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Roberto Saviano

La parola contro la camorra.


Con scritti di Walter Siti, Aldo Grasso, Paolo Fabbri,
Benedetta Tobagi Einaudi. Stile libero Dvd.

© 2010 Roberto Saviano

Published

by agreement with Roberto Santachiara

Agenzia Letteraria 2010 Giulio Einaudi editore s.p.a.,

Torino. www.einaudi.it

ISBN 978-88-06-20218-7
Nota al testo.
Nelle pagine che seguono ho cercato di dare disciplina
alle mie parole. Parole che avevo detto in due diverse
occasioni e che non erano nate per essere scritte o per
essere lette.

Il primo testo che incontrerete è la trascrizione di una


ripresa video, registrata nell'ottobre del 2009.

Nel secondo, invece, vi racconto la puntata speciale che il


programma di Fabio Fazio, Che tempo che fa, mi ha
dedicato il 25 marzo 2009. In quell'occasione mi
concentravo in particolare sui giornali locali che ogni
giorno raccontano la mia terra e sul rapporto tra il
linguaggio dell'informazione e le organizzazioni criminali.

Il video di ottobre e il «monologo-intervista» di marzo,


nelle loro forme originali, sono contenuti nel Dvd allegato
a questo libro.

Ho voluto aggiungere, in coda ai testi, alcune delle


immagini che avevo commentato nello speciale di Che
tempo che fa, perché il lettore possa averle a
disposizione.

Penso che il titolo generale La parola contro la camorra


renda ben conto dello spirito unico che attraversa questo
libro.

Parte prima.
Una luce costante.
Spesso mi si chiede come sia possibile che delle parole
possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti,
capaci di contare su centinaia di uomini armati e su
capitali forti. E come è possibile - questa domanda mi
viene ripetuta spessissimo, soprattutto all'estero - che uno
scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di
fatturare miliardi di euro l'anno e di dominare territori
vastissimi?

E complicato dare una sola risposta e, in verità, l'unica


risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia
proprio la diffusione della parola a mettere paura.

Non è lo scrittore, l'autore, non è neanche il libro in sé, né


la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per
questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è
che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e,
soprattutto, che si possano finalmente intravedere i
meccanismi che li hanno provocati. Quel che spaventa è
che qualcuno possa d'improvviso avere la possibilità di
capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che
svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la
possibilità di percepire determinate storie come le
proprie storie. Non più come storie lontane, non più come
vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte
della propria vita.

Allora ciò che più temono le organizzazioni criminali non


è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma
soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia
e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro
destino come qualcosa che riguarda tutti.

La forza di certi poteri, negli anni, è stata sempre quella di


godere del silenzio, di essere secanti alla grande
attenzione mediática, di rimanerne ai margini. E di uscire
allo scoperto solo ogni tanto, quando accadono attentati o
stragi, cercando di non essere mai al centro delle
questioni. Quando però cambia la prassi e l'attenzione si
sposta su di loro per la prima volta, impazziscono. Nel
vero senso della parola. Non sanno più come relazionarsi
al quotidiano. Luce costante significa anche maggiore
attenzione ai processi e un numero più alto di inchieste,
perché si fiuta l'interesse.

Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo


mediática e quindi distante dalla realtà.

Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l'attenzione,


anche degli intellettuali e degli artisti, data alle
organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a
loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte
persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista
ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio.
Quando Impastato fu ucciso, l'opinione pubblica venne
inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che
provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una
sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un
binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle
forze dell'ordine. Poi, dopo più di vent'anni, esce un film,
1 cento passi, che non solo recupera la memoria di
Giuseppe Impastato -

ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla


mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono.
Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa
memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che
si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti,
all'epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un
processo.

Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era


stato rubricato come una specie di matto suicida, un
terrorista.

Sono moltissimi gli episodi che vanno in questa direzione


perché - e mi preme sottolinearlo - le organizzazioni
criminali hanno un grandissimo potere, quello di
delegittimare e diffamare. Quasi sempre la
delegittimazione arriva prima del proiettile o del tritolo,
come a preparare la strada, perché il morto venga
dimenticato prima, perché, nel dubbio, non se ne parli. Ma
non sempre è così e spesso la diffamazione arriva dopo. E
successo per molte persone.

Pippo Fava, giornalista de «I Siciliani», una rivista che


stava dando molto fastidio a Cosa Nostra, viene ucciso
mentre sta andando a prendere la nipotina a teatro. Gli
sparano in testa, lo sfregiano. Gli omicidi delle
organizzazioni criminali hanno sempre una sintassi
simbolica. Sparare in faccia, per esempio, ha un
significato diverso rispetto a sparare al petto. A Pippo
Fava lo sfregiano, gli sparano alla nuca e pochissime ore
dopo iniziano a diffondere la notizia, che poi diventerà la
versione ufficiale nella società civile catanese - o forse
bisognerebbe definirla incivile - che era stato ucciso
perché «puppo», ovvero omosessuale, come dicono in
Sicilia. Perché aveva messo le mani addosso a dei
ragazzini fuori dalla scuola. Si erano inventati questa
balla per delegittimarlo, per suscitare fastidio al solo
pronunciare il suo nome.

Per suscitare quella sensazione di diffidenza nelle


persone, che trova terreno fertile in simili circostanze.

Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a


sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal
primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità
sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai
lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a
molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e
giornalisti non torna.

«Come mai sei arrivato a tante persone ?» In un Paese


dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche
potere o ha scelto di compromettere le proprie parole.

«Dove hai tradito ? Dove ti sei venduto?

Con chi ti sei alleato?» Il cinismo degli addetti ai lavori è


sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di
ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato
accettare i codici più bassi, più biechi della
comunicazione.

Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse


nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le
organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti
un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse
personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio,
perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è
contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di
noi.

E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera


personale su di noi.
E andata così persino a Giovanni Falcone. Penso spesso a
ciò che gli capitò un'estate, quando una borsa colma di
tritolo fu ritrovata sulle scogliere dell'Addaura, dove
andava in vacanza. Il giorno dopo, anche i giornali più
autorevoli lasciarono intendere, negli editoriali, che
quell'attentato l'aveva architettato lui stesso perché,
dicevano, la mafia non sbaglia, non ti lascia il tritolo,
avvisandoti.

Se la mafia ti vuole morto, ti ammazza. Molto


probabilmente - queste erano le voci -

quel tritolo se l'era messo li per fare un po' di carriera. E


io penso spesso, quando mi vengono fatte accuse simili
per cose molto minori, che forse non ho il diritto di
soffrire, perché rispetto a quello che ha dovuto soffrire
lui, quel che vivo io è poca cosa. Falcone non si oppose a
chi faceva simili insinuazioni, che condizionavano
pesantemente l'opinione pubblica.

Addirittura la sorella e chi gli era più vicino gli


suggerirono di difendersi dalle calunnie, ma lui ebbe un
coraggio che io forse non avrò mai. Lui disse,
rispondendo alle persone che gli volevano bene: «La
calunnia si distrugge da sola».

Questa storia però ci dice anche qualcos'altro.


Le parole, quando arrivano a molte persone, quando
raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose.

Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle


debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa
carne. E successo a moltissimi scrittori, a moltissimi
giornalisti.

Cerco di spiegarmi meglio.

Se Giovanni Falcone non fosse caduto, se non fosse stato


ucciso, chi sa oggi come sarebbero valutate certe sue
decisioni all'epoca molto discusse.

Quella di andare a Roma, quella di aprire un dialogo con


l'allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli,
per esempio. L'Italia ha una caratteristica che in genere,
quando raccontano di noi, non viene riportata: l'Italia è un
Paese cattivo.

Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile


realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.

La storia dell'antimafia spesso è una storia di enormi


cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire
come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e
tutto sommato chiare. La morte di don Peppe Diana, per
esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato
poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto
di tutto.

Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle


donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto
perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un
documento, Per amore del mìo popolo non tacerò, che
aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel
documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe
seguito in quanto prete di Casal di Principe. Li dichiarava
quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè
raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.

La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e


fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in
fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e
mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta
leggendo.

Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come
funzioni il meccanismo della parola. Anna Politkovskaja,
scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno
stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare,
oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di
serenità, quasi di sollievo.

Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo?


Com'è possibile? «Perché so», spiega lui «che almeno con
la morte non potrà più essere diffamata».

Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di


sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche
da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una
delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte.
Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano
certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non
possono consentire che tu abbia contemporaneamente
autorevolezza e vita. O

l'una o l'altra. Se hai la vita non hai l'autorevolezza, se hai


l'autorevolezza non hai la vita.

Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella


necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare,
in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la
paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere
delegittimati. Come si può salvare la parola da questa
terribile doppia condanna ? Facendo si che non
appartenga più a una singola persona. La parola, se smette
di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti
e diventa di migliaia di persone, non si può più
delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle
parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse
eliminare fisicamente la persona che per prima le ha
pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.
So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo
romanticismo se si pronunciano espressioni come «parola
usata da molti», «parola contro il potere». Ma sono
convinto che far diventare concreta una parola significhi
innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel
quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace
contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande
sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro
parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari
nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso
umano verso nuove strade.

Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento


esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato,
indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero
umano. Non è che un mese dopo l'uscita dei loro scritti
qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire
quale sia il peso reale delle Metamorfosi di Kafka oppure
delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano
reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.

Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico


privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà,
quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è
caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto
effettivamente il peso specifico delle sue parole stia
entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i
comportamenti delle persone. Quando questo accade ti
rendi conto che il potere reale che hanno le parole è
davvero infinito, ancor di più perché è un potere
anarchico. Intendo dire che un potere che si basa sulla
condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la
parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e
paura. Senza dubbio io ho avuto il privilegio di vedere
cosa significhi la parola contro la camorra e contro le
organizzazioni criminali, perché ho visto storie
materializzarsi nello sguardo di molti.

Storie che venivano ascritte alla periferia più misera, più


lontana e marginale d'Italia, storie che, si diceva, non
serviva a niente raccontare. Ho visto vicende passare
dalle brevissime di cronaca nera alle prime pagine di
giornali nazionali e addirittura internazionali. E quando
questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che
qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi
di ignorare certi argomenti.

Ed ecco migliaia di persone pronte a comprare un


giornale, una rivista o un libro.

Appunto, comprare.

Anche questa è una parola, un concetto, che mette paura,


in genere agli intellettuali, e agli intellettuali italiani ancor
di più. Comprare, spendere, vendere, sono tutte dinamiche
fondamentali per continuare a scrivere e far arrivare
informazioni alle persone. Se non ci fossero i lettori che
comprano, se non ci fossero gli scrittori che vendono, che
promuovono se stessi e la propria parola, come sarebbe
possibile far arrivare i messaggi ? Gli scrittori
«speculano» sulle loro parole? Ben venga.

Questa «speculazione» deve essere giudicata per la


qualità della parola detta, non perché viene fatta. Non
provo alcun fastidio quando mi accusano di difendere
troppo le mie parole. Se avessi la possibilità e la libertà,
andrei porta a porta a parlare alle persone, cercherei di
convincerle a leggere ciò che scrivo, dai ragazzini alle
persone anziane.

Senza vergognarmi. Sogno di vendere sempre più copie,


ovunque nel mondo, e sono sempre insoddisfatto,
nonostante i risultati siano stati buoni perché io ho
un'ambizione ben più grande - e non me ne vergogno - ben
più grande di quella di piazzare un po' di copie e di avere
qualche buona recensione. Il sogno è che magari queste
mie parole, condividendole, possano davvero diventare
uno strumento. Non soltanto per affermarmi, ma anche per
vivere meglio, per essere più felice e per permettere a chi
mi circonda di essere più felice.

Questo connubio tra ambizione personale e ambizione


sociale è quello che secondo me, in passato, ha permesso
in certe parti del Sud Italia di far muovere le persone che,
in genere, sono circondate da una cappa di cinismo pigro,
dovuto al fatto che ogni cosa sembra impossibile, ogni
cosa sembra inarrivabile. Da un dottorato di ricerca a
lavorare con un contratto come carpentiere, aprire un
agriturismo piuttosto che poter decidere di tornare a
coltivare la terra che è stata tutta avvelenata.

E l'unico sprone resta la voglia di affermarti e, affermando


te stesso, inseguire il grande sogno di poter cambiare le
cose. E allora, ancora una volta, la parola, se decidi di
affermarla fino in fondo, può diventare pericolosa. Certo,
c'è sempre il rischio che sbagli, ma ben venga l'errore
piuttosto che il silenzio.

Relazionarsi a certi territori, a certe logiche è molto


difficile. Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa
è gestita dai poteri criminali. Quello che alcuni filosofi
hanno definito «biopotere» è molto più facile riconoscerlo
dalle mie parti che nelle metropoli del Centro-Europa.
Tutto è a esso sottoposto e tutto è sua espressione, dalla
sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla
cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio
per mostrare che esiste un linguaggio, un modo di
raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui
giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno
nelle salumerie, dai barbieri.

Che c'è un modo di fare informazione che aderisce


completamente al linguaggio e alle logiche delle
organizzazioni criminali.

Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e


diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in
quelle zone che loro devono circolare.

E in quelle zone che devono comunicare e costruire


opinioni. E in quelle zone che l'opinione deve essere
orientata facendo aderire il lettore alle logiche di
camorra.

Deve essere considerato normale che un pentito venga


definito infame.

Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali


venga immediatamente riportato alla sua dimensione
mediocre di uomo come tutti.

La paura maggiore che hanno le organizzazioni criminali è


scoprire che qualcuno possa avere ambizioni diverse e
mettere in crisi i loro meccanismi.

E chi si oppone - secondo la loro ottica non si sta


opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché
vuole guadagnare di più. Si sta opponendo perché vuole
spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo.
Ci sta denunciando perché non l'abbiamo fatto guadagnare.
Ci sta denunciando perché vuole prendere il nostro posto.

Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per


diventare uno di noi e allora fa l'anticamorrista.

L'elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare


che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo
due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne.

O gli uomini, naturalmente.

Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini


diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo,
invece, dà fastidio, mette paura.

E un messaggio che non deve assolutamente passare


perché sarebbe come ammettere che si può cambiare
anche senza dover compromettere la propria vita o dover
raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio.
Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci,
soltanto disposti ad accettare il compromesso. Eppure, c'è
sempre qualcuno - il giornalista cinico e prezzolato, il
politico furbo - che ha un unico grande obiettivo: mostrare
che siamo tutti la stessa schifezza, mostrare che siamo tutti
deboli, che in fondo deve esserci un potere forte e unico
che ci guidi.

Ecco, leggere questo messaggio nella filigrana delle


organizzazioni criminali, permette di capire come questa
sorta di neocinismo sia in realtà ovunque.

Solo che le mafie lo affrontano in maniera più diretta, più


concreta. Quando le studi, capisci immediatamente qual è
il loro obiettivo e se ti metti contro di loro cercano di
delegittimarti cosicché nessuno o quasi nel tuo paese o
nella tua città ti appoggerà.

Mi sono chiesto come fosse possibile che ogni volta che


tornavo nel mio territorio c'era questo fastidio.

Un fastidio che percepisci - lo avvertiva la mia scorta, lo


avvertivo io stesso -

fisicamente, sulla tua pelle. Sento nelle persone una


reazione immediata, quasi un ghigno di fastidio, quando
entro - raramente - in qualche ristorante. Oppure il
fastidio della gente quando viene citato il mio nome.

Una volta mi capitò di chiedere ai carabinieri di trovarmi


una casa, perché non volevo andarmene via da Napoli.
Era un sogno di anni fa. Me ne trovarono diverse e i
proprietari, finché non sapevano chi fosse l'inquilino, si
mostravano contenti, perché era stata l'Arma a mediare.
Come dire, garantiscono i carabinieri. Così mi
aspettavano, mi presentavo all'appuntamento, arrivavo con
le auto blindate, quindi loro da lontano pensavano fossi un
politico e di questo erano ancora più contenti.

Poi scendevo io e, sistematicamente, la loro espressione


cambiava in modo repentino.

C'era chi la buttava sulla simpatia e mi diceva: «Dotto',


tanta stima, ma tengo famiglia. Non è per me ma pe' 'e
criature, per i bambini. Non posso proprio metterla in
casa». C'era quello che la metteva sul tragico: «Mi
dispiace, il condominio non permetterebbe mai,
vivrebbero tutti in ansia». E quello più esplicito: «No, no,
per favore. Ci manca solo lei».

E tutti, ma proprio tutti, mi dicevano di avere paura. Ora,


la paura è un sentimento che va rispettato - profondamente
rispettato - anche con sacralità.

La paura serve a conservarsi, la paura serve spesso anche


a non commettere idiozie.

Ma presto mi resi conto che quella non era paura. Era solo
la motivazione nobile che trovavano per esprimere un
sentimento assai diverso. Paura di che? In fondo c'erano
mille garanzie. Non c'è mai stato un solo episodio di
persone che, cercando un obiettivo, per sbaglio vanno dal
vicino o fanno saltare in aria un intero pianerottolo.

Mai successo un caso del genere. Impensabile. Ancor più


perché io in quell'edificio sarei stato profondamente
blindato.

Quindi la sicurezza dell'area sarebbe aumentata


vertiginosamente. Il rischio, in definitiva, era pari a zero.
Per loro. E infatti non si trattava di paura, ma di vergogna.

Era il fastidio di doversi sobbarcare uno come me, in


casa. Uno che li avrebbe esposti ai commenti di parenti e
vicini. Fittarmi casa avrebbe significato, in quel momento
e in quel luogo, stare dalla mia parte. Il racconto di queste
case che non mi venivano date, di queste persone che non
volevano mostrare condiscendenza nei miei riguardi, per
me ha significato entrare in relazione con un territorio che
non mi amava e che fingeva di sentirsi messo a rischio.

Nel tempo, poi, le cose sono cambiate. Ho ricevuto molta


solidarietà. Molti hanno voluto mostrarsi vicini alle mie
parole forse anche perché sono emersi diversi documenti,
anche video, che hanno mostrato come la camorra
ammazzi ancora.

E accaduto che ciò che ho raccontato, ciò che molti hanno


raccontato - storici, sociologi, giornalisti, cronisti - è stato
confermato da quelle testimonianze, da quelle immagini.

Il video che ha fatto più scalpore è sicuramente quello di


un'esecuzione avvenuta nel quartiere Sanità, nel cuore di
Napoli. La vittima è Mariano Bacioterracino, boss della
Sanità, con un passato di rapine. Cosa strana perché le
organizzazioni criminali, quelle «serie», detestano le
rapine e soprattutto le loro conseguenze: tanta polizia e
rapporti negativi con le banche, con le quali, invece,
bisogna intrattenere buoni rapporti. Ma c'è una parte della
camorra, quella appunto del Rione Sanità camorra

«seria», importante, che fa capo al clan Misso - che


invece faceva rapine, anche con una sorta di missione alla
Robin Hood: un po' dei proventi, infatti, li ridistribuiva
nel quartiere. Utilizzava la rapina per ottenere consenso e
come strumento per accumulare denaro da reinvestire. E
quelle che hanno messo a punto, sono rimaste negli annali
tragici delle rapine più gravi d'Europa, non solo in Italia,
ma anche in Spagna e in Germania.

Ebbene, Bacioterracino si trova li, all'ingresso di un bar.


Ci sono due telecamere che riprendono la scena, una
all'esterno del bar e una all'interno.

Arriva un uomo con un cappellino.

Entra nel bar come se volesse comprare qualcosa, poi


esce. Si avvicina direttamente al suo obiettivo, che è li
fuori, sulla destra, estrae la pistola e spara cinque colpi. Il
primo al fianco. Tutti gli altri alla schiena. L'ultimo finale
alla testa.
Perché il video dell'omicidio di Bacioterracino ha
sconvolto l'opinione pubblica mondiale ? Innanzitutto
perché è la prima volta che questo genere di video viene
diffuso. In genere ci viene mostrata sempre e soltanto la
parte finale di un omicidio, la fotografia del cadavere,
come unica prova. Per la prima volta, invece, tutto il
percorso viene mappato.

Poi c'è un altro dettaglio. L'immagine di quell'esecuzione


decostruisce completamente la classica visione
cinematografica che abbiamo delle esecuzioni di camorra,
perché viene portata a termine in pochissimi secondi, con
serena freddezza.

Non cattiva ma serena. E soprattutto chi è intorno al


cadavere, ed era li prima che Bacioterracino morisse, non
fa scatti, non ha reazioni isteriche.

Sembra non avere paura: non scappa, non urla, non si


affretta a chiamare col telefono la polizia o i carabinieri,
o almeno pare non lo faccia nell'immediato. Non fa niente
se non cercare di andar via il prima possibile, senza dare
nell'occhio.

Allontanarsi a ogni costo.

Per chi vede queste immagini, il primo pensiero è: ma


come è possibile tanta disumanità? Chi osserva dall'estero
e immagina Napoli come la città del cuore, della
passione, del buon cibo e delle belle donne, ancor più non
riesce a farsene una ragione.

In realtà, invece, chi vive là non percepisce alcuno


scandalo. Quelle immagini sono immagini quotidiane per
una terra in cui, da quando sono nato, sono state uccise
quattromila persone. E se sommiamo Sicilia, Calabria e
Campania negli ultimi trent'anni sono diecimila i morti.
Più della Striscia di Gaza. Perché questi territori
dovrebbero scandalizzarsi di fronte a un gesto del genere
?

Le persone mettono in conto di poter incontrare un


camorrista o di imbattersi in un'esecuzione. E quando
avviene, il primo pensiero non è denunciare o chiedere
aiuto. Il primo pensiero è portare a casa la pelle. E tu la
pelle la porti a casa se non mostri che hai visto, che hai
sentito. Perché dopo un'esecuzione c'è sempre un palo che
osserva, che scruta e se vede qualcuno che urla in preda a
una crisi di nervi, identifica quella persona come chi può
descrivere il killer, come chi può denunciare e far
condannare all'ergastolo uno di loro. E allora si andrebbe
a cercarla, quella persona, a identificarla per impedirle di
testimoniare. Ecco perché bisogna invece sgattaiolare,
bisogna strisciare vicino alle pareti. C'è persino, in questo
video, la scena di un padre che passa con la sua bambina
in braccio. La bambina getta uno sguardo al cadavere, ma
il padre non affretta il passo, non scappa, semplicemente
va via.

La procura diffonde il video per far si che le persone


riconoscano il killer. Per permettere loro di riscattare in
qualche modo il territorio da quel crimine, denunciando.
Ma dal quartiere non arrivano segnalazioni e non per
semplice disumanità, non perché siano tutti collusi o
perché siano tutti camorristi. Tutt'altro.

Quella disumanità è la disumanità di un paese in guerra.


Non è la colpevole o strafottente disumanità del singolo:
li c'è un codice. Vivere in guerra significa portare a casa
la pelle. Magari se quella stessa situazione fosse accaduta
al centro di Roma le reazioni sarebbero state diverse.
Qualcuno sarebbe andato a toccare il cadavere e qualcun
altro, magari, l'avrebbe ripreso con il cellulare. A Napoli
riprendere con il cellulare significa avere prova di
qualcosa, e questo ti mette in pericolo; a Roma, invece,
non saresti in pericolo e il tuo gesto sarebbe considerato
pura, forse deprecabile, curiosità.

Qualcosa di simile era accaduto pochi mesi prima.

Un altro video pesantissimo aveva scosso le coscienze del


nostro Paese. Nel centro storico di Napoli, su dei
motorini, si rincorrono delle «paranze» - termine con cui
sono chiamati i gruppi di fuoco della camorra -
sparandosi all'impazzata. Un proiettile colpisce un
suonatore ambulante rom che stava li, in piazza
Montesanto.

Ferito, cerca di proteggersi entrando nella metropolitana


dove si accascia e muore dissanguato. Nessuno lo aiuta.

Di tutto questo esiste un video e anche qui il Paese si


indigna e si domanda come sia possibile che nessuno
presti soccorso, senza sapere che quella è la reazione più
naturale perché, nella sintassi di quel territorio, uno che
viene sparato in strada è un camorrista e non un povero
innocente che non c'entra niente. Quindi perché aiutarlo ?

Lascio perdere, piuttosto, e porto a casa la mia pelle.

Qualcuno forse ricorderà cosa accadeva negli anni


Ottanta, nella guerra tra Nuova famiglia e Nuova camorra
organizzata, quando veniva ferito e non ucciso un affiliato.

Quando questo accadeva, avvertivano la paranza che


aveva «fatto male» il lavoro.

Quella o fermava l'autoambulanza e ammazzava li dentro


la persona ferita o tornava indietro, prima ancora che
arrivassero i soccorsi e finiva il lavoro. Addirittura le
autoambulanze, quando sapevano che stavano andando a
prendere un ferito di camorra rallentavano, per evitare di
essere fermate con il ferito a bordo, per evitare che gli
infermieri venissero malmenati e di doversi poi portare il
cadavere con tutto il sangue - il sangue ma soprattutto le
conseguenze - in ospedale. Allora preferivano che il
«lavoro» si finisse per strada, preferivano arrivare in
ritardo e caricare direttamente il cadavere. Quando vieni
da queste storie, perché dovresti prestare soccorso? Ecco
le radici della disumanità che ci sta attraversando: una
disumanità che ha delle ragioni precise. E su questo che
dovremmo intervenire.

Sempre più spesso si crede, invece, che usare lo


strumento della letteratura per raccontare le
contraddizioni del nostro Paese, sia solo un modo per
infangarlo. Io questo non lo credo. Al contrario la
considero un'enorme idiozia che giustifica e difende
spesso i poteri criminali. E sposta addirittura la colpa da
chi ha commesso efferatezze a chi le racconta,
sottraendole al silenzio.

Lo strumento letterario permette che storie legate a


determinati ambiti conquistino cittadinanza universale.
Che storie considerate lontane, di personaggi con nomi
strani e tutti uguali, acquistino una forza speciale e
diventino patrimonio della collettività.

E quella forza che Philip Roth attribuiva alle pagine di


Primo Levi. Una volta chiesero a Roth - mi piace
ricordarlo spesso - quale fosse il libro più importante che
avesse letto. Lui rispose Se questo è un uomo di Primo
Levi, «perché» continuò,

«dopo averlo letto, nessuno può più dire di non essere


stato ad Auschwitz». Non di conoscere Auschwitz, non di
aver saputo di Auschwitz. No, nessuno può più dire di non
esserci stato. La forza di quel libro è che ti prende e ti
porta li.

Ricordo un altro libro, un libro di Michael Herr, del tutto


diverso. Si chiama Dispacci.

Racconta del Vietnam e si chiude così: «Vietnam. In fondo


ci siamo stati tutti». La forza degli scrittori e dei
giornalisti che hanno scritto contro quella guerra è stata di
portare tutti li, e quindi di mostrarne la ferocia.

Ecco, allo stesso modo, io credo profondamente che la


forza della parola - letteraria e non - sulle organizzazioni
criminali sia far conoscere e comprendere queste storie,
far si che esse diventino di tutti, che riguardino tutti, e che
quindi ciascuno possa voler decidere di cambiarne il
corso. Con la forza della parola, queste storie finalmente
escono da quel limbo silenzioso che le ha difese, che ha
permesso ai poteri criminali di prosperare nella
colpevole o, più spesso, inconsapevole indifferenza.
Una complicità che non ha bisogno neanche di
compromissione, basta non agire e tutto è a posto.

Ogni lettore che fa sua una storia, ogni lettore che


protegge un libro, che osserva, che ascolta, sta facendo
moltissimo. Sta facendo moltissimo perché permetterà a
quell'autore di continuare a lavorare e soprattutto
contribuirà a diffondere le sue parole, a renderle strumenti
pericolosi. Anche criticando, anche non condividendo,
anche facendone semplicemente argomento di discussione,
farà si che le tante vicende avvolte dall'ombra possano
diventare invece storie degne di essere raccontate, che i
tanti morti diventati semplicemente un numero possano
tornare a essere persone, che i molti sogni rimasti a
margine, possano tornare a essere possibilità reali.

Mi piacerebbe chiudere ricordando una persona.

Si tratta di un uomo che si chiamava Antonio Cangiano. E


morto qualche mese fa.

Ovviamente nessuno si è ricordato di lui: nessun giornale,


nessuna televisione, nessun telegiornale. Solo i suoi
amici. Antonio Cangiano era un politico; è stato
vicesindaco, negli anni Ottanta, di un paesino in provincia
di Caserta che si chiama Casapesenna.

Un paesino che sembra avere un nome ridicolo e che


invece è uno dei luoghi più ricchi d'Italia, ma soprattutto
ha dato i natali a una famiglia mafiosa spietatissima, gli
Zagaria. Ebbene, questo vicesindaco negli anni Ottanta
rifiutò - una cosa banale - di far vincere l'appalto a
un'azienda che non era in regola e che voleva ottenere, in
quanto «del luogo», la ristrutturazione di alcune strade.
Lui si impuntò: un gesto che non ti fa certo passare alla
storia, ma che ti fa dormire tranquillo e ti fa credere che,
tutto sommato, si può ancora essere onesti.

Non far vincere l'appalto a quell'azienda significava far


vivere meglio i suoi concittadini; non era affatto un
progetto sovversivo di redenzione o rivolta.

Ebbene, per questo gesto, l'organizzazione decide di


punire Antonio Cangiano. Gli spara alla schiena, non per
ucciderlo ma per lasciarlo infermo.

E la legge del taglione: «Tu non hai fatto camminare noi,


noi non facciamo più camminare te». Antonio Cangiano ha
avuto dei problemi enormi, perché i proiettili gli hanno
compromesso il midollo spinale, non ha più potuto
camminare e ha perso gran parte della sua serenità. Nel
corso degli anni gli hanno amputato le gambe, ha avuto il
corpo spezzato e quando è morto - mi avvertì un amico
comune via mail -, anche in quella circostanza, ha avuto il
silenzio intorno a sé.
Mi piace ricordare Antonio Cangiano perché la sua è una
storia di grande speranza.

Può sembrare il contrario ma non è così. E una storia di


grande speranza perché è la storia di un uomo senza
gambe che in questi anni bui non si è piegato e ha
camminato dritto. E non solo, è anche andato lontano,
molto più di chi, invece, pur avendo le gambe è rimasto
fermo. Per me, lui e moltissimi altri, hanno significato
poter credere che una scelta individuale, anche difficile,
anche se ti compromette la vita, non solo è possibile, ma
può anche darti conforto quotidiano. Sai che non hai
ceduto, sai che hai resistito e tutti i sacrifici fatti, in fondo,
dentro di te, ti fanno sentire uomo. Molti chiedono a chi si
pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia.
C'è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri,
a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di
correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me
stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di
certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale.

A questo corridore chiesero: «Ma perché corri?» E lui


rispose: «Perché io corro?...

perché tu ti sei fermato?» Anche a me piace rispondere


così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo
semplicemente: «... e perché tu non racconti ?» Molti
diranno e ripeteranno che ciò che faccio significa
infangare il Paese. E io ogni volta ribadirò che invece
questo è l'unico, dannatissimo modo per cercare di
cambiare le cose.

30 ottobre 2009.
Parte seconda.
Così parla la mia terra.

Vorrei parlarvi di quello che accade nella mia terra. Lo


faccio spesso, ma questa volta proverò a farlo in un modo
un po' diverso. E vorrei che non immaginaste la mia
faccia, che non sentiste la mia voce. Vorrei provare, qui, a
farvene ascoltare un'altra: quella della mia terra che vi
parlerà attraverso l'informazione quotidiana, ovvero
attraverso quei giornali che, ogni giorno, ne riportano le
notizie. Mi riferisco ai giornali locali o perlomeno a un
certo tipo di giornali che a Napoli, a Caserta e nelle loro
province, moltissime persone leggono.

Ciò che vi risulterà più strano è che spesso questi giornali


e le cose che vi sono scritte, per voi sarà difficilissimo
comprenderle, a meno che non siate della mia terra o
addirittura del mio paese. Se siete friulani, lombardi,
sardi, romani, toscani, per voi sarà pressoché impossibile
decifrarli da soli.

Mi spiego meglio, nessuno di questi giornali vi riporterà


mai nomi e cognomi di un boss o di qualsiasi altro
personaggio locale, ma ne parlerà sempre e soltanto col
soprannome. Credo sia difficile che qualcuno di voi possa
capire immediatamente un titolo come questo: Bin Laden e
o Sceriffo controllavano gli affari. Bisogna che sappiate,
innanzitutto, che Bin Laden è Pasquale Zagaria, boss di
Casapesenna, che ha fatto affari enormi a Parma e che,
appunto, è soprannominato Bin Laden perché era
introvabile, esattamente come lo sceicco.

E introvabile è rimasto finché non si è consegnato lui


stesso alla magistratura. Questo è un titolo che si rivolge
chiaramente a un pubblico che conosce e che sa di cosa si
parla. «O Sceriffo», invece, è Michele Fontana. Il
soprannome gli deriva dall'aspetto da texano: tenete conto
che molti camorristi sono bufalari, allevatori di bufale,
quindi vestono sempre un po', diciamo così, in maniera
country. E da qui, il soprannome «o Sceriffo».

A questo punto, credo sia lecito domandarsi perché questi


giornali utilizzino sempre e solo soprannomi.

Il motivo è semplicissimo. All'anagrafe, tanti possono


chiamarsi Francesco Schiavone, Carmine Alfieri, Michele
Fontana, ma solo uno, in paese, risponde al nome di
Sandokan, o Ntufato oppure o Sceriffo. I soprannomi sono
come le stimmate per un santo o il mantello per un
supereroe.

Non so come dire: il soprannome è qualcosa che ti rende


diverso dagli altri, che ti rende più degli altri.

Nel titolo successivo, ancora una volta un soprannome: In


cella cugino del defunto

«Formaggino».

Ci sono persino soprannomi così, un po' ridicoli.

In genere ti vengono affibbiati quando sei piccolo. Te li


ritrovi quando sei ancora ragazzino, e poi ti restano
addosso per tutta la vita.

Arrestato «o Cappotto». Un titolo così è impossibile da


decifrare, a meno che uno non sappia che storia c'è dietro,
a quale territorio faccia riferimento.

Sembra paradossale, ma se qui anziché «o Cappotto» ci


fosse scritto il vero nome dell'arrestato, nessuno
capirebbe di chi si tratta; neanche chi è del suo paese o
del suo quartiere. Ma quando quelle stesse persone
leggono Arrestato «o Cappotto», immediatamente
capiscono. Questo è un titolo da «Cronache di Napoli».

Ed eccone un altro: Delitto Iovine, o Lupo e Nasone in


tribunale. Ancora una volta soprannomi che, ancora una
volta, identificano dei personaggi quasi a generare
intimità tra chi sta leggendo e chi fa il titolo.

E un altro ancora: Carcere duro per Peppe o Padrino.

Qui l'attributo è decisamente più esplicito.


Questo, invece, è quasi illeggibile: Blitz dell'Arma da o
Mussuto dopo l'agguato a o Urpacchiello, in ballo il
business del caffè. E uno scioglilingua. Sono ovviamente
soprannomi che, una volta di più, identificano clan, gruppi
di potere, modi di relazionarsi.

C'è una prassi nella mia terra, una prassi che seguono i
quotidiani locali e che mi ha sempre molto colpito.
Quando i processi si concludono con condanne, i giornali
di cui stiamo parlando pubblicano immediatamente i nomi
e i cognomi dei condannati.

Nel Sud ci sono molti maxi-processi, quindi spesso quegli


elenchi sono lunghi. Ma anche li, nomi e cognomi non
direbbero nulla se non fossero seguiti dai soprannomi.

Ecco cosa potrebbe capitarvi di leggere: «Massaro


Clemente, o Pecoraro.

De Rosa Italia, a Zingara. Esposito Agostino,


Pummarola». A ogni condannato un soprannome,
«Chiachiello, Cuzzichiello», che a volte sono nomignoli
che fanno anche ridere. Eppure, dietro questi soprannomi
e dietro i titoli di giornale che li riportano, c'è
qualcos'altro. Qualcosa che ha a che fare con una guerra,
una guerra che ogni tanto ci raggiunge. Che anzi, ci
raggiunge solo quando si sparge molto sangue e quando ci
sono grandi tragedie. In media si ammazzano uno, due
uomini di camorra al giorno. A volte tre, ma la cronaca
nazionale lo ignora. Il modo in cui si trattano questi
argomenti è quasi sempre lo stesso; identico da anni, da
decenni. Tutto resta li, fermo, immobile, immutabile,
lasciato ai pochi cronisti locali - naturalmente i più
coraggiosi - o ad altri che riportano semplicemente la
notizia, nei suoi minimi termini.

Tutto quello che vi sto raccontando continua a succedere e


continua a godere di un silenzio spesso colpevole, che non
permette all'intero Paese di capire cosa stia succedendo al
Sud. E non al Sud soltanto. Che non permette di capire
come si muovano i capitali e cosa accada realmente alle
vite delle persone.

Sarà utile, giunti a questo punto, spendere qualche parola


anche sul tipo di linguaggio che questi quotidiani
utilizzano e sul tipo di comunicazione che, attraverso quel
linguaggio, quotidianamente veicolano.

Negli ultimi mesi si è parlato molto di stupri, ma nessun


giornale a diffusione nazionale ha mai riportato alcun
riferimento allo stato civile delle vittime. Nessun
riferimento al fatto che le donne stuprate fossero fidanzate,
sposate o single. E invece, ecco un titolo del «Corriere di
Caserta»: Stupra donna sposata e finisce in cella.
Perché «sposata» ? Cosa c'entra ? Perché: stupra donna
sposata e non stupra donna e basta ? Molto probabilmente
perché il meccanismo di intimità che si innesca tra un
determinato territorio e l'informazione che a esso si
rivolge, deve immediatamente suggerire a quei lettori ciò
che in quel contesto più conta. Tutto sommato, quindi, la
cosa grave non è lo stupro in sé, ma proprio che la donna
stuprata sia sposata.

Fosse stata nubile, quella violenza si poteva ancora far


passare per un gesto di forza -

probabilmente eccessivo - ma il cui unico e benevolo


scopo era conquistare una donna. Invece no. Invece qui
qualcuno sottolinea: «Stupra donna sposata».

Tutto ciò che sta dietro a questo titolo è esattamente quel


tipo di mondo. «Donna sposata» sta per «donna di qualcun
altro». Ecco perché è così importante segnalarlo.

Ancora un altro atroce titolo che in poche, pochissime


parole ci racconta un mondo: Giustiziato sindacalista.
«Giustiziato» e non «assassinato», non «ucciso».
Giustiziato significa, alla lettera, che si è fatta giustizia e
soprattutto significa che si dà per scontato che esista un
potere che, legittimamente, può decidere di fare giustizia.
E
questo potere, per inciso, non è lo Stato. Giustiziato è una
parola che, con quest'accezione, sarà ben difficile trovare
nella cronaca quotidiana nazionale italiana e d'Europa.

Il linguaggio di questi quotidiani può essere molto


pesante, ma in altre occasioni può risultare quasi comico,
come per certi soprannomi. E può essere, talvolta, anche
infantile; può ricalcare il linguaggio dei bambini e anche
questo, naturalmente, è funzionale al tipo di
comunicazione che si vuole dare e soprattutto alla
reazione che nei lettori si vuole suscitare. Lo zio faceva
cose sporche, è un titolo che sembra rubato dalla bocca di
un bambino piccolo e a leggerlo, su un quotidiano, è
inevitabile produca una sensazione di straniamento.

Ecco, io sono cresciuto in una terra raccontata così, al


ritmo di questi titoli e ciò che capita è che ti abitui a
considerare determinate parole normali.

L'assuefazione diventa tale che i fatti finisci per leggerli e


valutarli così come ti vengono raccontati senza dubitare
della loro genuinità. Questi titoli, questo tipo di
informazioni, costruiscono un mondo che sarebbe un
errore considerare un mondo a parte. E il mondo degli
affari, ed è il mondo dei massacri. E il mondo che investe
a Milano, che investe a Parma, che investe a Barcellona,
che investe a Berlino. Ma ha la sua radice nel Sud Italia.
Ed ecco un altro titolo che a me, personalmente, ha
spaventato: Pirólo, la corte assolve l'infame.

Ripeto: la corte assolve l'infame. Pirólo è un


collaboratore di giustizia e viene assolto per un reato.

E il titolo recita: «Pirolo, assolto l'infame».

Come vengono chiamati i collaboratori di giustizia nei


territori di mafia? Infami, appunto. Il titolo poteva essere
ben diverso. Si poteva scrivere semplicemente

«assolto». E invece no: «assolto l'infame». Perché il


vocabolario da quelle parti è questo: chi parla con la
giustizia è un infame.

C'era un imprenditore dalle mie parti che si chiamava


Dante Passarelli. Dante Passarelli ha una storia
complicata, quella di un uomo che inizia la sua attività
proprio nella zona dall'Agro Aversano. Comincia come
salumiere e poi si fa le ossa come imprenditore.

Ma trova come partner - secondo quanto dichiara la


Procura antimafia - Francesco

«Sandokan» Schiavone, il boss del clan dei Casalesi.


Così a Dante Passarelli, sempre secondo le indagini,
arriva una quantità enorme di denaro che lui reinveste.
Ed è bravo, perché con gli strumenti economici e
finanziari di cui dispone, riesce a conquistare il più
grande zuccherificio del Mediterraneo, l'Ipam. E visto che
in passato l'Ipam è stato suo, di conseguenza possiamo
dire che sia appartenuto al clan dei Casalesi.

Poi, come spesso accade nella vita degli imprenditori che


decidono di legarsi alle organizzazioni criminali, succede
qualcosa. Ma prima di arrivare a parlarvi di questo,
vorrei far chiarezza su un punto.

Quasi sempre le organizzazioni criminali scelgono come


partner imprenditori abili, capaci di fare affari, di essere
smaliziati, di vedere tutti gli ambiti e tutti gli spazi per il
business. Questa ultima frase può essere presa alla lettera.
Una cava dismessa diventa uno spazio per la spazzatura.
Una terra incolta diventa allevamento di bufale.

Un nuovo stile di costruzione, magari visto a Parigi, o


assaporato in qualche passeggiata iberica, viene
immediatamente imposto ai geometri e agli architetti per
creare nuovo «appetito» imprenditoriale. Ecco: Dante
Passarelli era un imprenditore di questo tipo. E alcuni
titoli di giornale sono proprio dedicati a lui. Titoli chiari,
come questo: Sigilli all'impero di Passarelli. Come
spesso accade agli imprenditori di mafia, Passarelli viene
accusato di riciclare denaro, di essere un imprenditore
organico al clan. Sigillano il suo impero, fermano le sue
attività. Case, palazzi, ville, squadre di calcio, bufale,
yacht: tutto fermo. Macchine, imprese, trasporti, tutto
fermo, tutto viene congelato.

La notizia fa scalpore, come i titoli dimostrano:


Sequestrato il nuovo tesoro di Passarelli. Nuovo, perché
ne aveva già avuto uno che pure gli era stato sequestrato.

Poi se n'era rifatto un altro, ma anche questo «nuovo


tesoro» la Procura antimafia di Napoli riesce a scoprirlo
e a congelarlo.

Cosa succede quando imperi e tesori di un imprenditore


del calibro di Passarelli vengono sigillati ? In genere
l'imprenditore muore, perché quando vengono congelati i
beni intestati a una persona, possono tornarne in possesso
degli eredi o di altri soggetti solo se questa muore.

All'epoca, guardando i giornali che compravo ogni


mattina, mi faceva molta impressione questa specie di
canto funebre cadenzato dai titoli. Sigilli all'impero di
Passarelli, Sequestrato il nuovo tesoro di Passarelli,
Passarelli, tragedia all'Ipam.

Sequestro e morte. La forza delle organizzazioni criminali


spesso è proprio questa: non permettono errori.

Non è possibile, per un imprenditore che si leghi a loro,


sbagliare e non pagare, come invece è consentito a chi
opera all'interno dell'economia legale.

In quel mondo chi sbaglia, paga. Sempre. Solo i migliori


vanno avanti. Non esistono né raccomandazioni, né
protezioni. Nulla. Solo business, business, business. Sei
inciampato? Ti hanno sequestrato i beni? Muori.

La notizia viene data anche dal «Corriere di Caserta»: È


morto Dante Passarelli .Si trovava sul terrazzo di casa a
Villa Literno. Escluso suicidio. Immediatamente dopo la
morte, iniziano a circolare voci, sempre più frequenti, che
già parlano di omicidio.

Ecco allora un altro titolo: Passarelli ucciso. E giallo sul


caso. E il sottotitolo: Il magistrato attende i risultati
dell'esame autoptico. Vi prego di soffermarvi su questa
contraddizione. Il magistrato ancora non sa cosa sia
successo, e questo lo riporta il sottotitolo in riferimento
all'esame autoptico, e invece nel titolo già si legge
«ucciso».

Come è possibile? La causa di una morte, in genere, la si


può stabilire se si dispone di un esame autoptico, se il
magistrato afferma di avere delle prove. Invece no, qui ci
viene detto: «guardate che il magistrato non è ancora in
grado di stabilire nulla, ma noi vi diciamo lo stesso che
Passarelli è stato ucciso».
Per me è sempre stato molto difficile raccontare queste
storie, perché spesso ho avuto l'impressione che una parte
del Paese - la parte maggiore - non volesse neanche
sentirle. Spesso ho avuto la sensazione che, tutto sommato,
queste storie vengono considerate storie di meridionali,
storie di paesi persi, persi sulla carta geografica e persi
tra i loro problemi. Che in fondo queste sono storie di
gang, storie di bande che si ammazzano tra loro.

Storie che ci sono sempre state, che ci sono adesso e


sempre ci saranno, e non sono, in fondo, così gravi.

Io, invece, ho cercato - e non so se ci sono riuscito - di


raccontarle come storie di tutti, perché in quelle terre,
all'apparenza marginali, c'è il cuore pulsante
dell'economia del nostro Paese.

Quelli che leggerete di seguito sono titoli presi a caso da


giornali usciti lo stesso giorno - un giorno qualunque - che
riportano la cronaca locale di Napoli e di Caserta:
Imprenditore trucidato nel bar a pistolettate, Napoli come
Chicago, Allevatore giustiziato con un colpo in faccia,
Sparavo ma non lo colpivo, Bombe di Capodanno-.altri
160 anni. E ciò che è stato riportato da questi quotidiani in
un solo giorno e, ribadisco, in un giorno qualunque. Mi
piacerebbe sapere se soltanto una di queste notizie vi è
mai arrivata. Se vi è mai passata davanti, se vi ha mai
sfiorato il timpano, se vi è stata raccontata da qualcuno.
Chiedo, ma intanto già so che è impossibile.

«Sparavo ma non lo colpivo», «Bombe», «Allevatore


giustiziato», «Imprenditore trucidato».

Cronache di guerra, ogni giorno, ogni singolo giorno. E


voi, se non vi ci trovate in mezzo, non ne saprete mai
nulla. Questa è la cronaca di una guerra vera, non di una
guerra metaforica o morale.

E la cronaca di una guerra fatta di sangue, di intimidazioni


giornaliere, di battaglie quotidiane. Ma che arriva alle
pagine nazionali solo in cronaca nera, con delle
brevissime, quel tipo di notizie che a stento si vedono e
sicuramente non restano impresse.

Così solo gli addetti ai lavori - giornalisti, giudici,


avvocati - in qualche modo trattengono queste
informazioni, se ne occupano, cercano di tenerle vive. Ma
poi tutto passa lo stesso.

Mi sono spesso chiesto se non fosse anche colpa di chi dà


queste notizie. Se non fosse anche colpa del tipo di
linguaggio utilizzato. Se la cronaca locale, quella di cui
stiamo parlando, non abbia in qualche modo anestetizzato
tutti coloro che vivono in quel territorio. E così spesso mi
sono trovato a mostrare delle immagini, nelle scuole
oppure negli incontri cui mi capita di prender parte,
inseguendo questa strana ossessione che hanno gli scrittori
quando si mettono in testa che le loro parole possano
cambiare qualcosa.

Ho mostrato e commentato non solo titoli di giornali, ma


anche una serie di fotografie molto dure, che però vale la
pena vedere, perché sono uno specchio, un frammento di
questo Paese. Le foto che porto in giro e di cui vi parlerò,
sono foto di funerali.

Parco Verde, Caivano. Due bare bianche: i funerali di due


ragazzini: Emanuele e Ciro, uno di quindici e l'altro di
diciassette anni. Emanuele muore perché faceva rapine. Le
faceva insieme a un gruppo di persone, sempre le stesse.
Anche il tipo di rapine era sempre lo stesso, come la
tipologia delle vittime e il luogo. Neanche i rapinatori
sapevano fare! Sempre di sabato, sempre alle coppiette,
sempre in una piazzola piena di spazzatura che, quando
l'ho vista, il primo pensiero è stato: be', bisogna amarsi
davvero tanto per venirci in camporella e non vedere tutta
la monnezza intorno.

E si vede che quelle coppiette si amavano talmente tanto


che erano completamente distratte.

I rapinatori arrivavano, spaccavano il vetro


dell'automobile, minacciavano con la pistola e si facevano
dare i soldi.
Una di queste coppiette, però, alla fine denuncia.

Una pattuglia si apposta nella piazzola piena di


spazzatura, i rapinatori arrivano per fare il solito
«lavoro» ed Emanuele caccia fuori la pistola; era una
pistola giocattolo, ma chi gli è di fronte certo non può
saperlo. Gli sparano e lo ammazzano.

Ed eccolo qui, il suo funerale. Tutti coetanei, tutti


quindicenni, su motociclette che spesso gli vengono
regalate. Perché questi ragazzi la camorra neanche li
vuole: il massimo che gli dà è un motorino.

La camorra non li vuole perché ne ha già troppi. Ne affilia


solo qualcuno, ma quei ragazzi sono affamati, vogliono
crescere economicamente, vogliono guadagnare.

Quindi a volte gli fanno fare i pusher, senza affiliarli.


Devono portare l'hashish a Roma, oppure consegnare la
coca e in cambio hanno una motocicletta. Nella foto del
funerale, tutti gli occhi sono rivolti alla bara di Emanuele.

E mentre la bara usciva dalla chiesa, le moto


acceleravano e acceleravano, come se quel rombo fosse
l'unico requiem degno per accompagnare l'ultimo viaggio
di Emanuele.

Il prete che celebrò la messa disse: «La morte di


Emanuele non è stato un errore. E

morto un ragazzo che sapeva benissimo a cosa andava


incontro.

Ma quindici anni è un'età che non bussa alle coscienze con


le nocche, ma con le unghie». Disse questa frase che non
ho mai più dimenticato.

E poi c'è la foto del funerale di Ciro, diciassette anni.


Anche la sua bara la portano ragazzi giovanissimi.

Emanuele e Ciro sono morti nello stesso anno e nella


stessa zona. Emanuele ammazzato e Ciro caduto da
un'impalcatura mentre lavorava.

In questa terra, sia che tu faccia una scelta non giusta,


assurda, come quella di Emanuele, sia che tu scelga di
svegliarti alle cinque del mattino per andare a lavorare in
nero nei cantieri, spesso il tuo destino è lo stesso.

Io vengo dal Sud Italia che fornisce operai edili a tutta la


penisola. La maggior parte delle imprese che svolgono
lavori in subappalto sono del Sud.

La maggior parte degli operaie stiamo parlando delle


migliori maestranze d'Europa -

vengono dal Sud. La camorra, con le sue imprese capaci


di aggiudicarsi un numero altissimo di subappalti, divora
il loro lavoro, lo costringe ad abbassarsi di qualità, molto
spesso arriva addirittura a renderlo disumano.

Fateci caso, quando qualcuno muore in un cantiere, quasi


sempre risulterà che sia morto il primo giorno di lavoro,
perché quel giorno stesso lo si mette in regola. Gli operai
sono sempre presi a lavorare in nero: per avere il diritto
di essere assunti, bisogna prima morire.

E poi c'è la storia di Francesco Iacomino, uno dei tanti


ragazzi morti sui cantieri.

Francesco era caduto da un'impalcatura, s'era spezzato


caviglie e polsi, ma poteva essere salvato. I suoi colleghi,
però, hanno avuto paura, l'hanno preso e l'hanno buttato
per strada. La persona che è poi passata a raccoglierlo, è
arrivata troppo tardi.

Francesco Iacomino, buttato per strada, quando è morto


aveva trentaquattro anni.

Quando lavori nelle condizioni in cui lavorava lui, sai che


chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo carnefice, perché se
ti succede qualcosa non si espone per te. Non farà
chiudere un cantiere per te. Non metterà a repentaglio per
te soldi, lavoro e velocità di realizzazione.
Queste storie, queste immagini sanno di guerra.

Ripeto questa parola ossessivamente, e forse sbaglio, ma


non mi viene in mente un altro termine per definire ciò che
rappresentano. C'è poi una foto che mi ha molto colpito,
ritrae un ragazzo di Napoli, mani callose, che a sua volta
tiene in mano quattro foto, un poker di volti: tutti ragazzi
morti e nessuno che superi i vent'anni. Mi sono spesso
chiesto perché l'informazione non si occupa di queste
storie. E mi sono anche chiesto perché noi facciamo
credere all'informazione - bisogna forse metterla così? -
che queste storie non ci interessano. Le vittime, che siano
camorristi o no, sono soprattutto ragazzi, ragazzi
giovanissimi.

Nei cimiteri delle mie parti - a San Cipriano, a


Poggioreale - ci sono intere aree in cui si concentrano le
tombe di persone decedute negli anni delle più sanguinose
faide.

Passi e vedi l'età dei morti: venti, ventuno, ventidue;


venticinque, ventotto, trenta; quindici, diciotto, sedici. A
morire sono sempre le nuove generazioni.

Ma non si muore solo se colpevoli e non si muore solo sui


cantieri, si muore anche per caso, per aver intercettato la
traiettoria di un proiettile. E quello che è successo ad
Annalisa Durante, la ragazzina ammazzata a Forcella da
un proiettile vagante. In queste terre, la morte non è un
evento che ti può piombare addosso, una sciagura come
può arrivare nella vita di tutti. No, qui si vive la tragedia
come una costante quotidiana. L'unico commento possibile
è: «E così. E sempre stato così. E fisiologico che possa
accadere. E tu cosa ti stai inventando?

Che balle ci racconti ? E perché vieni a dirci che tutto


questo deve farci indignare?»

Nel racconto della quotidianità di queste terre, spesso ciò


che colpisce di più è proprio il fatto che tutto sia
assolutamente messo in conto, è la banalità di questo
male. Gli arresti, la morte: tutto normale.

E i poteri criminali che decidono del destino di tutti, in


questo dannato Sud, dove la scelta è tra emigrare o avere
la fortuna di trovare qualcuno che ti aiuti - politico,
parente, amico, amico di amici - e che ti possa sistemare.
E come se il territorio si spaccasse tra i rassegnati che
restano e gli ambiziosi che vanno via. La famosa

«questione meridionale» - parola che farà inorridire i più


- non solo non è stata ancora risolta, ma non è stata
nemmeno adeguatamente affrontata. Esiste di nuovo
un'emigrazione interna enorme. Milioni di persone, in
questi ultimi anni, sono andati via dal Sud, anche e
soprattutto perché i poteri criminali sono un ostacolo alla
loro felicità. Si, è proprio felicità la parola che ho usato,
una volta, davanti alle scolaresche di Casal di Principe,
quando mi arrovellavo sulle parole da pronunciare di
fronte a ragazzi che tutti i giorni vivono questa realtà. Alla
fine dissi una cosa semplice, forse un po' retorica:
«Combatteteli, combattete questi poteri, perché vi tolgono
la felicità». In fondo è proprio così, vivere da camorrista
non è bello, fare il camorrista è uno schifo. Niente sabati
per divertirti, niente che tu possa decidere liberamente per
te stesso.

E togliere la felicità significa proprio indurre le persone a


pensare di essere impotenti, di non poter fare nulla che
non passi per l'avallo o per mani altrui.

Non poter far nulla significa, per esempio, che quando ero
adolescente mi raccontavano che a Castelvolturno c'era
stata, un tempo, un'enorme pineta attraversata dal mare, tra
le più belle al mondo, con una lunghissima spiaggia.

Io ci fantasticavo su quella pineta, e pensavo che sarebbe


stato bellissimo poterci andare a fare il bagno. Ma non era
più possibile perché l'avevano distrutta tutta e al suo
posto era sorto un intero villaggio abusivo. Avevano
avvelenato l'acqua e rubato la sabbia preziosa che fa il
cemento migliore.

Quel cemento viene preso dalle imprese di mafia che,


abbattendo i costi, vincono gli appalti nel Nord Italia.
Hanno tolto così tanta sabbia da quelle sponde che non è
più il fiume Volturno a riversare le sue acque in mare, ma
è il mare che entra nel fiume, dove ormai si possono
pescare spigole, che sono pesci d'acqua salata.

La quotidianità attraverso le fotografie che ritraggono la


mia terra, diventa racconto: il racconto di un paese in
guerra. Nelle foto di repertorio, che ritraggono morti,
spesso sparati e spesso con il sangue che ancora sta
colando, c'è sempre una nota stonata.

Prendete a caso la foto di un morto della faida di Scampia


e provate a indovinare chi c'è, in prima fila, a guardare la
scena. Bambini, tutti bambini. Sono li, normali. E

guerra. E se prendete un'altra foto, in prima fila, davanti a


un altro cadavere sparato in faccia, vedrete un'altra volta
bambini. Io mi domando come si cresca così.

Che tipo di paese è un paese che permette che questo sia


normale.

E poi ci sono persino i boss che riescono a scrivere dal


carcere. Scrivono lettere dal 41 bis. Sarebbe impossibile
perché dal carcere duro non puoi comunicare con
l'esterno. E invece no, un modo c'è: tu scrivi e ti
pubblicano sui giornali locali. Lo fa Francesco
«Sandokan» Schiavone, diventato famoso con questo
soprannome perché somigliava a Kabir Bedi che aveva
interpretato Sandokan, notissima fiction, quando
Francesco Schiavone era giovane. Sandokan scrive delle
lettere e i giornali locali gliele pubblicano. Pubblicano
delle lettere in cui lui esprime le sue verità e dà anche
indicazioni su come debbano essere raccontate.

La «Gazzetta di Caserta» titola: Sandokan scrive e difende


il boss Bidognetti. E poi addirittura un messaggio di
Sandokan al direttore del quotidiano: «A proposito,
Signor direttore, la vita ti chiede sempre ciò che sei
capace di affrontare. A questi cosiddetti pentiti la vita gli
ha chiesto di affrontare il fango come i porci. Forse più in
là scriveremo un libro-verità insieme, sempre se mi fate
questo onore. Ci divertiremo molto». In tutta la lettera,
Sandokan attacca i pentiti, dice che raccontano idiozie,
che lui è un imprenditore e non un criminale.

E la risposta, la prima riga di risposta che il direttore


della «Gazzetta di Caserta» gli dà, è questa: «Signor
Schiavone, la ringrazio per la stima».

Più avanti il direttore dirà anche: «Be', lei è un boss». Ma


la prima frase, quella con cui esordisce, è: «Signor
Schiavone, la ringrazio per la stima»!

Rivolgendosi al boss della più grande organizzazione


criminale che esiste in Campania, una tra le maggiori di
tutto il Sud Italia.

Mi sono sempre chiesto come sia possibile che questo


tipo di comunicazioni possano avvenire così,
tranquillamente, senza suscitare scandalo. Senza che il
Paese si indigni.

E invece vengono pubblicate, come fossero ordinarie


informazioni che la stampa trasmette.

Ma a fare da contraltare a tutto, è un dolore profondo,


quello che si prova per la morte dei tanti innocenti
ammazzati.

Dario Scherillo è stato ucciso nel 2004 a Casavatore, un


paese del Casertano. Aveva 26 anni e non aveva fatto
niente. Veniva da una famiglia di lavoratori, non era un
camorrista: si è trovato, come si suol dire, nel posto
sbagliato, al momento sbagliato.

Gli sparano e lo ammazzano. Le foto di questa morte sono


impressionanti, per via della macchia di sangue, sempre
sulla faccia. Chi uccide, spara sempre in faccia per essere
sicuro di raggiungere il proprio scopo. E il dolore delle
persone che circondano il cadavere, credo i familiari, è un
dolore che urla: «Ma come è possibile ? E adesso
cos'altro dobbiamo aspettarci?» E un dolore che non
riesci a mettere a fuoco, che non riesci a contenere. Per
uno scrittore è letteralmente impossibile raccontare quel
dolore. Non riesci a raccontarlo perché non è solo strazio,
è qualcosa in più: è un'enormità, è una condanna.

Poi sei testimone di quel che accade nei giorni successivi:


nessun politico va al funerale e nessun giornale pubblica
la notizia in prima pagina. Non leggerai mai:

«Dario Scherillo, 26 anni, ucciso. Innocente».

Mai.

E non lo leggerai perché c'è sempre il sospetto.

Capita che alcuni cronisti locali, spesso consultati dai


colleghi della stampa nazionale, temporeggino: «Però
chissà: forse c'entra. Questi non sbagliano mai», «Ma no,
aspettiamo prima di dare la notizia».

E questo aspettiamo che ti blocca se stai per metterti a


scrivere un pezzo per il tuo giornale.

Cosa succede invece nella stampa locale? Di quale dolore


parla ? Di un dolore che non vi aspettereste mai:
Tommaso, il dolore dei boss. Vi ricordate Tommy Onofri,
il bambino di diciassette mesi rapito a Parma il 2 marzo
del 2006 ? Una vicenda terribile, accaduta però a Parma.
Che c'entra Parma con Napoli? E che c'entra una notizia
del genere su un quotidiano locale che si chiama «
Cronache di Napoli»? E

invece c'entra. Uno, perché la camorra casertana investe a


Parma nel mercato immobiliare attraverso la famiglia
Zagaria, due, ed è questo il motivo principale per cui a
Napoli si racconta questo dolore, perché i boss ci tengono
a far sapere che anche loro soffrono per il rapimento di
quel bambino. E che mentre lo Stato non riesce a trovarlo,
loro stanno dicendo ai sequestratori: «Se lo fate ritrovare
a noi, in carcere non vi succederà niente. Toccatelo, e in
carcere vivrete l'inferno». Questo messaggio va su questi
giornali.

Questo è il dolore. Non il dolore dei familiari, i familiari


di Tommy Onofri, quelli di Dario Scherillo o di altri, un
dolore che, invece, nel migliore dei casi, verrà raccontato
solo molto più tardi e altrove.

Questo è il dolore che va comunicato, il dolore dei boss


che cercano di dire alla gente: «Noi siamo la parte sana,
noi sappiamo come vanno le cose, noi potremmo metterle
a posto».

In realtà, quando capita di avere a che fare con una guerra,


con una faida, col passare del tempo ne basta poco - si
impara a capire se la persona ammazzata è innocente o un
soldato di camorra. Si capisce da come reagiscono i
familiari. E una cosa fondamentale. I familiari di un
camorrista - la cui sofferenza, ovviamente, è tutt'altro che
finzione - arrivano sul luogo dell'agguato e sanno
esattamente quale dovrà essere il codice da adottare per
esprimere la propria pena. Molto spesso sarà un
comportamento da prefica: urlare, sbracciarsi, stracciarsi
i vestiti di dosso. Sarà anche l'occasione per dire a chi ha
fatto quell'omicidio: «Fermatevi qui. Avete toccato il
fondo. Non ammazzate altri figli, altri parenti. Fermatevi.
Il sangue versato è già tutto quello che c'era da versare».
E quindi, spesso, grandi sceneggiate - ribadisco,
espressione di autentico dolore - che così vanno fatte per
dire quel che va detto.

Ma il dolore di chi è vicino a chi muore innocente è


un'altra cosa. Quando fu ucciso Attilio Romano, i familiari
e gli amici ebbero una reazione del tutto diversa. Di
incredulità, di sgomento totale.

Attilio Romano fu ucciso perché lavorava come


dipendente in un negozio ascrivibile al lontano parente di
un boss. I killer arrivano e non trovando altri che lui, per
ritorsione gli sparano addosso.

A Dario Scherillo succede una cosa simile. Indossava


magari un vestito che ricordava vagamente qualcuno.
Chissà. Poco importa, l'essenziale è fare sangue. Non è
l'obiettivo ciò che conta, quello può persino essere
secondario: è il messaggio. Il cadavere è un messaggio, è
come un sacco che viene lanciato fuori dalla porta di
qualcuno, anche a casaccio. E li, quando arrivano i
familiari, assisti a scene strazianti: in quegli attimi, nella
tua testa c'è il vuoto. Le tue cellule urlano. Come
descrivere quella sofferenza ? Cosa fare ? Come si sta
quando succede una cosa del genere ? E il dolore, è la
dinamica del dolore, una dinamica che impari guardando
molte, moltissime guerre.

Quando si fanno considerazioni di questo tipo, viene


spontaneo interrogare la politica oppure domandarsi se in
quei territori, la gente, non sia tutta collusa, se non sfugga
tutta alle proprie responsabilità.

Domande legittime, anche se la realtà, spesso, è molto più


semplice: di queste cose, banalmente, è meglio non
parlare, perché parlarne è inutile. Nell'ultima campagna
elettorale, l'argomento «mafia» è stato sfiorato solo
sporadicamente.

Quasi nessuno schieramento ne ha parlato. Perché tutti


collusi? Forse. Perché nessuno lo era?

Forse. Ma in realtà soprattutto perché si aveva


l'impressione che la parte maggiore del Paese non fosse
interessata. Non c'era un piano, una strategia in questo
evitare di parlarne, ma soprattutto disinteresse,
indifferenza. Se parlo di criminalità organizzata a Roma, a
Bologna, a Udine, in Val d'Aosta, a Milano, a Cagliari,
chi mi ascolta penserà che sono storie del Sud, storie di
margine, con quei cognomi assurdi e quei soprannomi
maledetti, storie che non riguardano la maggioranza.
Probabilmente, in quei luoghi che si sentono al riparo, la
politica ha persino paura di affrontare l'argomento, perché
è un tema non solo rischioso, ma soprattutto perdente. Ma
se la politica ignora le mafie, non è vero il contrario. Le
mafie non ignorano affatto la politica, come testimoniano e
raccontano i quotidiani locali di cui stiamo facendo
conoscenza.

E la politica viene raccontata così, con titoli come questo:


Sandokan controlla quarantamila voti. La cosa più
interessante di questo titolo è il verbo al presente.

Sopra, in caratteri minori, c'è scritto: Ieri il pm Cafiero de


Raho ha parlato nella sua requisitoria.

La requisitoria cui si fa riferimento è quella del magistrato


Federico Cafiero de Raho, rappresentante dell'accusa, nel
processo Spartacus. La sua è stata una requisitoria
bellissima, un discorso epocale, per il più importante
processo di mafia, il cui primo grado non ha avuto un solo
rigo sui giornali nazionali.
Nel frattempo, invece, la stampa locale, di camorra e
politica ne parla eccome, ma non al passato, come ci
saremmo aspettati, dal momento che la requisitoria si
riferisce a fatti divenuti oggetto d'indagine e di un
processo. Sarebbe stato più corretto scrivere

« Sandokan controllava quarantamila voti» e non, come


invece si è scelto, «Sandokan controlla quarantamila
voti». Sandokan dal 41 bis, dal carcere duro, è in grado di
controllare adesso - tempo presente quarantamila voti. A
ciascuno la sua lettura.

Poi, a latere, c'è il racconto di una politica diversa, di una


politica che rischia tutto: Sindaco morirai.

La camorra alza il tiro. Perché se è vero che al Sud c'è


stata una politica di grande, talvolta enorme connivenza
con le mafie, è vero anche che è sempre esistita una
politica che, con mezzi scarsissimi, strenuamente, vi si è
opposta.

Perché diverso è fare il politico a Casal di Principe, a


Casapesenna, o in qualsiasi parte della Campania, della
Calabria, della Locride, della Sicilia che nel resto
d'Italia.

Sono mondi completamente diversi.


Nella mia terra, i politici non corrotti devono fronteggiare
un potere criminale che ha la forza di uno stato, che
produce il Pil di uno stato, che genera profitti pari a quelli
che genera uno stato.

Questo semplicemente per dire che, nei rari casi in cui


qualcuno volesse amministrare la cosa pubblica senza
cedere alle organizzazioni criminali, gli si distruggerebbe
la vita, con ogni mezzo. A Renato Natale, sindaco storico
di Casal di Principe, che stava lentamente trasformando il
paese, scaricarono tonnellate di sterco di bufala davanti
alla porta di casa. Ad Antonio Cangiano, vicesindaco di
Casapesenna che aveva deciso di non far vincere un
appalto, di non far arrivare il clan egemone dove voleva,
spararono alla schiena paralizzandolo per sempre e
condannandolo a una vita di enormi sofferenze.

La politica, in quelle terre, è molto complicata e quello di


cui si avrebbe bisogno li è attenzione costante.

La cosa più grave che possano fare la politica e


l'informazione nazionali, di fronte a queste vicende, è
mantenere il silenzio. E la cosa più grave che possano
fare gli elettori e i lettori italiani è consentire quel
silenzio, assecondarlo. Considerare le vicende criminali
storie che non ci riguardano oppure considerarle storie di
destra o di sinistra.
Sarebbe un errore gravissimo. Da adolescente ho avuto la
fortuna di vedere destra e sinistra - spesso nelle loro
forme più radicali - partecipare insieme alle stesse
manifestazioni contro la camorra. Insieme a far fronte
comune, sempre e comunque.

La legalità non dovrebbe essere il risultato della lotta


politica, ma la sua premessa.

Quindi non può esserci una legalità di destra o una legalità


di sinistra, così come non può esistere un'illegalità di
destra o un'illegalità di sinistra. Non avrebbe senso.

Quando mi è capitato di riflettere sul potere delle parole,


un potere che mira a trasformare le cose - o almeno io
credo profondamente che sia così - ho deciso di eleggermi
una persona che in nome di questa convinzione ha perso la
vita. Parlo di don Peppe Diana.

C'è una sua foto, a cui sono molto affezionato, che lo ritrae
mentre fuma il sigaro.

Quella foto mi piace per il messaggio che trasmette, un


messaggio di semplicità.

Perché li don Diana appare proprio com'era, come io lo


ricordo: un prete molto giovane, un prete anticonformista.
E poi c'è un'altra foto, che ho avuto solo di recente, in cui
don Peppe è ritratto insieme a un carabiniere, Salvatore
Nuvoletta.

E la classica foto di paese: carabinieri, il vigilè urbano, il


parroco. E come succede spesso a chi viene dalle mie
parti, quando vedi le foto scattate dieci, quindici,
vent'anni prima, non ti meravigli se in quelle foto
riconosci persone ammazzate.

Salvatore Nuvoletta era un carabiniere di stanza a Casal


di Principe e quando è morto aveva vent'anni. Fu ucciso
perché c'era stato un arresto.

Era stato arrestato un nipote di Francesco «Sandokan»


Schiavone, il cui soprannome era «Menelik», un altro di
quei soprannomi che non sai da dove saltino fuori. Un
arresto: fin qui, niente di straordinario. Ma durante
l'arresto, avviene una sparatoria e Menelik muore. Così il
clan dei Casalesi, considerando un agguato quello che
invece era stato un conflitto a fuoco, chiede la testa del
carabiniere che ha ammazzato il nipote del capo. La
responsabilità cade su Salvatore Nuvoletta che, il giorno
dell'arresto di Menelik, neppure c'era. Salvatore lo viene
persino a sapere che danno la colpa a lui e si decide a
parlarne con sua madre. Sarà lei a riferire ai magistrati la
conversazione che quel giorno ebbe con suo figlio:
«Mamma, qua dicono in giro che sono stato io ad avere
ucciso Menelik.
Chissà cosa mi succede?» La madre, come è normale, gli
risponde: «Salvato' vattene.

Vattene, lascia tutto per un bel po' e vai via». E qui


accade qualcosa che non so se sarò in grado di
descrivere.

In quel momento si innesca una sorta di eroismo


inconsapevole e Salvatore che ha vent'anni, che si è
appena arruolato, che è un ragazzo semplice, senza troppe
pretese né ambizioni dice: «Mamma, ma come ? Me ne
vado ? Io so' carabiniere ! » Vale a dire: «Come sarebbe a
dire che me ne vado? Sono un carabiniere, non me ne
posso andare». E poco dopo succede quello che tutti
sapevano sarebbe successo. Salvatore sta fuori a un
negozio del suo paese, con un bambino in braccio. Arriva
il comando di camorra; codardi, che sparano sempre a
uomini disarmati. Ci tengono a dare di sé un'immagine di
fierezza, di forza e invece sono solo dei codardi, perché
ammazzano Salvatore mentre è disarmato e ha un bambino
sulle ginocchia. Si sente chiamare Salvatore e quando ti
senti chiamare in quel modo, da quelle parti, sai che è
l'ultima cosa che sentirai. Allora spinge via il bambino,
subito.

Lo spinge via e loro lo massacrano.

C'è un'altra foto di Salvatore: è un'immagine bellissima in


cui si schernisce perché non vuole farsi fotografare. In
questa foto si vede chiaramente che Salvatore era solo un
ragazzo, un carabiniere giovanissimo. E ora interrogatevi
sul perché nessuno vi ha mai raccontato questa storia. Sul
motivo per cui non avete mai sentito il nome di questo
carabiniere di vent'anni condannato a morte dalla
camorra. Riuscite a rendervi conto di cosa significhi non
andarsene, pur sapendo di essere condannati?

E non farlo per eroismo. E non farlo forse nemmeno per


un senso del dovere astratto, ma perché così deve essere,
perché così è giusto. Il nome di Salvatore non l'avete mai
sentito perché quando la camorra uccide non lo fa solo
con le pallottole.

La camorra uccide con la diffamazione. Ti elimina


distruggendo la tua immagine.

Salvatore dopo la morte ha avuto sfortuna: un dettaglio


che in realtà non voleva dire niente, perché comune a
molti paesi. Aveva un cognome, Nuvoletta, che è identico
a quello di una potente famiglia mafiosa.

I Nuvoletta di Marano, responsabili dell'assassinio di


Giancarlo Siani, giornalista ventiseienne del «Mattino»
ucciso nel 1985. I Nuvoletta sono di Marano come
Salvatore e portano lo stesso nome.
Allora i Casalesi cosa fanno ? Lentamente iniziano a far
circolare voci che presto si diffondono tra i cronisti e i
politici locali: «Ma no, questo è un parente», «L'hanno
ucciso perché è legato a...» E così che si infanga un nome,
è così che si induce al silenzio. Ovviamente i magistrati
non ci credono, la gente che lo ha amato non ci crede,
l'Arma non ci crede. Ma nell'ambiente dell'informazione
la diffidenza è stata immediata. E quando la diffidenza
dura anche solo un giorno, la calunnia trova un varco
attraverso cui passare.

Poi arriva un altro morto, e con lui un'altra storia, un'altra


inchiesta, un'altra vicenda.

E la memoria di Salvatore Nuvoletta è ormai sepolta.


Probabilmente questa è la prima volta che si parla di lui;
un'ingiustizia gigantesca per un ragazzo che ha fatto una
scelta di coraggio.

E la prima volta soprattutto perché la stampa locale è


impegnata a occuparsi d'altro: Era l'orgoglio di zio
Sandokan. Non si tratta di Menelik, ma di un altro nipote
di Sandokan. E anche in questo caso, quel che interessa è
il dolore del boss. Cosa sarà mai successo al «guaglione»
che era l'orgoglio di suo zio? Ce lo spiega il sottotitolo: Il
guaglione fermato a Formia mentre cercava di piazzare un
chilo di cocaina. E il figlio di Gaetano Corvino eletto
consigliere comunale a Casale dieci anni fa. E sopra: Il
nipote di Francesco Schiavone arrestato da un maresciallo
infiltratosi nel clan. Ecco il sottotesto trasmesso dalla
cronaca: il nipote di Sandokan, nonostante fosse l'orgoglio
del capo dei capi, si è fatto fregare da un maresciallo
infiltrato. E il dolore, ancora una volta, non è certo quello
per Salvatore, carabiniere coraggioso e ragazzo innocente,
ma il dolore di Sandokan colpito nell'orgoglio.

Immagino che in questo momento, chi ha avuto la forza di


seguirmi sino a qui, si stia chiedendo come sia possibile
che non abbia mai sentito parlare di tutte le persone che
ho nominato. Dario Scherillo, Francesco Iacomino, Ciro
Leonardo, Salvatore Nuvoletta, nomi che spero non
dimenticherete più, storie fondamentali per il Paese in cui
a me piace identificarmi. Storie che sono passate sotto
silenzio per tanto di quel tempo che non sembrano mai
esistite. O addirittura sono state distrutte, diffamate, come
quella di Salvatore. Ma perché si arriva a distruggere un
morto ? Il motivo è molto semplice, perché se a quella
persona si toglie solo la vita, se si permette che di lei resti
un'immagine forte, viva, allora quella persona, e la sua
storia, possono diventare pericolose. Se fosse stata
raccontata, la morte di Salvatore Nuvoletta avrebbe
certamente mostrato l'immagine di un paese in guerra, ma
in una guerra dove esiste chi si oppone, in cui esistono i
margini per contrastare le organizzazioni criminali. E
allora è meglio diffamare.
E meglio far vedere che siamo tutti uguali, che qui è tutta
mota, melma, che è tutto fango, che è tutto schifo. Nessuno
si distingue e, anzi, chi si distingue, lo fa per interesse
personale.

Ed ecco un titolo che vi farà rabbrividire, almeno a me ha


fatto quest'effetto: Don Diana a letto con due donne.
Quando è stato ammazzato don Diana, io ero un ragazzino
di quindici anni e lui, com'è normale per un adolescente,
mi sembrava un uomo, un adulto. Solo adesso che sono
vicino alla sua età - quando è morto aveva trentacinque
anni - mi accorgo che era giovane, che era un ragazzo.

Uccisero don Peppe e subito iniziarono a diffamarlo.


Questo è il motivo per cui, negli anni, non ne avete sentito
parlare, diversamente da come è accaduto per padre
Puglisi, un altro eroe dell'antimafia.

Don Pino Puglisi era prete al Brancaccio, un quartiere


difficile di Palermo e la sua storia, la storia di un prete
ammazzato da Cosa Nostra, è stata difesa dal suo
quartiere, dalla sua gente e dalla Sicilia che sa farsi
sentire, che riesce a far passare verità che la mafia
vorrebbe, invece, tenere sotto silenzio. Poi viene girato un
film su di lui e i primi libri che raccontano la sua vicenda
escono immediatamente. E

immediatamente, tutti in Italia possono sapere chi ha


ucciso don Puglisi e perché.

Anche li, come altrove, si è cercato di raccontare un'altra


versione dei fatti. Ma quella verità, fortunatamente, è stata
smascherata come diffamazione.

Quindi don Peppe Diana viene diffamato subito dopo la


sua morte, come è normale per vicende del genere: è la
prassi. C'è una frase che mi gira spesso in testa: «Perché
il male trionfi, basta che gli uomini del bene non facciano
niente». Non dice: «che collaborino col male». No, dice
solo che non devono fare niente. Questa è condizione
sufficiente per far trionfare certi poteri. Un caso come
quello di don Peppe è la palese dimostrazione di questa
triste verità, perché quando accade che un uomo si
distingua per le scelte che ha fatto e queste scelte le paga
addirittura con la vita, gli uomini del bene stanno male. Si
sentono male perché comprendono che loro, invece, sono
stati fermi.

Allora, per sentirsi un po' meglio, per sentirsi un po' meno


in colpa per non aver fatto niente, ci si comincia a dire
che don Peppe non era affatto uno che s'era messo contro.

Ci si comincia a dire che era un uomo come tanti, che anzi


era uno di loro, e che è stato ammazzato quasi per caso. E
così diventa facile diffamare perché c'è già, in qualche
modo, una predisposizione. Nella fotografia pubblicata a
corredo di quell'odioso titolo, don Peppe, semplicemente,
abbraccia due ragazze.

Due scout, credo, perché lui stesso era uno scout.

Una delle due ragazze, che ora è una donna, una moglie e
una madre, dirà che quel titolo le è rimasto dentro, quel
titolo che la indicava come amante di don Peppe, per
diffamarlo.

E sempre il «Corriere di Caserta» pubblica un articolo


dal titolo incredibile: Boss playboy. De Falco re degli
sciupafemmine. De Falco è colui che ha ordinato
l'esecuzione di don Peppe Diana. Il titolo verte sul fatto
che lui sia un grande amatore o, come si dice dalle mie
parti, uno sciupafemmine.

E l'articolo è una sorta di classifica dei boss più amati


dalle donne. Nello stesso contesto, si tira in ballo anche
un altro boss, che ha partecipato a diversi agguati:
Piacenti secondo in classifica, si è sposato cinque volte.
Michele Zagaria solitario.

E ancora: O Lupo tra realtà e leggenda. Ha avuto sette


mogli e dodici figli. Un modo per raccontare che i boss
sono belli, che piacciono, che hanno tante relazioni e che
le donne impazziscono per gli uomini che rischiano e sono
capaci di fare grandi affari.
Ecco chi è il mandante dell'omicidio di don Diana: «Il re
degli sciupafemmine».

Don Peppe Diana viene ucciso il giorno del suo


onomastico, nella sua chiesa. Lo chiamano per nome,
perché il killer, Giuseppe Quadrano, non lo vede in abiti
talari e quindi non riesce a riconoscerlo. Allora chiede:
«Don Peppe chi è?» Lui si gira e lo massacrano. Don
Peppe aveva scritto delle parole forti contro i clan. Don
Peppe era stato ucciso perché una parte del clan De Falco
voleva dare un segnale forte al clan dominante, gli
Schiavone, e dimostrare che non aveva paura di questo
prete che continuava a dire che non si può essere preti
senza denunciare. Il clan De Falco voleva dimostrare che
aveva la forza e il coraggio di ammazzare quel prete che
non valeva niente, per sancire, una volta per tutte, la
propria superiorità.

Lo ammazzano e immediatamente c'è uno scandalo, che


però viene subito soffocato.

Per anni non ci sono libri, per anni non ci sono servizi su
di lui, per anni questo ragazzo di trentacinque anni
ammazzato dalla camorra resta nei cuori di chi è li, delle
persone che gli hanno voluto bene, dei giornalisti che lo
hanno seguito, di qualcun altro cui era giunta la sua storia
e che ha voluto proteggerla e ricordarla.
Tutto questo silenzio è generato non solo
dall'atteggiamento dei camorristi - cosa di cui del resto
non possiamo stupirci - ma soprattutto dall'atteggiamento
di chi è sempre disposto a credere che pensando al
peggio, in genere, non ci si allontana dalla verità.
Addirittura si arriva a scrivere: Don Diana era un
camorrista. Confesso, di fronte a questo titolo ho avuto
paura. Se si può scrivere questo di un uomo di
trentacinque anni, ammazzato dalla camorra, di un prete
ammazzato in chiesa, cosa si può dire di tutti gli altri, di
tutti quelli che osano andare contro ? Don Peppe Diana
era un camorrista: così, con la diffamazione, lentamente lo
distruggono. Sapete cosa si diceva? Si diceva che era
stato ucciso perché toccava le donne, perché si era
rifiutato di celebrare il funerale di uno di loro.

Oppure che l'avevano ucciso perché conservava delle


armi del clan nemico.

Ma la verità è un'altra, anche se qualcuno osa ancora


metterla in discussione. La verità è che don Peppe aveva
scritto un documento insieme ad altri parroci della forania
di Casal di Principe dal titolo meraviglioso: Per amore
del mio popolo non tacerò. E questo documento lo
condanna a morte, perché scrive che non sarà più
possibile essere preti senza raccontare, far conoscere,
prendere posizione, distruggere il potere criminale. Hanno
detto che era un camorrista, uccidendolo così una seconda
volta. Hanno detto che era un camorrista di un uomo che,
invece, ci ha consegnato queste parole: «Si muore per un
si e per un no. Si dà la vita per un ordine: perché qualcuno
l'ha deciso. Fate decenni di carcere per raggiungere un
potere di morte.

Guadagnate montagne di denaro che investirete in case che


non abiterete. Investite in banche dove non entrerete, in
ristoranti che non gestirete, in aziende che non dirigerete.
Comandate un potere di morte cercando di dominare una
vita che consumate nascosti sottoterra, circondati da
guardaspalle. Uccidete e venite uccisi, in una partita a
scacchi i cui re non siete voi, ma coloro che da voi
prendono ricchezza, facendovi mangiare l'uno con l'altro,
fin quando nessuno potrà fare scacco e ci sarà una sola
pedina nella scacchiera, e non sarete voi.

Quello che divorate qui lo sputate altrove, lontano,


facendo come le uccelle che vomitano il cibo nella bocca
dei loro pulcini. Ma non sono pulcini quelli che imboccate
voi, ma avvoltoi. E voi non siete uccelle ma bufali, pronti
a distruggersi in un luogo dove sangue e potere sono i
termini della vittoria. Insomma, è giunto il tempo che
smettiamo di essere una Gomorra».

25 marzo 2009.

Saviano e il potere della parola


di Walter Siti.
Saviano, coi suoi libri e col suo esempio, pone un
problema cruciale che è quello del potere della parola.
Da molto tempo, ormai, le parole si mostrano usurate
dalla marea montante della comunicazione; la parola
letteraria, in particolare, dissipata in mille travestimenti e
umiliata dalla forza delle immagini, ha preso la strada
dell'intrattenimento sempre più effimero e tranquillizzante.
Come in ogni processo di assuefazione, gli scrittori
reagiscono in vari modi: con un'escalation di contenuti
hard, o con formalismi stuzzicanti, o gareggiando col
cinema. Saviano, all'inizio non del tutto consapevolmente,
ha seguito un'altra strada, più impegnativa e alta: ha messo
in gioco il proprio corpo e la propria vita per garantire
efficacia alla scrittura.

L'alternativa di cui ci parla ci lascia senza fiato: bisogna


scegliere, o vita o autorevolezza - le due cose insieme, nel
sistema presente, non si danno.

Come non ricordare (certo, in tutt'altro modo) la strategia


dell'ultimo Pasolini ? In entrambi (ripeto, per ragioni
differenti) è incistata l'idea di una insufficienza della
letteratura; il reale è più forte, irrappresentabile,
imprendibile e minaccioso. E allora bisogna diventare
qualcosa di più e qualcosa di meno di uno scrittore: un
testimone, un'icona vivente. Bisogna raggiungere, nel
mondo della realtà, quel che certi grandi attori riescono
ad acquisire in teatro e che si chiama presenza. Quella
qualità che viene prima di qualunque testo recitato,
quell'energia (o quell'aura) per cui - con cinque attori
sulla scena - tutti guardavamo Eduardo muto e girato di
spalle. Quel carisma per cui si crea un'attesa della parola,
e per cui la parola, quando arriva, possiede un peso.
Saviano ha saputo (dovuto?) attraversare le zone
pantanose del successo e quelle dolorose della solitudine
blindata, per filtrare il proprio lavoro e farlo diventare
questo: la conquista di una presenza.

Lo si capisce bene nella 'lezione' televisiva che ha tenuto


nel programma di Fazio; una lezione dove il testo è
importante, è ovvio, ma dove conta altrettanto il corpo di
Saviano (il viso bizzarramente simile, tra l'altro, a quello
di Enrique Irazoqui, lo studente basco che fu scelto da
Pasolini per impersonare Cristo nel suo Vangelo); dove
contano le pause, le impuntature, le commozioni a stento
trattenute - e le foto proiettate («come se le tenessi nello
stomaco, queste foto, da tre anni»). Foto di ragazzini che
guardano i morti. Qui Saviano è nella situazione aurea del
narratore: un cantastorie che parla della sua terra offesa e
la racconta a chi non la conosce. La racconta a chi non
vuol sentire, dicendogli «ascolta, ti conviene ascoltare
perché in questa terra apparentemente lontana accadono
eventi terribili che ti riguardano da vicino».
Racconta da una zona di guerra: esperienze al limite,
emergenza, ma anche una stravolta quotidianità (le spigole
che nuotano nel Volturno, gli innocenti che non sanno
piangere perché non possiedono il know-how del
dolore...) Il meraviglioso degli antichi cantari si
congiunge all'urgenza dell'attualità politica: la qualità
letteraria di Saviano si misura sulla capacità di tenere
aperta la meraviglia squadernando la cronaca, e di
condensare la verità saggistica in emblemi allucinatori.

D'improvviso vediamo, come se fossimo li.

Saviano non è un letterato, è un intellettuale: dalla propria


esperienza di scrittura trae, e vuole trarre, indicazioni
teoriche. Che vanno, pare, verso un engagement della
parola: della parola che cambia il mondo, o almeno ci
prova. La parola letteraria però è come un'anguilla, non si
lascia indirizzare tanto facilmente. Forse sono io che
iperinterpreto, ma ho avuto l'impressione che l'unico
inciampo, l'unica volta che perde il filo in un monologo
che va dritto come una freccia, sia quando Saviano parla
del dolore dei boss per il rapimento del piccolo Tommy;
in lui prevale lo sdegno, che i giornali locali parlino di
quel dolore dubbio e forse ipocrita, invece che di altri
dolori più nobili. Si preoccupano per Tommy proprio
loro, che in altre circostanze non esitano a uccidere
piccoli innocenti.
Eppure, se la letteratura facesse fino in fondo il suo
dovere, se anche in questo caso ci trasportasse in casa dei
boss in quel momento {come se fossimo li), chissà che
non potesse coglierli in un atto di sia pure perversa
generosità, di contraddittoria autenticità umana ?

La parola letteraria non ha soltanto un potere materiale e


politico (di far tremare, se virtuosamente diffusa,
organizzazioni potenti e Stati interi); ha anche un potere
magico perché evocativo - ci trasporta in uno spazio
immaginario, ci fa essere un certo personaggio.
L'identificazione è una figura retorica che ha la stessa
natura della metafora; se ravviso in un personaggio
letterario dei tratti comuni al mio io, ecco che io non dico
semplicemente «quel personaggio mi riguarda», ma fin
che dura la lettura io stesso divento lui - secondo un
meccanismo di falsa logica che parifica la parte all'intero
e che gli psicanalisti hanno descritto come la logica tipica
dell'inconscio.

Nessuno può controllare il proprio inconscio, e tanto


meno l'inconscio sociale; la parola letteraria è scivolosa
perché può indurre chi legge a identificarsi col male
invece che col bene. Saviano, parlando del rapporto tra
autore e lettori, usa a un certo punto un'espressione
interessante: dice che il lettore, facendo sua una storia,

«protegge» un libro.
Lesfleurs du mal non. furono 'protetti' al loro apparire; li
hanno protetti i posteri, che a distanza di sicurezza
potevano permettersi di guardare quel che ai
contemporanei di Baudelaire faceva paura. L'engagement
deve allargare i suoi polmoni fino a includere anche
l'engagement nero, o infernale: quello che milita dalla
parte della pigrizia, della dipendenza, dell'ossessione -
quello che non guarda alla storia visibile ma alla storia
profonda, la storia degli incubi e dei sottosuoli. Pasolini
non ebbe paura di scendere nel suo Salò.

C'è un altro piano teorico che appare scivoloso, questo


non per responsabilità di Saviano ma dei suoi detrattori;
rivolgendogli le medesime accuse che furono rivolte al
neorealismo ('sporcare' l'immagine dell'Italia, lavare in
pubblico i panni sporchi eccetera), rischiano di affibbiare
un'etichetta neo-neorealista a Saviano stesso. Mentre mi
pare chiaro che il talento di Saviano sta piuttosto dalla
parte della visionarietà; lo credo perfettamente
consapevole del fatto che la letteratura è finzione, e che la
tecnica di rendere indistinguibile il vero dal fittizio è
omologa (dunque per niente antagonista) a quel filone del
potere mediático teso a convincerci che il finto abbia più
appeal del vero.

Ma non si può rinunciare al duello solo perché la scelta


delle armi è toccata all'avversario. La leggerezza ha i suoi
piaceri e le sue ragioni (forse anche a Saviano piacerebbe
potersi abbandonare a qualche scrittura frivola e ludica,
magari sciocca); ma forse è vero che questo non è il
tempo per giocherellare.

La domanda che Saviano rivolge a tutti quelli che hanno


licenza di parola è da intendere in senso forte: «perché tu
non racconti?» (cioè «perché, invece di trastullarti con la
letteratura, non ti sforzi di conoscere e poi di riferire?»).

La voce e il silenzio
di Aldo Grasso.
Costretto a raccontare. Per impegno civile, certo, ma
anche per continuare a vivere.

Costretto ad apparire. Per mostrare l'inferno in cui


viviamo, e per non precipitarvi, spinto da qualche mano
vile. I libri e le apparizioni televisive di Roberto Saviano
rappresentano la sua condizione di libertà, una garanzia di
vita, un requisito esistenziale (la visibilità è l'ultima
barriera contro la criminalità organizzata).

Come Sharàzàd, costretta a escogitare un trucco per


salvarsi. Si narra che il re persiano Shàhriyàr, essendo
stato tradito da una delle sue mogli, decise di uccidere
sistematicamente le sue spose al termine della prima notte
di nozze. La bella Sharàzàd andata in sposa al re, cerca
una via di salvezza nella letteratura: ogni sera racconta al
re una storia, rimandando il finale al giorno dopo. Va
avanti così per mille e una notte; e alla fine il re,
innamoratosi, le rende salva la vita. Difficile pensare che
la camorra si redima, ma intanto... Sharàzàd aveva letto i
libri, le storie, le gesta dei re antichi, e le notizie dei
popoli passati, tanto che si dice avesse raccolto mille
libri di storie: «Sharàzàd aveva raccomandato alla sorella
minore: - Quando andrò dal re, manderò a cercarti.

Quando tu sarai venuta, e vedrai che il re sarà stato


insieme a me, tu dici Sorella, raccontaci una storia con cui
passare la veglia, e io ti racconterò una storia, in cui, se
Dio vuole, sarà la salvezza».

Saviano ha disvelato il sistema con cui la camorra tiene


sotto scacco una parte consistente del nostro Paese e ora
vive protetto dai carabinieri della scorta. Vive perché i
libri e la televisione gli permettono una visibilità che la
camorra vorrebbe negargli. Ricordo che una volta, ospite
di Daria Bignardi, ha detto, ha parlato a lungo, ha cercato
di farsi coraggio perché ogni giorno deve affrontare entità
invisibili, ma non per questo meno devastanti, come la
calunnia, il rancore, la diffamazione.

E infatti le cose più tremende, inquietanti, spaventose le


hanno dette altri. In un paesino del Nord, in provincia di
Lecco, alcuni abitanti interrogati sui militari caduti a
Kabul hanno liquidato la faccenda come una questione di
soldi: lo fanno per denaro, quindi... «In certe terre - ha
risposto Saviano - o fai il camorrista o sei disoccupato a
vita e l'esercito ti permette a volte anche di specializzarti.

Ecco perché spesso i nostri ragazzi sono tutti meridionali


ed ecco perché al Sud si è sempre in guerra». Ma le
parole più allarmanti sono state pronunciate da un gruppo
di ragazzi di Casal di Principe che hanno accusato
Saviano di aver scritto il libro solo per fare soldi:
«Dovrebbe vergognarsi!
» Hanno anche aggiunto che la camorra non esiste. Al
massimo, «se c'è, non si vede».

Il mito della sopravvivenza attraverso la letteratura è


anche racchiuso nella novella della rovina di Kasch.
Questa storia è stata raccolta nel 1912 da Leo Frobenius.
Che scrive in una lettera: «La favola della rovina di
Kasch non può che essere tarda, molto tarda, il ricordo di
uno stato delle cose da lungo tempo scomparso: un
ricordo di quel tempo in cui gli uomini con abnegazione
totale, che giungeva sino al dono di se stessi,
'inscenavano' il destino degli astri; ma non appartiene
all'epoca in cui quell'atteggiamento è fiorito, bensì a
quella in cui già appassiva, - quando negli uomini la
commozione si era appannata e cominciavano tutti a
cedere al bisogno di formare concetti, a scapito della loro
vitalità. Nel suo insieme, questa è già una raffigurazione.
L'idea di ciò che è storico qui ha preso vita».

La leggenda della rovina di Kasch narra di un regno


africano dove il re veniva ucciso quando gli astri
raggiungevano certe posizioni celesti. Farli-Mas, un
narratore venuto dall'Oriente, salva sé stesso, la sua amata
e il re incantando con le sue storie i sacerdoti incaricati di
seguire il corso degli astri. Questi si confondono, non
riescono a stabilire con esattezza la data dell'uccisione
rituale del re e il sacrificio è rinviato per sempre.
Frobenius dice che la storia gli è stata narrata non da un
raccontatore professionista, ma da un cammelliere, Arach
ben Hassul, originario del Dar For, che si riferiva al
mitico regno di Kasch, che «viveva una volta nel
Kordofan come il Mandi».

Quando venne pubblicata in Atlantìs, ci si accorse che era


la storia di Sharàzàd intessuta con maggior finezza e con
riferimenti molto più antichi.

Con Farli-Mas si esce dalla vita e si entra nella


letteratura. O viceversa. Il racconto rappresenta infatti
l'inizio del processo che separa e laicizza funzioni
essenziali della vita civile, senza più sacrifici umani.
Come pretende ancora la criminalità organizzata.

Ricordo che un'altra volta, ospite di Fabio Fazio, Saviano


ha pronunciato un'orazione civile.

Non una semplice, se pur dura, requisitoria contro la


camorra. No, qualcosa di più: teatro, lezione sui media,
recital, inchiesta. Al culmine dell'indignazione c'è stata
persino un'interruzione pubblicitaria, a sancire il carattere
epico-mediatico del sermone. E del resto, nel corso della
serata, Saviano ha rivendicato il suo diritto di scrittore,
non di cronista. La voce contro il silenzio: la sua tesi
principale è proprio questa. Nonostante buona parte della
nostra vita si svolga in un ambiente dominato dai media,
la criminalità organizzata «vive di un silenzio spesso
colpevole perché non permette al Paese di capire cosa sta
succedendo». E la parte più interessante è stata quella
dedicata all'analisi dei giornali locali che dimostrano,
almeno nella titolazione, una strana confidenza con il
mondo dei boss. Saviano fa vita da recluso, scortato
giorno e notte. Non nasconde la sua paura. La camorra
aspetta solo che finisca nel dimenticatoio, che la luce si
spenga (la luce dei media, la luce della visibilità, la luce
della giustizia) per regolare i conti.

Come gli ha suggerito lo scrittore Paul Auster, presente in


studio: «Il mondo è la pagina che scrivi».

Nella celebre apertura del Libro del riso e dell'oblio,


Milan Kundera racconta come in Cecoslovacchia ogni
bambino conoscesse una celebre foto ufficiale: era quella
che ritraeva il dirigente comunista Klement Gottwald
circondato dai suoi compagni.

Faceva freddo a Praga, cadevano grossi fiocchi di neve, e


Gottwald era a capo scoperto.

Clementis, altro famoso dirigente, premuroso, si tolse il


berretto di pelliccia che portava e lo posò sulla testa di
Gottwald: «Quattro anni dopo Clementis fu accusato di
tradimento e impiccato. La sezione Propaganda lo
cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente,
anche da tutte le fotografie.

Da allora Gottwald, su quel balcone, ci sta da solo. Li


dove c'era Clementis c'è solo la nuda parete del palazzo.
Di Clementis è rimasto solo il berretto che copre la testa
di Gottwald». Nelle pagine di Kundera, forti come e più
delle passioni, si vedono agire quegli agenti dell'errore
universale, di cui si comporrebbe la storia; il loro
compito principale è quello di fomentare l'opera
dell'oblio: 'l'angelo della rapina' presiede sovrano.

Nulla sembra sopravvivere, ogni sopravvivenza, ogni


ricorso è puramente simbolico; la nuda parete del palazzo,
la cancellazione di una porzione della fotografia sono
gesti abituali e quotidiani di una incomprensione che
attanaglia tutti: uomini e cose, parole e gesti. Per andare
avanti, ci è solo concesso di dimenticare.

Milan Kunder a inserisce la parola oblio nel suo scarno


dizionario personale, un dizionario fatto di parole-chiave,
parole-problema, parole-amore: «Prima di diventare un
problema politico, la volontà di oblio è un problema
antropologico: da sempre l'uomo conosce il desiderio di
riscrivere la propria biografia, di cambiare il passato, di
cancellare le tracce, le proprie e quelle degli altri».

Nella catena di abbagli, incomprensioni e soprusi in cui


forzatamente si muovono molti dei suoi personaggi,
Kundera ci fa assistere a un'opera di progressiva
spoliazione del memorabile da parte dell'angelo della
rapina: «Si, all'improvviso mi fu chiaro: la maggior parte
della gente si inganna con una duplice fede errata: crede
nella memoria eterna (delle persone, delle cose, delle
azioni, dei popoli) e nella riparabilità (di azioni, errori,
peccati, ingiustizie).

Sono entrambe fedi false. In realtà avviene proprio il


contrario: ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto
rimedio. Il ruolo della riparazione (della vendetta come
del perdono) sarà assunto dall'oblio. Nessuno rimedierà
alle ingiustizie commesse ma tutte le ingiustizie saranno
dimenticate».

Saviano è stretto fra la voglia di ricordare e di denunciare


(le malefatte della camorra) e il desiderio di dimenticare
(il proprio scontento, la propria condizione di 'libertà
vigilata'). Ma una nuova ansia, finora sconosciuta, sembra
stringerlo. L'incessante cascata di informazioni genera una
duplicazione senza sosta della realtà, tanto che si
dimentica - si deve dimenticare - continuamente ciò che è
vero e ciò che è falso.

L'eccesso di informazione e di conoscenza non genera più


cesure, tagli, pause.

L'indistinguibilità è l'unico carattere dell'informazione: il


senso della comunicazione si annichilisce, precipitato
nella notte dei tempi, per sovrabbondanza dei segni. Il
troppo è assenza, è vuoto, è oblio. La ricaduta inesausta
del sapere è acqua del Lete che avanza, senza che nessuno
la invochi, la desideri. Solo la letteratura (non la politica)
può ergersi come una diga.

Ma solo Sharàzàd e Farli-Mas sanno come.


Convivenza o connivenza
di Paolo Fabbri.

Una spina nella carne: ecco il mio «effetto Saviano».

Vorrei capire meglio perché.

Innanzitutto perché mi aiuta a intendere prima di


giudicare. Contro le organizzazioni criminali è fin troppo
facile tonner contre, come nello sciocchezzaio di Flaubert.
Per poi cliccare subito ad altro.

Immorale è il giudizio senza la comprensione e Saviano ci


vuole 'compresi', in tutti i sensi della parola.

Le mafie o le camorre, non sono soltanto associazioni di


mutuo soccorso che sfruttano ogni tipo di illegalismo a
spese della società civile e a vantaggio dei propri
membri. Sono antisocietà con ideologia e subcultura;
capacità di innovazione nell'illecito sfruttamento delle
ricchezze e invenzione 'militare'; gerarchie flessibili di
potere e di gruppi di fuoco. Parlarne non è descrivere un
fenomeno di folclore locale, ma additarne la
globalizzazione potenziale; i mafiascapes. Per il giudice
Falcone, se ci esprimessimo in esperanto la mafia sarebbe
già mondializzata.
Saviano non si ferma però alla requisitoria contro la
connivenza politica e l'industria della protezione; descrive
una cultura, con i suoi codici, linguaggi e segni. Se si
arrovella sulle parole, come dice, è perché va in guerra
dentro il linguaggio stesso delle organizzazioni criminali
(«arrovellare» viene dal latino re-bellare, «rinnovare il
conflitto»).

Contro la prova di forza che impongono, contro il silenzio


intimidatorio, Saviano non si limita all'asserzione e
all'antitesi, diventa traduttore. Ci spiega fino al dettaglio
la grammatica criminale e il suo lessico - soprannomi,
pseudonimi e prestanomi compresi. Soprattutto i modi di
dire e non dire; le perifrasi, per evitare le intercettazioni e
i controlli; il dir troppo degli «infami» e il venire a
parole; le presupposizioni e gli impliciti, le allusioni e i
silenzi.

Ma anche i gesti e gli sguardi, i segni di minaccia (porte


incendiate, modi di ferire e di uccidere, cadaveri,
escrementi, cartelli stradali bucati, ecc). Un'intera
semiotica letale. Falcone avrebbe detto: una chiave di
lettura essenziale, un linguaggio, un codice. E stato per noi
come un professore di lingue che ti permette di andare dai
turchi senza parlare con i gesti.

Saviano ci forza a non chiudere gli occhi - che è


l'etimologia di connivenza -, le orecchie e a non turarci il
naso, perché questo codice criminale è contagioso e
definisce il senso e il valore delle esperienze quotidiane
di vita, come dimostra la sua lettura dei media locali.
L'apparente normalità è una maschera.

Saviano è una spina nella carne perché configura tutti


questi segni in una filza di storie di cui possiamo
appropriarci. Per estrarne un senso e rifigurarlo nella
nostra esperienza. Come il Sandokan, epicamente narrato
da Nanni Balestrini.

L'enunciazione letteraria non si riduce alla denuncia:


attraverso la singolarità dei racconti può spostare un
sistema di parole e ridefinirne il senso. E resistere alla
capacità di diffamazione e delegittimazione delle
organizzazioni criminali. Per questo, nonostante le nuove
tecnologie della comunicazione, i libri forse ci
lasceranno: non si spalancheranno e non voleranno via.

Esponiamo ora Saviano al fuoco amico della critica


massmediatica. E davvero efficace usare le immagini al
livello più basso di comunicazione televisiva?

Sollecitare in prima serata quella pietà per le vittime


innocenti che è pietanza quotidiana dei palinsesti per
l'indigestione delle indulgenze e dei perdoni?

L'indignazione è un bene limitato e bussare alle coscienze


con le unghie produce alla lunga l'anestesia e il cinismo.
In una tv che non è più un'istituzione pubblica, restituire la
dignità storica alle vittime del crimine suscita solo
compassione privata, può attivare la carità, non la
giustizia.

Di nuovo la risposta si trova nella raffigurazione delle


storie, nella capacità di suscitare una pietà singolare
piuttosto che la compassione astratta delle ragioni
istituzionali. Non è vero che tutti i messaggi si
equivalgono nel medium. Almeno quando si tratta di
testualità testimoniale: quella di un testimone a rischio. I
protagonisti dei racconti non sono soltanto le vittime, ma i
testimoni attivi.

(Penso ancora a Falcone e ai suoi colleghi che scrivevano


nelle giornate tediose di Palermo i propri, truculenti,
necrologi). Saviano ci appare a volte come il salvato in un
mondo di sommersi (Levi) verso i quali ha assunto un
debito collettivo. Non è un testimonial dell'«etica della
convinzione». La sua è un'intimazione a non isolarci nella
ricezione mediática, ma ad entrare in contatto. Un atto di
linguaggio per vincere la serenità dell'inazione, per aver
paura d'aver paura e vergogna d'aver vergogna.

Senza sentimentalismi, ipertrofia mediática delle


emozioni. Il testimone, come nella corsa sportiva, è un
segno di azione collettiva, un passaggio di mano in mano.
Una convivenza, non una connivenza.

Vorrei toccare o farmi toccare da un ultimo punto.


Saviano non ha solo i destinatari generalisti dei suoi libri,
delle sue foto e delle sue parole.

Si arrovella per spiegare ai giovani, potenziali affiliati


delle organizzazioni camorriste e prime vittime delle loro
guerre, che c'è un'alternativa: la felicità.

La felicità personale e quella di quanto sta loro intorno di


società e natura.

Compito altrimenti difficile. C'è un'attrattiva dei codici


forti in una comunità in crisi di cittadinanza e in crescita
di appartenenze locali. In una società disaffiliata - dove la
crisi degli stili di esistenza, flessibilità, mobilità, hanno
provocato slittamenti di fiducia e di fede - restano fermi il
familismo (amorale) e il clientelismo. Oltre al benessere
ottenuto, con grande iniziativa imprenditoriale, negli affari
internazionali, l'organizzazione criminale offre
un'immagine di spietata organizzazione e di efficienza, di
obbedienza e di crudele professionalità. E di relativo
ordine nella collettività, a copertura di loschi affari.

Falcone diceva di aver appreso da questi «peggiori


cartesiani» (Sciascia), più efficienti della macchina
statale, delle lezioni di moralità istituzionale !
Come resiste al fascino spaccone del racconto, quello
delle «gesta» criminali, un giovane che non trova risposte
ad una domanda di destino; che gode di un lusso
improvviso, anche se effimero, e preferisce essere
invidiato piuttosto che commiserato ? Proponendogli altre
storie. Racconti di altre forme di vita: di resistenza alla
camorra certo, e di benessere legittimo. Ma la giovane
felicità non è solo soddisfazione: ha una tensione, un gusto
di superare gli ostacoli, un sapore di vittoria.

Che questa spina nella carne stimoli la letteratura a


rispondere a questa domanda di felicità.

Dentro e fuori dalla caverna


di Benedetta Tobagi.
La tv è rotta. Maledizione. Non voglio proprio
perdermelo, così faccio qualcosa che non usa più,
specialmente in una metropoli fredda e impersonale come
Milano: suono alla porta della mia anziana vicina di
pianerottolo per chiedere ospitalità.

Curiosa riedizione di una scena molto anni Cinquanta,


quando il giovedì sera tutti si radunavano presso le
famiglie in possesso di un apparecchio a vedere Lascia o
raddoppia?, mi ritrovo seduta nel tinello di un'adorabile
signora che ama i gatti, ma per sentir parlare di camorra
per quasi due ore.

La cornice insolita si rivela perfetta per consumare un rito


televisivo che sembra uscito da un altro tempo eppure ha
tratti di forte novità.

Si dice sempre che la televisione plasma la realtà a sua


immagine, ma Roberto Saviano, per una sera, fa
assomigliare la tv a se stesso. Impone i temi e i tempi.

Trasforma la sua prosa densa e materica in un linguaggio


asciutto, misurato, perfetto per il mezzo televisivo e il
grande pubblico.

Gli argomenti sono corposi, ma la serata vola.


Saviano tiene il ritmo e la scena con mano decisa.

«Buca» il video.

Non è soltanto carisma. Non è solo una performance


costruita con intelligenza.

Illuminante la frase che gli scappa quando commenta le


foto dell'omicidio di Dario Scherillo, un ragazzo di 26
anni, ucciso innocente: «Scusate, ma è come se tenessi
nello stomaco queste immagini da tre anni». Sotto il
perfetto controllo della parola c'è un'urgenza di
comunicare che viene da lontano e l'emozione di poterla
condividere con una platea ancora più numerosa del
circuito già enorme dei suoi lettori.

E difficile non essere investiti dall'autenticità di fondo


attorno a cui la narrazione prende forma.

La verità ha un effetto potente, lo vedo negli occhi sgranati


della mia vicina, che Gomorra non l'ha letto e scopre quel
mondo per la prima volta.

Ogni parola pesa, come una questione di vita o di morte.


Non sono la scorta, le minacce e le auto blindate: è
qualcosa che comincia prima e viene da più lontano,
quando, in mezzo al rumore che svuota le parole di senso
e diverte l'attenzione dalle cose più vere e terribili,
emerge uno scrittore molto giovane che trova il modo di
raccontare ciò che vede e gli riempie l'anima di rabbia e
di passione da quando era ragazzino. La parola si
schiacciava la vita addosso ben prima di diventare la
principale forma di vita - vita costretta che usa la parola
come una bombola d'ossigeno.

Porta nelle case in prima serata quello che una gran parte
del Paese non vuole vedere.

A partire dai titoli dei quotidiani locali, spiega come


decodificare i meccanismi di intimità complice tra la
stampa e le organizzazioni criminali in Campania.

Un'operazione maieutica che ricorda i principi della


controinformazione, come l'ha definita Eco negli anni
Settanta: lavorare alle spalle della comunicazione
normale per far prendere coscienza ai lettori dei codici
secondo cui un certo messaggio è costruito, l'ideologia
che veicola, le manipolazioni effettuate da chi scrive per
suscitare risposte determinate, o inibirle («anestetizzare»,
dice Saviano); se comprende questi meccanismi il lettore
può scoprire anche dietro le pagine dei quotidiani squarci
di verità inattesi.

Poi mostra immagini che raccontano storie, esemplari.


Incontriamo fotogrammi, luoghi e volti che diventano
anche nostri e non potremo più dimenticare. Va oltre la
cronaca. E la traduzione televisiva del suo stile letterario.
La spiegazione dei meccanismi - comunicativi, economici
- del «sistema» si incarna nelle vicende di alcuni
personaggi.

Il tutto legato dalla presenza forte di un io narrante e


partecipe. E un modo di raccontare inconfondibile, che
avvince.

Mi sono messa a scrivere a poco più di trent' anni: di


tutt'altro, in altro modo, ma il non fiction di Saviano - i
suoi modelli, la sua ambizione, i suoi presupposti - era li,
mi è venuto addosso, mi ha provocato, mentre cercavo la
strada per le mie parole.

E bello quando accade questo, quando uno scrittore lascia


un segno e diventa da subito una voce con cui dialogare e
confrontarsi.

La serata è un crescendo. Saviano rompe il silenzio,


insegna a vedere, svela infine il volto osceno della realtà.
Mentre racconta, guardiamo lo scheletro nudo e spietato
del mondo di tutti i giorni attraverso la lente dei suoi
occhi, come chi uscisse dalla caverna e scorgesse per la
prima volta, con stupore e spavento, i veri contorni delle
cose.

Resta come un sasso nella scarpa, sotto il materasso,


fastidioso, la verità. Credo che il problema stia tutto qui.

Pasolini ha detto che il vero, meraviglioso arrabbiato - di


quella rabbia sana che può muovere un cambiamento
profondo - non è il rivoluzionario o sedicente tale, ma è
Socrate. E mi torna in mente la conclusione del mito
platonico della caverna.

Quasi nessuno ricorda l'ultima battuta del racconto del


filosofo, il destino infame che attende l'uomo che è
riuscito a liberarsi dalle catene, scoprendo la vera
sostanza del mondo reale, e ritorna indietro, sconvolto,
per raccontare a tutti quello che ha visto e strapparli dal
buio delle illusioni che li rendono schiavi: Socrate: [...] E
metti che a lui saltasse in testa di liberarli e portarli via
con sé, se mai potessero mettergli le mani addosso e
ammazzarlo, credi forse che non lo farebbero ?

Glaucone: Lo ammazzerebbero, senza dubbio.

La verità è necessaria per vivere con pienezza, uscendo


da uno stato di minorità. E al tempo stesso, la verità è da
sempre osteggiata, odiata, perché uscire dalla caverna è
scomodo, è rischioso, fa paura, fa male agli occhi, espone,
fa passare per pazzi.

Meglio rimanere al buio senza pensare, e se arriva


qualcuno a guastare la quiete, accanto a tanti che ne
saranno affascinati, moltissimi lo detesteranno.

Non solo i poteri che ha messo a nudo, ma anche coloro


che non vogliono guardarli in faccia.

Oppure chi non vuole confrontarsi con il fatto che è


possibile toccare argomenti gravi e complessi riuscendo a
conquistare un grande pubblico.

Persino in televisione. Novità nello stile, novità nella


sostanza. Saviano ricorda che è possibile uscire dai binari
consueti, abbattere steccati culturali, imporre argomenti
scomodi e fare pure audience.

Ci mette di fronte a quest'evidenza con una sorta di soave


sfrontatezza, invito a mettersi - o rimettersi - in gioco.
Andare avanti. Oltre.

Di Saviano si dicono un mare di cose, alle volte pare


proprio un accanimento ad arrovellarsi attorno al dito per
evitare di guardare la luna che indica con ostinazione.

La questione va ben oltre il tema del sistema camorristico.

Nel mondo oggi c'è abbastanza luce per chi vuole vedere,
e abbastanza buio per chi si ostina a restare nella caverna.
I vincoli esterni sono pesanti, ma non è tutto fango, non è
tutto uguale. E una questione di scelte. Anche per chi
scrive, per chi legge, per chi fa televisione e chi la
guarda.

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi Presso


Mondadori Printing S.p.a., Stabilimento N.S.M., Cles
(Trento) nel mese di marzo 2010.

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