i miei desideri. Su, cambiatemeli,
lusingatemi con qualcos’altro, datemi un altro ideale. Ma nel frattempo io
non scambierò mai un pollaio per un palazzo. Mettiamo pure che l’edificio
di cristallo sia una fandonia, che secondo le leggi della natura sia addirittura
inammissibile e che me lo sia inventato solo come conseguenza della mia
propria stupidità, come conseguenza di alcune antiche abitudini irrazionali
della mia generazione. Ma che me ne importa che sia inammissibile? Non è
forse lo stesso se esiste nei miei desideri o, per meglio dire, esiste mentre
esistono i miei desideri? Forse state di nuovo ridendo? Fatelo pure,
accetterò tutte le vostre beffe e comunque non dirò d’essere sazio quando
invece ho voglia di mangiare; comunque so che non mi rabbonirò con un
compromesso, con un ininterrotto zero periodico, solo perché è conforme
alle leggi della natura ed esiste realmente. Non accetterò come coronamento
dei miei desideri un normale caseggiato con appartamenti per inquilini
poveri, con contratti della durata di mille anni e con appesa, per ogni
evenienza, l’insegna del dentista Wagenheim. Annullate i miei desideri,
cancellate i miei ideali, mostratemi qualcosa di meglio, e io vi seguirò. Voi
forse direte che non vale nemmeno la pena di impicciarsi in una cosa
simile, ma in tal caso anch’io vi potrei rispondere allo stesso modo.
Cerchiamo di ragionare seriamente; e se non volete degnarmi della vostra
attenzione, non starò certo a pregarvi. Io ho il sottosuolo.
E per l’intanto io ancora vivo e desidero – e mi si secchi una mano se
porterò anche solo un mattoncino per costruire quel tal caseggiato! Non
prestate attenzione al fatto che poco fa ho io stesso respinto l’edificio di
cristallo unicamente per il motivo che non lo si potrà mai svillaneggiare
tirando fuori la lingua. Non l’avevo affatto detto perché amo talmente
mettere in mostra la mia lingua. Io, forse, mi sono risentito solo perché tra
tutti i vostri edifici fino a ora non ne esiste nessuno al quale si possa anche
non mostrare la lingua. Al contrario, me la farei persino tagliare del tutto, la
lingua, per pura gratitudine, se soltanto le cose si dovessero mettere in
modo tale da non farmi mai più venire la voglia di mostrarla. Che cosa me
ne importa se così è impossibile organizzare le cose, e occorre accontentarsi
degli appartamenti? Perché mai sono fatto con simili desideri? Possibile che
io sia fatto così al solo scopo di giungere alla conclusione che tutto il mio
modo di essere è un’unica impostura? Possibile che in questo sia tutto lo
scopo? Non ci credo.
E, d’altra parte, sapete una cosa: sono convinto che il nostro fratello del
sottosuolo occorra tenerlo a freno. Anche se è capace di starsene seduto
quarant’anni in silenzio nel sottosuolo, il giorno in cui uscirà nel mondo
proromperà e si metterà a parlare, parlare, parlare…
XI.

Alla fin fine, signori: meglio non far nulla! Meglio un’inerzia consapevole!
E quindi, evviva il sottosuolo! E anche se ho affermato d’invidiare l’uomo
normale fino all’estrema bile, ma nelle condizioni in cui lo vedo non voglio
essere lui (anche se comunque non smetterò certo d’invidiarlo. No, no, in
ogni caso il sottosuolo è più vantaggioso!). Lì, per lo meno, è possibile…
Eh! Ma anche qui sto mentendo. Mento perché io stesso so, come due per
due fa quattro, che non è affatto il sottosuolo a essere la cosa migliore, ma
qualcos’altro, qualcosa di completamente diverso, che bramo, ma che non
troverò mai! Al diavolo il sottosuolo!
Ecco persino che cosa sarebbe meglio: che credessi almeno in qualcosa
di tutto quello che ho appena scritto. Sono pronto a giurarvi, signori, che
non credo a una sola paroletta, nemmeno a una, di quello che ho appena
messo sulla carta. Cioè, ci credo anche, forse, ma al tempo stesso, non si sa
perché, sento e sospetto che sto mentendo come un ciabattino ubriaco.
«Ma allora perché avete scritto tutto ciò?» mi dite.
«Ma ecco, se vi avessi tenuto sottochiave per quarant’anni senza alcuna
occupazione, e fossi venuto da voi dopo quarant’anni, nel sottosuolo, a
trovarvi, cos’è che avreste fatto? Forse che è possibile lasciare un uomo da
solo per quarant’anni, senza nulla da fare?»
«Ma questa non è una vergogna, non è forse una cosa umiliante?» mi
direte, forse, scrollando sprezzanti il capo. «Siete avido di vita e voi stesso
risolvete le questioni vitali con una confusione logica. E come sono
importune, come sono insolenti le vostre trovate, e al tempo stesso quanta
paura avete. Dite sciocchezze e ne siete soddisfatto; dite insolenze, e voi
stesso avete ininterrotta paura per averlo fatto, e chiedete scusa. Asserite di
non aver paura di nulla, e al tempo stesso cercate di ingraziarci per avere la
nostra opinione. Asserite di digrignare i denti, e al tempo stesso fate battute
per farci divertire. Sapete che le vostre arguzie non sono argute, ma con
ogni evidenza siete molto soddisfatto della loro qualità letteraria. Voi, forse,
avevate davvero bisogno di soffrire, ma non rispettate in alcun modo quella
sofferenza. In voi forse c’è qualcosa di vero, ma non c’è affatto pudore; per
la più meschina vanità mettete in mostra questo qualcosa di vero che
possedete, offrendolo al pubblico ludibrio, come al mercato… In effetti
volete dire qualcosa, ma per paura nascondete la vostra ultima parola,
perché in voi non c’è la risolutezza per dirla, ma solo una vigliacca
tracotanza. Elogiate la coscienza, ma vi limitate a titubare, perché, anche se
la testa vi funziona, il vostro cuore è obnubilato dal vizio, e senza un cuore
puro non sarà possibile una piena, giusta coscienza. E quanto siete
importuno, quanto insistete, quante smorfie fate! Menzogna, menzogna e
menzogna!» S’intende che tutte queste vostre parole adesso me le sono
inventate io stesso. Anche questo viene dal sottosuolo. Laggiù per
quarant’anni filati ho origliato queste vostre parole attraverso una fessura.
Io stesso le ho escogitate, in quanto soltanto questo poteva essere
escogitato. Non c’è niente di strano se sono state imparate a memoria, e
abbiano assunto una forma letteraria…
Ma possibile, possibile che voi in effetti siate a tal punto creduloni da
immaginare che io possa stampare tutto ciò e per di più darvelo da leggere?
Ed ecco un altro compito che mi attende: perché mai, in effetti, vi chiamo
“signori”, perché mai mi rivolgo a voi come se per davvero foste dei lettori?
Confessioni del tipo di quelle che sono intenzionato a cominciare a esporre
non si stampano, e non si danno da leggere agli altri. Per lo meno, io in me
non posseggo una tale fermezza e nemmeno ritengo necessario possederla.
Ma vedete: in testa m’è venuta una certa fantasia, e a qualsiasi costo
intendo realizzarla. Ecco in cosa consiste.
Nei ricordi di qualsiasi uomo ci sono delle cose che egli non rivelerà a
tutti, ma forse agli amici soltanto. Ce ne sono anche altre che non rivelerà
nemmeno agli amici, ma forse soltanto a se stesso, e anche in quel caso in
forma di segreto. Ma ce ne sono infine anche di quelle che un uomo teme di
rivelare persino a se stesso, e di cose del genere ogni uomo perbene ne ha in
serbo parecchie. Ovvero, è persino così: più l’uomo è perbene, più ne ha, di
cose del genere. Per lo meno, io stesso anche solo di recente mi sono deciso
a rammentare alcune mie avventure precedenti, mentre fino a ora le avevo
come aggirate, persino con una sorta di inquietudine. Adesso invece,
quando non solo le rammento, ma mi sono persino deciso ad annotarle,
adesso precisamente voglio fare una prova: è possibile almeno con se stessi
essere davvero sinceri e non aver paura di tutto ciò che è vero? A questo
proposito voglio notare: Heine sostiene che le vere autobiografie sono quasi
impossibili22, e che l’uomo, parlando di se stesso, è probabile che menta.
Secondo tale opinione, Rousseau, per esempio, ha senz’altro mentito su di
sé nella sua confessione, e ha mentito persino con premeditazione, per
vanità. Sono convinto che Heine abbia ragione; capisco perfettamente come
a volte sia possibile, per sola vanità, addossarsi interi crimini, e riesco
persino a comprendere perfettamente di che genere possa essere tale vanità.
Ma Heine giudicava l’uomo che si confessava davanti a un pubblico. Io
invece scrivo per me soltanto e una volta per tutte dichiaro che se scrivo
dando in qualche modo l’impressione di rivolgermi ai lettori, lo faccio
solamente per mostra, perché così scrivere mi è più facile. Qui si tratta di
forma, di pura e semplice forma, di lettori invece io non ne avrò mai.
Questo l’ho già dichiarato…
Non voglio in alcun modo limitarmi nella redazione di queste mie
memorie. Non introdurrò ordine e sistemi. Quello che mi verrà in mente, lo
annoterò.
Ecco, per esempio: si potrebbe approfittare di una mia parola e
chiedermi: se davvero non contate di avere dei lettori, per qual motivo
dunque adesso prendete con voi stesso, e per di più sulla carta, simili
accordi, ovvero che non introdurrete ordine e sistemi, che annoterete quello
che vi verrà in mente, e così via, così via? Perché date delle spiegazioni?
Perché vi scusate?
«E che caspita…» rispondo.
Qui, d’altronde, entra in gioco un’intera psicologia. Forse persino il
fatto che io sono semplicemente un vigliacco. E forse anche che a bella
posta immagino un pubblico davanti a me per comportarmi in modo più
decoroso per tutto il tempo in cui prenderò i miei appunti. Le cause possono
essere un migliaio.
Ma ecco un’altra cosa: per qual motivo, perché precisamente voglio
scrivere? Se non è per un pubblico, allora si potrebbe anche fare così,
mentalmente ricordare ogni cosa, senza trasporla sulla carta.
Certo; ma sulla carta in qualche modo risulterà più solenne. In ciò ci
sarà qualcosa di più autorevole. Ci sarà un giudizio più rigoroso su se stessi,
s’aggiungerà qualcosa allo stile. Oltre a ciò: forse da questo mio annotare
avrò in effetti un qualche sollievo. Ecco, oggi, per esempio, sono in
particolare oppresso da un remotissimo ricordo. M’è tornato in mente in
modo chiaro da alcuni giorni, e da allora è rimasto con me, come un
fastidioso motivo musicale che non vuole lasciarmi libero. E invece bisogna
liberarsene. Di ricordi del genere ne ho a centinaia; ma di quando in quando
da queste centinaia ne viene fuori uno, e opprime. Per un qualche motivo
credo che, se ne scriverò, allora mi lascerà libero. E perché non provare?
Per concludere: mi annoio, e costantemente non faccio nulla. Il prender
nota, invece, è in effetti una sorta di lavoro. Si dice che il lavoro renda
l’uomo buono e onesto. Be’, per lo meno ecco una chance.
Oggi nevica, una neve quasi fradicia, gialla, torbida. Anche ieri
nevicava, e anche nei giorni scorsi. Ho l’impressione che sia a causa della
neve fradicia che m’è venuto in mente quell’aneddoto che adesso non mi
vuole lasciare libero. E, quindi, che si racconti una storia a proposito della
neve fradicia.
II.
A proposito della neve fradicia

Quando dal buio profondo dell’errore


Con la parola ardente della convinzione
Io l’anima traviata ho tratto in salvo,
Tu, tutta colma di grande tormento,
Hai maledetto, torcendoti le mani,
Il vizio che t’aveva avviluppata;
Quando la tua coscienza smemorata
Hai voluto punire col ricordo,
Mi hai trasmesso il racconto
Di tutto ciò che fu prima di me,
E allora, nascosto il volto tra le mani,
Di vergogna e d’orrore ormai colmata,
T’abbandonasti all’improvviso al pianto,
In preda al turbamento, allo stupore…
Eccetera, eccetera, eccetera.
Da una poesia di N.A. Nekrasov1
I.

A quell’epoca non avevo che ventiquattro anni. La mia vita era già allora
cupa, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo
nessuno e rifuggivo persino le conversazioni, e mi rimpiattavo sempre più
nel mio angolo. In ufficio, alla cancelleria, mi sforzavo persino di non
guardare nessuno, e notavo molto chiaramente che i miei colleghi non solo
mi consideravano uno strambo, ma che – e anche questa era una sensazione
costante – mi guardavano con una sorta di disgusto. Mi veniva in mente
questo pensiero: com’è che nessun altro oltre a me ha l’impressione che lo
si guardi con disgusto? Uno dei nostri impiegati della cancelleria aveva un
volto ripugnante e tutto butterato, e persino in qualche modo banditesco.
L’avessi avuta io una faccia così indecorosa, credo che non avrei osato
nemmeno guardare chicchessia. Un altro aveva la divisa a tal punto sudicia,
che attorno a lui si sentiva persino cattivo odore. E intanto nessuno di questi
signori provava il minimo imbarazzo, né a motivo del vestito, né tanto
meno della faccia, e nemmeno per qualche ragione d’ordine morale. Né
l’uno né l’altro s’immaginavano che li si potesse guardare con disgusto; e
anche se l’avessero immaginato, la cosa per loro sarebbe stata indifferente,
a meno che non si fosse trattato di un loro superiore. Adesso mi è del tutto
chiaro che io stesso, come conseguenza della mia sconfinata vanità, e
quindi anche delle pretese che avevo nei miei propri confronti, mi guardavo
assai spesso con un’insoddisfazione furiosa, che arrivava al disgusto, e che
quindi, mentalmente, attribuivo il mio sguardo a chiunque altro. Io, per
esempio, detestavo il mio volto, trovavo che fosse turpe, e sospettavo
addirittura che avesse una sorta d’espressione abietta, e per questo ogni
volta, presentandomi in ufficio, mi sforzavo tormentosamente di
comportarmi nel modo più indipendente possibile, affinché non mi
sospettassero di qualche infamia, e cercavo sempre d’esprimere con il volto
la massima nobiltà possibile. “Che sia pure un volto brutto” pensavo, “ma
che almeno sia nobile, espressivo e, soprattutto, estremamente intelligente”.
Tuttavia sapevo per certo e con sofferenza che il mio volto non avrebbe mai
espresso tutte queste virtù. Ma la cosa più terribile era che lo trovavo del
tutto stupido. Mentre mi sarei senz’altro accontentato dell’intelligenza.
Avrei persino accettato d’avere un’espressione abietta, purché al tempo
stesso il mio volto venisse trovato terribilmente intelligente.
Tutti i nostri impiegati della cancelleria, s’intende, li detestavo, dal
primo all’ultimo, e tutti li disprezzavo, e al tempo stesso era come se ne
avessi anche paura. Capitava che all’improvviso li considerassi persino al di
sopra di me. Allora la cosa mi capitava all’improvviso: ora li disprezzavo, e
un attimo dopo li consideravo al di sopra di me. Un uomo evoluto e perbene
non può essere vanitoso senza nutrire infinite pretese nei propri confronti, e
senza provare in alcuni momenti un disprezzo verso se stesso capace di
giungere all’odio. Ma, sia che li disprezzassi o li considerassi al di sopra di
me, di fronte a quasi chiunque incontrassi io abbassavo lo sguardo. Facevo
persino degli esperimenti: sopporterò lo sguardo del tale su di me? Ed ero
sempre io ad abbassarlo per primo. La cosa mi tormentava fino alla furia.
Fino a farne una malattia temevo anche d’essere ridicolo, e per questo
adoravo come un servo la routine in ogni cosa riguardasse il mondo esterno;
con amore mi mantenevo nella carreggiata comune, e con tutta l’anima
temevo che in me s’esprimesse una qualsiasi eccentricità. Ma come avrei
potuto resistere? Ero morbosamente evoluto, come tocca esserlo a un uomo
evoluto dei nostri tempi. Loro invece erano tutti ottusi, e simili l’uno
all’altro, come montoni in un gregge. Forse a me solo in tutta la cancelleria
sembrava costantemente di essere un vigliacco e uno schiavo; proprio per
questo mi sembrava anche di essere evoluto. Ma non era solo questione di
sembrare tale, in effetti era davvero così; ero un vigliacco e uno schiavo. Lo
dico senza la minima vergogna. Qualsiasi uomo perbene del nostro tempo è
e deve essere un vigliacco e uno schiavo. Si tratta della sua condizione
normale. Di questo sono profondamente convinto. È fatto così e per ciò è
costituito. E non nel tempo presente, per qualche circostanza casuale, ma in
generale in ogni tempo l’uomo perbene deve essere un vigliacco e uno
schiavo. È una legge della natura di tutti gli uomini perbene sulla terra. Se
anche dovesse succedere che uno di loro braveggi in qualcosa, di questo
non ha motivo di consolarsi e di infervorarsi: comunque sia, in un altro caso
se la farà sotto. Tale è l’unica e sempiterna via d’uscita. Braveggiano
soltanto gli asini e i loro bastardi, ma anche quelli fino a un certo punto. A
quelli non val nemmeno la pena di rivolgere l’attenzione, perché non
significano assolutamente nulla.
Mi tormentava a quell’epoca ancora un’altra circostanza: e
precisamente il fatto che nessuno mi assomigliasse, e che io non
assomigliassi a nessuno. “Io sono dunque solo, e loro invece sono tutti”
pensavo, e mi perdevo in riflessioni.
Da ciò si vede che ero ancora soltanto un ragazzetto.
Capitavano anche cose del tutto opposte. Già allora, ogni tanto, mi
veniva un vero disgusto all’idea di recarmi alla cancelleria: s’arrivava al
punto che molte volte me ne tornavo dall’ufficio ammalato. Ma
all’improvviso, di punto in bianco, si faceva avanti una fase di scetticismo e
indifferenza (in me tutto era a fasi), ed ecco che invece ridevo della mia
intolleranza e schifiltosità, io stesso mi rinfacciavo il mio romanticismo.
Capitava che a volte non volessi nemmeno parlare con nessuno, mentre
altre invece arrivavo al punto che non solo parlavo con loro, ma mi veniva
anche in mente d’intrattenere dei rapporti amichevoli. Tutta la schifiltosità
all’improvviso, d’un colpo e senza motivo alcuno, scompariva. Chi lo sa,
forse non ce l’avevo nemmeno mai avuta, ma era stata solo qualcosa
d’affettato, di libresco? Ancora oggi non sono arrivato a risolvere la
questione. Una volta feci persino davvero amicizia con loro, presi ad andare
a trovarli a casa, a giocare a préférence2, bere vodka, discutere di
promozioni… Ma qui permettetemi di fare una digressione.
Noi russi, parlando in generale, non abbiamo mai avuto quei romantici
tedeschi e soprattutto francesi, sciocchi e proiettati di là dalle stelle, eterei,
sui quali nulla riesce ad avere effetto: potrebbe tremargli la terra sotto i
piedi o la Francia tutta potrebbe morire sulle barricate, e loro sarebbero
sempre gli stessi, non cambierebbero nemmeno per dare un’impressione di
decoro, e continuerebbero a cantare i loro canti eterei, per così dire, fino
alla tomba, perché sono degli imbecilli. Da noi, invece, in terra russa, non ci
sono imbecilli; questo è risaputo; è appunto in questo che ci distinguiamo
dalle altre terre straniere. Ne consegue che da noi non circolano nemmeno
nature eteree, per lo meno nella loro forma pura. Furono i nostri pubblicisti
e critici “positivi” di allora, che all’epoca andavano a caccia dei vari
Kostanžoglo e zietti Pëtr Ivanovič3 e per stupidità li avevano presi per il
nostro ideale, che s’inventarono i nostri romantici, considerandoli dei tipi
altrettanto eterei quanto quelli che si potevano trovare in Germania oppure
in Francia. Al contrario, le proprietà del nostro romantico sono senz’altro e
chiaramente opposte a quelle dell’europeo etereo, e qui non può essere
applicata alcuna minima unità di misura europea. (Permettetemi però di
utilizzare questa parola: “romantico”, una paroletta antica, rispettabile,
benemerita e a tutti nota.) Le proprietà del nostro romantico sono capire
tutto, tutto vedere e vedere spesso in modo incomparabilmente più chiaro di
come vedano le nostre menti più positive; non venire mai a patti con nulla e
con nessuno, ma al tempo stesso nemmeno disdegnare alcunché; girare
attorno a tutto, cedere il passo a tutto, con tutti agire in modo politico; non
perdere mai di vista lo scopo positivo, pratico (certi appartamentini a spese
dello Stato, certe pensioncine, certe decorazioncine), tenere gli occhi
addosso a quello scopo al di là di tutti gli entusiasmi e di tutti i volumetti di
versucoli lirici, e al tempo stesso conservare in sé anche “il bello e il
sublime”, incrollabile fino alla tomba, conservando nel contempo se
medesimi tutti avvolti nella bambagia, come un qualche oggettino di
gioielleria, non foss’altro, per esempio, che per il vantaggio di quello stesso
“bello e sublime”. È uomo d’ampie vedute il nostro romantico, e un
furfante di primissimo piano tra tutti i nostri furfanti, questo ve l’assicuro…
persino per esperienza. Tutto questo, s’intende, se il romantico è
intelligente. Cioè, ma cos’è che sto dicendo! Il romantico è sempre
intelligente, volevo solo far notare che, anche se da noi ci sono pure stati
dei romantici imbecilli, non rientrano comunque nel conto e unicamente
perché quelli, ancora nel fiore delle forze, si erano definitivamente
trasformati in tedeschi e, per conservare con ancora maggior agio il loro
oggettino da gioielleria, s’erano stabiliti laggiù da qualche parte, per lo più
a Weimar o nello Schwarzwald4. Io, per esempio, disprezzavo in tutta
sincerità il mio lavoro d’ufficio e non ci sputavo sopra unicamente per
necessità, perché era il mio lavoro e per farlo mi davano dei soldi. Il
risultato, dunque, notate bene, era che comunque non ci sputavo sopra. Il
nostro romantico piuttosto uscirebbe di senno (cosa che, d’altronde, capita
molto di rado), ma non si metterebbe mai a sputare se non avesse in vista
un’altra carriera, e a calci non lo si caccerebbe fuori, piuttosto si farebbe
portare in manicomio affermando di essere “il re di Spagna”5, ma questo
solo se uscisse davvero tanto di senno. Ma da noi escono di senno solo i tipi
debolucci e i biondini. Mentre una quantità davvero innumerevole di
romantici in seguito arriva a occupare dei posti di tutto rispetto. Una
versatilità insolita! E quale capacità nei confronti delle sensazioni più
controverse! Già allora ne ero consolato, e oggi nutro gli stessi pensieri. È
proprio per questo che da noi ci sono così tante “nature ampie”, che persino
al cospetto della caduta più rovinosa non perdono mai il loro ideale; e anche
se non muovono un dito per quell’ideale, anche se sono briganti e ladri
matricolati, tuttavia conservano il rispetto per il loro ideale primario,
giungendo quasi a piangere, e nell’anima sono insolitamente onesti. Sì,
signori, solo tra noi il mascalzone più matricolato può essere senz’altro e
persino nobilmente onesto nell’anima, senza per questo smettere d’essere al
tempo stesso un mascalzone. Lo ripeto, sempre e dappertutto dai nostri
romantici verranno fuori a volte quei birbanti pratici (la parola “birbanti” la
uso con affetto), mostreranno all’improvviso un tale senso della realtà e
conoscenza del positivo che i superiori sbalorditi e il pubblico non potranno
far altro che schioccare la lingua, stupefatti.
La versatilità è davvero sbalorditiva, e Dio solo sa in cosa s’esprimerà e
che cosa ne verrà fuori nelle circostanze successive e cosa ci prometta per il
nostro futuro. E il materiale non è niente male! Non sto parlando così per un
qualche patriottismo, ridicolo o di bassa lega. D’altronde sono convinto che
voi di nuovo pensiate che io stia scherzando. Ma chi lo sa, forse è vero il
contrario, ovvero siete convinti che io in effetti la pensi proprio così. In
ogni caso, signori, entrambi i vostri pareri li considererò un onore per me, e
un particolare piacere. E questa mia digressione me la dovete scusare.
Coi miei compagni, s’intende, l’amicizia non riuscivo a reggerla e
molto presto mi diedi a sputacchiarci sopra, e a seguito della mia giovanile
inesperienza di allora quasi non li salutavo, come se volessi tagliare i ponti.
Questo, d’altronde, mi era capitato in tutto una sola volta. In generale,
invece, ero sempre solo.
A casa, in primo luogo, più che altro leggevo. Avevo voglia di soffocare
con le impressioni esterne tutto quello che in me s’andava depositando
senza interruzione. E tra le impressioni esterne per me era possibile soltanto
la lettura. La lettura, certo, era molto d’aiuto: agitava, lusingava,
tormentava. Ma di quando in quando la noia era tremenda. Comunque c’era
la voglia di muoversi, e all’improvviso mi sprofondavo in un’oscura,
sotterranea, ripugnante… non proprio depravazione, ma depravazioncella.
Le piccole passioni in me erano acute, ardenti, per via della mia perenne
irritabilità morbosa. Gli attacchi erano isterici, con lacrime e convulsioni.
Oltre alla lettura, non c’era nessun posto dove andare, ovvero non c’era
nulla che io allora potessi riverire in quel che mi circondava e verso il quale
mi sentissi attratto. Sopra a tutto s’andava accumulando l’angoscia; si
manifestava una brama isterica di contraddizioni, di contrasti, ed ecco che
m’abbandonavo alla depravazione. Adesso non ho affatto parlato per
procurarmi una qualche giustificazione… Ma, d’altra parte, no! Ho mentito!
Mi volevo appunto giustificare. È per me, signori, che faccio
quest’osservazioncina. Non voglio mentire. Ho dato la mia parola.
M’abbandonavo alla depravazione in solitudine, di notte, di nascosto,
con paura, sudicio, con una vergogna che non mi lasciava nemmeno nei
momenti più ripugnanti, e che in simili momenti arrivava fino alla
maledizione. Già allora mi portavo nell’anima mia il sottosuolo. Avevo una
paura terribile che in qualche modo mi si vedesse, mi s’incontrasse, mi si
riconoscesse. Andavo allora per vari luoghi assai oscuri.
Una volta, passando una notte accanto a una piccola taverna, vidi nella
finestra illuminata dei signori che con le stecche si stavano picchiando
accanto al biliardo, e che poi prendevano uno di loro e lo spingevano fuori
dalla finestra. In un altro momento mi sarebbe sembrato un abominio; ma
allora all’improvviso mi ritrovai nella condizione di poter persino provare
invidia per quel signore spinto fuori, e lo invidiai al punto da arrivare a
entrare nella taverna, nella sala del biliardo, pensando: “Forse potrei
mettermi anch’io a lottare, e magari spingerebbero anche me fuori dalla
finestra”.
Non ero ubriaco, ma che volete farci, quando si raggiunge una tale
isteria, ci può divorare l’angoscia! E comunque non ne venne fuori nulla.
Risultò che non ero nemmeno in grado di saltare giù dalla finestra, e così
me ne uscii senza aver fatto a botte.
Mi rimise al mio posto in quell’occasione un ufficiale, fin dal primo
passo.
Ero fermo accanto al biliardo e senza nemmeno saperlo gli impedivo il
passaggio, mentre quello di lì doveva passare; mi prese per le spalle e in
silenzio, senza avermi avvisato o dato una qualsiasi spiegazione, mi spostò
dal punto dove me ne stavo a un altro, e passò, come se nemmeno m’avesse
notato. Avrei persino lasciato correre una pestata, ma non potevo in alcun
modo lasciar correre che lui m’avesse spostato da dov’ero e che nemmeno
se ne fosse in definitiva accorto.
Lo sa il diavolo che cosa avrei dato allora per un’autentica lite, più che
giusta, più che dignitosa, per una lite più, per così dire, letteraria! Con me
ci si era comportati come con una mosca. Quell’ufficiale era alto dieci
verški6; io invece ero un uomo bassino e svigorito. La lite, d’altronde, era
nelle mie mani: sarebbe bastato protestare e, certo, mi avrebbero spinto
fuori dalla finestra. Ma ci ripensai e preferii… eclissarmi, esacerbato.
Me ne uscii dalla taverna, confuso e agitato, andai dritto a casa, e il
giorno dopo continuai nella mia depravazioncella in modo ancor più timido,
avvilito e triste di prima, come con le lacrime agli occhi, ma comunque
continuai. Non pensiate, d’altronde, che io avessi avuto paura dell’ufficiale
per vigliaccheria: non sono mai stato un vigliacco nell’anima, anche se lo
ero stato ininterrottamente nella pratica, ma aspettate a ridere, a questo c’è
una spiegazione: con me a tutto c’è una spiegazione, statene certi.
Oh, se quell’ufficiale fosse stato di quelli che accettavano di battersi a
duello! Ma no, era precisamente uno di quei signori (ahimè! da tempo
scomparsi) che preferivano usare le stecche da biliardo o, come il tenente
Pirogov di Gogol’7, passare alla via gerarchica. Al duello non ci arrivavano,
e con uno di noi, con un civile, il duello l’avrebbero considerato comunque
sconveniente, e in generale il duello lo consideravano una cosa da liberi
pensatori, alla francese, e intanto dispensavano offese a destra e a manca,
soprattutto quando erano di dieci verški di statura.
Mi presi paura, allora, non per vigliaccheria, ma per smisurata vanità.
Mi spaventai non per i dieci verški e non per il fatto che me le avrebbero
suonate e m’avrebbero spinto giù dalla finestra; il coraggio fisico, davvero,
mi sarebbe bastato; ma quello che non bastava era il coraggio morale. Mi
spaventai perché a me tutti i presenti, a cominciare da quello sfacciato del
marqueur8 fino all’ultimo degli impiegatucci malconci e pustolosi che se ne
stava lì col suo collettino tutto unto di grasso, non m’avrebbero capito e si
sarebbero messi a ridere se avessi cominciato a protestare e a parlar loro in
un linguaggio letterario. Questo perché del punto d’onore, ovvero non
dell’onore, ma del “punto d’onore” (point d’honneur), da noi fino a ora non
si può parlare che in un linguaggio letterario. Nel linguaggio comune il
“punto d’onore” non lo si menziona nemmeno. Ero assolutamente convinto
(ho il fiuto della realtà, a dispetto di tutto il romanticismo!) che tutti loro si
sarebbero limitati a scoppiare a ridere, e che l’ufficiale m’avrebbe pestato
non in modo semplice, ovvero innocuo, ma che senz’altro m’avrebbe preso
a ginocchiate, facendomi fare in tal maniera il giro del biliardo, e solo poi,
forse, si sarebbe impietosito e m’avrebbe spinto fuori dalla finestra.
S’intende che questa storia miserabile con me non poteva finire in altro
modo. In seguito incontrai spesso quell’ufficiale, per strada, ed ebbi modo
d’osservarlo per bene. Solo non so se lui m’avesse o meno riconosciuto.
Probabilmente no; giungo a questa conclusione sulla base di alcuni
elementi. Ma io invece, io lo guardavo con rabbia e odio, e così andò
avanti… alcuni anni! La mia rabbia si rafforzava persino e cresceva con gli
anni. Dapprincipio, piano piano, cominciai a raccogliere informazioni su
quell’ufficiale. Era difficile per me, in quanto non conoscevo nessuno. Ma
una volta qualcuno lo chiamò per cognome per la strada quando, da
lontano, lo stavo seguendo come se fossi precisamente legato a lui, e così
venni a sapere il suo cognome. Un’altra volta lo seguii proprio fino al suo
alloggio, e per un soldino seppi dal portiere dove abitava, a che piano, se
stesse da solo o con qualcuno, e così via – in poche parole, tutto quello che
si può venire a sapere da un portiere. Una volta, di mattina, anche se non
m’ero mai perso in fantasie letterarie, all’improvviso mi venne l’idea di
descrivere quest’ufficiale in termini “cusatori”9, caricaturali, in forma di
novella. Con godimento scrissi quella novella. Mossi “cuse” nei suoi
confronti, arrivai persino a calunniare; in un primo momento modificai il
cognome in modo che lo si potesse subito riconoscere, ma in seguito, dopo
matura riflessione, lo cambiai e mandai il tutto agli «Annali della patria»10.
Ma all’epoca lo stile “cusatorio” ancora non era di moda, e la mia novella
non venne pubblicata. La cosa mi fece indispettire parecchio. A volte la
rabbia arrivava semplicemente a soffocarmi. Alla fine mi decisi a sfidare il
mio avversario a duello. Gli scrissi una magnifica lettera allettante,
pregandolo di scusarsi con me; in caso di rifiuto, invece, allusi con una
certa fermezza al duello. La lettera era scritta in modo tale che, se l’ufficiale
avesse anche solo minimamente compreso il “bello e sublime”, sarebbe
senz’altro corso da me per gettarmi le braccia al collo, e offrirmi la sua
amicizia. E come sarebbe stato bello! Avremmo potuto cominciare a vivere
così! Vivere così! Lui m’avrebbe difeso con la sua imponenza; io invece
l’avrei nobilitato con il mio grado di evoluzione, be’, e anche… con le mie
idee, e molto avrebbe così potuto essere! Immaginate che allora erano
passati due anni da quando m’aveva offeso, e la mia sfida era un assurdo
anacronismo, nonostante tutta l’abilità della mia lettera, che spiegava e
dissimulava tale anacronismo. Ma, grazie a Dio (ancora oggi ringrazio
l’Altissimo con le lacrime agli occhi) quella lettera io non la mandai. Mi
viene ancora la pelle d’oca se penso a quello che ne sarebbe potuto venir
fuori se l’avessi mandata. E all’improvviso… e all’improvviso mi vendicai
nel modo più semplice, più geniale! All’improvviso fui ispirato dall’idea
più luminosa. A volte, durante le feste, verso le quattro me ne andavo sul
Nevskij11 e passeggiavo sul lato soleggiato. Cioè, non passeggiavo affatto,
bensì provavo innumerevoli tormenti, umiliazioni e travasi di bile; ma è
così, probabilmente, che con me doveva essere. Guizzavo come
un’anguilla, nel modo più brutto, tra i passanti, cedendo senza posa il passo
vuoi a un generale, vuoi a un ufficiale della guardia a cavallo o a un ussaro,
vuoi a una signora; in quei momenti provavo dei dolori convulsivi al cuore
e un calore bruciante alla schiena al semplice pensiero della misère12 del
mio abito, della misère e della volgarità di quella mia guizzante figuretta.
Era il più tormentoso dei tormenti, l’umiliazione ininterrotta e
insopportabile al pensiero, che si tramutava in una sensazione ininterrotta e
immediata, che io ero una mosca al cospetto di tutto quel mondo, una
mosca ripugnante, inutile, più intelligente, più evoluta, più nobile, questo va
da sé, e tuttavia una mosca che cedeva senza posa il passo, da tutti umiliata
e da tutti offesa. Perché mai mi facevo carico di questo tormento, perché
mai andavo sul Nevskij? Non lo so. Ma ero semplicemente attratto laggiù a
ogni minima occasione.
Allora già cominciavo a provare gli accessi di quelle voluttà delle quali
ho già parlato nel primo capitolo. Dopo la storia con l’ufficiale cominciai a
essere attratto laggiù con forza ancora maggiore: era sul Nevskij che lo
incontravo per lo più, era lì che me lo rimiravo. Anche lui ci andava per lo
più durante le feste. Anche se pure lui cedeva il passo ai generali e ai
personaggi imponenti, e anche lui si dimenava come un’anguilla tra di loro,
quelli come noialtri, e persino quelli meglio messi di noi, li opprimeva; gli
andava dritto addosso, come se davanti a sé avesse uno spazio vuoto, e mai
in nessun caso cedeva il passo. M’inebriavo della mia rabbia, guardandolo,
e… ogni volta esasperato davanti a lui mi spostavo. Mi tormentava che
persino anche per strada non riuscissi a essere alla pari con lui. “Perché mai
immancabilmente per primo ti sposti?” mi davo addosso, in preda a
un’isteria furiosa, svegliandomi a volte alle tre di notte. “Perché sempre tu,
e non lui? Per questo certo non c’è una legge, questo non è certo scritto da
nessuna parte! Che sia almeno alla pari, a metà, come succede di solito,
quando due persone per bene s’incontrano: lui si sposta di un po’, e tu
dell’altro po’, e così passate, mostrandovi reciproco rispetto”. Ma così non
era, e comunque ero io a spostarmi, e lui quasi nemmeno notava che gli
cedevo il passo. Ed ecco che mi venne la più luminosa e sorprendente delle
idee. “E che sarebbe” pensai, “se, incontrandolo, non mi facessi da parte?
Non mi facessi da parte a bella posta, anche se persino mi toccasse
d’urtarlo: e che sarebbe mai, allora?” Questo pensiero audace a poco a poco
s’impossessò a tal punto di me, da non darmi pace. Ne sognavo senza posa,
mi recavo sul Nevskij con una frequenza terribile, proprio allo scopo di
immaginare in modo ancor più chiaro come avrei dovuto fare, quando mi
fossi deciso a farlo. Ero in preda all’entusiasmo. Sempre più
quell’intenzione mi si presentava come qualcosa di verosimile e possibile.
“S’intende che non lo urterei davvero” pensavo, cominciando fin da prima a
rabbonirmi per la gioia, “ma così, semplicemente non mi farei da parte, ci
colpiremmo così, senza farci troppo male, ma così, spalla contro spalla,
proprio quanto è definito dal decoro; di modo che quel tanto che lui mi
urterà, in egual misura lo urterò pure io”. Finalmente mi decisi davvero. Ma
i preparativi richiesero moltissimo tempo. Per prima cosa occorreva che, al
momento dell’esecuzione della faccenda, avessi un aspetto più decoroso e
mi preoccupassi dell’abito. “In ogni caso, se, per esempio, ne dovesse venir
fuori una storia pubblica (e di un pubblico superflu13: lì passa una contessa,
ci passa il principe D., ci passa tutta la letteratura), era necessario essere ben
vestiti; ciò incute rispetto e in un certo senso ci metterebbe sullo stesso
piano agli occhi dell’alta società”. A questo scopo chiesi un anticipo sullo
stipendio e mi comprai dei guanti neri e un cappello come si deve, da
Čurkin. I guanti neri mi sembravano conferire più serietà e più bon ton14 di
quelli color limone, che avevo preso in considerazione in un primo
momento. “È un colore troppo forte, come se chi li porta voglia mettersi
troppo in mostra” e non avevo preso quelli color limone. Una bella camicia,
con dei gemelli bianchi d’osso, l’avevo preparata già da un pezzo; ma c’era
il cappotto che mi tratteneva parecchio. Di per sé il mio cappotto non era
affatto brutto, era caldo; ma era imbottito, e il colletto era di procione, il che
lo poneva poco al di sopra dei cappotti da lacchè. Occorreva cambiare il
colletto a qualsiasi costo, e metterci del castorino, del tipo portato dagli
ufficiali. Per questo cominciai ad andare al Gostinyj Dvor15 e, dopo alcuni
tentativi, misi le mani su un castorino tedesco a buon mercato. Questi
castorini tedeschi, anche se si sciupano molto in fretta e assumono un
aspetto miserrimo, all’inizio, al momento dell’acquisto, hanno un’aria
persino del tutto dignitosa; e d’altra parte a me serviva proprio per una sola
volta. Chiesi il prezzo: era comunque caro. Sulla base di un serio
ragionamento mi decisi a vendere il mio colletto di procione. La somma
mancante e per me assai significativa mi decisi a chiederla in prestito ad
Anton Antonyč16 Setočkin, il mio caporeparto, un uomo umile ma serio e
positivo, che non dava soldi in prestito a nessuno, ma al quale, al momento
del mio ingresso in ufficio, ero stato in particolare raccomandato da un
personaggio importante che m’aveva destinato a quell’incarico. Mi
tormentavo terribilmente. Chiedere dei soldi ad Anton Antonyč mi
sembrava mostruoso e vergognoso. Non dormii persino per due o tre notti, e
in generale allora dormivo poco, ero come in preda alla febbre; il cuore mi
si serrava così sconvolto, o all’improvviso cominciava a correre, correre,
correre!… Anton Antonovič in un primo momento si stupì, poi fece una
smorfia, poi ragionò, e comunque me li diede in prestito, prendendosi da
parte mia una ricevuta che conferiva il diritto di ricevere comunque in
restituzione i soldi trattenendoli due settimane più tardi dallo stipendio. In
tal modo tutto era finalmente pronto; un bel castorino regnava al posto del
lurido procione, e a poco a poco cominciai a mettermi all’opera. Non
bisognava affatto decidersi a farlo fin dalla prima volta, di botto; quella
faccenda andava portata avanti con perizia, quindi a poco a poco. Ma
confesso che dopo ripetuti tentativi stavo già cominciando a disperare: non
saremmo mai arrivati a urtarci, punto e basta! Per quando mi fossi
preparato, per quanto avessi ferme intenzioni, per quanto fosse ormai chiaro
che, ecco, adesso ci saremmo urtati, invece ecco che di nuovo m’ero fatto
da parte, e lui era passato, senza nemmeno notarmi. Avevo persino
cominciato a recitare delle preghiere mentre m’avvicinavo a lui, affinché
Dio mi instillasse la determinazione. Una volta m’ero ormai quasi
completamente deciso, ma andò a finire che gli capitai solo tra i piedi,
perché proprio all’ultimo momento, a una distanza ormai di solo un paio di
verški, non mi era bastato il coraggio. Con tutta calma mi passò sopra, e io,
come una pallina, me ne volai da parte. Quella notte fui di nuovo preda
della febbre, e delirai. E all’improvviso tutto finì come meglio non avrebbe
potuto. La vigilia, di notte, stabilii in modo definitivo di non mettere in atto
la mia intenzione funesta e di lasciar perdere tutto quanto, e con questo
scopo per un’ultima volta me ne andai sul Nevskij, così, solo per dare
un’occhiata a come avrei lasciato perdere ogni cosa. All’improvviso, a tre
passi dal mio nemico, in modo del tutto inaspettato mi decisi, socchiusi gli
occhi e… ci urtammo con forza, spalla contro spalla! Non cedetti di un
passo e gli passai accanto del tutto da pari a pari! Non si voltò nemmeno a
guardare, e diede a vedere di non essersene accorto; ma lo diede solo a
vedere, di questo sono certo. Ancora adesso ne sono certo! S’intende, io ne
subii le maggiori conseguenze; era più forte, ma non era quello il punto. Il
punto era che avevo raggiunto il mio scopo, avevo tenuto alta la mia
dignità, non avevo ceduto d’un passo e in pubblico mi ero posto sul suo
stesso piano sociale. Me ne tornai a casa del tutto vendicato per ogni cosa.
Ero in preda all’entusiasmo. Trionfavo e cantavo arie italiane. S’intende che
non starò a descrivervi quello che mi capitò di lì a tre giorni; se avete letto il
mio primo capitolo, Il sottosuolo, allora ve lo potete immaginare da soli. In
seguito l’ufficiale venne trasferito da qualche altra parte; saranno ormai
almeno quattordici anni che non lo vedo. Che ne sarà ora di lui, del mio
carissimo? Chi starà schiacciando?
II.

Ma terminava la fase della mia depravazioncella, e mi veniva una terribile


nausea. Si faceva avanti il pentimento, io lo scacciavo: era davvero troppo
nauseante. A poco a poco, tuttavia, anche a quello m’avvezzai.
M’avvezzavo a tutto, ovvero, non che m’avvezzassi, ma in qualche modo
accettavo volontariamente di sopportare. E poi avevo una via d’uscita che
tutto pacificava, che consisteva nel salvarsi in tutto ciò che era “bello e
sublime”, certo, nei sogni. Sognavo terribilmente, sognavo per tre mesi di
fila, sprofondato nel mio angolo, e dovete credere che in quei momenti non
assomigliavo affatto a quel signore che, in preda al turbamento del suo
cuore di gallina, s’era cucito al colletto del cappotto un castorino tedesco.
All’improvviso diventavo un eroe. Il mio tenente alto dieci verški allora non
l’avrei nemmeno fatto entrare in casa mia se fosse venuto a trovarmi. Allora
non riuscivo nemmeno più a immaginarmelo. Quali fossero i miei sogni e
come potessi contentarmene, adesso mi è difficile dirlo, ma allora me ne
contentavo. D’altronde, anche adesso in parte me ne contento. I sogni
venivano a me in modo più dolce e forte dopo la depravazioncella, mi
venivano col pentimento e le lacrime, con le maledizioni e gli entusiasmi.
C’erano momenti di tale ebbra positività, di tale felicità, che dentro di me
non s’avvertivano nemmeno i minimi scherni, per Dio. C’erano la fede, la
speranza, l’amore. Ed era appunto così, io allora credevo ciecamente che
grazie a qualche portento, grazie a qualche circostanza esterna tutto ciò
all’improvviso si sarebbe scostato, ampliato; all’improvviso si sarebbe
presentato l’orizzonte d’un campo d’azione adeguato, benefico,
meraviglioso e, quel che più contava, del tutto pronto (quale con precisione
non l’avevo mai saputo, ma quel che più contava era che fosse del tutto
pronto), ed ecco che io all’improvviso avrei fatto il mio ingresso nel mondo
del buon Dio, poco mancava che fossi in sella a un cavallo bianco e con una
corona d’alloro sul capo. Non potevo nemmeno concepire un ruolo
secondario, e proprio per questo nella realtà finivo con l’occuparne uno
degli ultimi. O un eroe, o nel fango, non c’erano vie di mezzo. Fu proprio
questo a distruggermi, perché nel fango mi consolavo pensando che in un
altro momento sarei stato un eroe, e il fatto di poter essere un eroe
cancellava qualsiasi fango: l’uomo comune si vergogna di lordarsi, mentre
l’eroe è troppo elevato perché qualcosa lo lordi, e conseguentemente io mi
potevo lordare. È sorprendente che questi accessi di tutto quel che è “bello e
sublime” mi venissero anche quando ero preda della mia depravazioncella,
e per la precisione quando già mi trovavo proprio a toccare il fondo;
venivano così, in forma di piccoli scoppi separati, come per far ricordare la
loro presenza, e tuttavia con questa loro presenza non riuscivano a estirpare
la depravazioncella; al contrario era come se la ravvivassero per contrasto e
arrivavano giustappunto per fungere da buon condimento. Tale condimento
consisteva in contraddizioni e sofferenze, in una tormentosa analisi
interiore, e tutti questi tormenti, grandi e piccoli, aggiungevano un che di
piccante, davano persino un senso alla mia depravazione, in poche parole
svolgevano appieno il compito di buon condimento. Tutto ciò non era
nemmeno privo di una certa sua profondità. E, d’altra parte, avrei mai
potuto acconsentire a una depravazioncella semplice, volgare, spontanea, da
scrivano, e rovesciarmi addosso tutto quel fango? Che cosa avrebbe mai
potuto attirarmi e adescarmi la notte, per la strada? No, signori, avevo la
mia nobile scappatoia per tutto…
Ma quanto amore, Signore Iddio, quanto amore vivevo, allora, nei miei
sogni, in quelle mie “fughe verso tutto ciò che era bello e sublime”: anche
se si trattava di un amore fantastico, anche se non s’applicava mai a nulla di
umano, ce n’era tuttavia tanto, di quell’amore, così che poi, nella realtà,
quasi non si sentiva nemmeno l’esigenza di applicarlo davvero: sarebbe
stato un lusso superfluo. Tutto, d’altronde, andava sempre a finire per il
meglio con una pigra e inebriante transizione verso l’arte, ovvero verso le
forme belle dell’esistenza quotidiana, del tutto pronte, sottratte con la forza
ai poeti e ai romanzieri e adattate a ogni possibile servizio ed esigenza. Io,
per esempio, trionfavo su tutti; tutti, s’intende, erano ridotti in cenere e
costretti a riconoscere di buona voglia ogni mia perfezione, e io li
perdonavo tutti quanti. Mi innamoravo, essendo diventato un famoso poeta
e ciambellano17; ricevevo svariati milioni e subito li sacrificavo per il
genere umano, e subito confessavo davanti al popolo tutto le mie infamie
che, s’intende, non erano semplici infamie, ma racchiudevano in loro
moltissimo di “bello e sublime”, qualcosa alla maniera di Manfred18. Tutti
piangevano e mi baciavano (altrimenti sarebbero stati dei veri imbecilli), e
io andavo scalzo e affamato a predicare le nuove idee e sconfiggevo i
retrogradi ad Austerlitz. Quindi si metteva a suonare una marcia, veniva
emanata un’amnistia, il Papa accettava di recarsi da Roma in Brasile; quindi
c’era un ballo per tutta l’Italia a Villa Borghese19, che era sulla riva del lago
di Como, di modo che il lago di Como per l’occasione era stato spostato a
Roma; quindi c’era una scena tra i cespugli, e così via, così via, forse che
non sapete cosa intenda? Voi direte che è volgare e vile tirare fuori tutto ciò
come se fossimo al mercato, dopo tante ebbrezze e lacrime, che io stesso ho
appena confessato. Perché, poi, vile? Possibile che pensiate che mi vergogni
di tutto ciò e che tutto ciò sia più stupido di una qualsiasi cosa che abbia
avuto luogo nella vostra vita, signori? E inoltre, mi dovete credere, nelle
mie fantasie c’erano cose che avevo messo assieme tutt’altro che male…
Non tutto si svolgeva sul lago di Como. E, d’altronde, avete ragione; in
effetti è volgare e vile. Ma la cosa più vile è che adesso io faccia questa
osservazione. Ma basta così, d’altronde, altrimenti non la si finirà mai: tutto
sarà sempre più vile di qualcos’altro…
Tuttavia non riuscivo a sognare a quel modo per più di tre mesi di fila e
cominciavo ad avvertire l’irresistibile esigenza di lanciarmi in società.
Lanciarmi in società per me significava andare a trovare il mio caporeparto,
Anton Antonyč Setoč kin. Era il mio unico conoscente fisso di tutta una
vita, e sono io stesso adesso a meravigliarmi di una simile circostanza. Ma
anche da lui ci andavo forse solo quando si presentava quella tal fase, e i
miei sogni raggiungevano una tale felicità che bisognava senz’altro e senza
indugio riunirsi in un abbraccio con la gente e con l’umanità tutta; e per far
ciò occorreva almeno una persona disponibile, effettivamente esistente. Da
Anton Antonyč occorreva, d’altronde, presentarsi di martedì (era il suo
giorno), di conseguenza era sempre necessario rimandare a un martedì
l’esigenza di riunirsi in un abbraccio con l’umanità tutta. Alloggiava
quell’Anton Antonyč ai Cinque Angoli20, al terzo piano e in quattro
stanzette, dal soffitto basso e una più piccola dell’altra, che avevano un’aria
assai economica e giallognola. Aveva due figlie e la loro zietta, che versava
il tè. Le figlie, una di tredici anni e l’altra di quattordici, avevano entrambe
il naso all’insù, e io mi confondevo terribilmente in loro presenza, perché
non facevano che bisbigliare tra loro, e ridacchiare. Di solito il padrone di
casa sedeva nello studio, su un divano di pelle, davanti al tavolo, in
compagnia di qualche ospite canuto, un impiegato dei nostri o persino di un
dicastero estraneo. Non mi capitò mai di vedere più di due o tre ospiti, e
sempre gli stessi. Parlavano di accise, di maneggi al Senato, di stipendi, di
promozioni, di Sua Eccellenza, di come fare a piacergli, e così via, così via.
Io avevo la pazienza di starmene seduto come un allocco accanto a queste
persone fino a quattro ore, e d’ascoltarle, senza osare né essere in grado di
dire alcunché. Mi intontivo, c’erano le volte che cominciavo a sudare,
venivo preso da una sorta di paralisi; ma ciò era un bene ed era utile.
Tornato a casa, per un certo tempo mettevo da parte il mio desiderio di
stringermi in un abbraccio con l’umanità tutta.
Avevo, d’altronde, anche un altro conoscente, Simonov, un mio vecchio
compagno di scuola. Di compagni di scuola, certo, ne avevo persino molti a
Pietroburgo, ma non li frequentavo e avevo addirittura smesso di salutarli
per strada. Io, forse, m’ero anche spostato in un altro dipartimento per non
restare assieme a loro e tagliare così d’un colpo i rapporti con tutta la mia
odiata infanzia. Maledetta sia quella scuola, e tutti quei terribili anni di
galera21. In poche parole, dai compagni subito mi ero separato appena
tornato in libertà. Restavano due o tre persone con le quali ancora mi
salutavo, incontrandole. In quel novero rientrava anche Simonov, che a
scuola, con noi, non si distingueva in nulla, era mite e tranquillo, ma in lui
io avevo colto una certa indipendenza di carattere e addirittura una sorta di
rettitudine. Penso persino che non fosse nemmeno molto limitato. Assieme
a lui m’era capitato di avere diversi momenti abbastanza luminosi, ma non
s’erano protratti a lungo e in qualche modo all’improvviso s’erano come
annebbiati. Lui, con ogni evidenza, s’era stufato di quei ricordi e pareva
aver sempre paura che io ritornassi al tono di un tempo. Sospettavo di
provocargli una certa repulsione, ma comunque andavo a trovarlo, non
essendone del tutto certo.
Ecco che una volta, di giovedì, non sopportando la mia solitudine e
sapendo che da Anton Antonyč il giovedì la porta era chiusa, mi rammentai
di Simonov. Salendo da lui al terzo piano pensavo precisamente al fatto che
quel signore s’era stufato di me e che quindi mi recavo da lui invano. Ma
siccome andava sempre a finire che simili considerazioni come a bella posta
mi spingessero a ficcarmi in qualche situazione equivoca, entrai. Era quasi
passato un anno da quando avevo visto Simonov per l’ultima volta.
III.

Da lui trovai altri due miei compagni di scuola. Stavano parlando, con ogni
evidenza, di una questione importante. Al mio ingresso nessuno di loro
quasi mi prestò attenzione, il che era persino strano, in quanto non li vedevo
da anni. Evidentemente mi consideravano alla stregua della più normale
delle mosche. Nemmeno a scuola m’avevano mai trattato così, anche se
laggiù tutti mi odiavano. Io, certo, capivo che adesso mi dovevano
disprezzare per l’insuccesso della mia carriera lavorativa e per il fatto che
m’ero lasciato molto andare, indossavo un pessimo vestito e così via, che ai
loro occhi costituiva l’insegna della mia incapacità e del mio scarso
significato. Ma comunque non m’aspettavo un tale grado di disprezzo.
Simonov si meravigliò persino della mia venuta. Anche in precedenza s’era
sempre meravigliato quando mi presentavo. Tutto ciò contribuì a rendermi
titubante: mi sedetti in preda a una certa angoscia e mi diedi ad ascoltare di
cosa stessero parlando.
Il discorso era serio e persino animato e si parlava di un pranzo d’addio
che quei signori volevano organizzare per l’indomani, in comune, per un
loro compagno che si doveva recare in un governatorato lontano, un certo
Zverkov, che prestava servizio come ufficiale. Msié22 Zverkov era stato per
tutto il tempo anche un mio compagno di scuola. Avevo cominciato a
odiarlo in modo particolare a partire dalle classi superiori. In quelle inferiori
era stato solo un ragazzino carino, vispo, al quale tutti volevano bene. Io,
d’altra parte, lo odiavo anche nelle classi inferiori, e precisamente perché
era un ragazzino carino e vispo. Aveva sempre lavorato poco a scuola, e più
si andava avanti, peggio era; tuttavia uscì con successo dall’istituto, perché
aveva delle protezioni. Nel corso dell’ultimo anno gli toccò in sorte
un’eredità, duecento anime, e siccome da noi si era quasi tutti poveri,
persino al nostro cospetto si mise a fare lo smargiasso. Era un individuo
triviale al massimo grado ma, tuttavia, era un bravo ragazzo, persino
quando faceva lo smargiasso. Nella nostra scuola invece, nonostante le
forme esteriori, fantastiche e verbose, dell’onestà e dell’onore, tutti, tranne
pochissimi, corteggiavano persino Zverkov, tanto più lui faceva lo
smargiasso. E lo corteggiavano non per qualche vantaggio, ma così, per il
fatto che era una persona favorita dai doni della natura. Inoltre c’era quasi
l’abitudine, nella nostra scuola, di considerare Zverkov uno specialista
quanto a destrezza e buone maniere. Quest’ultima cosa mi faceva
particolarmente infuriare. Odiavo il suono brusco e del tutto sicuro di sé
della sua voce, l’ammirazione con cui considerava le sue proprie arguzie,
che gli riuscivano straordinariamente stupide, anche se era uno con la
lingua sciolta; odiavo il suo volto bello ma sciocco (col quale avrei
d’altronde scambiato con piacere il mio intelligente) e i suoi modi di fare da
ufficiale disinvolto degli anni Quaranta. Odiavo quello che raccontava dei
suoi futuri successi con le donne (non si decideva a cominciare a darsi da
fare con le donne perché ancora non aveva le spalline da ufficiale, e le
aspettava con impazienza) e di come avrebbe ogni momento affrontato un
duello. Ricordo che io, sempre silenzioso, all’improvviso avevo avuto uno
scontro con Zverkov quando questi, mentre chiacchierava durante
l’intervallo con i compagni dei suoi futuri successi amorosi e s’era lasciato
andare come un cucciolo al sole, all’improvviso dichiarò che nel suo
villaggio nemmeno una fanciulla di campagna sarebbe stata privata della
sua attenzione, che si trattava del droit de seigneur, e che i mužiki, se
avessero osato protestare, li avrebbe fatti frustare tutti e a tutti loro, canaglie
barbute, avrebbe raddoppiato il tributo. I nostri beceri si erano messi ad
applaudire, io invece avevo avuto uno scontro con lui, e non per
compassione nei confronti delle fanciulle e dei loro padri, ma
semplicemente perché si erano levati degli applausi per un simile minuscolo
insetto. In quel caso ebbi la meglio, ma Zverkov, per quanto fosse stupido,
era allegro e insolente, e per questo si mise a ridere talmente che, a dire il
vero, non ebbi proprio del tutto la meglio: il riso rimase dalla sua parte. In
seguito alcune altre volte ebbe lui la meglio su di me, ma senza rabbia, così,
di sfuggita, scherzando, ridendo. Io, incattivito e sprezzante, nemmeno gli
rispondevo. Al momento del diploma fu lui a fare un passo verso di me; non
feci grande opposizione, perché la cosa mi lusingava; ma in breve e in
modo del tutto naturale ci separammo. In seguito venni a sapere dei suoi
successi da caserma, da giovane tenente, del fatto che gozzovigliava. Poi ci
furono altre dicerie, a proposito di come progrediva nella sua carriera. Per
strada già non mi salutava più, e sospettavo che temesse di compromettersi
rivolgendosi a una tale nullità quale io ero. Una volta lo vidi anche a teatro,
nel terzo ordine di palchi, con già indosso i cordoni dorati. S’incurvava
tutto e ronzava attorno alle figlie di un vecchio generale. Nel giro di tre anni
s’era parecchio lasciato andare, anche se come un tempo era piuttosto bello
e svelto; era come un po’ gonfio, stava ingrassando; si vedeva che ora dei
trent’anni sarebbe stato del tutto flaccido. Ed ecco che proprio per questo
Zverkov che stava partendo i nostri compagni volevano organizzare un
pranzo. In quei tre anni lo avevano frequentato regolarmente anche se loro
stessi, interiormente, non si sentivano alla pari con lui, di questo sono
convinto.
Dei due ospiti di Simonov uno era Ferfičkin, un tedesco russo23, basso
di statura, con la faccia da scimmia, uno stupidotto che se la rideva di tutti,
mio acerrimo nemico fin dalle classi inferiori: vile, insolente, uno
smargiassetto che simulava un amor proprio suscettibile anche se, s’intende,
nell’anima non era che un piccolo vigliacco. Era uno di quegli ammiratori
di Zverkov che davano a vedere di fargli la corte e intanto spesso
chiedevano in prestito dei soldi. L’altro ospite di Simonov, Trudoljubov, era
una persona priva d’interesse, un militare, alto, con una fisionomia fredda,
piuttosto onesto, ma pronto a inginocchiarsi davanti a qualsiasi successo e
capace di ragionare soltanto di promozioni. A Zverkov era in qualche modo
legato da una lontana parentela e questo, è stupido a dirsi, gli conferiva un
certo qual significato nel nostro ambiente. Quanto a me, m’aveva sempre
considerato meno di niente; nei miei confronti aveva un atteggiamento non
del tutto cortese, ma accettabile.
«Be’, se facciamo sette rubli a testa» stava dicendo Trudoljubov, «noi
siamo in tre, fanno ventun rubli, è possibile mangiare bene. Zverkov,
ovviamente, non paga».
«Ma s’intende, se siamo noi a invitarlo» stabilì Simonov.
«Possibile che pensiate» s’intromise Ferfičkin con aria di superiorità e
fervore, come un lacchè sfrontato che si stesse facendo bello delle
onorificenze del generale suo padrone, «possibile che pensiate che Zverkov
permetterà a noi soli di pagare? Per delicatezza accetterà, ma poi tirerà fuori
una mezza dozzina di bottigliette a suo carico».
«Be’, e che ne facciamo, in quattro, di mezza dozzina?» osservò
Trudoljubov, che aveva fatto caso soltanto alla mezza dozzina.
«Allora, siamo in tre, con Zverkov quattro, ventun rubli all’Hôtel de
Paris, domani alle cinque». Simonov, che era stato scelto come
cerimoniere, mise fine alla discussione.
«Come sarebbe ventuno?» intervenni con una certa agitazione, persino
con evidente offesa. «Se si conta anche me, non sono ventuno, ma
ventotto».
Mi sembrava che offrirmi all’improvviso e in modo così inaspettato
fosse addirittura molto bello, e loro tutti ne sarebbero stati sopraffatti e
m’avrebbero guardato con rispetto.
«Forse che anche voi volete venire?» osservò Simonov scontento, in
qualche modo cercando di evitare di guardarmi. Mi conosceva a memoria.
Il fatto che mi conoscesse a memoria mi fece montare su tutte le furie.
«E perché no? A quanto pare sono anch’io un suo compagno e, lo
confesso, m’offende persino che mi abbiate lasciato da parte». Ricominciai
a fremere di sdegno.
«E dove vi potevamo trovare?» s’intromise brusco Ferfič kin.
«Non siete mai andato d’accordo con Zverkov» soggiunse Trudoljubov,
accigliandosi. Ma ormai m’ero attaccato, e non intendevo mollare.
«Mi pare che nessuno abbia il diritto di giudicare al riguardo» obiettai
con la voce che tremava, come se Dio solo sapesse cosa fosse successo.
«Forse proprio per questo, adesso, lo voglio, perché prima non andavamo
d’accordo».
«Be’, chi vi capisce… con queste vostre astrusità…» ridacchiò
Trudoljubov.
«Vi inserirò» stabilì Simonov, rivolgendosi a me, «domani, alle cinque,
all’Hôtel de Paris: non sbagliatevi».
«I soldi, allora!» era sul punto di dire Ferfičkin a mezza bocca,
indicandomi a Simonov col capo, ma s’interruppe, perché persino Simonov
s’era confuso.
«Basta così» disse Trudoljubov, alzandosi. «Se ne ha così tanta voglia,
che venga pure».
«Ma noi abbiamo il nostro circoletto, la nostra cerchia d’amici» si stizzì
Ferfičkin, prendendo anche lui il cappello. «Non si tratta di un incontro
ufficiale. Noi, forse, a voi non vi vogliamo affatto…»
Se ne andarono: Ferfičkin, uscendo, non mi rivolse nemmeno un
inchino, Trudoljubov si limitò a un cenno col capo, senza guardarmi.
Simonov, col quale ero rimasto faccia a faccia, era in preda a una sorta di
sconcerto indispettito e mi guardava in modo strano. Non si sedeva, e non
m’invitava a farlo.
«Uhm… già… così a domani. I soldi invece me li date adesso? Lo
chiedo per saperlo di preciso» borbottò, confondendosi.
Avvampai ma, dopo essere avvampato, rammentai che da tempi
immemorabili dovevo a Simonov quindici rubli, cosa che, d’altronde, non
mi ero mai dimenticato, anche se non glieli avevo mai restituiti.
«Ammetterete anche voi, Simonov, che non potevo sapere, venendo
qui… ed è molto spiacevole che mi sia dimenticato…»
«Va bene, va bene, non importa. Pagherete domani, al pranzo. L’ho
chiesto solo per saperlo… Voi, vi prego…»
Si fermò di botto e cominciò a camminare per la stanza con ancor
maggiore dispetto. Nel camminare, prese a premere coi tacchi, facendo
ancora più rumore.
«Non vi starò forse trattenendo?» chiesi dopo due minuti di silenzio.
«Oh, no!» Si riscosse all’improvviso. «Cioè, a dire il vero, sì. Vedete,
devo ancora fare un salto fuori… Non lontano da qui…» soggiunse con una
sorta di voce supplichevole e arrivando quasi a vergognarsi.
«Ah, Dio mio! Ma perché non l’avete detto!» esclamai, afferrando il
berretto con aria d’altronde sorprendentemente disinvolta, che mi era
venuta Dio solo sa da dove.
«Non è lontano, comunque… In tutto non sono che due passi…»
ripeteva Simonov, accompagnandomi fino in anticamera simulando una
sorta di premura che non gli s’adattava affatto. «Allora, a domani, alle
cinque in punto!» mi gridò sulle scale; era davvero molto contento che me
ne andassi. Io invece ero su tutte le furie.
“Ma che m’è preso, che m’è preso di saltar su a quel modo!” pensavo
digrignando i denti e camminando per strada. “E per quella canaglia, per
quel porcello, per Zverkov! S’intende che non è necessario che ci vada;
s’intende che su questo ci si sputa: cos’è, son forse obbligato? Domani
informerò Simonov con la posta cittadina…”
Ma invece m’infuriavo proprio perché sapevo per certo che sarei
andato; che ci sarei andato a bella posta; e tanto più l’andarci sarebbe stato
sgarbato, sconveniente, tanto maggiore sarebbe stato il mio piacere nel
farlo.
C’era però un vero e proprio impedimento all’andarci: non avevo soldi.
In tutto mi ritrovavo in tasca dieci rubli. Ma di questi, sette li dovevo dare il
giorno dopo come stipendio mensile ad Apollon, il mio servo, che viveva
da me per sette rubli, vitto escluso.
Non darglieli era impossibile, considerato il carattere di Apollon. Ma di
quella canaglia, di quella piaga che mi ritrovavo in casa parlerò in un
qualche altro momento, in seguito.
D’altronde, lo sapevo bene che comunque non l’avrei pagato, e che
sarei sicuramente andato.
Quella notte feci i sogni più orribili. Niente di strano: per tutta la sera
fui schiacciato dai ricordi degli anni di galera della mia vita scolastica, e
non riuscii in alcun modo a liberarmene. Ero stato ficcato in quella scuola
da certi miei lontani parenti, dai quali dipendevo e di cui da allora non
avevo più avuto notizia, mi ci avevano ficcato orfano, già avvilito dai loro
rimproveri, già meditabondo, silenzioso e pronto a guardare ogni cosa con
occhio selvaggio. I compagni mi accolsero con derisioni cattive e impietose
per il fatto che non assomigliavo a nessuno di loro. Ma io non potevo
sopportare quelle derisioni: non potevo assuefarmi così a buon mercato,
come loro s’assuefacevano l’uno all’altro. Li odiai subito e mi rinchiusi,
allontanandoli tutti, in un orgoglio intimorito, mortificato e smisurato. La
loro rozzezza mi indignava. Cinicamente ridevano della mia faccia, della
mia figura impacciata: e intanto che facce stupide avevano loro stessi! Nella
nostra scuola le espressioni delle facce in qualche modo si instupidivano
particolarmente, e mutavano. Quanti bambini bellissimi arrivavano da noi.
Dopo alcuni anni quasi faceva schifo guardarli. Già a sedici anni mi stupivo
incupito di loro; già allora mi meravigliavano la pochezza dei loro pensieri,
la stupidità delle loro occupazioni, dei giochi, delle conversazioni. Non
capivano cose così indispensabili, non s’interessavano di argomenti così
suggestivi, sorprendenti, che senza volerlo cominciai a considerarli al di
sotto di me. Non era stata la vanità offesa a spingermi a ciò e, in nome di
Dio, non provate a seccarmi con quelle obiezioni banali che vengono a noia
fino alla nausea: “che io mi limitavo a sognare, mentre quelli già allora
comprendevano la vita vera”. Quelli non capivano nulla, nessuna vita vera
e, lo giuro, era anche questo in loro ad aumentare ancor più la mia
indignazione. Al contrario, la realtà più evidente, che più saltava agli occhi
la consideravano in modo fantasticamente stupido e già allora s’erano
abituati a inchinarsi dinanzi al solo successo. Tutto ciò che era giusto ma
umiliato e schiacciato, era per loro motivo di risa, spietate e vergognose. Il
grado sociale24 lo consideravano una prova di intelligenza; a sedici anni già
parlavano di conquistarsi un posticino tranquillo. Certo, lì c’erano molta
stupidità, molto cattivo esempio, che avevano senza posa circondato la loro
infanzia e la loro adolescenza. Erano depravati fino alla mostruosità.
S’intende, anche lì c’era per lo più una componente esteriore, un cinismo
per lo più affettato; s’intende, la giovinezza e una certa qual freschezza
balenavano anche in loro persino da dietro la depravazione; ma in loro era
sgradevole persino quella freschezza, che si manifestava solo in forma di
una sorta di rozzo sberleffo. Li odiavo terribilmente, anche se, forse, ero
persino peggio di loro. Mi ripagavano con la stessa moneta, e non
nascondevano la loro repulsione nei miei confronti. Ma io già non
desideravo più il loro amore; al contrario, agognavo senza posa la loro
umiliazione. Per sbarazzarmi di quelle derisioni, a bella posta cominciai a
studiare nel miglior modo possibile ed entrai nel novero dei primissimi. Ciò
suscitò il loro rispetto. Per di più cominciarono a poco a poco a
comprendere che io leggevo libri che loro non erano in grado di leggere, e
capivo cose (che non rientravano nei contenuti del nostro corso speciale)
delle quali loro non avevano nemmeno sentito parlare. Consideravano tutto
ciò con sarcasmo e rozzezza, ma moralmente si sottomettevano, tanto più
che persino gli insegnanti cominciavano a questo proposito a rivolgermi la
loro attenzione. Le derisioni cessarono, ma rimase l’avversione, e si
stabilirono dei rapporti freddi, tesi. Verso la fine, io stesso non ressi: con gli
anni si era sviluppata la necessità di stare con la gente, con gli amici. Provai
quasi a cominciare ad accostarmi a loro; ma questo avvicinamento riusciva
sempre come qualcosa di innaturale, e così finiva per concludersi di per sé.
Una volta ebbi anch’io un amico. Ma già ero un despota nell’anima; volevo
spadroneggiare senza limiti sulla sua anima; volevo inculcare in lui il
disprezzo per l’ambiente circostante; da lui esigevo un distacco altezzoso e
definitivo da tale ambiente. Lo spaventavo con la mia amicizia
appassionata; lo portavo alle lacrime, agli spasimi; era un’anima ingenua e
pronta a darsi; ma quando mi ebbe dato tutto io subito lo odiai e lo respinsi,
proprio come se egli mi fosse stato necessario soltanto per ottenere la
vittoria su di lui, la sua sottomissione. Ma tutti non li potevo vincere; il mio
amico era anche lui diverso da tutti gli altri, e costituiva la più rara delle
eccezioni. La prima cosa che feci all’uscita dalla scuola fu lasciare
quell’impiego speciale al quale ero stato destinato, allo scopo di strappare i
fili, maledire il passato e seppellirlo sotto la cenere… E lo sa il diavolo
perché, dopo tutto ciò, mi fossi trascinato da quel Simonov!…
La mattina mi levai presto dal letto, saltai su in preda a una grande
agitazione, proprio come se tutto fosse sul punto di cominciare a realizzarsi.
Tuttavia ero convinto che nella mia vita sarebbe avvenuto, e che sarebbe
avvenuto senz’altro quel giorno, un qualche cambiamento radicale. Sarà
stato per la disabitudine, ma per tutta la mia esistenza, a ogni avvenimento
esterno, anche minuscolo, continuava a sembrarmi che ecco, sarebbe
arrivato un qualche cambiamento radicale nella mia vita. D’altronde, mi
recai al lavoro come sempre, ma me la svignai a casa due ore prima, per
prepararmi. La cosa principale, pensavo, era non arrivare per primo,
altrimenti avrebbero pensato che fossi impaziente. Ma di cose principali
come questa ce n’erano a migliaia, e tutte mi agitavano fino allo sfinimento.
Con le mie mani lucidai ancora una volta gli stivali; Apollon per nulla al
mondo si sarebbe messo a lucidarli due volte nel corso della stessa giornata,
ritenendo che la cosa non rientrasse nel suo servizio. Li lucidai dopo aver
sottratto la spazzola in anticamera, in modo che lui non se ne potesse
accorgere e non cominciasse, in seguito, a disprezzarmi. Quindi passai con
attenzione in esame il vestito e notai che era tutto vecchio, frusto e sudicio.
M’ero davvero trascurato troppo. L’uniforme, forse, era rimediabile, ma non
si poteva certo andare a un pranzo in uniforme. E soprattutto, sui pantaloni,
proprio sopra il ginocchio, c’era un’enorme macchia gialla. Presentivo che
quella sola macchia m’avrebbe sottratto i nove decimi della mia dignità.
Sapevo anche che era molto meschino pensare una cosa simile. “Ma adesso
c’è poco da stare a ragionarci sopra; adesso si sta facendo avanti la realtà”
pensai, e mi persi d’animo. Sapevo anche perfettamente, già allora, che
stavo ingigantendo in modo mostruoso tutti quei dettagli; ma che farci, non
potevo certo dominarmi; ed ero scosso dalla febbre. Con disperazione mi
immaginai come quella “canaglia” di Zverkov m’avrebbe accolto con
alterigia e freddezza; con che disprezzo ottuso, ineluttabile, m’avrebbe
guardato quella testa di rapa di Trudoljubov; come avrebbe ridacchiato di
me con malanimo e insolenza quel minuscolo insetto di Ferfič kin, per
rendere meglio il suo servizio a Zverkov; come Simonov avrebbe capito
alla perfezione tutto ciò tra sé e come m’avrebbe disprezzato per la
bassezza della mia vanità e per la pochezza d’animo e, soprattutto, come
tutto ciò sarebbe stato miserabile, non letterario, offensivo. Certo, la cosa
migliore sarebbe stata non andare. Ma questa era ormai la cosa più
impossibile: quando cominciavo a lasciarmi attrarre, a quel punto ero del
tutto preso dalla passione, dalla testa ai piedi. In seguito mi sarei tormentato
per tutta la vita: “E che, hai avuto paura, hai avuto paura della realtà, hai
avuto paura!” Al contrario, avevo una gran voglia di dimostrare a quelle
mezze cartucce che non ero affatto il vigliacco che io stesso m’immaginavo
di essere. Ma c’era dell’altro: in preda al più violento parossismo della mia
febbre da codardo mi sognavo di avere il sopravvento su tutti loro, di
vincerli, affascinarli, costringerli ad amarmi, non foss’altro che “per
l’elevatezza dei pensieri e l’indubbia arguzia”. Avrebbero lasciato perdere
Zverkov, lui se ne sarebbe stato seduto da parte, zitto e in preda alla
vergogna, e io, Zverkov, l’avrei schiacciato. Poi, forse, avrei fatto la pace
con lui e avrei brindato dandogli del tu, ma la cosa per me più cattiva e
offensiva era che già allora sapevo, sapevo appieno e per certo, che nulla di
tutto ciò, in sostanza, m’era necessario, che, in sostanza, non desideravo
affatto schiacciarli, soggiogarli, attrarli, e che per tutto quel risultato, se mai
l’avessi ottenuto, io stesso, per primo, non avrei dato un soldo bucato. Oh,
come pregai Iddio perché quel giorno passasse al più presto! In preda a
un’angoscia inesprimibile mi accostai alla finestra, aprii la fortočka25 e
scrutai l’oscurità torbida della neve fradicia che cadeva fitta…
Finalmente il mio squallido orologetto a parete sibilò le cinque. Afferrai
il cappello e, sforzandomi di non guardare Apollon, che fin dal mattino era
in attesa che gli dessi il salario, ma che per una sua forma d’orgoglio non
voleva parlarne per primo, gli scivolai accanto, attraverso la porta, e su una
carrozza che avevo a bella posta preso a nolo con la mia ultima moneta me
ne arrivai come un barin26 all’Hôtel de Paris.
IV.

Già fin dalla vigilia sapevo che sarei arrivato per primo. Ma la questione
non stava affatto nell’essere o nel non essere il primo.
Loro non solo non c’erano, ma feci addirittura fatica a trovare la stanza
che ci era stata riservata. Il tavolo non era ancora stato apparecchiato. Cosa
poteva mai significare? Dopo molte domande venni alla fine a sapere dai
camerieri che il pranzo era stato prenotato per le sei, e non per le cinque. La
cosa mi fu confermata anche al buffet. C’era persino da vergognarsi a
chiedere. Erano ancora solo le cinque e venticinque. Se avevano cambiato
l’ora, in ogni caso avrebbero dovuto comunicarmelo, per far ciò c’era la
posta cittadina, e non sottopormi al “disonore”, tanto davanti a me stesso
che… davanti ai camerieri. Mi sedetti; un cameriere cominciò ad
apparecchiare; in sua presenza la cosa si fece persino più offensiva. Verso le
sei nella stanza, oltre alle lampade accese, vennero portate delle candele. Il
cameriere, tuttavia, non aveva pensato di portarle subito, quando ero
arrivato. Nella stanza accanto stavano pranzando, a tavoli diversi, due
avventori incupiti, dall’aria risentita e silenziosi. In una delle stanze lontane
c’era un gran frastuono; gridavano persino; s’udivano le risate di un’intera
banda di persone; si sentivano certi strilli in un pessimo francese; al pranzo
partecipavano delle signore. In poche parole, il tutto dava una gran nausea.
M’era capitato di rado di trascorrere momenti peggiori, di modo che,
quando loro alle sei in punto si presentarono tutti assieme, io, in un primo
momento, fui lieto di vederli come se fossero una liberazione e quasi mi
scordai che ero tenuto a mostrarmi offeso.
Zverkov entrò davanti a tutti, con l’evidente aspetto di chi è alla guida
del gruppo. Sia lui che gli altri ridevano; ma, quando mi vide, Zverkov
assunse un’aria maestosa, s’accostò senza fretta, piegandosi leggermente in
due all’altezza della vita, come se stesse civettando, e mi porse la mano,
gentilmente ma non troppo, con una sorta di cauta garbatezza, quasi da
generale, proprio come se, porgendo la mano, si stesse in qualche modo
proteggendo da chissà cosa. Avevo immaginato, al contrario, che lui, subito
dopo essere entrato, si sarebbe messo a ridere con la sua risata di un tempo,
esilina e con piccoli strilli, e che fin dalle prime parole avrebbe cominciato
con i suoi scherzi e con le sue battute banali. A ciò m’ero preparato fin dalla
sera prima, ma non m’aspettavo affatto una tale alterigia, una tale
affettuosità condiscendente. Dunque, ormai si riteneva del tutto
incommensurabilmente al di sopra di me, sotto ogni punto di vista? Se
avesse solo voluto offendermi con un tale comportamento da generale,
sarebbe ancora stato nulla, pensai; in qualche modo ci avrei sputato sopra.
Ma se, in effetti, senza alcun desiderio di offendere, nella sua testa di
montone fosse seriamente strisciata dentro l’ideuzza che lui era
incommensurabilmente al di sopra di me e che non poteva guardarmi
altrimenti che con un’aria di protezione? Questa sola supposizione bastò già
di per sé a farmi soffocare.
«Con sorpresa ho saputo del vostro desiderio di unirvi a noi» esordì,
biascicando e parlando in modo bleso, allungando le parole, cosa che un
tempo non faceva. «Noi due in qualche modo non ci siamo mai incontrati.
Rifuggivate la nostra compagnia. Senza ragione. Non siamo poi così
terribili come pensate. Be’, in ogni caso, sono lieto di rin-no-va-re…»
E con gesto negligente si voltò per posare il cappello sul davanzale della
finestra.
«Aspettate da molto?» domandò Trudoljubov.
«Sono arrivato alle cinque in punto, come mi avevate detto ieri» risposi
a voce alta e con un’irritazione che prometteva un’esplosione imminente.
«Non gli hai forse fatto sapere che avevamo cambiato l’ora?» domandò
Trudoljubov rivolgendosi a Simonov.
«Non l’ho fatto. Me ne sono dimenticato» rispose quello non mostrando
il minimo rammarico e, senza nemmeno pensare di scusarsi con me, andò a
dare disposizioni per gli antipasti.
«Così siete qui già da un’ora, ah, poveretto!» strepitò Zverkov con fare
divertito, perché, secondo i suoi criteri, la cosa doveva davvero essere
terribilmente ridicola. Dietro di lui, con una vocina vigliacchetta, sonora
come quella di un cagnolino, si mise a ridacchiare quella canaglia di
Ferfičkin. Anche a lui la mia posizione sembrava molto ridicola e
imbarazzante.
«Non c’è niente da ridere!» gridai a Ferfičkin, irritandomi sempre più.
«La colpa è degli altri, mica mia. Non vi siete curati di farmelo sapere.
Questo-questo-questo… è semplicemente assurdo».
«Non solo assurdo, ma è anche qualcos’altro» borbottò Trudoljubov,
prendendo ingenuamente le mie difese. «Siete fin troppo tenero. È
semplicemente scortese. Certo, non è stato premeditato. Ma come ha
potuto, Simonov… uhm!»
«Se a me avessero fatto un tiro del genere» osservò Ferfič kin, «io
avrei…»
«Be’, avreste ben potuto ordinare di portarvi qualcosa» l’interruppe
Zverkov, «o magari semplicemente pranzare, senza attendere».
«Converrete che avrei potuto farlo senza bisogno di un qualsiasi
permesso» tagliai corto. «Se ho aspettato, è perché…»
«Prendiamo posto, signori» gridò Simonov entrando, «è tutto pronto;
per lo champagne ne rispondo io, è ghiacciato alla perfezione… Ma io il
vostro appartamento non so dov’è, dove vi andavo a trovare?» si rivolse a
me all’improvviso, e di nuovo senza guardarmi. Era evidente che aveva
qualcosa contro di me. Doveva aver riflettuto dopo quel che era successo
ieri.
Tutti sedettero; mi sedetti anch’io. Il tavolo era rotondo. Alla mia
sinistra si sistemò Trudoljubov, a destra Simonov. Zverkov mi sedeva di
fronte; Ferfičkin gli stava accanto, tra lui e Trudoljubov.
«Di-te-mi, voi siete… in un ministero?» Zverkov continuò a occuparsi
di me. Vedendo che ero confuso, s’immaginò in tutta serietà che occorresse
blandirmi e, per così dire, incoraggiarmi. “Cos’è, vuole dunque che gli tiri
addosso una bottiglia?” pensai in preda alla furia. Per mancanza d’abitudine
m’ero irritato con una rapidità innaturale.
«In una… cancelleria» risposi a scatti, guardando nel piatto.
«E…vvi è di vvantaggio? Di-temi, cos’è che vv’ha spinto a lasciare
l’altro impiego?»
«Mmm’ha spinto il fatto che volevo lasciare l’altro impiego» e allungai
le parole tre volte più di lui, ormai quasi incapace di controllarmi. Ferfičkin
sbuffò. Simonov mi squadrò con fare ironico; Trudoljubov smise di
mangiare e si mise a osservarmi incuriosito.
Zverkov ne rimase disgustato, ma non volle darlo a vedere.
«Suuuu… E com’è il vostro trattamento?»
«Che sarebbe mai questo trattamento?»
«Intendo lo stipendio!»
«Ma mi state forse facendo un esame?»
D’altronde subito comunque dissi quanto ricevevo di stipendio. Arrossii
terribilmente.
«Non è certo una ricchezza» osservò gravemente Zverkov.
«Già, non si può mica pranzare al ristorante!» soggiunse Ferfičkin con
insolenza.
«Secondo me, si tratta persino d’una miseria» osservò Trudoljubov,
tutto serio.
«E come siete dimagrito, come siete cambiato… da allora…» soggiunse
Zverkov, ormai non senza un certo veleno, con una sorta di sfacciata
compassione, esaminando me e il mio vestito.
«Ma basta metterlo così in confusione!» gridò Ferfičkin, ridacchiando.
«Egregio signore, sappiate che non sono affatto in confusione» sbottai
alla fine, «ascoltate bene! Sto pranzando qui, “in un ristorante”, con i miei
soldi, con i miei, non con soldi altrui, vogliate notarlo, monsieur Ferfičkin».
«Co-ome! Chi pranzerebbe qui con soldi che non sono suoi? È come se
voi voleste…» s’aggrappò Ferfičkin, arrossendo come un gambero, e
guardandomi negli occhi con accanimento.
«Co-osì» risposi, sentendo d’essere andato troppo oltre, «suppongo che
faremmo meglio a occuparci di una conversazione un po’ più intelligente».
«A quanto pare avete intenzione di far mostra della vostra
intelligenza?»
«Non preoccupatevi, qui sarebbe del tutto superfluo».
«Ma che fate, signor mio, vi siete messo a brontolare, eh? Vi siete forse
ammattito, nel vostro ministero?»
«Basta così, signori, basta così!» si mise a gridare Zverkov con voce più
che autoritaria.
«Che stupidaggine!» borbottò Simonov.
«In effetti è una stupidaggine, ci siamo riuniti qui in una compagnia
d’amici per festeggiare il viaggio di uno di noi, e voi invece regolate i vostri
conti» prese a dire Trudoljubov, rivolgendosi brusco a me soltanto. «Siete
stato voi stesso, ieri, a chiedere di venire, non rovinate dunque l’armonia
generale…»
«Basta così, basta così!» esclamò Zverkov. «Smettetela, signori, così
non va. Ma ecco, farò meglio a raccontarvi com’è che l’altro ieri per un
pelo non mi sono sposato…»
Ed ebbe inizio una storiella assurda a proposito di come quel signore
due giorni prima per un pelo non s’era sposato. Del matrimonio, d’altronde,
non fu detta una sola parola, ma nel racconto non facevano che balenare
generali, colonnelli, e persino dei kamer-junker, e Zverkov in mezzo a loro
aveva quasi il ruolo di capo. Ebbe inizio un riso d’approvazione; Ferfičkin
strillacchiava persino.
Tutti mi lasciarono perdere, e io me ne rimasi seduto, schiacciato e
distrutto.
“Signore Iddio, e questa sarebbe la mia società!” pensavo. “E che figura
da imbecille ho appena fatto dinanzi a loro! Io, tuttavia, ho permesso molto
a Ferfičkin. Questi babbei pensano di avermi fatto un onore facendomi
sedere alla loro tavola, quando invece non capiscono che sono io, io a fare
un onore a loro, e non loro a me! ‘Siete dimagrito! Il vestito!’ Oh, maledetti
pantaloni! Zverkov già da un pezzo ha notato la macchia gialla sul
ginocchio… Ma non c’è che una cosa da fare! Adesso, in questo stesso
istante, alzarsi da tavola, prendere il cappello e andarsene così,
semplicemente, senza dire una parola… Per disprezzo! E domani, sono
pronto a battermi in duello. Canaglie. Non deve certo spiacermi per i sette
rubli. Loro, forse, potrebbero pensare… Che se li pigli il diavolo! Non mi
spiace per i sette rubli! Me ne andrò in questo stesso istante!…”
S’intende che rimasi.
Dal dispiacere bevetti Lafitte e Xeres, un bicchiere dopo l’altro. Per
disabitudine m’ubriacai in fretta, e con l’ebbrezza crebbe anche il dispetto.
All’improvviso mi venne voglia di offenderli tutti nel modo più insolente, e
poi di andarmene. Cogliere l’attimo e far vedere chi ero, e poi che dicessero
pure: anche se era ridicolo, però era intelligente… e… e… in poche parole,
che se li pigliasse il diavolo!
Li squadrai tutti con lo sguardo sfacciato dei miei occhi intontiti. Ma era
come se loro si fossero del tutto dimenticati di me. Da loro c’era fracasso, si
levavano grida stridule, c’era allegria. Era sempre Zverkov a parlare. Mi
misi in ascolto. Raccontava di una certa signora formosa, che lui alla fine
aveva convinto ad accettare la sua proposta (s’intende che mentiva come un
cavallo), e che in quella faccenda gli aveva dato una mano un suo amico
intimo, un certo principotto, l’ussaro Kolja, che possedeva tremila anime.
«Ma intanto quel vostro Kolja, che possiede tremila anime, qui non c’è
a salutarvi» dissi, intromettendomi all’improvviso nella conversazione. Per
un attimo tutti tacquero.
«A questo punto voi siete già bello ubriaco» alla fine Trudoljubov si
degnò di accorgersi di me, lanciando un’occhiataccia sprezzante nella mia
direzione. Zverkov mi esaminava in silenzio, come fossi un moscerino.
Abbassai gli occhi. Simonov in tutta fretta si mise a versare lo champagne.
Trudoljubov sollevò il calice, tutti gli altri lo imitarono, tranne me.
«Alla tua salute e che tu faccia buon viaggio!» gridò a Zverkov. «Per gli
anni passati, signori, per il nostro futuro, urrà!»
Tutti bevvero e si diedero a baciare Zverkov. Io non mi muovevo; il
calice pieno era lì davanti a me, intatto.
«E voi non intendete bere?» ruggì Trudoljubov, che aveva perso la
pazienza, rivolgendosi a me con aria minacciosa.
«Voglio fare uno speech27 per conto mio, a parte… e allora berrò, signor
Trudoljubov».
«Brutto schifoso!» strepitò Simonov.
Io mi raddrizzai sulla sedia e presi il calice in preda alla febbre,
preparandomi a qualcosa di insolito e non sapendo io stesso che cosa avrei
detto con precisione.
« Silence!» gridò Ferfičkin. «Finalmente ci sarà un po’ di intelligenza!»
Zverkov attendeva con grande serietà, avendo capito di cosa si trattava.
«Signor tenente Zverkov» esordii, «sappiate che io detesto le frasi, i
fraseggiatori e le divise strette in vita… Questo è il primo punto, al quale fa
seguito un secondo».
Tutti cominciarono ad agitarsi bruscamente.
«Il secondo punto: detesto fragolette e fragolieri28. E in particolare i
fragolieri!»
«Il terzo punto: amo ciò che è vero, sincero e onesto» continuai quasi
macchinalmente, perché io stesso cominciavo a raggelare per l’orrore, non
capendo come potessi parlare a quel modo… «Amo il pensiero, msié29
Zverkov; amo l’autentico cameratismo, quando si è sullo stesso piano, e
non… uhm… Amo… D’altronde, che bisogno c’è? E bevo alla vostra
salute, msié Zverkov. Irretite le circasse, sparate ai nemici della patria e…
e… Alla vostra salute, msié Zverkov!»
Zverkov si alzò dalla sedia, mi rivolse un inchino e disse: «Vi sono
molto grato».
Era terribilmente offeso, ed era persino impallidito.
«Che se lo pigli il diavolo» ruggì Trudoljubov, colpendo il tavolo con un
pugno.
«Nossignori, per questo uno le piglia sul muso!» stridette Ferfičkin.
«Bisogna cacciarlo via!» borbottò Simonov.
«Nemmeno una parola, signori, nemmeno un gesto!» esclamò Zverkov
con fare solenne, fermando l’indignazione generale. «Vi ringrazio tutti, ma
io stesso sono in grado di mostrargli che valore attribuisca alle sue parole».
«Signor Ferfičkin, domani stesso mi darete soddisfazione per le vostre
parole di poco fa!» dissi a voce alta, rivolgendomi a Ferfičkin con aria
d’importanza.
«Ovvero un duello? Come volete» rispose quello ma, probabilmente,
ero così ridicolo nello sfidarlo, e la cosa s’adattava così poco alla mia
figura, che tutti, e con loro anche Ferfič kin, si rovesciarono sulle loro sedie
in preda alle risa.
«Ma sì, bisogna lasciarlo perdere! Quello è completamente ubriaco!»
proferì con disgusto Trudoljubov.
«Non mi perdonerò mai d’averlo lasciato venire!» strepitò di nuovo
Simonov.
“Ecco, adesso sarebbe il momento di lanciar loro addosso una bottiglia”
pensai, e presi una bottiglia e… mi riempii il bicchiere fino all’orlo.
“…No, meglio che me ne resti seduto fino alla fine!” continuai a
pensare. “Sareste ben contenti, signori, se me ne andassi. Per nulla al
mondo. A bella posta me ne starò seduto e berrò fino alla fine, come segno
del fatto che non vi attribuisco la minima importanza. Me ne starò seduto e
berrò, perché questa è una bettola, e ho pagato i soldi per l’ingresso. Me ne
starò seduto e berrò perché voi per me siete solo delle marionette, delle
marionette che non esistono. Me ne starò seduto e berrò… e canterò, se ne
avrò voglia, sissignori, e canterò, perché ho questo diritto… di cantare…
uhm”.
Ma non cantai. Mi sforzavo solo di non guardare nessuno di loro;
assumevo atteggiamenti il più indipendenti possibile e aspettavo con
impazienza quando loro stessi, per primi, mi avrebbero rivolto la parola.
Ma, ahimè, non lo facevano. E come, come avrei voluto in quel momento
rappacificarmi con loro! Batterono le otto, finalmente le nove. Dal tavolo si
trasferirono al divano. Zverkov si sdraiò sul sofà, appoggiando un piede su
un tavolino tondo. Lì trasportarono anche il vino. In effetti lui aveva offerto
loro tre bottiglie di tasca propria. A me, s’intende, non mi invitarono. Tutti
gli si sedettero attorno sul divano. Lo ascoltavano quasi con venerazione. Si
vedeva che gli volevano bene. “Per cosa? Per cosa?” pensavo tra me. Di
quando in quando cadevano preda di un entusiasmo da ubriachi, e si
baciavano. Parlavano del Caucaso, di cosa fosse la passione autentica, del
gal’bik30, dei posti vantaggiosi negli uffici; di quanto fosse il reddito
dell’ussaro Podcharževskij, che nessuno di loro conosceva personalmente, e
si rallegravano che il reddito ce l’avesse alto; dell’insolita bellezza e grazia
della principessa D., la quale pure non era mai stata vista da nessuno di
loro; per finire si arrivò ad affermare che Shakespeare era immortale.
Io sorridevo sprezzante e camminavo lungo l’altro lato della stanza,
dritto davanti al divano, lungo la parete, dal tavolo alla stufa e ritorno. Con
tutte le mie forze volevo mostrare che me la potevo cavare senza di loro; e
intanto facevo rumore con gli stivali, pestando sui tacchi. Ma tutto invano.
Loro non mi rivolgevano la minima attenzione. Ebbi la pazienza di passare
così, dritto davanti a loro, dalle otto alle undici, sempre lungo lo stesso
identico percorso, dal tavolo alla stufa e dalla stufa indietro, fino al tavolo.
“Cammino come mi pare, e nessuno me lo può impedire”. Un servo che
era entrato nella stanza alcune volte, s’era fermato a guardarmi; per via di
quel continuo voltarmi mi girava la testa; a tratti mi sembrava di essere in
preda al delirio. In quelle tre ore per tre volte sudai fino a infradiciarmi
tutto, e il sudore mi si asciugò addosso. Di quando in quando, con dolore
profondissimo, velenoso, un pensiero mi trafiggeva il cuore: che sarebbero
passati dieci anni, venti anni, quarant’anni, e io comunque, anche di lì a
quarant’anni, con repulsione e umiliazione avrei ricordato quei minuti, i più
luridi, ridicoli e terribili di tutta la mia vita. Sarebbe stato impossibile
umiliarsi in modo più spudorato e volontario, e io lo comprendevo appieno,
appieno, e comunque continuavo a camminare dal tavolo alla stufa e
viceversa. “Oh, se voi solo sapeste di che pensieri e sentimenti sono capace,
e come sono evoluto!” pensavo di quando in quando, rivolgendomi con la
mente al divano dove erano seduti i miei nemici. Ma i miei nemici si
comportavano come se io nemmeno fossi nella stanza. Una volta, una sola e
unica volta si voltarono verso di me, precisamente quando Zverkov s’era
messo a parlare di Shakespeare, e io all’improvviso ero scoppiato in una
risata sprezzante. Avevo sbuffato in modo così artificioso e ripugnante che
tutti loro, di botto, avevano interrotto la conversazione e in silenzio si erano
messi a guardare per un paio di minuti, seri, senza ridere, come camminavo
lungo la parete, dal tavolo alla stufa, e come non rivolgevo loro alcuna
attenzione. Ma non ne era venuto fuori nulla: non avevano cominciato a
parlare con me e dopo due minuti mi avevano di nuovo lasciato perdere.
Batterono le undici.
«Signori!» esclamò Zverkov, alzandosi dal divano. «Adesso andiamo
tutti là».
«Certamente, certamente!» presero a dire gli altri.
Mi voltai bruscamente verso Zverkov. Ero a tal punto stupefatto, a tal
punto stremato, che pur di farla finita mi sarei persino sgozzato. Avevo la
febbre alta; i capelli fradici di sudore s’erano appiccicati sulla fronte e sulle
tempie.
«Zverkov! Vi chiedo perdono» dissi con fare brusco e deciso.
«Ferfičkin, anche a voi, a tutti, a tutti, vi ho offeso tutti!»
«Aha! Il duello non fa per te, eh, fratello?» sibilò velenoso Ferfičkin.
Fu come se m’avessero inferto una rasoiata al cuore.
«No, non è il duello che temo, Ferfič kin! Sono pronto a battermi con
voi domani stesso, dopo la riappacificazione. Insisto persino su questo, e
voi non me lo potete rifiutare. Vi voglio dimostrare che non temo il duello.
Voi sparerete per primo, e io sparerò in aria».
«Non si fa mancare niente» osservò Simonov.
«Ha detto proprio uno sproposito!» commentò Trudoljubov.
«Su, lasciateci passare, che avete da starci tra i piedi!… Cos’è che vi
occorre?» rispose Zverkov sprezzante. Erano tutti rossi in viso, i loro occhi
brillavano: avevano bevuto molto.
«Chiedo la vostra amicizia, Zverkov, io vi ho offeso, ma…»
«Offeso? V-voi! A m-me! Sappiate, egregio signore, che voi mai e in
nessuna occasione potrete mai offendere me!»
«E adesso levatevi dai piedi, filate!» gli diede man forte Trudoljubov.
«Andiamo».
«Olimpia è mia, signori, d’accordo?» gridò Zverkov.
«Non te la contendiamo! Non te la contendiamo!» gli risposero ridendo.
Io me ne stavo lì, come se m’avessero coperto di sputi. La combriccola
stava uscendo dalla stanza. Trudoljubov intonò una qualche canzone idiota.
Simonov si trattenne un minutino per lasciare la mancia ai servi.
All’improvviso mi accostai a lui.
«Simonov! Datemi sei rubli!» dissi, deciso e disperato.
Lui mi guardò con occhi ottusi che esprimevano estremo stupore. Era
anche lui ubriaco.
«Intendete forse venire là con noi?»
«Sì!»
«Non ho soldi!» tagliò corto, ridacchiò sprezzante e uscì dalla stanza.
Lo afferrai per il cappotto. Era un incubo.
«Simonov! Ho visto che i soldi ce li avete, perché me li rifiutate? Sono
forse un mascalzone? Guardatevi dal rifiutarmeli: se sapeste, se sapeste
perché ve li chiedo! Da questo dipende tutto, tutto il mio futuro, tutti i miei
piani…» Simonov tirò fuori i soldi e quasi me li gettò addosso.
«Pigliate, se siete così spudorato!» proferì spietato, e si precipitò a
rincorrere gli altri.
Per un attimo rimasi da solo. Il disordine, gli avanzi di cibo, un
bicchiere rotto sul pavimento, il vino versato, i mozziconi di papirosy31,
l’ebbrezza e il delirio nella testa, un’angoscia tormentosa nel cuore e, per
finire, il servo che tutto aveva visto e tutto aveva sentito, e che adesso mi
guardava incuriosito negli occhi.
« Là!» esclamai. «O tutti loro, in ginocchio, abbracciandomi le gambe,
supplicheranno d’avere la mia amicizia, o… o darò uno schiaffo a
Zverkov».
V.

«Così, eccolo, eccolo qui finalmente lo scontro con la realtà» borbottavo


mentre correvo a precipizio giù per le scale. «Questo, a quanto pare, non è
già più il Papa che lascia Roma e se ne va in Brasile; questo, a quanto pare,
non è già più un ballo sul lago di Como!»
“Che canaglia sei” mi risuonò nella testa, “se adesso riesci a ridere di
tutto ciò!”
«E sia!» esclamai, rispondendomi. «Adesso ormai tutto è davvero
perduto!»
Di loro avevo a quel punto smarrito anche le tracce, ma non importava:
sapevo dove erano andati.
Accanto al terrazzino d’ingresso c’era un van’ka32 solitario, uno di quei
vetturini che fanno il servizio notturno, avvolto in una pezza di panno
ruvido, tutto coperto dalla neve che continuava a cadere, fradicia e in
qualche modo tiepida. L’aria era densa di vapore, e soffocante. Il
cavalluccio, piccolo, pezzato e irsuto, ne era anch’esso tutto coperto e
tossiva; lo ricordo benissimo. Mi lanciai verso quella slitta che sembrava
presa da un quadretto; ma stavo per sollevare il piede per sedermi quando il
ricordo di come Simonov mi aveva appena dato i sei rubli mi infiacchì
completamente e, come un sacco, mi rovesciai dentro la slitta.
«No! Ce n’è da fare per riscattare tutto ciò!» gridai. «Ma lo riscatterò, o
questa stessa notte morirò sul posto. Andiamo!»
Ci avviammo. Nella mia testa vorticava un turbine di idee.
“Supplicare la mia amicizia in ginocchio: questo non lo faranno. È un
miraggio, un completo miraggio, ripugnante, romantico e fantastico; una
cosa tipo il ballo sul lago di Como. Ed è per questo che devo dare uno
schiaffo a Zverkov! Sono costretto a darglielo. Quindi, è deciso: adesso
volo a dare uno schiaffo a Zverkov”.
«Frustalo!»
Il van’ka tirò le redini.
“Appena entro, subito glielo do. Sarà il caso di dire qualche parola
prima dello schiaffo, a mo’ di preambolo? No! Mi limiterò a entrare e a
darglielo. Saranno tutti lì seduti nel salone, e lui sul divano con Olimpia.
Maledetta Olimpia! Una volta mi ha riso in faccia e mi ha respinto.
Trascinerò Olimpia per i capelli, e Zverkov per le orecchie! No, meglio per
un orecchio, e tirandolo per l’orecchio lo porterò in giro per tutta la stanza.
Può darsi che si mettano tutti a picchiarmi e a cacciarmi fuori. È addirittura
certo. E sia! Comunque io per primo avrò dato uno schiaffo: una mia
iniziativa; e secondo le leggi dell’onore – e questo è tutto; ormai lui sarà
marchiato, e non potrà lavarsi via lo schiaffo con altro mezzo che il duello,
altro che le botte. Sarà costretto a battersi. E quindi lasciamo pure che
adesso mi picchino. Lasciamo pure, razza di infami! Quello che in
particolare picchierà sarà Trudoljubov: è così forte; Ferfičkin s’attaccherà di
lato, e di sicuro mi piglierà per i capelli, è certo. Ma che facciano pure, che
lo facciano! È per questo che sono venuto. Le loro teste di montone saranno
alla fine costrette a capire quanto di tragico è racchiuso in tutto ciò! Quando
mi trascineranno alla porta, griderò loro che, in sostanza, loro non valgono
il mio dito mignolo”.
«Frustalo, vetturino, frustalo!» mi misi a gridare al van’ka.
Quello arrivò persino a trasalire, e agitò lo knut33. Il mio grido era stato
davvero selvaggio.
“All’alba ci batteremo, questo ormai è deciso. Con il ministero ho
chiuso. Ferfičkin poco fa invece di ministero ha detto ‘limistero’. Ma dove
le vado a prendere le pistole? Sciocchezze! Chiederò un anticipo sullo
stipendio e le comprerò. E la polvere da sparo, e la pallottola? È una
faccenda che riguarda i secondi. E come fare tutto questo prima dell’alba? E
dove lo trovo un secondo? Non conosco nessuno…”
«Sciocchezze!» gridai, sempre più avvolto dal mio turbine.
«Sciocchezze!»
“Il primo che incontro per strada e al quale mi rivolgerò sarà obbligato a
farmi da secondo, così come si è obbligati a tirar fuori dall’acqua uno che
sta annegando. I casi più eccentrici devono essere ammessi. Se domani
dovessi chiedere al direttore stesso di farmi da secondo, persino lui
dovrebbe accettare per puro spirito cavalleresco, e mantenere il segreto!
Anton Antonyč …”
Il fatto era che, in quello stesso istante, in modo sempre più chiaro che a
chiunque altro al mondo, mi si mostrava tutta la turpe assurdità delle mie
supposizioni, con tutta l’altra faccia della medaglia, ma…
«Frusta, vetturino, frusta, briccone, frusta!»
«Eh, barin!» proferì la forza della terra.
All’improvviso fui investito dal freddo.
“Ma non sarebbe meglio… non sarebbe meglio… che adesso andassi
dritto a casa? Oh, Dio mio! Perché ieri mi sono proposto per quel pranzo!
Ma no, è impossibile! E la passeggiata di tre ore dal tavolo alla stufa? No,
sono loro, loro, e non qualcun altro, a dovermi ripagare per quella
passeggiata! Sono loro che devono lavare il disonore!”
«Frusta!»
“E che sarà se mi dovessero far portare al commissariato? No, non
oseranno! Avranno paura dello scandalo. E che sarà se Zverkov rifiutasse il
duello per disprezzo? Questo è persino certo: ma allora gliela farei vedere…
Mi precipiterò alla stazione di posta, quando domani sarà sul punto di
partire, lo afferrerò per una gamba, gli strapperò il cappotto quando starà
salendo sul veicolo. Gli affonderò i denti in una mano, lo morderò.
‘Guardate tutti a cosa può arrivare un uomo disperato!’ Che mi picchi pure
sulla testa, e tutti gli altri da dietro. A tutti i presenti griderò: ‘Guardate,
ecco un cucciolotto che se ne va a sedurre le circasse con il mio sputo sulla
faccia!’
S’intende che, dopo questo, sarà tutto finito! Il ministero scomparirà
dalla faccia della terra. Mi arresteranno, mi processeranno, mi cacceranno
dal posto di lavoro, mi manderanno in galera; mi spediranno in Siberia, al
confino. Non importa! Tra quindici anni mi trascinerò dietro di lui, vestito
di stracci, in miseria, quando mi faranno uscire di galera. Lo scoverò da
qualche parte, in una città di provincia. Sarà sposato e felice. Avrà una figlia
grande… Dirò: ‘Guarda, scellerato, guarda le mie guance infossate e i miei
stracci! Ho perso tutto: la carriera, la felicità, l’arte, la scienza, la donna
amata, e tutto per colpa tua. Ecco le pistole. Sono venuto a scaricare la mia
pistola e… e ti perdono’. A quel punto sparerò in aria, e di me non si saprà
più nulla…”
Ero persino sul punto di piangere, anche se sapevo perfettamente nello
stesso identico istante che tutto ciò era preso da Silvio, e dal Ballo in
maschera di Lermontov34. E all’improvviso provai una terribile vergogna,
una vergogna tale che feci fermare il cavallo, scesi dalla slitta e rimasi
fermo nella neve, in mezzo alla strada. Il van’ka mi guardava stupito,
sospirando.
Che cosa fare? Laggiù non ci potevo andare, ne sarebbe venuta fuori
un’assurdità; impossibile anche lasciar perdere la faccenda, perché ne
sarebbe venuto fuori… Signore Iddio! Come si poteva lasciar perdere una
cosa simile! E dopo simili offese!
«No!» esclamai, tornando a gettarmi nella slitta. «Questo è predestinato,
questo è destino! Frusta, frusta, andiamo là!»
E con impazienza assestai un pugno sul collo al vetturino.
«Ma che ti piglia, che hai da picchiare?» si mise a gridare il
contadinotto, scudisciando, comunque fosse, la rozza, che cominciò a
scalciare con le zampe posteriori.
La neve fradicia cadeva a grossi fiocchi; aprii il cappotto, non mi
importava della neve. Avevo dimenticato tutto il resto, perché m’ero
definitivamente deciso per lo schiaffo e con terrore avvertivo che adesso
era ormai ineludibile, adesso sarebbe successo, e nessuna forza avrebbe
potuto fermarlo. Fanali solitari balenavano cupi nella tenebra innevata,
come fiaccole a un funerale. La neve mi s’ammucchiava sotto il cappotto,
sotto la finanziera, sotto la cravatta, e lì si scioglieva; non mi coprivo, tanto,
comunque fosse, tutto era perduto! Finalmente giungemmo a destinazione.
Saltai giù quasi fuori di me, corsi su per gli scalini e cominciai a bussare
alla porta con mani e piedi. In particolare le gambe, all’altezza delle
ginocchia, mi si erano terribilmente indebolite. Aprirono abbastanza in
fretta, come se già sapessero del mio arrivo. (In effetti Simonov aveva
preannunciato che, forse, ne sarebbe arrivato ancora uno, in quanto quaggiù
occorreva preannunciare e in generale prendere delle precauzioni. Si
trattava di uno di quei “negozi alla moda” del tempo, che adesso ormai da
un pezzo sono stati annientati dalla polizia. Di giorno un negozio lo era
davvero; ma la sera, se si era in possesso di una raccomandazione, si poteva
andare in visita.) A rapidi passi percorsi la bottega buia fino al salone a me
noto, dove ardeva in tutto una sola candelina, e mi fermai perplesso: non
c’era nessuno.
«Ma dove sono?» domandai a qualcuno.
Ma loro, s’intende, avevano già avuto tutto il tempo di disperdersi.
Dinanzi a me stava una sola persona, con un sorriso stupido, la stessa
padrona, che in parte già mi conosceva. Un attimo dopo s’aprì una porta, ed
entrò qualcun altro.
Senza prestare attenzione a nulla, camminavo per la stanza e pare che
parlassi da solo. Ero stato salvato dalla morte e con tutto il mio essere
avvertivo gioiosamente l’accaduto: lo schiaffo l’avrei dato, l’avrei dato
immancabilmente, immancabilmente avrei dato lo schiaffo! Ma adesso loro
non c’erano e… tutto era scomparso, tutto era mutato!… Mi guardai
attorno. Ancora non riuscivo a capire bene. Macchinalmente guardai la
ragazza che era entrata: davanti a me balenò un volto fresco, giovane,
piuttosto pallido, con dritte sopracciglia scure e uno sguardo serio e in
qualche modo un poco stupito. Questo subito mi piacque; l’avrei odiata se
avesse sorriso. Mi misi a guardarla più fisso e quasi sforzandomi: i pensieri
ancora non s’erano del tutto raccolti nella mia mente. In quel viso c’era
qualcosa di semplice e buono, ma in qualche modo serio fino a essere
strano. Sono convinto che ciò, lì dentro, la danneggiasse, e infatti nessuno
di quegli stupidi l’aveva notata. D’altronde non poteva essere definita una
bellezza, anche se era alta, forte, ben fatta. Era vestita con estrema
semplicità. Qualcosa di schifoso mi pungolò; andai dritto verso di lei…
Per caso mi scorsi in uno specchio. Il mio volto in subbuglio mi sembrò
ripugnante all’estremo: pallido, incattivito, turpe, con i capelli arruffati. “E
sia, ne sono persino contento” pensai, “sono contento proprio di apparirle
così ripugnante; la cosa mi fa piacere…”
VI.

…Da qualche parte dietro il tramezzo si mise a rantolare un orologio, come


per via di una forte pressione, come se qualcuno l’avesse soffocato. Dopo
un rantolo lungo in modo innaturale ci furono dei suoni inaspettatamente
frequenti, sottili e piuttosto schifosi, proprio come se qualcuno
all’improvviso stesse saltando fuori. Batterono le due. Tornai in me, anche
se non stavo dormendo, ma mi limitavo a restare disteso mezzo assopito.
Nella stanza stretta, angusta e dal soffitto basso, ingombrata da un
enorme armadio e cosparsa di scatole di cartone, stracci e qualsiasi
cianfrusaglia di vestiario, il buio era quasi completo. Il moccolo che ardeva
sul tavolo a un capo della stanza s’era quasi del tutto spento, solo di quando
in quando dava in un sussulto. Nel giro di pochi minuti sarebbe caduta una
tenebra profonda.
Non mi ci volle molto per riprendermi; tutto, d’un colpo, senza sforzi,
subito mi tornò alla mente, come se fosse stato lì a sorvegliarmi, per poi
balzarmi di nuovo addosso. E anche nello stato d’addormentamento di poco
prima nella memoria era comunque rimasto costantemente una sorta di
punto, che non poteva in alcun modo essere scordato, attorno al quale
appesantite avevano girato le mie fantasie assonnate. Ma era strano: tutto
quello che mi era capitato quel giorno adesso mi pareva, al momento del
risveglio, come qualcosa di avvenuto molto tempo prima, come se già da
tempo avessi vissuto tutto ciò.
Nella mia testa c’era una sorta di fumo soffocante. Era come se
qualcosa mi stesse passando addosso e mi sfiorasse, mi eccitasse e desse
inquietudine. L’angoscia e la bile tornavano di nuovo ad accumularsi in me
e cercavano una via d’uscita. All’improvviso accanto a me vidi due occhi
spalancati, che mi guardavano fissi, incuriositi. Lo sguardo era freddo e
indifferente, tetro, del tutto estraneo; suscitava un senso di oppressione.
Nel mio cervello si generò un pensiero altrettanto tetro e per tutto il
corpo passò una brutta sensazione, simile a quella che si prova entrando in
un sottosuolo, umido e muffoso. In qualche modo era innaturale che proprio
solo allora quei due occhi avessero pensato di cominciare a esaminarmi. Mi
venne anche in mente che nel corso delle due ore precedenti non avevo
scambiato con questo essere nemmeno una parola e non avevo affatto
considerato necessario farlo; poco prima la cosa per un qualche motivo
m’era persino piaciuta. Adesso invece all’improvviso mi si era presentata
chiaramente, assurda, ripugnante come un ragno, l’immagine della
depravazione che, senza amore, in modo rozzo e impudico, comincia
esattamente là dove il vero amore trova il suo coronamento. Ci guardammo
a lungo a vicenda, ma lei non abbassò gli occhi davanti ai miei, e non mutò
il suo sguardo, di modo che alla fine per un qualche motivo la cosa per me
si fece raccapricciante.
«Come ti chiami?» domandai a scatti, per mettere fine al più presto a
tutto ciò.
«Liza» rispose quasi in un sussurro, ma in modo del tutto freddo, e
distolse gli occhi.
Tacqui.
«Oggi, il tempo… la neve… fa schifo!» proferii quasi tra me, mettendo
tristemente la mano sotto la testa e guardando il soffitto.
Non rispondeva. Tutto ciò era indecente.
«Sei di queste parti?» domandai dopo un minuto, quasi stizzito,
voltando appena la testa verso di lei.
«No».
«Di dove sei?»
«Di Riga» proferì lei, controvoglia.
«Tedesca».
«Russa».
«Sei qui da molto?»
«Dove?»
«In questa casa».
«Due settimane». Parlava sempre più a scatti. La candela si spense del
tutto; non potevo più distinguere il suo viso.
«Padre e madre li hai?»
«Sì… no… li ho».
«Dove sono?»
«Là… a Riga».
«Chi sono?»
«Così».
«Come sarebbe così? Chi sono, che titolo hanno?»
«Cittadini35».
«E vivevi con loro?»
«Sì».
«Quanti anni hai?»
«Venti».
«Perché sei andata via da loro?»
«Così…»
Questo così stava a significare: lasciami in pace, mi viene da vomitare.
Ce ne restammo in silenzio.
Dio solo sapeva perché non me ne andavo. Io stesso provavo una nausea
e un’angoscia crescenti. Le immagini di tutto il giorno trascorso in qualche
modo, di per loro, senza che io lo volessi, cominciarono a passarmi
disordinate nella memoria. All’improvviso rammentai una scena che avevo
visto la mattina per strada, mentre trotterellavo preoccupato al lavoro.
«Quest’oggi hanno portato fuori una bara e per poco non l’hanno fatta
cadere» proferii all’improvviso a voce alta, senza la minima intenzione di
cominciare una conversazione, ma così, quasi senza porci attenzione.
«Una bara?»
«Sì, sulla Sennaja36; la portavano fuori da uno scantinato».
«Da uno scantinato?»
«Non da uno scantinato, ma da un piano interrato… be’, lo sai… là da
basso… da una gran brutta casa… C’era una tale sporcizia attorno… Gusci
d’uova, pattume… c’era una puzza… era uno schifo».
Silenzio.
«È ben brutto seppellire qualcuno quest’oggi!» tornai a dire, così, tanto
per non stare zitto.
«Perché brutto?»
«La neve, tutto il bagnato…» (Sbadigliai.)
«Tanto è lo stesso» disse lei all’improvviso, dopo qualche istante di
silenzio.
«No, fa schifo…» (Tornai a sbadigliare.) «I becchini di certo hanno
imprecato, perché la neve ha infradiciato tutto. E nella tomba certamente
c’era dell’acqua».
«Perché doveva esserci dell’acqua nella tomba?» domandò lei con una
sorta di curiosità, ma parlando in modo ancora più brusco e a scatti di
prima. All’improvviso qualcosa cominciò a stuzzicarmi.
«Ma come, l’acqua sul fondo, ce ne saranno stati sei verški. Laggiù, al
Volkov37, non ne trovi nemmeno una di tomba asciutta».
«E perché?»
«Come, perché? È un posto pieno d’acqua. Qua dappertutto non c’è che
palude. E così li mettono direttamente nell’acqua. L’ho visto io stesso…
molte volte…»
(Non l’avevo visto nemmeno una volta, e al Volkov non c’ero nemmeno
mai stato, ma avevo solo sentito che lo raccontavano.)
«Possibile che non ti importi, di morire?»
«E perché dovrei morire?» rispose, come difendendosi.
«Un giorno dovrai pur morire, e allora morirai proprio come quella
defunta. Era… anche lei una ragazza come te… Era morta di tisi».
«Una di quelle sarebbe morta all’ospedale…» (Allora già lo sa, pensai,
e ha detto: una di quelle, e non ragazza.)
«Era in debito con la padrona» obiettai, lasciandomi sempre più
stuzzicare dalla discussione, «e quasi fino alla fine ha continuato a servirla,
anche se aveva la tisi. I vetturini lì attorno ne parlavano con i soldati.
Probabilmente erano suoi vecchi conoscenti. Ridevano. Stavano andando
alla bettola, a bere alla sua memoria». (Anche in quel momento stavo
mentendo parecchio.)
Silenzio, profondo silenzio. Lei nemmeno si muoveva.
«E all’ospedale è forse meglio morire?»
«Non è sempre lo stesso?… Ma perché poi dovrei morire?» soggiunse,
irritata.
«Mica adesso, ma dopo?»
«Be’, dopo…»
«Altroché! Ecco, adesso sei giovane, bella, fresca, e di conseguenza ti
apprezzano. Ma dopo un anno di questa vita non sarai più così, sfiorirai».
«Tra un anno?»
«In ogni caso tra un anno varrai di meno» continuai con gioia maligna.
«Da qui ti sposterai in qualche posto inferiore, in un’altra casa. E dopo un
altro anno, in una terza casa, sempre più in basso, e tra sette anni sarai in un
sottoscala sulla Sennaja. E questo se ti dovesse ancora andare bene. Ma la
vera disgrazia sarebbe se, oltre a ciò, ti beccassi una qualche malattia, be’,
mettiamo una debolezza di petto… o ti prendessi un’infreddatura, o
qualcos’altro. Con una vita come questa è difficile superare una malattia. Ti
s’attacca, e poi non te la levi più di dosso. Ed ecco che muori».
«E sia, morirò» rispose ormai del tutto arrabbiata, e si mosse rapida.
«Comunque dispiace».
«Per chi?»
«Dispiace per la vita».
Silenzio.
«E ce l’hai il fidanzato, eh?»
«Che ve ne importa?»
«Non ti sto mica interrogando. Che vuoi che me ne importi. Che hai da
arrabbiarti? Potrai certo aver avuto i tuoi dispiaceri. Che me ne importa?
Ma così, dispiace».
«Per chi?»
«Dispiace per te».
«Non ce n’è bisogno…» sussurrò, e di nuovo si mosse.
La cosa subito mi incattivì. Come! La trattavo con dolcezza, e lei…
«Ma cos’è che pensi? Di essere su una buona strada, eh?»
«Non penso niente».
«Ed è un male che tu non pensi. Svegliati, finché sei in tempo. E in
tempo lo sei. Sei ancora giovane, sei bella; potresti innamorarti, sposarti,
essere felice…»
«Non tutte le donne sposate sono felici» tagliò corto con la rozza
parlantina di poco prima.
«Non tutte, certo, ma comunque è sempre molto meglio che qui. Non
c’è nemmeno paragone. E con l’amore anche senza felicità si può vivere.
Allora anche nel dolore la vita è bella, è bello vivere al mondo, comunque
sia la vita. Mentre qui, che c’è oltre… al puzzo. Puah!»
Mi voltai con disgusto; non stavo già più ragionando con freddezza. Io
stesso cominciavo a sentire che stavo parlando, e che m’accaloravo. M’era
ormai venuta la brama di esporre le mie ideuzze recondite, vissute nel mio
angolo. All’improvviso in me qualcosa s’era acceso, s’era “presentato” un
qualche scopo.
«Tu non pensare a me, al fatto che sono qui, non sono un esempio per
te. Io, forse, sono ancora peggio di te. D’altronde qua dentro ci sono venuto
ubriaco» m’affrettai comunque a giustificarmi. «Inoltre un uomo non può
essere un esempio per una donna. È una cosa diversa; anche se m’insudicio
e m’impiastro, comunque non sono schiavo di nessuno; sono venuto, me ne
sono andato, e tanti saluti. Mi scrollo di dosso ogni cosa e sono come
nuovo. Mentre tu, fin dall’inizio, sei una schiava. Sì, una schiava! Dai via
tutto, tutta la tua libertà. E poi hai voglia di spezzare questa catena, ma non
lo puoi fare: ne sarai avviluppata sempre più stretta. È fatta così, questa
catena maledetta. La conosco bene. E del resto non parlo nemmeno, non lo
capiresti, ma di’ un po’: sei forse in debito con la padrona? Be’, lo vedi!»
soggiunsi, anche se lei non mi aveva risposto, ma si limitava, in silenzio, ad
ascoltare con tutto il suo essere. «Eccoti la tua catena! Non ce la farai mai a
riscattarti. È così che fanno. È come aver venduto l’anima al diavolo… …E
per di più io… forse, sono altrettanto disgraziato, per quel che ne sai, e di
proposito striscio nel fango, per dimenticare la mia angoscia. Si beve anche
per dimenticare il dolore: be’, ed ecco, sono qui per il dolore. Su, dimmi,
che c’è qui di buono? Prendiamo noi due… poco fa… ci siamo conosciuti,
e per tutto il tempo non ci siamo scambiati nemmeno una parola, e tu, a me,
come una selvaggia, ti sei messa a guardarmi, dopo; e io ho fatto lo stesso
con te. È forse così che si ama? È forse così che si devono conoscere due
esseri umani? È solo un’indecenza, ecco cos’è!»
«Sì!» annuì lei, con gesto brusco e affrettato. Mi stupì persino la fretta
di quel sì. Significava che forse anche a lei girava per la testa quello stesso
pensiero, quando poco fa mi stava guardando? Significava che anche lei era
già in grado di avere certi pensieri?… “Che mi pigli il diavolo, questo è
curioso, questo è un legame di parentela” pensai, quasi fregandomi le mani.
“E come si può non avere la meglio con un’anima così giovane?”
Più d’ogni altra cosa m’attirava l’idea del gioco.
Lei voltò la testa, avvicinandola a me e, mi parve nel buio, si puntellò
con una mano. Forse mi stava esaminando. Come mi spiaceva di non
poterle guardare gli occhi. Sentivo il suo respiro profondo.
«Perché sei venuta quaggiù?» esordii con una certa autorità.
«Così…»
«Ma com’era bello vivere nella casa paterna! Al caldo, in libertà; nel
proprio nido».
«E se fosse peggio di così?»
“Bisogna stare attenti al tono” mi balenò nella testa, “con il
sentimentalismo non si tira fuori granché”.
D’altronde la cosa si limitò a balenarmi nella mente. Lo giuro, lei mi
interessava davvero. Inoltre ero come prostrato, e in qualche modo
bendisposto. E poi la malizia s’accorda così bene al sentimento.
«Chi lo nega!» m’affrettai a rispondere. «Tutto può essere. Io sono però
convinto che qualcuno ti ha offeso, e che sono gli altri a essere in colpa nei
tuoi confronti, e non tu nei loro. Non so niente della tua storia, ma una
ragazza come te certo non è venuta quaggiù di sua volontà…»
«E che ragazza sarei, io?» sussurrò lei con voce appena udibile; ma io la
sentii.
“Che il diavolo mi pigli, la sto lusingando. È infame. Forse però è anche
un bene…” Lei taceva.
«Vedi, Liza, sto parlando di me! Se avessi avuto una famiglia
dall’infanzia, non sarei quello che sono adesso. A questo penso spesso. Per
quanto si possa star male in famiglia, ci sono sempre un padre e una madre,
e non dei nemici, non degli estranei. Anche magari solo una volta all’anno,
ma un po’ d’amore te lo mostreranno. Comunque sai che sei a casa tua. Io
invece sono cresciuto senza una famiglia; è per questo, forse, che sono
venuto fuori a questo modo… insensibile».
Aspettai di nuovo.
“Forse nemmeno capisce” pensai, “ed è ridicolo star qui a fare la
morale”.
«Se fossi un padre e avessi una figlia, credo che amerei di più la figlia
dei figli maschi, davvero» cominciai, prendendo la cosa alla lontana, per
distrarla. Confesso che arrossii.
«E questo perché?» mi chiese.
Ah, dunque, mi stava ascoltando!
«Così, non so, Liza. Vedi: conoscevo un padre che era un uomo severo,
austero, ma davanti alla figlia si metteva in ginocchio, le baciava le mani e i
piedi, non si saziava d’ammirarla, davvero. La sera lei ballava, e lui se ne
stava per cinque ore fermo allo stesso posto, senza toglierle gli occhi di
dosso. Aveva perso la testa per lei; questo lo capisco. La sera lei era stanca,
s’addormentava, e lui si svegliava e andava a baciarla e benedirla, mentre
dormiva. Lui stesso se ne andava in giro con una finanziera lurida, con tutti
era avaro, ma a lei comprava cose spendendo fino all’ultima moneta, le
faceva regali costosi, e per lui era una gioia se i regali le piacevano. Un
padre ama sempre la figlia più di quanto la ami la madre. Per certe ragazze
com’è bello vivere a casa! E io credo che, se avessi una figlia, nemmeno la
farei sposare».
«Come sarebbe?» domandò lei, con un sorrisetto.
«Sarei geloso, per Dio. Be’, cos’è, si metterebbe a baciare un altro, ad
amare un altro più del padre? È dura persino immaginare una cosa simile.
Certo, queste sono solo sciocchezze; certo, alla fine tutti quanti
rinsaviscono. Ma io, certo, prima di darla via, avrei avuto una
preoccupazione soltanto: avrei scartato tutti i fidanzati. E comunque
sarebbe andata a finire che l’avrei data a quello che lei stessa amava. Già,
perché quello che la figlia ama, al padre sembra sempre il peggiore di tutti.
È così che funziona. E da questo fatto quanto male viene a ogni famiglia».
«Altri sono ben contenti di vendere la figlia, altro che darla in sposa con
onore» proferì lei all’improvviso.
Ah! Ecco com’era!
«Questo, Liza, capita nelle famiglie maledette, dove non ci sono né
amore né Dio» continuai con ardore, «e dove non c’è l’amore, lì non c’è
nemmeno il buon senso. Ce ne sono di famiglie così, è vero, e non sto
parlando di quelle. Tu, evidentemente, nella tua famiglia non hai conosciuto
il bene, se parli così. Sei stata in qualche modo davvero sfortunata. Uhm…
Per lo più questo capita per povertà».
«Perché, dai signori è forse meglio? E anche in povertà le persone
oneste vivono bene».
«Uhm… sì. Forse. E poi, Liza, di nuovo: l’uomo ama considerare solo il
proprio dolore, e la sua felicità non la considera. Ma se la considerasse a
dovere, allora vedrebbe che è provvisto di tutto per affrontare qualsiasi
destino. Be’, e non è forse bello se nella famiglia va tutto bene, Dio la
benedice, il marito è bravo, ti ama, ti vezzeggia, non s’allontana da te? Si
sta bene in una famiglia del genere. Persino se a volte c’è dolore e si stenta,
si sta bene; e dov’è che non c’è dolore? Forse, se ti sposerai, lo vedrai tu
stessa. Prendiamo i primi tempi, dopo aver sposato uno che ami: la felicità,
quanta felicità, a volte verrà! Ne avrai sempre attorno. Nei primi tempi
persino le discussioni col marito vanno a finir bene. Ci sono donne che
tanto più amano il marito, tanto più stan lì a tramare liti con lui. Davvero,
ne ho conosciuta una di quelle: “Ecco, ti amo” dice, “e per amore ti
tormento, e tu lo senti”. Lo sai che per amore si può di proposito tormentare
una persona? Soprattutto le donne. E intanto di se stessa pensa: “Dopo lo
amerò così tanto, lo accarezzerò talmente, che adesso non è peccato
tormentarlo un po’”. E in casa tutti gioiscono di voi, e si sta bene, e si sta
allegri, e in pace e onestà… Ce ne sono altre che sono anche gelose. Lui
esce per andare da qualche parte – ne ho conosciuta una così – e lei non lo
sopporta, e in piena notte magari salta su, e corre zitta zitta a dare
un’occhiata: non sarà mica lì, in quella casa, e con quella? E questo è un
male. E lei lo sa da sola che è un male, il cuore le si stringe, e si punisce, ma
ama; tutto viene dall’amore. E com’è bello, dopo una discussione, fare la
pace, darsi la colpa al cospetto di lui, oppure perdonare! E stanno così bene
entrambi, all’improvviso va tutto così bene, come se si fossero di nuovo
incontrati, di nuovo sposati, come se l’amore tra loro fosse ricominciato. E
nessuno, nessuno deve sapere quel che avviene tra un marito e una moglie,
se si amano l’un l’altra. E qualsiasi sia la lite sorta tra di loro, nessuno,
nemmeno la madre deve essere chiamata a giudicare, a sentire quello che
uno dice dell’altra. Loro stessi debbono essere i giudici. L’amore è un
mistero di Dio e deve essere occultato a tutti gli occhi altrui, qualsiasi cosa
sia successa. Per questo diventerà ancora più sacro, migliore. Si
rispetteranno di più a vicenda, e sul rispetto molto si fonda. E se una volta
c’è stato l’amore, se per amore si sono sposati, perché l’amore dovrebbe
passare! Possibile che non lo si possa trattenere? È raro il caso in cui non lo
si può trattenere. Be’, e se il marito risulta essere buono e onesto, com’è
possibile che l’amore passi? Passerà il primo amore nuziale, è vero, ma poi
verrà un amore ancora migliore. Lì ci si incontrerà nell’anima, tutto sarà
messo in comune; non ci saranno segreti reciproci. E verranno i figli, e così
anche il momento più duro si presenterà come una gioia; basterà solo amare
ed essere coraggiosi. Allora anche il lavoro sarà allegro, a volte ci si
negherà il pane per darlo ai figli, e comunque sarà allegro. Loro, in seguito,
per questo ti ameranno; significa che stai mettendo da parte qualcosa per te.
I figli cresceranno, senti che per loro sei un esempio, che per loro sei un
sostegno; che anche se morirai, loro per tutta la vita si porteranno dentro i
tuoi pensieri e i tuoi sentimenti, così come li hanno ricevuti da te, saranno a
tua immagine e somiglianza. Significa che si tratta di un dovere supremo.
Com’è possibile che padre e madre non s’uniscano ancora di più? Si dice
che, ecco, avere figli è un peso? Chi è che lo dice? È una felicità del cielo!
Ami i bambini piccoli, Liza? Io li amo terribilmente. Sai, un bimbetto tutto
roseo, succhia al seno, e quale marito non sentirà che il cuore suo si volge
tutto alla moglie, guardandola seduta assieme al suo bambino! Un
bimbettino tutto roseo, grassottello, si stiracchia, se la gode; le gambette e le
manine grassocce, le unghiette pulite pulite, gli occhietti piccoli, così
piccoli che a guardarli si sorride, come se ormai già tutto capisse. E succhia,
ti tira il seno con le manine, gioca. Il padre s’avvicina, lui si stacca dal seno,
si inarca tutto all’indietro, guarda il padre, si mette a ridere, proprio come se
solo Dio sapesse quanto è divertente, e poi di nuovo, di nuovo si mette a
succhiare. E prende, e morde la madre sul seno, i denti stanno già
crescendo, e con gli occhietti la sbircia ed è come se dicesse: “Lo vedi, ti ho
dato un morsino!” E non è forse la felicità, quando loro tre, il marito, la
moglie e il bambino sono assieme? Per momenti del genere si possono
perdonare molte cose. No, Liza, prima bisogna imparare a vivere, e solo
dopo si può dare la colpa agli altri!»
“Era di questi quadretti, proprio di questi quadretti che avevi bisogno,
tu!” pensai tra me, anche se, per Dio, avevo parlato con sentimento, e
all’improvviso arrossii. “E se lei all’improvviso mi dovesse ridere in faccia,
dov’è che m’arrampico?” L’idea mi fece infuriare. Alla fine del mio
discorso m’ero davvero infervorato, e adesso il mio amor proprio in qualche
modo ne stava soffrendo. Il silenzio si prolungò. Mi venne persino voglia di
darle una spinta.
«Com’è che voi…» esordì lei improvvisamente, per poi fermarsi.
Ma io avevo già capito tutto: nella sua voce già tremava qualcos’altro,
che non era brusco, rozzo e pronto a resistere come poco prima, ma
qualcosa di dolce e di pudico, a tal punto pudico che io stesso
all’improvviso provai vergogna davanti a lei, mi sentii in colpa.
«Cosa?» domandai con curiosità intenerita.
«Ma voi…»
«Cosa?»
«Com’è che voi… è proprio come se leggeste un libro» disse, e
all’improvviso di nuovo nella sua voce si udì qualcosa di beffardo.
Quest’osservazione mi morse dolorosamente. Non era quello che mi
aspettavo.
E non capii che lei a bella posta si stava mascherando dietro la
derisione, che quella era la solita ultima scappatoia delle persone pudiche e
caste di cuore, alle quali si entra in modo rozzo e molesto nell’anima e che
fino all’ultimo istante non s’arrendono per orgoglio, e temono d’esprimere
davanti a voi il proprio sentimento. Già dalla timidezza con la quale s’era
accostata a più riprese alla sua derisione avrei dovuto intuirlo. Ma non
l’intuii, e un sentimento cattivo s’impossessò di me.
“Aspetta un po’” pensai.
VII.

«Eh, basta così, Liza, che c’entra il libro, quando provo un tale schifo anche
solo considerando la cosa da estraneo. E pure non da estraneo. Tutto questo,
adesso, mi s’è svegliato nell’anima… Possibile, possibile che anche tu
stessa non provi schifo qua dentro? No, è evidente che l’abitudine significa
molto! Lo sa il diavolo cosa può far di un uomo l’abitudine. Ma possibile
che tu pensi seriamente che non invecchierai mai, che sarai bella in eterno e
che ti terranno qua dentro nei secoli dei secoli? E non parlo del fatto che
anche qui è una vera schifezza… Ma d’altra parte, ecco quello che ti dirò di
tutto ciò, della tua vita attuale: ecco, adesso almeno sei giovane, avvenente,
buona, con un’anima, con del sentimento; be’, lo vuoi sapere che io, quando
poco fa mi sono svegliato, ho subito provato una sensazione di schifo
all’idea di essere qui con te? Soltanto da ubriachi si può andare a finire qua
dentro. Mentre se tu fossi in un altro posto, vivessi come vivono le brave
persone, io, forse, non solo starei lì a fare il cascamorto con te, ma mi
innamorerei semplicemente, sarei lieto anche solo di un tuo sguardo, per
non dire di una parola; starei lì accanto al tuo portone, mi metterei in
ginocchio davanti a te; ti considererei la mia futura sposa, e per me sarebbe
un onore. Non oserei pensare qualcosa di sporco al tuo riguardo. Mentre qui
so bene che mi basta fare un fischio e tu, volente o nolente, verrai con me, e
che non sono io a doverti chiedere il permesso, ma piuttosto sei tu che me
lo devi chiedere. L’ultimo dei contadini va a fare il bracciante, e comunque
non si fa del tutto servo, non si vende del tutto, e sa che il suo lavoro ha un
termine. Mentre dov’è il tuo termine? Pensaci: cos’è che dai, qua dentro?
Cos’è che vendi? L’anima, l’anima, sulla quale non hai potere, la vendi
assieme al corpo! Il tuo amore lo lasci profanare da qualsiasi ubriaco!
L’amore! Ma l’amore è tutto, ma è un diamante, il tuo tesoro di fanciulla,
l’amore! E per meritarsi quest’amore c’è qualcuno pronto a giocarsi
l’anima, ad andare a morire. E che valore ha adesso il tuo amore? Sei stata
comprata tutta, tutta dalla testa ai piedi, e perché cercare di ottenere il tuo
amore, quando anche senza amore è possibile fare tutto. Ma non esiste
offesa più grande per una ragazza, lo capisci? Ecco, l’ho sentito, cercano di
consolarvi, sceme, vi permettono di avere degli amanti qua dentro. Ma
questo è solo un vezzo, solo un inganno, una risata alle vostre spalle, e voi
ci credete. Pensi forse che lui ti ami, l’amante? Io non credo. Come potrà
amarti quando sa che adesso ti chiameranno per andare da un altro. Dopo
una cosa del genere è uno sporcaccione! Pensi che abbia anche solo un
briciolo di rispetto per te? Che hai in comune con lui? Ride di te e ti deruba,
eccolo qui tutto il suo amore! Ed è ancora un bene che non ti picchi. Ma
forse, ti picchia pure. Chiediglielo, se ne hai uno del genere, chiedigli se ti
sposerebbe. E lui ti riderà in faccia, ma potrebbe anche sputarti addosso, o
picchiarti, e poi magari lui stesso non vale che un soldo bucato. E per cosa,
pensaci un po’, hai distrutto la tua vita qua dentro? Perché ti diano il caffè
da bere e ti riempiano la pancia di cibo? Ma per cos’è che ti danno da
mangiare, eh? A un’altra, a una onesta, un simile boccone si fermerebbe in
gola, perché sa bene per cos’è che le danno da mangiare. Tu qui sei in
debito, e in debito lo sarai sempre, e fino alla fine sarai in debito, fino al
momento in cui gli ospiti cominceranno a provare ribrezzo di te. E questo
capiterà presto, non contare troppo sulla giovinezza. Qua dentro tutto vola
via veloce, al galoppo. Ti butteranno fuori. E non si limiteranno a buttarti
fuori, ma molto prima si comincerà a criticarti per nulla, cominceranno a
rimproverarti, cominceranno a insultare, come se tu a lei, alla padrona, non
avessi dato la salute, come se non avessi distrutto invano la giovinezza e
l’anima per lei, ma come se fossi invece stata tu a mandarla in rovina, a
farla andare mendica per il mondo, come se tu l’avessi derubata. E non
aspettarti che qualcuno ti sostenga: le altre tue amiche ti daranno addosso
pure loro, solo per renderle un servigio, perché qui dentro siete tutte in
schiavitù, coscienza e compassione sono da tempo andate perdute. Si sono
incarognite, e al mondo nemmeno esiste qualcosa di più schifoso, vile e
offensivo di questi insulti. Ed è qua dentro che intendi lasciare tutto quanto,
tutto, senza condizioni, la salute, la giovinezza, la bellezza e la speranza, e a
ventidue anni sembrerai una di trentacinque, e ti sarà andata ancora bene se
non sarai malata, prega Iddio che questo non accada. Magari adesso pensi
che nemmeno devi lavorare, che non fai che sbevazzare! Ma al mondo non
c’è mai stato lavoro più pesante e da galera di questo. Si direbbe che il
cuore ti si dovrebbe sciogliere in lacrime. E non oserai dire una sola parola,
nemmeno mezza, quando ti cacceranno via di qui, te ne andrai come se
fossi tu la colpevole. Ti trasferirai in un altro posto, e poi in un altro ancora,
e poi ancora da qualche altra parte, e alla fine arriverai alla Sennaja. E lì
ormai, senza nemmeno pensarci, cominceranno a picchiarti; si tratta di una
forma di galanteria locale; laggiù l’ospite non è capace di accarezzarti senza
averti prima pestato almeno un po’. Non credi che laggiù sia così
disgustoso? Facci un giro, dacci un’occhiata, una volta o l’altra, forse lo
vedrai con i tuoi occhi. A me una volta, a Capodanno, è capitato di vederne
una, ferma accanto a una porta. L’avevano cacciata fuori i suoi, per
deriderla, a gelarsi un pochettino, per il fatto che gridava forte, e poi
avevano chiuso la porta alle sue spalle. Alle nove del mattino era già
completamente ubriaca, scarmigliata, mezza nuda, coperta di lividi. S’era
tutta imbellettata, ma gli occhi ce li aveva pesti; dal naso e dai denti le
colava il sangue: un vetturino le aveva appena dato una ripassata. Sedeva
sulla scaletta di pietra, tra le mani teneva un certo pesce salato; gridava, si
lamentava del suo “maledetto destino”, e col pesce colpiva i gradini della
scaletta. E accanto al terrazzino d’ingresso s’erano ammassati i vetturini, e
dei soldati ubriachi, e la prendevano in giro. Non credi che anche tu
diventerai proprio così? Anch’io non lo vorrei credere, ma per quel che ne
sai, forse, dieci, otto anni fa quella stessa donna col pesce salato era arrivata
quaggiù da chissà dove, fresca come un cherubino, innocente, tutta linda
linda; non sapeva cosa fosse il male, arrossiva a ogni parola. Forse era
proprio come te, orgogliosa, suscettibile, diversa da tutte le altre, sembrava
una regina e lei stessa sapeva che una felicità completa avrebbe atteso chi si
fosse innamorato di lei e da lei fosse stato amato. Lo vedi com’è andata a
finire? E se nello stesso istante in cui martellava con quel pesce i gradini
sudici, ubriaca e scarmigliata, se in quell’istante le fossero tornati alla
mente tutti i suoi anni puri del passato, nella casa paterna, quando ancora
andava a scuola, e il figlio del vicino le faceva la posta lungo la strada, le
assicurava che per tutta la vita l’avrebbe amata, che le avrebbe dedicato la
propria vita, e quando assieme avevano deciso di amarsi per sempre e di
sposarsi non appena fossero diventati grandi! No, Liza, la felicità, la felicità
per te, adesso, sarebbe morire al più presto di tisi laggiù, in un angolo, in un
sottoscala, come quella là. In ospedale, dici? Sarebbe un bene se ti ci
portassero, ma se invece servi ancora alla padrona? La tisi è una malattia
così, mica è come la febbre. Con la tisi fino all’ultimo momento l’uomo
spera, e dice di stare bene. Si consola da solo. E per la padrona la cosa è un
vantaggio. Non preoccuparti, è così; l’anima l’hai venduta, e inoltre devi
anche dei soldi, significa che ti tocca tenere la bocca chiusa. E morirai, e
tutti ti abbandoneranno, tutti si volteranno dall’altra parte, perché cos’è che
possono prendere da te? E inoltre ce l’avranno con te perché occupi un
posto per niente, perché non ti sbrighi a morire. Non riuscirai nemmeno a
chiedere da bere, perché l’acqua te la daranno accompagnata dagli insulti:
“Quand’è che tiri le cuoia, brutta infame; non ci lasci dormire, ti lamenti,
gli ospiti ne sono schifati”. E questo è vero; le ho sentite io stesso queste
parole. Ti ficcheranno nell’angolo più fetido del sottoscala, morente, dove
ci sarà solo tenebra, umidità; a cosa penserai allora, distesa da sola?
Morirai, ti porteranno via di fretta, mani estranee, nessuno starà lì a
sospirare per te, basterà solo liberarsi al più presto possibile del tuo peso.
Compreranno una bara da due soldi, ti porteranno fuori come la poveretta di
oggi, e andranno a commemorarti alla bettola. Nella tomba ci sarà
fanghiglia, sozzume, neve fradicia, non staranno certo lì a far tante
cerimonie per una come te. “Buttala giù, Vanjucha, si vede proprio che è il
suo ‘maledetto destino’ quello di finire a gambe all’aria, a una così. Ma
accorcia quella corda, animale”. “Va bene anche così”. “Cos’è che va bene?
Sta distesa su un fianco. Era pur sempre un essere umano, o no? Vabbe’,
d’accordo, buttaci sopra la terra”. E non avranno voglia di star lì a
imprecare a lungo per colpa tua. Ci butteranno sopra in tutta fretta
dell’argilla azzurra e fradicia, e se ne andranno alla bettola… E lì finirà il
ricordo di te su questa terra; alle altre, sulla tomba, vanno i figli, i padri, i
mariti, mentre per te non ci saranno lacrime, sospiri, commemorazioni, e
nessuno, nessuno mai in tutto il mondo verrà da te; il tuo nome scomparirà
dalla faccia della terra, come se tu nemmeno ci fossi mai stata e mai fossi
nata! Fango e palude, e avrai un bel bussare contro il tettuccio della tua bara
la notte in cui i morti si alzeranno: “Lasciatemi, brava gente, vivere ancora
un po’ nella luce del mondo! Ho vissuto, la vita non l’ho vista, la mia vita è
stata buttata via come uno straccio vecchio; se la sono bevuta in una bettola
sulla Sennaja; lasciate, brava gente, che ancora una volta viva un po’ nel
mondo!”».
Ero talmente entrato nel pathos della cosa che mi stava per venire una
sorta di spasmo alla gola, e… all’improvviso mi fermai, mi sollevai in
preda allo spavento e, chinato timoroso il capo, con il cuore che batteva, mi
misi in ascolto. C’era di che esserne davvero turbati.
Da un po’ ormai presentivo d’averle messo sottosopra l’anima e
spezzato il cuore, e più me n’accertavo, più bramavo raggiungere il mio
scopo in tutta fretta e con la maggior forza possibile. Il gioco, il gioco mi
attraeva; d’altronde, non era solo un gioco…
Sapevo di parlare in modo stentato, artificioso, persino libresco, in
poche parole, ma non sapevo fare altro che “parlare come se leggessi un
libro”. Questo però non mi turbava; sapevo bene, lo presentivo, che sarei
stato capito e quello stesso elemento libresco mi sarebbe stato di grande
aiuto in quella faccenda. Ma adesso, raggiunto l’effetto, all’improvviso mi
spaventai. No, mai, mai ero ancora stato testimone di una simile
disperazione! Lei se ne stava distesa bocconi, con il viso profondamente
affondato nel guanciale, che stringeva con entrambe le mani. Era come se le
si stesse squarciando il petto. Tutto il giovane corpo sussultava come in
preda alle convulsioni. I singhiozzi che le serravano il petto la soffocavano,
la laceravano, e all’improvviso sfuggirono all’esterno in forma di urla e di
lamenti. A quel punto si strinse ancor più al guanciale; non voleva che
qualcuno, lì dentro, nemmeno un’anima viva sapesse dei suoi tormenti e
delle lacrime. Mordeva il guanciale, si morse persino la mano a sangue
(questo lo vidi in seguito) o, afferrandosi i capelli scompigliati con le dita,
se ne restava immobile per lo sforzo, trattenendo il respiro e serrando i
denti. Ero sul punto di cominciare a dirle qualcosa, a chiederle di calmarsi,
ma sentivo di non averne il coraggio, e all’improvviso io stesso, tutto un
brivido, quasi in preda al terrore, a tastoni in qualche modo cercai di
andarmene al più presto. Era buio: per quanto mi sforzassi, non riuscivo a
venire a capo della cosa in fretta. All’improvviso con la mano avvertii la
presenza di una scatoletta di fiammiferi e di un candeliere con una candela
ancora intera. Non appena la luce ebbe illuminato la stanza, Liza
all’improvviso saltò su, sedette e con la faccia in qualche modo contorta, un
sorriso semifolle, mi guardò con sguardo quasi instupidito. Le sedetti
accanto e le presi la mano; lei tornò in sé, si gettò verso di me, voleva
abbracciarmi, ma non osava, e in silenzio chinò il capo davanti a me.
«Liza, amica mia, ho fatto male… devi scusarmi» iniziai a dire, ma lei
mi strinse le mani tra le dita con una tale forza che intuii che non stavo
dicendo le cose giuste, e smisi.
«Ecco il mio indirizzo, Liza, vieni da me».
«Verrò…» sussurrò con decisione, sempre continuando a non sollevare
la testa.
«E adesso me ne vado, addio… arrivederci».
Mi alzai, si alzò anche lei e, arrossendo tutta all’improvviso, trasalì,
afferrò lo scialle che giaceva su una sedia e se lo gettò sulle spalle,
avvolgendovisi fino al mento. Dopo di che sorrise di nuovo con una sorta di
sofferenza, arrossì e mi guardò in modo strano. Stavo male; m’affrettai a
uscire, a filarmela.
«Aspettate» disse lei all’improvviso, quando già ero nell’antiporta,
proprio vicino all’uscita, e mi fermò afferrandomi con la mano il cappotto,
depose in tutta fretta la candela e corse via: s’era evidentemente rammentata
di qualcosa, o voleva portarla per farmela vedere. Mentre correva, s’era
fatta tutta rossa in viso, gli occhi splendevano, sulle labbra era apparso un
sorriso: di cosa si poteva trattare? Contro la mia volontà, mi fermai in
attesa; fece ritorno un attimo dopo, con uno sguardo che pareva chiedere
scusa per qualcosa. In generale non si trattava più di quel viso, e di quello
sguardo di poco prima, incupito, diffidente e ostinato. Lo sguardo adesso
era supplichevole, dolce, e al tempo stesso fiducioso, tenero, intimidito.
Così i bambini guardano le persone alle quali vogliono molto bene e alle
quali intendono chiedere qualcosa. Aveva gli occhi di un castano luminoso,
degli occhi bellissimi, vivaci, che sapevano esprimere tanto l’amore che
l’odio più cupo.
Senza darmi alcuna spiegazione, come se io, simile a un qualche essere
superiore, dovessi sapere ogni cosa senza bisogno di chiarimenti, protese un
foglio di carta. In quell’istante tutto il suo volto risplendeva dell’esultanza
più ingenua, quasi infantile. Lo aprii. Si trattava di una lettera che le aveva
scritto uno studente di medicina, o qualcosa del genere, una dichiarazione
d’amore molto magniloquente, infiorettata, ma estremamente rispettosa.
Adesso non ricordo le espressioni, ma ricordo molto bene che al di là di
quello stile elevato s’intravedeva un sentimento sincero, che non era
possibile simulare. Quando ebbi finito di leggere, incontrai lo sguardo
ardente, curioso e infantilmente impaziente di lei, fisso su di me. Aveva
focalizzato gli occhi sul mio viso e attendeva impaziente quello che avrei
detto. In poche parole, in fretta, ma con una sorta di gioia e come di fierezza
mi spiegò che era stata a una certa serata danzante, in una casa privata, da
certe «brave, bravissime persone, gente di famiglia e dove ancora non
sapevano nulla, assolutamente nulla» perché lei, qua, ancora era proprio
nuova, e c’era venuta solo così… e non aveva affatto deciso se fermarsi, e
se ne sarebbe sicuramente andata, appena pagato il debito… Be’, e lì c’era
questo studente, aveva ballato tutta la sera con lei, le aveva parlato, ed era
saltato fuori che lui fin da Riga, quando era ancora un bambino, la
conosceva, avevano giocato assieme, solo che era stato molto tempo prima,
e che conosceva i suoi genitori, ma che di questo lui non sapeva niente di
niente, e nemmeno lo sospettava! Ed ecco che il giorno successivo, dopo il
ballo (tre giorni prima), tramite una conoscente con la quale lei era andata
alla serata, le aveva mandato quella lettera… e… be’, ecco tutto.
Come intimidita abbassò gli occhi lucenti quando giunse alla fine del
suo racconto.
Poverina, conservava la lettera di quello studente come un oggetto
prezioso, ed era corsa a prendere questo suo unico oggetto prezioso perché
non voleva che me ne andassi senza sapere che anche a lei si voleva bene in
modo onesto e sincero, e che con lei si parlava con deferenza. Era probabile
che a questa lettera fosse destinato di restarsene nel suo bauletto senza
conseguenze. Ma comunque sono convinto che lei per tutta la vita l’avrebbe
conservata come un oggetto prezioso, come il suo orgoglio e la sua
giustificazione, ed ecco che lei stessa in un simile momento aveva ricordato
e portato quella lettera, per mostrarmela ingenuamente con fierezza, per
riabilitarsi ai miei occhi, perché vedessi, perché anch’io la lodassi. Non
dissi nulla, le strinsi la mano e me ne andai. Avevo così tanta voglia di
andarmene… Percorsi tutta la strada a piedi, nonostante la neve fradicia
continuasse ancora a cadere a grossi fiocchi. Ero estenuato, oppresso, in
preda alla perplessità. Ma la verità vera già luccicava dietro la perplessità.
La turpe verità vera38!

VIII.
Io, d’altronde, ci misi un po’ prima di accettare di riconoscere questa verità
vera. Al mio risveglio al mattino, dopo alcune ore di un sonno profondo, di
piombo, e dopo aver immediatamente rammentato tutta la giornata
precedente, mi stupii persino del mio sentimentalismo del giorno prima con
Liza, di tutti quegli “orrori e compassioni di ieri”. “A una baba del genere
può ben capitare una crisi di nervi, puah!” stabilii. “E perché poi le ho
ficcato in mano il mio indirizzo? Che farò se dovesse venire? E d’altra
parte, ma prego, che venga pure; non fa nulla…” Ma, evidentemente, in
quel momento quella non era la cosa principale e più importante: mi dovevo
sbrigare e a qualsiasi costo dovevo salvare al più presto la mia reputazione
agli occhi di Zverkov e Simonov. Ecco qual era la cosa principale. Quanto a
Liza, quasi me ne dimenticai completamente nel corso di quella mattinata,
tutto preso dalle mie faccende.
Innanzitutto occorreva senza indugio rendere a Simonov il debito del
giorno prima. Mi decisi a un’impresa disperata: prendere a prestito quindici
rubli tondi tondi da Anton Antonovič . Come a bella posta, quella mattina
era in una magnifica disposizione di spirito e subito cedette, alla mia prima
richiesta. Me ne rallegrai a tal punto che, mentre firmavo la ricevuta, con
una certa aria spavalda gli comunicai con noncuranza che il giorno prima
«avevo fatto baldoria con dei conoscenti all’Hôtel de Paris; dovevamo
salutare un compagno, addirittura, si poteva dire, un compagno d’infanzia,
uno che ne sa di baldorie, uno sfrenato, be’, s’intende, di buona famiglia,
con una sostanza considerevole, una carriera brillante, molto arguto, gentile,
uno che se l’intende con le signore, mi capite: ci siamo bevuti una “mezza
dozzina” di troppo, e…» E poi niente; tutto ciò era stato detto con molta
facilità, disinvoltura e gran soddisfazione.
Arrivato a casa, scrissi subito a Simonov.
Ancora oggi provo ammirazione rammentando il tono autenticamente
da gentiluomo, benevolo e aperto della mia lettera. In modo abile e nobile e,
soprattutto, senza parole superflue, mi ero preso la colpa di tutto. Trovavo
una giustificazione, «se solo mi si permetteva ancora di giustificarmi», nel
fatto che, per autentica disabitudine al vino, m’ero ubriacato fin dal primo
bicchiere, che (così ebbi a dire) avevo bevuto ancor prima del loro arrivo,
quando li stavo aspettando all’Hôtel de Paris, dalle cinque alle sei.
Chiedevo principalmente scusa a Simonov; a lui chiedevo anche di riferire
le mie spiegazioni a tutti gli altri, in particolare a Zverkov che, e la cosa «mi
era rimasta in mente come in un sogno», pareva avessi offeso. Aggiungevo
che io stesso sarei andato da tutti, ma mi faceva male la testa e, soprattutto,
provavo vergogna. Rimasi in particolare soddisfatto di questa “sorta di
leggerezza”, quasi persino di noncuranza (d’altronde, del tutto decorosa),
che all’improvviso trovava un riflesso nella mia penna e, meglio di tutte le
possibili ragioni, di colpo faceva loro capire che consideravo con una certa
indipendenza di spirito “tutta la schifezza del giorno prima”; non sono
affatto, non sono per nulla annientato come voi, signori, con ogni
probabilità state pensando, ma al contrario, considero la cosa con la
tranquillità che deve avere al riguardo un gentiluomo che si rispetti. I
peccati di gioventù li si dimentica in fretta.
“C’è persino una certa qual giocosità da marchese!” pensavo ammirato,
rileggendo il biglietto. “E tutto perché sono un uomo evoluto e colto! Altri,
al mio posto, non saprebbero come trarsi d’impaccio, e invece ecco che io
l’ho fatto e sono pronto di nuovo a far baldoria, e tutto perché sono ‘un
uomo evoluto e colto dei nostri giorni’. E in realtà, forse, ieri è successo
tutto davvero per via del vino. Uhm… ma no, non per il vino. Di vodka non
ne avevo bevuta affatto dalle cinque alle sei, mentre li stavo aspettando. Ho
mentito a Simonov; ho mentito sfacciatamente; e anche adesso non me ne
vergogno…”
Ma, d’altronde, ci sputavo sopra! La cosa principale era che me l’ero
cavata.
Inserii nella lettera sei rubli, la suggellai e chiesi ad Apollon di portarla
a Simonov. Venuto a sapere che nella lettera c’erano dei soldi, Apollon
divenne più rispettoso e accettò di andare. Verso sera uscii per una
passeggiatina. La testa mi doleva ancora e girava per tutto quello che era
successo il giorno prima. Ma più calava la sera e il crepuscolo s’addensava,
più mutavano e si confondevano le mie impressioni, e assieme a loro anche
i miei pensieri. Qualcosa non era morto dentro di me, nel profondo del
cuore e della coscienza, non voleva morire e s’esprimeva in forma di
bruciante angoscia. Gironzolavo per le vie più affollate, più affaccendate,
per le due Meščanskie, per la Sadovaja, nei pressi del giardino Jusupov. In
particolare amavo sempre passeggiare per queste vie al crepuscolo, proprio
quando vi s’infittisce la folla d’ogni tipo di passante, operai e artigiani, con
le facce preoccupate fino a sembrare rabbiose, che se ne tornavano alle loro
case con le paghe della giornata in tasca. Mi piaceva precisamente quel
viavai da due soldi, quella sfacciata prosaicità. Questa volta il pigia pigia
delle vie mi eccitava ancor più del solito. Non riuscivo in alcun modo a
dominarmi, a venire a capo di quel che mi stava accadendo. Nell’anima
qualcosa si sollevava, si sollevava senza posa, con dolore, e non voleva
quietarsi. Me ne feci ritorno a casa del tutto turbato. Proprio come se
sull’anima mia pesasse un delitto.
Mi tormentava senza posa il pensiero che Liza sarebbe venuta. Mi
pareva strano che tra tutti i ricordi del giorno prima fosse il ricordo di lei
che in qualche modo particolare, in qualche modo a sé stante, mi
tormentasse. Di tutto il resto ora di sera avevo ormai fatto in tempo a
dimenticarmene completamente, l’avevo allontanato con un gesto della
mano, e comunque continuavo a essere del tutto soddisfatto della mia
lettera a Simonov. Ma a quel punto in qualche modo non ero più
soddisfatto. Proprio come se per la sola Liza mi stessi tormentando. “Che
sarà se dovesse venire?” mi chiedevo incessantemente. “Eh, be’, non fa
nulla, che venga pure. Uhm… È brutto solo che veda, per esempio, come
vivo. Ieri davanti a lei mi sono mostrato in un tal modo… da eroe… mentre
adesso, uhm! D’altronde è brutto che mi sia lasciato andare così. Nel mio
alloggio non c’è che miseria. E ieri mi sono deciso ad andare all’incontro
con un vestito simile! E il mio divano con l’incerata, con l’imbottitura che
fuoriesce! E la mia vestaglia, che non si può chiudere in alcun modo! Che
razza di stracci… E lei vedrà tutto questo; e vedrà pure Apollon.
Quell’animale la offenderà di certo. Se la piglierà con lei per fare una
sgarberia a me. E io, s’intende, per abitudine, mi piglierò paura, comincerò
a sgambettare davanti a lei, a coprirmi coi lembi della vestaglia, comincerò
a sorridere, comincerò a mentire. Uh, che schifo! Ma non è questo lo schifo
più grande! Qui c’è qualcosa di più importante, di più schifoso, di più
infame! Sì, di più infame! E di nuovo, di nuovo tornare a indossare questa
maschera bugiarda e disonesta!…”
Giunto a questo pensiero, subito mi sentii avvampare.
“E perché disonesta? Di che disonestà sto parlando? Quello che ho detto
ieri era del tutto sincero. Ricordo che in me c’era anche un sentimento
autentico. Volevo proprio risvegliare in lei dei sentimenti nobili… Se ha
pianto, è stato un bene, è qualcosa che agisce in modo benefico…”
Ma comunque non riuscivo in alcun modo a calmarmi.
Tutta quella sera, anche quando me ne ero già tornato a casa, ormai
dopo le nove, quando, secondo i miei calcoli, Liza non sarebbe in alcun
modo potuta venire, comunque fosse lei mi balenava nella testa e,
soprattutto, me la rammentavo sempre nella stessa identica posizione. Un
momento preciso di tutta la giornata precedente mi si presentava con
particolare chiarezza: quando con il fiammifero avevo illuminato la stanza e
avevo visto il suo volto pallido, contorto, con lo sguardo da martire. E che
sorriso penoso, innaturale, che sorriso contorto aveva sulle labbra in quel
momento! Ma allora ancora non sapevo che quindici anni più tardi avrei
continuato a immaginarmi Liza proprio con il sorriso penoso, contorto,
inutile che aveva in quel momento.
Il giorno successivo già ero di nuovo pronto a considerare tutto ciò una
sciocchezza, il frutto dei nervi malati e, soprattutto, un’esagerazione. Ero
sempre stato consapevole di questo mio punto debole e a volte ne avevo
persino paura: “Tutto io lo esagero, è per questo che zoppico” mi ripetevo
di continuo. Ma, d’altronde, “d’altronde, comunque, forse Liza verrà” era
questo il ritornello che concludeva tutti i miei ragionamenti d’allora. Ero a
tal punto agitato che a volte mi infuriavo. «Verrà! Verrà sicuramente!»
esclamavo, correndo per la stanza. «Se non verrà oggi, lo farà domani, e mi
scoverà! È tale il dannato romanticismo di tutti questi cuori puri! Oh,
l’abominio, oh, la stupidità, oh, la limitatezza di queste “immonde anime
sentimentali”! E come non capire, come si fa a non capire, dico…» Ma a
quel punto io stesso mi fermavo, e persino in preda a un grande turbamento.
“E sono bastate così poche, poche parole” pensavo di sfuggita, “è
bastato un idillio (e per di più un idillio affettato, libresco, artefatto) per
mutare da così a così tutta un’anima umana. Eccola, la verginità! Ecco la
freschezza del suolo!”
A volte mi veniva l’idea di andare io stesso da lei, “di raccontarle tutto”
e chiederle di non venire da me. Ma a quel punto, a quel pensiero, in me si
sollevava una tale rabbia che pareva che quella “maledetta” Liza l’avrei
schiacciata se solo le fosse capitato all’improvviso di ritrovarsi accanto a
me, l’avrei offesa, le avrei sputato addosso, l’avrei colpita!
Tuttavia passò un giorno, ne passò un altro, poi un terzo, e lei non
veniva, mentre io cominciavo a tranquillizzarmi. In particolare mi
rincuoravo e me ne uscivo a passeggiare dopo le nove, a volte cominciavo
persino a sognare e con una certa dolcezza: “Io, per esempio, salvo Liza
proprio perché lei viene da me e io le parlo… L’aiuto a svilupparsi, a
educarsi. Alla fine mi accorgo che lei mi ama, mi ama con passione. Io
fingo di non capire (non so, d’altronde, perché finga; probabilmente così,
per bellezza). Alla fine lei, tutta turbata, bellissima, tremante e in lacrime, si
getta ai miei piedi e dice che sono il suo salvatore e che mi ama più d’ogni
cosa al mondo. Mi stupisco ma…” «Liza» le dico, «possibile che tu possa
pensare che non mi sia accorto del tuo amore? Ho visto tutto, ho intuito, ma
non osavo avanzare pretese per primo nei confronti del tuo cuore, perché ho
avuto un influsso su di te e temevo che tu, per gratitudine, ti costringessi a
bella posta a rispondere al mio amore, che tu stessa evocassi con la forza un
sentimento in te che, forse, non esisteva, e questo non lo volevo, perché
sarebbe stata… una forma di dispotismo… Sarebbe stata una mancanza di
delicatezza» (be’, in poche parole, a quel punto mi rifacevo a una di quelle
sottigliezze all’europea, alla George Sand, inspiegabilmente nobili…). «Ma
adesso, adesso tu sei mia, sei la mia creatura, sei pura, bellissima, sei la mia
bellissima moglie.
E nella mia dimora, libera e audace,
Metti piede da autentica padrona! 39
Quindi cominciamo la nostra vita, andiamo all’estero, eccetera,
eccetera». In poche parole, io stesso diventavo così vile che finivo con il
mostrare la lingua a me stesso.
“Ma a lei mica la lasceranno uscire, alla ‘canaglia’!” pensavo. “Pare che
a quelle mica le lascino uscire molto a passeggiare, tanto più la sera (per
qualche motivo mi sembrava di sicuro che dovesse venire di sera, e
precisamente alle sette). E d’altra parte aveva detto che lì ancora non s’era
asservita del tutto, che aveva mantenuto ancora certi diritti; il che
significava… uhm! Che se la pigli il diavolo, verrà, verrà di sicuro!”
Ed era una fortuna che allora ci fosse Apollon a distrarmi con le sue
sgarberie. Mi faceva davvero uscire dai gangheri! Era la mia piaga, il
flagello inviatomi dalla Provvidenza. Ci punzecchiavamo di continuo, da
alcuni anni, senza interruzione, e io lo odiavo. Dio mio, come lo odiavo! Mi
pareva di non aver ancora mai odiato nessuno a quel modo in tutta la mia
vita, soprattutto in alcuni momenti. Era un uomo di una certa età, dall’aria
imponente, che a volte s’occupava di lavori di sartoria. Ma, non si sapeva
perché, mi disprezzava quasi al di là d’ogni misura, e mi considerava
guardandomi insopportabilmente dall’alto in basso. D’altronde, guardava
tutti dall’alto in basso. Bastava dare un’occhiata a quella testa dai capelli
albini, pettinati lisci, a quel ciuffo che si sistemava sulla fronte e che ungeva
con l’olio, a quella bocca tutta seria, sempre atteggiata a forma di “o”, per
farvi subito sentire d’essere al cospetto di un individuo che non dubitava
mai di sé. Era un pedante al massimo grado, e il più enorme pedante tra tutti
quelli che ho avuto modo d’incontrare sulla terra; e, oltre a ciò, con un amor
proprio degno di Alessandro il Macedone. Era innamorato d’ogni suo
bottone, d’ogni sua unghia, del tutto innamorato, e lo dava a vedere! Si
rapportava a me in modo completamente dispotico, con me parlava
pochissimo, e se gli capitava di darmi un’occhiata, lo faceva con sguardo
severo, estremamente baldanzoso e costantemente beffardo, che a volte mi
portava a vere e proprie crisi di furia. Eseguiva il suo dovere con l’aria di
chi mi stesse concedendo una grazia suprema. D’altronde, non faceva quasi
nulla per me e quasi non si riteneva nemmeno tenuto a fare una qualsiasi
cosa. Non poteva esserci alcun dubbio che egli mi considerasse l’ultimo
scemo al mondo e se “mi teneva presso di sé” era unicamente perché da me
poteva ottenere ogni mese uno stipendio. Aveva accettato di “non fare
nulla” per me in cambio di sette rubli al mese. Mi si perdoneranno molti
peccati per lui. A volte si giungeva a un tale odio che quasi mi venivano le
convulsioni al solo sentire il rumore dei suoi passi. Ma mi ripugnava in
modo particolare la sua parlata blesa. Aveva la lingua un poco più lunga del
dovuto, o qualcosa del genere, motivo per cui non faceva che biascicare e
ciancicare le parole e a quanto pareva ne andava terribilmente fiero,
immaginando che ciò gli conferisse una grandissima dignità. Parlava a voce
bassa, con tono cadenzato, tenendo le mani dietro la schiena e gli occhi
abbassati, rivolti a terra. In particolare mi faceva infuriare quando capitava
che cominciasse a leggere da solo il Salterio, di là dal tramezzo. Molte
battaglie ho sopportato per via di quella lettura. Ma lui amava terribilmente
leggere la sera, con voce bassa, regolare, cantilenando, proprio come si fa
per i morti. È curioso che proprio così sia poi andato a finire: adesso viene
assoldato per leggere il Salterio per i defunti, e al tempo stesso stermina
topi e prepara il kvas40. Ma allora non lo potevo scacciare, era come
chimicamente fuso alla mia esistenza. Inoltre lui stesso non avrebbe
accettato di andarsene, per nulla al mondo. Non potevo vivere nelle
chambres-garnies41: il mio alloggio era il mio rifugio, il mio guscio, la mia
custodia, nella quale mi celavo all’umanità tutta, e Apollon, lo sa il diavolo
perché, mi sembrava appartenere a quell’alloggio, e per sette interi anni non
riuscii a cacciarlo via.
Differire il pagamento del suo stipendio anche di due o tre giorni era
impossibile. Avrebbe messo in piedi una tale storia che non avrei saputo
dove andare a nascondermi. Ma in quel preciso periodo ero a tal punto
incattivito con tutti che decisi, per un qualche motivo e per un qualche
scopo, di punire Apollon e di non dargli lo stipendio per altre due settimane.
Da tempo ormai, da un paio d’anni, m’apprestavo a farlo, al solo scopo di
mostrargli che non doveva osare di darsi arie di tale importanza con me, e
che se volevo, potevo sempre trattenere il suo stipendio. Mi riproponevo di
non parlargli della cosa e persino di tacere di proposito, per avere la meglio
sul suo orgoglio e costringerlo a parlare lui stesso, per primo, dello
stipendio. Allora avrei tirato fuori i sette rubli dal cassetto, gli avrei
mostrato che li avevo e che apposta li avevo messi da parte, ma che “non
voglio, non voglio, semplicemente non voglio dargli lo stipendio, non
voglio perché è così che mi va”, perché tale è “la mia volontà di padrone”,
perché lui è irrispettoso, perché è un villanzone; ma che se invece chiede
con rispetto, allora, forse, m’addolcirò e glielo darò; altrimenti può anche
aspettare altre due settimane, altre tre, un mese intero…
Ma per quanto fossi incattivito, comunque fu lui a vincere. Io non ressi
nemmeno quattro giorni. Lui cominciò nel modo in cui sempre cominciava
in casi del genere, perché casi del genere c’erano già stati, ci avevo già
provato (e faccio notare che sapevo tutto ciò fin da prima, conoscevo a
memoria la sua infame tattica), e precisamente: iniziava, per esempio, con il
rivolgermi uno sguardo estremamente severo, e non me lo toglieva di dosso
per alcuni minuti di seguito, in particolare quando m’accoglieva al mio
ingresso o m’accompagnava al momento dell’uscita. Se, per esempio,
resistevo e davo a vedere che non notavo quegli sguardi, lui, sempre in
silenzio, passava a ulteriori vessazioni. All’improvviso, di punto in bianco,
entrava senza far rumore e in silenzio nella mia stanza, mentre stavo
camminando o leggendo, si fermava accanto alla porta, si metteva una
mano dietro la schiena, spostava una gamba in avanti e mi puntava addosso
lo sguardo, già non più severo, bensì del tutto sprezzante. Se all’improvviso
gli domandavo che cosa volesse, non rispondeva alcunché, continuava a
guardarmi fisso ancora per qualche secondo; quindi, dopo aver serrato in un
certo modo le labbra, con aria molto significativa si voltava lentamente sul
posto e lentamente se ne andava nella sua stanza. Dopo un paio d’ore
all’improvviso entrava di nuovo e di nuovo mi si mostrava in tal guisa.
Capitava che io, in preda alla furia, non gli domandassi nemmeno che cosa
volesse, ma mi limitassi a sollevare brusco e imperioso la testa e
cominciassi anch’io a guardarlo fisso. E così capitava che ci guardassimo a
vicenda per due interi minuti; alla fine lui si voltava, lento e solenne, e
tornava ad andarsene per un paio d’ore.
Se nemmeno così mi risolvevo a intendere ragione e tenevo duro nella
mia ribellione, allora all’improvviso si dava a sospirare, guardandomi, a
sospirare a lungo, profondamente, come se stesse misurando con ciascuno
di quei sospiri tutta la profondità della mia caduta morale e, s’intende,
andava a finire che arrivava a una piena vittoria: io m’infuriavo, sbraitavo,
ma ero comunque tenuto a dar corso a quello che costituiva il punto centrale
della questione.
Quella volta avevano appena avuto inizio le solite manovre relative agli
“sguardi severi” che io subito persi la testa e in preda alla furia mi scagliai
contro di lui. Ero già fin troppo irritato di mio, senza bisogno del suo
contributo.
«Fermati!» mi misi a gridare furibondo quando lui si stava voltando
lento e silenzioso, con una mano dietro la schiena, per andarsene nella sua
stanza. «Fermati! Voltati, voltati, ti sto parlando!» e dovetti aver dato in un
urlo così innaturale che quello si voltò e si mise a scrutarmi persino con una
sorta di stupore. D’altronde, continuava a non dire una parola, e proprio
questo contribuiva a farmi imbestialire.
«Come osi entrare nella mia stanza senza essere stato chiamato, e
guardarmi in questo modo? Rispondi!»
Ma, dopo avermi esaminato tranquillamente per mezzo minuto, di
nuovo fece l’atto di voltarsi.
«Fermati!» sbraitai, correndo verso di lui. «Non muoverti di un passo!
Così. E adesso rispondi: perché sei entrato a guardarmi?»
«Se nel momento presente c’avete qualcosa da ordinare, allora il
compito mio è farlo» rispose, tornando poi di nuovo a tacere, biascicando
piano e ritmicamente, dopo aver sollevato le sopracciglia e voltato in tutta
tranquillità la testa da una spalla all’altra, e il tutto con una tranquillità
spaventevole.
«Non è questo, non è questo che ti sto chiedendo, boia!» mi misi a
urlare, tremando dalla rabbia. «Te lo dico io, a te, boia, il perché tu te ne
vieni qua dentro: vedi che non ti do lo stipendio, per orgoglio non vuoi
essere tu a chinare il capo, a chiedere, ed è per questo che vieni con i tuoi
stupidi sguardi, a punirmi, a tormentarmi, e nemmeno so-spet-ti, boia,
quanto tutto ciò sia stupido, stupido, stupido, stupido!»
In silenzio quello era già sul punto di cominciare a voltarsi, ma lo
afferrai.
«Ascolta!» gli gridai. «Ecco i soldi, li vedi: eccoli!» li tirai fuori dal
cassetto del tavolino. «Tutti i sette rubli, ma non li riceverai, non li ri-ce-ve-
rai fino a quando non verrai qui con rispetto, con la testa china, a chiedermi
perdono. Hai sentito!»
«Questo non può essere!» rispose quello con una sorta di baldanza
innaturale.
«E invece può!» gridai. «Ti do la mia parola d’onore che può!»
«E non c’ho proprio niente per cui chiedervi perdono» continuò quello,
come se nemmeno avesse notato le mie grida, «perché voi mi avete
chiamato “boia”, cosa per cui posso sempre chiedervi di andare al
commissariato a rispondere dell’offesa».
«Vacci! Chiedi!» strepitai. «Vacci subito, in questo stesso istante, in
questo stesso secondo! E tu comunque sei un boia! Un boia! Un boia!» Ma
lui comunque si limitò a guardarmi, quindi si voltò e, ormai senza ascoltare
le mie grida invocanti, se ne scivolò in tutta calma in camera sua, senza altri
indugi.
“Se non ci fosse stata Liza, non sarebbe successo niente di tutto ciò!”
decisi tra me. Quindi, dopo aver atteso un minuto, con aria solenne e piena
d’importanza ma con il cuore che batteva colpi lenti ma violenti, mi recai io
stesso da lui, di là dal paravento.
«Apollon!» dissi, piano e con una pausa, ma ansimando. «Vieni subito
qua e senza il minimo indugio va’ a chiamare il commissario di quartiere!»
In quel frattempo lui già s’era seduto al suo tavolo, aveva inforcato gli
occhiali e s’era messo a cucire qualcosa. Ma, sentito il mio ordine,
all’improvviso stronfiò in una risata.
«Adesso, in questo stesso istante, va’! Va’, o non puoi immaginarti che
cosa succederà!»
«Siete davvero uscito di senno» osservò, senza nemmeno sollevare la
testa, biascicando sempre lentamente e continuando a infilare il filo nella
cruna. «E dove s’è mai visto che uno va a chiamare i superiori contro di sé?
Quanto al farmi paura, vi sgolate per nulla, perché tanto non ne verrà fuori
niente».
«Va’!» mugolai, afferrandolo per una spalla. Ancora un istante, e sapevo
che l’avrei colpito. Ma non sentii nemmeno che in quel momento
all’improvviso la porta dell’ingresso si era aperta, piano e lentamente, e che
una certa figura era entrata, si era fermata e titubante aveva cominciato a
esaminarci. Diedi un’occhiata, raggelai dalla vergogna e mi precipitai nella
mia stanza. Lì, prendendomi con entrambe le mani per i capelli, appoggiai
la testa alla parete e rimasi immobile in quella posizione.
Dopo un paio di minuti s’udirono i passi lenti di Apollon.
«C’è di là una che chiede di voi» disse, guardandomi con particolare
severità. Poi si fece da parte e lasciò passare… Liza. Non se ne voleva
andare e ci esaminava beffardo.
«Fila via! Fila via!» gli ordinai, smarrito. In quel momento il mio
orologio si tese tutto, sibilò e batté le sette.
IX.

E nella mia dimora, libera e audace,


Metti piede da autentica padrona!
Da quella stessa poesia

Stavo davanti a lei distrutto, disonorato, confuso in modo abominevole e,


mi sembra, sorridevo, cercando con tutte le forze d’avvolgermi nei lembi
della mia lacera vestagliuzza imbottita, esattamente come poco prima, in un
momento di sconforto, m’ero immaginato. La cosa peggiore era che anche
lei all’improvviso s’era confusa in un modo che quasi non m’aspettavo.
Ovviamente perché m’aveva guardato.
«Siedi» dissi macchinalmente, e le porsi una sedia accanto al tavolo,
mentre io mi misi sul divano. Lei subito sedette obbediente, guardandomi
con tanto d’occhi e, con ogni evidenza, aspettandosi adesso qualcosa da me.
Proprio l’ingenuità di quell’attesa mi fece infuriare, ma cercai di
trattenermi.
A quel punto avrei dovuto far finta di non notare alcunché, come se
tutto fosse normale, ma lei… E confusamente sentii che me l’avrebbe
pagata cara per tutto questo.
«Mi hai colto in una strana situazione, Liza» esordii, tartagliando e
sapendo bene che non avrei mai dovuto cominciare a quel modo.
«No, no, non pensare chissà che!» esclamai, vedendo che
all’improvviso era avvampata. «Non mi vergogno certo della mia povertà.
Sono povero, ma nobile… Si può essere poveri e nobili» borbottai.
«D’altronde… vuoi del tè?»
«No…» stava cominciando a dire.
«Aspetta!»
Saltai su e corsi da Apollon. Dovevo pur sparire da qualche parte.
«Apollon» sussurrai con una parlantina febbrile, buttandogli davanti i
suoi sette rubli, che per tutto il tempo avevo tenuto in pugno, «eccoti il tuo
stipendio; lo vedi, ho ceduto; ma adesso tu mi devi salvare: va’ subito in
trattoria e porta qui del tè e una decina di biscotti. Se non vuoi andare,
renderai un uomo infelice! Tu non sai che donna sia questa… Questo è
tutto! Forse pensi qualcosa… Ma tu non sai che donna sia questa!…»
Apollon, che già era tornato a sedersi per lavorare e che già aveva
inforcato gli occhiali, dapprincipio, senza mettere da parte gli aghi, in
silenzio gettò un’occhiata in tralice ai soldi; quindi, senza rivolgermi la
minima attenzione e senza rispondermi, continuò a occuparsi del filo che
continuava ancora a cercare di infilare. Attesi tre minuti buoni, fermo
davanti a lui, le mani incrociate à la Napoléon. Le mie tempie erano fradice
di sudore; ero pallido, me ne rendevo conto. Ma, grazie a Dio, dovette
provar pena per me, guardandomi. Risolto il problema col suo filo,
lentamente si alzò, lentamente discostò la sedia, lentamente si cavò gli
occhiali, lentamente contò i soldi e alla fine, dopo avermi chiesto volgendo
la testa se doveva prendere una porzione intera, lentamente uscì dalla
stanza. Quando feci ritorno da Liza, strada facendo mi passò per la testa se
non fosse il caso di scapparmene così com’ero, con la vestagliuzza, a casa
del diavolo, e che andasse come doveva andare.
Tornai a sedermi. Lei mi guardava con inquietudine. Per alcuni minuti
tacemmo.
«Lo ammazzerò!» esclamai all’improvviso, colpendo con violenza il
tavolo col pugno, così che l’inchiostro traboccò dal calamaio.
«Ah, ma che dite!» esclamò lei, trasalendo.
«Lo ammazzerò, lo ammazzerò!» strillai, pestando sul tavolo, del tutto
in preda alla furia e davvero senza nel contempo comprendere quanto fosse
stupido essere infuriato.
«Tu non sai, Liza, cosa sia quel boia per me. È il mio boia… Adesso è
andato a prendere i biscotti; lui…»
E all’improvviso scoppiai in lacrime. Era una vera e propria crisi di
nervi. Che vergogna provavo tra i singhiozzi; ma non potevo in alcun modo
trattenermi. Lei si spaventò.
«Che vi piglia! Che vi succede?» esclamava, dandosi da fare attorno a
me.
«Acqua, dammi dell’acqua, eccola là!» borbottai con voce flebile, pur
essendo consapevole, d’altronde, di potermela benissimo cavare
senz’acqua, e che avrei potuto non borbottare con voce flebile. Ma io stavo,
come si suol dire, fingendo per salvare le apparenze, anche se la crisi era
stata vera.
Mi porse l’acqua, guardandomi come smarrita. In quel momento
Apollon portò il tè. All’improvviso mi parve che quel tè banale e prosaico
fosse terribilmente sconveniente e miserabile dopo tutto ciò che era stato, e
avvampai. Liza guardava Apollon persino con spavento. Lui uscì senza
darci nemmeno un’occhiata.
«Liza, tu mi disprezzi?» dissi, guardandola fissa, tremando per
l’impazienza di sapere che cosa pensasse.
Lei si confuse e non fu in grado di rispondere alcunché.
«Bevi il tè!» proferii con rabbia. Ero infuriato con me stesso ma,
s’intende, era lei che la doveva pagare. Una rabbia terribile nei suoi
confronti si mise all’improvviso a ribollirmi nel cuore; mi sembrava che
avrei persino potuto ucciderla. Per vendicarmi di lei mi giurai mentalmente
di non dirle per tutto il tempo nemmeno una parola. “È lei la causa di tutto”
pensavo.
Il nostro silenzio si prolungava ormai da cinque minuti. Il tè se ne
restava sul tavolo, non l’avevamo nemmeno toccato; ero giunto al punto di
non voler di proposito cominciare a bere, per opprimerla ancora di più; e lei
era troppo in imbarazzo per cominciare da sola. Tacevo ostinato. Il vero
martire ero, naturalmente, io, perché ero del tutto consapevole della
bassezza ripugnante della mia rabbiosa stupidità, e al tempo stesso non
riuscivo in alcun modo a trattenermi.
«Io, da là… me ne voglio… andare del tutto» cominciò a dire lei, per
interrompere in qualche modo il silenzio, ma, poveretta! era proprio quello
con cui non avrebbe dovuto cominciare in un momento già di per sé stupido
come quello, rivolgendosi a una persona già di per sé stupida, quale ero io.
Persino il mio cuore ebbe una fitta di pietà nei confronti della sua
inesperienza e dell’inutile franchezza. Ma qualcosa di brutto soffocò
all’istante tutta la pietà dentro di me; arrivò persino a provocarmi ancora di
più: che tutto andasse pure in malora! Trascorsero altri cinque minuti.
«Non vi ho mica disturbato?» esordì lei timida, con voce appena
udibile, e fece per alzarsi.
Ma appena vidi quella prima vampata di dignità offesa, mi misi a
tremare per la rabbia e subito scoppiai.
«Perché sei venuta da me, dimmelo, per favore?» cominciai, ansimando
e non rendendomi addirittura conto dell’ordine logico delle mie parole. «Te
lo dico io, matuška42, perché sei venuta. Sei venuta perché quella volta ti ho
detto delle parole pietose43. Ed ecco che ti sei commossa, e ne volevi altre
di “parole pietose”. Sappi invece, sappi che allora stavo ridendo di te. E
anche adesso ne rido. Che hai da tremare? Sì, stavo ridendo! Prima di quel
momento m’avevano offeso, durante il pranzo, quelli che erano arrivati
prima di me. Ero venuto da voi per percuotere uno di loro, un ufficiale; ma
non mi era riuscito, non li avevo trovati; dovevo ben vendicarmi su
qualcuno per l’offesa, prendere quello che mi spettava, e sei saltata fuori tu,
e addosso a te ho rovesciato la mia rabbia, e quanto ho riso, dopo! Mi
avevano umiliato, e quindi volevo umiliare; mi avevano trattato come uno
straccio, e quindi volevo mostrare il mio potere… Ecco com’è stato, e tu
pensavi che allora fossi venuto apposta per salvarti, eh? L’hai pensato?
L’hai pensato?»
Sapevo che lei, forse, si sarebbe confusa e non avrebbe colto i dettagli;
ma sapevo anche che avrebbe colto perfettamente la sostanza. E così infatti
accadde. Impallidì come un cencio, voleva dire qualcosa, le labbra le si
contorsero dolorosamente; ma come se l’avessero colpita con una scure,
ricadde di schianto sulla sedia. E per tutto il tempo successivo mi ascoltò, la
bocca socchiusa, gli occhi spalancati, e tremando di un terrore terribile. Il
cinismo, il cinismo delle mie parole la schiacciava…
«Salvarti!» continuai, saltando su dalla sedia e correndole davanti per la
stanza, avanti e indietro. «Salvarti da cosa! Ma se io, forse, sono peggio di
te. Com’è che allora non me l’hai lanciato sul muso, quando ti facevo la
morale: “E tu, allora, com’è che sei venuto qua da noi? A farci la predica?”
Potere, allora mi occorreva potere, mi occorreva il gioco, dovevo
procurarmi le tue lacrime, l’umiliazione, la tua crisi isterica, ecco quello che
allora mi occorreva! E poi io stesso mica sono stato in grado di reggere,
perché sono una canaglia, mi sono spaventato e lo sa il diavolo perché ho
dato a te, scema, il mio indirizzo. Ti odiavo, perché allora ti avevo mentito.
Perché io so solo giocare a parole, sognare nella mia testa, ma alla prova dei
fatti sai cosa mi occorre? Che sprofondiate tutti quanti, ecco cosa! Ho
bisogno della tranquillità. E per far sì che non mi si disturbi, sarei pronto a
vendere il mondo intero per un copeco. Il mondo sprofonderà se dovessi
bermi quel tè? Direi: che sprofondi pure, ma io il tè me lo bevo, sempre. Lo
sapevi, questo, o no? Be’, e io lo so che sono un mascalzone, una canaglia,
un egoista, un fannullone. E questi tre giorni ho tremato per il terrore che tu
venissi. E sai cos’è che in questi tre giorni mi calmava in particolare? Il
fatto che, ecco, allora m’ero presentato a te come un tale eroe, ma che se tu
fossi venuta, all’improvviso m’avresti visto con indosso questa
vestagliuccia lacera, miserabile, ripugnante. Poco fa ti ho detto che non mi
vergogno della mia povertà; sappi invece che me ne vergogno, eccome, me
ne vergogno più di ogni altra cosa, più che se avessi rubato, perché sono
così vanitoso che è come se m’avessero strappato la pelle, e bastasse l’aria a
farmi sentire dolore. Ma possibile che tu persino ora ancora non abbia
intuito che non ti perdonerò mai il fatto d’avermi trovato con questa
vestagliuccia, mentre mi gettavo come un cagnetto inferocito contro
Apollon? Colui che resuscita la gente, l’ex eroe si getta come un botolo
irsuto e ripugnante sul suo servo, e quello intanto ride di lui! E le lacrime di
poco fa che, come una baba senza vergogna, non sono riuscito a trattenere
al tuo cospetto, nemmeno quelle te le perdonerò mai! E il fatto che adesso ti
stia confessando tutto ciò, anche questo a te non lo perdonerò mai! Sì, sarai
tu, tu soltanto a dover rispondere di tutto ciò, perché mi sei capitata davanti,
perché sono un mascalzone, perché sono il verme più ripugnante, ridicolo,
insignificante, stupido, invidioso tra tutti i vermi della terra, che non sono
affatto meglio di me ma che, lo sa il diavolo perché, non si confondono mai;
mentre ecco che io per tutta la vita da qualsiasi pidocchio mi lascerò
riempire di bile, e questa è la mia caratteristica! Ma che cosa me ne importa
se tu non capisci niente di tutto ciò! E che cosa, che cosa vuoi che me ne
importi di te e del fatto che tu, là dentro, finirai o non finirai male? Ma lo
capisci che io, adesso, dopo averti detto queste cose, ti odierò perché tu eri
qui e hai ascoltato? In vita sua un uomo parla così una volta soltanto, e
anche quella volta lo fa in preda a una crisi isterica!… Che altro vuoi? Che
altro vuoi dopo tutto ciò, che hai da startene lì a tormentarmi, perché non te
ne vai?»
Ma a quel punto si verificò una strana circostanza.
Ero a tal punto abituato a pensare e immaginare ogni cosa in modo
libresco e a rappresentarmi tutto al mondo così come me l’ero costruito in
precedenza nei miei sogni, che addirittura allora non capii subito quella
strana circostanza. Ma ecco quello che si verificò: Liza, offesa e oppressa
da me, aveva capito assai più di quanto mi fossi immaginato. Aveva capito
da tutto ciò quello che una donna capisce prima di tutti gli altri se ama in
modo sincero, e precisamente che io stesso ero infelice.
Un sentimento timoroso e offeso fu sostituito sul suo viso in un primo
momento da uno stupore amareggiato. Quando invece cominciai a definirmi
una canaglia e un mascalzone e le lacrime cominciarono a scorrermi sulle
guance (avevo fatto tutta quella tirata tra le lacrime), tutto il suo viso fu
contratto da una sorta di spasmo. Avrebbe voluto alzarsi, fermarmi; quando
infine terminai, non rivolse attenzione alle mie grida: «Perché stai qui,
perché non te ne vai!», ma al fatto che per me in quel momento doveva
essere molto duro dire tutto ciò. Ed era così avvilita, poveretta; si
considerava infinitamente al di sotto di me; come avrebbe potuto
arrabbiarsi, offendersi? All’improvviso saltò su dalla sedia in preda a uno
slancio incontenibile e, tendendosi tutta verso di me, ma ancora intimidita e
senza osare spostarsi da dov’era, mi protese le mani… A quel punto anche
dentro di me il cuore si capovolse. Allora lei all’improvviso si gettò verso
di me, mi abbracciò il collo con le mani e si mise a piangere. Anch’io non
ressi e mi misi a singhiozzare come mai ancora m’era capitato di fare…
«Non me lo permettono… Non posso essere… buono!» proferii a
stento, quindi raggiunsi il divano, ci caddi bocconi e per un quarto d’ora
singhiozzai in preda a un autentico attacco isterico. Lei si strinse a me, mi
abbracciò e rimase come immobile in quell’abbraccio.
Ma il punto comunque era che quell’attacco isterico avrebbe dovuto
passare. Ed ecco (scrivo la ripugnante verità), mentre stavo disteso bocconi
sul divano, ben saldo, e con la faccia affondata nel mio miserabile cuscino
di pelle, cominciai a poco a poco a sentire, alla lontana, senza volerlo ma in
modo ineluttabile, che adesso sarei stato in imbarazzo a sollevare la testa e
guardare Liza dritto negli occhi. Mi venne anche in mente nella mia testa in
subbuglio che adesso i ruoli erano del tutto mutati, che adesso era lei
l’eroina, e io proprio quella stessa creatura umiliata e schiacciata che era
stata lei davanti a me quella notte, quattro giorni prima… E tutto ciò giunse
a me ancora in quei momenti in cui me ne stavo bocconi sul divano!
Dio mio! Ma possibile che allora la stessi invidiando?
Non so, ancora oggi non sono in grado di stabilirlo, e allora ero ancor
meno in grado di capirlo di adesso. Non riesco davvero a vivere senza
potere e tirannia su qualcuno… Ma… ma coi ragionamenti non si spiega un
bel nulla e, di conseguenza, non è nemmeno il caso di star lì a ragionarci.
Io, tuttavia, mi feci forza e sollevai la testa: la si doveva pur sollevare,
prima o poi… Ed ecco, ancora adesso sono convinto che, proprio perché
provavo vergogna a guardarla, allora nel mio cuore all’improvviso s’accese
e avvampò un altro sentimento… un sentimento di dominio e possesso. I
miei occhi lampeggiarono di passione, e le strinsi con forza le mani. Come
la odiavo e come ero attratto da lei in quel momento! Un sentimento
contribuiva a rinsaldare l’altro. La cosa s’avvicinava quasi a una forma di
vendetta!… Sul volto di lei prese forma dapprincipio una sorta di
perplessità, quasi di paura, ma solo per un istante. Con slancio e ardore mi
abbracciò.
X.

Un quarto d’ora dopo correvo avanti e indietro per la stanza in preda a


un’impazienza rabbiosa, ogni momento m’accostavo al paravento e
attraverso la fessura sogguardavo Liza. Sedeva sul pavimento, la testa
chinata sul letto e, probabilmente, piangeva. Ma non se ne andava, e la cosa
mi irritava. Questa volta lei già sapeva tutto. L’avevo offesa in modo
definitivo, ma… non c’era nulla da dire. Aveva intuito che lo slancio della
mia passione era precisamente una forma di vendetta, una sua nuova
umiliazione, e che al mio odio di poco prima, quasi astratto, s’era adesso
aggiunto un odio nei suoi confronti ormai personale, colmo d’invidia… E
d’altra parte non posso affermare che lei capisse tutto in modo chiaro e
distinto; ma aveva invece capito appieno che ero un uomo infame e,
soprattutto, non in condizione di amarla.
Io so, me lo dicono, che è inverosimile, inverosimile essere così cattivi,
stupidi come me; forse potrebbero anche aggiungere che era inverosimile
non amarla o per lo meno non dare valore a quell’amore. Perché mai
inverosimile? In primo luogo, io non posso nemmeno amare perché, lo
torno a ripetere, amare per me significherebbe tiranneggiare e sopraffare
moralmente. Per tutta la vita non ho potuto nemmeno immaginare altro
amore e sono arrivato al punto che a volte adesso penso che l’amore stesso
consista nel conferire volontariamente il diritto, da parte dell’oggetto amato,
di essere tiranneggiato. Io anche nei miei sogni da sottosuolo non potevo
immaginare l’amore altrimenti che come una lotta, lo cominciavo sempre
dall’odio e lo terminavo con l’assoggettamento morale, e poi ormai più non
potevo immaginare cosa farmene dell’oggetto assoggettato. E che c’era di
inverosimile, quando per conto mio già avevo fatto in tempo a pervertirmi
talmente da un punto di vista morale, quando già m’ero disabituato alla
“vita viva”44 da inventarmi poco prima il diritto di rimproverarla e farla
vergognare per essere venuta da me ad ascoltare “parole pietose”; e
nemmeno intuivo io stesso che lei non era affatto venuta per ascoltare
parole pietose, ma per amarmi, perché per una donna nell’amore si
racchiude anche tutta la resurrezione, tutta la salvezza da una qualsiasi
disgrazia rovinosa e tutta la rinascita, e non potrebbe nemmeno manifestarsi
altrimenti, se non in questo modo. D’altronde io non la odiavo poi così
tanto mentre correvo per la stanza e sbirciavo attraverso la fessura dietro il
paravento. Mi sentivo solo insopportabilmente oppresso dal fatto che lei
fosse lì. Volevo che scomparisse. Era la “tranquillità” che desideravo,
desideravo restarmene da solo nel sottosuolo. La “vita viva” per
disabitudine mi schiacciava al punto che mi era quasi difficile respirare.
Ma trascorsero ancora alcuni minuti e lei continuava a non alzarsi, come
se fosse in deliquio. Ebbi l’impudenza di bussare leggermente contro il
paravento, per ricordarle… All’improvviso si riscosse, s’alzò di botto e si
diede a cercare lo scialle, il cappellino, la gonna, come se volesse tentare di
salvarsi da me da qualche parte… Un paio di minuti dopo uscì lenta da
dietro il paravento, e mi squadrò con sguardo penoso. Scoppiai in una risata
cattiva, d’altronde forzata, per la forma, e mi sottrassi al suo sguardo.
«Addio» disse, dirigendosi verso la porta.
All’improvviso la rincorsi, le afferrai una mano, gliela dischiusi, vi misi
qualcosa… e poi tornai a chiudergliela. Quindi subito mi voltai dall’altra
parte e in tutta fretta schizzai verso l’altro angolo, per lo meno per non
vedere…
Ero quasi sul punto di mentire, un attimo fa, di scrivere che l’avevo
fatto per caso, senza avere coscienza di me, per smarrimento, per stupidità.
Ma non voglio mentire e per questo lo dico apertamente che le ho dischiuso
la mano e vi ho messo qualcosa… con cattiveria. M’era venuto in mente di
farlo mentre correvo avanti e indietro per la stanza, e lei se ne stava seduta
dietro il paravento. Ma ecco quello che posso dire per certo: ho fatto quella
crudeltà, anche se apposta, ma non dal cuore, bensì dalla mia testa malata.
Quella crudeltà era a tal punto artificiosa, a tal punto mentale, a bella posta
escogitata, libresca, che io stesso non ressi nemmeno un minuto, in un
primo momento schizzai in un angolo per non vedere, e poi con vergogna e
disperazione mi lanciai all’inseguimento di Liza. Spalancai la porta
dell’ingresso e mi misi in ascolto.
«Liza! Liza!» gridai sulle scale, ma senza coraggio, a mezza voce…
Non ci fu risposta, mi parve di sentire i suoi passi sui gradini da basso.
«Liza!» gridai, più forte.
Nessuna risposta. Ma in quello stesso istante sentii, da basso, la robusta
porta a vetri esterna che s’apriva stridendo, pesantemente, e che con un
colpo cupo si richiudeva. Il rombo si levò lungo le scale.
Se n’era andata. Feci ritorno nella stanza, pensoso. Provavo una
sensazione di terribile oppressione.
Mi fermai accanto al tavolo, vicino alla sedia sulla quale era stata
seduta, e con sguardo perso osservai quello che avevo davanti. Trascorse un
minuto, all’improvviso trasalii tutto: proprio davanti a me, sul tavolo,
vidi… in poche parole, vidi una banconota azzurra da cinque rubli,
spiegazzata, quella stessa che un minuto prima le avevo ficcato in mano.
Era quella banconota; non avrebbe potuto essere un’altra; in casa nemmeno
ce n’era, un’altra. Aveva dunque fatto in tempo a buttarla sul tavolo nel
momento in cui io ero schizzato verso l’altro angolo.
E che? Potevo ben aspettarmelo che avrebbe fatto una cosa del genere.
Potevo aspettarmelo? No. Ero a tal punto egoista, a tal punto in effetti non
rispettavo la gente, che non potevo nemmeno immaginare che lei avrebbe
potuto farlo. Questo non lo sopportai. Un attimo dopo, come un pazzo, mi
precipitai a vestirmi, mi misi addosso quello che in tutta fretta feci in tempo
a indossare e a rotta di collo uscii al suo inseguimento. Non poteva aver
percorso più di duecento passi quando corsi fuori per strada.
C’era silenzio, nevicava, e la neve cadeva quasi perpendicolare,
stendendo un cuscino sul marciapiede e sulla via deserta. Non c’erano
passanti, non s’udiva alcun suono. Tristi e inutili baluginavano i fanali.
Corsi per duecento passi, fino al crocicchio, e mi fermai.
“Dove sarà andata? E perché le corro dietro? Perché? Per caderle
davanti in ginocchio, singhiozzare per il pentimento, baciarle i piedi,
supplicare il suo perdono!” Era proprio questo che volevo; il mio petto si
squassava, e mai, mai potrò rammentare con indifferenza quel momento.
“Ma perché?” mi venne da pensare. “Forse che domani stesso non la odierò
proprio per il fatto che oggi le ho baciato i piedi? Forse che le darò la
felicità? Forse che oggi non ho di nuovo saputo, per la centesima volta,
quello che valgo? Forse che non la tormenterò a morte!” Me ne restavo
fermo in mezzo alla neve, scrutando l’oscurità torbida, e pensavo queste
cose.
“E non è meglio, non è meglio” fantasticavo ormai a casa, in seguito,
cercando di smorzare con le fantasticherie il vivo dolore del cuore, “non è
meglio se lei adesso si porta dietro per sempre l’offesa? Un’offesa è ben una
purificazione, è la consapevolezza più corrosiva e dolorosa! Domani invece
potrei insudiciarle l’anima e stremarle il cuore. Mentre l’offesa adesso non
morirà mai dentro di lei, e per quanto possa essere ripugnante il fango che
la aspetta, l’offesa la innalzerà e la purificherà… con l’odio… uhm, forse, e
con il perdono… Ma, d’altra parte, tutto ciò potrà forse renderle la vita più
facile?”
Ma, in effetti, ecco che mi ritrovo con una domanda oziosa da porre:
cos’è meglio, una felicità da due soldi o delle sofferenze elevate? Allora,
cos’è meglio?
Era questo che mi passava per la testa allora, mentre quella sera sedevo
in casa mia, mezzo morto per il dolore dell’anima. Mai avevo ancora
sopportato tanta sofferenza e pentimento; ma poteva forse esserci un
qualche dubbio, quando ero uscito di corsa dal mio alloggio, che a metà
strada non avrei fatto ritorno a casa? Non incontrai mai più Liza, né seppi
nulla di lei. Aggiungo anche che a lungo me ne rimasi soddisfatto della
frase a proposito del vantaggio dell’offesa e dell’odio, nonostante allora
quasi mi fossi ammalato io stesso per l’angoscia.
Persino ancora adesso, dopo tanti anni, tutto ciò mi sovviene come
qualcosa di fin troppo spiacevole. Ne ho molte di cose spiacevoli da
ricordare adesso ma… non sarebbe il caso di terminare qui queste
Memorie? Ho l’impressione di aver fatto un errore cominciando a scriverle.
Per lo meno ho provato vergogna per tutto il tempo in cui ho scritto questa
novella: dunque già non si tratta di letteratura, ma di un castigo a scopo
correttivo. Poiché raccontare, per esempio, novelle lunghe su come abbia
trascurato la mia vita con la mia corruzione morale, in un angolo, con la
mancanza di contatto con l’ambiente, con la disabitudine a ciò che era vivo
e con la cattiveria vanitosa del sottosuolo, in nome di Dio, non è certo
interessante; in un romanzo occorre un eroe protagonista, mentre qui a bella
posta sono raccolti tutti i tratti dell’antieroe, e soprattutto tutto ciò conduce
a una sgradevolissima sensazione, perché noi tutti siamo disabituati alla
vita, tutti zoppichiamo, chi più, chi meno. Siamo persino a tal punto
disabituati che sentiamo talvolta una sorta di ripugnanza per la “vita viva”,
e per questo nemmeno possiamo sopportare quando ce la rammentano. Già,
perché noi siamo giunti al punto che l’autentica “vita viva” ci manca poco
la si consideri una fatica, quasi un lavoro, e siamo tutti tra di noi d’accordo
che sia meglio come è scritto nei libri. E cos’è che a volte stiamo a darci da
fare, a farci venire dei capricci, a chiedere? Non lo sappiamo neanche noi
cosa. Staremmo peggio se venissero adempiute le nostre richieste
capricciose. Su, provateci, su, dateci, per esempio, più autonomia, slegate le
mani a uno qualsiasi di noi, ampliate la cerchia d’attività, alleggerite la
tutela, e noi… sì, ve lo assicuro davvero: noi subito chiederemo di tornare
sotto tutela. So che voi, forse, per questo vi arrabbierete con me, vi
metterete a gridare, pesterete i piedi: «Parlate per voi solo e per le vostre
miserie da sottosuolo, e non osate dire “tutti noi”». Permettete, signori, non
ho certo intenzione di giustificarmi con questa tuttità45. Per quel che
riguarda me personalmente, mi sono limitato a condurre nella mia vita fino
all’estremo quello che voi non osavate condurre nemmeno fino a metà, per
di più considerando la vostra vigliaccheria come un’espressione di buon
senso, col che vi consolavate, ingannandovi da soli. Di modo che io, forse,
ne verrò fuori persino più “vivo” di voi. Ma guardate con un po’ più
d’attenzione. Noi addirittura adesso non sappiamo dove viva ciò che è vivo,
e che cosa sia, come si chiami! Lasciateci da soli, senza libretti, e noi subito
ci imbroglieremo, ci smarriremo, non sapremo dove attaccarci, a cosa
sorreggerci; che cosa amare e che cosa odiare, cosa rispettare e cosa
disprezzare! Ci siamo addirittura stufati d’essere uomini, uomini con un
corpo di carne e sangue, autentico, proprio; ce ne vergogniamo, lo
consideriamo un disonore e ci diamo da fare per essere delle creature
astratte, universali. Siamo dei nati morti, e già da un pezzo siamo generati
da padri che non sono vivi, e la cosa ci piace sempre di più. Ci stiamo
prendendo gusto. In breve c’inventeremo la maniera di nascere in qualche
modo da un’idea. Ma basta così; non voglio più scrivere “dal Sottosuolo”…

D’altronde, qui ancora non si concludono le “memorie” di questo amante


dei paradossi. Non ha potuto resistere, e ha continuato a scrivere. Ma
anche a noi sembra che ci si possa davvero fermare qui.
Note alle Memorie dal sottosuolo

I. Il sottosuolo

1. Traduciamo con «impiegato» il termine činovnik, uno dei vocaboli chiave della società russa
dell’Ottocento. Il čin, grado, definiva la posizione del cittadino all’interno della Tabella dei
ranghi, istituita da Pietro I, che regolava la struttura di detta società.
2. L’assessore di collegio (kolležskij assesor) corrispondeva all’ottava classe della Tabella dei
ranghi, che di classi ne contava quattordici.
3. Il termine indicava la donna maritata dei ceti bassi. In seguito assunse un significato
leggermente dispregiativo, più o meno equivalente a “donnetta”.
4. Le teorie sviluppatesi nel tardo Settecento relative al “bello e sublime” venivano citate, nella
Russia degli anni Sessanta del secolo successivo, con un forte accento ironico.
5. Dostoevskij distorce ironicamente la frase di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) contenuta nel
primo capitolo de Les Confessions (1782-1789): «Je veux montrer à mes semblables un homme
dans toute la vérité de la nature; et cet homme, ce sera moi».
6. Riferimento a On the Origin of Species (1859) di Charles Darwin (1809-1882). La prima
traduzione russa risale al 1863, ma già nel 1862 Dostoevskij aveva pubblicato sulla sua rivista
«Vremja» (Il tempo) uno dei primi articoli russi contrari all’applicazione sociale delle teorie di
Darwin, a opera di Nikolaj Nikolaevič Strachov (1828-1896). La polemica con Darwin culminò
nei Fratelli Karamazov, e non a caso Ivan Karamazov, l’“autore” del racconto sul Grande
Inquisitore, sarà laureato proprio in scienze naturali.
7. A Pietroburgo, a metà degli anni Sessanta, si contavano otto dentisti con questo cognome.
8. Con questo termine si indicava l’uomo dei ceti bassi, soggetto a tributi.
9. L’espressione tra virgolette ricorreva frequentemente nelle riviste dei fratelli Dostoevskij, tanto
in «Vremja» che in «Epocha» (Epoca), nell’ambito delle polemiche tra slavofili e occidentalisti.
10. Il termine francese è traslitterato in cirillico nell’originale. Dove non indicato, le parole e le
frasi straniere sono invece in caratteri latini.
11. Il pittore di genere Nikolaj Nikolaevič Ge (1831-1894) non era apprezzato da Dostoevskij.
Proprio nel 1863 Ge aveva esposto a una mostra un quadro intitolato L’ultima cena, che aveva
suscitato l’indignazione dello scrittore. Con questa citazione Dostoevskij polemizza
ironicamente anche con lo scrittore Michail Evgrafovič Saltykov-Ščedrin (1826-1889), che
sulle pagine del «Sovremennik» (Il contemporaneo) aveva invece lodato la pittura di Ge, in un
articolo intitolato Come piace a qualcuno.
12. Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico e sociologo inglese autore di The History of
Civilisation in England (1857-1861), uscito in edizione russa nel 1863.
13. Napoleone Bonaparte e Napoleone III. Si accenna poi alla guerra di Secessione allora in corso
in Nordamerica.
14. Allusione alla guerra prussiano-danese, che si concluse nel 1864 con l’annessione alla Prussia
dello Schleswig-Holstein.
15. Sten’ka Razin (1630-1671) fu un cosacco a capo di una rivolta contro lo zar. È ricordato in
numerosi canti, ballate e poesie russe.
16. Il Crystal Palace nel 1862 era stato la sede dell’Esposizione Universale di Londra e
Dostoevskij l’aveva visitato durante il suo primo viaggio in Europa. In Zimnie zametki o letnich
vpečatlenijach (Note invernali su impressioni estive, 1863) dedicò pagine intense al Palazzo di
Cristallo che, assieme alla Torre di Babele, divenne per lui il simbolo di una società senza Dio,
nella quale trionfa il materialismo. In Delitto e castigo la locanda dove Raskol’nikov dà
scandalo dopo l’assassinio della vecchia usuraia porta questo nome. In questo punto si allude
anche polemicamente al Quarto sogno di Vera Pavlovna, contenuto nel romanzo Čto delat’?
(Che fare, 1863) dello scrittore radicale Nikolaj Gavrilovič Černyševskij (1828-1889), dove
viene descritta l’armonia di una futura società ispirata ai valori del socialismo utopistico di
Fourier.
17. Creatura della mitologia slava, portatore di felicità.
18. Traslitterato in cirillico nel testo.
19. Afanasij Evdokimov Anaevskij (1788-1866), autore di testi per lo più scolastici, oggetto di
commenti sarcastici da parte della critica a lui contemporanea.
20. Nella Russia dell’Ottocento anche i civili indossavano divise, a seconda della classe
d’appartenenza (si veda la nota 1).
21. Il termine utilizzato da Dostoevskij, volja, significa sia volontà sia libertà.
22. Affermazione fatta da Heinrich Heine (1797-1856) nel capitolo Confessioni de La Germania
(1853-54).

II. A proposito della neve fradicia

1. Nikolaj Alekseevič Nekrasov (1821-1878) fu il poeta, giornalista ed editore che tra i primi
riconobbe il talento del giovane Dostoevskij. Successivamente i due si allontanarono. La poesia
qui citata, Kogda iz mraka zablužden’ja (Quando dal buio profondo dell’errore), è del 1845.
2. Il termine è traslitterato in cirillico nell’originale.
3. Personaggi rispettivamente di Mërtvye duši (Anime morte, seconda parte, 1852) di Nikolaj
Vasil’evič Gogol’ (1809-1852) e di Obyknovennaja istorija (Una storia comune, 1847) di Ivan
Aleksandrovič Gončarov (1812-1891). Entrambi incarnano il personaggio di buon senso, dalla
solida posizione sociale.
4. Dove s’erano andate costituendo delle comunità di russi trapiantati all’estero.
5. Come il protagonista del racconto Zapiski sumasšedšego (Memorie di un pazzo, 1835) di
Gogol’.
6. Secondo un uso diffuso nel XIX secolo, parlando dell’altezza delle persone si indicavano solo i
verški, e non i due aršiny di base. L’ufficiale era dunque alto due aršiny (cm. 142) e dieci verški
(cm. 44,5), quindi poco meno di 187 cm.
7. Personaggio del racconto Nevskij prospekt (1835) di Gogol’.
8. Il termine è traslitterato in cirillico nell’originale.
9. Invece di «accusatori» Dostoevskij ironizza introducendo una pronuncia storpiata e popolana di
questo e di alcuni altri termini.
10. La rivista «Otečestvennye zapiski» (Gli annali della patria) fu fondata da Pavel Petrovič Svin’in
(1787-1839) nel 1818 e pubblicata a cadenza irregolare, anche a causa della rivalità con
un’altra pubblicazione progressista, il «Sovremennik». Nel 1866, alla chiusura di quest’ultima
rivista, riacquistò popolarità e successivamente venne chiusa dalle autorità nel 1884.
Dostoevskij vi pubblicò diverse opere.
11. Si tratta della via principale di Pietroburgo, che taglia la città irradiandosi dall’Ammiragliato. Il
termine prospekt (prospettiva) indica una via ampia e lunga, e corrisponde più o meno al nostro
“corso”.
12. Qui, e in seguito, il termine è traslitterato in cirillico nell’originale.
13. Termine privo di senso utilizzato da Gogol’ nelle Anime morte per indicare il punto più elevato
della perfezione. Il vocabolo è messo in bocca a Nozdrëv, nel capitolo quarto della prima parte.
14. L’espressione è traslitterata in cirillico nell’originale.
15. Sorta di grande mercato coperto dove mercanti provenienti anche da altre città vendevano i loro
prodotti. Ogni grande città russa aveva un suo Gostinyj, a volte anche più di uno: i più grandi e
celebri erano naturalmente quelli di Mosca e Pietroburgo.
16. Qui e altrove è utilizzato il semipatronimico Antonyč, che nell’Ottocento era quasi
esclusivamente di uso popolaresco, mentre la forma completa, Antonovič, che in precedenza
era riservata alle classi elevate, venne successivamente estesa a tutte le classi. Un personaggio
con questo nome compare, sempre nella veste di capufficio, nel romanzo Dvojnik (Il sosia) del
1846.
17. Riferimento ad Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837), che lo zar Nicola I aveva nominato
ciambellano.
18. Riferimento al poema Manfred (1817) di Lord Byron (1788-1824).
19. Si fa qui riferimento a una serie di episodi collegati alla figura di Napoleone I, col quale il
protagonista sembra identificarsi. Si allude alla vittoria di Napoleone ad Austerlitz, nel 1805; al
conflitto tra Napoleone e il papa Pio VII, che lo scomunicò; ai festeggiamenti organizzati nel
1806 per la fondazione dell’Impero francese; alla villa di proprietà del marito della sorella di
Napoleone, Paolina. Con riferimento ad Austerlitz va ricordato il protagonista del romanzo
Viaggio a Itaca (1840) di E. Cabet (1788-1856), che ad Austerlitz sconfigge una coalizione di
monarchi retrogradi.
20. Luogo di Pietroburgo dove si incrociavano il Zagorodnyj prospekt, il vicolo Černyšev e le vie
Raz’ezžaja e Troickaja.
21. Dei «terribili anni di galera» collegati al periodo della scuola Dostoevskij parlerà ampiamente
nell’Adolescente (1875), nella descrizione della vita del protagonista Arkadij Dolgorukij.
22. Il termine è traslitterato in cirillico nell’originale.
23. Ovvero appartenente a una famiglia di tedeschi trasferitisi in Russia da alcune generazioni.
24. Qui Dostoevskij usa il termine čin, per il quale si veda la nota 1.
25. Sportellino inserito nella finestra e utilizzato per l’aerazione durante la stagione invernale,
quando le finestre venivano stuccate.
26. Contrazione di bojarin, “boiardo”, che nell’Ottocento denotava l’uomo appartenente ai ceti
elevati.
27. Il termine è traslitterato in cirillico nell’originale.
28. Espressione usata da Nozdrëv nelle Anime morte, per indicare le avventure amorose.
29. Il termine, qui e più avanti, è traslitterato in cirillico nell’originale.
30. Gioco d’azzardo.
31. Tipiche sigarette russe dal lungo bocchino.
32. Diminutivo popolaresco di Ivan: era il nomignolo con il quale si indicavano i vetturini.
33. Corto staffile.
34. Silvio è il protagonista della novella di Puškin Vystrel (Il colpo di pistola) del 1830, la cui vita è
dedicata all’idea della vendetta, come quella dello Sconosciuto, protagonista di Maskarad (Il
ballo in maschera) del 1835, di Michail Jur’evič Lermontov (1814-1841).
35. Traduciamo con «cittadini» il vocabolo meščane, col quale in Russia si indicava, ufficialmente
a partire dal 1785, la classe degli artigiani, piccoli proprietari di case e piccoli negozianti,
tassabili e residenti nelle città. Questa classe era inferiore a quella dei mercanti, e solo a partire
dalla metà del XIX secolo fu dispensata dal subire punizioni corporali.
36. Piazza del Fieno, uno dei luoghi di Pietroburgo cruciali per Dostoevskij.
37. Grande cimitero nella parte sud di Pietroburgo.
38. Con «verità vera» traduciamo il termine russo istina, che indica la verità che trascende il
processo deduttivo e di analisi, e si propone ontologicamente in quanto tale, in
contrapposizione a pravda, che indica la verità alla quale si può giungere sulla base del
pensiero razionale, ovvero sulla base di prove e di osservazioni.
39. Conclusione della poesia di Nekrasov citata in apertura della seconda parte.
40. Bevanda poco alcolica, ottenuta dalla fermentazione di cereali e con l’aggiunta di frutta.
41. Il termine è traslitterato in cirillico nell’originale. Nelle camere ammobiliate, che non
richiedevano la presenza di un servo personale, il protagonista avrebbe dovuto però convivere
con altri affittuari.
42. “Piccola madre”, da mat’, “madre”. Appellativo cortese per rivolgersi a una donna di una certa
età.
43. Espressione presa da Oblomov (1859) di Gončarov.
44. Al concetto di “vita viva”, al quale qui e più avanti si fa riferimento, tornerà il personaggio di
Versilov in Podrostok (Adolescente, capitolo secondo, 1875), come raccontato nella
Postfazione.
45. Traduciamo con «tuttità» il vocabolo vmestvo, creato da Dostoevskij attraverso la fusione di vse
my, “tutti noi”.
Postfazione di Serena Prina

« Ja čelovèk bol’nòj» (Sono un uomo malato). «Ja zloj čelovèk» (Sono un


uomo cattivo). Sono queste le due frasi d’apertura delle Memorie dal
sottosuolo, separate, però, sulla pagina, da tre puntini. In quello spazio
sospeso, in quello iato iniziale tra malattia e malvagità, tra richiesta di
compassione e brusco respingimento, si racchiude parte del mistero e del
fascino di uno dei libri più sconvolgenti della letteratura mondiale, destinato
a segnare indelebilmente non solo il percorso artistico del suo autore, ma
l’intero processo della scrittura occidentale.
Partiamo proprio dall’inizio: «Sono un uomo» – senza nome, senza
un’identità precisa. Di questo individuo veniamo a sapere pochi dettagli
personali, scarni indizi che da un lato ci potrebbero condurre sul percorso
sempre arduo dell’autobiografismo, e dall’altro ci spalancano davanti
l’universalità di un protagonista che è «everyman» e che si autodefinisce un
«antieroe». E, tornando alle frasi iniziali del romanzo, aggiungiamo la terza:
«Neprivekàtel’nyj ja čelovèk» ([Sono] Un uomo nient’affatto attraente), e
seguiamo nella versione originale il gioco tra gli aggettivi, da un lato, e il
sostantivo (čelovèk) e il pronome (ja), che non variano, dall’altro. Una sorta
di danza, nella quale l’aggettivo muta posizione da una frase all’altra,
dopodiché la narrazione s’avvia, non senza averci prima mostrato che il
rapporto tra le parole, il loro rincorrersi e le loro contorsioni, sono la via
segreta che dovremo seguire per orientarci tra le contraddizioni che l’uomo
del sottosuolo ci rovescia addosso, senza posa. A un certo momento, verso
la fine della prima parte, l’uomo del sottosuolo arriverà a immedesimarsi
nell’interlocutore al quale comunque non riconosce lo status di lettore, o di
pubblico, e commenterà il proprio comportamento da quel punto di vista,
sottolineandone la componente contraddittoria: «Siete avido di vita» dice
rivolto a se stesso, «e voi stesso risolvete le questioni vitali con una
confusione logica. E come sono importune, come sono insolenti le vostre
trovate, e al tempo stesso quanta paura avete. Dite sciocchezze e ne siete
soddisfatto; dite insolenze, e voi stesso avete ininterrotta paura per averlo
fatto, e chiedete scusa». La sua parola, come osserva l’imprescindibile
Bachtin1, fin da subito si spezza sotto l’influenza dell’anticipata parola
altrui, con la quale entra immediatamente in tesissima polemica. Forse è
proprio l’anticipazione costante dell’opinione dell’altro il motore di questo
discorso sgusciante, mai fermo, mai catalogabile: l’affermazione della
propria assoluta e completa indipendenza dall’altro passa attraverso questa
inarrestabile dialogizzazione interiore, che in qualche modo ne testimonia
invece l’assoluta e completa dipendenza. Senza l’altro, nel quale
rispecchiarsi, al quale contrapporsi, l’uomo del sottosuolo non esiste, e
tuttavia, fino alla fine, caparbiamente, egli si arroga il diritto di avere
l’ultima parola su se stesso.

Dostoevskij scrisse le Memorie dal sottosuolo in uno dei tanti momenti di


crisi della sua esistenza: tornato dai lavori forzati e dal confino nel 1859, si
era impegnato con tutte le forze nel tentativo di riconquistare la fama
letteraria che aveva accompagnato i suoi esordi e che s’era bruscamente
interrotta per via della deportazione, nel 1849. Il compito di questa rinascita
era stato affidato a due opere: Umiliati e offesi2, il suo roman-feuilleton alla
Eugene Sue, e Memorie da una casa di morti3, dedicato all’esperienza della
deportazione, che inaspettatamente aveva ottenuto un successo maggiore. A
quel punto Dostoevskij, che con il fratello Michail si dedicava alacremente
alla direzione della rivista «Vremja» (Il tempo)4, era riuscito finalmente a
partire per il viaggio all’estero che ogni intellettuale russo del tempo
sognava di compiere, per vedere con i propri occhi quell’Occidente di cui
tutti parlavano, da cui tutti erano in qualche modo attratti, nel bene e nel
male. Da quel viaggio scaturirono le Note invernali su impressioni estive5,
ed è probabile che il progetto delle Memorie dal sottosuolo sia stato ideato
proprio durante l’elaborazione di questo testo. Il Dostoevskij viaggiatore è,
appunto, «un uomo malato», incattivito, ha quarant’anni, soffre di fegato ed
è convinto che non si possa costruire la vita umana su basi razionali: il
Palazzo di Cristallo, destinato a diventare il simbolo ossessivo di
un’umanità che ha smarrito il proprio cammino, compare per la prima volta
in queste pagine, e da qui si radica nella Weltanschauung dostoevskiana,
profondamente. Ma è soprattutto nello stile del narratore/viaggiatore che si
evidenzia la parentela con l’uomo del sottosuolo: una voce che si
interrompe, che si interroga, che si contraddice e si smentisce, e che tira in
ballo il lettore, lo chiama a testimone e lo respinge. Il narratore sui generis
delle Note invernali è la prova generale del nostro protagonista, e al tempo
stesso è il collegamento all’autobiografismo a cui accennavamo. E, come
sempre accadrà nei grandi scritti dostoevskiani, a cominciare proprio dalle
Note invernali si partirà da posizioni ideologiche estreme, “svuotate” però
dall’interno delle loro rigidità, colmate di dubbi e di domande, rese
momenti vivi di scontri e incontri tra coscienze.

In un primo momento le Memorie dal sottosuolo avrebbero dovuto essere


un romanzo intitolato Ispoved’ (Confessione), e per ben due volte, nel
dicembre 1862 e nel gennaio 1863, su «Vremja» ne venne annunciata
l’imminente pubblicazione. L’idea di un romanzo di grosse dimensioni
resistette a lungo nella mente di Dostoevskij, e persino quando la prima
sezione, Il sottosuolo, venne pubblicata, Fëdor Michajlovič ancora pensava
di comporre un’opera in più parti. Nel frattempo erano però subentrati
numerosi eventi che avevano reso ancor più caotica e precaria la situazione
personale dello scrittore.
Mentre le condizioni di salute della moglie Marija Dmitrievna
peggioravano costantemente, Dostoevskij aveva intrecciato una relazione
con la giovane Apollinarija Suslova, con la quale era partito per un secondo
viaggio in Europa. Nel corso del viaggio la relazione era naufragata
miseramente, ed era invece esplosa in tutta la sua violenza la passione
morbosa per il gioco. In patria le cose non andavano meglio: a seguito di un
incauto articolo sulla situazione polacca, nell’aprile del 1863 la rivista
«Vremja» era stata chiusa dalla censura, e i fratelli Dostoevskij, oltre ad
aver perso una fondamentale fonte di reddito, furono costretti a rimborsare
gli abbonati per i numeri della rivista non pubblicati. Dopo la chiusura di
«Vremja», Michail Michajlovič subito cercò di fondare una nuova rivista
(era lui infatti il direttore, in quanto Fëdor Michajlovič, da ex galeotto, non
poteva aspirare a quella carica), ma soltanto nel novembre del 1863 poté
presentare la domanda per ottenere l’autorizzazione alla pubblicazione. I
primi due titoli («Pravda», La verità, e «Počva», Il suolo natale) vennero
rifiutati: solo alla fine del gennaio 1864 venne autorizzata la pubblicazione
di «Epocha» (Epoca), quando le altre riviste avevano già concluso la
campagna abbonamenti. La nuova rivista, il cui primo numero apparve il 21
marzo 1864, passò dai quasi 4300 abbonati di «Vremja» a meno di 1500.
Ma il peggio doveva ancora venire: la moglie tisica morì il 15 aprile;
l’amatissimo fratello Michail il 10 luglio. Poco dopo, in settembre, morì
anche l’amico fedele Apollon Grigor’ev. E i debiti si accumularono ai
debiti, Dostoevskij si fece carico anche di quelli del fratello per onorarne la
memoria, e s’impegnò a mantenerne la famiglia. Nel frattempo gli editori,
da autentici filibustieri, non intendevano certo lasciarsi sfuggire l’occasione
di mettere le mani sulle sue opere, imponendogli contratti capestro in
cambio di anticipi in denaro, e in tal modo contribuirono a creare
quell’atmosfera di tensione, disperazione, ansia e assenza di tempo che era
fondamentale per la creatività dostoevskiana. I frutti di questo frenetico e
affannato periodo furono infatti le tre grandi opere della svolta: oltre alle
Memorie dal sottosuolo, nel 1866 vennero pubblicati Il giocatore e Delitto e
castigo.
Sul numero iniziale di «Epocha» fece dunque la sua comparsa la prima
parte delle Memorie dal sottosuolo, mentre la seconda fu rimandata a
seguito della scomparsa della moglie, e fu pubblicata sul quarto numero
della rivista, nel giugno del 1864. La censura, come al solito, intervenne sul
testo, e a questo proposito Dostoevskij scrisse al fratello, il 26 marzo:
«Sarebbe stato meglio non pubblicare il penultimo capitolo (il più
importante, dove è formulata l’idea stessa) piuttosto che così com’è, con
delle frasi strappate a metà e pieno di contraddizioni. Ma che fare? Porci
censori, là dove mi facevo beffe di tutto ed ero addirittura blasfemo, ma
solo per mostra, hanno lasciato correre, mentre dove deducevo l’esigenza
della fede e di Cristo, sono intervenuti»6. Non esistendo un manoscritto
autografo dell’opera, non siamo in condizione di sapere che cosa sia stato
eliminato dalla censura: di certo però sappiamo che in seguito Dostoevskij
non fece nulla per ripristinare il testo originario, e che nell’unica riedizione
delle Memorie dal sottosuolo realizzata durante la sua vita, nel 1865, si
limitò a minimi interventi stilistici, e nulla più. E ci riesce difficile collocare
l’idea di fede e di Cristo nel mondo dell’uomo del sottosuolo, senza
snaturarne lo spirito: forse, una volta tanto, l’intervento della censura non
era stato poi così disastroso…
Il signor Dostoevskij, con nome e cognome, entra nella narrazione in due
punti: nella nota a piè di pagina che apre il racconto, dove ci spiega i suoi
intenti, e nella postilla conclusiva nella quale, spuntando fuori dal nulla,
giustifica gli intenti mancati, ovvero il dover mettere fine a delle memorie
che avrebbero dovuto protrarsi per molte altre pagine. In mezzo a questi due
interventi si fa avanti un nuovo tipo di personaggio, concentrato nel
tentativo costante di prendere coscienza di sé. Il problema del “narratore”
aveva sempre assillato Dostoevskij, fin dagli esordi: in Povera gente la
soluzione s’era presentata nella struttura epistolare del romanzo, che
necessariamente poneva le voci dei protagonisti al cospetto dello sguardo e
dei commenti dei destinatari delle lettere. Negli anni delle Memorie, però, il
rovello s’era andato facendo sempre più intenso: non dimentichiamo che
sono gli anni della stesura di Delitto e castigo, dove inizialmente (e lo
testimoniano i taccuini che, finalmente, cominciarono a essere conservati) il
narratore doveva essere lo stesso Raskol’nikov, salvo poi approdare a quel
narratore voce tra le voci della polifonia narrativa delle grandi opere.
L’uomo del sottosuolo è naturalmente anche un sognatore, come lo
erano stati, prima di lui, tanti altri protagonisti dostoevskiani:
dall’impiegatuccio miserabile di Povera gente al protagonista delle Notti
bianche, al disgraziato scrittore di Umiliati e offesi. Come gli altri
sognatori, è destinato alla sconfitta, su di lui pende la condanna della
contemplazione del proprio fallimento ma, a differenza dei suoi
predecessori, è lui stesso l’artefice del proprio destino. Il suo “sognare” è
inquinato dall’ipertrofia della coscienza ed è caratterizzato da improvvisi
slanci pieni di un sentimentalismo romantico che sembrerebbe così lontano
dal personaggio stesso: un eroe su un cavallo bianco, un ballo sul lago di
Como, tutti ai suoi piedi, a implorarne l’amicizia e il perdono. Vediamo qui
emergere un’altra caratteristica della scrittura dostoevskiana, ovvero la
creazione di un sosia grottesco e “basso” rispetto a un originale “elevato”:
si tratta di uno di quegli elementi carnevaleschi utilizzati per far perdere al
personaggio la propria definitezza e univocità, la propria coincidenza con se
stesso. Anche nelle Memorie dal sottosuolo ci troviamo di fronte al
medesimo fenomeno, in questo caso all’interno dello stesso personaggio: il
narratore della seconda parte, con le sue lacrime isteriche e le sue
digressioni romanticheggianti, è la versione sentimentale del polemista
della prima, con il suo cinismo e il suo desiderio di vendetta. Il tutto per
confonderci, per farci mancare l’equilibrio, e porci davanti a un’inattesa
visione di noi stessi, del nostro profondo. Perché l’uomo del sottosuolo è
anche un clandestino (podpol’e significa sì “sottosuolo”, ma idti v podpol’e
in russo indica anche l’“entrare in clandestinità”), un destabilizzatore
dell’ordine costituito, è la parte di noi stessi che ci mette in crisi, e che
comunque, a dispetto di tutto, ci fa crescere.

L’uomo malato, cattivo e nient’affatto attraente che ci si presenta nelle


Memorie vive di contraddizioni e paradossi, e di negazioni. Se nel primo
capitoletto i termini legati a «zloj», cattivo (nelle varianti di cattiveria,
incattivito ecc.), compaiono almeno 15 volte, nel solo primo paragrafo sono
14 le espressioni negative che, in varie forme, segnano il testo. «I am not
what I am»7 dice Iago, il signore della negazione, colui che del
trasformismo e della manipolazione ha fatto il senso profondo del proprio
essere. Ma mentre Iago creava senza posa mondi fantasmatici all’interno
dei quali irretire le sue vittime, l’uomo del sottosuolo è impegnato nel
disperato tentativo di offrirsi “quale egli è”, senza occultamenti, senza
protezioni; cerca ossessivamente di ricostruire nei minimi dettagli umilianti
dei miserabili eventi già verificatisi da tempo, in una sorta di analisi
dell’anima e della coscienza che arriva ai limiti dell’osceno. La negazione,
per l’uomo del sottosuolo, è un continuo svelarsi, è il togliersi tutte le
possibili maschere, una dopo l’altra. Eccone un esempio tra i tanti, preso
sempre dal primo paragrafo: «Per di più sono pure superstizioso al massimo
grado; be’, comunque non tanto da non rispettare la medicina. (Sono
abbastanza istruito da non essere superstizioso, eppure sono superstizioso.)»
Sono e non sono, e potrei non essere, eppure sono.
Le scarne informazioni personali alle quali accennavamo si sintetizzano
nell’età (quarant’anni), il grado sociale (ex assessore di collegio), la
condizione economica (un modestissimo capitale ereditato e non
accumulato, come sempre in Dostoevskij) e nella generale appartenenza a
quella schiera di uomini evoluti del XIX secolo, uomini nei quali un eccesso
di coscienza (che nel testo è definita «una coscienza accresciuta») si
manifesta in forma di malattia, porta all’impossibilità di fare una qualsiasi
cosa, ed è il segno evidente del distacco dal suolo e dai principi del popolo.
Si tratta dei discendenti del cosiddetto lišnyj čelovèk (uomo superfluo) che
aveva popolato la letteratura e la vita russa negli anni Quaranta. Negli anni
Sessanta, invece, s’andava profilando un nuovo tipo di intellettuale, un
uomo attivamente impegnato nella propria missione, sia che si volgesse al
modello europeo in quanto occidentalista, sia al mondo russo in qualità di
slavofilo. Questo è in parte il substrato “ideologico” del libro: per
Dostoevskij il ritorno alla počva, al suolo natale, era l’unico modo per
mettere un freno all’individualismo sterile del sottosuolo e ritrovare un
punto di contatto tra l’intelligencija e il popolo con i suoi valori, nel
tentativo di raggiungere una sorta di riconciliazione universale. Ma la
componente ideologica, nelle Memorie, passa davvero in secondo piano
rispetto all’originalità della “costruzione” dell’opera: tutto teso nel mero
tentativo di prendere coscienza di sé, l’uomo del sottosuolo si tramuta in
una funzione infinita, che scava nella propria coscienza per raggiungere
quel nucleo profondo, insondabile, che s’avvicina al mistero dell’esistenza.
Vale la pena di ricordare la celebre frase di Dostoevskij annotata in un
taccuino, a proposito del proprio rapporto con il realismo: «In pieno
realismo, trovare l’uomo nell’uomo… Mi definiscono psicologo: non è
vero, io sono soltanto realista nel senso più elevato, cioè raffiguro tutte le
profondità dell’animo umano»8. In questo senso le Memorie dal sottosuolo
(assieme, non dimentichiamole, alle Note invernali su impressioni estive)
segnano davvero il punto di passaggio dalla “psicologia” a un nuovo
approccio alla scrittura.

Acquattato nel sottosuolo, il nostro uomo scruta il mondo attraverso una


fessura da quarant’anni, e non ha freni quando faticosamente raggiunge la
superficie. Per lui il tempo è dilatato all’inverosimile: passano mesi, anni, a
volte addirittura decenni prima che un’azione pensata venga messa in
pratica, per lo più in maniera approssimativa. Se c’è un inizio alle sue
avventure (uno sguardo storto, una piccola spinta, un colpo di tosse
insignificante), non c’è mai una fine, perché la conclusione, la soluzione del
problema gli sono precluse: il punto a capo equivarrebbe al trionfo del due
per due fa quattro, mentre tutto, nel suo mondo sotterraneo, è immerso in un
continuo divenire. Lo spazio, invece, è ovviamente compresso, soffocato,
ma non tanto per il suo essere “sotto” il suolo, quanto piuttosto per quel che
accade “sopra”: pensiamo alle ore passate camminando avanti e indietro al
ristorante, dal tavolo alla stufa, e dalla stufa al tavolo, quasi a scavare un
solco con i propri passi senza tuttavia avanzare o indietreggiare di un metro.
O al passeggiare avanti e indietro per il Nevskij prospekt, in attesa del
fatidico scontro con un odiato nemico. Il movimento si fa meccanico,
ossessivo, malato: corrisponde a una sorta di paralisi, come paralizzato è
tutto quello che rientra nel campo visivo dell’uomo del sottosuolo. Tutto,
tranne l’incessante azione del contraddirsi al cospetto dell’altro.
L’uomo del sottosuolo della prima parte è dunque il risultato dell’uomo
non ancora del sottosuolo della seconda: sono le avventure tragicomiche
della seconda parte che ne determinano, e ne rendono comprensibile, il
carattere e il comportamento. Quindi, arrivando alla fine, si è risospinti
all’inizio, e non si può non concordare sul fatto che si tratti di un uomo
malato, di un uomo cattivo, di un uomo nient’affatto attraente.

All’inizio della seconda parte precipitiamo in un degrado e in


un’umiliazione che non hanno fondo, che non conoscono limiti: un passo
dopo l’altro ci immergiamo nel pantano delle memorie di piccole
meschinerie che si fanno via via meno piccole, fino a trasformarsi in vere e
proprie infamie. E arriviamo al capitoletto VI, dove troviamo un uomo e una
donna a letto, dopo il sesso, che si esaminano in silenzio, con occhi folli. È
così che ci si presenta Liza, due occhi selvaggi nel buio: l’uomo del
sottosuolo, che scruta gli altri dalla sua fessura, si ritrova scrutato,
attentamente. Lui, che fino a quel momento (e tranne che in quel momento)
si è sentito e si sentirà sempre ignorato da tutti, come una mosca, un insetto,
un nulla privo di senso, è invece osservato e, di lì a poco, è visto. Liza
condivide il destino di tante ragazze di provincia venute a Pietroburgo in
cerca di fortuna e non ha certo l’aura di Sonečka Marmeladova, la piccola
prostituta di Delitto e castigo che si vende per sfamare i figlioletti della
matrigna, e che è pronta a dare al padre ubriacone i suoi ultimi copechi, per
fargli passare la sbornia: Liza è una ragazzotta come tante, forse un poco
più sensibile, o non ancora sufficientemente corrotta e brutalizzata dalla vita
che sta conducendo, da essere capace di provare uno slancio di
compassione, di umana pietà. Liza non ha il Vangelo tra le mani, e tuttavia è
comunque la portatrice, all’interno delle Memorie, della “vita viva”, di un
principio di coincidenza con la realtà che l’uomo del sottosuolo ha del tutto
smarrito. A questo concetto della “vita viva” Dostoevskij tornerà più volte,
in particolare nel romanzo “di formazione” per eccellenza, l’Adolescente
del 1875. In quell’opera, nel corso di una brusca discussione, un
personaggio chiede a Versilov, uno dei protagonisti, una sorta di cattivo
maestro tormentato e tormentatore: «E che sarebbe questa vita viva secondo
voi?» (S’era evidentemente irritato). E Versilov risponde: «Anche questo
non so, principe; so soltanto che deve essere qualcosa di terribilmente
semplice, la cosa più ordinaria e sotto gli occhi di tutti, ogni giorno e ogni
momento, e a tal punto semplice che non possiamo in alcun modo credere
che sia così semplice e, naturalmente, le passiamo accanto ormai già da
molte migliaia di anni senza notarla e senza riconoscerla»9. Nella sua
semplicità, Liza è capace di un gesto d’amore e di una comprensione del
dolore altrui che va al di là di ogni possibile ragionamento, ma la risposta
dell’uomo del sottosuolo è fatta solo di desiderio di sopraffazione. La sua
violenza, tuttavia, non resta impunita, e la banconota da cinque rubli
abbandonata sul tavolo dalla ragazza, senza clamore, senza rivalsa, è uno di
quei potentissimi dettagli dostoevskiani che ci si infiggono nell’anima, che
ci lasciano senza parole. «Un attimo dopo, come un pazzo» scrive l’uomo
del sottosuolo, «mi precipitai a vestirmi, mi misi addosso quello che in tutta
fretta feci in tempo a indossare e a rotta di collo uscii al suo inseguimento.
Non poteva aver percorso più di duecento passi quando corsi fuori per
strada.
C’era silenzio, nevicava, e la neve cadeva quasi perpendicolare,
stendendo un cuscino sul marciapiede e sulla via deserta. Non c’erano
passanti, non s’udiva alcun suono. Tristi e inutili baluginavano i fanali.
Corsi per duecento passi, fino al crocicchio, e mi fermai»10. Eccoci,
dunque, al crocicchio, al bivio, a uno di quei luoghi intensamente simbolici
che popolano gli spazi dostoevskiani. In Delitto e castigo leggiamo, nelle
ultime pagine: «[Raskol’nikov] rammentò le parole di Sonja: “Va’ a un
crocicchio, inchinati dinanzi alla folla, bacia la terra, perché è anche nei
suoi confronti che hai peccato, e di’ a tutto il mondo, a voce alta: ‘Sono un
assassino’”»11. Ma l’uomo del sottosuolo non è ancora in grado di compiere
questo passo, il crocicchio per lui è soltanto la scena dell’ennesima
sconfitta, e sceglie di tornarsene a casa, nel suo angolo, dal quale continua a
parlarci, riaffermando il proprio diritto all’ultima parola.

Concludiamo queste osservazioni sul sottosuolo con una piccola


divagazione. Un anno prima della pubblicazione delle Memorie, nel 1863, a
migliaia di chilometri di distanza, in un contesto sociale e letterario
completamente diverso, un altro personaggio “mitico” della letteratura
europea a noi contemporanea aveva cominciato a muovere i primi passi nel
mondo. Il titolo originario del libro era molto simile, Alice’s Adventures
under Ground12 che sarebbe diventato successivamente, al momento della
pubblicazione nel 1865, Alice’s Adventures in Wonderland. Una bambina
curiosa si calava nell’under Ground attraverso la tana del Bianconiglio fino
a raggiungere le profondità della propria mente, un territorio incantato,
misterioso e a tratti minaccioso all’interno del quale, come una piccola
eroina, lottava per trovare la propria identità. Al risveglio, eccitata e felice,
raccontava le meravigliose avventure vissute a una conciliante sorella
maggiore, che commentava, a conclusione del racconto: «It was a curious
dream, dear, certainly; but now run in to your tea: it’s getting late». In
realtà la favola di Alice a questo punto aveva una sorta di “coda” musicale:
il sogno della sorella, e la definitiva, tragica condanna di Alice al ruolo di
“casta narratrice”, di creatura femminile castrata, per rientrare nei parametri
di un’epoca (quella vittoriana) e di una mente complicata (quella del signor
Dodgson/Carroll). Ma già in quel «run in to your tea» si racchiudeva lo
stesso orrore del «due per due fa quattro» che l’uomo del sottosuolo tanto
detestava: l’orrore per le regole, per la matematica dell’esistenza, che
coincideva per entrambi gli scrittori con il manifestarsi del principio della
morte. Ci affascina l’idea che il Sottosuolo agitasse, quasi nello stesso
momento, le acque profonde di menti uniche nel loro genere, suggerisse
percorsi inattesi. L’avventura fiabesca nei boschi e nei giardini del Paese
delle Meraviglie e la sequela di umiliazioni e sconfitte per le vie di
Pietroburgo sono chiavi per entrare in contatto con quelle aree celate,
intime, dove si forma e si deforma la coscienza. La coscienza moderna,
dovremmo aggiungere a più di centocinquant’anni di distanza, la nostra
coscienza di uomini e di donne, allora come oggi, e per molto altro tempo
ancora.
Note alla Postfazione

1. Tra le opere dedicate da Michail Michajlovič Bachtin (1895-1975) a Dostoevskij indichiamo


Problemy poetiki Dostoevskogo (Problemi della poetica di Dostoevskij, trad. it. Dostoevskij,
poetica e stilistica, trad. di Giuseppe Garritano, Torino, Einaudi, 1968), inizialmente pubblicato
nel 1929 con il titolo Problemy tvorčestva Dostoevskogo (Problemi dell’opera di Dostoevskij) e
in seguito riproposto dall’autore in versione ampliata nel 1963.
2. Unižennye i oskorblënnye (1861), pubblicato su «Vremja».
3. Zapiski iz mërtogo doma (1862), pubblicato su «Vremja». Scrisse Dostoevskij: «La mia Casa
dei morti ha fatto letteralmente furore, e io ho così rinnovato la mia reputazione letteraria»,
lettera al barone A.E.Vrangel’, del 31 marzo 1865, Sobranie sočinenij v pjatnadcati tomach
(Raccolta delle opere in quindici volumi), Leningrad, Nauka, 1988-1996, vol. 15, p. 256.
4. Attorno a questa rivista si concretizzò il progetto “politico” di Dostoevskij. L’annuncio della
redazione per la pubblicazione della rivista è considerato il manifesto del počvenničestvo (da
počva, suolo natio), il tentativo di conciliare il popolo e i suoi valori con l’intelligencija e la
cultura per raggiungere una sorta di riconciliazione universale. I počvenniki aspiravano in un
certo senso a costituire una “terza via” tra le due tendenze dominanti della cultura russa di
quegli anni, l’occidentalismo estremo e lo slavofilismo più esaltato.
5. Zimnie zametki o letnich vpečatlenijach (1863). La prima parte (capp. I-IV) delle Note invernali
fece la sua comparsa sul numero 2 di «Vremja» del 3 marzo 1863, mentre la seconda (capp. V-
VIII) fu pubblicata sul numero 3 del 3 aprile, poco prima della chiusura della rivista. La nuova
edizione italiana da me curata è edita da Feltrinelli (Milano, 2020).
6. Polnoe sobranie sočinenij v tridcati tomach (Opere complete in trenta volumi), Leningrad,
Nauka, 1972-1988, vol. XXVIII, libro 2, p. 73.
7. Othello, di William Shakespeare, atto I, scena 1.
8. Polnoe sobranie sočinenij v tridcati tomach, op. cit., vol. XXVII, p. 65.
9. Cito dalla versione dell’Adolescente da me curata per Feltrinelli (Milano, 2021).
10. Memorie dal sottosuolo, II parte, cap. X.
11. Cito dall’edizione da me curata di Delitto e castigo (Milano, Mondadori, 1994/2021).
12. Faccio riferimento al prezioso volumetto edito dalla British Library (Londra, Treasures in
Focus, 2008, a cura di Sally Brown) Alice’s Adventures under Ground, dove è riprodotta parte
del manoscritto originale donato da Dodgson ad Alice Liddell nel novembre 1864.
Indice

I. Il sottosuolo

II. A proposito della neve fradicia

Note alle Memorie del sottosuolo

Postfazione di Serena Prina

Note alla Postfazione


Se vi è piaciuto Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij,

vi consigliamo di non perdere

Michail Bulgakov

Facebook Neri Pozza

https://neripozza.it/
NERI POZZA EDITORE

Potrebbero piacerti anche