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Il libro

Come tu i i bambini cresciuti nella Corea del Nord


anche Hyeonseo Lee pensa che il suo paese sia «il
migliore del mondo». È una «brava comunista»,
studia le gesta leggendarie del Caro Leader Kim Il-
sung, partecipa alle coreografie di massa organizzate
dal Partito e crede che la Corea del Sud, l’acerrimo
nemico, sia un paese poverissimo, pieno di
senzatetto, dove la gente muore per le strade e gli
odiati yankee si divertono a prendere a calci bambini
e disabili. Per lei, proveniente da una famiglia della
classe media «leale» nei confronti del regime, le cose
cambiano all’improvviso quando, nel 1994, la Corea
del Nord viene sconvolta da una terribile carestia. È
allora, nel vedere molti suoi connazionali morire di
fame o sopravvivere a stento cibandosi di erba,
insetti e corteccia d’albero, che Hyeonseo, appena
diciassettenne, comincia a interrogarsi sulla reale
natura del proprio paese e a dubitare delle verità
confezionate dalla propaganda. Ed è allora che si
accorge che al di là del confine, in Cina, poco lontano
dalla sua casa di Hyesan, le luci non si spengono mai.
E che forse, dall’altra parte del fiume ghiacciato,
un’altra vita è possibile.
Comincia così la storia di una rocambolesca fuga
da una dittatura spietata e corrotta, una fuga che la
porterà dapprima a vivere da illegale nella Cina del
tumultuoso sviluppo economico, e in seguito a Seul,
la capitale del Sud, dove riuscirà a condurre anche la
sua famiglia dopo un avventuroso viaggio di oltre
duemila chilometri attraverso il Sudest asiatico. Una
fuga vissuta quasi interamente in clandestinità e
fatta di lavori precari, di interrogatori da parte delle
autorità, di mediatori senza scrupoli pronti a vendere
a caro prezzo il sogno di transfughi disperati, di celle
sovraffollate, di notti solitarie trascorse nel ricordo di
un’infanzia in fondo felice e nella speranza di un
futuro ancora tutto da scrivere.
La ragazza dai sette nomi, però, non è soltanto la
storia di una «diserzione» o una preziosa
testimonianza su uno dei regimi più oscuri,
oppressivi e sprezzanti dei diritti umani, o, ancora, il
resoconto di una lotta per la sopravvivenza e per un
destino migliore, che accomuna coloro che fuggono
dalla povertà, dalle guerre e dalle dittature
sanguinarie. Quello di Hyeonseo Lee è soprattutto il
racconto della ricerca di un’identità. Un’identità a
lungo celata dietro documenti fittizi, diversa a
seconda dei luoghi e delle circostanze, negata per la
paura di essere scoperta e rimpatriata. Un’identità
che forse resterà solo un sogno, sino a quando non
esisterà una Corea finalmente unita.
Gli autori

Hyeonseo Lee è vissuta in Corea del


Nord fino alla sua fuga nel 1997. Nel
2008 si è trasferita a Seul, dove ha
frequentato l’università. Attivista e
portavoce per i diritti umani e i
rifugiati nordcoreani, ha parlato
all’ONU e al forum di Oslo per la libertà. Il suo
discorso TED, nel 2013, è stato visto da oltre quattro
milioni di persone e Oprah Winfrey l’ha definito «il
più importante di sempre».

David John è uno scrittore americano che ha vissuto a


lungo a Seul ed è stato diverse volte in Corea del
Nord. Nel 2012 ha pubblicato il suo primo romanzo,
Flight from Berlin.
Hyeonseo Lee
con David John
LA RAGAZZA DAI SETTE
NOMI
La mia fuga dalla Corea del Nord
La ragazza dai sette nomi
Nota dell’autrice

Al fine di proteggere amici e parenti ancora nella Corea del


Nord ho cambiato alcuni dei nomi che compaiono in questo
libro e omesso altri particolari. Per tutto il resto, gli eventi
descritti sono accaduti come li ricordo o come altri me ne hanno
parlato.
Introduzione

13 febbraio 2013
Long Beach, California

Mi chiamo Hyeonseo Lee.


Non è il nome che mi hanno dato quando sono
nata, né uno di quelli che le circostanze, in momenti
diversi, mi hanno costretta ad assumere. È il nome
che mi sono data io stessa una volta raggiunta la
libertà. Hyeon significa «luce del sole». Seo significa
«buona sorte». L’ho scelto per poter vivere la mia vita
nella luce e nel calore, e per non dover mai più
nascondermi nell’ombra.
Sono dietro le quinte di un immenso palcoscenico
e ascolto il brusio di centinaia di persone sedute in
platea. Una donna mi ha appena colorito il viso con
un morbido pennello e qualcuno mi ha attaccato un
microfono. Temo che rileverà il battito del mio cuore,
che mi rimbomba nelle orecchie. Qualcuno mi
domanda se sono pronta.
«Pronta» rispondo, anche se non lo sono affatto.
Poi sento un annuncio amplificato dal microfono.
Una voce pronuncia il mio nome. Vengo presentata.
Un rumore simile a quello del mare si leva dalla
platea. Sono molte mani che applaudono. Sento i miei
nervi tendersi selvaggiamente.
Un passo e sono sul palcoscenico.
All’improvviso mi sento leggera. Le mie gambe si
sono fatte di carta. Le luci sono come soli remoti che
mi abbagliano. Nel pubblico non intravedo nemmeno
un viso.
In qualche modo riesco a spingere il mio corpo
fino al centro del palcoscenico. Inspiro lentamente
per controllare il respiro, deglutisco forte.
È la prima volta che racconto la mia storia in
inglese, una lingua ancora nuova per me. E il viaggio
per arrivare fin qui è stato molto lungo.
Il pubblico tace.
Comincio a parlare.
Mi trema la voce. Parlo a quelle persone di una
ragazzina cresciuta nella convinzione che il suo paese
fosse il più grande del mondo, e che dovette assistere
alla sua prima esecuzione pubblica all’età di sette
anni. Parlo della notte in cui scappò attraverso un
fiume ghiacciato, e di come capì, troppo tardi, che
non avrebbe più potuto tornare a casa. Parlo delle
conseguenze di quella notte e dei terribili eventi che
ne sarebbero seguiti, anni dopo.
Per due volte sento salire le lacrime. Mi fermo un
attimo e sbatto forte gli occhi per ricacciarle indietro.
Per chi, come me, è nato nella Corea del Nord e poi
ne è fuggito, la storia che sto raccontando è tutt’altro
che insolita. Ma avverto l’impatto che sta avendo
sulle persone sedute in sala. Sono sconvolte.
Probabilmente si stanno chiedendo come mai un
paese come il mio continui a esistere.
Per loro sarebbe ancora più difficile capire che non
ho smesso di amarlo, il mio paese, e che mi manca
tanto. Mi mancano le sue montagne coperte di neve
in inverno, l’odore del cherosene e del fuoco di
carbonella. Mi manca la mia infanzia laggiù, la
sicurezza che mi davano le braccia di papà, il sonno
sul pavimento riscaldato. Dovrei essere a mio agio
nella mia nuova vita, ma in fondo sono ancora la
ragazzina di Hyesan che sogna solo di mangiare i
tagliolini in brodo con la sua famiglia al ristorante
preferito. Mi mancano la mia bicicletta e la vista della
Cina al di là del fiume.
Lasciare la Corea del Nord non è come lasciare un
qualsiasi altro paese. È come lasciare un altro
universo. Per quanto possa spingermi lontano, non
sarò mai del tutto libera dalla sua forza di gravità.
Anche per coloro che laggiù hanno sofferto in modo
inimmaginabile e che sono riusciti a fuggire
dall’inferno, la vita nel mondo libero può essere così
difficile che molti devono combattere duramente per
raggiungere un compromesso con il proprio paese di
origine e trovare la felicità. Qualcuno, a un certo
punto, si arrende e torna a vivere in quel luogo
oscuro, come anch’io sono stata tentata di fare più
volte.
Io però, semplicemente, non posso tornare. Posso
sognare la libertà nella Corea del Nord, ma so che a
quasi settant’anni dalla sua nascita il mio paese resta
chiuso e crudele come sempre. Se anche un giorno
dovesse diventare un luogo sicuro, sarei comunque
una straniera.
Questo libro è per me la storia di un risveglio, di
una crescita lunga e difficile. Sono arrivata ad
accettare il fatto che, essendo fuggita dalla Corea del
Nord, sono un’outsider in tutto il mondo. Un’esule.
Per quanto mi sia sforzata di adattarmi alla società
sudcoreana, penso che non sarò mai pienamente
accettata come una che è nata lì. Ma, soprattutto, non
credo che potrei mai accettare fino in fondo questa
come mia identità. Quando sono arrivata nella Corea
del Sud ero ormai adulta, avevo ventotto anni. La
soluzione più facile al mio problema di identità
sarebbe dire che sono semplicemente coreana, ma
questa nazione non esiste. La Corea unificata non
esiste.
Mi piacerebbe potermi liberare della mia identità
nordcoreana e cancellare il marchio che ha lasciato su
di me. Ma non posso. Non sono sicura del motivo per
cui le cose stanno così, ma sospetto che sia perché ho
avuto un’infanzia felice. Da bambini, mentre
sviluppiamo la consapevolezza di un mondo più
grande, abbiamo bisogno di sentirci parte di qualcosa
di più ampio della famiglia, di appartenere a una
nazione. Il passo successivo è quello di identificarci
con l’umanità, di sentirci cittadini del mondo. Ma in
me questo sviluppo si è bloccato. Sono cresciuta
senza sapere nulla di quanto accadeva al di fuori dei
confini nazionali, tranne ciò che potevamo vedere
attraverso le lenti del regime. Poi, quando me ne sono
andata, ho scoperto solo gradualmente che il mio
paese, quasi ovunque, è considerato un sinonimo di
male. Ma non lo sapevo tanti anni fa, quando la mia
identità si stava formando. Allora pensavo che la vita
nella Corea del Nord fosse normale. I suoi usi e i suoi
governanti hanno cominciato a sembrarmi strani solo
col tempo, e con la distanza.
La Corea del Nord è il mio paese. Lo amo, ma
vorrei che diventasse un paese buono. Il mio paese
sono la mia famiglia e le molte persone per bene che
conosco laggiù. Come potrei non amare la mia patria?
Questa è la mia storia. Spero vi permetterà di
gettare uno sguardo sulla realtà da cui sono fuggita.
Spero saprà dare coraggio ad altre persone come me,
che lottano per crearsi un’esistenza cui la loro
immaginazione non le aveva preparate. E spero che il
mondo, finalmente, cominci a dar loro ascolto e
decida di agire.
Prologo

Mi svegliarono le urla di mia madre. Min-ho, mio


fratello minore, dormiva sul pavimento accanto a me.
Subito dopo sentii papà entrare come una furia nella
stanza gridando «Svegliatevi!». Ci alzò da terra
strattonandoci per un braccio e ci trascinò fuori.
Dietro di lui, mamma strillava. Era sera, ma il cielo
era ancora chiaro. Min-ho era stordito dal sonno.
Usciti in strada, vedemmo un fumo nero e oleoso
levarsi dalla finestra della cucina e delle fiamme scure
lambire il muro esterno.
Poi, con mio grande stupore, vidi mio padre
tornare di corsa dentro casa.
Ci sfiorò uno strano ruggito, come di un vento che
soffiasse verso l’interno. Whumpf... Le tegole di una
parte del tetto erano crollate, e una palla di fuoco
simile a un luccicante crisantemo rosa si levava nel
cielo, illuminando la strada. Un intero lato della casa
era in fiamme. Un fumo denso, nero come la pece,
usciva dalle finestre.
Dov’era mio padre?
Improvvisamente tutti i vicini si strinsero attorno a
noi. Qualcuno gettò una secchiata d’acqua, come se
ciò bastasse a estinguere quel rogo. Udimmo il legno
gemere e andare in pezzi, poi il resto del tetto venne
giù tra le fiamme.
Io non piangevo. Non osavo nemmeno respirare.
Papà non usciva dalla casa.
Probabilmente furono solo pochi secondi, ma a me
sembrò un tempo interminabile. Poi lui ricomparve,
correndo verso di noi e tossendo come se stesse per
sputare i polmoni. Era ricoperto di fuliggine, ma il
suo viso brillava. Sotto ciascun braccio aveva due
oggetti piatti e rettangolari.
Non aveva pensato ai nostri effetti personali, o ai
risparmi di famiglia. Aveva portato in salvo i ritratti.
Io avevo tredici anni, ed ero grande abbastanza per
sapere qual era la posta in gioco.
Più tardi mamma ci spiegò cos’era successo.
Alcuni soldati avevano corrotto mio padre dandogli
una grossa latta di combustibile per aviazione. La
latta era stata messa in cucina, dove avevamo una
stufa di ghisa che bruciava yontan, le tavolette tonde
di carbonella che, come tutti i nordcoreani, usavamo
per riscaldarci. Mamma stava trasferendo il
combustibile in un altro contenitore quando la latta
le era sfuggita di mano e la benzina si era sparsa sulla
carbonella. C’era stata un’esplosione micidiale. I
vicini dovevano essersi chiesti che diavolo stesse
cucinando.
Il calore intenso sprigionato dalle fiamme
avanzava verso di noi. Min-ho cominciò a piangere. Io
stringevo la mano di mamma. Papà posò a terra i
ritratti, con cura, poi ci abbracciò tutti e tre, una
manifestazione d’affetto molto rara tra i miei genitori.
Vedendoci così stretti insieme, con gli occhi fissi su
ciò che rimaneva della nostra casa che stava ormai per
crollare in un alone di luce iridata, i vicini devono
aver provato un gran dispiacere per tutti noi. Con il
viso sporco di fuliggine e il suo abito borghese nuovo
di zecca completamente rovinato, papà era penoso da
vedere. Proprio come la mamma, così orgogliosa della
sua casa e dei suoi bei vestiti: incredula, fissava le
stoviglie e i suoi abiti migliori che andavano in fumo.
Ma ciò che mi colpiva di più era che i miei genitori
non sembravano davvero sconvolti. La nostra casa era
una bassa costruzione composta da due stanze
arredate con mobili forniti dallo stato, una cosa
assolutamente comune nella Corea del Nord. A
ripensarci oggi, è difficile immaginare che qualcuno
potesse sentirne la mancanza. Ma in quel momento la
reazione dei miei genitori mi impressionò molto. Noi
quattro eravamo insieme, e in salvo: questo solo
importava.
Fu allora che compresi come si possa fare a meno
praticamente di tutto, perfino del nostro paese. Ma
non potremo mai fare a meno delle altre persone, in
particolare della nostra famiglia.
Tutta la nostra via aveva visto mio padre portare in
salvo i ritratti: un atto di eroismo che sarebbe valso a
un qualunque cittadino un’onorificenza ufficiale.
Però, come stavamo per scoprire, il tempo delle
onorificenze era finito. Non lo sapevamo ancora, ma
papà era già sotto sorveglianza.
Parte prima
IL PAESE PIÙ GRANDE DEL MONDO
1
Un treno attraverso le montagne

Un mattino, sul finire dell’estate del 1977, una


giovane donna salutava le sorelle sulla banchina della
stazione di Hyesan e saliva sul treno per Pyongyang.
Aveva ricevuto l’autorizzazione ufficiale a far visita a
suo fratello, residente nella capitale. Era così eccitata
che la notte prima non era quasi riuscita a dormire.
Ai suoi occhi la Capitale della Rivoluzione era un
luogo mitico e fantastico. E un viaggio laggiù era un
regalo non da poco.
L’aria era fresca e odorava della legna appena
tagliata in una segheria poco lontana; l’umidità non
era ancora eccessiva. La ragazza aveva un biglietto per
un posto vicino al finestrino. Il treno partì, cigolando
lentamente verso sud, fra montagne scoscese coperte
di abeti e gole ombrose. Qua e là, un torrente dalle
acque spumeggianti baluginava in fondo alle forre.
Ben presto, però, la ragazza cominciò a
disinteressarsi del paesaggio.
Il vagone era pieno di giovani ufficiali che
tornavano nella capitale, tutti di ottimo umore.
Dapprima la ragazza li trovò fastidiosi, ma poi
cominciò a sorridere delle loro chiacchiere, come il
resto dei passeggeri. Gli ufficiali avevano invitato gli
altri viaggiatori a unirsi a loro in alcuni giochi di
parole e con i dadi, così, tanto per passare il tempo.
Quando la ragazza perse una mano, come punizione
le chiesero di cantare una canzone.
Nel vagone calò il silenzio. La ragazza si guardò i
piedi, fece appello a tutto il suo coraggio e si alzò,
reggendosi alla rastrelliera portabagagli. Aveva
ventidue anni. I suoi lucidi capelli neri erano raccolti
sulla nuca. Indossava un abito di cotone bianco
stampato a fiorellini rossi. La sua canzone era tratta
da un popolarissimo film nordcoreano di quell’anno,
intitolato Storia di un generale. La cantò bene, con
dolci note alte. Alla fine, tutti nel vagone
l’applaudirono calorosamente.
La ragazza tornò al suo posto. Accanto a lei sedeva
una bambina insieme alla nonna. Improvvisamente
un giovane ufficiale in uniforme grigio-azzurra si
avvicinò, presentandosi con grande cortesia alla
nonna. Poi fece alzare la bambina, si sedette nel posto
accanto alla giovane donna e prese la piccola sulle
ginocchia.
«Mi dica il suo nome» furono le sue prime parole.
Fu così che mia madre conobbe mio padre.
L’uomo pareva molto sicuro di sé, e parlava con un
accento di Pyongyang che faceva sembrare mia
madre, con il suo accento del Nord, rozza e
provinciale. Ben presto, però, lui seppe metterla a
proprio agio. Anche lui veniva da Hyesan, disse, ma
erano molti anni che viveva a Pyongyang e si
vergognava un po’ ad ammettere di aver perso
l’accento. Lei tenne sempre gli occhi bassi, ma ogni
tanto lo guardava di sottecchi. Non era bello nel
senso convenzionale del termine – aveva le
sopracciglia molto folte e gli zigomi prominenti –, ma
lei era conquistata dal suo atteggiamento marziale e
dalla sua sicurezza.
Lui le disse che aveva un bel vestito, e lei fece un
timido sorriso. Le piaceva vestirsi bene; era un modo,
pensava, di compensare un aspetto piuttosto
semplice e ordinario. In realtà era più graziosa di
quanto credesse. Il lungo viaggio trascorse in un
attimo. Mentre parlavano, la ragazza si accorse che
l’ufficiale la guardava con una serietà che non aveva
mai notato in un uomo. Il che la faceva arrossire.
L’ufficiale le domandò quanti anni avesse. Poi
chiese, in tono molto formale: «Potrei scriverle una
lettera?».
Lei rispose di sì e gli diede il suo indirizzo.
Più tardi mia madre avrebbe ricordato ben poco
della visita al fratello. La sua mente era piena delle
immagini dell’ufficiale conosciuto sul treno, della
luce screziata nel vagone e del sole dardeggiante tra
gli abeti.

Ma non arrivò nessuna lettera. Le settimane


passavano, e mia madre cercò di togliersi dalla mente
quell’ufficiale. Era sicura che avesse una ragazza a
Pyongyang. Tre mesi dopo aveva ormai superato la
delusione e smesso di pensare a lui.
Una sera, sei mesi più tardi, tutta la famiglia era in
casa. La temperatura era scesa di un bel po’ sotto lo
zero, ma i cieli erano stati sgombri per settimane,
regalando un autunno e un inverno bellissimi.
Stavano finendo di cenare quando udirono il rumore
di un paio di stivali con la punta ferrata avvicinarsi
alla porta e qualcuno bussare con decisione. Uno
sguardo spaventato corse tutto attorno al tavolo. Non
aspettavano nessuno, a quell’ora così tarda. Una delle
sorelle di mia madre andò ad aprire. Poi la chiamò.
«C’è una visita per te.»
In città era andata via la luce. Mia madre si
avvicinò alla porta con una candela in mano. Quello
che sarebbe diventato mio padre era fermo sulla
soglia, con addosso il cappotto militare e il berretto
infilato sotto il braccio. Era scosso dai brividi. Si
inchinò e chiese scusa, dicendo che era stato via per
delle esercitazioni militari e non gli avevano
permesso di scrivere. Aveva un sorriso tenero e un po’
nervoso. Dietro di lui le stelle arrivavano a sfiorare il
profilo delle montagne.
Lei lo invitò a entrare in casa, al calduccio. E da
quella sera ebbe inizio il corteggiamento.
I successivi dodici mesi furono per mia madre
come un sogno. Lei non era mai stata innamorata
prima. Mio padre era ancora di stanza a Pyongyang,
così si scrivevano ogni settimana e organizzavano
degli appuntamenti. Mamma andava a trovarlo alla
base militare, e lui prendeva il treno per farle visita a
Hyesan, dove anche la sua famiglia ebbe modo di
conoscerlo. Le settimane che separavano i loro
incontri erano piene dei più dolci progetti e sogni a
occhi aperti.
Una volta mi ha raccontato che ogni cosa, durante
quei mesi, acquistava per lei una sorta di brillantezza
e di magia. Tutte le persone che conosceva
sembravano condividere il suo ottimismo. Il mondo
era nel pieno della Guerra fredda, ma la Corea del
Nord stava vivendo il suo periodo migliore. Raccolti
ricchissimi per molti anni di fila significavano
abbondanza di cibo per tutti. Le industrie erano
moderne rispetto agli standard del mondo
comunista. La Corea del Sud – il nostro mortale
nemico – attraversava invece una fase di caos politico,
e in Vietnam gli odiati yankee avevano appena perso
una guerra feroce contro le forze comuniste. Il
mondo capitalista sembrava ormai in declino. In tutto
il paese fioriva la convinzione che la storia fosse dalla
nostra parte.
Quando arrivò la primavera e la neve sulle
montagne cominciò a sciogliersi, mio padre fece una
capatina a Hyesan per chiedere a mia madre di
sposarlo. Lei, emozionata fino alle lacrime, accettò. La
sua felicità non avrebbe potuto essere più grande. E,
ciliegina sulla torta, le rispettive famiglie avevano un
buon songbun, che garantiva loro una salda posizione
sociale.
Il songbun è il sistema di «caste» della Corea del
Nord. Una famiglia può essere classificata come leale,
incerta o ostile, sulla base della condizione sociale del
capofamiglia durante e dopo la fondazione dello
stato, nel 1948. Se tuo nonno discende da operai e
contadini, e ha combattuto dalla parte giusta nella
guerra di Corea, la tua famiglia viene identificata
come leale. Se invece fra i tuoi antenati ci sono dei
proprietari terrieri, o degli ufficiali che durante
l’occupazione coloniale hanno lavorato per i
giapponesi, o anche solamente qualcuno che è
scappato nella Corea del Sud, la tua famiglia può
essere classificata come ostile.
All’interno di queste tre categorie principali ci
sono poi cinquantuno gradazioni di status, dalla
famiglia che governa il paese ai prigionieri politici
senza alcuna speranza di riacquistare la libertà.
L’ironia del tutto sta nel fatto che il nuovo stato
comunista ha creato la gerarchia sociale più elaborata
e più stratificata che si sia mai vista dai tempi degli
imperatori feudali. Coloro che appartengono alla
classe ostile – il 40 per cento circa della popolazione –
imparano presto a non coltivare sogni. Vengono
assegnati invariabilmente alle aziende agricole o alle
miniere, e finiscono comunque col fare lavori
manuali. Le persone della classe incerta possono
diventare ufficiali di basso rango, insegnanti, oppure
riempire le fila dell’esercito in luoghi lontani dai
centri di potere. Solo gli appartenenti alla classe leale
possono abitare a Pyongyang, hanno la possibilità di
iscriversi al Partito dei lavoratori e sono liberi di
scegliersi una carriera. A nessuno viene mai detto
esplicitamente quale sia la sua posizione nel sistema
del songbun, eppure credo che la maggior parte delle
persone lo intuisca perfettamente, così come in un
gregge di cinquantuno pecore ogni esemplare sa
esattamente qual è il suo posto. L’insidiosa bellezza
di tutto questo sta nel fatto che è molto facile
scendere, ma praticamente impossibile salire
all’interno del sistema, nemmeno grazie al
matrimonio. L’unica eccezione è rappresentata da
una specialissima indulgenza del Grande Leader in
persona. L’élite, più o meno il 10-15 per cento della
popolazione, deve quindi fare molta attenzione a non
commettere errori.
All’epoca in cui i miei genitori si conobbero, il
songbun di una famiglia era estremamente importante
poiché determinava l’intera vita di una persona e dei
suoi figli.
La famiglia di mia madre aveva un songbun
straordinariamente buono. Il nonno si era distinto
per le sue coraggiose imprese durante la seconda
guerra mondiale, diventando un eroe per essersi
infiltrato nella polizia imperiale giapponese ai tempi
dell’occupazione coloniale, per aver passato
informazioni riservate ai partigiani nascosti sulle
montagne e per averne liberati alcuni dalle prigioni
della polizia. Dopo la guerra era stato decorato,
suscitando grande ammirazione nella sua comunità.
Conservava ancora una vecchia fotografia che lo
ritraeva con l’uniforme della polizia giapponese e
aveva affidato a un manoscritto il racconto delle sue
vicissitudini. Mia nonna, però, lo aveva bruciato dopo
la sua morte per evitare che quella storia, un giorno,
potesse essere fraintesa e facesse cadere in disgrazia
la famiglia.
La nonna era diventata un’ardente comunista già
all’università. Negli anni Quaranta aveva studiato in
Giappone, ed era tornata in Corea come parte di una
piccola élite intellettuale portando con sé i suoi modi
distinti e istruiti, molto rari all’epoca, quando la
maggior parte dei coreani non finiva nemmeno le
elementari. Era entrata nel partito a soli diciannove
anni. Il nonno, dopo il loro matrimonio, si era
stabilito nella città natale di lei, Hyesan, invece di
condurla con sé nella propria provincia, come si usava
allora. E là era diventato un funzionario governativo
locale. Nell’autunno del 1950, primo anno della
guerra di Corea, quando le truppe statunitensi erano
entrate in città il nonno si era visto costretto a
rifugiarsi nel cuore delle montagne per non essere
catturato: gli americani, infatti, perquisivano casa per
casa alla ricerca di membri del partito. Mia nonna,
che già portava sulla schiena il primo bambino, degli
otto che avrebbe partorito, aveva nascosto le loro
tessere di iscrizione tra due mattoni nella canna
fumaria del camino. «Se le avessero trovate, gli
americani ci avrebbero fucilati» mi raccontò una
volta.
Fu proprio la cura con cui aveva messo in salvo le
tessere del partito ad assicurare alla famiglia un
songbun elevato. Più tardi, coloro che invece le
avevano distrutte all’arrivo degli americani avrebbero
destato sospetti. Alcuni sarebbero stati
violentemente epurati e mandati nei campi di lavoro.
Mia nonna, invece, per il resto della vita avrebbe
portato la sua legata al collo con uno spago, ben
nascosta sotto i vestiti.
Dopo dodici mesi di corteggiamento i miei genitori
avrebbero dovuto sposarsi. Ma le cose non andarono
così.
Il problema era la madre di mia madre. La nonna,
infatti, si rifiutava di dare il consenso per le nozze. La
lasciavano del tutto indifferente le buone prospettive
di mio padre e la sua carriera nell’aviazione. Secondo
lei, mia madre avrebbe potuto aspirare a qualcosa di
meglio, e sposare un uomo in grado di offrirle una
vita più agiata. Nonostante la sua formazione
giapponese e le sue credenziali di comunista
progressista, la nonna apparteneva a una generazione
che considerava l’amore un fattore del tutto
secondario nel trovare un marito adatto. La sicurezza
economica veniva al primo posto. Con un po’ di
fortuna, una coppia avrebbe potuto innamorarsi dopo
il matrimonio. Lei riteneva suo dovere proporre a mia
madre il candidato migliore. E mia madre non poteva
ribellarsi alla sua volontà. All’epoca era impensabile
opporsi a un genitore.
L’anno più felice di mia madre si trasformò in un
incubo.
Attraverso certi suoi contatti mia nonna aveva
conosciuto una donna affascinante che faceva l’attrice
nella fiorente industria cinematografica di
Pyongyang. Suo fratello era un funzionario della
Compagnia commerciale nazionale, e le due si misero
d’accordo per presentargli mia madre. Mamma
stentava a credere a ciò che le stava capitando. Non
provava alcun interesse per quell’uomo, per quanto
potesse essere una persona gradevole. Era
innamorata di mio padre. Ma prima ancora di
rendersene conto il matrimonio fu combinato.
Mamma ebbe un crollo nervoso, e per molte
settimane i suoi occhi restarono gonfi per il gran
piangere e la mancanza di sonno. Il dolore la spinse
sull’orlo della disperazione. Fu costretta a rompere i
rapporti con mio padre. Quando gli scrisse per
raccontargli la novità, lui fu molto laconico. Lei capì
di avergli spezzato il cuore.
Mia madre sposò il funzionario di Pyongyang in
una giornata fredda e luminosa della primavera del
1979. Fu un matrimonio convenzionale. Lei indossava
un chima jeogori (l’abito tradizionale coreano) di seta
rossa con degli elaborati ricami: una gonna ampia e
lunga che arriva fino al seno e sopra un giacchetto
corto. Lo sposo portava un abito all’occidentale molto
formale. Dopo la cerimonia, come al solito, furono
scattate alcune foto ai piedi della grande statua di
bronzo di Kim Il-sung, sulla collina di Mansu: ciò per
dimostrare che, per quanto fosse grande l’amore di
una coppia, l’amore per il Paterno Leader era ancora
più grande. Nelle foto non sorride nessuno.
Io fui concepita durante la luna di miele e nacqui a
Hyesan nel gennaio del 1980. Fui chiamata Kim Ji-
hae.
Sembrava proprio che il futuro di mia madre, e il
mio, fossero ormai segnati.
Ma nel frattempo, così come l’acqua trova sempre il
modo di arrivare al mare, l’amore si faceva strada
nonostante i piani accuratamente studiati di mia
nonna.

Mamma era nata e cresciuta a Hyesan, capitale


della provincia di Ryanggang, nel Nordest del paese:
una regione montuosa di abeti, larici e pini. La terra
coltivabile là scarseggia, e la vita può essere dura.
Secondo il folclore coreano, quelli di Hyesan hanno
un carattere tenace e cocciuto. Sono dei sopravvissuti.
C’è un proverbio che dice che se li scaraventi nel bel
mezzo dell’oceano, sicuramente troveranno il modo
di raggiungere la terraferma. Questi detti sono
sempre una semplificazione, eppure io riconosco
quelle caratteristiche in mia madre. E col tempo
anche Min-ho e io ne abbiamo sviluppate di simili,
soprattutto la cocciutaggine.
Mamma non ce la faceva proprio a vivere con il
funzionario, il mio padre biologico, e poco dopo la
mia nascita lo lasciò. Nel mondo coreano si dice che
un bambino ha un anno all’inizio del primo anno di
vita e non, come avviene in molti altri paesi, alla fine.
Bene, io avevo un anno.
Poco dopo arrivò il divorzio, e questa volta fu mia
nonna a passare notti insonni. Una figlia divorziata
era già una vergogna abbastanza grande, ma una
figlia divorziata con una bambina sulle spalle era
quasi impossibile da far sposare una seconda volta.
La nonna insistette perché mamma mi desse in
adozione.
Uno dei fratelli di mia madre trovò una giovane
coppia benestante di Pyongyang che cercava un
bambino da adottare. I due fecero il lungo viaggio
fino a Hyesan per vedermi e prendermi con sé.
Avevano portato uno scatolone pieno di giocattoli e
vestitini di buona qualità.
A casa ci fu una scenata terribile. Mamma, in
lacrime, si rifiutò di lasciarmi andare e non permise
alla nonna di strapparmi dalle sue braccia. Io mi misi
a piangere forte. Davanti alla coppia di Pyongyang,
sbigottita, mia nonna sfogò tutta la sua furia contro
mia madre, per poi cedere al panico e supplicarla.
Ben presto i due si arrabbiarono e accusarono la mia
famiglia di averli ingannati.
Qualche tempo dopo la mamma si recò alla base
militare dov’era di stanza mio padre. Dopo un
ricongiungimento pieno di emozione, lui accettò di
sposarla e senza la minima esitazione accettò anche
me come figlia.
Erano così innamorati che la nonna dovette
ammettere la sconfitta, e da quel momento cambiò
opinione su mio padre. La sua autorevolezza restava
impressa in tutti quelli che lo conoscevano, eppure
era un uomo tenero e gentile. Non toccava mai una
goccia d’alcol e non si arrabbiava mai. La forza dei
sentimenti che li univano, comunque, era motivo di
preoccupazione per mia nonna, la quale riteneva che
una coppia che si ama troppo rischia di condensare in
poco tempo l’affetto che deve bastare per tutta la vita,
e uno dei due rischia di morire giovane.

Mamma e papà, finalmente, stavano per sposarsi.


Ma a quel punto si presentò un nuovo problema:
stavolta si trattava dei genitori di lui, che avrebbero
recisamente disapprovato l’unione se avessero saputo
che mia madre aveva già una bambina da un altro
uomo, ragion per cui i miei cercarono fino all’ultimo
di tenere segreta la mia esistenza. Ma in una cittadina
come Hyesan, dove si conoscono un po’ tutti, un
simile segreto non era facile da mantenere. La voce
trapelò, e a pochi giorni dalle nozze i nonni appresero
la verità sulla mia esistenza e ritirarono il consenso.
Mio padre li implorò con fervore. Non avrebbe potuto
sopportarlo, se il matrimonio con mia madre fosse
andato a monte una seconda volta.
Seppur riluttanti, i nonni dovettero dare il
permesso, ma a una condizione: che mi cambiassero
nome, a simboleggiare il mio ingresso nella nuova
famiglia. Nella Corea del Nord, come in qualunque
altro posto, era normale che un bambino cambiasse
cognome se la madre si risposava, ma era del tutto
insolito cambiargli anche il nome. Mia madre non
ebbe voce in capitolo. E così a quattro anni, poco
dopo il matrimonio dei miei, la mia identità cambiò
una seconda volta. Il mio nuovo nome fu Park Min-
young.
Il matrimonio, celebrato a Hyesan, fu una faccenda
tranquilla. Niente elaborati chima jeogori: questa volta
mia madre indossava un elegante tailleur. Papà era in
uniforme. I suoi genitori non fecero il minimo sforzo
per nascondere lo scontento davanti alla famiglia di
mia madre.
Io ero troppo piccola per rendermi conto di quelle
tensioni. Non ero consapevole nemmeno della verità
relativa alla mia nascita. Avrei scoperto il segreto solo
molti anni dopo, alle elementari, e ancora oggi una
parte di me vorrebbe non averlo mai conosciuto.
Perché col tempo quella rivelazione avrebbe avuto
conseguenze strazianti sia per me sia per l’uomo
tenero e affettuoso che fino a quel momento avevo
considerato mio padre.
2
La città ai confini del mondo

Per i primi quattro anni della mia vita sono cresciuta


in una grande famiglia, con gli zii e le zie, nella
provincia di Ryanggang. Nonostante l’esistenza
nomade cominciata dopo il matrimonio dei miei
genitori, al seguito della carriera di mio padre in varie
città e basi militari sparse per il paese, quei primi
anni cementarono il profondo legame emotivo con
Hyesan che mi ha accompagnato per tutta la vita.
La provincia di Ryanggang è la zona più elevata
della Corea. Le montagne, d’estate, sono spettacolari.
Gli inverni sono estremamente freddi e le nevicate
abbondanti. Durante il periodo coloniale (1910-1945),
i giapponesi costruirono la ferrovia e le segherie.
Certi giorni l’aria profuma ovunque di pino appena
segato. La provincia ospita i sacri luoghi rivoluzionari
che circondano il monte Paektu, la vetta più alta della
Corea del Nord, ma anche la poco produttiva regione
penale della contea di Baekam, dove vengono
mandate al confino le famiglie cadute in disgrazia
presso il regime.
Mentre crescevo, era eccitante vivere a Hyesan.
Non perché fosse una comunità vivace: nessuna città
del paese era particolarmente nota per i suoi teatri, i
suoi ristoranti o le tendenze più alla moda. Il fascino
della città stava tutto nella vicinanza dello stretto
fiume Yalu, l’antico confine con la Cina. In una
nazione chiusa come la Corea del Nord, Hyesan
poteva sembrare una città ai confini del mondo. Per i
suoi abitanti era la porta attraverso la quale entravano
nel paese ogni genere di meravigliose merci di
produzione estera: legali, illegali ed estremamente
illegali. Per questo era diventata un florido centro di
commercio e contrabbando che procurava grandi
benefici ai locali, per esempio la possibilità di
formare vantaggiose società con i mercanti cinesi
sull’altra riva del fiume, e ricavarne valuta pregiata. A
volte poteva sembrare addirittura un posto quasi
fuorilegge, in cui le ferree norme governative non
erano più tanto inviolabili. Questo perché
praticamente tutti, dal capo municipale del partito
all’ultima guardia di frontiera, si prendevano una
fetta della torta. Di tanto in tanto, comunque,
Pyongyang ordinava un giro di vite, che poteva
rivelarsi brutale.
La gente di Hyesan, dunque, era molto più dedita
agli affari e spesso molto più benestante di quella del
resto della Corea del Nord. Spesso i grandi mi
dicevano che eravamo fortunati a vivere lì. A loro dire,
Hyesan era il posto migliore di tutto il paese, dopo
Pyongyang.

Il mio primo ricordo è ambientato a Hyesan, e


rischiò di essere anche l’ultimo.
Stranamente ho conservato memoria dell’abito che
indossavo. Era molto carino, di un azzurro pallido.
Avevo gironzolato da sola sulla banchina erbosa
dietro casa nostra e mi ero seduta su una traversina
di legno per raccogliere in grembo dei sassolini. Il
vestitino e le mani mi erano diventati neri. Poi,
all’improvviso, un rumore fortissimo aveva squarciato
l’aria, rimbombando tra le montagne. Mi ero voltata e
avevo visto un’enorme massa scura, grande come un
palazzo, percorrere la curva tra i pini. Veniva proprio
verso di me, ma io non sapevo cosa fosse.
Poi mi resta una serie di immagini confuse: luci
accecanti, stridore di metallo e un odore aspro,
bruciante. Voci che gridavano. La sirena che urlava
ancora.
La massa nera era davanti a me, sopra di me. Io
finii là sotto. Il frastuono e l’odore bruciante erano
tremendi.
Più tardi il conducente del treno raccontò a mia
madre che mi aveva visto sulla curva, a un centinaio
di metri di distanza, non abbastanza per frenare ed
evitarmi. Il cuore gli si era quasi fermato, disse. Io ero
sgattaiolata fuori da sotto il quarto vagone. Per chissà
quale ragione, stavo ridendo. Sulla banchina si era
raccolta molta gente. Mia madre era fra loro.
Mi sollevò per le braccia e strillò: «Quante volte te
l’ho detto, Min-young? Non-andare-mai-in-quel-
posto!». Poi mi strinse a sé e scoppiò a piangere senza
riuscire a fermarsi. Una donna tra la folla le si
avvicinò e le disse che una cosa del genere portava
fortuna. Sopravvivere a un simile disastro e in così
tenera età significava che avrei vissuto una lunga vita.
Nonostante il suo carattere pratico mia madre era
molto superstiziosa, e nel corso degli anni mi avrebbe
ripetuto più e più volte le parole della donna. Sarebbe
diventato una specie di salvataggio leggendario, che
avrei richiamato alla mente nei momenti di pericolo.

Nella famiglia di mia madre erano in otto, quattro


sorelle e quattro fratelli, tutti con la caratteristica
cocciutaggine degli abitanti di Hyesan. Erano
destinati a seguire carriere curiosamente diverse. A
un estremo c’era zio Denaro, manager di un’azienda
commerciale di successo di Pyongyang, in grado di
procurarsi lussuosi prodotti occidentali. Eravamo
tutti molto orgogliosi di lui. All’estremo opposto c’era
zio Povero, precipitato in basso nel sistema del
songbun per aver sposato una ragazza di una fattoria
collettiva. Zio Povero era un artista di talento, e
avrebbe potuto essere uno dei pochi autorizzati a
ritrarre i Leader, e invece si guadagnava da vivere
dipingendo i lunghi cartelloni rossi della propaganda
piantati nei campi per esortare i contadini stanchi a
«liberare la fase trasformativa della crescita
economica!» e roba del genere. Gli altri fratelli erano
zio Cinema, direttore della locale sala
cinematografica, e zio Oppio, commerciante di droga.
Zio Oppio era una figura piuttosto influente a
Hyesan. Il suo songbun elevato lo metteva al riparo
dalle indagini, e la polizia locale era ben contenta di
intascare le sue bustarelle. Spesso mi prendeva sulle
ginocchia e mi raccontava fantastiche fiabe popolari
che parlavano di montagne, animali e bestie
mitologiche. Oggi, quando ripenso a quelle storie, mi
rendo conto che probabilmente era sotto l’effetto
della droga.
Per mia madre la famiglia era tutto. La nostra vita
sociale si svolgeva all’interno della cerchia famigliare,
al di fuori della quale lei aveva stretto solo poche
amicizie. In ciò era uguale a mio padre. Entrambi
erano persone molto riservate. Non li ho mai visti
tenersi per mano, né li ho mai sorpresi a farsi le
coccole in cucina. Ben pochi nordcoreani sono
espansivi in materia affettiva. Eppure i sentimenti che
provavano l’uno per l’altra erano intensi ed evidenti.
A volte, a cena, mamma diceva a papà: «Sono tanto
felice di averti incontrato». Allora papà si chinava su
di me e sussurrava, abbastanza forte perché mamma
potesse udirlo: «Sai, se mi portassero dieci camion
pieni di donne e mi chiedessero di scegliermene una,
io le rifiuterei tutte e sceglierei ancora tua mamma».
Rimasero innamorati per tutto il tempo che furono
sposati. Mamma ridacchiava e diceva: «Tuo padre ha
delle bellissime orecchie!».
Quando papà era via per questioni militari, a volte
mamma mi lasciava dalla nonna o da una delle zie. La
maggiore era zia Anziana, una donna malinconica e
solitaria del cui tragico matrimonio avrei saputo
soltanto molti anni dopo. La più giovane era una
donna generosa, zia Alta. La più bella e talentuosa
delle sorelle di mia madre era zia Carina: da ragazza
aveva coltivato la speranza di diventare pattinatrice
sul ghiaccio, ma dopo che si era scheggiata un dente
in seguito a una caduta, la nonna aveva tarpato i suoi
sogni. Zia Carina aveva il bernoccolo degli affari, un
talento che anche mia madre possedeva, e faceva un
mucchio di soldi spedendo merci cinesi a Pyongyang
e Hamhung. Era anche molto tosta: una volta si era
sottoposta ad appendicectomia a lume di candela, in
un ospedale senza corrente elettrica né anestetici.
«Sentivo benissimo che mi tagliavano» raccontava.
Io inorridivo. «Non ti faceva male?»
«Be’, sì, ma cosa potevo farci?»
Mamma era un’imprenditrice nata, caratteristica
insolita per una donna dal songbun elevato. Molte di
loro, negli anni Ottanta e nei primi Novanta,
avrebbero giudicato il guadagno ottenuto con il
commercio una cosa immorale e inadeguata al loro
rango. Ma mia madre era di Hyesan, e aveva naso per
gli affari. Negli anni a venire avrebbe diretto molte
piccole e redditizie società con cui avrebbe
mantenuto la famiglia nei tempi più difficili che si
potessero immaginare. Quand’ero piccola io,
commercio e mercato erano ancora parole volgari, ma
nel giro di qualche anno, quando diventò una
questione di sopravvivenza, le posizioni al riguardo
sarebbero cambiate radicalmente.
Con me la mamma era severa, e io sono stata
cresciuta bene. Aveva aspettative altissime in
qualsiasi ambito. Mi insegnò che è da maleducati
urtare le persone anziane, parlare ad alta voce,
mangiare troppo in fretta, masticare con la bocca
aperta. Imparai che era volgare stare seduta a gambe
larghe, e a sedere sul pavimento con le gambe
raccolte sotto il corpo, alla giapponese, con la schiena
ben dritta. Mi insegnò a salutare lei e papà, al
mattino, con un profondo inchino.
Quando una delle mie amiche venne a trovarmi e
mi vide fare quell’inchino, mi chiese: «Perché fai
così?».
La domanda mi riempì di stupore. «Perché, tu no?»
L’amica scoppiò a ridere. Poi mi prese in giro
imitando quegli inchini in maniera stravagante ed
eccessivamente formale.
In casa, mia madre non sopportava la sporcizia e
sapeva essere ossessivamente ordinata. In pubblico si
presentava sempre al suo meglio: non indossava mai
abiti vecchi e seguiva la moda, anche se raramente era
soddisfatta del proprio aspetto. In una società in cui
si giudicano belle le donne con il viso tondo, gli occhi
grandi e la bocca a mandorla, lei si lamentava dei suoi
occhi piccoli e del viso spigoloso, ma in maniera
autoironica: «Quand’ero incinta temevo che saresti
somigliata a me». Ho ereditato da lei la mia passione
per la moda.

Mi aspettavo di iniziare la scuola materna a


Hyesan, ma non andò così. Una sera di dicembre
papà tornò a casa dal lavoro con un sorriso da un
orecchio all’altro. Fuori nevicava fitto, e il berretto e
l’uniforme erano imbiancati. Batté le mani, chiese un
po’ di tè bollente e ci disse che aveva ricevuto una
promozione. L’avrebbero trasferito. Saremmo andati
a vivere ad Anju, una città vicina alla costa
occidentale della Corea del Nord.
3
Occhi sulla parete

E così, all’inizio del 1984 arrivammo ad Anju. Io


avevo quattro anni. Quando la vide, mia madre ebbe
un tuffo al cuore. La principale attività economica
della regione sono le miniere di carbone, e il fiume
Chongchon, che attraversa il centro per gettarsi nel
Mar Giallo, è sempre nero di fango e di scorie
carbonifere. Ci dissero che d’estate puzzava, e che
nella stagione delle piogge tendeva ad allagare la
città. Come molte città della Corea del Nord, buona
parte di Anju era stata ricostruita dopo la guerra di
Corea. Tutto aveva lo stesso aspetto scialbo e privo di
colore. Palazzoni in cemento costeggiavano le vie
principali del centro. Poi c’erano alcuni edifici statali
in stile sovietico, e un parco pubblico con
l’obbligatoria statua in bronzo di Kim Il-sung. Basse
casette con il tetto di tegole componevano il resto
della città. Hyesan, a dire il vero, non era poi molto
diversa, ma lo sfondo delle montagne e la nostra
vivace vita famigliare ne avevano fatto, per noi, un
luogo pieno di magia.
A mia madre era dispiaciuto molto lasciare
Hyesan, perché non avrebbe più potuto far visita alla
nonna o alle sorelle con altrettanta facilità o
comunque spesso, ma al tempo stesso era
consapevole del fatto che la nostra era una vita di
privilegi. In genere le famiglie nordcoreane non
vanno mai da nessuna parte: restano nello stesso
posto per tutta la vita, e hanno bisogno di
un’autorizzazione anche solo per lasciare la provincia.
Il lavoro di mio padre gli dava accesso a beni che la
maggior parte della gente non aveva. Noi
mangiavamo carne o pesce quasi tutti i giorni. Allora
non sapevo che molti miei connazionali mangiavano
carne o pesce così di rado che spesso si ricordavano
quando: di solito in occasione del compleanno dei
Leader, in cui venivano distribuite razioni
supplementari.
Non ci piacque nemmeno la nuova casa, situata
all’interno della base militare. Alla parete era fissata
una radio con altoparlante che non poteva essere
spenta e non aveva la manopola del volume; di tanto
in tanto il banjang (capo dell’unità di quartiere) la
usava per urlare istruzioni o per annunciare
un’esercitazione antiaerea. Il banjang in genere era
una donna sulla cinquantina il cui compito era quello
di diffondere i messaggi governativi, controllare che
nessuno restasse fuori la notte senza permesso e
tenere d’occhio le famiglie della sua unità. Il giorno in
cui prendemmo possesso dell’abitazione la banjang ci
donò due ritratti. Erano identici a quelli che avevamo
a Hyesan, e li appendemmo alla parete prima ancora
di aver consumato il nostro primo pasto lì.
Tutta la nostra vita famigliare si svolgeva sotto quei
ritratti. Io stessa crescevo sotto il loro sguardo.
Conservarli con cura era la prima regola di ogni
famiglia. Di fatto rappresentavano per ciascuno di noi
una sorta di seconda famiglia, più saggia e benevola
di quella vera. Vi erano raffigurati il nostro Grande
Leader, Kim Il-sung, fondatore della nazione, e il suo
amato figlio Kim Jong-il, il Caro Leader, destinato un
giorno a succedergli. I loro visi distaccati, ritoccati
con l’aerografo, occupavano il posto d’onore nella
nostra come in tutte le altre case. Erano appesi come
icone sulle pareti di ogni edificio in cui ci capitava di
entrare.
Fin da piccolissima imparai ad aiutare mia madre a
spolverarli. Per farlo usavamo un panno speciale
fornito dal governo, che non poteva essere usato per
pulire nient’altro. Non sapevo ancora camminare e
già avevo scoperto che quei ritratti erano diversi da
qualsiasi altro oggetto casalingo. Una volta che li
indicai con il dito, mia madre mi sgridò severamente:
«Non farlo mai!». Indicare con il dito, appresi in quel
momento, era segno di grande maleducazione. Se si
doveva indicare nella loro direzione bisognava farlo
con il palmo della mano rivolto verso l’alto, con
rispetto. «Così» disse mamma, insegnandomi il gesto.
I due ritratti dovevano essere gli oggetti situati più
in alto della stanza, e perfettamente allineati fra loro.
Nessun’altra immagine, nessun disordine potevano
ingombrare quella parete. Gli edifici pubblici, così
come le case dei quadri dirigenti del partito, erano
poi obbligati a fregiarsi di un altro ritratto, quello di
Kim Jong-suk, eroina della resistenza antigiapponese
morta in giovane età. Era stata la prima moglie di Kim
Il-sung, nonché la santificata madre di Kim Jong-il. A
me sembrava bellissima. Questa specie di santa
trinità si chiamava «i Tre Generali del monte Paektu».
Una volta al mese dei funzionari in guanti bianchi
entravano in ogni casa dell’isolato per ispezionare i
ritratti, e se denunciavano una famiglia per non averli
puliti bene (una volta li vedemmo illuminare con una
torcia un angolo del quadro per controllare se fosse
possibile discernere anche solo una singola molecola
di polvere), quella famiglia poteva essere punita.
Ogni volta che li toglievamo dal muro per
spolverarli, io e mamma li maneggiavamo con
estrema attenzione, quasi fossero inestimabili tesori
delle tombe di Koryo o pezzi di uranio arricchito.
Piccoli danni dovuti all’umidità, che d’estate poteva
far comparire sulla carta macchioline di muffa, erano
tollerati. Ma i danni derivanti da qualsiasi altra causa
rischiavano di mettere una famiglia in guai seri. Ogni
anno i media diffondevano storie di eroici salvataggi
dei ritratti. Ci capitava di sentire alla radio il servizio
su un nonno che aveva attraversato le acque
impetuose di un fiume tenendoli alti sopra la testa
(salvandoli, ma perdendo la vita nel tentativo), o di
vedere sul «Rodong Sinmun», il quotidiano
nazionale, la fotografia di una coppia seduta in
precario equilibrio sul tetto della loro casupola dopo
una frana catastrofica stringendo al petto i sacri
ritratti. Il giornale esortava poi tutti i cittadini a
emulare l’esempio di quegli eroi della vita reale.
L’intrusione dello stato in casa nostra non mi
sembrava opprimente o innaturale. Era
inimmaginabile che qualcuno potesse lamentarsi per
via dei ritratti. Nelle date più importanti del
calendario, i compleanni di Kim Il-sung e di Kim
Jong-il, noi tre ci mettevamo in fila lì davanti e
facevamo un solenne inchino.
Quella piccola cerimonia famigliare era l’unico
momento in cui la politica entrava in casa nostra.
Quando mio padre tornava dal lavoro e la tavola era
imbandita con riso, zuppa, kimchi e sottaceti, tutte
cose che mangiavamo a ogni pasto, mamma aspettava
di sentirmi recitare: «Grazie, Rispettato Padre e
Leader Kim Il-sung, per questo cibo», prima di
impugnare le bacchette. Ma durante la cena i miei
genitori discutevano solo di questioni personali o di
famiglia. Di solito avevamo parecchie e innocue
notizie provenienti da Hyesan di cui parlare.
Argomenti seri non ne affrontavamo mai. Io stessa
imparai a evitarli così come i bambini diventano
consapevoli dei pericoli della strada. Tutto ciò veniva
fatto per proteggermi, e in questo non eravamo
diversi dalle altre famiglie. Poiché nessun aspetto
della vita, pubblica o privata, si sottraeva all’autorità
del partito, di fatto quasi ogni argomento di
conversazione era potenzialmente politico, e
potenzialmente pericoloso. I miei genitori non si
sarebbero mai arrischiati a pronunciare un
commento incauto che io avrei potuto ripetere
ingenuamente, o fraintendere.
Crescendo, imparai ad avvertire anch’io quel senso
di pericolo. Sapevo che esisteva, ma al tempo stesso
era qualcosa di normale, come l’inquinamento
dell’aria o il fatto che a toccare il fuoco ci si brucia.
Non me ne preoccupavo, e lo stesso fu vero per Min-
ho, quando arrivò. In casa si menzionavano di rado
anche i due Leader i cui occhi fiammeggiavano dalla
parete. Pronunciare il nome di Kim Il-sung, per
esempio, dimenticando di aggiungere uno dei suoi
titoli (Grande Leader, Rispettato Padre e Leader,
Comandante, Presidente o Maresciallo) poteva
comportare una seria punizione se per caso qualcuno
avesse denunciato il crimine.
Intanto io giocavo e litigavo con gli altri bambini,
come i bambini di qualunque altro luogo del mondo.
Erano i miei genitori a preoccuparsi di tutto. Mamma,
in particolare, sembrava avere un vero e proprio
talento per tenere lontani i guai. In parte perché
essendo una donna dal songbun elevato nutriva una
naturale fiducia in se stessa. Ma era anche dotata di
un tatto innato nei suoi rapporti con le persone, una
qualità che ci avrebbe salvati più volte dal disastro.
Era brava a trattare con la banjang e faceva di tutto per
rendersi simpatica agli incontri settimanali
dell’isolato, portandole sempre un piccolo dono. La
maggior parte delle banjang che conoscevamo erano
tipi tosti e ragionevoli con cui mia madre non aveva
difficoltà a relazionarsi. Ma faceva anche molta
attenzione a cosa un estraneo poteva vedere in casa
nostra, in modo da non attirare l’attenzione del
partito e da non suscitare invidia.
E quando non le riusciva di risolvere un problema
con il raziocinio e la buona volontà, lo risolveva con il
denaro.
La settimana dopo il nostro arrivo ad Anju fu
fermata in una via del centro da cinque individui con
la fascia rossa al braccio. Si trattava di volontari che
battevano la città alla ricerca di trasgressori delle
mille leggi sociali in vigore nella Corea del Nord: chi
portava i jeans, uomini con i capelli di un centimetro
troppo lunghi, donne con una collana o con un
profumo importato dall’estero. Tutte cose non
socialiste, simboli di degenerazione morale e
decadenza capitalista. Nel loro zelo, i volontari
potevano diventare aggressivi e arroganti. Il loro
trucco più odioso era sorprendere al mattino, nell’ora
di punta, qualcuno che uscendo si fosse scordato di
appuntarsi sul bavero la spilletta con il ritratto del
Grande Leader, che tutti i nordcoreani portano
esattamente sopra al cuore. Le persone sorprese
senza quell’accessorio rischiavano di trovarsi di fronte
a un problema molto serio: infatti non era possibile
sostenere di essersi «semplicemente dimenticati» del
Grande Leader.
Il crimine di mia madre, quel mattino, era di
indossare i calzoni in pubblico, e non la gonna. Una
cosa proibitissima, in quanto i dirigenti del partito
avevano decretato che i calzoni non si addicono alla
donna coreana. I volontari l’accerchiarono e le
domandarono perché li indossasse. Per scongiurare
una scenata lei pagò la multa, e poi fece scivolar loro
in mano del denaro per evitare che la trasgressione
fosse registrata nel suo libretto d’identità.
Mamma corrompeva la gente con piena fiducia.
Non c’era niente di insolito in ciò, fintanto che non si
veniva colti in flagrante. Nel mio paese la corruzione
è spesso l’unico modo per far accadere le cose, o per
aggirare una legge troppo dura, o una questione
ideologica priva di senso.

Pian piano ci abituammo alla base dell’aviazione.


La vita militare, scoprii, non era poi tanto diversa da
quella civile. Tutti conoscevano tutti, e c’era poco da
stare tranquilli. Mio padre scherzava dicendo che
l’intero paese era una base militare. Nessuno di noi
stringeva facilmente amicizia, all’epoca.
Come mio padre, anche mia madre evitava
l’eccessiva cordialità. Sapeva bene come mantenere le
distanze. Questa sua riservatezza le tornò utile in un
paese in cui più gente conosci più è probabile che tu
venga criticato o denunciato. Se portavo a casa
un’amichetta, lei era ospitale ma non accogliente.
Quella però non era la sua vera personalità. Una delle
tragedie della Corea del Nord è che ciascuno indossa
una maschera, e la lascia cadere solo a suo rischio e
pericolo. La maschera che mia madre mostrava a tutti
gli estranei era quella di una donna dal songbun
elevato, dura e molto pratica. Dietro, c’erano una
bella ironia e una profonda compassione per gli altri.
Avrebbe corso qualsiasi rischio per le persone che
amava. Correva regolarmente in aiuto di fratelli e
sorelle che navigavano in cattive acque, soprattutto
zio Povero e la sua famiglia della fattoria
collettivizzata, inviando loro cibo, vestiti e denaro, al
punto che, mi vergogno di ammetterlo, mi faceva
arrabbiare e protestavo. Inoltre, nonostante il suo
carattere pratico mamma aveva una natura spirituale:
si sentiva fortemente in contatto con i suoi antenati e
per la festa del nuovo anno lunare e a chuseok, la festa
del raccolto autunnale, ne onorava le tombe con cibo
e altre offerte. In quelle occasioni mi parlava sempre
a bassa voce e diceva: «Attenta a quel che dici». Gli
antenati erano in ascolto.
Il mio migliore amico, allora, era il mio cagnolino,
di una di quelle razze carine cui la gente di altri paesi
mette dei vestitini. A me non sarebbe mai stato
concesso di farlo, perché far indossare dei vestiti a un
cane era un noto esempio di degenerazione
capitalista. Si sa che gli sciacalli yankee dedicano più
cure ai cani che agli esseri umani. Era quello che mi
insegnavano le maestre. Li mettono in ghingheri
come se fossero persone. Questo perché loro stessi
sono dei cani.
Avevo sei anni quando iniziai a frequentare la
scuola elementare di Anju. E anche se ero troppo
piccola per accorgermene, questo segnò un sottile
cambiamento nei miei rapporti con i miei genitori. In
un certo senso, non appartenevo più a loro.
Appartenevo allo stato.
4
La signora in nero

L’anno scolastico cominciava in settembre, dopodiché


c’era una lunga vacanza per via della difficoltà di
tenere gli scolari al caldo nei gelidi inverni della
Corea del Nord. La mia scuola aveva una grande stufa
a legna in mezzo all’aula e le pareti dipinte con
scenette a colori vivaci di bambini intenti alla
ginnastica o in uniforme, oppure di un soldato
nordcoreano che con la baionetta trafiggeva
simultaneamente uno yankee, un giapponese e un
sudcoreano.
L’indottrinamento ideologico cominciava fin dal
primo giorno.
Le maestre ci leggevano storie di eroi bambini che
avevano combattuto i giapponesi durante il dominio
coloniale e leggende sull’infanzia di Kim Il-sung: di
come avesse sofferto per la felicità del suo popolo fin
da piccolo, quando regalava il suo cibo e perfino le
scarpe ai coetanei meno fortunati.
Ogni volta che menzionavano i Leader, le maestre
adottavano un tono di voce basso e tremulo, come se
stessero declamando i nomi di divinità viventi. Sulle
pareti facevano sfoggio di sé fotografie di Kim Il-sung
giovane guerrigliero; Kim Il-sung circondato da orfani
sorridenti; Kim Il-sung nella bianca uniforme di
Maresciallo e Padre della nazione. In tutti i ritratti lo
si vedeva alto e appariscente, e la sua coraggiosa
moglie, Kim Jong-suk, che aveva combattuto al suo
fianco, sembrava un personaggio tratto da un libro di
fiabe. Non era difficile adorarli.
La storia della natività del loro figlio, il Caro
Leader Kim Jong-il, mi faceva venire la pelle d’oca. La
sua nascita era stata predetta da segni miracolosi nei
cieli: un doppio arcobaleno sopra il monte Paektu,
rondini che cantavano inni di lode con voce umana,
l’apparizione nel cielo notturno di una nuova,
luminosissima stella. Noi ascoltavamo quelle storie, e
un brivido di ammirazione attraversava i nostri
corpicini. Era magia allo stato puro. Le maestre ci
incoraggiavano a disegnare e colorare la capanna
coperta di neve dov’era venuto al mondo, con la sacra
montagna sullo sfondo e la nuova stella in cielo. Il
giorno della sua nascita, il 16 febbraio, era detto il
Giorno della Stella Luminosa. A scuola, conservato in
una teca di cristallo, c’era anche un modellino della
capanna, con la neve dipinta a tempera.
Fu un periodo molto felice per me. Eravamo i figli
di Kim Il-sung, e ciò faceva di noi i figli della più
grande nazione della terra. Cantavamo canzoncine
che parlavano del suo villaggio natale, Mangyongdae,
accompagnandole con piccole danze in cui alzavamo
le mani al cielo ripetendo quella parola, Mangyongdae.
Il suo compleanno, il 15 aprile, era detto il Giorno del
Sole, così come il nostro paese era il Paese del Sole
Eterno.
I due compleanni erano feste nazionali, e tutti i
bambini ricevevano regali e caramelle. Fin dai primi
anni venivamo indotti ad associare il Grande Leader e
il Caro Leader ai doni e all’eccitazione che i bambini
dei paesi occidentali associano a Babbo Natale.
Io ero troppo piccola per non credere a ogni
parola. Ero assolutamente convinta che quell’eroica
famiglia avesse salvato la nostra patria. Kim Il-sung
aveva creato ogni cosa nel nostro paese. Prima di lui
non esisteva nulla. Lui era il padre di nostro padre e il
padre di nostra madre, un guerriero invincibile che
aveva sconfitto due grandi potenze imperiali nel
corso di una sola vita, cosa mai accaduta prima nei
nostri cinquemila anni di storia. In dieci anni aveva
combattuto centomila battaglie contro i giapponesi, e
questo ancor prima di sconfiggere gli yankee. Poteva
viaggiare per giorni e giorni senza mai dormire.
Poteva apparire simultaneamente nell’Est e
nell’Ovest del paese. Alla sua presenza i fiori
sbocciavano e le nevi si scioglievano.
Perfino i giocattoli servivano al nostro
indottrinamento. Se costruivo un treno con i
blocchetti di legno, la maestra mi diceva che potevo
farlo arrivare fino in Corea del Sud per salvare i
bambini che morivano di fame. La mia missione
sarebbe stata di riportarli nel grembo del Rispettato
Padre e Leader.
Molte delle canzoni che cantavamo in classe
parlavano dell’unificazione della Corea. Era un
argomento che mi stava molto a cuore perché,
secondo quanto ci veniva raccontato, i bambini della
Corea del Sud andavano in giro vestiti di stracci,
rovistavano tra i rifiuti in cerca di cibo ed erano
sottoposti alle sadiche crudeltà dei soldati americani,
che li usavano come bersagli nelle esercitazioni di
tiro, li travolgevano con le jeep o li costringevano a
lucidargli gli stivali. La maestra ci mostrava dei
disegni con bambini che chiedevano l’elemosina,
d’inverno, a piedi nudi. Io ero terribilmente
addolorata per loro. Avrei davvero voluto poterli
salvare.
Le maestre erano gentili con noi, in ottemperanza
alla convinzione più volte ripetuta dal Grande Leader
che i bambini fossero il futuro e dovessero essere
trattati come altezze reali. Nelle scuole erano bandite
le punizioni corporali. Cantavamo una canzone
intitolata Siamo felici, e credevamo a ogni singola
parola. Ci sentivamo amati, fiduciosi e grati.
I miei genitori non osavano criticare la scuola in
mia presenza o, più tardi, davanti a Min-ho. Poteva
essere pericoloso. Non facevano alcun commento, né
confermavano ciò che imparavamo. Non ne parlavano
e basta. Mamma però mi insegnava a lodare il Grande
Leader e la nazione per tutto ciò che di buono ci
capitava, e lo faceva in virtù del suo acuto senso del
pericolo. Se non mi fossi abituata a farlo la cosa
avrebbe potuto avere delle conseguenze per lei, ed
essere notata da un informatore. Sì, perché c’erano
informatori dappertutto: nella base militare in cui
vivevamo, per le strade cittadine, perfino a scuola.
Questi informatori facevano rapporto all’ufficio
provinciale del Ministero per la sicurezza, il bowibu,
vale a dire la polizia segreta. La parola bowibu è in
grado di far correre un brivido di terrore lungo la
schiena di un nordcoreano. Il solo pronunciarla, come
ha scritto il poeta Jang Jin-sung, è sufficiente a far
tacere il pianto di un bambino.
Il bowibu non ti scruta dagli angoli di strada o da
automobili parcheggiate, né origlia le tue
conversazioni attraverso i muri. Non ne ha bisogno.
Sono i cittadini a fare tutto il lavoro al posto suo. Si
può sempre contare sui vicini perché denuncino i
vicini; sui bambini perché facciano la spia ad altri
bambini; sugli operai perché tengano d’occhio i
compagni di lavoro; e sul banjang per sorvegliare le
famiglie. Se le autorità gli chiedono di tenere
particolarmente d’occhio una certa famiglia, il banjang
cerca subito la complicità di tutti i loro vicini. Spesso
in cambio del loro lavoro gli informatori ricevono
razioni supplementari. Al bowibu non interessano i
veri crimini che affliggono il popolo, come i furti,
estremamente diffusi, o la corruzione, ma solo le
slealtà politiche, la più piccola traccia delle quali, vera
o immaginaria che sia, è sufficiente a far sparire
un’intera famiglia: nonni, genitori e bambini. La casa
viene isolata con un nastro, e tutti vengono portati via
con un camion, di notte. Nessuno li rivede più.
Io non mi accorgevo del silenzio dei miei genitori
sulle materie che mi venivano insegnate. La cosa
avrebbe cominciato ad avere un significato per me
solo molti anni dopo. Né misi mai in dubbio la loro
lealtà o il fatto che anche loro credessero
nell’altruismo e nelle imprese sovrumane di Kim Il-
sung, salvatore del nostro paese.

Durante una vacanza dalla scuola elementare


mamma mi portò a far visita alla nostra famiglia a
Hyesan. Fu un viaggio memorabile, anche perché
ebbi modo di udire il racconto di un altro mito
destinato a modellare le mie idee infantili sul mondo.
Fu quando zio Oppio, il trafficante di droga, mi parlò
della signora vestita di nero.
Nella Corea del Nord l’oppio non era difficile da
reperire. I contadini coltivavano il papavero fin dagli
anni Settanta, e i laboratori statali raffinavano il
prodotto grezzo ricavandone eroina di alta qualità,
una delle poche merci all’altezza degli standard
internazionali che il paese produceva. L’eroina veniva
poi venduta all’estero per ricavarne valuta pregiata.
Ai nordcoreani, però, era assolutamente proibito
farne uso o commerciarla in proprio. Eppure, in
un’economia così dipendente dal sistema delle
tangenti, grandi quantitativi di oppio trovavano il
modo di arrivare alla popolazione. Mio zio lo vendeva
illegalmente a Hyesan e, al di là del fiume, in Cina,
dove la domanda era forte. Mia nonna lo usava
regolarmente. Lo facevano in molti: gli antidolorifici e
altri farmaci erano difficili da reperire.
Zio Oppio aveva grandi occhi scintillanti, molto
più grandi di quelli di tutti gli altri fratelli e sorelle di
mia madre. Solo molti anni dopo avrei capito perché.
Fu lui a raccontarmi che, ogni volta che pioveva, una
signora scendeva dal cielo.
«È tutta vestita di nero» mi disse in tono
misterioso, aspirando da una sigaretta di tabacco
tranciato grosso e soffiando un anello di fumo
giallastro. «Se riesci ad afferrarla per un lembo della
gonna, ti porta in cielo con sé.»
Tornata ad Anju, aspettai per giorni e giorni che
arrivasse la pioggia. Quando finalmente udii un
tuono, corsi fuori di casa e guardai in su, verso le
nuvole. Grossi goccioloni mi bagnarono la faccia. Se il
Rispettato Padre e Leader Kim Il-sung poteva
apparire contemporaneamente nell’Est e nell’Ovest
del paese, ero disposta a credere anche che ci fosse
una signora vestita di nero capace di volteggiare fra le
nubi. Cercavo di immaginare il suo reame lassù in
cielo. Il pensiero di quella signora mi spaventava
terribilmente, ma ero troppo curiosa per non cercarla.
Restai sugli scalini, nel caso in cui la signora fosse
calata rapida come la pioggia per afferrarmi.
In un attimo mamma mi rovinò tutta la magia.
«Cosa stai facendo?» gridò dalla porta. «Vieni
dentro!»
«Aspetto la signora in nero.»
«Cosa?»
Poi l’espressione del suo viso cambiò, come se
all’improvviso le fosse venuto in mente qualcosa.
Evidentemente si ricordava della storia che zio Oppio
era solito raccontare, e si rese conto che c’ero cascata
in pieno. Scoppiò a ridere così forte che dovette
piegarsi in due, con le braccia strette attorno alla vita.
Poi mi abbracciò, e io sentivo il suo corpo sussultare.
Stava ancora ridendo parecchie ore dopo, quando mio
padre tornò a casa, e lei cucinò il riso per la cena
asciugandosi gli occhi con la manica.
Adesso sì che ero confusa.
Ad alcune storie magiche ci si aspettava che
credessi con tutta me stessa, e che non le mettessi
mai in dubbio. Se credevo ad altre, ci rimettevo in
dignità. Avevo davvero voluto credere all’esistenza
della signora in nero.
Il mondo dentro la scuola era chiaro. Le maestre
avevano risposte semplici e limpide per ogni cosa,
buona o cattiva che fosse. Fuori dalla scuola, invece, il
mondo era assai più confuso. Zio Oppio,
probabilmente, avrebbe potuto spiegarmi tutto, se
fossi riuscita ad avere con lui una conversazione
normale.
Una volta, a casa sua, vidi sul tavolo un lingotto
d’oro, e poco lontano una massa collosa che sembrava
catrame. Gli chiesi cosa fosse, e lui mi disse che era
oppio.
«Infilaci la punta della matita e prendine un po’»
mi disse.
«Per farne cosa?»
Lui fece una risatina ansimante. «Ma per
mangiarlo, ovvio!»
Quel giorno avevo il raffreddore, e non mi sentivo
molto bene. I sintomi sparirono in un attimo.

Anju poteva essere sporca e tetra, ma le colline


tutt’intorno erano belle. Vi trascorsi tre estati
idilliache, con tanti picnic su prati fioriti. In certi mesi
dell’anno nell’aria riecheggiava il ronzio di mille
libellule, che si libravano in volo facendo lampeggiare
i loro blu e verdi iridescenti. Noi le rincorrevamo per
acchiapparle tra l’erba alta. Tutti i bambini lo
facevano. Nel fine settimana ci raggiungeva mio
padre. Alcuni bambini strappavano la testa alle
libellule e la mangiavano, dicendo che sapeva di noce.
Durante una gita stendemmo la nostra coperta da
picnic in un boschetto di alti pini. Mamma prese un
lungo bastone e cominciò a colpire i tronchi degli
alberi, e improvvisamente fu come se piovessero
pinoli. Io correvo qua e là per metterli in un
sacchetto. Non avevamo mai riso tanto tutti e tre
insieme.
Ricordo ancora quella scena come un momento di
pura felicità vissuto poco prima di un dispiacere che
mi avrebbe molto addolorato. Tornati a casa, infatti,
scoprimmo che il mio cagnolino era morto. Uno dei
camion della base militare lo aveva investito. Piansi
moltissimo. Papà mi disse che non avrei potuto
averne un altro: erano troppo difficili da ottenere.
Ma non fu quell’evento a gettare un’ombra scura
sui miei ricordi di Anju. Il peggio doveva ancora
venire.
5
L’uomo sotto il ponte

Avevo sette anni. In un caldo pomeriggio mia madre


mi mandò a fare una commissione in città. C’era
un’umidità molto sgradevole. Un puzzo terribile si
levava dalle acque del fiume. Mosche dappertutto.
Tornavo verso casa lungo la riva quando vidi un
crocchio. Una fitta folla si era radunata sulla strada
sotto il ponte ferroviario. Ebbi la strana intuizione
che fosse accaduto qualcosa di brutto, ma non riuscii
a resistere alla tentazione di dare un’occhiata. Mi
intrufolai tra la gente per vedere di cosa si trattasse.
Le persone della prima fila guardavano verso l’alto.
Seguii la direzione di quello sguardo e vidi un uomo
appeso per il collo.
Aveva la testa infilata in un sacco di tela sporco e le
mani legate dietro la schiena. Indossava l’uniforme
blu degli operai. Non si muoveva, ma il suo corpo
oscillava leggermente, appeso a una fune fissata alle
ringhiere di ferro del ponte. Un certo numero di
soldati se ne stavano lì con espressione insensibile, i
fucili sulla schiena. La gente osservava immobile e in
silenzio, come se assistesse a una specie di cerimonia.
La fune cigolava. Sentivo odore di sudore maschile.
Quella scena mi era incomprensibile perché la gente
stava lì a guardare ma nessuno si muoveva o cercava
di aiutarlo.
Mi sono rimasti in mente i dettagli più strani.
Ricordo che a un certo punto l’uomo accanto a me si
accese una sigaretta e la tenne bassa lungo il fianco,
così che il fumo gli si arrotolò come nebbia intorno
alle dita. Non c’era un alito di vento. All’improvviso
mi sentii come se non ci fosse più aria da respirare.
Dovevo andarmene. Mi aprii a forza un varco tra la
gente.
Quando raccontai a mia madre ciò che avevo visto,
lei divenne bianca come un cencio, poi mi voltò le
spalle e finse di essere molto occupata con una
qualche faccenda. Infine mormorò: «Non fermarti
mai più a guardare quelle cose».
Nei giorni seguenti ci fu un’ondata d’impiccagioni
in tutta la città, e mamma era sempre più nervosa.
Conosceva una delle vittime, era una donna di nome
Baek Kyeong-sul accusata di aver sedotto un
funzionario della banca statale per derubarlo, e
condannata da una giuria popolare. Mia madre era
presente. Non che si tenessero dei veri e propri
processi: le accuse venivano semplicemente lette e le
vittime giustiziate sul posto. Se invece si voleva far
provare all’accusato un po’ di terrore preventivo, le
autorità aggiornavano la seduta al giorno dopo, così
la vittima non sapeva fino all’ultimo momento quale
sarebbe stato il suo destino.
Stava per cominciare la stagione delle piogge e il
cielo sopra Anju aveva brontolato di tuoni tutta la
mattina, cosa che aveva contribuito a peggiorare lo
stato dei nervi di mia madre. Inoltre era incinta di
Min-ho, e si sentiva strana.
La donna scese dal retro di un furgone della
polizia e si ritrovò davanti a otto giudici seduti dietro
un tavolo collocato in una pubblica piazza, circondata
da un cordone di poliziotti e da una grande folla
silenziosa. Aveva le mani legate dietro la schiena e il
viso talmente gonfio e annerito dai pugni ricevuti che
mamma stentò a riconoscerla. Era palesemente
disorientata, e si guardava attorno con un terrore
animalesco negli occhi.
In una grandine di elettricità statica, l’altoparlante
vomitò le accuse a suo carico.
La donna cadde in ginocchio e cominciò a
piagnucolare, dicendo che era molto addolorata e che
si vergognava di quello che aveva fatto. Mamma
sapeva che quella donna aveva un figlio nella polizia;
probabilmente aveva pensato che le sue conoscenze
l’avrebbero salvata.
«La condanna è: morte per impiccagione.»
La testa della donna si rizzò di scatto per la
sorpresa. Guardò la folla radunata attorno alla piazza
come per fare appello a tutti quanti. Dietro i cellulari
della polizia c’era un alto palo di legno con un cappio
che fino a quel momento era rimasto nascosto alla
sua vista. Improvvisamente i poliziotti l’afferrarono e
la trascinarono verso il palo. La donna si divincolava e
scalciava e gridava, ma in un attimo le fu infilato il
cappio. La fune si tese con uno strattone, che la
sollevò in aria. La donna si contorse e si agitò per
qualche secondo, poi si afflosciò.
Quando mamma tornò a casa, cadeva una pioggia
pesante. Nei suoi occhi c’era uno strano sguardo
vuoto. Disse di non avere mai capito, fino a quel
giorno, che uccidere una persona potesse essere facile
come uccidere un animale. Il cadavere era stato
gettato in malo modo sul cassone di un camion.
Mamma aveva chiesto a uno dei funzionari del
tribunale dove l’avrebbero sepolto, e quello le aveva
risposto che l’avrebbero portato in una discarica e
coperto di cenere.
Era stato quel dettaglio a farla quasi impazzire.
Senza una tomba ancestrale che i suoi discendenti
potessero onorare, lo spirito di quella donna non
avrebbe trovato pace, e avrebbe perseguitato i vivi.
Quell’estate il lavoro di mio padre lo aveva portato
a visitare basi militari un po’ in tutto il paese. Senza
la sua rassicurante presenza, dopo aver assistito
all’impiccagione, mia madre non riusciva a dormire.
A colazione aveva gli occhi incavati e raccontava di
incubi popolati dai fantasmi degli impiccati. Non
riusciva a concentrarsi nemmeno sul compito più
semplice. Era molto spaventata e voleva andarsene da
Anju. Non so se fu in seguito alle sue pressanti
richieste, o se fu una semplice, straordinaria
coincidenza, ma mamma fu estremamente sollevata
quando mio padre le annunciò che era stato
trasferito: nella seconda città per grandezza della
Corea del Nord, Hamhung.

Lasciammo Anju, ma non andammo subito a


Hamhung. I miei genitori volevano che il nuovo
bambino nascesse nella nostra città, Hyesan, affinché
i suoi documenti fossero registrati là come quelli del
resto della famiglia. Per questo anche mio fratello è
nato a Hyesan. Per tradizione le famiglie nordcoreane
danno a tutti i figli un nome che comincia con la
stessa sillaba: così, siccome io mi chiamavo Min-
young, lui fu chiamato Min-ho. Avevo sette anni, ed
ero un po’ seccata nel vedere tutto quel tubare e
quell’adorazione attorno al nuovo arrivato, nonché il
fiume di parenti venuti a vederlo: zia Anziana, zia
Carina, zia Alta, zio Oppio e zio Cinema, che si
congratulavano e avevano le braccia cariche di doni.
Ma mamma era raggiante, tanto più perché si vedeva
nuovamente circondata dai suoi parenti e dai vecchi
vicini di casa.
Ma c’era una questione di famiglia che non
desiderava affatto affrontare. Anche i genitori di mio
padre volevano conoscere il nuovo nipotino. All’epoca
io non avevo ancora appreso la verità riguardo alla
mia nascita: credevo che i genitori di mio padre
fossero i miei veri nonni, ma per ragioni che mi erano
oscure non andavamo mai a trovarli.
La loro casa aveva freddi pavimenti di legno. Non
mi piaceva stare da loro, e a quel che capivo non
piaceva nemmeno a mia madre. Il nonno era una
temibile presenza che non invitava certo alla
conversazione. A cena sedeva sul pavimento lontano
da noi, a un tavolo separato. La nonna lo serviva
sempre per primo. Erano tutti segni di rispetto, ma
creavano una distanza fra lui e tutti gli altri. Mio
padre, che di solito trasmetteva calma e fiducia in se
stesso, era decisamente teso e parlava troppo per
riempire i silenzi. Non c’era affatto il fitto
chiacchiericcio che ci circondava sempre quando
facevamo visita all’altra nonna e agli zii e alle zie.
Sentii subito, nel momento in cui arrivammo da
loro, che a quei nonni Min-ho piaceva molto più di
me. I loro visi s’illuminavano soltanto quando lo
prendevano in braccio, o quando lo vedevano fare le
bolle o strillare. Con lui sì che erano affettuosi. Con
mia madre e con me erano solo freddi e educati.
Pensai che era perché Min-ho era un maschio:
evidentemente quelle persone così formali e all’antica
preferivano i nipoti maschi alle femmine. Min-ho era
l’unico figlio maschio dei miei genitori, il che gli
conferiva una posizione di grande importanza nella
famiglia. Negli anni a venire, ogni volta che saremmo
andati a trovarli, quei nonni avrebbero fatto dei regali
a lui ma non a me. Adesso capisco che,
evidentemente, mia madre aveva previsto che le cose
sarebbero andate così. Era una delle ragioni per cui
faceva di tutto per essere generosa con me, dandomi
una paghetta e tutti i dolci che volevo e dei bei vestiti.
Ed è la ragione per cui, per il mio nono compleanno,
mi fece il regalo più meraviglioso che abbia mai
ricevuto in Corea del Nord.
6
Le scarpe rosse

Ero molto eccitata per il nostro trasferimento a


Hamhung, sulla costa orientale. All’epoca Hamhung
era un importante polo industriale, famoso come
centro di produzione del vinylon, una fibra sintetica
usata per confezionare le uniformi e inventata
proprio nella Corea del Nord. Un’impresa di cui
eravamo talmente orgogliosi che le erano state
dedicate delle canzoni patriottiche. Assorbiva male il
colore, tendeva a restringersi, era rigida e scomoda da
portare, ma in compenso meravigliosamente
ignifuga. La città vantava anche molti ristoranti e un
grande, nuovissimo teatro, il più grande di tutto il
paese.
Io non riuscivo a smettere di indicare l’incredibile
quantità di auto che si vedevano dappertutto; molte
più che ad Anju, e anche molte più biciclette. Le
strade erano ampie, grandi viali con tram elettrici che
strappavano scintille ai cavi sovrastanti, e anche gli
edifici non erano così malandati. L’aria però era molto
inquinata. Certe mattine il cielo aveva un colore giallo
solforoso e puzzava dei prodotti chimici lavorati nella
grande fabbrica di fertilizzanti ai nitrati d’ammonio
Hungnam, che il Grande Leader in persona aveva
visitato più volte per dare ai suoi dirigenti preziose
indicazioni. Le sue parole erano dappertutto, su
striscioni rossi appesi in tutta la città, incise su targhe
di pietra e in lettere alte due metri sulla fiancata del
monte Tonghung. La sua immagine era onnipresente,
riprodotta in murales di vetro colorato, in statue di
marmo e di bronzo e in grandi ritratti sul fianco dei
palazzi, vestito da soldato o da scienziato, da severo
ideologo o da allegro amico dei bambini.
Nonostante l’alto grado di mio padre
nell’aviazione, la sistemazione non era certo comoda.
Il nostro appartamento era in una base militare, in
una palazzina di cemento a sei piani senza ascensore.
Avevamo tre stanze e l’acqua fredda corrente, e una
carta da parati gialla che mia madre fece
immediatamente sostituire con una di migliore
qualità, che fosse lavabile. Fece anche rivestire il
bagno con delle piastrelle azzurre. D’inverno i tubi
ghiacciavano; d’estate la muffa anneriva i muri esterni
dell’edificio.
Comunque ero molto fortunata, anche se ancora
non del tutto capace di comprendere quanto. Il grado
di mio padre non solo gli dava accesso a beni che
molte altre persone non avevano, ma gli permetteva
anche di ricevere un mucchio di cibo e di cose per la
casa, in forma di regali o bustarelle.
In teoria era il governo a provvedere ai bisogni di
tutti: alimenti, combustibile, casa e vestiti, attraverso
il Sistema di distribuzione pubblica. Ma la qualità e la
quantità di ciò che si riceveva dipendevano
dall’importanza del proprio lavoro. Due volte al
mese, sul posto di lavoro, a ciascuno toccavano dei
tagliandi da scambiare con i beni necessari. Fino a
qualche anno prima il partito aveva preso in seria
considerazione l’idea di abolire del tutto la moneta.
Quando il sistema funzionava, il denaro serviva solo
per le piccole spese, o per pagare il salone di bellezza.
Ma per la maggior parte del tempo il sistema
comunista di pianificazione centralizzata era così
inefficiente che spesso collassava, e allora le razioni
diminuivano o sparivano del tutto per colpa dei furti
e la gente doveva sempre più ricorrere alla corruzione
o al mercato nero anche per le cose essenziali,
trattative per le quali servivano i liquidi, e spesso
addirittura la valuta estera, non il won coreano.
Noi andavamo spesso a mangiare al ristorante, che
serviva quel naengmyeon per cui Hamhung è famosa.
Si tratta di tagliolini serviti in brodo di manzo
ghiacciato con salsa piccante, anche se ne esistono
molte varianti. Mamma mangiava il suo naengmyeon
con gli occhi chiusi per il piacere. La sua era quasi
una dipendenza.
La domenica giocavo con le amiche del quartiere
nel cortile di cemento della nostra palazzina.
Saltavamo la corda oppure giocavamo a un tipo di
«campana», il sabanchigi.
Negli altri sei giorni della settimana o ero a scuola
o comunque dovevo seguire delle attività legate alla
scuola. Non era solo il tempo dei bambini a essere
così impegnato. Tutti, operai, quadri, soldati,
scaricatori di porto, contadini, insegnanti, casalinghe,
pensionati, i miei genitori compresi, venivano tenuti
perennemente occupati dopo il lavoro con qualche
riunione organizzativa o altre attività finalizzate a
ottenebrare la mente, come per esempio i «gruppi di
studio» o le «discussioni» ideologiche, che spesso
prevedevano la memorizzazione dei discorsi del
Grande Leader e del Caro Leader, o la partecipazione
a conferenze che potevano durare ore, su qualsiasi
argomento, dalla storia rivoluzionaria dei primi anni
del partito alle nuove tecniche di allevamento del
maiale, dall’elettricità ricavata da fonti idroelettriche
alle poesie di Kim Jong-il. Tutto ciò faceva parte del
sistema comunista: assicurarsi che nessuno potesse
uscire dal seminato conducendo un’esistenza egoista,
individualistica o comunque privata. Ma era anche un
metodo di sorveglianza. La perenne partecipazione
comunitaria faceva sì che le ore del giorno in cui
nessuno ci teneva d’occhio fossero davvero poche.

Ad Anju avevo cominciato la scuola elementare,


ma a Hamhung dovevo iniziare a frequentare una
scuola nuova, cosa che mi riempiva di apprensione. Il
primo giorno mia madre fece non poca fatica a
convincermi a entrare nell’edificio. I bambini mi
sembravano maleducati e parlavano con un accento
diverso; non c’era un’atmosfera «paesana» come nella
scuola di Anju. Gli striscioni appesi nel corridoio
esplicitavano chiaramente le nostre priorità:
«Studiamo per la nostra nazione!» e «Sempre all’erta
per il Maresciallo Kim Il-sung!».
Ma io ero estroversa, e curiosa di conoscere i miei
nuovi compagni di classe. Ben presto mi feci delle
buone amiche tra le bambine. Per fortuna avevo
fiducia in me stessa, avendo alle spalle una famiglia
affettuosa.
Fu nella scuola di Hamhung che ricevetti la mia
iniziazione al «tempo di purificazione esistenziale»,
cioè alle sessioni di autocritica, diventate un tratto
basilare della vita nella Corea del Nord fin dal 1974,
quando Kim Jong-il le aveva introdotte, e tali da
mettere paura a chiunque. Cominciavano alle
elementari e andavano avanti per tutta la vita. Le
nostre si tenevano ogni sabato, e coinvolgevano
l’intera classe, quaranta alunni. A presiederle era la
maestra. Ciascuno, a turno, doveva alzarsi in piedi,
accusare qualcun altro e confessare qualcosa.
Nessuno poteva sottrarsi con la scusa della timidezza.
E a nessuno era permesso uscirne senza macchia.
Doveva essere umiliante e doloroso, per gli adulti,
alzarsi in piedi davanti a tutti e dover criticare un
collega per qualche mancanza personale o legata al
lavoro. Ma erano così tante le colpe di cui anche un
bambino poteva essere accusato. L’atmosfera in classe
era mortalmente seria. In quelle occasioni la maestra
non tollerava la minima leggerezza, anche se le
accuse erano spesso risibili. La formula prevedeva di
aprire la sessione con un comandamento di Kim Il-
sung o Kim Jong-il e subito dopo alzarsi e accusare il
bambino che l’aveva violato. Paradossalmente,
quando cominciavano a volare le accuse e si puntava
il dito, era l’unico momento in cui ci chiamavamo
«compagni».
Quelle sessioni potevano creare un’atmosfera di
grande paura e amarezza, anche tra noi bambini. Ma
spesso, grazie all’umanità che tutti possediamo,
adulti e bambini sapevano trovare il modo di
allontanare da sé l’amaro calice. Se non ce la facevo
proprio ad accusare un compagno, a volte accusavo
me stessa, cosa che si poteva fare. Oppure io e
un’amica stringevamo un patto: una settimana lei
avrebbe criticato me, e la settimana dopo io avrei
criticato lei accusandola di qualcosa che avevamo
inventato e concordato insieme. Per esempio lei si
alzava e diceva: «Il nostro Rispettato Padre e Leader
ha detto che i bambini devono concentrarsi sullo
studio con zelo e mente limpida». Poi puntava il dito
contro di me: «Ma io nell’ultima settimana ho notato
che la compagna Park non ascolta le lezioni». Io
abbassavo la testa e cercavo di assumere
un’espressione contrita. La settimana dopo toccava a
me. In questo modo potevamo restare amiche. Anche
mia madre stringeva patti simili con i colleghi di
lavoro; e lo stesso avrebbe fatto Min-ho quando fosse
andato alle elementari. Quelle sessioni mi hanno
insegnato una lezione di sopravvivenza: dovevo
imparare a essere discreta, sempre attenta a ciò che
facevo e dicevo, e diffidente nei confronti degli altri.
Stavo già costruendomi la maschera che gli adulti
indossano dopo averci fatto l’abitudine.
Spesso, però, i miei compagni e io ci sentivamo
criticare in maniera del tutto inaspettata. Quando ciò
accadeva, l’accusato non tardava a vendicarsi. In rari
casi, la cosa poteva essere letale. Una volta –
frequentavo l’ultimo anno delle superiori – un
ragazzo puntò il dito contro un compagno e disse:
«Quando sono venuto a casa tua, ho visto che avevi
molte cose che prima non avevi. Dove avete trovato i
soldi per comprarle?». L’insegnante riferì la critica al
preside, che la riferì al bowibu. Ci furono delle
indagini e venne fuori che la famiglia aveva un altro
figlio che era scappato nella Corea del Sud e mandava
loro del denaro. Tre generazioni di quella famiglia
furono arrestate con l’accusa di tradimento.
Presto imparai a considerare le sessioni di
autocritica come parte della vita. Ma avevo anche la
sensazione che non avessero nulla di positivo; erano
solo e interamente negative.

Il momento più significativo della mia infanzia si


verificò quando avevo nove anni, a Hamhung.
Insieme a tutti gli altri bambini della mia età, infatti,
entrai a far parte del Corpo dei giovani pionieri, il
movimento giovanile comunista della Corea del
Nord. Quel giorno si tennero cerimonie in tutte le
scuole del paese, con genitori e insegnanti riuniti in
grandi spazi pubblici. Questo è considerato uno dei
giorni di maggiore orgoglio in tutta la vita di un
nordcoreano.
Entrare nei pionieri, fra i nove e i quattordici anni,
è obbligatorio, ma non tutti vengono accettati nello
stesso momento. Prima bisogna passare un
durissimo esame mnemonico: dimostrare di aver
imparato a memoria quali siano i diritti e i doveri del
giovane pioniere. Da quel momento in poi avrei
dovuto obbedire agli ordini del Grande Leader e del
Caro Leader, ovunque e comunque. Dovevo pensare e
agire in sintonia con i loro insegnamenti. Dovevo
respingere e denunciare chiunque avesse cercato di
convincermi a fare qualcosa di contrario alla loro
volontà. Io non avevo difficoltà a mandare a memoria,
e passai l’esame con facilità. E siccome avevo buoni
voti anche nelle materie principali del programma
scolastico (la storia rivoluzionaria di Kim Il-sung e
Kim Jong-il) fui selezionata per la prima cerimonia di
ammissione dell’anno, che si teneva il giorno del
compleanno di Kim Jong-il, il 16 febbraio del 1989.
Qualche giorno prima della cerimonia, proprio per
l’occasione, mamma mi comprò un paio di scarpe
nuove. Erano fabbricate all’estero e acquistate in un
negozio speciale che prendeva solo dollari, riservato a
coloro che avevano accesso alla valuta estera e che
volevano spenderla. Ero così eccitata per quelle
scarpe che, pur di calmarmi, mamma mi concesse di
dar loro una sbirciatina. Erano di vera vernice, con il
cinturino e la fibbia, di un vivace rosso scuro: niente a
che vedere con le scarpe di fabbricazione statale che
portavamo tutte, di scarsa qualità e prodotte solo nel
colore nero. Mamma non mi permise nemmeno di
toglierle dalla scatola fino alla sera prima della
cerimonia.
Durante l’evento avremmo ricevuto un foulard di
cotone rosso e una spilletta d’argento dei pionieri da
fissare al risvolto della blusa. Quel foulard per me
voleva dire che ero una ragazza grande, non più una
bambina. Ma a quell’eccitazione subentrò,
inaspettatamente, quella legata alle scarpe rosse.
L’attesa fu una vera sofferenza. La sera prima della
cerimonia dormii con le scarpe nuove sul letto
accanto a me e mi svegliai più volte per controllare
che ci fossero ancora.
Quando finalmente arrivò la mattina tanto attesa,
ero in estasi. L’evento si sarebbe svolto nell’aula
magna della nostra scuola. Per l’occasione le pareti
erano state decorate con disegni e collage realizzati
dagli alunni e raffiguranti la base segreta dei
guerriglieri nelle foreste del monte Paektu in cui era
nato il Caro Leader, e la nuova stella apparsa nel cielo
la notte della sua nascita. I discorsi ufficiali di preside
e insegnanti rimbombavano dagli altoparlanti, e sul
palcoscenico troneggiava un gigantesco bouquet di
kimjongilia, una begonia di un bel rosso brillante che
è il fiore ufficiale di Kim Jong-il. Poi tutti si alzarono
in piedi e cantarono la Canzone del Generale Kim Jong-
il, e alla fine i pionieri salirono sul palco per ricevere,
con grande solennità, foulard e spilletta. Dal
pubblico, i genitori li applaudirono uno per uno.
Anch’io salii sul palco per riceverli, scoppiando
d’orgoglio per le mie scarpe nuove. A ripensarci oggi
mi stupisco di aver creduto che la cosa non avrebbe
avuto ripercussioni. Tutti i presenti nell’aula magna
dovettero notarle. Solo molti anni dopo mi avrebbe
colpito il pensiero che erano state un regalo davvero
strano. La maggior parte dei bambini che
parteciparono alla cerimonia (ed erano centinaia)
portavano le solite scarpe nere di produzione statale.
Mamma era una donna prudente, ma,
consapevolmente o meno, con quel dono aveva
incoraggiato in me un preciso individualismo.
Scattammo molte foto di gruppo e di famiglia. Fu
un giorno di grande orgoglio per i miei genitori. Papà
indossava l’uniforme dell’aviazione. Mamma teneva
in braccio Min-ho, che all’epoca aveva due anni.
I compagni non selezionati per la cerimonia
dovettero aspettare fino alla successiva, il giorno del
compleanno di Kim Il-sung, il 15 aprile.
Una ragazza di cui ero amica non era stata
accettata per la cerimonia di febbraio, e spesso era
assente dalle lezioni. Per qualche ragione la nostra
maestra decise che, insieme ad alcune amiche
dell’allieva, sarebbe andata a farle visita a casa sua
per vedere se stava bene. La casa sorgeva in un’area
sporca e squallida della città, dove c’era molta
delinquenza. La visita si rivelò un terribile errore.
L’appartamento era spoglio e puzzava di fogna. La
ragazza, evidentemente, aveva cercato di nasconderci
la sua povertà, e invece eccoci lì, ammassate in una
delle due piccole stanzette, con lo sguardo fisso a
terra mentre la maestra, tutta rossa per l’imbarazzo,
suggeriva alla madre che la nostra compagna doveva
proprio frequentare la scuola tutti i giorni.
Quell’esperienza mi turbò molto. Sapevo che
esistevano gradi diversi di privilegio, ma pensavo che
tutti noi fossimo cittadini a pari merito del paese
migliore del mondo. I Leader stavano dedicando la
propria vita al compito di provvederci di ogni cosa. O
no?
Nella Corea del Nord la scuola è gratuita, anche se
in realtà alle famiglie vengono chieste continuamente
delle quote volontarie in natura, che poi la scuola
rivende per comprare le attrezzature. La mia amica
non veniva a scuola perché i suoi genitori non
potevano permettersi quelle donazioni. Nessuno di
noi era così cinico da rendersi conto che in realtà la
nostra scuola non era affatto gratuita. Le donazioni
erano un dovere patriottico: pelo di coniglio per i
guanti e i berretti dei soldati che ci garantivano la
sicurezza; rottami di ferro per i fucili, rame per le
pallottole; funghi e bacche come generi
d’esportazione per ottenere valuta pregiata. A volte
un bambino poteva essere criticato davanti a tutta la
classe per non aver consegnato la quota.

All’inizio del 1990, quando avevo dieci anni, papà


annunciò che ci sarebbe stato un altro trasferimento:
saremmo tornati a Hyesan. Mamma ne aveva più che
abbastanza dell’inquinamento e dello stress di
Hamhung, le mancavano la sua famiglia e l’aria
buona della sua città natale. Pensava inoltre che una
città industriale non fosse un buon posto in cui
crescere Min-ho. Ancora una volta non vedevamo
l’ora di traslocare. I miei genitori non facevano che
parlare di Hyesan e della gente di laggiù.
Stavamo per tornare a casa.
Min-ho, mia madre e io salutammo con la mano
mio padre, e Hamhung, dal finestrino del treno. Papà
ci avrebbe raggiunti nel giro di un giorno o due. Il
viaggio verso casa non si sarebbe fissato nella mia
memoria se non fosse stato per un piccolo dramma
che ci vide protagonisti in quelle ore, e che avrebbe
lasciato un’impronta duratura in me e in mia madre.
Nel viaggio verso nord dovevamo cambiare treno
in una città di nome Kil-ju, sulla costa orientale. Nelle
stazioni ferroviarie della Corea del Nord ci sono
sempre rigorosi controlli dei documenti personali dei
viaggiatori, spesso costretti a passare attraverso due
cordoni di poliziotti e controllori. Nessuno può salire
su un treno senza un permesso di viaggio stampato
sul libretto d’identità e un biglietto ferroviario valido
quattro giorni. Tutta questa documentazione viene
esaminata di nuovo alla stazione d’arrivo. Una
controllora scrutò i biglietti di mia madre e le disse in
tono brusco che erano scaduti. Era il tipo di
funzionario con cui la maggior parte delle famiglie
nordcoreane è abituata a trattare: una Grande Leader
in miniatura, quando indossava l’uniforme. Prese il
libretto d’identità di mia madre e il suo biglietto e le
disse di aspettare lì.
Mamma si prese il viso tra le mani. Adesso sì che
avevamo un problema serio. Avremmo dovuto farci
rilasciare un nuovo permesso di viaggio da Hamhung
e ricomprare i biglietti, una manovra che avrebbe
richiesto del tempo, e lei doveva badare a due
bambini e ai bagagli. Eravamo bloccati. Min-ho
piangeva a dirotto. Mamma se lo tolse dalla schiena e
lo prese in braccio, e ci accasciammo su una panchina
dentro la stazione. Io le tenevo la mano. Dovevamo
avere un’aria molto sconsolata, perché un uomo di
mezz’età in berretto grigio e uniforme delle ferrovie
dello stato coreane ci si avvicinò sorridendo e chiese a
mia madre quale fosse il problema. Mamma glielo
spiegò, e lui andò nell’ufficio della controllora. La
donna non c’era, così lui prese il libretto d’identità di
mia madre e i suoi biglietti e glieli riconsegnò.
Poi, a bassa voce, le disse: «Quando il treno si
ferma, saltate su. E se quella donna viene a cercarvi,
nascondetevi».
Piena di gratitudine, mamma gli chiese quale fosse
il suo indirizzo così avrebbe potuto mandargli
qualcosa.
L’uomo alzò le mani: «Non c’è tempo».
Il treno entrò in stazione sferragliando e
diffondendo un odore di latrine e di acciaio saldato.
Si fermò con uno stridore di freni, poi le porte
cominciarono a spalancarsi.
Salimmo. Il vagone era affollatissimo. In tutta
fretta mamma spiegò la nostra situazione agli altri
passeggeri, chiedendo se potevamo nasconderci
dietro di loro. Com’era prevedibile, un minuto dopo
si sentì la voce della controllora che chiedeva alla
gente rimasta sulla banchina che fine avessimo fatto.
Subito dopo ci rendemmo conto che era entrata nel
nostro vagone.
«Avete visto una donna con un bambino piccolo e
una ragazzina?» si mise a gridare. «È salita qui?»
«Sì» risposero all’unisono due passeggeri davanti a
noi. «Sono andati da quella parte.»
La donna scese, guardando a destra e a sinistra per
cercare di individuarci. La sentimmo interrogare altre
persone sulla banchina. Noi tre trattenevamo il fiato.
Perché il treno non ripartiva? Passò un lunghissimo
minuto. Finalmente udimmo la nota acuta di un
fischietto. Il treno balzò in avanti, i respingenti
cozzarono forte. Mamma mi guardò e finalmente
poté respirare. Aveva avuto una paura terribile che
Min-ho ricominciasse a strillare.
La gentilezza verso gli sconosciuti è cosa rara nella
Corea del Nord. Aiutare gli altri può essere rischioso.
L’ironia della cosa sta nel fatto che, cercando di
costringerci a diventare buoni cittadini, lo stato ci
trasformava tutti in traditori e informatori.
Quell’episodio fu talmente insolito che mia madre
l’avrebbe raccontato più e più volte, aggiungendo
quanto si sentiva grata verso quell’uomo e tutti i
passeggeri. Qualche anno dopo, quando il paese
sarebbe entrato nella sua fase più cupa, ci saremmo
ricordati ancora di lui. Le persone gentili, capaci di
anteporre gli altri a se stesse, sarebbero state le prime
a morire. Solo gli spietati e gli egoisti sarebbero
sopravvissuti.
7
Boomtown

A Hyesan, la nostra nuova casa era un’abitazione


assegnataci dall’esercito. I nostri vicini erano altri
ufficiali con le famiglie. Era una buona sistemazione,
per gli standard nordcoreani. Era composta da due
stanze e un gabinetto alla turca, il riscaldamento a
pavimento era rovente e la colla del reja, una specie di
linoleum, emanava un odore di funghi. L’edificio in sé
era male isolato: d’inverno avevamo il fondoschiena
bollente e il naso gelato. Se si voleva fare un bagno
caldo bisognava scaldare l’acqua.
Mamma fece le sue solite migliorie, cambiando
mobili e carta da parati. La cosa non le dispiaceva. Era
felice di essere di nuovo a Hyesan, e di poter
riprendere contatto con le nostre cerchie sociali e
famigliari. Ci sentivamo a casa.

Mentre eravamo via, Hyesan aveva vissuto anni di


boom economico. I commerci illeciti lungo il confine
con la Cina sembravano più floridi che mai, e mamma
voleva la sua fetta. Aveva trovato lavoro in un ufficio
governativo locale, ma il suo stipendio, come quello
di tutti i funzionari statali, era risibile. Lei voleva fare
i soldi sul serio, come zia Carina, zio Denaro e zio
Oppio.
A Hyesan pareva si potesse comprare qualsiasi
cosa, dai liquori più costosi ai lussuosi profumi di
provenienza estera, dai vestiti prodotti in Occidente
all’elettronica giapponese, purché si pagasse. I
contrabbandieri importavano merci dalla provincia di
Changbai, in Cina, oltre il fiume stretto e poco
profondo, dove le riceveva un contatto coreano, o
anche attraverso il Ponte internazionale Changbai-
Hyesan (localmente noto come Ponte dell’Amicizia). I
commerci illegali tramite il ponte richiedevano il
pagamento di mazzette ai funzionari della dogana
nordcoreana; quelli che passavano per il fiume, il
pagamento di mazzette alle guardie di frontiera.
D’inverno, quando l’acqua del fiume gelava, i
contrabbandieri facevano avanti e indietro sul
ghiaccio; per il resto dell’anno lo guadavano col
favore della notte, o anche alla luce del giorno, se le
guardie appostate nei punti cruciali erano state bene
informate e oliate.
Anche noi notavamo quella nuova prosperità. La
cosa non sarebbe stata altrettanto ovvia per un
osservatore esterno, dato che i nordcoreani in genere
sono poveri e cercano in tutti i modi di non attirare
l’attenzione dello stato. Un viaggiatore proveniente
dalla Cina avrebbe visto solo una città di notte
sprofondata nel più rigido black-out, con qualche
rada lampada a kerosene baluginante dalle finestre, e
di giorno scialba e incolore, piena di gente che
pedalava senza gioia per andare al lavoro. Ma i
segnali erano dappertutto. L’albergo destinato agli
stranieri, dove in certe occasioni speciali i nostri
genitori portavano me e Min-ho a passare la notte (il
direttore era amico di mia madre), era sempre pieno
di uomini d’affari cinesi. La mattina scendevamo a
fare colazione con loro, ma non gli rivolgevamo mai la
parola, nel caso ci fosse stato in giro qualche
informatore o agente del bowibu. Il negozio che
accettava solo dollari, davanti alla stazione, era
sempre pieno di clienti intenti a spendere valuta
pregiata per beni che non si potevano comprare
altrove, e che sicuramente non si potevano ottenere
tramite il Sistema di distribuzione pubblica. Entrarci
era come essere accolti in una caverna magica.
Stentavo a credere alle confezioni sgargianti di quegli
oggetti: biscotti e cioccolatini di produzione straniera
avvolti in luccicanti carte viola o argentee che li
rendevano irresistibilmente tentatori, succhi di frutta
(arancia, mela, uva) in bottiglie trasparenti con le
etichette in caratteri occidentali, provenienti da
qualche remota terra d’abbondanza. Fuori dal
negozio, i cambiavalute illegali gironzolavano come
mosche. Mamma passava là davanti senza fermarsi e
non voleva avere niente a che fare con loro: diceva
sempre che truffavano la gente facendo un pacchetto
di carta di giornale e mettendoci sopra qualche
banconota autentica, ben sapendo che chi cercava di
cambiare valuta illegalmente poi non poteva andare a
lamentarsi alla polizia. Anche il salone di bellezza
statale era sempre tutto prenotato da donne che si
facevano la permanente (non la tinta, che era
proibita), e i ristoranti statali facevano ottimi affari.
Ma la cosa più significativa è che anche i mercati
locali erano vivaci e affollati.
I mercati occupano un posto un po’ ambiguo nella
società nordcoreana. Il governo aveva cercato più
volte di proibirli, o quantomeno di limitarne l’orario
d’apertura, da quando Kim Jong-il, che ormai dirigeva
il paese al posto del padre, aveva dichiarato che erano
terreno di coltura per ogni tipo di pratica
antisocialista (cosa su cui aveva perfettamente
ragione). Ma non era stato possibile metterli fuori
legge, con un Sistema di distribuzione pubblica che
faceva acqua da tutte le parti e non riusciva a far
arrivare alla popolazione un quantitativo sufficiente
di generi di prima necessità. Di tanto in tanto,
Pyongyang ordinava un giro di vite e i mercati
venivano chiusi senza preavviso, ma solo per
rispuntare fuori qualche giorno dopo, come erbacce
resistenti e contagiose. I regolamenti che li
riguardavano cambiavano come cambia il vento. Per
molti anni era stato illegale vendervi il riso, perché il
riso è sacro ed è un dono del Grande Leader. Ma
quando andavo al mercato, con una certa regolarità,
insieme a mia madre, il riso era in vendita accanto
alla carne, alla verdura, ai casalinghi e ai vestiti e
cosmetici cinesi, nonché, ben nascoste sotto i
tappetini, con enorme rischio sia per il venditore sia
per gli acquirenti, a certe cassette di musica pop
estera. Si pensava che i beni provenienti dal
Giappone fossero quelli di migliore qualità. Subito
dopo venivano quelli prodotti nella Corea del Sud
(con etichette e marchi del nostro arcinemico
accuratamente rimossi), e infine quelli cinesi.
Mia madre non perse tempo. In un attimo prese
contatto con dei commercianti cinesi appena di là dal
fiume, a Changbai, e organizzò spedizioni di generi
di contrabbando che poi rivendeva con un buon
margine di profitto. I suoi principali soci d’affari si
chiamavano signor Ahn e signor Chang, due sino-
coreani che avevano una casa sulla riva cinese del
fiume.
Fu in rapporto alle sue fiorenti attività commerciali
che, il secondo anno dopo il nostro ritorno a Hyesan,
mamma mi portò da un’indovina.
Quel giorno ci alzammo prestissimo, ricordo che
era ancora buio. Papà e Min-ho dormivano. Era
primavera, e germogli di un verde brillante
cominciavano a spuntare nelle strade vuote e sporche.
Mamma e io corremmo in stazione per prendere il
primo treno pendolari per Daeoh-cheon, il paesino in
cui viveva la donna.
Mamma conosceva un gran numero di quei mistici,
e spendeva un mucchio di soldi per consultarli. Io ero
nervosa per essermi dovuta svegliare così presto, ma
lei mi disse che il canale che conduce agli spiriti è più
limpido nelle ore dell’alba. «L’indovina sarà più
precisa.»
E poi voleva battere sul tempo la coda. A volte era
arrivata solo per scoprire che l’indovina non c’era, e
un vicino le aveva detto che era salita in una
Mercedes-Benz con l’autista e i vetri oscurati, forse
per una seduta privata con un quadro importante del
partito. La Corea del Nord è uno stato ateo. Chiunque
venga trovato in possesso di una Bibbia rischia la
pena di morte o di trascorrere il resto della vita in un
campo di lavoro. L’adorazione dei Kim è l’unica forma
di fervore spirituale legalmente ammessa. Sciamani e
indovini sono fuorilegge, ma anche i quadri dirigenti
del partito li consultano. Avevamo sentito dire che
perfino Kim Jong-il in persona, a volte, si rivolgeva a
loro per un parere.
La casa dell’indovina era molto vecchia: a un solo
piano, con la struttura di legno, pareti di fango e tetto
coperto di paglia. Io non sapevo nemmeno che
esistessero ancora case di quel genere. Era tutta
inclinata da una parte e puzzava di umidità. La donna
era anziana, con capelli folti e arruffati. Viveva sola e
doveva crescere una nipote.
«Avrei una domanda riguardante il commercio»
sussurrò mia madre. «Il mio socio cinese ha dei
prodotti. Vorrei sapere quando me li posso far
mandare.»
In altre parole, voleva sapere quale fosse il giorno
più propizio per darsi al contrabbando senza rischi. A
volte, se la data era già fissata, mamma era disposta a
pagare per un rituale con cui tenere lontana la
malasorte.
La vecchia lasciò cadere un pugno di riso sul piano
del tavolo e separò i chicchi con le unghie,
dividendoli in mucchietti. Poi scrutò i mucchietti con
grande concentrazione e cominciò a parlare
rapidamente. Io non capivo se si stesse rivolgendo a
noi oppure agli spiriti. Parlava del giorno in cui
sarebbe stato più propizio ricevere le merci.
«Quando esci di casa, quel mattino, metti avanti
per primo il piede sinistro. Poi spargi tutt’attorno del
sale e prega lo spirito della montagna che ti mandi la
buona fortuna.»
Mamma annuì. Era soddisfatta.
«Questa è mia figlia» aggiunse, e disse alla donna
il giorno e l’ora della mia nascita. L’indovina mi
guardò dritto in faccia, in un modo che mi innervosì.
Poi chiuse gli occhi con espressione teatrale.
«Tua figlia è intelligente» disse poi. «Ha un futuro
nella musica. Ma mangerà riso forestiero.»
Mentre tornavamo verso la stazione stava sorgendo
il sole e l’aria era meravigliosamente pulita e
frizzante. Le rocce in cima alle montagne si
stagliavano nitide sullo sfondo del cielo, ma una
nebbiolina bianca indugiava ancora al piede delle
colline, fra i pini. Mamma percorreva lentamente il
sentiero di terra battuta, tenendomi per mano. Stava
pensando alla profezia. Aveva interpretato le parole
riso forestiero nel senso che avrei vissuto al di là del
mare. Poi sospirò, pensando che probabilmente aveva
sprecato i suoi soldi.
A nessun nordcoreano normale è permesso
viaggiare all’estero, e men che meno emigrare. Con le
indovine funzionava così: ti dicevano delle cose, e tu
sceglievi a quali credere. Nutrivo un certo scetticismo
sulla sua capacità di predire le date fauste per il
contrabbando, ma ero incline ad accettare ciò che
aveva detto di me. Anch’io pensavo che avrei avuto
un futuro nella musica: prendevo lezioni private di
fisarmonica, ed ero piuttosto brava. Da noi la
fisarmonica è uno strumento molto popolare: un
retaggio della fine della seconda guerra mondiale,
quando la nostra metà della penisola era piena di
soldati dell’Armata rossa, anche se il partito non ha
mai ammesso che ci sia stata alcuna forma
d’influenza straniera sulla nostra cultura. In quel
momento pensai che la profezia della vecchia
indovina riguardasse una mia carriera come
fisarmonicista professionista e un matrimonio con
qualcuno proveniente da un’altra provincia. Forse
avrei addirittura vissuto a Pyongyang e il mio sogno
si sarebbe avverato. Solo le persone molto privilegiate
potevano vivere nella capitale. Ci fantasticai sopra per
settimane, finché non si verificò un evento tale da
cancellare tutti i miei sogni a occhi aperti e gettare
un’ombra su tutta la mia infanzia.
8
La fotografia segreta

Qualche mese dopo la visita all’indovina, durante le


vacanze scolastiche estive, mamma aveva portato
Min-ho da qualche parte e io ero rimasta per tutta la
giornata a casa della nonna. Era una donna
affascinante, intelligente e sempre ricca di storie.
Portava i capelli d’argento raccolti sulla nuca, nel
vecchio stile coreano, con uno spillone infilato nella
crocchia. Ma la storia che mi raccontò quella volta mi
avrebbe sconvolta.
Ancora oggi non sono sicura di sapere perché lo
fece. Non voleva certo farmi un dispetto, e non credo
che avesse perso lucidità, dimenticando che una certa
cosa sarebbe dovuta restare segreta. L’unica
spiegazione che mi viene in mente è che fosse
sinceramente convinta che dovessi sapere la verità
finché ero giovane, perché avrei avuto meno difficoltà
a digerirla da ragazzina che se l’avessi scoperta più
tardi, da adulta. Se è questo il ragionamento che fece,
posso dire che commise un terribile errore.
Era una tiepida mattina di sabato, e la porta e le
finestre erano aperte. Fuori in cortile le ghiandaie
cinguettavano e scendevano a bere acqua da una
ciotola. Eravamo sedute a tavola quando la nonna
cominciò a fissarmi con una strana intensità. Poi, con
voce dolce, disse: «Sai, tuo padre non è il tuo vero
padre».
Io non capii nemmeno di cosa stesse parlando.
Lei tese la mano sul tavolo e strinse la mia. «Tu ti
chiami Kim. Non Park.»
Ci fu una lunga pausa. Non riuscivo a capire dove
volesse andare a parare, ma probabilmente le rivolsi
un sorrisetto insicuro. Poteva benissimo essere uno
dei suoi scherzi. Come mia madre, anche la nonna
aveva il senso dell’umorismo.
Vedendo la mia confusione aggiunse: «È la verità».
Poi si alzò e si avvicinò alla vetrinetta in cui teneva
i piatti e le ciotole più belle. Nella parte bassa c’era
un cassettino. Si chinò, rigida. Sulla nuca le si
intravedeva lo spago cui era appesa la tessera del
partito. Prese una busta di cartone e me la tese.
Odorava di umidità.
«Aprila.»
Ci infilai la mano e tirai fuori una foto in bianco e
nero. Era una festa di nozze. Riconobbi subito mia
madre: era la sposa al centro dell’inquadratura, e
indossava un bel chima jeogori. Ma l’intera scena non
aveva senso. Lo sposo accanto a lei non era mio
padre. Era un uomo bello e alto con i capelli pettinati
all’indietro e un abito all’occidentale. Alle loro spalle
c’era una grande statua bronzea di Kim Il-sung, il
braccio teso come per dirigere il traffico.
La nonna mi indicò lo sposo della foto. «Quello è
tuo padre. E quella signora...», e mi indicò la bella
donna alla destra dello sposo, «è sua sorella, tua zia.
Fa l’attrice a Pyongyang. Tu le somigli molto.» Poi
sospirò. «Il tuo vero padre era un uomo simpatico, e
ti amava molto.»
A un tratto nella stanza parve attutirsi la luce.
Qualunque legame mi avesse tenuta attaccata alla
realtà era stato tagliato. Galleggiavo nell’irrealtà,
profondamente confusa.
La nonna mi spiegò che mia madre aveva amato
mio padre così tanto che non era più riuscita a vivere
con l’uomo che aveva sposato, il mio padre biologico.
E aveva divorziato da lui.
Papà non è il mio vero padre? Avevo gli occhi pieni di
lacrime. Come può la nonna dire una cosa del genere?
Tacqui. Ma fu come se la nonna riuscisse a
leggermi nella mente la domanda seguente, quella
che non riuscivo nemmeno a formulare. Avevo
l’impressione che, se avessi aperto la bocca, mi sarei
spaccata in due.
«Min-ho è il tuo fratellastro» aggiunse, annuendo.
Io la fissavo, ma lei andò avanti.
«Un paio d’anni fa, quando è andata a Pyongyang
per far visita a tuo zio Denaro, casualmente tua
madre ha incontrato per la strada il tuo vero padre...»
Un brivido mi percorse la schiena. Non mi piaceva
affatto che chiamasse quella persona «mio padre».
«Aveva nella borsetta una tua foto, e gliel’ha
mostrata. Lui non ha detto niente. Si è limitato a
fissarla a lungo, poi, prima che lei avesse la
possibilità di impedirglielo, se l’è fatta scivolare in
tasca e si è allontanato. Così ora possiede una foto
tua.» Gli occhi della nonna si spostarono sulla
finestra e sulle montagne là fuori. «Dopo l’incontro
ho scritto a sua sorella, l’attrice, per sapere che ne era
stato di lui. E lei mi ha detto che si è risposato subito
dopo il divorzio e ha due gemelle, e una l’ha chiamata
Ji-hae, come te.»
Ji-hae, il mio primo nome.
Un’ombra passò sul viso della nonna. «Non
avrebbe dovuto farlo.»
Secondo una delle molte superstizioni della Corea
del Nord, se una persona si risposa e dà al figlio del
secondo matrimonio lo stesso nome di quello nato
dal primo, il secondo a ricevere quel nome morirà.
«Ancora piccola, la bambina si è ammalata ed è
morta.»
Me ne andai dalla casa della nonna stordita. Mi
sentivo come svuotata, triste e insensibile insieme. La
nonna non mi aveva detto di mantenere il segreto, ma
io sapevo che non ne avrei mai fatto parola né con
mia madre né con mio padre, né con nessun altro. Ero
troppo giovane per sapere che parlarne era
esattamente ciò che avrei dovuto fare. Invece
seppellii quella storia dentro di me, e cominciò a
divorarmi il cuore. Ero sempre più confusa. L’unica
cosa che mi sembrava di capire era che questo in
qualche modo spiegava la freddezza dei genitori di
mio padre nei miei confronti, e la loro generosità
verso Min-ho. Lui aveva il loro stesso sangue. Io no.
Quando tornai a casa, Min-ho era seduto sul
pavimento a disegnare con i pastelli colorati. Ciò che
stava disegnando mi lasciò sbalordita, e sentii di
avere nuovamente gli occhi pieni di lacrime. Ma
provavo anche qualcosa di simile alla rabbia. Era un
disegno, rozzo ma affascinante, che rappresentava
con pochi tratti lui, me, mio padre e mia madre che ci
tenevamo per mano sotto un sole brillante. Dentro il
sole c’era il viso di un uomo con gli occhiali: Kim Il-
sung.
All’epoca Min-ho aveva cinque anni. Cresceva come
un bambino dal buon carattere, al quale piaceva
aiutare la mamma. E aveva un bellissimo sorriso. Ma
ormai mi sembrava che fra noi fosse calata come una
parete di vetro. Lui era solo il mio fratellastro.
Da quel momento i rapporti fra noi cambiarono. Io
divenni una sorella maggiore che lo provocava
continuamente, e che dava il via a litigi in cui lui non
poteva avere la meglio. A ripensarci adesso me ne
dispiace molto. Mamma diceva: «Ma che cos’hai?
Perché non puoi essere un po’ più come Min-ho?».
Solo molti anni dopo sarei riuscita a rielaborare in
modo più maturo le informazioni ricevute dalla
nonna, e a riaprire un dialogo con mio fratello.
Quella sera a cena non dissi niente. Mamma
chiacchierava di qualche faccenda d’affari di zia
Carina; a Min-ho disse di non tenere le bacchette per
aria; papà era calmo come al solito, come se non fosse
cambiato niente. A un certo punto mi disse: «Che
cos’hai? Sei silenziosa come un topolino».
Io tenevo gli occhi fissi sulla mia ciotola. Non
riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia.
Nella Corea del Nord la famiglia è tutto. I legami
di sangue sono tutto. Il songbun è tutto. Lui non è mio
padre.
Cominciai ad allontanarlo da me e a sottrarmi a
ogni contatto, convinta di aver perso l’amore che
provavo per lui. Era il dolore a farmelo credere.
Cominciai a evitarlo.
9
Essere una brava comunista

Raggiunsi gli altri ragazzi che si stavano radunando


per strada. Nessuno arrivava mai in ritardo. Ci
legammo bene il foulard rosso e ci mettemmo in
formazione. Il capoclasse, che era anche il capo del
nostro gruppo di marcia, alzò il vessillo rosso e noi
segnammo il passo dietro di lui, facendo oscillare le
braccia e cantando con tutta la voce che avevamo in
corpo:

Chi è il partigiano dalle imprese insuperate?


Chi è il patriota dalle imprese imperiture?

Nel settembre del 1992 avevo iniziato a


frequentare la scuola media di Hyesan, dove mi
recavo marciando ogni mattina alle otto. Le canzoni
le conoscevamo così bene che ne intonavamo la
melodia spontaneamente.

Così caro ai nostri cuori è il nome glorioso del nostro


Generale!
Il nostro amato Kim Il-sung dalla fama immortale!

Ma ormai il foulard rosso che avevo tanto


desiderato portare era diventato per me solo una
fonte d’irritazione. Da mia madre stavo prendendo il
gusto di curare il mio aspetto. Non volevo più
saperne dei grigi abiti di produzione nordcoreana.
Volevo essere diversa. Dopo un fatto avvenuto nella
primavera di quello stesso anno, avevo acquisito
anche una maggior consapevolezza del mio corpo.
Mamma mi aveva raggiunta a scuola per pranzare
con me. Eravamo sedute al sole appena fuori
dall’edificio scolastico, e mangiavamo polpette di riso
in riva al fiume quando dalla finestra della nostra
aula, al secondo piano, un ragazzo gridò così forte
che avrebbero potuto sentirlo fino in Cina: «Ehi, Min-
young, tua madre è brutta. Non come te». Gli altri
ragazzi dietro di lui scoppiarono a ridere. Io avevo
solo dodici anni, ma il viso mi si fece paonazzo dalla
collera. Non mi era mai venuto in mente che mia
madre non fosse carina. Mi sentivo molto più
umiliata di lei. Lei invece rideva, e mi disse di
calmarmi. Poi mi diede un pizzicotto sulla guancia e
aggiunse: «I ragazzi cominciano a notarti».

Studiavamo coreano, matematica, musica, arte ed


«etica comunista», un curioso miscuglio di
nazionalismo nordcoreano e tradizioni confuciane
che non credo avesse molto a che fare con il
comunismo come lo intendono gli occidentali.
Cominciai a studiare anche russo, caratteri cinesi,
geografia, chimica e fisica. Papà ci teneva
particolarmente a che imparassi la scrittura cinese,
che secondo lui era molto importante. Molte parole
coreane e giapponesi derivano dal cinese antico, e
anche se col tempo le tre lingue sono diventate molto
diverse i popoli di quelle nazioni spesso scoprono di
poter comunicare attraverso la scrittura. A me non
sembrava una cosa molto utile, perché pensavo solo
ai ragazzi e ai vestiti. Ma un giorno nelle mie
preghiere avrei ringraziato mio padre per avermi
fatto studiare il cinese. È stato un dono portafortuna
che mi avrebbe aiutato a salvarmi la vita.
Ancora una volta, però, le materie più importanti,
quelle che bisognava studiare con più impegno,
riguardavano la vita e i pensieri dei nostri Cari
Leader. Buona parte del programma era dedicato al
culto dei Kim. Le «attività» sui Kim della scuola
elementare alle medie diventavano studi seri. La
scuola aveva una «sala studio» dedicata
esclusivamente alle imprese di Kim Il-sung, di Kim
Jong-il e della madre di Kim Jong-il, Kim Jong-suk.
Era l’aula più immacolata della scuola, realizzata con i
migliori materiali da costruzione, ed era stata pagata
con le donazioni obbligatorie delle famiglie. Veniva
tenuta sigillata perché la polvere non potesse
depositarsi sulle fotografie. Prima di entrare ci
toglievamo le scarpe, e potevamo farlo solo se
indossavamo dei calzini bianchi nuovi.
Le lezioni di storia erano superficiali. Il passato
non era certo inciso nella pietra, e di tanto in tanto
veniva riscritto. Per esempio i miei genitori, a scuola,
avevano imparato che l’ammiraglio Yi Sun-shin, un
comandante della marina le cui tattiche, nel XVI
secolo, avevano scongiurato una massiccia invasione
giapponese, era uno dei grandi eroi della storia
coreana. Ai miei tempi, invece, il suo eroismo veniva
sminuito. Certo, l’ammiraglio Yi aveva fatto del suo
meglio, ci dissero, ma allora la società coreana era
ancora arretrata e in realtà nessuna personalità di
spicco si era mai distinta fino a quando Kim Il-sung
non si era rivelato il più grande condottiero della
storia dell’umanità.
Le lezioni venivano impartite con grande
convinzione. In classe l’insegnante era l’unico a fare
domande, e quando lo faceva l’alunno chiamato a
rispondere doveva alzarsi in piedi, le braccia tese
lungo il corpo, e gridare la risposta come se si stesse
rivolgendo a un reggimento. Non ci veniva richiesto
di formulare nessuna visione personale, né di
discutere o interpretare idee in qualsivoglia materia.
Quasi tutti i compiti assegnati a casa erano semplici
memorizzazioni, una cosa in cui riuscivo bene, tanto
che spesso risultavo la migliore della classe.
Tutte le materie trasudavano propaganda. Nelle
ore di geografia usavamo un libro di testo che
conteneva delle fotografie di campi aridi e disseccati,
talmente prosciugati che il fango era tutto crepato.
«Questa è una normale fattoria della Corea del Sud»
diceva l’insegnante. «I contadini non possono
coltivarci il riso. È per questo che la popolazione
soffre tanto.» Perfino nel libro di matematica le
domande erano formulate in maniera emotiva: «In
una battaglia della Grande guerra di liberazione della
patria, 3 coraggiosi zii dell’Esercito del popolo hanno
fatto fuori 30 bastardi imperialisti americani: quanti
ne ha uccisi ciascuno?».
Tutto ciò che apprendevamo sugli americani era
negativo. Nei cartoni animati erano rappresentati
come sciacalli ringhianti. Nei poster della
propaganda erano secchi come bastoncini, con nasi
aquilini e capelli biondi. Ci veniva insegnato che
puzzavano. Erano stati loro a fare della Corea del Sud
«un vero e proprio inferno», ed erano loro a
mantenervi un governo fantoccio. Gli insegnanti non
perdevano occasione di ricordarci quanto fossero
perfidi.
«Se incontrate per strada un bastardo yankee e vi
offre una caramella, non prendetela!» ci mise in
guardia un insegnante, minacciandoci con il dito.
«Altrimenti, quello andrà a dire in giro che i figli dei
nordcoreani sono mendicanti. State in guardia se
dovesse domandarvi qualcosa, anche la cosa più
innocente.»
Noi ci scambiammo un’occhiata. Nessuno di noi
aveva mai visto un americano. Ben pochi occidentali,
e ancor meno americani, entravano nel nostro paese,
ma per qualche ragione quella minaccia di una cosa
mai vista rendeva l’avvertimento ancor più
inquietante.
Gli insegnanti ci dicevano di stare attenti anche ai
cinesi, i nostri alleati comunisti sull’altra riva del
fiume, perché erano invidiosi di noi e questo li
rendeva inaffidabili. Io ci credevo perché molti dei
prodotti cinesi che avevo visto al mercato erano
senz’altro di scarsa qualità. Alcune clamorose
leggende urbane che circolavano a Hyesan
sembravano confermare le parole dei nostri
insegnanti. Per esempio la storia secondo cui i cinesi
usavano il sangue umano per tingere di rosso le loro
stoffe. Una cosa che mi faceva venire gli incubi.
Quelle storie colpivano molto anche mia madre: una
volta trovò delle uova d’insetto nella cucitura di un
capo di biancheria comprato al mercato, e si chiese se
per caso non poteva avercele messe deliberatamente
il produttore cinese.

Un giorno del primo semestre il professore ci disse


che aveva un annuncio da fare. Di lì a poco sarebbero
cominciati gli allenamenti e le esercitazioni per i
giochi di massa. Questi giochi, ci disse, erano
fondamentali per la nostra formazione. Gli
allenamenti, uniti all’organizzazione e alla disciplina,
avrebbero fatto di noi dei bravi comunisti. E per
spiegare meglio cosa intendeva dire, ci fece un
esempio citando una frase di Kim Jong-il: quando un
bambino impara che un solo passo falso di un
individuo può rovinare l’esibizione di migliaia di
persone, quel bambino impara a subordinare la sua
volontà a quella collettiva. In altre parole, anche se
eravamo troppo giovani per capirlo, i giochi di massa
contribuivano a sopprimere il pensiero individuale.
I giochi di massa segnavano le date più sacre del
calendario. Gli allenamenti si susseguivano tutto
l’anno, con l’unica eccezione delle settimane più
fredde, nel cortile della scuola, il che poteva essere
particolarmente faticoso nel caldo dell’estate. Le
prove finali avevano luogo nello stadio di Hyesan. Il
punto focale di tutto l’anno era il compleanno di Kim
Il-sung, il 15 aprile. Nella parata io suonavo il
tamburo. Seguivano i saggi di ginnastica e le parate
del Giorno dei bambini, il 2 giugno, per cui
marciavamo per tutta la città sventolando delle
bandiere rosse. Poi ci allenavamo per l’anniversario
del Giorno della vittoria nella Grande guerra di
liberazione della patria (la guerra di Corea), il 27
luglio, per il quale insieme alle altre scuole della città
formavamo grandi cori di massa. Poco dopo c’erano i
giochi di massa per il Giorno della liberazione, il 15
agosto (fine della dominazione giapponese), e per il
Giorno della fondazione del partito, il 10 ottobre. Nel
corso dell’anno restava ben poco tempo per la
formazione scolastica vera e propria o per eventuali
interessi privati.
A me quei grandi eventi non piacevano. Erano
snervanti e stressanti. Ma nessuno poteva protestare
o esserne esentato. Le mie amiche e io fummo
assegnate alla sezione «cartoncini» dei giochi di
massa dello stadio di Hyesan: migliaia di bambini che
giravano e rigiravano in modo assolutamente perfetto
dei cartoncini colorati a formare una sequenza di
grandi immagini: il tutto a tempo di musica,
ballando, facendo ginnastica o marciando. Anche se
nessuno di noi ne parlava mai, eravamo tutti
preoccupati per quel «singolo passo falso» che poteva
rovinare l’intera esibizione. Era una cosa che mi
riempiva di terrore. Ci allenavamo senza sosta, fino a
raggiungere la perfezione. Ciascuno di noi aveva un
pacco contenente tutti i cartoncini, da girare in un
ordine predefinito. A guidarci era una conduttrice che
stava in piedi davanti al nostro gruppo mostrando il
numero della cartolina successiva. A un suo segnale,
tutti alzavano il cartoncino all’unisono. Lo schema
finale dell’esibizione rappresentava una gigantesca
immagine del viso del Grande Leader circondato da
una ghirlanda d’oro, che i bambini facevano
ondeggiare per farla sembrare luccicante. Nessuno di
noi poteva vedere la figura che stavamo creando, ma
quando lo stadio era pieno, e sentivamo il ruggito
della folla, e decine di migliaia di persone intonavano
infinite volte «Lunga vita!» («M AN-S AE! M AN-S AE! M AN-
S AE !»), l’adrenalina aveva un effetto elettrizzante.
Alla fine del primo anno delle medie, le cerimonie
per l’anniversario della guerra di Corea mi colpirono
e mi commossero molto. La giornata scolastica
cominciò con dei discorsi all’aperto dei nostri
insegnanti e del preside. Discorsi che si aprirono con
parole solenni pronunciate al microfono: «Il 25
giugno 1950, alle tre del mattino, il nemico
sudcoreano attaccò il nostro paese mentre la gente
dormiva, e uccise molti innocenti...».
Le immagini che quelle parole ci suggerivano, di
carri armati che violavano la frontiera per massacrare
persone innocenti nelle loro case, ci fecero versare
fiumi di lacrime. I sudcoreani avevano fatto di noi
delle vittime. Dentro di me ardevano pensieri di
vendetta e il desiderio di raddrizzare i torti. E tutti gli
altri bambini provavano gli stessi sentimenti. Più
tardi parlammo fra noi di ciò che ci sarebbe piaciuto
fare a un sudcoreano, se mai ne avessimo visto uno.

Nonostante le infinite, e sfinenti, attività comuni


c’era pur sempre un regno tutto mio in cui potevo
rifugiarmi: quello dei libri. Leggere era un’abitudine
che avevo ereditato da mia madre. Avevo dei libri
illustrati di favole, miti e racconti popolari e
un’edizione coreana del Conte di Montecristo, storia
che amavo molto, ma con alcune pagine incollate
insieme dalla censura, impossibili da staccare. I
racconti di eroi impegnati nella lotta contro
l’oppressione erano permessi, a patto che fossero
compatibili con la visione rivoluzionaria della Corea
del Nord; però tutti i dettagli sconvenienti venivano
cancellati.
Il secondo anno lessi dei romanzi nordcoreani di
spionaggio. Alcuni di quei libri erano così
appassionanti che mi tenevano sveglia fino a tardi, a
leggere a lume di candela. Il più bello raccontava di
un agente speciale nordcoreano infiltrato in Corea del
Sud, che viveva con una moglie sudcoreana senza mai
svelarle la propria identità. Il suo diretto superiore
era il capo delle operazioni di controspionaggio,
figura che lui non aveva mai incontrato di persona ma
con la quale nel tempo aveva saputo creare un intenso
rapporto. Il punto cruciale della storia era quando
l’agente segreto scopriva che il suo superiore era
proprio la moglie sudcoreana. Le storie migliori
erano quelle la cui fine era chiara ed evidente per
tutto il libro, eppure coglieva il lettore
completamente di sorpresa.

Una sera, all’inizio del secondo anno, tornando a


casa trovai mia madre intenta a cucinare qualcosa di
speciale per festeggiare il primo giorno di mio padre
al nuovo lavoro. Era un po’ che sentivo dire che stava
per lasciare l’aviazione, ma in quei giorni non gli
parlavo molto e non mi interessavo a ciò che aveva da
dirmi. Quando arrivò a casa, lo vidi per la prima volta
in abiti civili. Era molto elegante, e sembrava diverso
dal solito. Ero talmente abituata a vederlo con
l’uniforme grigio-azzurra. Adesso lavorava per una
compagnia commerciale controllata dall’esercito. Con
un sorriso da un orecchio all’altro, ci raccontò che la
settimana successiva sarebbe andato in Cina per
affari. Mi mostrò anche il suo nuovo passaporto. Io
non avevo mai visto un passaporto prima, ma finsi di
non provare alcun interesse. Mamma, invece, era al
settimo cielo. Un marito con il permesso di viaggiare
all’estero era un vero status symbol. Ci stavamo
facendo strada nel mondo.
L’unica volta in cui gli rivolsi la parola in tutta la
cena, e in modo non particolarmente rispettoso, fu
per chiedergli cosa facesse in questo suo nuovo,
elegante lavoro. Lui mi diede una risposta vaga, poco
precisa. Evidentemente si trattava di chissà quale
importante segreto. Alzai gli occhi al cielo e
abbandonai la tavola, facendo arrabbiare mia madre.
Papà invece restò in silenzio. Sapevo di averlo ferito,
ma ero più che mai piena di rancore nei suoi
confronti. Sarebbe stato per me l’ennesimo segreto. Il
dolore che mi dava conoscere la verità sulla mia
nascita non si era affievolito per niente. Non mi
rendevo conto che, non parlandomi del suo lavoro,
papà stava solo cercando di proteggermi.
E così lui cominciò a recarsi in Cina per lavoro, e a
volte dormiva fuori una o due notti. Fu una bella
fortuna, quindi, che fosse a casa con mia madre la
sera dell’incendio.
Accadde circa due mesi dopo. Ero andata a letto
molto presto, con i muscoli doloranti e una grande
stanchezza addosso dopo gli allenamenti per i giochi
di massa, ed ero già addormentata accanto a Min-ho
quando le urla di mia madre mi svegliarono, e papà
entrò nella stanza come una furia. Alle sue spalle
c’era una balenante luce arancione, e ovunque si
sentiva un pungente odore di carburante d’aviazione.
Della casa non salvammo che i vestiti che avevamo
addosso e i ritratti che mio padre staccò dalla parete
pochi secondi prima che il tetto crollasse. Tutti i miei
libri illustrati, i miei romanzi, la mia amata
fisarmonica e la mia chitarra andarono distrutti.
Ma c’era anche un’altra cosa che per me valeva un
tesoro e che fu distrutta dalle fiamme. Una cosa
talmente pericolosa da possedere che avrebbe potuto
spedirmi dritta in un campo di prigionia. A ripensarci
adesso, quell’incendio può essere stato per me un
formidabile colpo di fortuna.
10
Rocky Island

Qualche mese prima dell’incendio una delle mie


migliori amiche aveva riunito un gruppetto
selezionato di noi nel cortile della scuola. Io tendevo
a fare amicizia con ragazze più grandi, e con un
ambiente famigliare simile al mio. Quest’amica era la
figlia del capo della polizia cittadina e aveva sentito
dire che da certi commercianti era possibile
acquistare, con molta discrezione, audiocassette
illegali di musica pop sudcoreana.
Presto entrammo in possesso di qualcuno di quei
generi di contrabbando da bollino rosso. Ed eravamo
tra i primi nordcoreani ad ascoltare quei nuovissimi
successi.
Il nostro gruppetto cominciò a riunirsi
segretamente nel fine settimana a casa di una o
dell’altra; e quando genitori e fratelli erano usciti
mettevamo quella musica e cantavamo e ballavamo al
ritmo dei cantanti sudcoreani Ju Hyun-mi e Hyun
Chul, piroettando e dondolando i fianchi, ma sempre
a basso volume. Le mosse ce le inventavamo noi: in
realtà non avevamo un’idea chiara di come si ballasse
la musica pop. Sapevamo che in teoria non avremmo
dovuto apprezzare la musica del nostro arcinemico,
ma non capimmo quanto fosse grave il crimine che
stavamo commettendo finché non si diffuse la notizia
che alcune donne di Hyesan erano state condannate
al campo di prigionia per aver organizzato una festa a
base di pop sudcoreano. Una donna del gruppo aveva
denunciato le altre.
In seguito mi limitai ad ascoltare quei nastri da
sola, a casa, distesa sul letto.
La mia preferita era una canzone intitolata Rocky
Island, del cantante Kim Won-joong. L’isola rocciosa
del titolo si riferiva alla donna amata, e il ritornello
recitava:

Anche se non ti piaccio, io ti amo tanto,


Anche se non riesco a svegliarmi, io ti amo tanto...

Adoravo quelle sdolcinatezze. Parlavano di un


amore adolescente, e mi toccavano il cuore in un
modo che mi riempiva di desiderio. Quella musica mi
stava cambiando, facendomi sentire che crescevo. La
musica nordcoreana non mi dava niente del genere.
Anche il nostro paese aveva una sua musica pop, ma i
testi dicevano sempre: «La nostra felicità sta
nell’abbraccio del nostro Generale», o «Gioventù,
avanti!». Ascoltarli mi faceva venire l’orticaria.
Imparai a suonare Rocky Island alla fisarmonica. Mi
sforzavo di farlo piano, con porte e finestre ben
chiuse, ma una mattina mentre mi esercitavo si sentì
qualcuno bussare forte alla porta di casa.
Mi bloccai.
Sulla soglia c’era uno dei nostri vicini, che si era
fermato da noi mentre andava al lavoro. Disse che mi
aveva sentito suonare.
Alla bocca dello stomaco mi si strinse un gelido
nodo di paura. Voleva denunciarmi, o solo dirmi di
stare attenta? Ma con mia grande sorpresa l’uomo mi
sorrise e disse che ascoltare quella canzone lo aveva
emozionato e gli aveva dato energia. Poi risalì sulla
bicicletta e se ne andò. Una cosa molto strana. A
distanza di tempo mi domando se sapesse che era
una canzone sudcoreana e avesse voluto aprire un
dialogo con me, lanciarmi un segnale, come una
stretta di mano segreta.
Qualche mese dopo, quando ormai l’illecita
cassetta se n’era andata in fumo insieme al resto della
casa, ne conoscevo a memoria tutte le canzoni. La
melodia e le parole di Rocky Island, in particolare, in
futuro mi sarebbero state di grande conforto.
Quelle canzoni pop sudcoreane mi avevano dato
una seppur vaghissima conoscenza dell’universo
oltre i confini della Corea del Nord. Se ne avessi
saputo di più avrei potuto cogliere qualche indizio
del fatto che quel mondo stava attraversando grandi
cambiamenti, così grandi da far subire al nostro
regime una tensione mai sperimentata prima.
Ignoravo completamente che i russi avessero
permesso il crollo del comunismo in Unione Sovietica
«senza sparare un colpo», come avrebbe detto Kim
Jong-il. Ma tutto questo aveva sul nostro paese delle
ricadute che il regime quasi non riusciva più a
nascondere. Il lavoro e i traffici dei miei genitori
facevano sì che avessimo sempre da mangiare, e io
non mi ero accorta che le razioni di cibo e altri generi
essenziali forniti dal Sistema di distribuzione
pubblica stavano diminuendo o diventando
irregolari, né avevo fatto molta attenzione quando,
nel 1992, il governo aveva lanciato una campagna
intitolata «Consumiamo due pasti al giorno»,
secondo cui era più sano mangiare due volte
piuttosto che tre. Tutte le persone che ancora non
erano riuscite a farsi venire in mente una truffa per
far soldi, e che dipendevano dallo stato per i generi di
prima necessità, erano in grandi difficoltà.
Fatto sta che il nostro trasloco successivo ci portò
proprio al confine con il mondo esterno, tanto vicino
quant’era concesso andarci, come se la sorte stesse
architettando un modo per spingerci a guardare
fuori. La nuova casa si affacciava direttamente sulla
sponda del fiume Yalu. Se lanciavo un sasso dal
portone della nostra palazzina, potevo fargli superare
l’acqua e farlo arrivare fino in Cina.
11
«La casa è maledetta»

Il nostro nuovo quartiere era un gruppetto di


abitazioni a un solo piano separate da stretti vicoli. La
casa era più grande di quelle in cui avevamo abitato
prima, era dipinta di bianco, il tetto era di tegole e
tutt’attorno c’era un muro di cemento imbiancato.
C’erano tre stanze larghe ciascuna come l’intero
edificio, di modo che bisognava attraversare la cucina
e poi il salotto per raggiungere quella sul fondo, in
cui dormivamo tutti e quattro insieme.
Mamma aveva pagato un mucchio di soldi per
averla. Ufficialmente nella Corea del Nord la
proprietà privata non esiste, e nemmeno la
compravendita di immobili, ma in realtà la gente cui
viene assegnata una casa desiderabile o collocata in
una buona posizione spesso la rivende o è disposta a
scambiarla se il prezzo è buono.
La posizione di quell’edificio era perfetta per i
traffici di mia madre, che poteva organizzare il
contrabbando di merci estere dalla Cina a pochi metri
da casa, appena oltre il fiume, davanti al nostro
portone. Per difenderci meglio dai ladri, che si
facevano sempre più sfacciati, c’era il muro attorno
alla casa, alto circa due metri, con un cane feroce
addestrato dai militari. L’ingresso era protetto da un
cancello, che tenevamo sempre chiuso con il
lucchetto. Bisognava passare un totale di tre porte e
cinque serrature solo per andare e venire. Davanti alla
casa c’era poi un sentierino che correva lungo la riva
del fiume, a cinque metri dal nostro cancello, che le
guardie pattugliavano a coppie. Zio Oppio e zia
Carina passarono a trovarci e si congratularono con
mia madre. La posizione non avrebbe potuto essere
migliore, le dissero.
Min-ho era eccitatissimo per la nuova casa. Era un
autunno tiepido e mite, e il giorno del trasloco vide
alcuni bambini della sua età giocare nel fiume
insieme a bambini cinesi dell’altra sponda, mentre le
madri facevano il bucato lungo le rive. Per la maggior
parte dei nordcoreani i confini sono barriere
invalicabili. Il nostro paese è come sigillato rispetto
alle nazioni confinanti. E invece ecco dei bambini di
cinque, sei o sette anni che giocavano a spruzzarsi e a
fare avanti e indietro fra le due rive, quella coreana e
quella cinese, liberi come i pesci e gli uccelli.
Il giorno dopo mamma andò a presentarsi ai vicini,
ma quello che le dissero le fece stringere il cuore.
Tornò a casa pallida e angosciata.
«La casa è maledetta» disse, lasciandosi cadere sul
pavimento e coprendosi il viso con le mani. «Ho fatto
uno sbaglio terribile.»
Una vicina le aveva detto che un figlio dei
precedenti inquilini era morto in un incidente.
Mamma pensava di essere stata fortunata a trovare
quel posto, ma in realtà i proprietari l’avevano
venduto in tutta fretta per evitare di essere associati
alla tragedia e alla cattiva sorte. Io cercai di
consolarla, ma lei scuoteva la testa e pareva sfinita. Le
superstizioni erano troppo profondamente radicate
in lei perché si potesse affrontarle con la ragione. Io
stessa in parte ci credevo. Molte delle convinzioni di
mia madre mi avevano contagiato. Sapevo che stava
già pensando a un’altra costosa visita dall’indovina
per vedere se riusciva a farsi togliere la maledizione.
Mamma ammobiliò rapidamente la casa,
realizzando le sue solite ristrutturazioni. Le persone
che potevano permetterselo avevano cominciato a
comprare frigoriferi importati dalla Cina, ma lei era
riluttante ad attirare l’attenzione. Ciò comportava
dover fare la spesa tutti i giorni, acquistando le
provviste al mercato semilegale ed evitando il
Sistema di distribuzione pubblica. Qualche tempo
prima il direttore dell’ufficio governativo in cui
lavorava era stato spedito in un campo di prigionia
quando gli ispettori gli avevano trovato in casa dei
generi alimentari che aveva accettato come mazzetta;
anche per questo mia madre era particolarmente
cauta. Non tenevamo mai in casa grandi scorte di
riso: nella dispensa non ce n’erano mai più di venti o
trenta chili.
L’unico oggetto di lusso che comprammo per la
casa nuova fu un televisore Toshiba a colori, che in
qualche modo era uno status symbol.
Quell’apparecchio era destinato a espandere gli
orizzonti miei e di Min-ho in modo vertiginoso. Non
tanto per le «notizie» che diffondeva: c’era un solo
canale, la Televisione centrale coreana, che mostrava
all’infinito filmati del Grande Leader e del Caro
Leader che visitavano fabbriche, scuole o fattorie
pronunciando le loro sentenze su ogni cosa, dai
concimi azotati alle scarpe femminili. Né per
l’intrattenimento, rappresentato in genere da vecchi
film nordcoreani, dai gruppi musicali dei pionieri o
da grandi cori dell’esercito che cantavano le lodi del
partito e della rivoluzione. La sua attrattiva era che si
potevano captare delle stazioni televisive cinesi, che
trasmettevano moderne soap opera e lussuose
pubblicità di eleganti prodotti commerciali. Anche se
non capivamo il mandarino, il solo poterle vedere ci
apriva una finestra su uno stile di vita completamente
diverso. Guardare i programmi di televisioni
straniere era assolutamente proibito e costituiva un
reato gravissimo. Mamma ci sgridava severamente
quando ci sorprendeva a farlo. Ma io disobbedivo.
Oscuravo le finestre con le coperte e li guardavo
quando lei era fuori, o quando dormiva.
La zona in cui vivevamo era politicamente delicata.
Il governo sapeva che la gente che abitava lungo il
fiume spesso soccombeva ai veleni del capitalismo e
commerciava in beni di contrabbando, guardava
perniciosi programmi di televisioni straniere o
addirittura disertava. Le famiglie residenti in quelle
zone erano controllate con molta più attenzione dal
bowibu a caccia di indizi di slealtà. Una famiglia che
avesse destato sospetti poteva essere spiata dalla
polizia locale e venire denunciata. Spesso per cogliere
i trasgressori in flagrante si usavano anche dei
sotterfugi. Una mattina, non molto dopo il nostro
trasferimento laggiù, un uomo dall’aria gradevole e
amichevole bussò alla porta di casa nostra e disse a
mia madre di aver sentito dire che gli yankee
pagavano un mucchio di soldi per farsi ridare i resti
dei loro soldati uccisi durante la guerra di Corea. Lui
stesso aveva alcune ossa, disse, dissotterrate in vari
luoghi della provincia e voleva sapere se mia madre
avrebbe potuto aiutarlo a contrabbandarle oltre
frontiera.
Mamma affrontava le richieste d’aiuto con estrema
prudenza. Sapeva perfettamente come operavano gli
agenti del bowibu sotto copertura, e che ti capitavano
in casa con le proposte più intriganti. Quella gente
ricorreva a trucchi di ogni genere. Avevamo sentito
dire di una famiglia d’alto rango caduta in disgrazia
quando gli investigatori si erano presentati all’asilo
dei figli chiedendo loro in tono gioviale: «Qual è il
film più bello che avete visto di recente?». I bambini
avevano descritto in termini entusiastici un film
sudcoreano di successo guardato su una
videocassetta illegale. In quell’occasione, comunque,
le sue superstizioni furono la sua migliore arma
difensiva: non avrebbe mai rischiato di farsi
tormentare dagli spiriti dei soldati americani
disturbandone le spoglie, e disse all’uomo che non
poteva proprio aiutarlo.

A metà novembre, qualche settimana dopo il


nostro trasferimento nella casa nuova, la prima neve
era caduta tutto il giorno in fini granelli che
pizzicavano il viso. Noi eravamo accoccolati sul
pavimento in cerca di calore, con addosso i cappotti,
quando arrivò mio padre. Ogni volta che tornava dalla
Cina ci portava qualche piccolo lusso fuori dalla
portata della maggior parte della gente. A volte era
carta igienica di buona qualità, o banane e arance,
cose che da noi non erano quasi mai disponibili.
Quella volta aveva con sé un pacco talmente enorme
che io non riuscii a simulare la solita noia che fingevo
in sua presenza. Ero troppo curiosa di sapere cosa ci
fosse dentro. Conteneva dei regali per Min-ho e per
me. Il mio era una bambola grandissima, con i capelli
biondi e serici, gli occhi azzurri e una pallida
carnagione occidentale. L’abito poi era meraviglioso,
di tessuto a quadretti orlato di pizzo. Era così grande
che non riuscivo quasi a sollevarla, e dovetti
appoggiarla a un angolo della parete vicino al mio
letto. Mamma diceva che a volte mi sentiva
chiacchierare con lei. Il regalo di Min-ho era un Game
Boy, un videogioco portatile. Il suo faccino aveva
un’espressione spaventata. Era qualcosa di così nuovo
per lui. Non conoscevamo nessun altro che avesse
niente di simile.
Oggi posso ripensare a quella bambola solo con
immensa tristezza. Ero un po’ troppo grande per una
bambola, ma era un dono così bello, così generoso.
Mi rendo conto che mio padre, sentendo di avermi
perso, cercava in qualche modo di riprendere contatto
con me. Sapeva che qualcosa fra noi era andato storto,
e probabilmente aveva anche capito cosa. Quel che è
certo è che non meritavo quel dono.
Fu l’ultima cosa che mi regalò.
12
Tragedia sul ponte

Secondo il metodo coreano di misurare il tempo stavo


per compiere quattordici anni. Era il gennaio del
1994, l’inizio di un anno tragico e carico di eventi che
mi avrebbero fatto crescere rapidamente.
Ormai ero alta quasi come mia madre. Ero in
forma e attiva, facevo un sacco di sport che mi
piacevano molto, soprattutto il pattinaggio sul
ghiaccio, nel quale ero diventata abbastanza brava da
rappresentare la mia scuola in un torneo, e il
taekwondo in palestra quando faceva troppo freddo.
Ero brava anche nella corsa, e avevo già partecipato
alla mezza maratona di Hyesan.
Ma il mio compleanno diede al nuovo anno un
inizio terribile.
Ormai era parecchio tempo che esageravo nella
cura del mio aspetto. Gli insegnanti non ci facevano
molto caso se andavo a scuola senza uniforme:
sapevano di dover dipendere da mia madre quando la
scuola aveva bisogno di donazioni in denaro o di
combustibile per il riscaldamento. Ma ormai non ero
più una bambina, e il mio anticonformismo
cominciava ad attirare un po’ troppo l’attenzione.
Poi accadde l’inevitabile.
Qualche mese prima era arrivata nella nostra
scuola una nuova insegnante. Si chiamava
professoressa Kang, e insegnava fisica. Era giovane,
con piccoli occhi penetranti e una vocetta acuta. Il
giorno del mio compleanno ci diede il buongiorno, e
immediatamente mi notò. Tutte le altre ragazze
indossavano l’uniforme scolastica e portavano i
capelli corti, non più lunghi delle spalle. Io spiccavo
nettamente, con il mio soprabito cinese rosa, la
permanente e un paio di stivaletti col tacco alto,
molto alla moda.
I suoi occhi si bloccarono su quegli stivaletti, e in
quel momento capii di essermi spinta troppo in là.
«Perché porti quelle scarpe?» mi apostrofò davanti
al resto della classe. «E a proposito, perché non
indossi l’uniforme come tutte le altre?»
Le parole mi uscirono di bocca prima che riuscissi
a fermarle. «Perché, è un problema? Per mia madre
no.»
L’aula trattenne il fiato.
«Come osi rispondermi così?» gridò la
professoressa, marciando verso il mio banco. «Vuoi
somigliare a una schifosa capitalista? Bene!» E mi
mollò un ceffone in piena faccia.
Mi portai la mano alla guancia. Sentivo il sangue
ronzarmi nelle orecchie. Ero scossa dai brividi,
offesissima. Mamma non mi aveva mai dato uno
schiaffo. Uscii dall’aula come una furia e corsi a casa,
in lacrime.
Quel giorno, per la prima volta da molto tempo,
sentii la mancanza della consolazione e della
sicurezza che mio padre sapeva darmi; ma lui era
ancora via, in viaggio d’affari in Cina. Ogni volta che
tornava a casa sembrava sempre più stanco e più
mogio. Mamma diceva che non riusciva a dormire.
Qualcosa stava andando storto. Lui le aveva detto che
gli sembrava lo stessero tenendo d’occhio.

Oggi capisco che la sfacciataggine di portare quegli


stivaletti e di arricciarmi i capelli era solo un sintomo
della più profonda e generalizzata delusione che
stavo vivendo. Perdevo entusiasmo per la «vita
organizzata» e le attività collettive da cui nessuno in
tutto il paese poteva ritenersi esonerato. I giochi di
massa mi erano piaciuti molto, ma ormai avevo
quattordici anni e non ero più una pioniera, dovevo
entrare nella Lega della gioventù socialista. Si trattava
di un altro cambiamento importante. Ci veniva detto
che, da quel momento in poi, avremmo dovuto
cominciare a pensare al nostro futuro, e al modo in
cui avremmo potuto servire il nostro paese. L’infanzia
era finita.
I membri della Lega della gioventù socialista
dovevano sottoporsi all’addestramento militare.
Anch’io dovetti indossare la tenuta da
combattimento dell’esercito e imparare a sparare con
munizioni vere a un poligono di tiro. Era una cosa che
odiavo, e mamma era così nervosa all’idea che fossi
circondata da bambini armati di fucili veri, in un
posto dove un incidente poteva facilmente capitare, e
anzi ogni tanto capitava, che il più delle volte mi
faceva esonerare corrompendo le autorità scolastiche.
L’indottrinamento ideologico si era fatto ancora
più intenso. Ora che eravamo giovani comunisti
modello, da noi ci si aspettava che approfondissimo
ancora di più il nostro legame emotivo con il Grande
Leader, e che cominciassimo a studiare l’ideologia del
juche (liberamente tradotto come «fiducia in se
stessi»), che promuoveva l’isolamento del nostro
paese e il rifiuto di ogni influenza esterna.
Ormai facevo parte di una «cellula» della Lega
della gioventù socialista della mia scuola. Per mia
fortuna ero riuscita a evitare di entrare nella Brigata
per il mantenimento dell’ordine sociale: i volontari
che monitoravano le strade a caccia di cittadini dalla
purezza ideologica contaminata. Nel 1994 c’erano
stati vari aggiornamenti alla lista degli oggetti
proibiti, e quei ragazzi erano sempre meno tolleranti
verso chiunque andasse in giro con abiti decorati con
lettere occidentali, come era di moda in Cina.
Con l’arrivo della primavera, comunque, non ci fu
modo di evitare il dovere rivoluzionario che tutti
dovevano compiere: il pellegrinaggio ai luoghi sacri
del monte Paektu. Le montagne della provincia di
Ryanggang erano il luogo in cui, negli anni Trenta e
Quaranta, Kim Il-sung aveva combattuto come
guerrigliero contro i giapponesi. Per sottolineare quel
legame storico, tre delle undici province della contea
erano state ribattezzate con il nome della moglie, del
padre e dello zio del grand’uomo. I giovani pionieri e
la gioventù socialista di tutta la Corea del Nord erano
tenuti a visitare quel «museo rivoluzionario all’aria
aperta», con le sue statue e i monumenti alle vittorie
del Grande Leader; e anche il vicino villaggio di
Pochonbo, dove nel 1937 Kim Il-sung aveva guidato
una banda di centocinquanta guerriglieri in un
attacco al locale commissariato di polizia giapponese.
Quella battaglia è famosa nella storia della Corea del
Nord come la grande svolta nella lotta per
l’indipendenza, nonché per la sbalorditiva
dimostrazione del genio tattico di Kim Il-sung, che
riportò la vittoria nonostante le soverchianti forze
nemiche.
La nostra guida ci mostrò i fori delle pallottole,
cerchiati di bianco, sul vecchio commissariato di
polizia, e una cella in cui i giapponesi avevano
torturato i partigiani comunisti. Niente di tutto ciò mi
fece particolarmente impressione. Volevo solo
andarmene. Con uno sforzo tremendo dovetti
controllare l’espressione della mia faccia per
nascondere la noia.
Solo quando vidi con i miei occhi la capanna di
tronchi fra i pini sui fianchi del monte Paektu, sito
restaurato della base guerrigliera segreta dov’era nato
Kim Jong-il, per un momento tornai di nuovo
bambina. Ricordavo di aver disegnato quella capanna,
e la stella nel cielo, e l’arcobaleno sul monte Paektu.
Quella storia magica aveva ancora il potere di
commuovermi.
La disaffezione che provavo significava che anche i
miei rapporti con Min-ho non miglioravano affatto.
Lui frequentava la scuola elementare di Hyesan, e
aveva sentito i compagni di classe ripetere che i loro
fratelli maggiori dicevano che ero una bella ragazza.
Probabilmente pensava che si riferissero a
qualcun’altra. Io non gli ero amica come avrei dovuto.
Nel profondo del mio cuore avrei voluto un fratello
maggiore capace di proteggermi, e non un bambino
piccolo che dovevo essere io a sorvegliare. Lui aveva
compiuto sette anni e stava sviluppando un
temperamento avventuroso: sospettavo seriamente
che facesse delle incursioni segrete sull’altra riva del
fiume. A volte sapeva anche essere ostinato. Ma se gli
si affidava un compito, lo svolgeva. Una volta la sua
scuola diede a tutti gli studenti l’assurdo incarico di
raccogliere ciascuno dieci chili di frutti di bosco. Lui
fu l’unico a farcela. In questo senso era piuttosto
diverso da me, che trovavo sempre qualche scusa per
sottrarmi al lavoro fisico e non sporcarmi i bei vestiti
nuovi. L’unica cosa che avevamo in comune era la
tipica cocciutaggine di Hyesan, la stessa di mia
madre.

Qualche giorno dopo la gita al monte Paektu, al


ritorno da scuola, trovai mia madre che camminava
avanti e indietro in uno stato di terribile ansia.
«Tuo padre non è ancora tornato» disse,
continuando a incrociare e sciogliere le braccia.
Papà avrebbe dovuto rientrare il giorno prima da
un viaggio di lavoro in Cina. Mamma disse che prima
di partire le era sembrato particolarmente ansioso.
Altri due giorni passarono, e di lui nessuna
notizia.
Il terzo giorno mamma era ormai ridotta a uno
straccio. Non riusciva a rilassarsi, a dormire, a
mangiare, a stare seduta e ferma. Aveva provato più
volte a mettersi in contatto con l’ufficio della ditta in
cui papà lavorava, ma ogni volta si era trovata davanti
a un muro e si era sentita ripetere di aspettare
ulteriori informazioni.
Passò un altro giorno in quel limbo deprimente.
Min-ho non faceva che chiedere se qualcuno poteva
controllare dov’era nostro padre.
Infine un suo collega di lavoro passò a trovarci.
Le notizie non erano buone.
Papà era stato arrestato quattro giorni prima sul
Ponte dell’Amicizia, mentre riattraversava il confine
per tornare a casa.
13
Raggi di sole su acque scure

Sul ponte, mio padre aveva trovato ad attenderlo un


gruppo di uomini di Pyongyang. Erano ufficiali del
Comando per la sicurezza militare, un’organizzazione
diversa dal Ministero per la sicurezza dello stato, il
bowibu. Si tratta di una polizia segreta che controlla i
membri dell’esercito.
Altri dieci giorni passarono senza notizie di papà.
Sapevamo solo che lo trattenevano mentre gli
investigatori passavano al setaccio la sua condotta
lavorativa. Al mondo esterno mia madre mostrava la
solita maschera dura e pratica che aveva sempre
portato. A casa, invece, era fragile e piangeva sempre.
Cominciò a prepararsi al peggio. Sapeva bene che
poche persone uscivano incolumi da quel tipo di
detenzione, o ne uscivano del tutto. Non l’avevo mai
vista così.
Fu mentre era in quello stato di perenne agitazione
che mi raccontò una storia di famiglia che non
conoscevo. Riguardava il matrimonio di zia Anziana,
la sorella maggiore di mia madre, che si era sposata
prima della mia nascita e aveva avuto tre figli dei
quali non sapevo niente. Suo marito era un sino-
coreano scappato dalla Rivoluzione culturale sul
finire degli anni Sessanta per scegliere quella che
credeva essere l’utopia comunista della Corea del
Nord. Mamma mi disse che era un uomo gentile,
dalla natura molto franca e onesta. La nonna si era
opposta al matrimonio perché era straniero, ma zia
Anziana aveva detto che sarebbe morta se non avesse
potuto stare con lui. E così si erano sposati.
Ma dopo qualche anno, disgustato dalla
propaganda, l’uomo aveva dichiarato di voler tornare
in Cina. Zia Anziana si era rifiutata di lasciare la sua
casa, così lui se n’era andato da solo, ma era stato
bloccato al confine. Se avesse detto alla polizia di
frontiera che aveva semplicemente intenzione di far
visita alla sua famiglia in Cina, per poi tornare in
Corea, probabilmente se la sarebbe cavata. Ma la sua
onestà lo aveva portato alla rovina. Agli ufficiali che
lo interrogavano, infatti, aveva detto che ormai era
disilluso, e loro lo avevano spedito dritto in un campo
di prigionia, senza nemmeno prendersi il disturbo di
processarlo. A quel punto era intervenuta la nonna,
per proteggere la famiglia e sistemare le cose in
modo che zia Anziana potesse divorziare dal marito e
i tre bambini fossero dati in adozione. In questo
modo la famiglia poteva evitare di essere associata a
un «elemento criminale» che avrebbe degradato il
suo songbun rovinandola per generazioni. Si tratta di
un accorgimento piuttosto comune quando uno dei
coniugi viene imprigionato.
I bambini erano stati adottati tutti e tre da buone
famiglie. Uno di loro era addirittura diventato
ufficiale dell’esercito. Zia Anziana lo aveva
incontrato, da grande, e gli aveva raccontato tutta la
storia. Lui era scoppiato a piangere e l’aveva
abbracciata, giurando che non gli importava niente di
ciò che era successo e che da quel momento in poi
avrebbe voluto come famiglia solo la sua vera madre
e i suoi fratelli.
Questo figlio si era recato anche al campo di
prigionia per cercare di vedere suo padre, ma ai
cancelli era stato respinto. Nel campo ci sono due tipi
di prigione. Una è per i prigionieri condannati alla
«rieducazione rivoluzionaria tramite il lavoro»: se
sopravvivono alla punizione, vengono poi reintegrati
nella società e strettamente sorvegliati per il resto
della vita. L’altra prigione è una zona di non ritorno,
dove i prigionieri vengono fatti lavorare fino alla
morte. Il figlio temeva che suo padre fosse stato
messo nel secondo tipo, e fosse ancora là.
Quella storia mi angosciò molto. Nelle rare
occasioni in cui parlavamo di qualcuno che
conoscevamo e che era caduto in disgrazia presso le
autorità, lo facevamo senza alcuna analisi o giudizio,
senza commenti sulla giustizia o meno della
punizione. Ci limitavamo a descrivere i fatti. È così
che parlano i nordcoreani. Ma in quel momento
mamma si espresse con grande emotività su come il
campo di lavoro avesse colpito la nostra famiglia.
Nessuno parlava mai apertamente dei campi. Se ne
sapeva qualcosa solo grazie a terrificanti pettegolezzi
e sussurri. Non sapevamo dov’erano ubicati, né in
quali condizioni ci si vivesse. Io per esempio sapevo
solo della contea di Baekam, un luogo di punizione
meno estremo che sorgeva non lontano da Hyesan.
Sapevamo di una famiglia che vi era stata deportata
da Pyongyang perché il padre si era fatto una
sigaretta usando un quadratino di foglio di giornale
senza far caso al fatto che sull’altro lato c’era
stampato il viso del Grande Leader. Per questo tutta
la famiglia era stata mandata a spaccarsi la schiena
cavando patate nella fattoria collettiva 10.18.
E ora dovevo immaginare mio padre in uno di quei
campi. Una gran nebbia mi turbinava in testa. Il
risentimento che provavo nei suoi confronti si stava
trasformando in un marasma di sentimenti
contraddittori.
Mentre aspettavamo di sapere qualcosa, una sera
cinque ufficiali dell’esercito in uniforme bussarono
alla porta, entrarono senza togliersi gli stivali e
perquisirono casa nostra alla ricerca di valuta estera e
di oggetti preziosi che mio padre poteva aver
nascosto. Strapparono la carta da parati, scardinarono
il pavimento e tirarono giù il soffitto. Se ne andarono
a mani vuote dopo un’ora di furia demolitrice.
Mamma e io, sconvolte, restammo a fissare quella
devastazione. La nostra casa era distrutta.

Circa due settimane dopo la sparizione di papà,


mia madre fu informata che era stato
improvvisamente rilasciato e portato all’ospedale di
Hyesan. Quando lo rivide ne fu scioccata, e si mise a
singhiozzare senza ritegno. Era ridotto malissimo.
Era smunto, con profonde occhiaie, ma ciononostante
si sforzò di farle un sorrisetto. Sembrava invecchiato.
Disse che le indagini sul suo conto erano ancora in
corso. Era stato accusato di corruzione e abuso di
potere, ma più probabilmente era caduto in disgrazia
per ragioni politiche, o forse aveva pestato i piedi a
qualche quadro anziano. L’avevano interrogato più
volte, sempre ordinandogli di firmare una
confessione. Ma poi, ogni volta, chi lo interrogava
gliela strappava in faccia e gli diceva di ricominciare
daccapo.
Mamma non gli domandò cos’altro gli avessero
fatto. Non voleva fargli rivivere il trauma, ma poteva
vedere con i suoi occhi che era stato selvaggiamente
picchiato e gli avevano impedito di dormire.
All’ospedale dormì per giorni di fila, con la coperta
tirata sulla testa.
Papà si tenne tutto dentro, com’è abitudine degli
uomini coreani, che non possono parlare dei loro
sentimenti, né della loro paura o dello stress cui sono
sottoposti. È per questa ragione che a Hyesan,
durante le festività pubbliche, capitava di assistere a
tante terribili risse fra ubriachi. Papà non beveva mai
alcolici, ma custodì i suoi sentimenti dentro di sé.
Aveva perso molto peso, ed era diventato apatico.
Oggi sappiamo che era caduto in una grave
depressione, una malattia che nella Corea del Nord
non viene riconosciuta come tale. Rimase all’ospedale
di Hyesan per circa sei settimane.
Mamma aveva bisogno che Min-ho e io non le
stessimo fra i piedi mentre si occupava di mio padre e
gli faceva compagnia per ore, ogni giorno,
all’ospedale. Così fummo mandati sulla costa
orientale per stare con zio Cinema, sua moglie e i loro
figli, i nostri cugini.
Un pomeriggio, zio Cinema tornò a casa presto.
Min-ho e io eravamo in salotto con la zia e i cugini. Lo
zio si tolse le scarpe ed entrò, chiudendosi con cura la
porta alle spalle.
«Min-young, Min-ho, purtroppo ho cattive notizie
per voi» disse.
Aveva un’espressione seria, e capimmo subito che
doveva essere successo qualcosa di terribile. Ci disse
che mamma gli aveva telefonato in ufficio per dirgli
che papà si era ammalato gravemente ed era morto
all’ospedale.
Min-ho ne fu sconvolto. Corse in camera da letto e
si chiuse dentro.
Io scesi alla spiaggia in uno stato di grande
confusione e restai a fissare il Mar Orientale. Da
dietro le nubi, raggi acuminati ritagliavano dei campi
di luce sull’acqua scura. All’orizzonte si vedevano
alcune remote barche da pesca tutte arrugginite. Il
mare era calmo.
Il risentimento che avevo covato contro mio padre
aveva costruito un muro fra noi. Perché l’avevo fatto?
Crescendo avevo imparato quanto fossero importanti
la famiglia e i legami di sangue. Scoprire che il mio
sangue non era uguale al suo mi aveva sconvolta e
confusa. Così l’avevo tagliato fuori. Ero stata ferita da
un segreto che altri mi avevano imposto.
Ripensai a come papà aveva conosciuto mia madre,
tanti anni prima, sul treno per Pyongyang. Lui l’aveva
amata talmente da sposarla anche se era divorziata e
aveva avuto una figlia da un altro uomo. I ricordi mi
assalivano a decine, di quando correvamo felici dietro
alle libellule nei campi vicino ad Anju, della nostra
vita di famiglia a Hamhung, di quanto ci eravamo
divertititi tutti insieme guardando mia madre
mangiare il naengmyeon, di quanto ero stata
orgogliosa di lui quando aveva partecipato alla mia
cerimonia di ammissione nei pionieri, di quanto mi
fossi sempre sentita al sicuro accanto a lui.
Fissavo il mare e le dimensioni della mia follia mi
diventavano sempre più chiare.
Lui mi aveva allevata con amore, come se fossi
stata figlia sua. L’egoismo dei miei sentimenti mi
aveva impedito di sentire quanto lo amavo.
Caddi in ginocchio sulla spiaggia e piansi lacrime
amare, ficcando le dita nella sabbia.
Dopo quelle che mi parvero ore, mentre il sole
tramontava, tornai a casa. Sapevo che per il resto
della vita mi sarei pentita di come avevo trattato mio
padre. Sapere che era morto pensando che ce l’avessi
con lui avrebbe solo reso il mio cordoglio più
doloroso.

La morte di papà fu uno choc per tutte le persone


che lo conoscevano. Era ancora giovane, sulla
quarantina. E quand’era morto con lui non c’era
nessuno.
Ma prima ancora di essersi ripresa dal colpo, mia
madre ricevette un’altra notizia devastante. Il
certificato di morte dell’ospedale dichiarava che papà
si era suicidato ingerendo una dose letale di
diazepam (Valium), un farmaco reperibile sul
mercato con facilità. Evidentemente era uscito e se
l’era comprato per conto suo.
Nella Corea del Nord il suicidio è un tabù. Non
solo si ritiene che causi una grave umiliazione al resto
della famiglia, ma prevede che nel sistema del
songbun i figli sopravvissuti vengano riclassificati
come «ostili» e non possano più andare all’università
né trovare un buon lavoro. Il suicidio, nella Corea del
Nord, è ritenuto una protesta carica di significati
emotivi. Il regime lo considera una forma di
defezione. E punendo il resto della famiglia, fa in
modo di rendere inutile quell’estrema forma di
ribellione.
Mamma fu catapultata fuori dal suo lutto e agì
subito in modo da proteggere tutti noi.
Bisognava far cambiare la documentazione
dell’ospedale, e in fretta: un compito difficile e
delicato, ma ne andava del nostro futuro. Il tatto e la
diplomazia di mia madre diedero un esito positivo.
La cosa le costò praticamente tutti i suoi risparmi in
valuta pregiata, ma lo fece ugualmente. Distribuì
mazzette tra i funzionari ospedalieri, che accettarono
di cambiare la causa della morte di mio padre in
«attacco di cuore». Il funerale fu celebrato in tutta
fretta, senza dar tempo alla gente di farsi troppe
domande, prima ancora che Min-ho e io tornassimo
dalla costa orientale. Non gli dicemmo nemmeno
addio. E al funerale i genitori di papà maledirono
rabbiosamente mia madre dicendo che era stata lei
ad attirare la malasorte sulla loro famiglia.
Infine, provocandole un’umiliazione gratuita e
definitiva, le autorità militari che avevano condotto le
indagini sul conto di papà scrissero a mia madre per
informarla del fatto che era stato formalmente
licenziato dal suo posto di lavoro.

Dopo la sua morte mi sentii molto più vicina a


Min-ho. Era come se riuscissi a vederlo con chiarezza
per la prima volta. La stupida delusione che mi aveva
fatta allontanare da papà era la stessa che mi aveva
impedito di sentirmi vicina al mio stesso fratello.
Cominciai a vederlo com’era: mio fratello, travolto
come me dal dolore e dal lutto.
E non provavo più gli stessi sentimenti nemmeno
per la nostra casa sul fiume. Poco tempo dopo esserci
andati ad abitare, la tragedia aveva colpito la nostra
famiglia. Ciò mi faceva pensare che la maledizione
che aleggiava su quel posto fosse reale, e potente.
Stavamo ancora cercando di digerire quello che ci
era successo quando accadde un evento destinato a
unire tutta la nazione nel lutto e nel dolore, con scene
di cordoglio e di isteria di massa quali i media
mondiali non avevano mai visto prima. Un evento
destinato a riverberare sulla Corea del Nord fino ai
giorni nostri.
14
«Il grande cuore ha cessato di battere»

La mattina dell’8 luglio 1994 andai a scuola come al


solito, ma poco prima dell’ora di pranzo le lezioni
furono interrotte da un insegnante che entrò in classe
dicendo che la scuola chiudeva per tutto il giorno. Ci
fu detto di tornare a casa e di accendere il televisore.
Una cosa alquanto strana, dato che nei giorni
lavorativi non c’erano trasmissioni mattutine.
Invece di correre dritta a casa andai con un’amica
nel suo appartamento, che era poco lontano dalla
scuola. Accendemmo il televisore. La famosa
annunciatrice del telegiornale, Ri Chun-hui, si
presentò al pubblico vestita di nero. Aveva gli occhi
rossi per il gran piangere e annunciò l’impossibile:
Kim Il-sung, il Grande Leader, Padre della nazione,
era morto. L’annuncio trasmesso dalla radio fu
altrettanto drammatico: «Il grande cuore ha cessato
di battere».
La mia amica scoppiò a piangere e non riuscì più a
smettere. Il suo pianto mi commosse un po’, ma era il
mio cervello a essere commosso, non il mio cuore.
Com’era possibile che Kim Il-sung fosse morto? Per
quanto oggi possa sembrarmi incredibile non mi era
mai venuto in mente, né a me né a nessun altro
nordcoreano, che quel re-dio, così potente da
controllare il tempo atmosferico, potesse morire. Era
perfetto e onnipotente, talmente al di sopra del
genere umano che una parte di me non credeva
nemmeno che fosse reale. Nessuno di noi pensava
che avesse bisogno di dormire o di urinare. Eppure
era morto.
Una finestra mi si aprì nella mente.
Aveva ottantadue anni, pensai. Da tempo ormai
doveva essere diventato vecchio e debole. Dopotutto
anche lui era umano. Rimasi lì seduta ad ascoltare i
singhiozzi della mia amica, ma i miei occhi erano
asciutti. Ero troppo addolorata per il recente lutto di
mio padre per sprecare lacrime per il Grande Leader.
Il mattino dopo tutta la mia scuola si radunò
davanti al portone. Ci sistemammo in lunghe file
irreggimentate. Il cielo era di un azzurro lattiginoso,
e la giornata si stava facendo di un caldo
insopportabile. Il preside e gli insegnanti
pronunciarono discorsi commossi soffocando i
singhiozzi, con un accompagnamento di musiche
funebri. La cosa andò avanti per ore. All’inizio
anch’io mi ero sentita triste, ma dopo tre ore in piedi
sotto un sole rovente cominciavo a essere stanca e ad
avere sete.
Nessuno ci aveva ordinato di piangere. Nessuno
aveva alluso al fatto che, non piangendo, avremmo
destato sospetti. Ma sapevamo tutti che le lacrime
erano obbligatorie. Ovunque attorno a me sentivo
tirare su col naso, gemere e singhiozzare. Tutti
sembravano fuori di sé per il dolore e il cordoglio. Poi
il mio istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Se non
avessi pianto come tutti gli altri sarei finita in guai
seri. Così mi strofinai il viso fingendo dolore, di
nascosto mi sputai sulle dita e mi picchiettai la saliva
sugli occhi. Poi emisi un singulto che, o almeno così
speravo, doveva dare l’impressione che stessi
soffocando dalla disperazione.
Dopo un bel po’ di questa pantomima, mi resi
conto che non avrei potuto reggere ancora a lungo. Il
sole era ormai alto nel cielo. Faceva molto caldo. Così
incespicai un po’. Gli insegnanti pensarono che stessi
per svenire e mi infilarono in un’ambulanza che era là
in attesa. La cosa mi diede un po’ di sollievo.
Il giorno dopo ci fu un evento simile, con tutte le
scuole cittadine riunite al Memoriale della vittoriosa
battaglia di Pochonbo, nel parco di Hyesan. E quella
volta parecchie migliaia di studenti e di insegnanti
gemettero e singhiozzarono insieme. Il cordoglio
sembrava farsi sempre più estremo col passare delle
ore. Una specie di isteria collettiva si stava
impadronendo di tutta la città. Non riprendemmo gli
studi. Acciaierie e segherie, fattorie, negozi e mercati
chiusero i battenti. Ogni cittadino doveva partecipare
a quotidiani eventi di massa per dimostrare il suo
inconsolabile dolore. Giorno dopo giorno un
insegnante ci portava sulle colline per raccogliere
fiori di campo da mettere davanti alla statua bronzea
di Kim Il-sung, nel parco di Hyesan. Ben presto nei
campi non era rimasto nemmeno un fiore, ma noi
dovevamo trovarne comunque. Presentarsi con un
solo fiore era considerato un insulto al Grande
Leader.
Durante una di quelle cacce ai fiori uno stormo di
libellule ci accompagnò nel campo.
«Guardate!» esclamò la nostra insegnante con voce
piena di meraviglia. «Anche le libellule sono tristi per
la morte del Grande Leader!»
La sua espressione era seria, e tutti noi
accogliemmo il suo commento senza critiche.
Dopo il periodo del lutto, come avevo temuto,
cominciarono le punizioni per chi non aveva versato
abbastanza lacrime. Il giorno in cui ripresero le
lezioni l’intero corpo studentesco fu riunito davanti
alla scuola per scagliare critiche e insulti contro una
ragazza accusata di aver pianto lacrime finte. Lei,
terrorizzata, in quel momento piangeva di sicuro
lacrime vere. Ero dispiaciuta per lei, ma provai
soprattutto sollievo. Avendo io stessa pianto false
lacrime, ero contenta che nessuno si fosse accorto
della mia recita.
Anche molti adulti furono fatti oggetto di accuse
analoghe, e il bowibu arrestò un mucchio di gente.
Poco dopo furono diffuse le informazioni relative a
luogo e ora in cui si sarebbero svolte le esecuzioni
collettive.
Per gli alunni dalle scuole elementari in su
assistere alle esecuzioni pubbliche era obbligatorio.
Spesso annullavano le lezioni affinché i ragazzi
potessero andarci. Le fabbriche ci mandavano gli
operai, per far sì che ci fosse molta folla. Io ho
sempre cercato di evitarle ma una volta, quell’estate,
dovetti fare un’eccezione perché conoscevo uno degli
uomini che sarebbero stati uccisi. Molte persone a
Hyesan lo conoscevano. Qualcuno potrebbe pensare
che la condanna a morte di una persona conosciuta
sia l’ultima cosa che uno vorrebbe vedere. E di fatto
la gente accampava scuse per non andarci se non
conosceva il condannato. Ma chi conosceva la vittima
era assolutamente tenuto ad assistere, come se si
trattasse del suo funerale.
Aveva una ventina d’anni e sembrava avere sempre
dei soldi in tasca. Era molto popolare tra le ragazze, e
anche fra i piccoli delinquenti della città. Era accusato
di aver aiutato delle persone a scappare in Cina e di
aver venduto merci proibite. Ma il suo vero reato era
di aver continuato le sue attività illegali durante il
periodo di lutto per la morte di Kim Il-sung.
Doveva essere fucilato, insieme ad altri tre,
all’aeroporto di Hyesan, un luogo molto utilizzato per
le pubbliche esecuzioni. I tre uomini furono fatti
scendere da un furgoncino davanti a una vasta folla in
attesa nel calore accecante. Immediatamente le
persone attorno a me presero a bisbigliare. Il ragazzo
dovette essere sollevato di peso e trascinato fino al
luogo dell’esecuzione da un gruppo di poliziotti, con
le punte dei piedi che strusciavano nella polvere.
Sembrava già mezzo morto.
I quattro furono legati a un palo per la testa, il
petto e la vita. Mani e piedi furono legati dietro il
palo. Ebbe inizio un sommario processo popolare, nel
quale il giudice annunciò che i criminali avevano
confessato i loro delitti. Poi chiese loro se avevano
un’ultima cosa da dire, ma non si aspettava risposta,
dato che tutti e quattro erano stati imbavagliati e
avevano un sasso ficcato in bocca per evitare che le
loro ultime parole fossero una maledizione contro il
regime.
Quattro soldati si misero in fila davanti ai
condannati e presero la mira. Notai che avevano il
viso arrossato. Si sapeva che i militari avevano il
permesso di bere alcolici prima di un’esecuzione. Il
rumore degli spari rimbombò nell’aria secca. Tre
spari: il primo alla testa, il secondo al petto, il terzo al
ventre. Quando la pallottola colpì la testa del ragazzo,
il cranio esplose generando una fine pioggerellina
rosa. La sua famiglia era stata costretta ad assistere in
prima fila.
15
Fidanzata di un delinquente

Quando compii quindici anni cominciai a frequentare


un corso riservato alle ragazze, durante il quale
imparavamo a lavorare a maglia e a tenere la casa.
Avrebbero dovuto invece parlarci di sesso.
Eravamo incredibilmente ignoranti su tutto ciò che
riguardava gli uomini e le più elementari nozioni
sulla riproduzione. Nonostante tutte le sue
interferenze nella nostra vita, il partito era
straordinariamente ritroso quando si trattava di
spiegarci come quella stessa vita nasceva.
Ciononostante un’adolescente incinta poteva trovarsi
in una situazione terribile e costretta a sposarsi
immediatamente se voleva evitare guai peggiori. Un
aborto sarebbe stato difficile da organizzare, e
probabilmente nessuno glielo avrebbe suggerito.
Oppure sarebbe stata costretta a dare il bambino in
adozione o a lasciarlo in un orfanotrofio di stato.
Io ero convinta che si restasse incinte anche solo
baciando un ragazzo, o tenendolo per mano. E anche
le mie amiche la pensavano allo stesso modo.
L’ignoranza dei maschi, poi, non era molto diversa
dalla nostra. Una volta, fuori da una farmacia davanti
alla stazione ferroviaria di Hyesan, avevo visto un
gruppetto di adolescenti gonfiare dei preservativi
come se fossero palloncini e poi giocarci a calcio per
la strada. Se qualcuno avesse detto loro a cosa
servivano in realtà, sarebbero corsi via tutti rossi in
faccia.
Con una così assoluta mancanza di informazioni
sul sesso, nessuna di noi fanciulle in fiore faceva
sfoggio del proprio corpo in via di maturazione o
flirtava o provocava i ragazzi a scuola. I reggiseni
nordcoreani hanno la forma di una maglietta tesa ad
appiattire, piuttosto che a dare risalto al seno. Una
delle ragazze della mia classe aveva il seno grosso.
Invece di suscitare l’invidia delle compagne, veniva
presa in giro.
Alla fine venni a sapere dell’atto sessuale dalla più
improbabile delle fonti. Un pomeriggio una mia
compagna di scuola m’invitò a guardare la cassetta
illegale di un film drammatico sudcoreano. Quando
accendemmo il videoregistratore, però, scoprimmo
che uno degli adulti di casa ci aveva lasciato dentro
un altro tipo di cassetta. Impiegai quasi un minuto
per capire cosa stavamo guardando. Lo schermo era
pieno di membra e parti anatomiche intime alla
rinfusa, accompagnate da grugniti e gemiti ritmati.
La mia amica fissava ridacchiando la mia espressione
sconvolta. Nei film nordcoreani non avevo mai visto
nemmeno qualcuno baciarsi. La pornografia, nella
propaganda di partito, era una perniciosa corruzione
straniera: ma quel video sul «fare l’amore», come lo
definì la mia amica, era stato girato a Pyongyang per
essere venduto all’estero o per circolare fra l’élite dei
quadri di partito. Io non ci avrei mai creduto, se gli
«attori» non avessero parlato con un accento tanto
familiare. Quel giorno persi l’innocenza. E per quanto
mi riguarda la perse anche il mio paese.
Come tutte le mie amiche, al momento della prima
mestruazione avevo provato tre emozioni in rapida
successione: choc, imbarazzo e panico assoluto. Per
intuire cosa fare avevo dovuto far ricorso
all’immaginazione. Incredibilmente, la maggior parte
di noi affrontava l’emergenza senza parlarne a
nessuno, e senza chiedere consiglio nemmeno alle
nostre madri. La mia, la donna con maggior senso
pratico che abbia mai conosciuto, non me ne offrì,
esattamente come sua madre, ne sono convinta, aveva
fatto con lei.
Fu proprio all’apice del panico da prima
mestruazione che una delle ragazze della mia classe
mi disse di aver visto, in un bagno pubblico vicino
alla scuola, una cosa che l’aveva spaventata
moltissimo. Voleva mostrarmela. Ci andammo di
soppiatto, per dare insieme un’occhiata. Il luogo era
bagnato, buio e puzzolente. Vicino al buco del
gabinetto alla turca c’era un sacchetto di plastica
bianca tutto insanguinato. Dentro, un neonato morto,
con un faccino tra il rosa e l’azzurro. La madre doveva
averlo dato alla luce lì dentro per poi scappare via. Il
cordone ombelicale e la placenta erano accanto al
corpicino. Ne fui profondamente scioccata e quella
notte non riuscii a dormire.

Quell’anno, il 1995, cominciai a uscire con il mio


primo ragazzo. Aveva quattro anni più di me, ed era
un piccolo delinquente. Si chiamava Tae-chul. Era
alto, magro e indossava un giubbotto casual
giapponese, il massimo dell’eleganza per Hyesan.
Sfoggiava un sorrisetto presuntuoso che trovavo
molto attraente. Di tipi così ce n’è parecchi in ogni
città della Corea del Nord. Non sono criminali
violenti, ma giovani con il tipo di personalità che
attrae una sfilza di gregari, e che in genere si
dedicano al commercio di generi proibiti. Ci sono un
sacco di piccoli crimini cui possono dedicarsi senza
conseguenze, basta che non sfiorino temi politici e
che non attirino l’attenzione del bowibu.
Questo ragazzo aveva dei soldi. Frequentava
l’accademia di polizia e seguiva l’addestramento per
diventare poliziotto. Anche solo andare in giro con
lui mi eccitava per via dell’attenzione che attiravo. Ed
effettivamente, dopo che venne ad aspettarmi due o
tre volte fuori dalla scuola, su noi due cominciarono a
girare delle voci. Una questione piuttosto seria,
perché quando si comincia a bisbigliare che una
ragazza frequenta un tipo, poi non è facile trovarle un
altro marito.
La cosa mi preoccupava, ma lui mi piaceva proprio.
Mi riempiva di orgoglio che decidesse di uscire con
me quand’erano così in tante a volerlo. Andavamo a
casa sua a sentire audiocassette di pop sudcoreano e
a suonare la chitarra e la fisarmonica. Come tutti gli
altri fidanzatini nordcoreani, non ci baciavamo
nemmeno. Il massimo che facevamo era tenerci per
mano, e anche questo con discrezione. Le rispettive
famiglie non sapevano niente della nostra storia
d’amore, e proprio per questo non ritenevano
inopportuno che andassi a casa sua. A mia madre
sarebbe venuto un colpo se avesse saputo che era il
mio ragazzo.

Quell’anno trovai i miei compiti all’interno della


Lega della gioventù socialista più pesanti che mai. In
primavera dovevamo aiutare a piantare i germogli di
riso, in estate strappavamo le erbacce e spargevamo il
fertilizzante, poi in autunno veniva il momento del
raccolto, cui collaboravano studenti e operai
provenienti da tutto il paese. Questa impresa di
massa, in campi orlati di bandiere rosse, era il
simbolo dell’idealismo comunista.
Quell’estate ci venne anche ordinato di scavare dei
tunnel tutt’attorno alla scuola. L’intera nazione fu
mobilitata, e tutti erano sul piede di guerra. Le sirene
suonavano quasi ogni giorno, al che tutti mollavano
quello che stavano facendo e correvano
freneticamente qua e là, esercitandosi per l’allarme
antiaereo che sarebbe suonato in caso di aggressione.
Ci dissero che America e Corea del Sud stavano per
lanciare contro di noi un attacco nucleare. La guerra
poteva scoppiare da un momento all’altro. Il pensiero
di una guerra nucleare mi terrorizzava. Mamma,
spaventatissima, diede via buona parte delle nostre
cose: le coperte di riserva e i cuscini in più li mandò a
zio Povero e alla sua famiglia alla fattoria collettiva.
I ragazzi scavavano come impazziti con le pale, e le
ragazze portavano via la terra. Io odiavo ogni singolo
minuto di quel lavoro. Se la guerra fosse scoppiata
mentre eravamo a scuola, varie centinaia di studenti
avrebbero potuto nascondersi in quel dedalo di
gallerie. Io avevo paura che quelle opere d’ingegneria
improvvisata potessero rivelarsi disastrose, e che
saremmo rimasti sepolti vivi nei tunnel. Ed ero
scettica anche verso l’idea che fossero abbastanza
profondi per proteggerci da un attacco nucleare. Anni
dopo avrei scoperto che la propaganda conteneva un
elemento di verità: gli Stati Uniti avevano davvero
preso in considerazione un attacco aereo contro i
nostri impianti nucleari.
In una di quelle tediose e faticose giornate di scavi
ed esercitazioni antiaeree, dopo la scuola andai a casa
della mia amica Sun-i. Lei faceva parte del ristretto
gruppo di amiche che vedevo sempre, ma quella era
la prima volta che andavo a casa sua. Di solito era lei
che veniva da me.
«Ci mangiamo qualcosa?» le domandai. «Ho
fame.»
«Non so cos’abbiamo» rispose lei, vaga.
«Una cosa qualsiasi.»
«Non c’è molto.»
La cosa mi infastidì. A casa mia ti offriamo sempre la
merenda. «Non ho bisogno di un pasto completo»
insistetti.
Ma Sun-i esitava ancora. Sembrava imbarazzata.
«Vieni» disse poi, facendomi entrare in cucina.
Sulla stufa c’erano quattro pentole. Sun-i tolse il
coperchio alla prima. «Guarda. Non posso darti
questa roba.»
Nella pentola c’erano degli oggetti un po’ grossi,
verde scuro. Sun-i rimise il coperchio senza lasciarmi
il tempo di chiederle cosa fossero, ma ero sicura che
non fosse cibo normale. Mentre tornavo a casa mi
venne in mente che forse erano gambi di granturco.
Ma perché mai sua madre doveva cucinare quella
roba al posto del riso?
16
«Quando avrai letto queste righe, noi
cinque non ci saremo più»

Mamma tornò dal lavoro con l’aria stanca e distratta.


Non aveva dormito molto dopo la morte di mio
padre, e aveva più rughe attorno agli occhi e alla
bocca. Era da mesi che non la vedevo sorridere, ma
almeno grazie ai suoi piccoli traffici era in grado di
provvedere a noi. Avevamo sempre dei soldi e di che
mangiare. Il suo impiego all’ufficio governativo locale
significava inoltre che aveva accesso ai prodotti
agricoli gestiti dal suo ente, e com’era ovvio questo
significava maneggiare parecchie bustarelle. Poco
dopo la morte di Kim Il-sung il governo aveva smesso
di pagare gli stipendi. Continuava a distribuire i
buoni del razionamento tramite i posti di lavoro, ma
anche quelli non valevano più come prima. Per
qualche ragione i generi con cui li si poteva scambiare
erano sempre meno.
Mamma aveva portato a casa una lettera che una
sua collega aveva ricevuto. Era firmata dalla sorella
della donna, che abitava nella provincia di Hamgyong
del Nord, vicina alla nostra ma un po’ più a est.
Mamma voleva mostrarcela.
«Voglio che tu e Min-ho sappiate che la gente sta
passando un periodo molto difficile. Voi mi chiedete
questo e vi lamentate perché non avete quello. Ma
non tutti hanno ciò che abbiamo noi.»
E mi tese la lettera.

Cara sorella,
quando avrai letto queste righe, noi cinque non ci
saremo più. Non mangiamo da settimane. Siamo
emaciati, anche se ultimamente i nostri corpi si sono
gonfiati. Stiamo aspettando la morte. Il mio ultimo
desiderio prima di andarmene sarebbe mangiare una
fetta di torta di mais.

La mia prima reazione fu di stupore.


Perché quella gente non aveva mangiato per
settimane? Il nostro era uno dei paesi più prosperi al
mondo. Ogni sera il telegiornale ci mostrava
fabbriche e fattorie che producevano in abbondanza,
gente ben nutrita che si godeva il tempo libero e i
grandi magazzini della capitale straripanti di merci. E
come mai l’ultimo desiderio di quella donna era stato
di mangiare della torta di mais, la «torta del povero»?
Perché non chiedeva di vedere la sorella un’ultima
volta? Poi cominciai a rendermene lentamente conto.
Ripensai a com’ero stata brusca con la mia amica
Sun-i perché quand’ero stata a casa sua non mi aveva
offerto la merenda. Me ne vergognai.
Evidentemente la sua famiglia faticava a procurarsi
da mangiare.

Qualche giorno dopo vidi per la prima volta con i


miei occhi gli effetti della carestia.
Ero al mercato davanti alla stazione Wiyeon, a
Hyesan, quando notai una donna sdraiata per terra,
su un fianco, con un bambino in braccio. Era giovane,
sui vent’anni. Il bambino, un maschietto, doveva
avere due anni e la guardava fissamente. Entrambi
erano pallidi e scheletrici, e vestiti di stracci. La
donna aveva la faccia incrostata di sporcizia e i capelli
arruffati e unti. Sembrava malata. Con mio grande
stupore la gente passava loro accanto come se fossero
invisibili.
Ma io non potevo far finta di niente, e misi una
banconota da cento won in grembo al bambino.
Pensavo che non sarebbe servito a niente darla alla
madre. I suoi occhi erano offuscati e sembravano non
vedere. Sicuramente non guardava me. Pensai che
stesse per morire. I miei soldi le avrebbero permesso
di comprarsi qualcosa da mangiare per un paio di
giorni.
«Oggi ho salvato un bambino» dissi a mia madre
appena tornata a casa. Pensavo sarebbe stata
orgogliosa di sapere che mi ero presa cura del piccolo
mentre gli altri tiravano dritto.
«Cosa vuoi dire?»
Le raccontai cos’avevo fatto.
Lei mollò quello che stava facendo e si voltò verso
di me, molto irritata. «Ma allora sei proprio stupida?
Come può un bambino piccolo andare a comprarsi
qualcosa? Sicuramente la tua banconota gliel’avranno
rubata. Avresti fatto meglio a comprar loro qualcosa
da mangiare.»
Aveva ragione, e mi sentii in colpa.
Dopo quell’episodio cominciai a riflettere molto
sull’essere caritatevoli. Condividere ciò che avevamo
faceva di noi dei buoni comunisti, ma al tempo stesso
sembrava inutile. La gente aveva talmente poco, e
prima di tutto doveva prendersi cura della propria
famiglia. Avrei potuto spendere meglio la banconota
da cento won che avevo dato al bambino e a sua
madre, ma anche così mi rendevo conto che avrei
risolto i loro problemi per un paio di giorni al
massimo. Quel pensiero mi deprimeva molto.

Un’ombra cominciò a addensarsi sopra Hyesan.


Ovunque c’erano mendicanti, soprattutto attorno ai
mercati. Era una cosa che non si era mai vista prima,
nel nostro paese. C’erano anche bambini di strada.
Dapprima in gruppetti di due o tre, ma ben presto in
drappelli più folti. Arrivavano a Hyesan dalle
campagne. I loro genitori erano morti di fame
lasciandoli a cavarsela da soli, senza parenti. Erano
stati soprannominati kotchebi («rondinelle in fiore»),
perché come quegli uccelli sembravano raccogliersi in
stormi. Uno dei loro trucchi per sopravvivere era
distrarre una venditrice del mercato mentre dei
complici afferravano il cibo e scappavano via. In
un’orribile ironia della sorte, li si vedeva a frugare
nelle immondizie alla ricerca di granaglie, bucce o
cartilagini, esattamente come ci avevano detto che
facevano i bambini della Corea del Sud. A scuola, i
ragazzi i cui genitori facevano più fatica a nutrirli
frequentavano con meno regolarità, finché a un certo
punto smettevano di venire. La mia classe si ridusse
di un terzo. Anche qualche insegnante smise di
venire. Preferivano guadagnarsi da vivere vendendo
al mercato.
E il cibo non era l’unica cosa a scarseggiare. Non
c’erano più fertilizzanti per le coltivazioni. In
campagna i bambini dovevano portare a scuola i loro
stessi escrementi per usarli come fertilizzante. Le
famiglie chiudevano a chiave le latrine per evitare che
i ladri rubassero quel poco che era loro rimasto. Non
c’era più benzina. Acciaierie e segherie furono chiuse.
Le ciminiere delle fabbriche non soffiavano più nel
cielo i loro pennacchi di fumo, e durante il giorno le
strade cittadine erano vuote e silenziose. I pini e i
larici che abbellivano le pendici delle montagne
cominciarono a sparire. Il paesaggio veniva spogliato
dei suoi alberi. La gente andava a caccia di
combustibile perché un vento gelido calava già dalla
Manciuria, annunciando l’inizio dell’inverno. I black-
out diventavano sempre più frequenti, al punto che
ormai avere la corrente elettrica era un’eccezione. Di
sera, per illuminare casa nostra mia madre si
costruiva una lampada con una latta di diesel con
dentro una striscia di stoffa. Quella lampada emanava
un fumo così sporco che io e Min-ho avevamo sempre
un cerchio di fuliggine attorno alla bocca.
Un freddo mattino d’inizio inverno, qualche
settimana prima che il fiume ghiacciasse, feci una
passeggiata al sole lungo la riva e vidi quello che mi
sembrò un grosso straccio trascinato dalla corrente
pigra. Poi vidi che lo straccio aveva un viso umano,
rivolto verso l’alto. Gli occhi erano aperti. Con orrore
lo guardai passarmi accanto e scivolare via, oltre la
mia casa. Appena prima dell’alba, prima che la gente
della sponda cinese se ne accorgesse, le guardie di
frontiera ripescavano i cadaveri e li coprivano con
della paglia. Erano persone che avevano cercato di
attraversare il fiume più a monte ma che erano
troppo deboli per riuscirci. La corrente poteva essere
impetuosa, quando sulle montagne era piovuto.

All’inizio del 1996, non molto dopo il mio


sedicesimo compleanno, in un mercato fuori città vidi
una folla raccolta attorno a un uomo di mezz’età che
stava pronunciando un discorso con accento sino-
coreano. Aveva un gran pancione e un cappotto
imbottito di buona qualità. Sembrava pieno di soldi.
Immaginai che fosse venuto dalla Cina per far visita
ai parenti.
«Perché mai tante sofferenze si sono abbattute sul
nostro popolo?» diceva, mentre le lacrime gli
rotolavano giù per le guance paffute. «La gente
muore di fame. Com’è possibile che ciò stia
accadendo nel nostro paese?»
Poi infilò la mano nella tasca interna della giacca e
tirò fuori una manciata di banconote cinesi azzurre
da dieci yuan. Un brivido attraversò subito la folla.
L’uomo cominciò a distribuire le banconote a destra e
a manca. Come richiamati da un fischio, mendicanti
vestiti di stracci si materializzarono ovunque,
tendendo le mani. L’uomo fu circondato in ogni
direzione da braccia tese e diede via tutte le
banconote.
Le sue domande mi restarono in testa.
Cosa stava accadendo, esattamente? Non era
scoppiata la guerra. Anzi, tutti sembravano essersi
dimenticati dell’attacco nucleare per il quale avevamo
speso tanto tempo a scavare tunnel e a esercitarci con
l’allarme antiaereo. La carestia si era scatenata
all’improvviso come una pestilenza. Ufficialmente,
l’«ardua marcia», come la propaganda chiamava la
carestia, era dovuta alle sanzioni economiche
dell’ONU volute dagli Stati Uniti, cui si erano aggiunti
i cattivi raccolti e le inondazioni, che avevano
aggravato la situazione. Quando ascoltavo quei
ragionamenti credevo davvero che Kim Jong-il stesse
facendo del suo meglio per soccorrerci in quelle
terribili circostanze. Cos’avrebbe fatto il popolo senza
di lui? Ma la vera ragione, che avrei scoperto solo
anni dopo, e che ben pochi nordcoreani conoscevano,
aveva più a che fare con il crollo dell’Unione Sovietica
e con il fatto che il nuovo governo russo si era
rifiutato di continuare a sostenerci inviandoci
combustibile e cibo.
Kim Jong-il aveva ormai assunto il governo del
paese. Ogni sera ascoltavamo un’annunciatrice
televisiva, tremante di commozione, raccontare che il
nostro Caro Leader consumava solo semplici pasti a
base di riso e patate per solidarietà con le sofferenze
del popolo. Ma sullo schermo lo si vedeva corpulento
e ben nutrito come sempre. Per distrarci dal tema
dell’economia, che sembrava non funzionare, nuovi
programmi ce lo mostravano incessantemente intento
a ispezionare le strutture difensive e le basi militari
della nazione. Una guerra per l’annessione del Sud
risolverebbe tutti i nostri problemi, diceva la gente.
Dal loro accento mi sembrava di capire che molti
dei mendicanti presenti in città non fossero di
Hyesan: probabilmente venivano dalle province di
Hamgyong del Nord e Hamgyong del Sud. Avevamo
sentito dire che in quelle zone la situazione era
drammatica. Ma non avrei capito fino a che punto
fino alla primavera del 1996, quando feci visita a zia
Carina a Hamhung.
Fu un viaggio in una terra infernale.
La primavera è la stagione più povera in Corea del
Nord, perché le riserve dei raccolti precedenti si sono
esaurite e le coltivazioni dell’anno nuovo non hanno
ancora dato frutto. La terra era nuda e bruna.
Sembrava rovinata per sempre, maledetta. Su ogni
collina gli alberi erano stati tagliati, e per chilometri e
chilometri l’aperta campagna era punteggiata di
persone che vagavano senza sosta come morti viventi
alla vana ricerca di qualcosa da mangiare; oppure se
ne stavano accovacciate lungo i binari del treno, senza
fare niente, senza aspettare più niente.
Prima della carestia nessuno poteva mettersi in
viaggio senza avere un permesso stampato sul
libretto d’identità, che a ogni stazione veniva
attentamente esaminato dai controllori. Ma ormai di
controlli non ce n’erano più. L’ordine si stava
sfaldando ovunque. I soldati si erano trasformati in
ladri, i poliziotti in rapinatori. I treni viaggiavano
senza orari precisi. A ogni fermata c’erano centinaia
di passeggeri in più dei posti disponibili, e il viaggio
diventava un incubo. A una stazione rischiai di essere
colpita dalle schegge di vetro quando la gente spaccò
un finestrino per entrare direttamente ed evitare così
l’imbottigliamento agli sportelli. Il vagone era
pericolosamente sovraffollato. Gente disoccupata e
affamata si metteva in viaggio nella speranza di
vendere qualcosa in cambio di cibo. I passeggeri
erano così compressi che alla fine, quando arrivai a
Hamhung, per raggiungere l’uscita dovetti
calpestarli.
Sulla banchina mi guardai indietro e vidi centinaia
di persone sopra il tetto del vagone. Tutti coloro che
cercavano di vendere merci di contrabbando
preferivano viaggiare così. Nessun funzionario
avrebbe rischiato l’osso del collo per salire là sopra a
effettuare un controllo. Più o meno in quegli stessi
giorni mia madre, diretta a Wonsan per far visita a zio
Cinema, vide un poliziotto ordinare a una donna di
scendere dal tetto di un treno. Da sotto i vestiti della
donna si intravedevano gli oggetti di contrabbando
che nascondeva, nella speranza di riuscire a venderli.
I poliziotti erano sempre alla ricerca di merci illegali,
per poi sequestrarle e venderle per conto loro.
«Ti supplico, non perquisirmi» implorava la donna.
«È tutto quello che ho.»
«Vieni immediatamente giù, vecchia puttana!»
gridava il poliziotto.
Allora la donna chiese di essere aiutata a scendere.
Il poliziotto le tese le braccia, ma quando le toccò
la mano lei alzò di scatto l’altro braccio e il suo pugno
si chiuse sui cavi elettrificati. Morirono entrambi sul
colpo. Probabilmente lei aveva pensato: Se devo
andarmene, questo bastardo me lo porto con me.
Quando entrai in città pensai che evidentemente la
memoria mi stava giocando un brutto scherzo. La
Hamhung in cui avevo vissuto da bambina era un
animato polo industriale, con così tante ciminiere che
sputavano fuori un fumo nero che a volte l’aria ci
mozzava il fiato in gola, mentre ora era fresca e
pulita. Il grande mostro inquinante, la fabbrica
Hungnam di concimi azotati, non ingialliva più il
cielo con le sue esalazioni chimiche. In giro non
c’erano quasi tram né auto, niente gente affaccendata
sui marciapiedi, solo persone che vagavano qua e là
con espressione letargica, o intente a borbottare tra
sé, allucinate dalla fame.
Zia Carina aveva fatto i soldi importando vestiti
cinesi da Hyesan ed esportando nell’altra direzione il
pesce della costa, ma ora che la situazione dei
trasporti si faceva ogni giorno più difficile era alla
ricerca di nuovi affari. Riteneva che le autorità
avessero preso la decisione di tagliare completamente
il Sistema di distribuzione pubblica nella provincia di
Hamgyong del Nord per salvare il resto del paese. Le
domandai perché proprio quella provincia.
«Perché ci vivono molte persone con un songbun
basso» rispose.
La gente cadeva morta per la strada, ma nel
frattempo la fame e il bisogno più estremo stavano
cambiando radicalmente la mentalità. Lo vidi
accadere con i miei stessi occhi, a Hamhung. La gente
stava disimparando l’ideologia appresa per tutta la
vita e tornava a ciò che gli esseri umani hanno
praticato per migliaia d’anni: il commercio.
Il mercato nero, dove il cibo era in vendita ai
prezzi astronomici del mercato libero, sbucava
dappertutto: sui cigli delle strade, nelle stazioni
ferroviarie, negli impianti industriali sotto naftalina.
La nuova classe emergente di imprenditori era
massicciamente composta da donne, e soprattutto da
donne dal songbun basso. Ben presto il songbun di una
persona divenne di gran lunga meno importante
della sua abilità di far soldi e ottenere da mangiare.
Molte donne mettevano in mostra le merci su una
stuoia stesa sul marciapiede, attente ai ladri e ai
kotchebi, ma alcuni mercati avevano già assunto un
aspetto più permanente, con bancarelle e tendoni
fatti con i sacchi di iuta azzurra del riso del
Programma alimentare dell’ONU . Per quanto possa
sembrare incredibile in una città stretta nella morsa
di una carestia mortale, per coloro che avevano occhio
e sapevano cogliere l’occasione esistevano
opportunità di scalata sociale e successo
commerciale. Durante la mia permanenza sentii
qualcuno dire: «Ci sono quelli che muoiono di fame,
quelli che mendicano e quelli che commerciano».
Venendo da Hyesan conoscevo molte persone con il
bernoccolo degli affari, ma a Hamhung, la seconda
città più grande della Corea del Nord, quella
mentalità sembrava completamente nuova.
Il viaggio per tornare a Hyesan fu un incubo come
quello di andata. Molte persone si erano infilate sotto
il carrello del vagone, o aggrappate fuori dal treno, o
sedute sul tetto fra i cavi elettrici. Quando arrivai alla
stazione di Hyesan, sdraiato sulla banchina c’era un
uomo con la parte superiore della testa così
maciullata che si vedeva una porzione del cervello.
Era ancora vivo, e chiedeva con voce tremula se presto
sarebbe guarito. Morì pochi minuti dopo. Aveva
viaggiato sotto il carrello e, non appena il treno era
entrato nella stazione, era stato colpito dal ciglio della
banchina. Durante la carestia, simili incidenti erano
diventati comuni.

Quell’anno, il 1996, la cultura del nostro paese


cambiò in modo notevole. In passato, quando andavo
a trovare qualcuno, venivo accolta con le parole: «Hai
già mangiato del riso?». Era un’espressione di
ospitalità, che significava: «Hai già mangiato? Unisciti
a noi». Ma con la carenza di cibo di quell’anno, come
poteva qualcuno pronunciare il vecchio benvenuto
con sincerità? Non passò molto tempo che quella
frase fu sostituita da: «Hai già mangiato, no?». Molte
persone erano troppo imbarazzate o troppo
orgogliose per ammettere che stavano morendo di
fame, e non avrebbero preso il cibo altrui nemmeno
se gliel’avessero offerto. Quando il giovane
insegnante di fisarmonica di Min-ho cominciò a
venire a casa nostra, mia madre gli chiese se voleva
pranzare. La nostra famiglia poteva permettersi di
rispettare la vecchia etichetta.
«Ho già mangiato, grazie,» rispose lui chinando
educatamente la testa «ma una ciotola d’acqua con un
po’ di doenjang mi farebbe piacere.»
Mamma gliela diede, ma la trovò una richiesta
piuttosto strana. Nessuno beve l’acqua con dentro la
pasta di soia usata per insaporire le zuppe. Ogni volta
l’insegnante di musica la ingurgitava in pochi
secondi. Dopo un mese di lezioni smise di venire. Mia
madre sentì dire che era morto di fame e ne rimase
sbalordita. Perché non aveva mai accettato le sue
offerte? Evidentemente teneva alla propria dignità
più che alla sua stessa vita.
Un pomeriggio di quell’estate, Min-ho e io
tornammo a casa dopo la scuola e sorprendemmo un
ladro. Era un soldato scheletrico, con la pelle
butterata, che non poteva avere più di diciannove
anni. Stava cercando di portarsi via il nostro
televisore Toshiba, ma non aveva braccia abbastanza
forti. I soldati avevano rubato nelle case di un po’
tutta Hyesan, e di solito la gente li denunciava alla
polizia. Ma mia madre si limitò a dargli dei soldi e a
dirgli di comprarsi qualcosa da mangiare.
Man mano che la carestia si aggravava, in tutta la
provincia cominciarono a diffondersi voci di
cannibalismo. In merito il governo emise delle rigide
direttive. Sentimmo dire che un uomo anziano aveva
ucciso un bambino per farne una zuppa che poi aveva
venduto alla mensa di un mercato, dov’era stata
divorata dagli avventori affamati. Il crimine era stato
scoperto quando la polizia aveva trovato le ossa. Io
pensavo che quegli assassini dovevano essere degli
psicopatici, e che le persone normali non avrebbero
mai fatto ricorso a simili delitti. Oggi non ne sono più
del tutto sicura. Avendo parlato con molte persone
che, durante quel periodo, avevano sfiorato la morte,
ho capito che la fame estrema può condurre alla
pazzia. Può spingere i genitori a rubare il cibo ai loro
stessi figli, la gente a mangiare il corpo dei defunti e
il più gentile dei vicini di casa a commettere un
omicidio.

In tutto il paese il sistema dei permessi di viaggio


era allo sbando, ma l’ingresso a Pyongyang era ancora
rigidamente controllato. Quell’estate ricevetti
l’autorizzazione per far visita a zio Denaro e a sua
moglie. Era il mio secondo lungo viaggio in treno nel
peggiore degli anni possibili. L’idea mi innervosiva.
Mi preparai ad affrontare scene simili a quelle che
avevo visto a Hamhung, ma con mia grande sorpresa
tutto era normale nella Capitale della Rivoluzione:
gente ben nutrita se ne andava in giro per gli affari
propri; nei grandi viali circolavano i tram e il solito
traffico; non vidi mendicanti né orde di bambini di
strada. Perfino gli impianti elettrici avevano i loro
bravi pennacchi di fumo. La classe leale che viveva in
quella città sembrava isolata da ciò che stava
accadendo nel resto del paese.
Dopo aver deposto dei fiori ed essermi inchinata ai
piedi del colosso di bronzo di Kim Il-sung sulla
collina di Mansu, talmente enorme da farmi sentire
una formichina, lo zio e la zia mi portarono all’Ok-liu-
gwon, il più famoso ristorante di tagliolini di tutto il
paese. Il locale era pieno zeppo, con la gente in fila in
attesa di un tavolo. Chiaramente nessuno soffriva la
fame. Mio zio era potente e influente: scavalcammo la
coda e ci fecero entrare senza aspettare.
Zio Denaro era un uomo corpulento con una
grossa personalità, che sembrava perfetta per il suo
ruolo di membro più ricco della famiglia. In casa
aveva una sauna. Non avevo mai visto un lusso simile
in tutta la mia vita. Contai almeno cinque televisori,
alcuni dei quali ancora inscatolati, pronti per essere
usati per corrompere. Una sera a cena mi fu servito
del cibo occidentale, che non avevo mai assaggiato
prima: credo fosse un qualche tipo di pasta.
Non sembrava nemmeno cibo vero.
Zio Denaro rise vedendo la mia espressione. «La
maggior parte della gente non avrà mai occasione di
mangiare una cosa del genere. Se non l’assaggi ora
forse non potrai farlo mai più.»
La moglie di zio Denaro portava degli abiti così
eleganti da non sembrare nemmeno nordcoreana. Era
la direttrice del Grande magazzino Numero Uno di
Pyongyang, che all’ora del notiziario appariva spesso
in televisione con i suoi scaffali carichi di merci
colorate. Ma quando andai a trovarla mi disse che le
merci sugli scaffali erano tutta scena, per fare buona
impressione sui visitatori stranieri. Il grande
magazzino non aveva scorte per sostituire ciò che
veniva venduto.
Io le dissi che speravo di poter comprare un regalo
per mia madre, per esempio il piccolo set da trucco
che avevo visto in una vetrina.
La zia fece l’occhiolino alla commessa, che lo prese
e me lo diede.
Mentre tornavo a Hyesan pensai che nel suo
insieme quella visita mi era sembrata uno strano
sogno. Non riuscivo a credere che Pyongyang fosse
nello stesso paese di Hamhung, dove la gente moriva
di fame sui marciapiedi, o di Hyesan, dove i bambini
di strada sciamavano nei mercati. Alla fine, pensai,
nemmeno Pyongyang sarebbe rimasta immune. Il
regime non sarebbe riuscito a impedire alla carestia
di arrivare al cuore del proprio potere.
17
Le luci di Changbai

Il ragazzo gridò la sua risposta: «Voglio fare il


carrista!».
La professoressa era raggiante di soddisfazione. «E
perché vuoi guidare un carro armato?»
«Per difendere il nostro paese dagli yankee
bastardi!»
Il ragazzo tornò a sedersi. Era il mio ultimo anno
di scuola secondaria, e l’insegnante ci stava
chiedendo cosa volevamo fare da grandi. A Hyesan, la
carestia si stava alleggerendo un po’. Lentamente, la
vita tornava alla normalità.
Come ogni obbediente giovane socialista, ognuno
di noi diceva alla professoressa quello che lei voleva
sentirsi dire. Dopo essersi sentito ripetere fin dalla
nascita che il nostro Rispettato Padre e Leader aveva
dedicato tutta la vita alla causa del popolo,
accollandosi un peso enorme per mantenere il nostro
paese al sicuro dai nemici, perfino un bambino
dell’asilo avrebbe capito che l’insegnante non
sarebbe stata affatto contenta se fosse balzato su per
esclamare: «Voglio fare la popstar!».
Tra compagni di scuola avremmo dovuto parlare in
maniera più onesta delle nostre speranze per il futuro
e di ciò che avremmo voluto fare delle nostre vite; ed
effettivamente era così, ma solo fino a un certo punto.
Perché ora che stavamo per diplomarci avevamo
ormai imparato a adattare le nostre aspettative al
nostro songbun. Le nostre scelte ricadevano all’interno
di una certa gamma di possibilità. Nella mia classe,
chi aveva un buon songbun sosteneva l’esame di
ammissione all’università oppure, se era un maschio,
finiva dritto nell’esercito. Qualcuno, grazie alle
relazioni della sua famiglia, riusciva a ottenere un
buon lavoro in polizia o nel bowibu. Ma più della metà
dei miei compagni appartenevano alla categoria
«ostile». L’elenco dei loro nomi era già stato mandato
a un ufficio governativo di Hyesan, dove i funzionari
li avrebbero assegnati a miniere e fattorie. Una
ragazza di questo gruppo fece l’esame di ammissione
all’università e lo superò, ma non fu accettata.
Il mio buon songbun significava che potevo fare dei
progetti. Ma i miei sogni erano privatissimi e
modesti: volevo diventare fisarmonicista. La
fisarmonica è molto popolare nella Corea del Nord, e
una ragazza in grado di suonarla bene non avrebbe
avuto difficoltà a guadagnarsi da vivere. Quello
dunque sarebbe stato il mio mestiere ufficiale: ma
poi, come mia madre, volevo fare anche la
commerciante, avviare qualche traffico illecito,
guadagnare bei soldi. Pensavo fosse una cosa molto
eccitante, ma sapevo anche che sarebbe stato l’unico
modo per assicurare sempre alla mia famiglia,
quando avessi avuto dei figli, cibo in abbondanza.
Mamma sosteneva con decisione la mia scelta di
fare la fisarmonicista, e trovò anche un musicista del
teatro di Hyesan che mi impartisse lezioni private.
Diceva che mio padre ne sarebbe stato contento, che
la fisarmonica gli era sempre piaciuta. Quelle parole
mi facevano venire da piangere.

Avevo diciassette anni. Qualche mese dopo, nel


gennaio del 1998, ne avrei compiuti diciotto. Era un
pensiero che mi pesava. A diciotto anni eravamo
considerati cittadini adulti, e ricevevamo il nostro
libretto d’identità. Dopo il compimento del
diciottesimo anno, gli scherzi e le marachelle che a un
bambino si potevano anche perdonare sarebbero
diventati crimini seri. E c’era una marachella che ero
sempre più irresistibilmente tentata di combinare,
prima che fosse troppo tardi.
Nell’inverno del 1997 una compagna di scuola che
viveva poco lontano da casa nostra mi chiese se mi
sarebbe piaciuto passare di nascosto al di là del fiume
per raggiungere la città frontaliera di Changbai, in
Cina. Sua madre, come la mia, aveva laggiù dei
contatti d’affari. La mia amica aveva già varcato il
confine più volte, quindi sapeva come fare.
L’idea mi elettrizzava. Dopo le vacanze invernali
avevo intenzione di provare l’esame di ammissione
alla facoltà di economia di Hyesan, che offriva corsi
biennali. Entrarci era più difficile che essere ammessi
in una facoltà con corsi quadriennali. Dai laureati ci si
aspettava che lavorassero per le imprese statali,
ovviamente, e non che si dedicassero a commerci
illegali privati. I voti non erano molto importanti:
erano i soldi e il potere a contare davvero. Io volevo
studiare là e avviare un commercio di beni
d’importazione. Dunque perché non andare a dare
un’occhiatina di nascosto a Changbai? Changbai, per
me, rappresentava il mondo degli affari.
All’epoca Min-ho era già passato illegalmente
dall’altra parte più di una volta. I ragazzini lo
facevano spesso, per giocare con i coetanei cinesi
sull’altra sponda. A volte, quando i soldati non
guardavano, andava di là per far visita al signor Ahn e
a sua moglie, o al signor Chang, i contatti di mia
madre, le cui case erano vicine al confine. E se lui
poteva farlo, perché non io?
Dalla nostra casa potevo vedere, di là dal fiume, le
insegne alogene e al neon di Changbai. Mi stupiva
che non ci fossero mai dei tagli alla corrente elettrica.
A scuola gli insegnanti ci avevano sempre detto che i
cinesi erano invidiosi di noi, e molto meno ricchi. Io
ci credevo ancora, anche se la prova del contrario ce
l’avevo sotto gli occhi: la quantità di prodotti cinesi in
vendita nei nostri mercati e gli eleganti uomini e
donne d’affari cinesi che vedevo aggirarsi per le
strade di Hyesan. Alla fine fu zia Carina ad
accendermi una lampadina nella testa, quando mi
disse che gli affamati accorrevano a Hyesan perché
nelle città di frontiera c’è sempre più abbondanza di
cibo.
Cibo dalla Cina? Perché, i cinesi ne hanno più di noi?
Durante la carestia Hyesan precipitava nel buio
ogni sera, ma le nubi sopra Changbai risplendevano
d’ambra per via delle mille luci della città. Cominciai
a notare che nessuno dei cinesi che mi capitava di
vedere, né le guardie di frontiera sull’altra sponda,
elegantissime nelle loro uniformi verdi, né i bambini
che giocavano sulla riva del fiume, sembrava magro o
affamato. Evidentemente stavano meglio, molto
meglio di noi. Questa folgorazione cominciò a far
vacillare una delle mie convinzioni più salde e più
antiche: che il nostro paese fosse il migliore del
mondo.
Non sapevo il mandarino, ma conoscevo
abbastanza caratteri cinesi per cogliere il senso dei
sottotitoli, quando comparivano in televisione. Ormai
erano anni che guardavo illegalmente programmi
cinesi. E anche quando non ci capivo niente, mi
affascinavano.
Le popstar sudcoreane comparivano regolarmente
alla televisione cinese. Gruppi come Seo Taeji and the
Boys o gli H.O.T., una popolarissima band di
adolescenti, si esibivano davanti a immense folle di
ragazzine urlanti. Io non avevo mai visto niente del
genere. Capivo i testi in coreano, ma non avevo la più
pallida idea di che cosa stessero cantando o
rappando. I loro abiti, le pettinature e i passi di danza
mi sembravano completamente alieni, addirittura
troppo strani per essere interessanti. Ero più
catturata dalle soap opera cinesi, i cui personaggi
sembravano vivere tutti in belle case bene
ammobiliate, complete di domestiche e autisti, con
cucine piene di elettrodomestici di lusso come forni a
microonde e lavatrici. Mia madre lavava i nostri vestiti
al fiume. Ma davvero i cinesi vivono così? Ero sempre
più curiosa.
La mia amica era ansiosa di passare dall’altra parte
il più presto possibile. Il fiume era completamente
ghiacciato. Ingenuamente, mi aspettavo che mia
madre avrebbe dato il suo consenso. Mi incoraggiava
sempre in tutto ciò che facevo. Ma quando glielo
dissi, si irrigidì.
«Assolutamente no.»
Il mio entusiasmo si spense. «Ma non lo saprà
nessuno.»
«Non devi mai, mai attraversare il fiume» ribatté
lei. «È un reato grave.»
«Min-ho lo fa.»
«Lui è troppo giovane per essere punito. E poi Min-
ho è un maschio, e i maschi devono imparare a essere
indipendenti. Tu sei una donna, ormai. Il mese
prossimo compirai diciotto anni.»
Ero molto abbacchiata. Dovevo essere l’unica
diciassettenne al mondo a non avere voglia di
compiere diciotto anni.
«Non ce li ho ancora.»
Mamma disse che non faceva differenza. Le donne
dovevano essere più caute degli uomini nel modo di
affrontare la vita. Non ci fu verso di convincerla.
Disse che solo dei genitori in procinto di morire di
fame avrebbero permesso a una figlia di andare in
Cina. Io non avevo né ragioni né scuse per fare una
cosa tanto pericolosa.
«Be’, un giorno o l’altro ci andrò» ribattei, nel
tentativo di avere l’ultima parola.
«No che non ci andrai» replicò lei, quasi gridando.
«Non devi mai lasciare il nostro paese. Capito?»
Poi, quasi per rabbonirmi, un paio di giorni dopo
tornò a casa con un bellissimo paio di scarpe alla
moda per me. «Avrei potuto comprare settanta chili
di riso, con quello che le ho pagate» mi disse. Dunque
voleva che fossi ben vestita, e piena di gratitudine.
Non riusciva a fare a meno di viziarmi.
Capivo perché mi avesse rifiutato il permesso, ma
non potevo smettere di pensarci. Volevo vedere
qualcosa del grande mondo, e per me la Cina era il
grande mondo. Ma soprattutto volevo vedere se
quello che mostravano alla televisione era vero.
Sdraiata sulla mia stuoia ripensavo a quella volta
di tanti anni prima, ad Anju, quand’ero corsa fuori
sotto il temporale per vedere la terribile signora in
nero scendere giù insieme alla pioggia. Ripensavo al
giorno in cui mi ero fatta largo tra la folla sotto il
ponte per vedere una cosa che una ragazzina di sette
anni non avrebbe mai dovuto vedere, un impiccato.
La mia curiosità era sempre stata più grande della
paura; certo, una caratteristica poco consona alla
Corea del Nord, dov’è la paura a tenerti i sensi all’erta
e a mantenerti in vita. Una parte di me sapeva bene
che varcare la frontiera con la Cina era molto
rischioso e poteva avere conseguenze serie, e non solo
per me.
Ma avevo diciassette anni. E nel giro di qualche
mese sarei andata all’università. Dopotutto, non avrei
avuto un’altra occasione.
Era il momento perfetto.
18
Sul ghiaccio

Davanti a casa nostra il fiume Yalu era largo solo dieci


metri e non troppo profondo: al centro, arrivava fino
al petto di un adulto. Prima che la gente cominciasse
a scappare dalla Corea del Nord per via della carestia,
il confine non era molto sorvegliato, ma sul finire
della mia adolescenza i controlli erano diventati
molto più severi. La vita di fiume era quasi
completamente scomparsa. Ogni attività sulle sue
rive destava immediati sospetti. I bambini
preferivano giocare altrove. Le guardie di frontiera
avevano cominciato a controllare severamente anche
le donne che scendevano a riva per attingere l’acqua o
lavare i panni, nel caso fossero lì per ricevere merci di
contrabbando o per aspettare il momento opportuno
per passare dall’altra parte. Ormai le donne che
avevano davvero dei traffici illeciti avevano stretto
un’alleanza discreta con le guardie, e le pagavano
bene. Il fiume scorreva più tranquillamente di un
tempo, e sembrava quasi depresso per quel ruolo di
barriera carceraria.
Non molto tempo dopo che eravamo andati a
vivere vicino al fiume, la guardia incaricata di
controllare i cinquanta metri davanti al nostro
portone venne a fare amicizia con noi. Dopo un po’
prese a fare regolarmente un salto a casa nostra per
fare due chiacchiere, e in quelle occasioni mamma gli
offriva sempre qualcosa da mangiare e da bere. Si
chiamava Ri Chang-ho. Aveva sei anni più di me ed
era alto e molto bello, come il soldato sui poster della
propaganda. In realtà quasi tutte le guardie di
frontiera erano di bell’aspetto, perché venivano scelte
per rappresentare il nostro paese agli occhi degli
stranieri sul lato cinese. Dovevano appartenere al
songbun della classe leale. Quei giovanotti erano dei
privilegiati, ma spesso si sentivano soli, così lontani
da casa.
Chang-ho era un ragazzo di buon carattere. La vita
militare gli andava stretta. Non gli piaceva ricevere
ordini, e spesso gli venivano assegnati compiti umili
per punirlo per una cosa o per l’altra. Quando non
erano in servizio, le guardie di frontiera dovevano
restare alla base, ma spesso lui sgattaiolava fuori e
molte volte finiva con il capitare a casa nostra. Era
una persona piacevole, ma a volte lo trovavo un po’
sempliciotto. Una volta mi disse che, come parte
dell’addestramento, aveva dovuto guardare un
documentario sulle armi.
«Possediamo le armi più incredibili, Min-young!»
Era eccitato come un bambino. «Potremmo
sconfiggere la Corea del Sud. E anche gli yankee. Non
vedo l’ora che cominci la guerra. Finirebbe in un
baleno.»

Sapevo di potermi fidare di Chang-ho. In una


fredda notte della primavera dell’anno prima, quando
avevo sedici anni, stavo rientrando verso la
mezzanotte dopo essere stata a casa di un’amica. Era
tardi per andare in giro da sola. Ero quasi arrivata
quando intravidi la sua sagoma seduta sul bordo
della strada.
«Cosa ci fai qui?» Ero sorpresa.
«Aspettavo» disse lui.
«Che cosa?»
«Te. Ero preoccupato.»
Era come il fratello maggiore che non avevo mai
avuto. Perché ero troppo ingenua per riconoscere il
tipo di interesse che nutriva per me. Tirò fuori una
lettera dalla tasca del cappotto e mi chiese di farla
avere a sua madre a Hamhung. Sapeva che ci sarei
andata presto, in treno, per far visita a zia Carina.
«Non aprirla» aggiunse con uno strano sorrisetto,
come tra sé e sé.
A Hamhung trovai l’indirizzo e consegnai la lettera
a sua madre, che la lesse davanti a me. E anche lei
fece uno strano sorrisetto.
«Lo sai cosa c’è scritto?»
«Mi ha detto che era personale.»
Lei sembrò trovarlo divertente e mi trattò con
grande affetto, offrendomi merendine e succhi di
frutta comprati al negozio in cui si pagava in dollari.
Era ancora una bella donna. Capii a chi assomigliava
Chang-ho.
Una volta tornata a Hyesan, Chang-ho mi ripeté,
con un sorriso radioso, ciò che aveva scritto nella
lettera: «Mamma, voglio sposare questa ragazza,
quindi per favore trattala bene».
Non me l’aspettavo proprio. Lo fissai sbalordita, e
il suo sorriso si spense.
«Sono troppo giovane per sposarmi» risposi in
tono piatto, facendo un passo indietro.
Mi sentii subito dispiaciuta per lui. Era una
dichiarazione d’amore, e io avrei potuto reagire con
maggiore sensibilità. A suo credito va detto che prese
il mio rifiuto con grande autocontrollo, cosa che me
lo rese ancora più simpatico. Restammo amici, e lui
continuò a frequentare casa nostra.
Era ancora di pattuglia lungo il confine l’anno
dopo, mentre io pianificavo il mio viaggio clandestino
in Cina. Ormai la mia amica aveva smesso di
aspettare che ottenessi il permesso di mia madre e
aveva attraversato il fiume per conto suo. Era stata
una grande delusione per me, ma la cosa aveva
ulteriormente rafforzato il mio proposito di andare,
anche se avesse significato farlo da sola. Più ci
pensavo, più il mio piano diventava audace. Perché
scappare di là e restarci solo qualche ora? Perché non
andare a far visita ai parenti di mio padre a
Shenyang? Era un viaggio un po’ più lungo, ma forse
il signor Ahn o il signor Chang mi ci avrebbero
portata. Sarei tornata nel giro di quattro o cinque
giorni. Decisi che l’avrei chiesto al signor Ahn, perché
era più amichevole del signor Chang.
Cominciai a organizzarmi. Dissi a Min-ho che se
non fossi tornata, una sera di quelle, era perché avevo
attraversato il confine per far visita al signor Ahn e a
sua moglie. La loro casetta tra gli alberi di Changbai
si vedeva perfettamente dalla nostra riva. A quelle
parole Min-ho ammutolì. Capii subito che l’idea non
gli piaceva. All’epoca aveva dieci anni, cioè era quasi
abbastanza grande per essere protettivo nei miei
confronti.

Scelsi la seconda settimana di dicembre. Ero decisa


a partire subito dopo cena. Potevo portare con me
ben poche cose: non avevo valuta cinese, e non potevo
farmi vedere da mia madre uscire di casa con uno
zaino pieno di vestiti di ricambio.
Quella sera lei stava preparando un pasto
insolitamente elaborato.
«Perché hai preparato così tanta roba?» le
domandai.
Aveva cucinato molte più pietanze di quelle che
mangiavamo di solito. La cucina era calda e aveva un
profumino delizioso, di stufato alle spezie e arrosto
marinato in padella. Aveva anche fatto del pane con la
vaporiera. Mi voltava le spalle e mescolava qualcosa in
una pentola.
«Volevo solo cucinarvi un buon pranzetto» disse
semplicemente.
Il cuore mi si strinse. Non credo che avesse
indovinato ciò che stavo per fare, ma sembrava tanto
una cena d’addio. Quella sera mangiai il più
possibile. Poi, dopo aver sparecchiato, m’infilai il
cappotto come se all’improvviso mi fosse venuto in
mente che dovevo proprio uscire.
«Dove vai a quest’ora?» mi domandò.
«Solo a casa di un’amica» risposi, senza guardarla.
«Torno fra qualche ora.»
Lei si infilò il cappotto e mi accompagnò fino al
cancello con una lampada a cherosene.
«Non stare fuori tanto. Torna presto.»
E mi sorrise.
Negli anni a venire non sarei mai più riuscita a
cancellare dalla memoria il ricordo di quel momento,
e l’espressione del suo viso alla luce della lampada.
C’era amore nei suoi occhi. Il suo viso parlava solo
della grande fiducia che aveva in me.
Mi voltai e me ne andai, piena di sensi di colpa.
Sentii il cancello chiudersi dietro di me con un
rumore metallico. Ci siamo. Il cuore mi batteva forte.
Era una notte chiara e luminosa, così fredda che il
gelo mi bruciava il naso e trasformava il mio fiato in
pennacchi di vapore. Mi legai bene la sciarpa e mi
chiusi fin sotto il mento la lampo del cappotto
imbottito. Per un attimo restai immobile, in ascolto.
Silenzio assoluto. Nemmeno una brezza che facesse
sussurrare gli alberi. In giro non c’era nessuno. Alzai
gli occhi, la volta celeste era trapuntata di stelle.
Cominciai a camminare. Mi sembrava che i miei
passi facessero troppo rumore. A un certo punto, una
decina di metri più avanti, vidi Chang-ho nel suo
lungo cappotto militare che pattugliava la riva del
fiume con il fucile sulla schiena. Fortunatamente era
solo.
C’era appena abbastanza luce per vederci. Il fiume
accanto a me era una serpeggiante strada di ghiaccio,
pallida e traslucida, come se avesse assorbito la luce
delle stelle.
Chiamai Chang-ho a bassa voce. Lui si voltò e mi
salutò con la mano, poi accese la torcia.
Senza lasciargli il tempo di aprire bocca gli dissi:
«Sto per passare dall’altra parte per far visita a dei
parenti». Lui sgranò gli occhi. Non gli avevo mai
parlato di quei parenti, prima. Ci pensò un po’ sopra,
poi scosse lentamente la testa.
«No» disse incerto. «Troppo pericoloso.» Gli angoli
della sua bocca si piegarono in giù per la
preoccupazione. «Puoi finire in guai molto seri. E
come farai a raggiungere il posto in cui abitano questi
tuoi parenti? Non parli il cinese. E per di più sei
sola.»
«Conosco delle persone, dall’altra parte, che
possono aiutarmi» dissi, indicando con la testa la casa
del signor Ahn. Lui mi fissò a lungo. Era come se
stesse guardando una persona diversa.
«Va bene» disse poi, piano. «Se ne sei proprio
sicura.» Era estremamente riluttante. «Ma non stare
via più di un paio d’ore.»
«Non posso certo stare via molto se indosso
queste» risposi, indicandomi i piedi. Lui illuminò con
la torcia le mie costose scarpe nuove, luccicanti sotto
il raggio di luce. Le avevo messe nella convinzione
che quando fossi stata dall’altra parte mi avrebbero
aiutata a passare inosservata.
Improvvisamente sull’altra riva sentimmo un
ramoscello spezzarsi sotto dei passi e le nostre teste
si voltarono all’unisono. Una sagoma scura era in
agguato sull’altra sponda: evidentemente un
contrabbandiere cinese in attesa del suo contatto per
uno scambio di merci.
«Ehi!» gridò Chang-ho. Per un attimo sembrò che
la figuretta stesse per voltarsi e scappare via, quindi
immagino che rimase molto stupita quando le parole
seguenti di Chang-ho furono: «Aiuteresti questa
signora ad attraversare e la porteresti dove deve
andare?».
Ci fu una pausa. Poi una voce fievole rispose:
«Certo». Mancavano solo pochi, scivolosi passi. Sarei
stata dall’altra parte in meno di un minuto.
E allora, per la prima volta, ebbi paura.
Se una delle altre guardie mi avesse vista, non
avrebbe avuto la minima esitazione a raggiungermi e
a trascinarmi indietro, anche se fossi stata già sulla
riva cinese, fuori dalla sua giurisdizione. Era la prima
volta che facevo una cosa tanto clamorosamente,
criminalmente illegale. Ora non mi sentivo in colpa:
avvertivo solo un pericolo urgente, da far rizzare i
capelli sulla testa. Avanzai sul ghiaccio, un piede
dopo l’altro, barcollando e scivolando nelle scarpe
nuove. Davanti a me, il cinese sconosciuto era uscito
dall’ombra degli alberi per aiutarmi, e mi tendeva le
braccia. A mamma non sarebbe successo niente, mi
dissi. Più tardi Min-ho le avrebbe detto dov’ero
andata. E quando fossi tornata si sarebbe dimenticata
dell’arrabbiatura. Sarei stata via solo qualche giorno.
Ne ero così sicura che non mi guardai nemmeno
indietro.
Ma allora perché avevo la sensazione che la mia
vita stesse per cambiare per sempre?
Parte seconda
NEL CUORE DEL DRAGO
19
Dal signor Ahn

La porta si aprì, gettando un fascio di luce gialla sul


terreno ghiacciato.
«Buonasera, signor Ahn» dissi inchinandomi.
L’alta figura riempiva completamente il vano della
porta. Corrugò le sopracciglia. Gli ci volle un lungo
minuto per riconoscermi.
«Ciao» disse, sorpreso. «Min-young, dico bene?»
Battevo i denti, e mi stavo pentendo di aver messo
quelle eleganti scarpe nuove. Avevo le dita dei piedi
gonfie e insensibili. Il signor Ahn mi invitò a entrare.
Era grosso, con radi capelli pettinati sopra il cranio
calvo ed enormi occhi sporgenti. Una faccia da allegro
pesce palla, diceva sempre Min-ho. Mia madre lo
aveva conosciuto tramite gli amici di mio padre tra le
guardie di frontiera. Dicevano che era il più simpatico
e degno di fiducia dei commercianti cinesi. Io lo
preferivo al signor Chang, il suo scorbutico vicino di
casa nonché occasionale partner d’affari di mia
madre.
La casa del signor Ahn era calda e accogliente. Lui
e sua moglie ci vivevano con una figlia della mia età e
con un figlio dell’età di Min-ho. Erano sino-coreani,
con un accento più cantilenante del mio. Vedendoli
seduti sul pavimento attorno a un tavolo basso fui
sicura che fossero una famiglia affettuosa e molto
unita. La signora Ahn era molto piccola e sottile in
confronto al marito, e si muoveva in maniera rapida e
nervosa, come un uccellino. Mi offrirono del tè
bollente e mi chiesero come stava Min-ho, cui
volevano molto bene. Poi i signori Ahn restarono a
fissarmi con espressione d’attesa. Che diavolo ci
facevo lì?
Spiegai che volevo far visita per qualche giorno ai
miei parenti di Shenyang.
«Mi chiedevo se potete ospitarmi per stanotte... e
se potete aiutarmi ad arrivarci, domani. Ma non ho
soldi. I miei parenti vi rimborseranno le spese.»
Abbassai lo sguardo. Questa parte non l’avevo
pensata bene. Erano trascorsi anni dall’ultima volta
che avevo visto i miei parenti di Shenyang, e sentii
che arrossivo. «O se non vorranno lo farà mia madre,
quando tornerò.»
Il signor Ahn si accigliò di nuovo e si grattò la
nuca. Ormai si era reso conto che non sapevo
nemmeno io cosa stessi facendo. Dopo un po’ mi
chiese: «Ma lo sai quanto è lontana Shenyang?».
Io ne avevo solo una vaga idea. Pensavo che fosse
vicina, forse un’ora di autobus.
«Ci vogliono otto ore» disse lui, osservando
l’effetto delle sue parole su di me. «E l’autobus è
pericoloso, perché non hai un documento d’identità e
non parli il mandarino. C’è un posto di blocco della
polizia, su quella strada.»
Era un’altra questione seria su cui non avevo
riflettuto abbastanza: la possibilità di essere beccata.
Tutti i nordcoreani entrati illegalmente in Cina
venivano subito consegnati al bowibu.
«Non ti preoccupare.» L’espressione affranta del
mio viso lo divertiva. «Posso portarti io, se davvero è
là che vuoi andare. Ma dovremo andarci in taxi.»
Solo oggi mi rendo conto di quanto gli stessi
chiedendo, e di quale gentilezza quell’uomo mi stesse
usando. Cominciai a ringraziarlo, ma lui alzò il palmo
della mano. Aveva commerciato con mia madre per
anni, disse. Apprezzava il fatto che fosse sua cliente e
aveva fiducia in lei.

Il mattino dopo, fatta la colazione, la signora Ahn


cominciò a cucinare una grande pentola di nurungji.
Si tratta di un riso cotto sul fondo della casseruola,
finché non diventa bruciacchiato e tutto croccante
fuori.
«Lo faccio sempre, per gli ospiti nordcoreani» mi
disse. «A volte si fermano qui, la notte. Alcuni li
conosciamo. Altri sono degli estranei. Succede
continuamente. Se lo cucino così è facile aggiungere
poi un po’ d’acqua e riscaldarlo.»
Quindi mi parlò di due sconosciuti che avevano
bussato alla sua porta un anno prima. Erano
magrissimi e molto deboli. Ne avevano mangiato una
pentola piena, che sarebbe bastata per venti. «Era
uno spettacolo terribile. Sembravano animali selvatici
spaventati all’idea che qualcuno gli portasse via il
cibo. Io sapevo che stavano mangiando troppo in
fretta. A un certo punto sono dovuti correre fuori per
vomitare.»
Si capiva bene che gli Ahn non erano ricchi. La loro
casa non somigliava affatto a quelle che avevo visto
nelle soap opera della TV cinese. Non avevano
domestici, né il forno a microonde, né un bagno con i
rubinetti d’oro. Anzi, la loro casa non era più bella
della nostra. Ma il cibo non gli mancava.
Il signor Ahn mi mostrò Changbai. Era molto
strano, per me, camminare fra quegli edifici che per
tutta la vita avevo visto dall’altra sponda: era come se
fossi passata attraverso uno specchio. Era una piccola
città, ma con farmacie, vetrine piene di scarpe da
donna di tutte le fogge, negozi di cosmetici e
dappertutto cose da mangiare: in ristoranti economici
e supermercati, in colorate confezioni in mostra nei
chioschi, in mano a scolari dai capelli pettinati con la
cresta che mangiavano per la strada.
Il signor Ahn mi diede dei soldi per comprarmi dei
caldi stivaletti invernali e un cappotto imbottito in
stile cinese, di un bel verde chiaro. Quelle cose mi
avrebbero aiutata a passare per cinese. I capelli me li
ero già fatti tagliare nella foggia che in quel momento
andava di moda in Cina per le ragazze: come quelli
dei maschi, lunghi davanti e corti dietro.
Il mattino seguente partimmo alle prime luci del
giorno. Il signor Ahn si sedette accanto a me sul
sedile posteriore di un taxi nuovissimo. Il che era già
di per sé emozionante: ben poche volte avevo avuto
occasione di salire in un’automobile civile. Quella
aveva anche la radio e gli amplificatori. La strada
correva per un breve tratto lungo il fiume, cioè lungo
il confine. Io non riuscivo a staccare gli occhi da
Hyesan. Era nevicato molto durante la notte, e la neve
aveva regalato alle case dei tetti a cupola che le
facevano sembrare funghetti bianchi. Vedevo il parco
e il Memoriale della vittoriosa battaglia di Pochonbo,
con le sue statue imparruccate di ghiaccio, e la mia
scuola elementare. La città sembrava perduta nel
tempo. Ogni edificio pareva grigio e corroso dalle
intemperie. Solo le montagne ricoperte di neve sullo
sfondo sembravano nuove, e brillanti sullo sfondo
blu elettrico dell’alba.
Due guardie nordcoreane in lunghi cappotti
pattugliavano il sentiero sull’altra sponda, guardando
le donne, bene imbottite e coperte contro il freddo,
che scendevano al fiume e facevano dei buchi nel
ghiaccio per riempire i secchi.
Pelo di coniglio per i soldati che ci tengono al sicuro,
ferro per i loro fucili, rame per le loro pallottole.
Alle loro spalle, centinaia di casette basse
sbuffavano nuvolette di yontan dai camini delle stufe,
creando una bassa nebbiolina. Attraverso gli alberi,
solo per un attimo, riuscii a intravedere la mia casa
con il suo alto muro bianco. Il cancello era chiuso.
Quel dettaglio mi fece sentire malinconica.
Tornerò presto.
Ma al tempo stesso sentivo montare un’euforia,
come se avessi il petto pieno di bollicine, un senso di
libertà e di eccitazione: ormai potevo fare qualsiasi
cosa. Nell’oscurità vicino alla superficie ghiacciata
avevo corso un rischio terribile, ma ora eccomi là. Ce
l’avevo fatta. Mi sentivo coraggiosa e orgogliosa di
me.
Per qualche minuto la neve tutt’attorno sembrò
coprire e zittire i miei dubbi. Poi però cominciò la
seduta di autocritica. Noto che la compagna Min-young
si sente felice. Vorrei ricordarle che non ha la minima idea
di cosa accadrà adesso.
Fu allora che rividi il volto di mia madre, l’amore e
la fiducia che le avevo letto negli occhi quando mi
aveva detto di non fare tardi. E la vidi sgridare Min-ho
per non averle detto prima dov’ero diretta. E i miei
pensieri diventarono meno allegri: provai un
lancinante senso di colpa e avvertii il mio egoismo e
la mia stupidità.
Tornerò presto.
Poi la strada svoltò verso destra, gli alberi
divennero più fitti e Hyesan scomparve alla vista.
20
Verità di casa

La strada serpeggiava fra le montagne del


Changbaishan. Ogni tanto passavamo accanto a
paesini di case basse coperte di tegole. Non
sembravano molto diversi dai nostri. Ma dopo
qualche ora di viaggio i paesi cominciarono a
diventare più grandi e a sembrare più prosperi.
Gradualmente si trasformarono in cittadine, e le
cittadine in periferie. La strada, prima a due, divenne
a quattro corsie. Ben presto il traffico diventò una
vasta, lenta corrente d’acciaio e di rosse luci di
posizione. Eravamo finiti in una coda lentissima di
migliaia di automobili simili a formiche, più di
quante ne avessi viste in vita mia. Lungi
dall’annoiarmi, avevo occhi per tutto, volevo assorbire
ogni cosa. Le macchine sembravano tutte nuove. E
non si vedevano da nessuna parte quei pesanti
camion verdi dell’esercito che a Hyesan erano i veicoli
più comuni.
Per pranzo sostammo in una stazione di servizio
lungo la strada. Mi fermai a guardare i cartelli
illuminati con fotografie di pietanze da leccarsi i
baffi. Nella Corea del Nord c’erano solo ristoranti
statali, che non vedevano la ragione o il bisogno di
attirare i clienti o di fare uno sforzo qualunque per
vendere di più; o ristoranti semi-legali, che operavano
clandestinamente nei mercati o in case private. Lì
invece i ristoranti si facevano pubblicità in maniera
smaccata, invitandomi a fermarmi e a guardare.
Ordinai riso fritto con le uova e la cameriera me ne
portò una porzione enorme. I cinesi mangiano
moltissimo. Guardai il signor Ahn, che alla mia
espressione rise di cuore. Si stava godendo la mia
reazione a tutte quelle meraviglie.
Entrammo a Shenyang nel tardo pomeriggio,
percorrendo una superstrada a otto corsie. Niente mi
aveva preparato a ciò che avrei visto in quella città.
Grandi palazzi in acciaio e vetro sorgevano su
entrambi i lati della carreggiata, gli ultimi piani
fiammeggiavano nella luce del tramonto. A un
incrocio il taxi si fermò davanti a un semaforo rosso, e
centinaia di persone attraversarono davanti a noi.
Erano tutte vestite in modo diverso. Nessuna portava
l’uniforme. Alzando lo sguardo vidi un altissimo
cartellone con una modella che indossava biancheria
intima.
Non sapevo che Shenyang, capitale della provincia
del Liaoning, fosse una delle principali metropoli
della Cina, con oltre otto milioni di abitanti. Il che
faceva sembrare Pyongyang una cittadina di
provincia.
Raggiungemmo il quartiere in cui vivevano i miei
parenti, e dopo esserci fermati più volte a chiedere
informazioni trovammo l’indirizzo giusto. Era un
grande, sfarzoso complesso di appartamenti. Ogni
palazzo era alto almeno venti piani. Il signor Ahn e il
tassista entrarono con me nell’ascensore e salimmo
all’undicesimo piano. Quando suonai il campanello
provai una fitta d’ansia. Non sapevo cosa aspettarmi.
Mio zio Jung-gil aprì la porta e guardò prima me,
poi il signor Ahn e il tassista.
«Zio, sono io, Min-young.»
Gli ci volle qualche secondo per elaborare
l’informazione, poi fece una faccia elettrizzata, come
un personaggio dei cartoni animati. Zia Sang-hee lo
raggiunse sulla porta, altrettanto sbalordita.
Lo «zio» era in realtà un cugino di mio padre. La
sua famiglia era scappata da Hyesan durante la
guerra di Corea, e lui era cresciuto a Shenyang. Era
venuto a trovarci a Hyesan due volte, ma da allora
erano passati molti anni. Lo ricordavamo ricco, un po’
grassottello, estroverso e sempre carico di regali. Era
ormai sulla cinquantina.
Gli presentai il signor Ahn e gli spiegai che ero in
vacanza e che prima di andare all’università volevo
vedere la Cina. Lo zio pagò una somma enorme per il
viaggio e il tassista se ne andò. Dopo aver
chiacchierato un po’, il signor Ahn disse che doveva
andare a fare qualche commissione per poi tornare a
Changbai. Ci salutammo.
Lo zio e la zia mi fecero subito sentire a mio agio.
Facevo parte della famiglia e non aveva importanza se
non mi vedevano da anni. Il loro appartamento era
moderno e spazioso, con piccoli, eleganti faretti
incassati nel controsoffitto. Quella sì che era come le
case che avevo visto nelle soap opera. Finestre alte
fino al soffitto offrivano una vista spettacolare su una
decina di grattacieli identici. Il cielo era diventato di
un arancione intenso. Mille lucine si accendevano
negli altri grattacieli, facendoli sembrare cofanetti
pieni di gioielli. Dietro, fino all’orizzonte, c’erano
centinaia di altri edifici scintillanti nella luce del
tramonto, in costruzione o appena ultimati.
Poi lo zio chiese alla zia di fare un salto fuori per
comprare del gelato. Quando tornò ne aveva
comprato di tutti i gusti possibili.
«Prova questi» disse. «Alcuni sono nuovissimi.»
Li aprimmo tutti e di ciascuno mangiai una
cucchiaiata. Erano i sapori più celestiali che avessi
mai provato. Gelsomino, tè verde, mango, sesamo
nero, una lussuosa varietà color fucsia detta taro e un
gusto giapponese, il fagiolo rosso. Fagiolo rosso.
Sapori che non avevo mai immaginato fossero
possibili. Oh, tutte quelle cose mi facevano desiderare
di restare in Cina per sempre.
Lo zio era alto, e più magro di come lo ricordassi.
Da bambina avevo pensato che forse sembrava grasso
perché ero cresciuta in un paese in cui nessuno lo era,
ma in confronto ai grassi e tondi cinesi che vedevo
ovunque mi rendevo conto che aveva il viso ossuto di
chi ha dovuto sopportare decenni di privazioni. La
ricchezza, per lui, era arrivata solo con la mezz’età.
Ero stata così presa dal racconto del mio viaggio e
dai gelati che non avevo ancora parlato della famiglia.
Lo zio mi domandò di mio padre.
Il cucchiaio con cui stavo mangiando il gelato si
fermò a mezz’aria. Non sapeva nemmeno che mio
padre, suo cugino, era morto.
Quando gli spiegai cos’era successo, lui s’incupì.
«Come hanno osato fargli questo?» borbottò. Poi
insisté per avere ulteriori dettagli. Voleva sapere tutto
dell’arresto, delle accuse formulate contro di lui, degli
interrogatori. Ma io non avevo voglia di parlarne.
Quando ebbi finito rimuginò in silenzio per alcuni
minuti, poi, con mia grande sorpresa, si alzò in piedi
e si lanciò in una filippica contro il nostro paese.
Anni di risentimento represso gli affiorarono
improvvisamente alle labbra.
«Ma lo sai che la storia che vi insegnano a scuola è
tutta una bugia?» fu il suo primo affondo.
Poi cominciò a enumerare le falsità che, secondo
lui, ci erano state propinate. Disse che alla fine della
seconda guerra mondiale i giapponesi non erano stati
affatto sconfitti dal genio militare di Kim Il-sung:
erano stati scacciati dall’Armata rossa, che aveva
messo al potere il nostro Maresciallo. Non c’era stata
nessuna «rivoluzione».
Era la prima volta in assoluto che sentivo criticare
il mio paese. Pensai che fosse impazzito.
«E poi ti hanno insegnato che è stata la Corea del
Sud a dare inizio alla guerra, dico bene? Be’, ecco una
bella notiziola per te. È stato il Nord a invadere il
Sud, e Kim Il-sung sarebbe stato vergognosamente
sconfitto dagli yankee se la Cina non fosse
intervenuta per salvargli il culo.»
Adesso ero definitivamente sicura che fosse
impazzito.
«E te l’hanno mostrata, vero, la piccola capanna di
tronchi sul monte Paektu dove si suppone sia nato
Kim Jong-il?» Il suo tono era carico di sarcasmo. «È
una leggenda. Quell’uomo non è nemmeno nato in
Corea. È nato in Siberia, dove suo padre serviva
nell’Armata rossa.»
Dalla mia faccia poteva capire benissimo che non
credevo nemmeno una parola. Tanto valeva cercare di
convincermi che la terra era piatta.
«E poi non è nemmeno comunista.» Lo zio si stava
arrabbiando sempre di più. «Vive in palazzi e in
residence sulla spiaggia, con plotoni di ragazze di
piacere. Beve i cognac più raffinati e mangia formaggi
svizzeri, mentre il suo popolo soffre la fame. Quanto
a lui, crede solo nel potere.»
Quello sfogo mi stava facendo sentire a disagio. A
casa non avevamo mai parlato della vita personale dei
Leader. Mai. Quei discorsi erano «pettegolezzi»,
altamente pericolosi.
Ma mio zio non aveva ancora finito. Anzi, si era
messo a camminare avanti e indietro. «Lo sai com’è
morto Kim Il-sung?» disse ancora, puntandomi il dito
contro.
«Un attacco di cuore.»
«Giusto, ed è stato suo figlio a provocarglielo.»
Guardai zia Sang-hee in cerca d’aiuto, ma era seria
come lo zio.
«È stato Kim Jong-il a ucciderlo. Negli ultimi anni
il padre era diventato un vecchio impotente che il
popolo aveva trasformato in una divinità. Era Kim
Jong-il a guidare il paese. Suo padre non aveva più
alcuna influenza, se non in politica estera.»
Mio zio era convinto che, poco prima della morte
di Kim Il-sung, Jimmy Carter, l’ex presidente degli
Stati Uniti, gli avesse fatto visita per cercare di
organizzare un summit con il presidente in carica,
Bill Clinton. Come lascito alla Corea, Kim Il-sung
voleva rendere la penisola un territorio libero dal
nucleare, e disse a Carter che la Corea del Nord
avrebbe abbandonato il suo programma di
armamento atomico. La cosa però aveva mandato
fuori dai gangheri Kim Jong-il, che aveva fatto del suo
meglio per boicottare il summit. Tra i due era
scoppiato un furioso litigio. Kim Il-sung si era
alterato al punto che il cuore gli si era fermato.
Mi rifiutavo di credere a quelle sciocchezze. Ma al
tempo stesso qualcosa nelle sue parole mi suonava
vero. A scuola avevo sentito delle voci secondo cui le
ragazze più belle venivano selezionate per il piacere
del Caro Leader, e io stessa avevo visto al telegiornale
che durante la carestia non aveva affatto mangiato
solo riso bianco come affermava la propaganda. In
verità non sapevo più cosa pensare. E così decisi di
abbassare la saracinesca e di godermi il gelato come
una diciassettenne qualunque. Ciò che lo zio stava
dicendo sul mio paese mi deprimeva e mi disgustava.
Non volevo saperne nulla.

Zio Jung-gil dirigeva un’impresa commerciale.


Aveva cominciato vendendo prodotti farmaceutici in
Corea del Sud, ma poi i suoi affari si erano
diversificati ed erano prosperati. Guidava un’Audi
nuova di zecca. Zia Sang-hee era farmacista. Avevano
un figlio grande che viveva in un’altra provincia.
Entrambi erano chiacchieroni ed estroversi, e
amavano cenare al ristorante, andare a ballare e
socializzare.
La prima volta che mi portarono fuori suggerirono
che forse dovevo assumere un nuovo nome. Sarebbe
stato più sicuro. Mi proposero Chae Mi-ran, che mi
piacque molto. Mi sembrava divertente usare uno
pseudonimo. Quando i loro amici venivano a trovarli,
mi presentavano come Mi-ran e dicevano che ero in
visita dalla prefettura autonoma coreana di Yanbian,
dove molte persone hanno come prima lingua il
coreano e possono non parlare tanto bene il
mandarino. Gli amici dicevano: «Aha...» e accettavano
la spiegazione.
Shenyang fu una rivelazione. In Corea del Nord, di
notte, le strade sono buie e deserte. Là, la città si
risvegliava dopo il tramonto. I marciapiedi di Taiyuan
Street brulicavano di gente che faceva shopping e di
giovani della mia età usciti a divertirsi, ragazzi e
ragazze insieme, tutti eleganti e sorridenti. La musica
rimbombava e pulsava dalle automobili e dai bar.
Sembrava una specie di iper-realtà, come se fossi
passata da un mondo in bianco e nero a uno in
technicolor. Una magia, un’illusione potenziata dalla
miriade di luci scintillanti accese in ogni vetrina,
ristorante e atrio di albergo, nonché sugli abeti sparsi
un po’ dappertutto. Zia Sang-hee mi spiegò che erano
alberi di Natale, una tradizione occidentale che aveva
preso piede anche in Cina. Ogni sera cenavamo in un
posto nuovo. «Di cosa avresti voglia?» domandava lo
zio battendo le mani. «Cinese, coreano, giapponese,
europeo? O magari qualcos’altro?» In un ristorante i
pesci, vivi, nuotavano in un acquario di vetro
illuminato di blu elettrico, e si poteva scegliere quello
che si desiderava mangiare. L’ampia scelta dei menu
mi lasciava senza fiato. Mangiavo gelato tutte le sere.
Zia Sang-hee mi insegnò a far funzionare
l’apparecchio per il karaoke che avevano in casa.
Dapprima cantai delle ballate sudcoreane con il
volume abbassato e la porta chiusa, finché dall’altra
stanza lei mi gridò: «Alza un po’, questa mi piace». In
quel paese non esistevano musiche segrete.
Una sera mi portarono, insieme a un folto gruppo
di amici, in un rumoroso karaoke bar: un’altra
esperienza nuova per me. Non riuscivo a credere di
poter cantare la mia amata Rocky Island in pubblico, e
ricevere pure gli applausi. Non mi ero mai divertita
così tanto.
Quando, dopo quattro o cinque giorni, zia Sang-
hee mi disse: «Non potresti fermarti ancora un po’?»,
non mi feci certo pregare.
Di giorno, mentre lo zio e la zia erano al lavoro,
restavo sola in casa. Ma non mi annoiavo affatto.
Potevo guardare tutti i canali televisivi che volevo,
senza bisogno di tirare le tende o di tenere il volume
basso o di preoccuparmi dei vicini. Era pura libertà.

Prima ancora che me ne rendessi conto un mese


passò in un lampo e avevo festeggiato il mio
diciottesimo compleanno a Shenyang. Ormai non
potevo più rimandare il momento di tornare a casa.
Lo zio disse che mi avrebbe riportato a Changbai in
macchina. Quelle settimane erano state un tale
turbine di scoperte e di divertimento che non avevo
pensato nemmeno per un attimo alle implicazioni di
quel compleanno.
Il giorno prima della partenza squillò il telefono
della cucina. Andò a rispondere lo zio. I suoi
lineamenti si tesero, poi, senza una parola, mi passò
la cornetta.
Dietro i fruscii e i crepitii della linea telefonica la
voce era fievole e indistinta. «Min-young, ascolta...»
Era mia madre.
«Non tornare. Siamo nei guai.»
21
Il pretendente

Non sapevo come avesse fatto a chiamare. A casa non


avevamo il telefono. Dal lavoro non poteva perché il
bowibu controllava la linea. Da qualunque posto stesse
telefonando, era molto pericoloso. Aveva parlato in
fretta. Non sembrava arrabbiata; non aveva tempo di
darmi una strigliata, o di perdersi in chiacchiere.
«Il giorno dopo che sei andata via è cominciato il
censimento per le prossime elezioni» mi disse.
Cominciai a sudare.
Di tanto in tanto le autorità registravano gli elettori
per controllare chi risultava assente e perché. Ormai
avevo diciott’anni ed ero abbastanza grande per
votare nelle cosiddette «elezioni» della Corea del
Nord, in cui vinceva sempre Kim Jong-il con il cento
per cento delle preferenze.
«Gli ispettori volevano sapere dov’eri. Con loro
c’era anche il banjang. Gli ho detto che eri da tua zia
Carina a Hamhung. Il banjang non poteva sapere che
non era vero, ma sai com’è, le voci corrono. In giro si
dice già che sei in Cina.»
Era stato Chang-ho, il mio amico guardia di
frontiera, a dirle dov’ero andata. «Tornerà presto»
aveva aggiunto con espressione allegra. Era sempre
stato più bello che intelligente. Mamma era quasi
svenuta, e i giorni seguenti erano stati per lei un
supplizio. Sapeva di dover fare qualcosa. Così, una
settimana dopo aver detto agli ispettori del
censimento che ero a Hamhung si presentò alla
stazione di polizia per denunciare la mia scomparsa.
«Le voci sul tuo viaggio in Cina potrebbero essere
troppo forti perché io riesca a metterle a tacere, se
ricompari all’improvviso. Sei giovane. Hai un futuro
davanti. Non voglio che tu debba vivere la tua vita
con questa macchia sui documenti.»
Cosa vuol dire? Che non posso tornare mai più?
La sua voce era tesa, incalzante.
«Per un po’ la nostra posizione sarà pericolosa.
Non cercare di metterti in contatto con noi. I vicini ci
tengono d’occhio. Venderemo la casa e andremo a
vivere da un’altra parte. Non so dove, ma sai cosa
voglio dire.»
Capivo benissimo. Mamma e Min-ho avrebbero
dovuto trasferirsi in un quartiere dove nessuno li
conoscesse e tutti accettassero la versione che l’altra
figlia era scomparsa.
«Adesso devo andare» disse poi all’improvviso.
Un clic segnalò che aveva riagganciato. La linea era
libera. La telefonata era durata meno di un minuto.
Restituii la cornetta allo zio in uno stato di grande
confusione. Sudavo come se avessi corso per ore.
C’era qualcosa di disperato nel modo in cui mamma
aveva interrotto la comunicazione, senza nemmeno
dirmi addio.
Quando riferii allo zio e alla zia le sue parole, loro
si guardarono.
«Bene, allora vuol dire che devi restare in Cina»
disse la zia in tono grave. Erano spiazzati anche loro.
Sapevano che non avevo un posto dove andare.
Non volevo essere di peso, dissi, ma loro mi
rassicurarono. Le cose si sarebbero riaggiustate, in un
modo o nell’altro. La zia si voltò per guardare fuori
dalla finestra. Stavano ancora cercando di digerire la
notizia.
Mi vergogno di ammettere che la mia prima
reazione, quando mi ritrovai sola nella mia stanza, fu
di sollievo. Ero felice di non dover tornare. La vita a
Shenyang mi sembrava una sorta di meravigliosa
vacanza.
Negli anni a venire, quando la mia solitudine si
fece insopportabile e la piena consapevolezza dei
guai che potevo aver causato a mia madre ebbe
messo radici in me, il ricordo di quel senso di sollievo
mi avrebbe fatto sentire così in colpa da non poter
dormire la notte. Se avessi saputo che, quando la
realtà avesse cominciato a imporsi, e io avessi sentito
davvero la mancanza di mia madre, di Min-ho e degli
zii e delle zie di Hyesan, quel sentimento si sarebbe
trasformato in un dolore quasi fisico, avrei
disobbedito alla mamma e sarei tornata dritta a
Hyesan.

Ora che dovevo restare in Cina per un tempo


indefinito, bisognava che imparassi il mandarino. E
avevo il migliore degli insegnanti: la necessità. Si può
studiare una lingua per anni, a scuola, ma niente ti
aiuta a riuscirci come il bisogno: e il mio era diretto e
urgente. Se non volevo che quell’appartamento
diventasse la mia prigione, dovevo parlare il
mandarino fluentemente come qualsiasi ragazza
cinese della mia età.
Lo zio mi fece iniziare con un libro della scuola
elementare, che studiavo da sola di giorno e mettevo
in pratica nelle conversazioni con lui e con la zia di
sera. Ben presto potei passare alle storie per bambini.
Guardavo la TV per ore e ore. In Cina ci sono tanti
gruppi etnici per i quali il mandarino è solo una
seconda lingua, di conseguenza la maggior parte dei
film e dei notiziari ha i sottotitoli in caratteri cinesi.
Non solo imparare in questo modo era più
interessante, ma non dovevo limitarmi ai programmi
per bambini perché già conoscevo a grandi linee i
caratteri per averli studiati a scuola. Per questo
dovevo ringraziare mio padre. Allora non avevo
compreso l’utilità di quell’esercizio, ma papà non
voleva sentire storie. Così, la grafia cinese era
diventata una delle materie in cui andavo meglio.
Libera da ogni altra distrazione, feci dei rapidi
progressi nel mandarino di base. Riconoscere nei
sottotitoli una parola che avevo studiato era sempre
un momento di grande soddisfazione.

Per sei mesi non feci molto altro a parte


sgattaiolare fuori per una passeggiata, e le mie
giornate divennero monotone. La nostalgia di casa
cominciò a farsi sentire. Poi venne il giorno in cui,
osservando la pioggia e i grattacieli che sparivano tra
le nuvole come bozzetti non finiti, ebbi una
rivelazione.
Non tornerò mai più a casa mia.
Nei giorni seguenti questa certezza ebbe una tale
presa su di me che pensai di stare perdendo la
ragione. Era un disastro, e non me n’ero nemmeno
resa conto. Non rivedrò mai più la mamma e Min-ho.
Ritornavo continuamente alla corsa del taxi lungo
il fiume e a quell’ultimo istante in cui avevo intravisto
la mia casa tra gli alberi. Perché non ho chiesto al
tassista di accostare e di farmi scendere? Non riuscivo a
smettere di pensare a quell’ultima telefonata di mia
madre. Al tono disperato della sua voce, e al fatto che
non ci eravamo nemmeno dette addio.
Ero intrappolata in un paese straniero, e senza
identità. Lo zio e la zia erano buoni con me, ma il loro
legame con la mia famiglia era così remoto che
cominciavo a sentirmi a disagio. Non avrei potuto
approfittare della loro cortesia per sempre. E prima o
poi sarebbe venuto il giorno in cui mi avrebbero
chiesto di andarmene.
Cosa succederebbe se tornassi a casa?
No, non potevo. Mi ero spinta troppo in là. Era
troppo tardi.
Quando era andato a vivere per conto suo, mio
cugino aveva lasciato lì una chitarra. Cominciai a
suonare le canzoni che cantavo nella Corea del Nord.
Mi facevano piangere. Piangevo ogni giorno, tanto
che divenne impossibile nasconderlo agli zii, che
erano comprensivi, ma al tempo stesso cominciavano
a essere un po’ stufi di me. Non gliene facevo una
colpa.
Fu in questo periodo che ebbi il mio primo incubo.
Sognai che mia madre era stata arrestata dal bowibu e
spedita in un campo di lavoro per prigionieri politici,
dov’era morta. Min-ho, rimasto orfano, era costretto a
mendicare. Nel sogno era così reale, lo vedevo
camminare da solo lungo un sentiero desolato di
terra battuta. Era vestito di stracci e aveva i piedi
scalzi. I suoi lineamenti erano diventati malvagi ed
era ossessionato dal cibo come un cane selvatico. Ero
paralizzata dal senso di colpa. Poi la scena del sogno
cambiava. Prima di morire, mia madre mi aveva
scritto una lettera. Cominciava così: Mia cara figlia, mi
dispiace tanto di essermene andata per prima e di non aver
potuto prendermi cura di Min-ho...
Mi svegliai boccheggiando in cerca d’aria. Quando
compresi che era stato solo un sogno cominciai a
singhiozzare, in preda a una crisi isterica. Il rumore
svegliò la zia che si precipitò a vedere cosa fosse
successo, e mi abbracciò. Era stato un sogno così
vivido che ero convinta fosse accaduto qualcosa di
terribile. Ma non c’era modo di saperlo. Il giorno
dopo rimasi triste e silenziosa. Mi sentivo in lutto.
La notte seguente ebbi un altro incubo. Ero
passata di nascosto sul fiume ghiacciato e stavo
camminando tutta sola in una Hyesan deserta. Era
notte, e tutte le luci erano spente. Sembrava una città
di morti. Andavo a casa. Attraverso la finestra vedevo
mia madre e Min-ho abbracciati. Mamma stava
piangendo, e Min-ho la consolava. Non avevano soldi
né niente da mangiare, ed era tutta colpa mia. Ma non
potevo fare altro che stare a guardare. Se avessi
varcato il cancello i vicini mi avrebbero vista e
denunciata. Poi camminavo fino al fiume cercando
Chang-ho. Mi sentivo in colpa anche nei suoi
riguardi. Lo vedevo pattugliare la riva ma non potevo
avvicinarmi, così mi nascondevo in un boschetto e lo
osservavo da lontano. Improvvisamente, alcuni agenti
del bowibu uscivano dall’ombra e mi circondavano. Io
scappavo più veloce che potevo sul ghiaccio per
tornare in Cina, e dietro di me sentivo i loro fischietti
e l’abbaiare dei cani. Poi mi svegliai.
Questi due sogni si ripresentarono più e più volte.
Le stesse scene, notte dopo notte.

Ogni sensazione di vivere a Shenyang una vita


finalmente libera, fatta di eccitazione e scoperte, era
ormai svanita. A partire dall’estate del 1998 mi
addentrai in una lunga valle solitaria. Meritavo quel
destino. Ero stata io a provocarlo.
Se si presentasse l’occasione lo farei, pensavo. Tornerei
a casa.
Ormai sapevo che la Corea del Nord non era il
paese più grande del mondo. Nemmeno uno degli
amici sino-coreani dello zio aveva mai una buona
parola da spendere in sua difesa, e i media cinesi
sembravano considerarla una reliquia del passato,
una fonte d’imbarazzo. I giornali di Shenyang
pubblicavano vignette satiriche contro Kim Jong-il.
A me non importava. La mia patria era il posto in
cui vivevano mamma e Min-ho. Il luogo cui
appartenevano i miei ricordi, quello in cui ero stata
felice. Le cose che avevo sempre considerato simboli
di arretratezza adesso mi mancavano più di ogni altra
cosa. Bruciare il yontan, le lampade a kerosene,
perfino la televisione di stato con le sue orchestre di
pionieri che suonavano la fisarmonica. La semplicità
della vita. Una cosa era certa: fino a quel momento
non avevo mai conosciuto la vera infelicità.
Un mattino, mentre gli zii erano al lavoro, telefonai
al signor Ahn, sperando che potesse trasmettere un
messaggio a mia madre. Ma il numero risultava
inesistente. Alla fine chiamai il suo vicino di casa, il
signor Chang, l’altro commerciante che conosceva
mia madre. Lui si arrabbiò molto.
«Perché hai chiamato me?»
«Vorrei mandare un messaggio a mia madre.»
«Di che diavolo stai parlando? Io non ti conosco.»
«Sì, lei...»
«Non richiamare mai più questo numero!» gridò, e
riattaccò. Pensai che fosse ubriaco, così provai di
nuovo il giorno dopo. Ma la linea era stata disattivata.
Gli ormeggi che mi legavano a Hyesan erano stati
tagliati.

Zia Sang-hee cercò disperatamente di tirarmi fuori


dal mio abbattimento. Era seriamente preoccupata
per me. Non avevo alcun ruolo nella vita, e si rendeva
conto che stavo cadendo in depressione. Così
cominciò ad architettare un piano che, secondo lei,
avrebbe potuto risolvere la mia situazione.
Io non ne seppi nulla finché, una sera, non suonò il
campanello. Ero in camera mia, come al solito, e
cantavo le mie canzoni accompagnandomi con la
chitarra. La zia bussò delicatamente alla porta e mi
disse che c’era una visita per me.
Il cuore mi balzò in petto. La mia mente depressa
faceva le connessioni più strane. Pensai che forse
poteva essere qualcuno di Hyesan.
La seguii in salotto. Un giovanotto alto che non
conoscevo era lì, al centro della stanza, con in mano
un mazzo di azalee rosa. Poteva avere venticinque
anni, e sembrava a disagio, in giacca e cravatta.
La zia era raggiante. «Mi-ran» disse, usando il mio
pseudonimo, «questo è Geun-soo.»
«Piacere di conoscerla» disse lui, ricorrendo alla
più formale delle formule di saluto. Si inchinò, mi
offrì le azalee, ma non mi guardò negli occhi.
22
La trappola matrimoniale

Geun-soo, mi spiegò la zia, era figlio di una sua


buona amica, la signora Jang, che faceva parte della
sua cerchia di frequentazioni sino-coreane. Era un
tipo allampanato e così ordinario che non avrei
potuto notarlo in una folla di persone. Aveva il
colorito giallognolo di chi svolge tutte le sue attività
al chiuso, e una pelle lucida da adolescente.
Una volta esauriti i convenevoli, ci fu una pausa
imbarazzante. Io guardavo la zia. La quale, con mia
grande mortificazione, disse: «E adesso, perché voi
giovani non ve ne andate fuori a mangiare un
gelato?».
In una gelateria vicina alla casa degli zii mi resi
conto che Geun-soo era ancora più a disagio di me.
Per farlo rilassare gli suggerii che potevamo
condividere una vaschetta del mio gusto preferito, il
paradisiaco taro color porpora. Sembrò stare un po’
meglio. Aveva ventidue anni, mi disse, e due sorelle
più grandi. Si era laureato in un’università di
Shenyang, ma non sembrava avere troppa fretta di
trovare un lavoro. La sua famiglia dirigeva
un’affermata catena di ristoranti ed era molto ricca.
Lui parlava con rispetto della madre rimasta vedova,
più di quanto mi sarei aspettata da un ragazzo della
sua età, e questa cosa mi piaceva, lo faceva sembrare
gentile e devoto alla famiglia. Ammise che gli piaceva
trascorrere le serate fuori a bere con i vecchi amici
dell’università. Pensai che fosse un tipo audace e
divertente. Nella Corea del Nord non conoscevo
ragazzi che bevessero alcolici.
Fu il primo di una lunga serie di appuntamenti con
Geun-soo. Il quale nei mesi seguenti mi accompagnò
spesso a fare quattro passi nel parco Beiling. La sera,
invece, andavamo in un bar noraebang, la versione
coreana del karaoke. Era un ragazzo innocuo, ma ben
presto cominciai a trovarlo superficiale e insipido.
Non provavo alcun trasporto per lui.
Per quanto lo sfidassi, o addirittura lo provocassi
per coinvolgerlo in una discussione seria, Geun-soo
sembrava incapace di esprimere una salda opinione
su qualsiasi argomento. Durante i nostri
appuntamenti ce ne stavamo quasi sempre in
silenzio. Avevo l’impressione che, quando non ci
vedevamo, trascorresse le sue giornate attaccato ai
videogiochi. Inoltre la devozione che esprimeva nei
confronti della madre era talmente esagerata che
cominciai a temere il momento in cui avrei dovuto
incontrarla. Sembrava contento che fosse lei a
decidere tutto ciò che lo riguardava.
Geun-soo sapeva che ero nordcoreana, ma credeva
davvero che mi chiamassi Chae Mi-ran. E io non
vedevo ragione di rivelargli il mio vero nome. In
realtà mi stavo talmente abituando a essere chiamata
Mi-ran che mi sembrava di essermi liberata del mio
vecchio nome Min-young come ci si libera di una
pelle logora. Quegli appuntamenti continuarono e, di
tanto in tanto, mi capitava di camminare mano nella
mano con Geun-soo. Ma non era una relazione seria:
era per far piacere agli zii, e mi aiutava a distrarmi
mentre intanto passava un altro Capodanno
occidentale, e poi il mio diciannovesimo compleanno,
e poi il Capodanno cinese. In questo modo riuscivo
anche a tenere lontano il pensiero doloroso che ormai
era passato più di un anno dall’ultima volta che avevo
visto mia madre e Min-ho.
Avrei dovuto cogliere i segnali d’allarme quando
Geun-soo cominciò a insistere perché mi applicassi di
più nello studio del mandarino e a correggermi in
questioni d’etichetta.
Quando mi portò a conoscere sua madre, entrambi
fecero in modo che cogliessi il significato profondo
della circostanza. L’appartamento era di gran lunga
più spazioso e più lussuoso di quello degli zii. La
signora Jang venne ad accogliermi nell’ingresso. Non
avevo mai visto una donna tanto ricca. Era elegante e
molto magra, con i capelli pettinati all’indietro e
raccolti in un fermaglio di madreperla; al collo
portava un foulard di Hermès e delle belle perle di
fabbricazione giapponese.
«Benvenuta, Mi-ran» mi disse. Ma il suo sorriso era
tiepido.
Capivo esattamente cosa stesse pensando. Una
ragazza coreana non era certo al livello di suo figlio.
Ma io sapevo già che non aveva piacere che Geun-soo
uscisse con ragazze cinesi, un pregiudizio culturale
condiviso da molte persone di etnia coreana.
La signora Jang era una donna pragmatica e
calcolatrice, e in quel momento volle mettere da parte
le sue diffidenze perché pensava che una ragazza
nordcoreana poteva diventare una moglie
accondiscendente e obbediente. Dopotutto ero
entrata in Cina illegalmente, e non mi trovavo certo
nella posizione di protestare. Inoltre sapeva che ero
cresciuta in una cultura che venera gli anziani. La mia
sottomissione avrebbe avuto come oggetto lei, mia
suocera. Anche se la nostra conversazione fu
insopportabilmente cortese, in più di un’occasione mi
accorsi che mi scrutava dalla testa ai piedi come se
fossi stata un capo di bestiame.
Nei mesi seguenti, ogni volta che Geun-soo mi
invitava a casa sua la signora Jang iniziava a parlare
del futuro che avrei avuto accanto a suo figlio. La
famiglia avrebbe aperto un nuovo ristorante e noi
due l’avremmo diretto, disse. Non molto tempo dopo,
senza che nessuno avesse chiesto il mio parere,
cominciò a parlare di matrimonio. Suo figlio era un
po’ troppo giovane per sposarsi, ammise, ma per la
considerazione che aveva nei riguardi di sua madre
voleva darle quanto prima dei nipoti.
Fu come se un’onda mi avesse travolto. Geun-soo
non mi aveva ancora fatto una proposta di
matrimonio. Anzi, credo non fosse nemmeno sicuro
dei suoi sentimenti nei miei confronti. Che potesse
eccitarsi o provare passione per una cosa qualsiasi mi
riusciva difficile immaginarlo. Forse diventava più
vivace quando usciva con gli amici, ma era chiaro che
intendeva tenere quella parte della sua vita ben
lontana da me. Per il resto accettava passivamente i
progetti di sua madre.
Le nostre uscite insieme si fecero opprimenti. Lui
non faceva che ripetermi che dovevo migliorare il mio
mandarino, e mi correggeva spesso. La sua
preoccupazione principale sembrava essere quella
che non diventassi motivo d’imbarazzo per la sua
famiglia facendo qualche grossolano errore quando
parlavo. Mi sentivo come se mi avessero arruolata in
un programma d’addestramento finalizzato a entrare
nella sua famiglia, e il tutto senza nemmeno
chiedermi il consenso. Quella situazione diventava
ogni giorno più imbarazzante, anche perché i miei zii
sembravano ritenere il matrimonio la soluzione
perfetta a tutti i miei problemi, e anche ai loro. La
mia visita di cinque giorni, infatti, si era ormai
trasformata in una permanenza di due anni.

Un pomeriggio, verso la fine del 1999, mentre ero a


casa di Geun-soo, la signora Jang rientrò carica di
pacchetti dei grandi magazzini e disse, in modo quasi
casuale, che aveva affidato i miei dati anagrafici a
un’indovina la quale le aveva consigliato una data
propizia dell’estate per il nostro matrimonio. Quanto
a lei, aveva trovato per noi un appartamento lì vicino.
A breve avrebbe cominciato a sceglierci i mobili.
Quella sera, sdraiata sul mio letto, esaminando a
fondo la questione, mi domandai quali scelte avessi.
Cercai di pensare in modo calcolatore, come la
signora Jang. Indipendentemente dai miei sentimenti
per l’impeccabile Geun-soo, mi chiesi se quel
matrimonio mi avrebbe aiutata o ulteriormente
intrappolata. Sapevo di voler diventare
un’imprenditrice, e di voler viaggiare. Ma se mi fossi
sposata e avessi avuto subito dei bambini, la mia
carriera sarebbe passata in secondo piano. D’altra
parte, la mia posizione era molto precaria. Non
potevo più stare dagli zii. Non avevo prospettive,
men che meno quella di diventare una donna d’affari.
L’alternativa era una vita perennemente in fuga.
E se mi beccano?
Arresto, rimpatrio, percosse, campo di prigionia.
La rovina per il songbun della mia famiglia. Un brivido
di terrore mi corse lungo la schiena.
Da qualunque prospettiva guardassi la mia
situazione, non avevo scelta.
Feci del mio meglio per convincermi. Geun-soo va
benissimo. A una ragazza potrebbe capitare qualcosa di
molto peggio. Se lo sposo avrò una vita agiata, senza
paure, e una carta d’identità cinese. Passai le settimane a
riflettere, discutendo in silenzio fra me e me.
C’era solo un problema, e non da poco. Io non
stavo scegliendo niente di tutto ciò. Mi stava
semplicemente accadendo.

Grazie alle sue conoscenze, la famiglia di Geun-soo


ottenne per me una nuova identità. Un giorno lui mi
mostrò la mia nuova carta d’identità e me la lasciò
tenere in mano. Riconobbi il mio volto, ma non il
nome. Era un nome nuovo, un altro che non avevo
scelto. Sarei diventata una sino-coreana e mi sarei
chiamata Jang Soon-hyang. Poiché ero troppo giovane
per sposarmi – in Cina l’età legale per sposarsi è
vent’anni – mi avevano invecchiata di un anno.
«Te la darò dopo il matrimonio» disse Geun-soo
con un sorrisetto, e me la tolse dalle mani. Perfino lui
capiva che potevo nutrire qualche dubbio, soprattutto
quando appresi che il mio nuovo nome significava
«persona che rispetta gli anziani, e che diventa una
buona moglie seguendo il marito e ascoltando con
molta attenzione ciò che dice».

Il millennio passò, e poi un altro compleanno. Per


la mia festa lo zio mi regalò un cellulare Motorola,
così avrei potuto parlare con Geun-soo tutte le volte
che avessi voluto, disse. I preparativi per le nozze
stavano prendendo velocità.
A un certo punto la signora Jang si rese conto che
mi sentivo schiacciata dalla sua volontà, e cercò di
rassicurarmi: «Quando sarete sposati, ci prenderemo
cura di te» disse, stringendomi la mano con le sue
dita ossute cariche di anelli. «Non dovrai più
preoccuparti di nulla.»
Era gentile da parte sua. Quelle parole mi diedero
il coraggio di farle la domanda che avevo in mente.
Non so perché pensavo di aver bisogno del suo
permesso.
«Quando sarò sposata, non ci saranno problemi a
far visita alla mia famiglia?»
Pensavo che la mia nuova carta d’identità cinese
volesse dire che potevo entrare in Corea del Nord in
modo legale.
Eravamo sedute al tavolo di cucina. La signora Jang
e le due sorelle di Geun-soo mi fissarono inorridite.
«Oh, no, no, no» disse la signora Jang, come se ci
fosse stato un gigantesco fraintendimento. «Non
potrai mai tornare laggiù. Mi capisci?» Era allarmata.
«Quelli là potrebbero scoprire chi sei. Dopodiché
passeremmo tutti dei guai. Abbiamo dovuto violare
molte regole per procurarti dei nuovi documenti. In
realtà sarà troppo pericoloso anche solo cercare di
contattare la tua famiglia.»
La signora Jang vide il panico sulla mia faccia e
fece un piccolo, rapido sorriso, come un’improvvisa
crepa nel ghiaccio.
«Dopo il matrimonio avrai una nuova famiglia. La
nostra.»
Ero ancora sconvolta quando riferii a Geun-soo le
parole di sua madre. Sapeva quanto fossi ansiosa di
rivedere mamma e Min-ho. Pensavo che quello fosse
il suo momento, il momento di consolare me, la sua
futura moglie, di mostrare un po’ di comprensione, di
dirmi che avremmo trovato il modo di riuscirci, che
non dovevo preoccuparmi. Invece lui disse in tono
blando: «Mamma ha ragione. È meglio così». Senza
nemmeno guardarmi. Stava giocando a un
videogioco.
Ero sbalordita. Lui e i miei futuri parenti avevano
posto fine a ogni discorso che riguardasse la
possibilità di rivedere la mia famiglia. E se mai fossi
riuscita a mettermi in contatto con la mamma e Min-
ho, avrei dovuto tenerlo nascosto alle persone che
avrei avuto più vicine.
Guardai il viso insignificante di Geun-soo riflesso
nello schermo del videogioco, e fui certa di non
poterlo sposare.
Qualunque cosa fosse successa di lì in avanti sarei
stata sola, ma non mi importava. Avrei trovato il
modo di volare. Non sapevo come, ma avrei avuto le
mie occasioni.

Gli zii commentavano in tono eccitato l’imminente


matrimonio quasi a ogni pasto. Io non osavo
comunicare loro la mia decisione, perché temevo di
deluderli. Avevo anche paura che la signora Jang,
umiliata per aver perso la faccia, potesse arrabbiarsi
al punto di denunciarmi alle autorità. Non avevo
nessuno con cui parlare. C’era solo una porta ancora
aperta. La fuga.
Era l’estate del 2000. Al matrimonio mancavano
solo poche settimane. Riflettei a lungo su quando fare
la mia mossa. Ma fu una telefonata di Geun-soo a
decidere per me: quando mi disse che sua madre,
senza nemmeno consultarci, ci aveva prenotato la
luna di miele in un lussuoso resort sulla spiaggia di
Sanya, sul Mar Cinese Meridionale.
Era troppo. Sarei scappata subito.
Infilai qualche vestito in una borsa e aspettai che
gli zii uscissero per andare al lavoro. Poi presi
l’ascensore, scesi nell’atrio e sorrisi al portiere. Il
sangue mi pulsava forte nelle tempie. Per un istante
ritornai con la mente ai miei passi che si muovevano
sul ghiaccio del fiume Yalu. Uscii dal grattacielo
camminando lentamente, tolsi la sim card dal mio
cellulare e la gettai in un cestino.
23
La ragazza di Shenyang

Il tassista mi scrutava nello specchietto retrovisore in


attesa che gli dicessi dove volevo essere portata. Ero
lacerata da mille dubbi. Non avevo alcun piano. Per la
prima volta in vita mia non c’era nessuno cui potessi
rivolgermi.
Shenyang è una grande metropoli. Potevo andare
ovunque, ma l’istinto mi diceva di tenermi alla larga
dal quartiere di Xita, o West Pagoda. Era la coreatown
di Shenyang, dove viveva la maggior parte degli
abitanti di etnia coreana. Se a qualcuno fosse venuto
in mente di cercarmi, sarebbe andato lì. Dissi al
tassista di portarmi in un quartiere che non
conoscevo, all’estremo opposto della città, dove
nessuno mi avrebbe cercata. Avrei dovuto parlare
mandarino, ma dopo due anni di studio ero molto
migliorata. Sentivo che ce l’avrei fatta.
Tuttavia, una volta arrivati sulla superstrada,
mentre attraversavamo quartieri che non mi erano
familiari, fui nuovamente assalita dai dubbi.
Anche se era pericoloso, le possibilità di trovare un
lavoro e qualcuno disposto ad aiutarmi erano
maggiori proprio a Xita, fra i coreani. C’ero già stata
più volte con la zia e ricordavo di aver visto un posto,
una specie di mercato della manodopera non
autorizzato, dove la gente ciondolava senza far niente
in attesa di sentirsi offrire un lavoro qualsiasi. E io
avevo bisogno di trovarlo, un lavoro, e in fretta. Lo zio
mi aveva passato una paghetta per le piccole spese,
ma con quello che avevo risparmiato potevo tirare
avanti al massimo un paio di giorni. Dissi al tassista
di cambiare direzione e di prendere per Xita.
Tra la folla di quanti cercavano un lavoro non
sapevo se mostrarmi impaziente o indifferente. Ero lì
da pochi minuti quando una donna si avvicinò
parlandomi in mandarino.
«Ciao» mi disse in tono vivace. «Cerchi lavoro?»
Era una donna di mezz’età, ma truccata come una
ragazzina. Il suo abito di cotone lasciava intravedere
le spalle nude.
«Sì.»
«Sono la proprietaria di un salone di parrucchiera,
e ho proprio bisogno di un’altra acconciatrice. Ti
interessa?» Anche la sua voce era quella di una
ragazzina. «Ti insegneremo noi. E l’alloggio è gratis.»
Stentavo a credere a tanta fortuna.
«È in periferia, ma possiamo andarci in taxi. Ci
vorrà solo mezz’ora.»
Si faceva chiamare Miss Ma. Lungo il tragitto mi
fece un mucchio di domande. Pensai che stesse
cercando di fare amicizia. Le dissi che ero di
Shenyang e che mio «padre» era il titolare di
un’impresa commerciale che faceva affari con la
Corea del Sud. Lei parve sorpresa che una ragazza
con una simile famiglia fosse pronta ad accettare un
lavoro come parrucchiera. Cercai di darle
l’impressione di essere una ribelle.
Notai che aveva le unghie laccate di viola
ciclamino, un colore che trovavo piuttosto eccentrico
per una donna della sua età, e che portava una sottile
catenella d’oro attorno alla caviglia.
Arrivammo in un quartiere degradato di palazzi e
negozi. Somigliava più a Changbai che a Shenyang. Il
salone era diverso da qualsiasi altro avessi mai visto
prima. Sulla parete sinistra erano allineati alcuni
divani di pelle nera, mentre a destra una mezza
dozzina di poltroncine da barbiere erano piazzate di
fronte a grandi specchi. Due poltroncine erano
occupate da uomini di mezz’età che si facevano lavare
i capelli.
Un salone da parrucchiera per soli uomini?
Un altro, sulla cinquantina, spaparanzato su un
divano, leggeva il giornale e fumava. Poi fece cadere la
cenere in una ciotola di carta. Dallo scollo della
camicia vidi spuntare un tatuaggio con la testa
azzurra di un serpente. Miss Ma lo salutò, e l’uomo
mi seguì con lo sguardo e senza sorridere. Non c’era
bisogno che qualcuno me lo dicesse: capii subito che
era il capo.
Miss Ma mi accompagnò nel seminterrato e mi
indicò sei piccoli locali da «terapia» con le porte di
vetro smerigliato. Avrei lavorato là sotto. Il tono della
sua voce si era fatto meno amichevole. Nello
scantinato c’era una luce giallastra, e tutto puzzava di
umidità e di sudore maschile. Miss Ma aprì la porta di
una delle cabine e io trattenni il fiato.
Dentro, illuminata solo dalla luce di una candela,
c’era una giovane donna in slip striminziti seduta
accanto a un uomo disteso su un futon a pancia in
giù. Nudo, a parte un asciugamano bianco legato
attorno alla vita. Essendo nata nella moralistica Corea
del Nord, non mi ero mai trovata in un ambiente in
cui uomini e donne si mescolassero nudi, e men che
meno toccandosi. La ragazza infatti stava
massaggiando un braccio dell’uomo.
Che cos’è questo posto?
«Ehi, perché non gli massaggi l’altro braccio?» mi
chiese la ragazza.
Senza aggiungere una parola, Miss Ma chiuse la
porta e se ne andò.
Non sapevo a cosa dovesse servire quel massaggio,
e nemmeno come praticarlo. L’uomo era molto grasso
e ricoperto di sudore, come se fosse appena uscito da
una sauna. Nella luce fioca della cabina somigliava a
una grande balena spiaggiata. Lo toccai con estrema
riluttanza. Non gli vedevo il viso. Dopo qualche
secondo l’uomo sbottò: «Ma questa chi è? È proprio
negata».
«È una nuova» disse la mia collega. «Deve ancora
imparare.»
La ragazza mi rivolse uno sguardo implorante,
come se la stessi mettendo in difficoltà. Aveva più o
meno la mia età, era piccola e graziosa, con
un’espressione sofferta.
Dopo un po’ l’uomo si tirò su, mi scrutò per bene e
ci invitò entrambe ad andare con lui in un karaoke
bar lì vicino.
«Non credo sia permesso» risposi.
«Non essere sciocca» intervenne la mia collega.
«Certo che possiamo.»
Di sopra, l’uomo con il serpente azzurro tatuato si
alzò per aprirci la porta a vetri e fece cenno a un taxi
di fermarsi.
Non avevo mangiato niente e il mio stomaco si
contraeva per il nervosismo. Temevo che la situazione
potesse prendere una piega ancora più strana nel
karaoke bar, ma il grassone sembrò perdere ogni
interesse nei miei confronti quando rifiutai per la
seconda volta una bibita alcolica. E questo sembrò
sgonfiare qualunque progetto avesse fatto per una
notte da passare con due ragazze. La mia collega,
invece, si unì a lui per vari bicchierini di soju. Io
cantai alcune canzoni cinesi. Ne cantò qualcuna
anche lui. Quando prendemmo un taxi per tornare
indietro era ormai buio.
La mia collega mi portò in un edificio sul retro del
salone. Salimmo varie rampe di scale strette finché
arrivammo a una porta con molte serrature. Quando
la ragazza accese la luce, mi ritrovai nella stanza più
sudicia che avessi visto in vita mia. In un angolo
qualcosa si mosse freneticamente per poi sparire.
Cinque letti a castello si affastellavano in quel piccolo
spazio. Ci vivevano dieci ragazze. C’era odore di corpi
e di tubi di scarico. Una corda con una fila di
mutande era appesa tra le cuccette; altri vestiti erano
gettati alla rinfusa sui letti. Mi affacciai nella stanza
da bagno, e dovetti premere forte una mano sul naso
e sulla bocca.
È per finire qui che sono scappata?
Ero molto stanca, e indebolita per non aver
mangiato quasi nulla a parte qualche salatino. Così
dissi: «Se a voi sta bene mi fermerò qui stanotte,
perché ormai è tardi. Ma domani mattina me ne
andrò. Non credo di voler accettare questo lavoro».
Non dimenticherò mai l’espressione che vidi negli
occhi della ragazza. L’avevo già notata tante volte
quando vivevo nella Corea del Nord. Era paura.
«Questo non è il genere di posto da cui si può
andar via come se niente fosse» disse.
«Cosa vuoi dire?»
La sua voce si ridusse a un sussurro. «Non te lo
permetteranno.»

Restai sveglia tutta la notte sul mio materasso


pieno di macchie. Ero troppo spaventata per dormire.
C’era molta umidità, e nella stanza mancava
completamente l’aria. Era quello il mio destino di
clandestina? Vivere in posti del genere? Come poteva
quella gente costringermi a restare contro la mia
volontà? Non potevano certo incatenarmi. Cercavo di
trovare un senso alla paura che avevo visto negli occhi
della ragazza, e la risposta mi si presentò da sola: Mi
faranno del male, se cercherò di andarmene!
Ero stata una stupida. Miss Ma aveva capito che ero
una clandestina dal primo momento in cui mi aveva
vista.
E mi aveva ingannata per portarmi in quel posto.
Avrei dovuto servirmi della sua stessa tattica per
andarmene. Ingannarla a mia volta.
Il mattino dopo gli altri letti erano ancora vuoti. A
chiunque appartenessero, quelle donne dovevano
aver dormito fuori. La mia collega e io andammo nel
salone da parrucchiera. Fui sollevata nel vedere che il
tatuato non c’era. Miss Ma era seduta accanto al
registratore di cassa, vistosamente abbigliata come
una bambola.
Mi avvicinai. Dovevo passare all’azione, e doveva
essere un’azione efficace.
«Ci siamo divertiti un sacco, ieri sera al karaoke»
dissi. E mi portai la mano alla testa come a indicare i
postumi di una sbornia, lanciandole un’occhiata di
comica, finta disperazione.
«Bene.» E mi fece un sorrisetto acido. «Sei qui per
questo. E quanto ti ha dato di mancia quel signore?»
Il ciccione non mi aveva dato niente. «Ho lasciato i
soldi nei jeans, su nel dormitorio» risposi. «Stanotte
ero in uno stato tale che non potevo contarli.»
«Non lasciare mai i soldi di sopra. Devi portarli
direttamente qui.»
«Certo. Mi scusi. Quando incontrerò le altre
ragazze?»
«Scenderanno non appena saranno pronte.»
Incrociai le dita per augurarmi la buona sorte.
«Prima che qui ci sia da fare, pensavo di fare un salto
a Xita per prendere le mie cose.»
Lo sguardo della donna si indurì. Tutta la
gentilezza del giorno prima era sparita. «Di cosa hai
bisogno? Te lo posso procurare io.»
«Oh, no!» risi. «Non le chiederei mai di andare a
recuperare la mia chitarra. E alcune foto personali. La
chitarra non darà alcun fastidio. Sistemerò tutto sotto
il letto a castello.»
Fingevo di preoccuparmi del fatto che lei pensasse
che le mie cose potessero occupare troppo spazio.
«Farai tardi per il tuo primo giro di prenotazioni,
se vai via.»
Stava esitando.
«Avrò tutto il tempo per truccarmi più tardi, e non
sprecherò il suo denaro per un taxi» risposi.
«Prenderò l’autobus, e lo pagherò con i miei soldi.
Sarò di ritorno per le dieci.»
La donna sbuffò. Adesso era seccata, e guardava
fuori dalla finestra. Mi chiesi se stesse aspettando
l’uomo con il serpente tatuato. «Fa’ in fretta. Oggi è
tutto prenotato.»
«Capito» dissi io, salutandola con un gesto allegro
che sembrava voler dire Il capo è lei.
E oltrepassai le porte a vetri.
Non appena fui dietro l’angolo, e fuori dalla sua
vista, mi misi a correre verso il parcheggio dei taxi
dove eravamo scesi la notte prima di ritorno dal
karaoke.
Ma mi bloccai di colpo.
L’autista del primo taxi libero, appoggiato alla sua
auto, stava parlando con l’uomo tatuato, che aveva un
giornale sotto il braccio. Girai sui tacchi e tornai da
dove ero venuta, nella speranza che non mi avesse
visto. Ma in questo modo sarei dovuta passare di
nuovo davanti alle porte a vetri del salone. Se mi
avesse vista, Miss Ma avrebbe capito subito che non
stavo andando alla fermata dell’autobus. Esitai per un
istante, poi cercai di passare là davanti insieme a un
gruppo di persone. Avevo quasi oltrepassato la
vetrina del salone quando sentii una voce gridare
dall’interno: «Ehi!».
Mi misi a correre. Imboccai una strada e poi
un’altra. Non sapevo più dov’ero. Quando vidi la luce
gialla di un taxi libero venire verso di me agitai le
braccia come una pazza per fermarlo.
Saltai dentro e mi accoccolai sul sedile posteriore.
Questa volta non ebbi esitazioni. «Xita. Presto,
presto!»
24
La telefonata del senso di colpa

Nelle ultime trentasei ore non avevo dormito e non


avevo quasi mangiato niente. Era l’adrenalina a
tenermi in piedi. Non possedevo nulla. La mia borsa
era rimasta nel dormitorio delle ragazze. Nel taxi
contai i soldi che mi restavano nel portafogli.
Bastavano appena per pagare la corsa e comprarmi
dei tagliolini fritti a una bancarella del mercato.
Dopo, sarei stata in guai seri. Dovevo assolutamente
trovarmi un lavoro.
Una volta tornata a coreatown decisi di provare con i
ristoranti, che mi sembravano un’opzione un po’ più
sicura del mercato della manodopera. Dopo averne
visitata una decina intravidi la mia immagine riflessa
in una vetrina. Avevo uno sguardo vacuo, affamato e
disperato. A meno di un metro dalla mia faccia, però,
c’era un annuncio in coreano attaccato all’interno del
vetro. Cercavano una cameriera. Il ristorante si
chiamava Gyeong-hwoi-ru, ed era un locale grande e
affollato, con una trentina di tavoli rotondi e almeno
dieci cameriere che vedevo scivolare qua e là nel
tradizionale chima jeogori. Era l’ora di pranzo: grandi
vassoi carichi di pietanze bollenti che andavano in
una direzione, piatti vuoti che andavano nell’altra. Mi
diedi una sistemata ed entrai.
«Vorrei fare la cameriera» dissi alla donna al banco
delle bibite, che dall’aspetto sembrava essere la
direttrice. Indossava dei formali abiti da lavoro.
«Sei una studentessa che cerca un lavoro per le
vacanze?»
«No, vorrei un lavoro a tempo pieno.»
La donna tirò fuori un modulo e una penna.
«Nome?»
«Jang Soon-hyang» risposi, usando il nome che la
famiglia di Geun-soo mi aveva procurato. «Sono sino-
coreana. Di Yanbian.»
Mentre la donna metteva tutto quanto per iscritto,
io sentii lo stomaco contrarsi. Non mi era venuto in
mente, fino a quel momento, che per trovare lavoro
avrei avuto bisogno di un documento. Se mi avesse
chiesto la carta d’identità, il gioco sarebbe finito lì.
La donna sembrò impiegare un mucchio di tempo
a compilare il modulo. «Sì, posso darti un lavoro.
Abbiamo anche un dormitorio per le dipendenti che
ne hanno bisogno. È a soli due minuti da qui.»
Provai un’ondata di sollievo. Nessun posto al
mondo poteva essere squallido come quello che mi
ero lasciata alle spalle.
«Quando puoi cominciare?»
«Oggi» risposi, tamburellando sulla cassa in segno
di gioia.
La donna mi guardò incuriosita. «C’è niente che
vorresti sapere?»
Non ha bisogno di vedere un documento d’identità?
«No, va tutto bene.»
«Non ti interessa sapere quant’è la paga?»
Ero stata così disperata nella mia ricerca di
un’ancora di salvezza che non le avevo fatto
nemmeno la più basilare delle domande.
«Sono trecentocinquanta yuan al mese» disse la
donna. Più o meno quaranta dollari americani.
Nella Corea del Nord, con una cifra del genere
avrei potuto sopravvivere sei mesi. Mi sembrò una
paga più che generosa.
La donna sorrise. «E i pasti sono gratuiti.»

Il mio primo giorno di lavoro come cameriera


rischiò di concludersi con una catastrofe. I clienti
furono una tavolata di uomini d’affari in giacca e
cravatta. Erano cinesi Han. A un certo punto uno di
loro mi chiese il conto e dei chewing-gum.
Glieli portai.
«E queste cosa sarebbero?» disse l’uomo alzando
gli occhi su di me.
Capii che stava per insultarmi. Avevo già notato
che la cosa era abbastanza comune in quei ristoranti.
Per il solo fatto di pagare, certe persone si sentivano
in diritto di essere maleducate.
«Io non ho ordinato questa roba.»
«Mi dispiace, signore. Non mi aveva chiesto delle
gomme?»
«Ho chiesto sigarette, non gomme.» I suoi occhi
diventarono due fessure.
Evidentemente aveva detto xiang yan (sigarette),
ma io avevo capito kou xiang tang (gomme). La
direttrice ci raggiunse.
«Qualcosa non va?»
«Sì» rispose l’uomo, puntando il dito contro di me.
«Quella è nordcoreana.»
Trascolorai in viso.
«No, è di Yanbian» disse la direttrice con voce
dolce. «Non ha capito bene le sue parole.»
«Stronzate. Al giorno d’oggi le ragazze di Yanbian
parlano il mandarino perfettamente. Lei invece non
mi ha capito. È nordcoreana.»
«È sino-coreana» insisté la direttrice con un sorriso
fermo. «Mi scuso per l’incomprensione. Lasciate che
porti a ciascuno di voi un pacchetto di sigarette,
omaggio della casa.»
Quelle parole sembrarono calmarlo, e lasciò cadere
la questione.
Più tardi la direttrice mi disse che alcuni clienti si
comportavano come porci solo per ottenere qualcosa
gratis. E aggiunse che non dovevo arrabbiarmi.
Evidentemente non sospettava che quell’uomo
potesse avere ragione.
Cominciò una vera routine. Arrivavo al lavoro alle
8.30 del mattino per apparecchiare i tavoli, riempire
le saliere e le bottigliette della salsa di soia. Poi
servivo ai tavoli tutto il giorno finché anche l’ultimo
cliente non se n’era andato, alle dieci di sera. Il
ristorante era aperto tutti i giorni, e la direttrice si
prendeva un giorno libero al mese. Era un lavoro
faticoso, ma non m’importava. Ero orgogliosa di aver
risolto tutti i miei problemi da sola, anche se la mia
situazione non era affatto sicura. Il mio mandarino
migliorò in fretta. Ogni sera dopo il lavoro tornavo al
dormitorio, talmente esausta da buttarmi subito sul
letto. Mi abituai agli incubi, che si ripetevano una
notte dopo l’altra.
Le quattro cameriere con cui condividevo il
dormitorio erano socievoli e loquaci, ma io stavo
molto attenta a cosa rivelavo di me, soprattutto alle
due che venivano da Yanbian. Un passo falso e
avrebbero potuto scoprire la verità sul mio conto.
Tuttavia, una delle ragazze m’incuriosiva e
diventammo amiche. Si chiamava Ji-woo. Voleva
laurearsi in economia all’università di Dongbei, a
Shenyang, e si pagava gli studi facendo la cameriera.
Ne rimasi colpita. Fino a quel momento avevo
conosciuto una sola persona, in Cina, che avesse
seguito un corso di formazione superiore. Ma Geun-
soo era uno studente talmente strano che non era
riuscito nemmeno a descrivermi i suoi studi. Ji-woo
era divertente e sveglia, e amava la moda come me.
Avrei voluto imparare anch’io quello che stava
studiando, ma i suoi libri di testo erano troppo
difficili. Più volte fui tentata di raccontarle il mio
segreto, ma ogni volta una vocina allarmata mi
diceva: Non farlo.
Mi stavo abituando a un altro nome nuovo. Ji-hae,
Min-young, Mi-ran erano ormai alle mie spalle.
Adesso il mio nome era Soon-hyang, e lo portavo
come un nuovo bocciolo.
Dopo qualche mese di servizio ai tavoli fui
assegnata al registratore di cassa. Ero brava a
maneggiare i soldi. Il mio stipendio mensile salì a
cinquecento yuan. Il mio obiettivo era risparmiare
abbastanza per tornare a Changbai, dove avrei
cercato di mettermi in contatto con mia madre e Min-
ho.
Il lavoro mi piaceva. Le persone che venivano al
ristorante mi affascinavano. Mi scoprivo a osservare i
clienti cercando di indovinare le loro storie.
Cominciai a pensare che il mondo era molto meno
convenzionale di quanto avessi mai immaginato
quando stavo nella Corea del Nord. Le persone erano
complesse, e tutte differenti l’una dall’altra. In Cina
erano possibili scelte e stili di vita diversi.

Mentre la mia vita diventava più stabile, il ricordo


di com’ero scappata dalla casa dei miei zii cominciò a
tormentarmi. Erano stati gentili con me, e io me n’ero
andata senza lasciare nemmeno un biglietto. Come
avevo potuto comportarmi con tanta mancanza di
riguardo? Mi rendevo conto, però, che in un biglietto
avrei dovuto parlare dei miei sentimenti, e io non ero
abituata a farlo. Ben pochi nordcoreani lo sono.
Dopo circa sei mesi, nel dicembre del 2000, li
chiamai da una cabina telefonica. Rispose zia Sang-
hee. «Mi-ran...» disse con un sussulto. Anche lei aveva
dimenticato il mio vero nome. Quando si fu ripresa
dallo choc sentii nella sua voce un misto di sollievo,
preoccupazione e orgoglio ferito.
«Ci hai umiliati» disse. «Tu fai parte della nostra
famiglia. Scappando in quel modo ci hai fatti
sembrare delle persone cattive.»
«Mi dispiace tanto. Non ce l’ho proprio fatta.»
Voleva sapere dove fossi. Le risposi che lavoravo
come cameriera e che stavo bene. Mi invitò ad andare
da loro, ma io sentivo che il dolore che le avevo
causato era ancora troppo forte. Le avrei lasciato
ancora un po’ di tempo.
«Non vuoi sapere cosa ne è stato di Geun-soo?»
aggiunse la zia.
«No, non lo voglio sapere.»
«Dovresti chiamare la sua famiglia per chiedere
scusa.»
Ci rimuginai sopra per un paio di giorni, ma
sapevo di doverlo fare. Più volte cominciai a
comporre il loro numero, ma all’ultimo secondo il
coraggio mi abbandonava. Alla fine riuscii a fare
quella telefonata. Mi rispose la signora Jang.
Dapprima non riuscii a parlare. Avevo la bocca secca.
Stava per riattaccare quando mi sentii dire: «Sono io,
Mi-ran».
«Oh mio dio!» Ci fu una lunga pausa. «Dove sei?»
Mi sembrava di vederla mentre gesticolava
furiosamente rivolta alle sorelle di Geun-soo: È lei.
Mi aspettavo una reazione piena di rabbia, e invece
la sua voce era calma e controllata. Con mia grande
sorpresa disse: «Per favore, ritorna, Mi-ran. Fallo per
mio figlio. Non è più lo stesso. È caduto in
depressione da quando te ne sei andata».
Geun-soo depresso per colpa mia? «Posso parlargli?»
Quando venne al telefono stava piangendo.
Sembrava ubriaco, e non riusciva a formulare bene le
parole.
«Ti prego, ritorna» disse. «Ho ancora i biglietti per
la luna di miele. Possiamo partire insieme.»
Era la prima volta che lo sentivo esprimere dei veri
sentimenti. Mi dispiaceva molto per lui, ero
sgomenta. L’avevo abbandonato senza dargli il tempo
di chiedersi cosa provasse per me. Ma ormai era
troppo tardi. Non potevo più tornare indietro. La sola
cosa che volevo fare era rimettermi in contatto con la
mia famiglia. Lui e sua madre mi sarebbero stati
d’ostacolo.
Continuai a ripetere che mi dispiaceva tanto, che
avevo umiliato lui e insultato la sua famiglia.
Alla fine, mi lasciai scivolare lungo il muro accanto
al telefono e nascosi il viso tra le mani. Avevo attirato
una grande sfortuna sul capo di Geun-soo.
Il nostro Rispettato Padre e Leader ci comanda di
rispettare gli anziani e di onorare la nostra famiglia. Ho
notato che la compagna Miran non fa che ferire le persone
che le sono vicine. Sarebbe d’accordo di ammettere di avere
un brutto carattere?
Sì. È questo che ero. Una persona cattiva.
Non avevo nessuno con cui parlare, nessuno che
potesse dirmi che la scelta che avevo fatto per il mio
bene non mi aveva reso una persona abietta.
Invece questa feroce autocritica mise radici
profonde nel mio cuore, e qualcosa dentro di me si
raffreddò. Quando avevo pianto nell’appartamento
dei miei zii, perché mi mancava mia madre, il mio
cuore soffriva davvero. Ora invece mi ero come
indurita, e le lacrime si erano bloccate.
Non mi piacevo più.
Giurai di punirmi per il male che avevo fatto a
Geun-soo. Per settimane pensai a come fare. Alla fine
decisi che la mia punizione sarebbe stata quella di
non sposarmi mai. Non gli avrei aggiunto altro dolore
sposando un altro uomo.
Quando qualcuno mi domandava quando mi sarei
sposata, rispondevo: «Mai. Per me non è importante».
25
Gli uomini del Sud

Nel gennaio del 2001 due uomini snelli entrarono nel


ristorante all’ora di pranzo. Erano gentili, e mi
domandarono di Shenyang. Notai che avevano denti
perfetti.
Quel giorno eravamo a corto di personale, così
anch’io servivo ai tavoli. Stavo sistemando dei piatti
di banchan davanti a loro quando uno dei due mi
chiese sussurrando: «Conosci per caso dei
nordcoreani?».
Evitai di incontrare il loro sguardo. «Perché volete
saperlo?»
I due misero sul tavolo i loro biglietti da visita e mi
dissero di essere registi di una delle principali
stazioni televisive della Corea del Sud.
«Stiamo girando un documentario» disse uno dei
due. «Cerchiamo un transfuga nordcoreano
intenzionato a raggiungere la Corea del Sud. Siamo
disposti a pagare i passatori per fare in modo che ci
arrivi, e tutte le altre spese.»
Ero sbalordita. La Corea del Nord e quella del Sud
erano nemiche mortali. La guerra di Corea si era
conclusa nel 1953 con una tregua, non con un trattato
di pace. Formalmente i due paesi erano ancora in
guerra.
«Come può un nordcoreano arrivare nella Corea
del Sud?» chiesi. Era la prima volta che sentivo
parlare di una cosa del genere.
«Sono in molti a farlo, di questi tempi.»
Dissi loro che avrei chiesto in giro. E mi allontanai,
incuriosita.
Sono io la persona che state cercando?
Per un po’ i due uomini vennero a pranzare al
ristorante ogni giorno. Stavo seriamente
considerando l’idea di raccontare loro il mio segreto,
ma l’istinto mi suggeriva di muovermi con estrema
cautela. Poteva essere una trappola. Prima di fare
qualcosa di avventato avevo bisogno di una prova
concreta. Cercando di mostrarmi indifferente riferii a
Ji-woo, la mia compagna al dormitorio, le parole dei
due sudcoreani. La sua risposta fu per me una grande
sorpresa. La Corea del Sud considerava tutti i
nordcoreani alla stregua di suoi cittadini, mi disse.
Chiunque riuscisse a raggiungere Seul otteneva un
passaporto sudcoreano e un cospicuo aiuto
economico.
Questo mi diede da pensare. Dai miei zii sapevo
già che la Corea del Sud non era quell’«inferno in
terra» dipinto dalla propaganda di partito. Mio zio
l’aveva visitata per affari e mi aveva raccontato che
laggiù erano ancora più ricchi e più liberi che in Cina.
Quando me l’aveva detto, avevo pensato che stesse
esagerando. In realtà avevo dedicato ben poca
attenzione alla Corea del Sud. Ero stata così
concentrata sull’apprendimento del mandarino da
non guardare nemmeno le soap opera sudcoreane
trasmesse dai canali via cavo. Ed ero ancora convinta
che tutti i problemi della Corea del Nord fossero
dovuti alle sanzioni ONU volute dagli Stati Uniti.
Fuggire nella filoamericana Corea del Sud sarebbe
stato un tradimento nei confronti del mio stesso
paese, no? Ma soprattutto ricordavo che, nei rari casi
in cui qualcuno aveva disertato verso la Corea del
Nord, la propaganda di partito aveva dato un
notevole risalto alla notizia. Se avessi disertato per
raggiungere la Corea del Sud avrei dovuto anch’io
fare lo stesso, davanti a una selva di microfoni e di
macchine fotografiche? Ciò avrebbe voluto dire
mettere in serio pericolo la mia famiglia.
Ero ancora indecisa quando, una settimana dopo, i
due sudcoreani smisero di venire al ristorante.
Evidentemente avevano trovato quello che stavano
cercando.
Una volta zio Oppio mi aveva detto che capitano
solo tre grandi occasioni nella vita. Io non riuscivo a
scrollarmi di dosso la sensazione di essermene
appena lasciata sfuggire una davvero grossa.

Quella sera uscii con le ragazze del dormitorio.


Mangiammo spiedini di agnello a una bancarella del
mercato, poi andammo in un caffè. Le ragazze
chiacchieravano della loro vita privata, di piccole
preoccupazioni famigliari, di problemi con il
fidanzato. Dei sogni di una vita migliore. Una di loro,
una ragazza sino-coreana di Yanbian, mi guardò di
traverso e disse: «Tu non parli molto di te. Non sarai
mica orfana?».
Per mesi avevo temuto la curiosità degli altri, ma
dopo l’occasione persa con i due registi mi sentivo
spericolata. Era stata la mia eccessiva cautela a farmi
perdere quell’opportunità. E poi ero stanca di
mentire.
«No, non sono orfana» dissi. Avevo l’abitudine di
fare una pausa prima di parlare, in modo da darmi il
tempo di valutare le conseguenze. Ma quella volta
andai dritta al punto. «Sono nordcoreana.»
Le ragazze si guardarono l’un l’altra. Ji-woo, la più
giudiziosa del gruppo, disse che non l’avrebbe mai
sospettato. All’improvviso erano tutte interessate a
me. Così raccontai loro la mia storia. Restammo in
quel caffè fino all’ora di chiusura.
Per la prima volta provavo curiosità per gli altri
nordcoreani che vivevano da clandestini a Shenyang.
Ce n’erano così tanti nascosti qua e là che ogni due o
tre mesi la polizia faceva una retata in tutta la città
per arrestarli e rimandarli indietro. A una festa di
compleanno di una delle cameriere sentii una ragazza
il cui mandarino era così stentato da farmi pensare
che fosse nordcoreana. Mi presentai. Un po’ alla volta
e con discrezione arrivai a conoscere altre ragazze
nordcoreane, tutte nascoste «alla luce del sole» come
me.
La ragazza che avevo conosciuto alla festa si
chiamava Soo-jin. Aveva un viso ovale, grandi occhi e
due labbra piene a forma di arco, di quelle che nella
Corea del Nord vengono considerate il massimo della
bellezza. Anche lei faceva la cameriera. Ci sentivamo
al telefono una o due volte la settimana. Era
piacevole. Lei viveva a Shenyang con il suo ragazzo,
che era sudcoreano. Abitare con un ragazzo sudcoreano.
Ero scandalizzata quando me lo disse, scandalizzata
ed eccitata.
Ma dopo qualche settimana, all’improvviso, le sue
telefonate cessarono del tutto. Quando componevo il
suo numero, sentivo solo un segnale che
corrispondeva a un numero disattivato. Per me, voleva
dire solo disastro.
Sei mesi dopo, una sera, mi sembrò di vedere Soo-
jin in una strada della coreatown, ma non ne ero
sicura. La chiamai. Un viso si girò verso di me con
un’espressione da animale braccato, come quella di
una bestiola sorpresa a frugare nella spazzatura. Era
proprio lei. I suoi lineamenti erano diventati tesi e
affilati. Vedevo le scapole spuntare da sotto il tessuto
della sua maglietta.
Non sembrava affatto contenta di vedermi, e i suoi
occhi dardeggiarono di qua e di là come se pensasse
di essere stata seguita. Mi raccontò che la polizia si
era presentata alla sua porta chiedendole la carta
d’identità. Lei, naturalmente, non l’aveva. Allora era
stata arrestata. Dalla stazione di polizia di Xita era
stata rimandata nella Corea del Nord, dove era stata
rinchiusa per tre mesi in un campo di prigionia del
bowibu. L’igiene era inesistente, e i pasti consistevano
in dieci chicchi di mais. Ben presto i nuovi arrivati si
ammalavano. A causa della fame e della diarrea, molti
morivano nel giro di pochi giorni.
Al momento del rilascio le avevano fatto firmare
un documento in cui giurava che non sarebbe più
scappata. Lei sapeva che se l’avessero beccata una
seconda volta non sarebbe sopravvissuta alla
punizione. Sulle sue gambe erano ancora visibili i
lividi delle percosse. Mi disse che la Cina era
diventata troppo pericolosa. Era decisa a raggiungere
la Corea del Sud.
Soo-jin stava cercando disperatamente di tenere un
profilo basso. Era convinta di essere stata tradita da
un comune amico nordcoreano di Shenyang, un certo
Choon-hi, che secondo lei era stato rilasciato dalla
polizia a patto di diventare un informatore.
Mi strinse la mano. «Soon-hyang, sta’ attenta!»
La guardai allontanarsi. Non l’avrei rivista mai più.

Il racconto di Soo-jin mi aveva spaventata,


rendendomi paranoica riguardo agli informatori.
Quanti sapevano che ero nordcoreana? Quel pensiero
mi rigirava in testa. A chi l’avevo detto?
Ciononostante non vidi avvicinarsi il disastro.
Una settimana dopo, alle dieci del mattino, la
receptionist del ristorante mi chiamò sul cellulare.
Era il mio giorno libero, ed ero ancora nel dormitorio.
Due giovani uomini di bell’aspetto erano al
ristorante, mi disse, e sembravano molto su di giri.
«Hanno chiesto di te, sapevano il tuo nome.»
Ebbi un tuffo al cuore. Fra i clienti del ristorante
solo i due registi sudcoreani conoscevano il mio
nome.
«Di’ loro di aspettarmi» dissi. «Arrivo subito.»
Mi misi un po’ di trucco e corsi al ristorante.
A quell’ora del mattino c’erano pochi clienti.
L’addetta alla reception mi indicò un tavolo. Due
uomini che non riconobbi si alzarono in piedi.
«Soon-hyang?» chiese uno.
«Sì.»
I due aprirono la giacca per mostrarmi il distintivo.
«Polizia. Deve venire con noi.»
26
L’interrogatorio

I due poliziotti in borghese mi accompagnarono a


una BM W senza targa. Mi sentivo stordita e staccata
dalla realtà, come se quello che stavo vivendo non
fosse altro che un brutto sogno a occhi aperti. Non mi
ammanettarono. Sembravano rilassati, come se
l’avessero fatto centinaia di volte. Uno dei due era
straordinariamente bello, notai, come un divo del
cinema. Un terzo uomo ci aspettava seduto al volante.
Presi posto tra i due poliziotti sul sedile posteriore.
«Dove andiamo?» domandai.
L’uomo bello rispose: «Alla stazione di polizia di
Xita».
L’aria condizionata dell’auto mi stava congelando.
Cominciai a battere i denti. È finita. Non c’era modo
di uscire da quel pasticcio.
Mentre sfrecciavamo lungo le strade familiari di
Xita pensai ai terribili guai cui sarebbe andata
incontro la mia famiglia una volta che il bowibu avesse
scoperto che ero stata in Cina. Era per mia madre e
mio fratello che avevo paura, non per me.
Io me l’ero cercata.
Intrecciai le dita in grembo e per la prima volta in
vita mia pregai. Non appartenevo a nessuna
confessione, quindi pregai gli spiriti dei miei
antenati. Se questo è un altro incubo, fa’ che mi svegli,
pregavo lo spirito del mio caro padre. Se puoi, ti prego,
aiutami adesso.
L’auto accostò davanti alla stazione di polizia. Uno
di qua e uno di là, i due poliziotti mi fecero entrare in
un ingresso illuminato da lampade al neon. Era pieno
di persone indaffarate, alcune in uniforme, altre in
abiti civili. Sulla sinistra vidi quella che sembrava una
cella di sicurezza con delle sbarre che andavano dal
pavimento al soffitto. Almeno trenta persone
affollavano quel piccolo spazio, alcune appoggiate
alla parete, altre sedute sul pavimento. Uomini e
donne insieme, silenziosi, con facce vuote e
rassegnate. Alcune erano molto magre. Mi fissarono.
Avevano l’aspetto di nordcoreani. Non provai pena
per loro. Non provai niente.
Fra qualche minuto vi raggiungerò.
Passammo davanti a una scrivania, sopra la quale
un bambino di un mese o due, avvolto in una coperta,
stava piangendo. Nessuno si occupava di lui.
Avevo le gambe di stoppa. I due poliziotti mi
condussero al piano di sopra.
Entrammo nella sala degli interrogatori. Era
grande e luminosa.
Una ventina di poliziotti in camicia azzurra erano
sparsi per la stanza, appoggiati alle pareti. Quando
entrai tutti si voltarono a guardarmi. Il poliziotto
bello mi offrì gentilmente una sedia, poi prese posto
dall’altra parte della scrivania, fra altri due ufficiali.
La scena era surreale, rilassata eppure minacciosa.
Il poliziotto bello si presentò come ispettore Xu.
Sarebbe stato lui a condurre l’interrogatorio. La cosa
sarebbe successa lì. Ero circondata.
Concentrati, mi dissi. Presta attenzione solo a ciò che è
importante, i tre uomini dietro la scrivania. Dimentica gli
altri che ti stanno guardando.
L’ispettore Xu non era l’unico a farmi le domande.
Anche gli altri due, a turno, mi interrogavano in
mandarino.
Come si chiama la tua famiglia? Dove sei nata? Il
nome dei tuoi genitori? Che lavoro fanno? L’indirizzo
preciso? E come si chiamano i tuoi fratelli?
Dissi loro che ero la figlia di zio Jung-gil e di zia
Sang-hee, di Shenyang, e diedi loro tutti gli altri
particolari.
«Mi serve il numero di telefono di casa tua» chiese
uno degli ufficiali.
Allarme rosso! Non potevo rischiare che
telefonassero agli zii.
«Al momento non l’abbiamo. I miei genitori
l’hanno disdetto perché per un po’ si trasferiranno
nella Corea del Sud.»
Quale scuola elementare hai frequentato? Come si
chiamava il direttore?
Mi sforzai di ricordare ogni frammento delle
conversazioni con Geun-soo e le sue sorelle riguardo
al loro percorso scolastico a Shenyang.
E la scuola secondaria? Dove l’hai fatta?
Il cuore mi batteva selvaggiamente, ma mi
costringevo a restare calma. Il mio corpo era entrato
in una sorta di modalità operativa d’emergenza. Era
come se non fossi nemmeno lì.
Mi stanno guardando per capire se mento. Non devo
lasciarglielo vedere. Parla in modo chiaro e con sicurezza.
Ma il nervosismo cominciava a trapelare dalle mie
dita, convulsamente intrecciate in grembo. Qualcuno
poteva notarlo. Allentai la presa.
Torniamo ai tuoi genitori. Qual è la data di nascita
di tuo padre? E quella di tua madre? E poi, in tono
casuale, quasi mi stessero chiedendo che giorno della
settimana era: «Quand’è il compleanno di Kim Il-
sung?».
Il 15 aprile. Una domanda cui ogni nordcoreano può
rispondere senza riflettere. «Non ne ho assolutamente
idea» dissi.
Poi l’interrogatorio passò a una nuova fase.
L’ispettore Xu mi chiese quando intendevo sposarmi.
Pensai che in quella domanda potesse celarsi una
trappola.
«Non prima che siano passati dieci anni» risposi.
Ma la mia risata suonò falsa. «Sono ancora troppo
giovane.»
Il poliziotto in piedi dietro di me aveva osservato la
scena in silenzio. Nessuno era entrato nella sala;
nessuno ne era uscito.
L’ispettore Xu mi osservava attentamente, facendo
roteare la penna tra le dita.
Poi fece scivolare attraverso la scrivania una copia
del «Shenyang Daily» e mi disse di cominciare a
leggere il primo articolo. Riguardava un ingorgo sulla
superstrada per Shen-da.
Ormai il mio mandarino suonava del tutto
naturale. Ero abbastanza sicura di parlarlo senza
traccia di accento nordcoreano.
Dopo un minuto o due il poliziotto disse: «Basta
così».
Notai che fino a quel momento nessuno aveva
verbalizzato le mie risposte.
Hanno dei dubbi. Pensano che forse potrei essere cinese.
La prova successiva fu scrivere un testo in cinese.
Uno dei poliziotti mi dettò qualcosa da un giornale e
restò in piedi dietro di me mentre scrivevo le sue
parole.
Quando ebbi finito uno dei poliziotti mi chiese:
«Dov’è la tua carta d’identità?».
«A casa.» Quando Geun-soo mi aveva mostrato il
documento che la sua famiglia si era procurata, ne
avevo memorizzato il numero. Glielo dissi. Era un
documento cartaceo, per cui controllare quel numero
avrebbe comportato chiamare un’altra stazione, che
avrebbe dovuto ritrovare il fascicolo.
Se pensano che sia nordcoreana, è proprio da qui che
cominceranno le indagini. E allora sarà la fine.
Invece, l’atmosfera nella sala si fece più distesa. Il
sospetto stava scivolando via dalle loro facce.
L’ispettore Xu sorrise per la prima volta. «Allora,
davvero: quando pensa di sposarsi?»
Risi di nuovo. «Quando si presenterà l’offerta
migliore.»
Uno degli ufficiali chiuse il suo blocchetto degli
appunti. Lo sentii dire a quell’altro: «Falsa
segnalazione».
Allora vuol dire che qualcuno mi ha denunciata.
L’ispettore Xu si alzò in piedi. «Lei è libera di
andare» disse, indicandomi con un gesto la porta. «Ci
dispiace di averle fatto perdere tempo. Ma dovevamo
seguire la procedura.»
Mi alzai e mi diressi verso l’uscita in uno stato di
confusione, sotto gli occhi di tutti i poliziotti che
affollavano la sala. E come succede nei film mi
aspettavo di sentir dire: «Ah, un’ultima cosa...».
La porta si chiuse alle mie spalle. Corsi giù per le
scale, attraverso l’ingresso e davanti alle sbarre della
cella di sicurezza. Non riuscii a dare nemmeno
un’occhiata alle persone chiuse là dentro.
Uscii nel sole e nel traffico della strada. Quando fui
a qualche isolato di distanza dalla stazione rallentai il
passo e mi fermai sul marciapiede. Era una mattina
limpida e calda. Gli affari andavano avanti come al
solito nell’affaccendata Xita. I pedoni sciamavano
attorno a me. Alzai gli occhi. Un aeroplano stava
tracciando una scia bianca nel cielo blu, come un
pesciolino d’argento.
Grazie, caro padre, grazie di cuore. Grazie per avermi
fatto tanto studiare il cinese quando andavo a scuola.
I caratteri cinesi richiedono anni per essere appresi
a fondo. Quell’ultimo test aveva dissolto ogni dubbio
dalle menti dei poliziotti.
Papà mi aveva salvata.

Ormai sapevo che il mio tempo a Shenyang stava


per scadere. Non potevo restarci più a lungo. Era
troppo pericoloso. Fintanto che non mi fosse venuto
in mente un posto dove andare, avrei dovuto
nascondermi. Dovevo lasciare il dormitorio. Ma per
andare dove? Nessun luogo in città era al sicuro dalla
polizia.
Mentre camminavo, il mio sollievo lasciò il posto
alla depressione. Mi stavo nascondendo sotto un
mucchio di bugie talmente grande che quasi non
sapevo più chi ero. Stavo diventando una non-
persona. Quanto avevo appena vissuto era stato
gravemente disumanizzante. L’apparato poliziesco,
con le sue procedure corrette e le sue domande
trabocchetto, e tutti quegli ispettori con le loro
camicie stirate trovavano giusto e ragionevole
ricacciare quelli che venivano dal mio paese in una
cella del bowibu per essere torturati con i cavi elettrici.
Mi presi la testa fra le mani. Come ho potuto essere
così stupida da dire a qualcuno che venivo dalla Corea del
Nord? Adesso non potevo più fidarmi di nessuno. E
non avevo un luogo in cui sentirmi al sicuro.
Ma nel momento in cui concepii questo pensiero,
mi venne un’idea.
Se la rete per la cattura dei transfughi nordcoreani
veniva gestita dalla stazione di polizia di Xita, sarei
andata a vivere proprio lì. Nessuno avrebbe
immaginato che una clandestina potesse abitare
proprio accanto al luogo in cui venivano pianificate le
retate. Il punto più buio è sotto la fiamma della
candela.
Qualche giorno dopo affittai un monolocale
vicinissimo alla stazione di polizia di Xita. La
distanza fra l’entrata del mio nuovo caseggiato e la
stazione era di non più di cinque passi. Dalla finestra
potevo vedere alcuni dei poliziotti della sala
interrogatori andare e venire nelle loro uniformi blu
scuro. Ero talmente vicina che non si sarebbero mai
presi la briga di setacciare il mio palazzo, nemmeno
in una delle loro retate più capillari.

Due settimane dopo stavo tornando a casa alla fine


di una lunga giornata di lavoro al ristorante. Ero così
stanca che fu un supplizio salire le scale. Frugai in
fondo alla borsa per trovare le chiavi di casa. Sul
pianerottolo non c’era illuminazione.
All’improvviso sentii un rumore nel buio alla mia
sinistra, come se qualcuno si stesse avvicinando di
corsa. Prima che avessi il tempo di reagire, qualcosa
mi colpì forte dietro la testa. L’esplosione alle
orecchie mi stordì il cervello.
Non vidi più niente, poi andai in black-out.
27
Il piano

Riaprii gli occhi in una luce bianca diffusa. Ero


sdraiata su un letto, sul fianco. Un dolore pulsante
dietro la testa. Avevo la nausea. Una dolce voce
femminile mi disse di guardarla. Voltai leggermente
gli occhi e vidi una donna con una mascherina verde
da chirurgo. Il taglio che avevo in testa richiedeva
dieci punti di sutura, mi disse. Mi avrebbe dato un
anestetico e mi avrebbe ricucito per una mezz’ora
circa.
Se non mi sveglio nessuno saprà chi sono, pensai.
La ragazza con tanti nomi e nessuna identità.
I miei occhi si chiusero.

Fu solo dopo un paio di giorni che riuscii a


ricomporre il puzzle di ciò che mi era successo. La
mia vicina di casa aveva sentito dei rumori sul
pianerottolo, era uscita e mi aveva trovata riversa sul
pavimento. Una pozza di sangue si allargava dietro la
mia testa. L’assalitore mi aveva colpita con una
bottiglia di birra e poi era scappato.
Dunque qualcuno mi aveva aspettata nel buio con
l’intenzione di aggredirmi, con una violenza tale che
il colpo avrebbe potuto risultarmi fatale. Chiunque
fosse non mi aveva rubato né il portafogli né le chiavi
che tenevo in mano, per svaligiarmi l’appartamento.
All’ospedale mi dissero che ero stata fortunata,
poiché il mio assalitore mi aveva colpita con una
bottiglia ancora piena. Il vetro di una bottiglia vuota
avrebbe fatto un danno assai più grave. I medici mi
dissero di sporgere subito denuncia. Io risposi che
l’avrei fatto senz’altro, ma non avevo certo intenzione
di andare alla polizia.
La mia amica del dormitorio, Ji-woo, pensava che
dietro l’aggressione potesse esserci la famiglia del
mio ex fidanzato respinto, che in questo modo aveva
cercato di vendicarsi per l’umiliazione subita.
Questo pensiero mi tormentò non poco. Ma più ci
riflettevo meno mi sembrava probabile. La maniera in
cui si era verificata l’aggressione e la scelta dell’arma
– una bottiglia di birra! – non erano cosa cui quella
famiglia avrebbe potuto abbassarsi. La signora Jang
era indubbiamente una donna di classe.
La tempistica, a solo due settimane dal mio
interrogatorio, suggeriva piuttosto che il responsabile
fosse l’informatore che aveva detto alla polizia che
ero nordcoreana, comunicando loro anche il mio
nome e il mio luogo di lavoro. Era solo una
congettura, ma quell’informatore poteva essere
andato incontro a conseguenze spiacevoli per aver
fatto perdere del tempo alla polizia con una «falsa»
denuncia, e forse aveva voluto vendicarsi.

Quando fui guarita tornai al ristorante, ma il


lavoro non mi piaceva più. La mia comoda routine era
andata in pezzi. Ormai non mi fidavo più di nessuno.
Diventavo paranoica ogni volta che un cliente si
mostrava desideroso di chiacchierare un po’ con me.
La mia famiglia mi mancava come non mai. Mi
mancava l’affetto di mia madre: dopo quello che mi
era successo avrei voluto piangere tra le sue braccia.
Mi mancava la compagnia di Min-ho. Non c’era un’ora
al giorno in cui non pensassi a loro. Prima
dell’interrogatorio avevo cominciato a stringere
amicizia con qualche ragazza, ma dopo preferii
starmene per conto mio. Ancora una volta ero sola.
Nel mio nuovo caseggiato mi ritrovai a usare la
lavanderia insieme ad alcuni poliziotti. A volte vedevo
anche il bell’ispettore Xu. Ma lui sembrava non
riconoscermi. Fra coloro che utilizzavano
regolarmente la lavanderia c’era un poliziotto sino-
coreano che mi sorrideva sempre. Cercai di
ricordarmi se fosse stato fra quelli presenti
all’interrogatorio, ma non ne ero sicura e non potevo
certo chiederlo. Sembrava simpatico. Era il sergente
Shin Jin-su, poco più grande di me, non bello ma di
grande effetto nella sua uniforme. Una sera mi chiese
se mi sarebbe piaciuto uscire a cena con lui. L’istinto
mi suggeriva di sorridere e declinare l’invito, ma
dopo quanto era accaduto nelle ultime settimane mi
sentivo spaventata e cinica. Una voce nella mia testa
mi diceva: Perché no? Un alleato nella polizia poteva
sempre rivelarsi utile.
Cominciammo a uscire insieme. Era l’autunno del
2001. I nostri appuntamenti non erano niente di
elegante. Di solito andavamo a un McDonald’s o a un
KFC . Una sera sembrava stanco ma molto allegro.
«Sono esausto» mi disse «e affamato». Si stava
ficcando in bocca un Big Mac con le patatine fritte,
asciugandosi l’unto dalle labbra con il dorso della
mano.
«Perché?»
«Abbiamo dato la caccia ai nordcoreani fin da
stamattina all’alba.» Parlava con la bocca piena. «Ne
abbiamo beccati talmente tanti che ho dovuto saltare
il pranzo.»
E mi raccontò di come alcune di quelle persone
avessero pianto e supplicato vedendosi messe alle
corde, quasi che io avessi potuto trovarlo altrettanto
divertente. «Vi prego, non rimandatemi indietro!»
diceva, imitando l’acuto accento nordcoreano.
Dovetti controllare i muscoli del viso per
nascondere la rabbia. La donna che hai davanti è una di
loro, maledetto bastardo.
Sapevo di non provare un vero affetto per lui: in
realtà pensavo di usarlo per proteggermi. No, non era
una mossa intelligente: mi resi conto che stavo solo
facendo la corte al pericolo.
Dovevo metter fine alla mia relazione con il
sergente di polizia Shin Jin-su. Me ne stavo lì seduta
ad ascoltarlo mentre si vantava del ruolo che aveva
avuto nella retata. Ma fui felice di scoprire di avere un
piano nordcoreano tutto mio.

Erano passati quasi quattro anni da quell’ultima


telefonata di mia madre, e a ogni anniversario di
quella data una valvola si apriva nel mio cuore
inondandomi di tristezza. Ma nell’inverno del 2001,
mentre il quarto anniversario si avvicinava, avevo per
la prima volta una speranza. Quattro anni di vita
frugale significavano che avevo risparmiato
abbastanza per pagare un passatore che si mettesse
in contatto con la mia famiglia a Hyesan. Anche se un
incontro era fuori discussione, volevo disperatamente
mandar loro un messaggio. Fargli sapere che ero viva,
chiedere loro se erano al sicuro, dirgli che gli volevo
bene e che pensavo sempre a loro.
Non avevo altra scelta a parte recarmi a Changbai
e presentarmi a casa del signor Ahn, sperando che la
sua famiglia abitasse ancora là. Il loro numero di
telefono era fuori servizio da anni.
Per questo motivo avevo pensato anche a un piano
B.
Quasi tutte le settimane un ricco uomo d’affari
sino-coreano cenava al ristorante e spesso si fermava
a chiacchierare con me. Era generoso, e piaceva a
tutto il nostro staff. Una sera, mentre si stava
rilassando, dopo cena, con una sigaretta e un
bicchiere di whisky, mi disse che avevo l’aria avvilita.
D’impulso, gli raccontai che avevo dei parenti in
Corea del Nord e che desideravo comunicare con
loro. «Perché non me l’hai detto prima?» rispose lui.
«Ho dei contatti, conosco della gente.»
E con discrezione mi presentò un passatore cinese
esperto nel far uscire la gente dalla Corea del Nord,
perlomeno quella che poteva permettersi le sue
tariffe. Era un tipo basso e tosto, dall’aria onesta.
Parlava nella maniera cauta e prudente di chi ha una
certa familiarità con il rischio. Io pensavo che non
avrei mai voluto farlo arrabbiare. Mi chiese cosa mi
proponessi di fare. «Vorrei incontrare mia madre e
mio fratello» risposi. Secondo il mio ragionamento,
questo secondo canale avrebbe aumentato le mie
possibilità di successo.
Ma proprio il piano B si sarebbe rivelato un errore
clamoroso.
28
La gang

La donnina fragile che mi aprì la porta era la signora


Ahn. Erano trascorsi quattro anni, eppure sembrava
invecchiata di dieci. Vedendomi si portò le mani alla
bocca e, restando sulla soglia, mi disse che suo marito
era molto malato: costretto a letto, non poteva
nemmeno stare in piedi senza aiuto.
Il viso da allegro pesce palla era irriconoscibile. Il
signor Ahn si contorceva dal dolore e aveva difficoltà
a parlare.
Sua moglie mi spiegò che le guardie di frontiera
nordcoreane lo avevano sorpreso a consegnare delle
merci di contrabbando sulla sponda di Hyesan, lo
avevano avvolto in un sacco e portato alla loro
stazione. Gli avevano detto che lo sapevano che
aiutava la gente a scappare e lo avevano picchiato.
Tanto non avrebbe detto niente alla polizia cinese
perché era un contrabbandiere. «Dopo quanto era
successo non avrebbe più dovuto passare dall’altra
parte» disse la signora Ahn. E invece lui lo aveva
fatto, ed era stato quasi catturato una seconda volta
dalle guardie di frontiera. Che gli avevano sparato
mentre correva sul ghiaccio per tornare sull’altra
sponda, ferendolo a un braccio. Oltre alle
conseguenze della ferita, poi, soffriva anche di
diabete.
Queste notizie erano sconvolgenti, ma quanto
venni a sapere in seguito mi riempì addirittura
d’orrore. Il loro vicino di casa, il signor Chang, quello
che si era tanto arrabbiato quando gli avevo
telefonato, era stato condannato per aver venduto
delle ragazze nordcoreane a dei cinesi come spose o
prostitute. Questo spiegava la sua reazione alla mia
telefonata: all’epoca era già sotto inchiesta da parte
della polizia cinese. Era morto poco dopo aver
cominciato a scontare una condanna a dieci anni di
prigione, e sua moglie era impazzita. Il signor Chang
un trafficante di esseri umani? E pensare che avevo
quasi bussato alla sua porta, quella notte, dopo aver
attraversato il fiume, prima di scegliere invece il
signor Ahn.
La signora Ahn non aveva notizie della mia
famiglia. Erano anni che Min-ho non andava da loro. I
traffici attraverso il fiume erano molto rallentati da
quando, due anni prima, il capo del partito di Hyesan
si era lamentato con Kim Jong-il che la città si stava
trasformando in un ricettacolo del capitalismo e
Pyongyang aveva ordinato un brutale giro di vite.
Molti commercianti erano stati arrestati e condannati
a morte con un processo popolare nell’aeroporto di
Hyesan.
Improvvisamente mi sentii male. Non avevo mai
pensato che mamma e Min-ho potessero essere morti.
La signora Ahn fu molto gentile: disse che avrebbe
chiesto a un contrabbandiere di informarsi sulla mia
famiglia e, se li avesse trovati, di dire a Min-ho di
attraversare il fiume per incontrarmi. Io le assicurai
che gli avrei pagato la sua tariffa.
Era buio quando ero arrivata, e ancora buio quando
me ne andai la mattina dopo. Non riuscii a vedere
Hyesan di là dal fiume, ma percepii la sua presenza.
Ne sentii l’odore: fumo di yontan e abete appena
tagliato. Silenzio e quiete spettrali.
Ormai non potevo fare altro che tornare a
Shenyang, rimettermi al lavoro e aspettare.

Qualche settimana dopo, in un gelido sabato


mattina, ero nel mio appartamento quando la signora
Ahn mi chiamò. Disse che il contrabbandiere aveva
rintracciato la mia famiglia e che Min-ho aveva già
attraversato il fiume. Quello che disse dopo mi
strappò quasi un grido. «È qui, vicino a me.»
Ci fu un trapestio, poi la signora Ahn gli passò il
ricevitore.
«Pronto?» disse una voce.
Trattenni il fiato. Chi è?
«Nuna, sono io» disse la voce usando la parola con
cui i ragazzi coreani si rivolgono alla sorella
maggiore. Ma c’era qualcosa che non andava. Non
sembrava affatto Min-ho. Mi voltai verso la finestra,
cercando di rivedere i tratti di mio fratello riflessi nel
vetro. L’ultima volta che lo avevo visto era un
bambino di dieci anni. Adesso doveva averne
quattordici. «Nuna, devi credermi» disse ancora la
voce. «Ti ricordi quella volta in cui ero passato da
questa parte durante le vacanze scolastiche e poi non
riuscivo più a tornare indietro perché era arrivata
l’onda di piena?»
Finalmente respirai. È lui. Cominciai a ridacchiare
stupidamente e a piangere al tempo stesso. Provavo
un tale amore per lui.
«La tua voce è cambiata» fu tutto quello che riuscii
a dire.
«Anche la tua.»

Mentre andavo alla stazione ferroviaria ritirai tutti


i miei risparmi e li convertii in dollari americani.
Ammontavano a circa ottocento dollari. Una parte mi
sarebbe servita a pagare il contrabbandiere, il resto lo
avrei dato a mio fratello e a mia madre. Pensavo che i
dollari gli avrebbero fatto comodo per pagare le
tangenti. Presi il treno da Shenyang a Changchun, poi
l’autobus per Changbai. Una soluzione più costosa,
ma molto più rapida.
Sul treno veloce e silenzioso guardavo le colline
scivolare via sotto i miei occhi. Avevo la mente piena
di gioiosi pensieri sul prossimo incontro con Min-ho
quando squillò il telefono.
Una voce maschile disse: «I miei uomini hanno
rintracciato la tua famiglia». Era il passatore cinese. Il
sorriso scomparve dalla mia faccia.
Mi ero quasi dimenticata del piano B.
Mi sembrò la peggiore delle sfortune che entrambi
i canali avessero funzionato, così adesso avrei dovuto
pagarli tutti e due.
«Quando vieni a Changbai?»
«Domani» mentii.

Quando arrivai alla casa degli Ahn, al capezzale


del signor Ahn c’era un giovane uomo che si alzò
vedendomi entrare.
Ogni volta che avevo pensato a Min-ho avevo
rivisto mio fratello ragazzino, con il viso liscio e
pulito e il sorriso furbetto. Quel giovane uomo non
gli somigliava affatto. Era più alto, più sviluppato, ma
in lui riconobbi il viso di mia madre. Mi fissava con
intensa curiosità. Poi mi fece quel sorrisetto che
ricordavo, come a dire: Visto? Non sono più un bambino.
Anche a lui dovevo sembrare molto strana, con i
jeans attillati e i capelli con i colpi di sole, uno stile
mai visto nella Corea del Nord. Ci studiammo a
vicenda, cercando di riconoscerci attraverso la distesa
degli anni.
«Sei proprio tu» dissi.
«Sì.» La sua era la voce di un uomo.
Poi scoppiammo a ridere, ci avvicinammo e io
strinsi il suo viso contro il mio. Non riuscivo a
credere di avere di nuovo tra le braccia mio fratello.
Ma prima ancora che potessi chiedergli di nostra
madre si sentì bussare alla porta.
La signora Ahn andò ad aprire. Fuori c’erano
quattro uomini. Nel momento stesso in cui li vidi
capii di essere nei guai.
Indossavano jeans e giubbotti neri, e uno aveva dei
piercing sulla faccia. Non erano sicuramente gente
del posto. Erano membri di una gang.
«Sei tu Soon-hyang?» disse il primo, scorgendomi
dietro la sagoma della signora Ahn. Aveva la testa
rasata. «Noi siamo quelli che hanno rintracciato la tua
famiglia.»
Il passatore cinese ha assunto questi malavitosi?
Feci un passo avanti per affrontarli e, cercando di
non lasciar trapelare l’allarme dalla voce, dissi: «Mi
metterò in contatto con voi domani».
«No, devi venire adesso» disse quello con la testa
rasata. «Non preoccuparti, andrà tutto bene.»
La signora Ahn sembrava scioccata.
Lasciai lì il telefono e la borsa e andai con loro.
Min-ho avrebbe voluto seguirci, ma gli dissi di restare
lì. Dovevo cavarmela da sola.
Mi portarono in un appartamento non
ammobiliato all’altro capo della città. Quello con la
testa rasata mi condusse in una stanza vuota e chiuse
la porta. Mi venne così vicino che potevo sentire il suo
alito.
«Abbiamo trovato la tua famiglia, ma tua madre ci
ha detto che tuo fratello era già partito per incontrarsi
con te a casa del vecchio Ahn. Che tu abbia o meno
bisogno di noi non fa differenza. Noi abbiamo fatto la
nostra parte. Adesso ci devi pagare.»
«Quanto?»
«Settantamila yuan.»
Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Quella cifra
equivaleva a ottomilacinquecento dollari ed era
molto, molto più di quanto possedessi.
«Non ce li ho.»
«Pagherà quel riccastro del tuo uomo d’affari di
Shenyang» disse lui. «Il passatore è stato chiaro su
questo punto.» Mi tese un cellulare. «Chiamalo. Digli
di trasferire il denaro.»
Il cuore mi precipitò in fondo allo stomaco. Il
fraintendimento non poteva essere maggiore.
«Tutto ciò non ha niente a che vedere con l’uomo
d’affari» dissi. «Sono io che devo pagare. Lui mi ha
solo dato una mano. Non lo conosco quasi, non posso
chiedergli dei soldi.»
«Allora hai un problema.»
«Quale?»
«Mettiamola così. Se non paghi, ti rimandiamo
nella Corea del Nord.»
29
Consolazione del chiaro di luna

Le persone solidali che ho conosciuto in Cina, a volte,


hanno manifestato il loro stupore per il fatto che la
dinastia dei Kim sia riuscita a tiranneggiare la Corea
del Nord per quasi sessant’anni. Com’è stato
possibile? Ma la cosa ancora più strana è: come mai i
loro sudditi l’hanno sopportato?
Di fatto, nel mio paese non c’è una netta
separazione fra leader crudeli e cittadini oppressi. I
Kim governano rendendo le persone complici di un
sistema brutale, coinvolgendo tutti, dal più elevato al
più umile, e sfumando i princìpi morali in modo che
nessuno sia privo di colpe. Un quadro di partito
terrorizzato terrorizzerà a sua volta i suoi subalterni,
e così via lungo la catena di comando: un amico
denuncerà l’amico per paura di essere punito se non
lo fa; un ragazzo allevato con ogni cura diventerà una
guardia capace di uccidere a calci una ragazza
colpevole di aver cercato di scappare perché il suo
songbun è precipitato e agli occhi dello stato lei è
diventata un’inutile, una persona ostile. Persone
qualunque si trasformano in persecutori, delatori,
ladri abituati a usare il terrore che scorre dall’alto per
procurarsi qualche vantaggio o anche solo per
sopravvivere. E pur essendo cinese e non
nordcoreano, un ottimo esempio di questo
meccanismo era il criminale che mi trovavo di fronte,
a pochi centimetri dalla mia faccia: che aveva il potere
di salvare le persone, di essere un eroe, e invece usava
il terrore per ottenere un beneficio e danneggiare gli
altri. Quell’uomo mi aveva messo su un crinale:
Pagami, o spingo.
Lo dissi di nuovo. «Non ho quella somma. Se
riducete la tariffa posso venirvi incontro. Altrimenti
non posso farci niente.»
Ero assolutamente rassegnata. L’uomo deve
avermelo letto negli occhi, perché mi lasciò in pace e
andò a conferire con gli altri. Attraverso le pareti
sottili potevo sentire quasi tutto ciò che veniva detto
nella stanza accanto.
«Se vuoi ricavarne dei soldi, non devi toccarla»
stava dicendo uno.
Poi testa-rasata tornò nella mia stanza e disse che
sarebbe rimasto lì finché non si trovava una
soluzione. Intanto avrebbe mandato qualcuno a casa
degli Ahn a prendere la mia borsa.
Speravo che l’espressione neutra sul mio viso
riuscisse a nascondere il panico. Nella borsa c’erano il
cellulare e tutti i miei soldi. Non volevo che quella
gente li prendesse, o non avrei avuto più niente da
dare a Min-ho e a mia madre, o alla signora Ahn per
pagare il contrabbandiere.
Chiesi a testa-rasata se potevo usare il suo
telefono. Lui mi disse di parlare davanti a lui, così da
poter sentire ciò che dicevo.
Chiamai il numero del mio telefonino, ma non
rispose nessuno. Chiamai ancora. E ancora. Testa-
rasata perse interesse in ciò che stavo facendo e tornò
di là a parlare con gli altri.
Avanti. Vi prego. Rispondete.
Più tardi Min-ho mi avrebbe detto che lui e la
signora Ahn avevano sentito squillare il telefono, ma
non avevano capito cosa bisognasse premere per
rispondere. Non avevano mai visto un cellulare in vita
loro. Alla fine scoprirono come funzionava e Min-ho
rispose.
Parlando sottovoce gli dissi di lasciare il portafogli
nella borsa ma di togliere tutti i soldi, pagare il
contrabbandiere della signora Ahn e tornare il più in
fretta possibile di là dal fiume, a Hyesan.
Uno della banda tornò con la mia borsa. Min-ho
aveva fatto ciò che gli avevo detto.
Più tardi, quello stesso giorno, testa-rasata abbassò
il prezzo a sessantamila yuan e mi disse che me ne
sarei potuta andare solo dopo che avessi pagato tutto.
La stanza in cui mi tenevano non aveva serratura,
così i membri della gang stavano di guardia a turno
mentre gli altri dormivano nella stanza che dava
sull’unica uscita. Fuggire era impossibile.
Quella sera uno di loro andò a prendere degli
spiedini d’agnello e dei ravioli a un take-away. La mia
speranza era che, se avessi tenuto duro, avrebbero
continuato ad abbassare il prezzo. Mi vergognavo
troppo per giocare l’unica vera carta che avessi:
chiamare gli zii di Shenyang. Avrei preferito andare
incontro al mio destino nella Corea del Nord. Dopo il
modo in cui li avevo trattati, come potevo chieder loro
di pagare una fortuna a una banda di criminali?
Cercai di prendere tempo dicendo a testa-rasata
che stavo mandando dei messaggi a certi conoscenti
per riuscire a mettere insieme il denaro.
La terza sera i criminali ne ebbero abbastanza del
take-away e mi portarono in un ristorante della zona,
dove mi fecero sedere fra due di loro in un séparé.
Non riesco a immaginare cosa possono aver pensato
gli altri clienti vedendomi con quei brutti ceffi. I miei
carcerieri sapevano che un’illegale come me non
avrebbe fatto la stupidaggine di chiedere aiuto, o
sarebbe finita in guai ancora più seri.
Dall’accento capivo che il tizio con i piercing era un
cinese Han. Ed era anche quello che mi faceva più
paura. La violenza gli crepitava attorno come
elettricità statica. Cercavo di evitare i suoi occhi. Lui
invece non faceva che guardarmi in un modo che mi
faceva sentire nuda. Due degli altri erano sino-
coreani: soggetti più normali, almeno all’apparenza.
Origliando scoprii che facevano parte di una gang con
base a Yanji, che commerciava in articoli di pelle
contraffatti e anfetamine. Tutti si mostravano
rispettosi nei confronti di testa-rasata. Il suo accento
mi era sconosciuto. Forse era di Dandong.
Più tardi, quando mi riportarono all’appartamento,
stapparono delle birre e brindarono con bicchierini di
soju. Sentivo il continuo ticchettio di un accendino, e
immaginai che stessero fumando della droga: ma
qualunque cosa fosse era evidente che non li stava
calmando. Anzi, divennero sempre più aggressivi, e
ben presto orribilmente volgari. Avevo un nodo allo
stomaco.
Poi quello con i piercing ricordò agli altri che c’era
una ventunenne chiusa nella stanza accanto.
Per un attimo calò il silenzio. Poi lo sentii dire:
«Chissà cosa starà facendo».
Per favore, no.
Fino a quel momento ero stata in quella strana
modalità d’emergenza che avevo già sperimentato
nella stazione di polizia di Xita, e che mi permetteva
di controllare la paura fingendo di non essere lì. Ma
ormai non ci riuscivo più. Avevo il respiro corto e il
mio corpo cominciò a tremare. Se fossero entrati nella
stanza mi sarei messa a gridare.
Sentii un movimento, come se gli uomini si
stessero alzando dal pavimento. Andai a schiacciarmi
in un angolo. Li avrei pregati e supplicati.
Si erano rimessi a parlare. Quello con i piercing
chiese perché diavolo mi stessero trattando così bene.
Uno dei sino-coreani disse: «È come se fosse una
cliente. Se combiniamo un casino potremmo perdere
i nostri soldi».
Uno degli altri borbottò delle parole di assenso.
Testa-rasata non disse niente. Ci fu un altro brindisi a
base di soju. Poi quello con i piercing sembrò
rimettersi a sedere, e la conversazione riprese.
Per tutta la notte rimasi accoccolata nel mio
angolo, con le braccia attorno alle ginocchia,
immobile, guardando la luna avanzare attraverso la
finestra, setosa e vaga dietro le nuvole come il
bozzolo di una farfalla. Era la stessa luna che
vedevano mamma e Min-ho. Mi dissi che, fintanto che
fossi rimasta immersa nella sua luce, sarei stata al
sicuro.
Al sicuro. Pensai al mio quasi-fidanzato poliziotto
di Shenyang, il sergente Shin Jin-su. Mi domandai
cosa avrebbe fatto se gli avessi chiesto aiuto, se gli
avessi detto la verità sul mio conto. Il pensiero
dell’espressione scioccata della sua faccia mi fece
quasi sorridere.

All’alba chiamai mio zio a Shenyang. Era la prima


volta che gli parlavo da quando ero scappata da casa
sua. Con voce fragile di paura e di vergogna, gli chiesi
di aiutarmi. Gli dissi che avrei dedicato tutta la vita
all’impegno di ripagare il mio debito.
«Lo farò immediatamente» disse lo zio. Avrebbe
trasferito i soldi sul conto della banda.
Cercai di ringraziarlo, ma le parole mi restarono in
gola. Quell’uomo aveva gli stessi geni di mio padre, lo
stesso amore e la stessa generosità che avevo sempre
visto in papà.
Dovevamo aspettare due giorni perché i soldi
potessero essere incassati. Notai che erano sempre i
due sino-coreani a farmi la guardia, mai quello con i
piercing. Evidentemente non si fidavano di lui. Per
mia fortuna.
Dopo quasi una settimana di prigionia, mi
portarono in una banca di Changbai dove ritirarono i
soldi.
Gli occhi di quello con i piercing scintillarono nel
vedere la grossa mazzetta di rosse banconote da 100
yuan infilate in una busta. Abbracciò i suoi soci. «Oh,
abbiamo guadagnato bene!»
Testa-rasata mi accompagnò alla stazione degli
autobus. Prima di andarsene tese la mano e disse:
«Dammi quel cazzo di telefono».
Glielo diedi.
Quando se ne fu andato infilai la mano in una
tasca segreta ricavata nella fodera del mio lungo
cappotto invernale e ne tolsi uno stretto rotolino di
banconote che vi tenevo nascosto. Le usai per
comprare un biglietto per Shenyang.
Durante il viaggio di ritorno appoggiai la fronte al
vetro freddo del finestrino e guardai quel mondo
bianco, una dimensione vuota. Sessantamila yuan,
una fortuna pari allo stipendio di dieci anni al
ristorante, e una settimana di prigionia sotto la
costante minaccia dello stupro, e in cambio avevo
ottenuto solo un incontro di tre minuti con Min-ho.
Ma ero riuscita a stabilire un contatto con la mia
famiglia. Sapevo che erano vivi, e non in prigione. E
anche loro sapevano che ero viva e che, in qualche
modo, stavo bene.

A causa dello stress conseguente alle mie traversie,


per non parlare di un debito che avrei impiegato anni
a restituire, una volta a casa mi ammalai e sviluppai
delle ulcere alla bocca così dolorose che non riuscivo
nemmeno a bere. Ero diventata ansiosa e paranoica.
Volevo allontanarmi al più presto da Shenyang. Avevo
una mezza idea di dove andare, ma pensando a cosa
avrebbe fatto mia madre decisi di rivolgermi a
un’indovina.
«Se te ne vai...» disse la donna, facendo una pausa
a effetto, «devi andare a sud, in un posto più caldo.»
«Come Shanghai?» Non m’importava se le stavo
suggerendo la risposta che volevo sentirmi dire.
Lei pronunciò le parole successive con un’aria di
profonda saggezza, come se non mi avesse sentita
affatto. «Il posto migliore per te sarebbe Shanghai.»
Non avevo bisogno di altre conferme.
Avvisai la padrona di casa. Lasciai il lavoro al
ristorante. Stavo per chiamare il sergente Shin Jin-su
per organizzare un ultimo incontro e dirgli che la
nostra relazione era finita, ma poi cambiai idea.
Presto l’avrebbe scoperto da sé.
All’inizio di gennaio del 2002 impacchettai tutto
ciò che possedevo in due borse leggere, comprai un
biglietto di sola andata per Shanghai e salii sul primo
treno.
30
La città più grande e impertinente
dell’Asia

Presi il treno insieme a una mia conoscente sino-


coreana, Yee-un, che come me si stava trasferendo a
Shanghai. Faceva anche lei la cameriera, e l’avevo
incontrata un paio di volte. Notai che evitava di
parlare del suo passato: andava bene anche per me.
Immaginai che stessimo entrambe scappando da
qualcosa. Yee-un era di buon carattere, e aveva modi
franchi e un grosso vocione. Mi piaceva. Parlando di
come ci saremmo organizzate a Shanghai, ci venne in
mente che avremmo potuto condividere
l’appartamento. Quando ci mettemmo d’accordo su
questo punto sentii che tutta la tensione e l’ansia che
mi dominavano da settimane cominciavano a svanire.
Condividere la casa con Yee-un significava che non
avrei dovuto affrontare ogni cosa da sola. Eravamo
entrambe piuttosto squattrinate, ma ricominciare da
zero non mi sembrava più tanto terribile.
Stavamo ridendo del fatto che avremmo mangiato
solo del cibo in scatola finché non avessimo trovato
un lavoro quando vidi un’uniforme e un berretto
verde della polizia salire all’altro capo del lungo
vagone, e i passeggeri tendere la mano per prendere
giacche e portafogli.
Tutti porgevano al nuovo venuto i loro documenti
d’identità. Perle di sudore freddo mi si formarono
sulla fronte.
Sapevo che quel genere di controlli si verificava
spesso su autobus e treni, ma fino a quel momento
ero stata fortunata.
Il poliziotto approvava ogni documento con un
cenno del capo e avanzava lungo le file di sedili,
sempre più vicino.
Ormai era a meno di quindici metri da noi. Che
fare? Mi sembrava di avere il petto pieno di lana
bollente. Ero in preda al panico. Vidi la bocca di Yee-
un muoversi, ma la sua voce mi arrivava come
sott’acqua.
«Soon-hyang, va tutto bene?»
«Solo un po’ di mal di treno» risposi, e schizzai via
dal mio sedile.
Chiusi la porta del gabinetto e aspettai, ascoltando
il rumore rapido e affilato del treno che entrava in un
lungo tunnel acquistando sempre più velocità.
Quando ne riemersi, un’ora dopo, mi guardai attorno
con attenzione, a destra e a sinistra, fino in fondo al
vagone. Il poliziotto non c’era più.
Trovai Yee-un addormentata sul sedile. Per il resto
del viaggio rimasi seduta dritta, all’erta, con lo
stomaco contratto.

Il treno entrò nella stazione di Shanghai che era


quasi l’alba. Sullo sfondo di un cielo screziato di rosa
intravidi le vaghe silhouette di grattacieli alti mezzo
chilometro: lo skyline di Pudong. Forse perché nel
vagone attorno a me coglievo frammenti di
shanghainese e di altri dialetti, non mi sembrava
nemmeno più di essere in Cina.
Molti dei passeggeri che scendevano dal treno con
grandi borsoni e zaini sulle spalle erano gente come
me e Yee-un: giovani migranti come le migliaia di
persone che arrivano ogni settimana nella più grande
e impertinente città dell’Asia per cominciare una
nuova vita, per diventare qualcuno, per fare fortuna,
per crearsi una nuova identità o anche solo per
nascondersi. A Shenyang, a volte, mi ero sentita una
speciale, segreta visitatrice; lì invece sarei stata
assolutamente insignificante. Questa idea era
alienante ed eccitante al tempo stesso. Lì, forse, avrei
potuto diventare chi volevo essere.
Nel 2002 a Shanghai vivevano circa diciassette
milioni di persone, e la popolazione di etnia coreana
– circa ottantamila individui – ne rappresentava
un’esigua minoranza. Circa un terzo erano espatriati
sudcoreani; il resto erano sino-coreani, come anch’io
fingevo di essere.
Yee-un e io andammo dritte in un distretto
chiamato Longbai, dove c’era una piccola ma
prospera coreatown. Prima di sera, con nostra grande
fortuna, avevamo trovato un angusto, malandato
appartamentino di due stanze per un modesto affitto
mensile senza deposito cauzionale. Aveva un
fornelletto elettrico, un lavandino sgocciolante e la
vista su un cantiere dove scavi e martellamenti
abusivi andavano avanti per tutta la notte.
A noi però non importava. Entrambe sentivamo
che ci veniva offerta una nuova opportunità.
Ci capitano tre grandi occasioni nella vita. Quella
volta sentivo di averne afferrata una.
Il mio piano era di trovare lavoro in un ristorante
fintanto che non mi fosse capitato qualcosa di meglio.
Ancora una volta, tutto sembrava accadere all’istante.
Niente stava mai fermo a Shanghai. Nel giro di una
giornata Yee-un e io trovammo lavoro nello stesso
ristorante: io ero alla cassa, lei serviva ai tavoli.
Per sottolineare questo nuovo inizio cambiai
ancora una volta nome. Decisi di chiamarmi Chae In-
hee. Il mio quinto nome. A Shenyang avevo detto a
troppe persone che ero nordcoreana: avevo bisogno
di seppellire il nome di Soon-hyang.
Yee-un era incredula. «Eh? Perché? Cosa c’è che
non va in Soon-hyang?»
«Un’indovina mi ha detto che questo nuovo nome
mi porterà fortuna.»
Ormai ero diventata una bugiarda provetta, anche
con le persone che mi erano più vicine.

Di giorno i grattacieli di Lujiazui erano grigi e


seminascosti da una nuvola di smog. Di notte erano
luccicanti ostentazioni di colore e cristallo, ciascuno
con un carattere suo proprio, con le cime che
formavano atolli di luce fra le nubi e le basi che
facevano a gara nell’attirare l’attenzione dei passanti
con grandi immagini in movimento: un pallone
calciato in rete da una scarpa Nike, una Coca-Cola
versata in un bicchiere di sfavillanti bollicine LED .
Una sera, non molto dopo il mio arrivo, andai a
fare un giro di vetrine lungo l’esclusivo viale Huaihai
Lu e per un po’ mi aggirai nell’alone dorato di gioielli
carichi di diamanti e lussuosi orologi di marca
occidentale. In quel momento mi resi conto che non
mi trovavo semplicemente in un altro paese: ero in un
altro universo rispetto a quello in cui ero cresciuta. Lì
l’ossessione erano i soldi, la celebrità e la fama. Avevo
temuto che gli altri potessero essere curiosi del mio
passato, ma a Shanghai a nessuno importava da dove
venissi, a patto che non fossi illegale. Qualcuno
faceva fortuna dalla sera alla mattina vendendo
proprietà immobiliari, azioni o merci al dettaglio. La
città apriva le porte a chi avesse coraggio, ambizione
e talento, ma sapeva anche essere insensibile e
crudele con coloro che non avevano il diritto di stare
lì.
Se volevo smettere di fare la cameriera avevo
bisogno di una cosa che tutti i clandestini desiderano:
una vera carta d’identità. Era la mancanza di quel
piccolo, vitale documento a tagliarmi fuori da ogni
nuova opportunità. Senza carta d’identità era
impossibile trovare un nuovo lavoro, meglio pagato e
più soddisfacente.
Nei mesi successivi indagai discretamente fra le
cameriere di coreatown. Molti illegali erano attratti dal
fascino di Shanghai, e spesso era nei ristoranti che
trovavano il loro primo lavoro. Alcune di quelle
ragazze, in un modo o in un altro, potevano essersi
procurate la carta d’identità. Alcune ammisero che i
loro documenti erano falsi, ma io non volevo un
documento taroccato. Era una cosa pericolosa, in caso
di controllo della polizia. L’opzione più sicura era
comprare una carta d’identità vera. Ma per questo
c’era bisogno di un mediatore.
Il primo che incontrai, un contatto di una delle
cameriere, mi chiese l’equivalente di sedicimila
dollari. Gli dissi che poteva scordarselo. Il secondo mi
chiese ancora di più. Quelle difficoltà mi fecero
tornare alla mente la gang di Changbai. Chiunque
sapesse che ero un’illegale poteva trarne vantaggio:
mi avrebbe spennato di tutto ciò che avevo e avrebbe
avuto ben pochi motivi per aiutarmi.
Se volevo evitare i gangster avevo bisogno di una
tattica migliore. Dovevo costruirmi una storia.

Una mite, fresca primavera lasciò il posto al


torpore dell’estate del mio primo anno a Shanghai.
Yee-un e io ci stavamo rinfrescando dopo il lavoro in
una gelateria quando un uomo seduto a un tavolino
poco lontano cominciò a flirtare con noi. Era un sino-
coreano sulla trentina, proprietario di un negozio a
coreatown. Mi resi conto che era leggermente brillo.
Non so come, la conversazione ebbe come oggetto
sua zia.
«Fa la sensale di matrimoni per donne che
vogliono sposare uomini sudcoreani» disse. «Ci
credereste?»
Istintivamente vidi aprirsi una possibilità. «Mi
piacerebbe studiare nella Corea del Sud» dissi. Yee-
un si girò dalla mia parte e mi fissò come se mi fosse
spuntata una seconda testa. «Ma sono troppo vecchia
per un visto studentesco. Dovrei togliermi qualche
anno. Ma non so come fare.»
«Con una nuova carta d’identità» disse l’uomo
completando il mio pensiero. Forse stava solo
cercando di far colpo su due ragazze carine in una
gelateria, ma all’improvviso sembrava ansioso di
darmi una mano.
«Glielo chiederò. Vediamo un po’ cosa mi dice...»
E si fece lasciare il mio numero di telefono.

Passarono le settimane, l’estate si prolungò fino a


settembre, poi svanì in un tiepido, piacevole autunno
e mi dimenticai dell’uomo della gelateria. Poi, in
novembre, mentre si avvicinava la fine del mio primo
anno in città, un numero sconosciuto fece squillare il
mio telefono.
Ci misi un po’ a capire di cosa stesse parlando la
donna all’altro capo della linea. Era la zia dell’uomo
della gelateria.
Mi chiese di andare a trovarla a Harbin. Mi avrebbe
procurato una nuova carta d’identità.
«Grazie» dissi. Harbin... ma dov’è?
«A un migliaio di chilometri da Shanghai, nel
remoto Nordest, ecco dov’è» mi spiegò Yee-un
quando glielo domandai. E si fece una bella risata.
Alla direttrice del ristorante raccontai che mia
madre era in ospedale e che dovevo correre da lei. Poi
comprai un biglietto ferroviario per Harbin. Il viaggio
verso il Nordest richiese quasi due giorni. Dal mite
inverno di Shanghai, assolutamente poco vestita,
arrivai nel Nordest ricoperto di neve e sotto zero. Mi
fermai a Harbin solo un paio d’ore, il tempo di
incontrare una signora piccola, talmente imbacuccata
nella pelliccia da somigliare a un animaletto della
foresta, farmi una foto ufficiale e riprendere il treno.
Un mese dopo la posta mi recapitò una busta. La
aprii, e mi ritrovai fra le mani la mia carta d’identità.
Il mio nuovo nome era Park Sun-ja.
Sun-ja. Sospirai. Il mio sesto nome.
Quell’identità era appartenuta a una ragazza sino-
coreana malata di mente, come mi spiegò la signora
di Harbin. I suoi genitori volevano racimolare un po’
di denaro vendendo la sua carta d’identità per poterla
curare. Mi costò tutti i miei risparmi, ma adesso ero
finalmente uscita dall’illegalità.
Quasi avesse percepito il mio nuovo status, nel
giro di qualche giorno la città avrebbe alzato il sipario
su un lato della vita assai più radioso.
31
Una donna in carriera

Più o meno una settimana dopo aver ricevuto la carta


d’identità, trovai un lavoro pagato quasi quattro volte
quanto prendevo come cameriera. Venni assunta in
qualità di interprete e segretaria in un’azienda
tecnologica sudcoreana che produceva compact disc e
LED . L’ufficio era a coreatown. Il mio capo era uno dei
direttori sudcoreani, e rientrava nelle mie mansioni
accompagnarlo nelle visite ai clienti e agli impianti
manifatturieri. Notai che i cinesi guardavano i
dirigenti sudcoreani da sotto in su e gli rivolgevano la
parola con molto rispetto. Quello che sapevo per
certo era che guardavano dall’alto in basso i
nordcoreani.
Tutto era successo molto rapidamente. Dalla sera
alla mattina ero passata dal servire ai tavoli al sedere
in sale riunioni, fare da interprete nei negoziati e
imparare come funzionano un’azienda moderna e la
cultura del mondo degli affari. Incontravo clienti e
acquirenti da Taiwan e dalla Malaysia e socializzavo
con i colleghi sudcoreani. Le amiche di quando facevo
la cameriera mi conoscevano con il nome di In-hee.
Nel nuovo lavoro usai il nome della mia carta
d’identità e degli altri miei documenti, Sun-ja. Avrei
dovuto fare molta attenzione a che questi due mondi
non entrassero mai in rotta di collisione.
I prodotti della ditta erano fabbricati in un
impianto molto moderno persino per gli standard di
Shanghai. L’intero processo era realizzato in un
ambiente libero dalla polvere: per entrare dovevamo
passare attraverso una macchina speciale che soffiava
via i contaminanti dai nostri vestiti.
I sudcoreani mi trattavano bene. Non riuscivo
nemmeno a immaginare quale sarebbe stata la loro
reazione se avessero scoperto che ero cresciuta fra i
loro arcinemici. A volte la cosa mi sembrava surreale.
In fondo eravamo tutti coreani, condividevamo la
stessa lingua e la stessa cultura, eppure tecnicamente
eravamo ancora in guerra.

Cominciai a rilassarmi e a godermi un po’ la vita.


Economicamente ero più sicura, anche se sulle mie
spalle gravava ancora l’enorme debito con lo zio, che
cominciai a restituire in rate mensili. Iniziai a
vestirmi elegantemente per quanto potevo
permettermi. Vedevo che le donne d’affari di Nanjing
Lu davano molta importanza ai vestiti e portavano
accessori eleganti. Cominciai a prendere lezioni di
guida e presi la patente. Poi l’affitto del nostro
appartamento divenne troppo alto per Yee-un, che se
ne andò, e io tenni il posto tutto per me.
Mi sentivo più sicura. Finalmente non vivevo più
nell’ombra.
L’unica nube nel mio cielo era l’assenza della
famiglia. Ormai erano passati più di cinque anni
dall’ultima telefonata di mia madre, e il dolore e il
desiderio che provavo non si erano leniti. Dopo
quanto era successo a Changbai avevo paura di
tornarci. Non avevo alcun piano. Un senso di
profonda rassegnazione si era insinuato dentro di
me. Il sentiero che portava verso mia madre e mio
fratello si faceva ogni giorno più buio e più vago. Non
ero nemmeno sicura di poterlo ritrovare ancora.
Avevo ventidue anni. Se fossi rimasta nella Corea del
Nord mi sarei laureata alla facoltà di economia di
Hyesan, e probabilmente avrei avuto un lavoro nel
settore governativo come mia madre, e una casa sul
fiume, e una rete di contatti commerciali condivisa
con zii e zie. Sarebbe poi stato tanto brutto?
Scacciai questi pensieri dalla mente.

Con la mia nuova identità mi sentivo abbastanza


sicura da andare a mangiare in due ristoranti di
Shanghai gestiti direttamente dalla Corea del Nord.
Quello vicino a casa mia, a coreatown, era il Morangak;
l’altro, nel centrale Hotel Jianguo, era il Pyongyang
Okryugwan. Questi ristoranti erano un modo con cui
il regime cercava di procurarsi valuta estera pregiata.
Le cameriere erano selezionate per la loro lealtà, il
loro songbun e la loro bellezza. E siccome erano molto
popolari tra i sudcoreani, sospettavo fossero anche
una copertura per gli agenti del bowibu incaricati di
spiare le comunità coreane all’estero.
La prima volta che entrai al Pyongyang Okryugwan
e mi sedetti a un tavolo mi sentii a casa. Le cameriere
parlavano il coreano con un accento che mi era
familiare, e portavano i capelli nella foggia
tradizionale della Corea del Nord, rimasta
praticamente immutata dai tempi della guerra con gli
Stati Uniti. Nel modo di trattare i clienti erano gentili
ma riservate. Sapevano di essere controllate dalle loro
stesse colleghe, e che socializzare con i clienti era
proibito. Immaginai che, la notte, fossero confinate in
un dormitorio senza il permesso di uscire.
Una di loro mi serviva spesso e, contro tutte le
regole, cominciò a trattarmi con una certa familiarità.
Era di Pyongyang. Una volta mi lasciò attonita
dicendo che sperava di farsi rifare il seno lì a
Shanghai.
«Potrai lasciare il lavoro per l’operazione?»
Lei abbassò la voce. «Non ho ancora chiesto, ma
può essere.»
La cosa mi stupì non poco. Alcune regole si
potevano anche infrangere, ma non in quel caso.
Dopodiché mi scoprii a studiarle il viso.
«Ti sei rifatta anche gli occhi!» esclamai.
Aveva le «doppie palpebre», un intervento
piuttosto comune tra le donne coreane per far
sembrare gli occhi più grandi.
«Sì.»
«Qui?»
«A Pyongyang.»
Lasciai quasi cadere il bicchiere. Da quando in qua
l’élite di Pyongyang aveva accesso alla chirurgia
estetica? Sembrava una cosa quasi oscena, data la
povertà e la fame in cui viveva buona parte della
popolazione.
I clienti sudcoreani che visitavano la nostra
azienda spesso chiedevano di essere portati in quei
ristoranti, e il comportamento di alcuni degli uomini
mi metteva a disagio. Recita un vecchio proverbio
coreano: «Dal Sud l’uomo, la donna dal Nord», vale a
dire che gli uomini più belli vengono dal Sud della
penisola, ma le donne più carine vengono dal Nord.
Quel proverbio sembrava confermato dalla bellezza
delle cameriere, la cui assoluta indisponibilità aveva il
potere di trasformare alcuni degli uomini in
romantici idioti. Spesso infatti si innamoravano, e
tornavano una sera dopo l’altra per rivedere la
ragazza di cui erano invaghiti. Io stessa vidi alcuni di
loro regalare a una ragazza piccole, eleganti scatoline
di gioielleria di marche lussuose. Con mia grande
sorpresa, le cameriere sorridevano civettuole e
accettavano il dono. Immaginavo che i ristoranti
ammettessero quel comportamento e subito dopo
sequestrassero i regali a beneficio dello stato
nordcoreano. Quegli uomini non solo stavano
inconsapevolmente donando oggetti preziosi al
regime di Pyongyang, ma mettevano le ragazze in una
posizione compromettente e potenzialmente
pericolosa. Credo però che nessuno di loro intuisse il
rischio che correvano quelle donne se avessero deciso
di tenersi ciò che volevano. Una di loro, però, di lì a
poco l’avrebbe scoperto.
Una sera del mio secondo anno a Shanghai,
arrivando al Pyongyang Okryugwan, lo trovai chiuso.
Il mattino dopo nel mio ufficio girava voce che una
cameriera fosse scappata con uno dei clienti
sudcoreani della nostra azienda, un amico del
direttore. Dimostrando poco buon senso, l’uomo
aveva nascosto la ragazza nel suo appartamento. I
nordcoreani avevano denunciato la sua scomparsa
alla polizia, la quale aveva interrogato lo staff,
identificato il cliente e fatto irruzione a casa sua.
Entrambi erano stati estradati, lui nella Corea del Sud
e lei nella Corea del Nord, incontro al suo destino. Io
non scoprii mai chi fosse quella cameriera, ma avevo
la brutta sensazione che potesse essere la simpatica
ragazza che voleva rifarsi il seno. Due mesi dopo il
ristorante riaprì con il personale completamente
rinnovato.

A volte a Shanghai mi sembrava di dimenticare che


ero nordcoreana. I miei amici erano tutti sino-coreani
o sudcoreani che avevo conosciuto nel mio ambiente
di lavoro. Io socializzavo come se fossi stata una di
loro. Parlavo un fluente mandarino con accento sino-
coreano. Perfino la mia carta d’identità confermava
che ero sino-coreana. Il lavoro mi piaceva e
finalmente sentivo di aver imboccato una curva
ascendente della vita. Nessuno in tutta la città
conosceva la mia vera identità.
A scuotermi da questa pericolosa distrazione fu un
incontro inaspettato.
Accadde durante la pausa pranzo in un’affollata
via di coreatown, quando una sonora voce d’uomo
disse alle mie spalle: «Soon-hyang?».
Mi sentii gelare, ma non riuscii a fare a meno di
voltarmi per vedere chi fosse. Lo riconobbi subito: era
l’uomo d’affari del ristorante di Shenyang che mi
aveva messo in contatto con il passatore cinese, una
persona che probabilmente sapeva bene che venivo
dalla Corea del Nord. Mi sorrideva, in attesa che dessi
segno di averlo riconosciuto.
«Deve avermi confusa con un’altra» dissi, e mi
allontanai.
La paura mi alitava sopra come un refolo d’aria
notturna. Interpretai quell’episodio come un segno
che non dovevo abbassare la guardia. Non ero poi
così al sicuro: il mio passato poteva afferrarmi di
nuovo in qualsiasi momento. Per giorni e giorni, dopo
di allora, evitai di andare a coreatown all’ora di pranzo.
Qualche settimana più tardi fui riconosciuta una
seconda volta, e fu un incidente molto più serio.
Accadde a una festa cui ero andata con una collega
di lavoro, la quale mi aveva detto che si festeggiava il
compleanno di un affascinante signore di Shenyang
che lei conosceva appena. Quando arrivammo la
musica era assordante e gli alcolici scorrevano a
fiumi. Fui accompagnata attraverso una stanza piena
di gente per conoscere il padrone di casa. Non
appena lo vidi, sbiancai. Lo conoscevo, aveva un
ristorante a Shenyang. L’avevo incontrato più volte, ed
ero anche uscita la sera con lui e altre persone.
Setacciai il mio cervello a caccia di una scusa, girai sui
tacchi e mi allontanai. Ma era troppo tardi. Ormai mi
aveva vista.
«Soon-hyang!» esclamò. Aveva gli occhi spalancati
per lo stupore. «Stento a crederci!» Era sinceramente
contento di vedermi. «Cosa ci fai qui?»
La mia collega mi lanciò un’occhiata perplessa.
«Soon-hyang? No» risposi io ridendo. «Non sono
Soon-hyang, ma sono ugualmente felice di
conoscerla.»
L’uomo pensò che lo stessi prendendo in giro. Mi
ci vollero vari minuti per convincerlo che non ero la
Soon-hyang di cui parlava. La mia collega ascoltò
tutta la conversazione. Se qualcuno al lavoro avesse
capito che non ero chi dicevo di essere ci sarebbero
state delle domande, e i miei documenti sarebbero
stati esaminati.
Alla fine l’uomo si grattò la testa e, cercando di
sovrastare il rumore, disse: «Bene, allora devo proprio
dirti che a Shenyang conosco una ragazza che ti
somiglia come una goccia d’acqua. Probabilmente hai
una gemella. Sicuramente è un segreto che solo tua
madre conosce».
L’avevo quasi scampata quando arrivò un nuovo
gruppo di invitati.
«Soon-hyang!»
Dall’altra parte della stanza una donna mi salutava
con la mano cercando di aprirsi un varco nella mia
direzione.
Mi diede una strana sensazione l’essere
smascherata così pubblicamente. Una sorta di euforia
mista a una nausea che mi contraeva lo stomaco.
«Soon-hyang! Stento a crederci, è passato tanto
tempo!» La donna mi abbracciò, proprio davanti
all’uomo cui avevo appena mentito. «Non sapevo che
saresti venuta.»
Era un’altra conoscente di Shenyang, una donna
che avevo incontrato più volte. Non potevo ripetere la
mia menzogna con una persona che mi conosceva
così bene. Da sopra la sua spalla cercai con gli occhi
la mia collega: era tutta presa in una conversazione e
non aveva sentito la nostra piccola commedia, coperta
dal frastuono della festa. Ma l’uomo di Shenyang, il
festeggiato, mi stava fissando sbalordito. I suoi occhi
dicevano: Perché mi hai raccontato una frottola così
grossa?
Dovevo parlargli.
«Mi dispiace» dissi senza alzare lo sguardo. «Per
favore, non lo dica a nessuno.»
Avrei voluto spiegargli perché avevo mentito sul
mio nome, ma non potevo. Tornai a casa piena di
disgusto per me stessa. Dovunque io vada, anche in un
paese grande come questo, la verità mi riacchiapperà
sempre. Potevo solo cercare di stare un passo più
avanti del destino mentendo e ingannando la gente.
Quella notte, a letto, piansi per la prima volta da
molto tempo. Sentivo la mancanza di un’amica
nordcoreana con cui confidarmi e in cui avere fiducia,
qualcuno capace di comprendere perché mi fossi
comportata in quel modo; una persona che mi dicesse
che non era colpa mia, e che al posto mio anche lei
avrebbe fatto lo stesso.
E come se avesse voluto esaudire la mia preghiera,
il destino me la mandò.

Si chiamava Ok-hee, e ci eravamo frequentate per


un brevissimo periodo a Shenyang. Anche lei
lavorava come cameriera, e apparteneva alla mia
piccola cerchia di amiche nordcoreane. L’avevo
conosciuta poco prima che la polizia mi interrogasse,
dopodiché avevo tenuto un profilo basso cercando di
evitare tutti, specialmente i nordcoreani.
Fui io a notarla per prima, fuori da un negozio di
cosmetici di coreatown. Fu estremamente stupita di
vedermi. Era una ragazza snella, taciturna, con
l’affascinante abitudine di inclinare il capo e
attorcigliarsi i capelli attorno alle dita quando le si
rivolgeva la parola. Davanti a una tazza di tè al latte
shakerato mi raccontò che la sua carta d’identità era
falsa. Soprattutto temeva che le sue difficoltà col
mandarino potessero tradirla. Anche lei si era
trasferita a Shanghai per sfuggire alle autorità di
Shenyang.
In Cina, Ok-hee sarebbe diventata la mia migliore
amica.
32
Un contatto con Hyesan

Non molto tempo dopo aver incontrato Ok-hee,


all’improvviso arrivò una telefonata di Min-ho. E
quanto mi disse cambiò la mia vita.
Fui doppiamente sorpresa di sentire la sua voce,
intanto perché non speravo più di riuscire a parlare
con la mia famiglia, ma anche perché avevo sempre
pensato che sarei stata io a ristabilire il contatto. Non
mi era mai venuto in mente che anche mio fratello
avrebbe potuto farlo. Chiamava dalla casa degli Ahn,
a Changbai.
Dopo un’iniziale esultanza, la mia gioia si smorzò
quando Min-ho mi spiegò la ragione della sua
chiamata. Lui e mia madre avevano dei problemi
economici. I soldi che gli avevo dato a Changbai li
avevano spesi tutti.
«Spesi?» chiesi io, perplessa.
«Sì. Non potresti mandarne altri?»
Quella volta avevo dato loro cinquemila yuan: un
contadino, in Cina, guadagna due-tremila yuan
all’anno. Avevo pensato che quella somma sarebbe
bastata per un bel po’, anche se non avessero
guadagnato nulla col loro lavoro. Dopo anni trascorsi
in Cina, avevo sviluppato un attaccamento emotivo
per il denaro. Ciò che guadagnavo era il frutto di
lunghe ore di duro lavoro; i miei risparmi erano
piaceri procrastinati. I nordcoreani non possono
costruire un rapporto simile con il denaro. E secondo
loro, nel mondo esterno, i soldi sono disponibili in
abbondanza per chi li vuole. Min-ho sembrava
credere che dovevo solo andare in un negozio di
denaro e prenderne dell’altro. Era del tutto inutile
dirgli che avevo appena sborsato una grossa somma
per la mia carta d’identità, che l’affitto era caro e che
avevo un debito esorbitante da restituire a mio zio.
Sospirai e dissi: «Vedrò cosa posso fare».
Min-ho era stato piuttosto vago su che fine
avessero fatto i soldi. Immaginai che mia madre
avesse dovuto corrompere qualcuno. Solo più tardi
avrei scoperto che aveva dovuto aiutare i miei zii.
Alla fine della conversazione, con assoluta
nonchalance, Min-ho lasciò cadere un’altra bomba,
una richiesta che avrebbe cambiato ogni cosa.
«Ah, e non potresti mandarci anche un cellulare?»
E aggiunse che la gente, nelle zone di confine,
aveva cominciato a usare il cellulare per telefonare in
Cina usando la rete cinese. Una cosa illegale,
ovviamente.
Ci misi un po’ a digerire la sua richiesta.
Il giorno dopo comprai un Nokia e una sim card e
li mandai al signor Ahn perché li desse a Min-ho
insieme a mille yuan in contanti.
La prima volta che chiamai quel numero rispose
Min-ho. Mi pareva di sognare. Adesso passerà il telefono
a mia madre.
«Min-young?» Era da molto tempo che nessuno mi
chiamava con quel nome. «Sei tu?»
Sentivo la sua voce, ma lontana, come se stesse
parlando da un altro mondo.
«Omma» dissi, usando il termine coreano per
mamma.
«Sì?»
«Sei proprio tu?»
Esattamente com’era successo con Min-ho quando
avevo sentito la sua voce al telefono, ebbi il sospetto
che non fosse lei, che si trattasse di una trappola. «Sai
dirmi che ora era l’ultima volta che ci siamo viste?»
La sua risposta mi suonò calda e familiare.
«Te ne andasti subito dopo cena, alle sette in
punto, il 14 dicembre del 1997. E avevi quelle
maledette scarpe nuove.»
A questo punto toccò a me ridere. «Come puoi
ricordarlo con tanta precisione?»
«Come potrei dimenticare la sera in cui ci hai
lasciati?»
Ricorda esattamente il giorno e l’ora. Un nodo mi
strinse la gola. Mi sentivo malissimo. La mia Omma.
Poi toccò a lei. Anche la mamma temeva che
potessi essere una truffatrice. Avevo perso il mio
accento nordcoreano. Mi fece delle domande delle
quali solo io potevo conoscere la risposta. Alla fine,
cercò di dire qualcosa ma inciampò sulla parola figlia.
Non riusciva più a parlare. Scoppiai a piangere. Fiumi
di lacrime calde mi scivolarono lungo le guance e mi
caddero in grembo. Tenemmo il telefono contro
l’orecchio, a migliaia di chilometri di distanza,
ascoltando quel silenzio rattenuto senza dire una
parola.
Quando rifletto sul dolore che ho causato a mia
madre mi rendo conto che si tratta di qualcosa che
non posso conoscere fino in fondo. Forse un giorno,
quando avrò dei figli, potrò cominciare a
comprendere almeno in parte la sua disperazione.
Ascoltare la voce di mia madre mi riportò a una
sorta di verità originaria, come se mi fossi ancorata
saldamente a un ormeggio. Per anni il mio senso
d’identità era andato alla deriva. A Shenyang mi era
capitato di pensare a me stessa come a una sino-
coreana; a Shanghai ero arrivata al punto di pensarmi
come una sudcoreana. La sua voce aveva riattivato in
me qualcosa di fortemente legato alla mia vera
identità. Tutte le menzogne in cui mi ero avviluppata
si sciolsero. Ero nata e cresciuta a Hyesan, sulle rive
del fiume Yalu, nella provincia del monte Paektu. E
non potevo essere niente di diverso.
Mamma mi disse che da quando ero partita aveva
parlato con diverse indovine. «Non so dove sia mia
figlia, ma mi manca tanto.» Non poteva dir loro che
ero in Cina.
«Non è nel nostro paese» le avevano detto.
Una aveva commentato: «È come un albero
cresciuto sulla roccia sul fianco della montagna. È
difficile che sopravviva. La ragazza è tosta e
intelligente. Ma è sola».
«Sta bene, non devi preoccuparti per lei» aveva
detto un’altra. «Vive in Cina ed è la moglie di un
nobiluomo.»
Mamma mi disse anche che aveva invitato in casa
uno sciamano per celebrare i tradizionali riti di
buona fortuna. Era il suo modo di tendere le braccia
verso di me, nel vuoto, con un po’ di diffidenza e
ricavandone solo un breve conforto.
«Mia figlia» disse.
Prendemmo l’abitudine di telefonarci tutti i fine
settimana. Mamma mi chiamava, io non rispondevo e
la richiamavo a mia volta. Parlavamo per un’ora o due.
A volte parlavamo così a lungo che a un certo punto
mi addormentavo. La sua voce era molto rassicurante.
Il costo di quelle chiamate ammontava a circa
centocinquanta yuan al mese, ma spendevo anche
trecento yuan per una sola telefonata.
Mancavo da così tanto tempo che ci vollero
settimane perché mamma mi informasse di quanto
era successo a Hyesan nel frattempo.
Quando era andata a denunciare la mia scomparsa,
la polizia era stata molto sospettosa. Omma aveva
dovuto distribuire molte bustarelle. Dopodiché, come
avevo temuto, lei e Min-ho erano stati messi sotto la
stretta sorveglianza del banjang, dei vicini e della
polizia locale. Avevano dovuto trasferirsi in un
quartiere di Hyesan dove nessuno li conosceva. Al
lavoro mamma aveva ricevuto una promozione: non
un segno di favore, bensì un modo per portarla a più
stretto contatto con le autorità affinché potessero
sorvegliarla più da vicino. Un giorno un collega le
aveva sussurrato che nei tre anni precedenti gli era
stato ordinato di presentare dei rapporti settimanali
su di lei. L’aveva avvertita di stare in guardia. La
mamma allora aveva lasciato il lavoro all’ufficio
governativo per dedicarsi agli stessi traffici di cui si
occupava zia Carina: trasportare via ferrovia delle
merci cinesi per venderle a Pyongyang e a Hamhung.
Mamma ammise di aver cominciato a dubitare del
partito e del sistema in generale, ma lo fece usando
un linguaggio in codice. In tutte le nostre
conversazioni dava sempre per scontato che il bowibu
potesse essere in ascolto. Effettivamente la polizia
segreta stava cercando di scoprire le persone che
usavano illegalmente i cellulari, ma non aveva ancora
la tecnologia per intercettarne il segnale.
Il bowibu era già stato a farle visita, e quando mia
madre me ne parlò trovai l’episodio particolarmente
inquietante.
Un giorno, tornando dal lavoro, mamma aveva
trovato due agenti in borghese che l’aspettavano
insieme a Min-ho. Quello più alto in grado aveva
cominciato a farle delle domande su di me.
«È stato estremamente gentile» mi disse. «Una
cosa davvero agghiacciante.»
L’ufficiale le aveva chiesto di poter vedere una mia
foto, e mamma gli aveva mostrato l’album di famiglia.
Lui aveva guardato attentamente ogni singola pagina.
«È molto bella» aveva detto. «Potrebbe raccontarmi
ancora una volta com’è sparita?»
Mamma gli aveva ripetuto quanto aveva già scritto
nella denuncia alla polizia.
Poi l’ufficiale le aveva fatto un’offerta incredibile.
Se ero in Cina, aveva detto, ed ero disposta a pagare
cinquantamila yuan, potevo tornare in Corea del
Nord e riavere la mia vecchia vita senza essere
accusata di niente.
Sembrava molto conciliante, ma mamma non
accettava l’idea che dovessi tornare ammettendo
pubblicamente dov’ero stata. Aveva tutta l’aria di
essere una trappola. Mamma era rimasta aggrappata
alla versione secondo cui ero scomparsa.
Ciononostante mia madre era convinta che io
potessi tornare nella Corea del Nord senza
ammettere niente, e desiderava fortemente che lo
facessi. Si era già rivolta alle autorità per verificare
cosa sarebbe successo se fossi ricomparsa.
«Hanno risposto che, siccome eri ancora
minorenne quando te ne sei andata, non hai
commesso alcun reato.»
«Ma i loro fascicoli dimostreranno che sono
ufficialmente sparita per diversi anni.»
«Possiamo pagare per far modificare i fascicoli.
Ascoltami, ormai hai un’età in cui dovresti pensare a
sposarti. E devi sposarti nella Corea del Nord.»
«Credi che sarebbe sicuro, per me, tornare?»
«Ci penserò io a renderlo sicuro.» Su questo non
aveva dubbi.
Questa conversazione si ripeté più e più volte.
Tornare a Hyesan, ricongiungermi a lei e ai miei zii,
sembrava un sogno. Ma davvero potevo varcare il
confine in gran segreto e poi andare a denunciarmi
alle autorità, come suggeriva mia madre, dicendo che
quando ero andata via ero solo una bambina e quindi
non avevo commesso alcun reato? Più ci pensavo, più
ero tentata di tornare a casa e vivere la vita che avrei
dovuto vivere. Ma ogni volta un’insistente vocina che
avevo nella testa mi fermava. Una parte di me sapeva
che mia madre e io ci stavamo solo illudendo. Tornare
ora, dopo tanti anni, era follemente pericoloso.

Una volta mamma mi chiamò per farmi una


richiesta preoccupante. Di solito ci parlavamo nei fine
settimana, ma quella volta la sua telefonata arrivò di
giorno, mentre ero al lavoro.
«Ho messo le mani su qualche chilo di ghiaccio»
disse. Il suo tono di voce era particolarmente eccitato.
«Cosa?» Sprofondai nella mia poltroncina,
sottraendomi alla vista dei miei colleghi.
Voleva sapere se in Cina conoscevo qualcuno che
potesse venderlo.
Il «ghiaccio» erano cristalli di metanfetamina, che
nella Corea del Nord avevano da tempo sostituito
l’eroina come modo d’elezione con cui lo stato si
procurava valuta pregiata. Si tratta di una droga di
sintesi che, diversamente dall’eroina, non dipende da
coltivazioni ma può essere prodotta con un buon
grado di purezza in laboratorio. Molti
tossicodipendenti, in Cina, assumono cristalli di
metanfetamina prodotti nella Corea del Nord. Come
l’oppio in passato, quella sostanza, per quanto
illegale, era diventata una sorta di moneta alternativa
utilizzata anche per doni e tangenti.
«Omma» dissi in un sussurro furioso. «Ma cosa
stai dicendo? È illegale!»
«Be’, molte cose lo sono.»
Nel suo mondo, la legge funzionava al contrario.
La gente doveva per forza infrangerla se voleva
sopravvivere. Il traffico di stupefacenti è un reato
gravissimo nella maggior parte dei paesi, e la sua
proibizione è finalizzata a proteggere la società. In
Corea del Nord è considerato alla stregua di un
parcheggio in sosta vietata, solo più pericoloso. Una
cosa che, se riesci a farla franca, non fa male a
nessuno. Nel mio paese l’unica legge che conti
davvero, e per la quale sono previste sanzioni
pesantissime in caso di violazione, riguarda la lealtà
nei confronti della dinastia dei Kim. Tutti i
nordcoreani lo sanno. Per mia madre, la legalità o
meno del «ghiaccio» era una questione d’importanza
secondaria. La droga era solo un altro prodotto da
commerciare.
Mi disse che uno dei grandi trafficanti locali
gliel’aveva portato perché sapeva che ero in Cina e si
domandava se avrei potuto venderlo là.
«Ridaglielo subito. Non farti coinvolgere. In quel
traffico c’è della gente così cattiva che se ti beccassero
non importerebbe a nessuno.»
Non me lo chiese più.
A volte lei e Min-ho non mi chiamavano per due o
tre settimane di fila. In quei giorni non riuscivo a
concentrarmi su niente, convinta che ormai si
trovassero in una cella del bowibu. Non facevo altro
che fissare il telefono, desiderando di sentirlo
squillare. Avevo messo una suoneria speciale per le
loro chiamate: un rap tratto da una commedia
coreana che faceva kong kong da, kong kong da. La
sognavo di notte e immaginavo di sentirla quand’ero
sveglia. Non facevo che controllare il cellulare. Poi,
qualche settimana dopo, il telefono suonava e mi
sentivo travolgere dal sollievo.
«È andata via la luce» diceva a volte mia madre.
«Non abbiamo potuto ricaricare il telefono.»
Era una cosa che accadeva regolarmente, ma ogni
volta non riuscivo a controllare il panico e la
paranoia.

La sera di un fine settimana della primavera del


2004 mi stavo godendo una lunga chiacchierata con
mia madre sdraiata sul materasso. La TV era accesa,
con il volume al minimo. Mentre parlavamo, però, ero
distratta dalle immagini che passavano sullo
schermo. Ok-hee era con me, e anche lei le stava
fissando.
«Omma, ti richiamo dopo» dissi.
Afferrai il telecomando e alzai il volume.
Le immagini furono trasmesse di nuovo al
rallentatore. Si vedeva un gruppo di uomini, donne e
bambini mentre cercava disperatamente di passare
davanti a delle guardie e varcare un cancello, quello
dell’ambasciata sudcoreana di Pechino. In qualche
modo quelle persone riuscivano a distrarre i
poliziotti, che tuttavia erano abbastanza veloci da
balzare su di loro impedendogli di raggiungere il
territorio diplomatico sudcoreano. Alcuni di quei
disperati riuscivano a passare, ma proprio all’ultimo
istante una guardia agguantava una donna per la
falda del cappotto e la faceva cadere a terra con una
violenza impressionante. Il poliziotto l’afferrava per
la vita e la trascinava via, mentre una delle scarpe
della donna rimaneva sul selciato.
L’annunciatrice del telegiornale disse che erano
nordcoreani richiedenti asilo.
Asilo?
Ok-hee e io ci guardammo, ammutolite.
33
Conversazioni con l’orsacchiotto

Nei mesi seguenti i notiziari televisivi mostrarono


altri eventi simili che si verificavano davanti alle
ambasciate di altri paesi a Pechino, e perfino un fatto
che ebbe come scenario una scuola giapponese. A
volte nessuno dei nordcoreani riusciva a varcare il
cancello, e tutti venivano trascinati via dai poliziotti e
dagli agenti in borghese. I loro volti disperati mi
colpivano profondamente. Quei vani tentativi di
richiesta d’asilo venivano filmati dalle organizzazioni
per i diritti umani per sottolineare quanto la Cina
fosse crudele nel non considerare i nordcoreani come
richiedenti asilo.
Ripensavo alla filippica di mio zio contro la Corea
del Nord quand’ero appena arrivata a casa sua, a
Shenyang, più di sei anni prima, e alle bizzarre verità
che mi aveva rivelato sulla guerra di Corea e sulla vita
privata di Kim Jong-il. Allora mi ero rifiutata di
credergli. Ma anche in quel momento la mia mente si
chiudeva di fronte alla realtà del regime nordcoreano.
Tranne quando era la mia famiglia a essere colpita,
non avevo mai voluto sapere. Pensavo che le persone
scappassero a causa della fame o, come nel mio caso,
per un vago senso di curiosità. Non mi era mai
venuto in mente che potessero fuggire per ragioni
politiche. Ripensai ai due registi sudcoreani che
avevo conosciuto a Shenyang, i quali si erano offerti
di pagare i passatori pur di trovare un transfuga
intenzionato a raggiungere la Corea del Sud. Io avevo
reagito con freddezza perché non volevo indossare i
panni di un’esotica creatura arrivata dal Nord e
costretta a esibirsi in una conferenza stampa. Non
avevo idea dei crudi dati numerici: ogni anno erano
migliaia le persone che cercavano di scappare, la
maggior parte delle quali non voleva nemmeno vivere
in Cina ma nella Corea del Sud.
Il cellulare mi aveva cambiato la vita mettendomi
in contatto con la mia famiglia. E altrettanto fece
Internet permettendomi di conoscere ciò che il
mondo diceva della Corea del Nord. Cominciai a fare
qualche discreta ricerca dalla postazione di un
Internet café. All’inizio furono indagini piuttosto
limitate, ma quasi subito appresi che i nordcoreani
che cercavano di entrare nella Corea del Sud erano
talmente tanti che a nessuno di loro veniva chiesto di
tenere una conferenza stampa.
Ormai vivevo a Shanghai da oltre due anni e grazie
ai miei colleghi avevo imparato molte cose sulla
Corea del Sud. Guardavo spesso delle serie televisive
sudcoreane. Alcune davano una sorta di dipendenza,
al punto che dopo il lavoro Ok-hee e io ci
precipitavamo nel mio piccolo appartamento per
guardarle insieme sdraiate sul materasso. Ma non
avevo mai immaginato me stessa nella Corea del Sud
finché non avevo visto quei disperati dare l’assalto ai
cancelli di un’ambasciata. Erano persone che
rischiavano la vita. Doveva valerne la pena.
Più ci pensavo, più l’idea di vivere nella Corea del
Sud mi sembrava eccitante. Io ero coreana, e lo erano
anche loro. In Cina, per quanto il mio mandarino
potesse essere fluente e la mia carta d’identità legale,
sarei sempre rimasta una straniera. Ben presto questo
divenne il principale argomento di conversazione fra
me e Ok-hee. L’idea aveva preso piede anche in lei. Ce
l’avremmo fatta a raggiungere la Corea del Sud
insieme?

Per quanto mi riguarda sapevo che non avrei mai


fatto niente di così eroico come assaltare i cancelli di
un’ambasciata. Più semplicemente, con la mia carta
d’identità sino-coreana pensavo di poter richiedere
un visto e prendere un aereo per Seul. Su Internet,
tuttavia, appresi che ottenere il visto non era affatto
facile. Bisognava convincere i sudcoreani che me ne
sarei tornata in Cina e non sarei rimasta illegalmente
nel paese.
Ok-hee aveva dei contatti con altri nordcoreani che
vivevano a Shanghai da clandestini (per me, invece,
lei era l’unica che conoscessi in città). Così fu lei a
trovare un passatore. L’uomo ci diede un semplice
suggerimento: lei e io avremmo dovuto farci passare
per sudcoreane che avevano perso il passaporto,
denunciarne lo smarrimento alla polizia, poi andare
all’ambasciata sudcoreana di Pechino e farcene
rilasciare un altro. Il passatore ci avrebbe preparato i
documenti necessari, ma voleva un anticipo di
diecimila yuan per ciascuna di noi. Dopo una lunga
discussione in un caffè di Longbai, davanti a una
tazza di tè al melone e al latte di soia, Ok-hee e io
decidemmo di accettare. Ci demmo il cinque a
vicenda. Quella sera andai a letto con un senso di
predestinazione.
Il giorno dopo, comunque, mentre facevamo la
coda allo sportello bancario per ritirare il denaro da
consegnare al passatore, Ok-hee era ancora più
taciturna del solito e continuava ad attorcigliarsi i
capelli. La conoscevo abbastanza bene per sapere che
era nervosa.
«Non sono sicura che funzionerà» confessò.
«L’indovina mi ha detto che non è nel mio destino,
stavolta, lasciare il paese.»
«Vedrai che funzionerà» risposi io. Mi sentivo
molto sicura di me.
«Penso che abbiamo solo il cinquanta per cento di
possibilità. Può andare in entrambi i modi.»
Aveva paura che il passatore potesse prendersi i
nostri soldi e sparire, oppure che i documenti che ci
avrebbe procurato fossero così evidentemente fasulli
da risultare inutilizzabili.
Le dissi che stava diventando paranoica. Io invece
ero convinta che avessimo delle buone possibilità; e
se tutto fosse andato bene, ben presto avremmo
potuto cominciare una nuova vita. Avrei ancora
potuto chiamare mia madre usando la rete cinese, e
addirittura recarmi a Changbai una volta ottenuto il
passaporto sudcoreano. Ingenuamente pensavo che
se la Corea del Sud non mi fosse piaciuta sarei potuta
tornare a casa. In fondo ero ancora giovane, e mamma
cercava sempre di convincermi a tornare.
In realtà le paure e le superstizioni di Ok-hee
erano più che giustificate. La fortuna, come avrei
scoperto presto, non arrideva alla nostra impresa.

Mi preparai a chiudere con Shanghai e a liberarmi


delle mie cose. C’era qualcosa di irrevocabile, in tutto
questo, che trovavo inquietante, e che si mescolava a
un profondo senso di colpa. Sapevo che mia madre
sarebbe stata decisamente contraria all’idea che io
andassi nella Corea del Sud.
Nei giorni seguenti questi pensieri avvitarono il
mio umore in una spirale discendente. Ma fu il
risultato di un check-up di routine a farmi cadere in
depressione. Quando mi dissero che il livello di
zuccheri nel mio sangue era pericolosamente alto, mi
convinsi di essere in procinto di morire. E anche
allora, proprio come era successo dopo l’aggressione
a Shenyang, pensai che se fossi morta in quel
momento, sola nel mio appartamento, nessuno
avrebbe saputo dire chi ero. E mamma avrebbe
trascorso il resto della vita a cercare di ritrovarmi. I
pochi soldi che avevo in banca non le sarebbero mai
arrivati.
Smisi di pensare alla Corea del Sud. Smisi di
pensare a tutto. La notte stavo sdraiata sul materasso,
senza dormire, guardando le luci fluorescenti che mi
facevano l’occhiolino dal nuovo palazzo d’uffici
costruito a meno di cinque metri dalla mia finestra.
Pensavo al suicidio. Non volevo parlare con nessuno,
nemmeno con Ok-hee.
Così comprai un orsacchiotto per tenermi
compagnia. Poiché temevo di svenire, e quindi di
morire, mentre stavo mangiando, lo tenevo a tavola
proprio di fronte a me, in modo che potesse
vegliarmi. Dapprima non gli dissi niente, ma una
sera, dopo il lavoro, cominciai a parlare con lui come
se fosse un bambino, in lunghe conversazioni
balbettanti. Per scacciare la solitudine dal mio
appartamento regolai un timer in modo che la TV si
accendesse trenta minuti prima del mio rientro. Mi
criticai per quello spreco di elettricità inutile, ma poi
decisi che non m’importava. Convinta com’ero che
sarei morta senza dire nemmeno addio alla mia
famiglia, trascorsi un mese sprofondata nell’angoscia.
Decisi di dare fondo ai miei risparmi comprando
degli abiti costosi. Per una volta voglio darmi alla bella
vita, pensai. Non potevo dire a mia madre che ero
malata: aggiungere qualcosa al suo dolore non
avrebbe tolto niente al mio. Progettai di sospendere
le telefonate con lei fino all’ultimo momento. Pensai a
come spiegare quel silenzio, e decisi di dirle che stavo
per partire per un altro paese da dove non avrei più
potuto chiamare la Corea del Nord.
Dopo un mese Ok-hee e le altre amiche
cominciarono a preoccuparsi e mi chiesero di ripetere
le analisi del sangue. Stavolta i risultati erano
normali. A quanto pare il picco di zuccheri nel sangue
del primo test era dovuto al fatto che la notte
precedente non avevo dormito. I medici mi diedero il
cessato allarme, e tutto ciò che mi rimase di
quell’episodio fu un mucchio di vestiti
esageratamente costosi.
L’autocommiserazione e l’abbattimento non mi
abbandonarono subito. Ma fu un evento di Hyesan a
sconvolgermi e a farmi uscire da quello stato d’animo.
34
Le tribolazioni di Min-ho

Preparandomi a lasciare Shanghai avevo spedito un


po’ di soldi e quasi tutti gli oggetti che possedevo
all’indirizzo del signor Ahn, e quando il carico arrivò
a destinazione mi recai di persona a Changbai. Era la
prima volta che tornavo in quella città dopo la brutta
avventura con la banda dei passatori.
Arrivai in una limpida notte di ottobre del 2004.
Ferma sulla riva del fiume, tra gli alberi, guardai
dall’altra parte la Corea del Nord. Hyesan era
immersa nel buio, le montagne nere contro le
costellazioni. Quella che stavo guardando avrebbe
potuto essere una foresta, più che una città. Era come
se il cielo fosse la sostanza e la città il vuoto, il niente.
Il mio paese si estendeva davanti a me quieto e
silenzioso. Mi sentivo immensamente triste per lui.
Sembrava privo di vita come un mucchio di cenere
spenta. Poi, a una distanza remota, una piccola brace:
le luci di un camion solitario che percorreva una
strada deserta.
La signora Ahn mi accolse dandomi la notizia che
il marito era morto. Aveva lottato a lungo per
rimettersi dalle ferite, ma il suo diabete era
peggiorato. La cosa mi colpì più di quanto mi sarei
aspettata. La donna mi invitò a entrare. Vidi le
stampelle del signor Ahn e i miei occhi si riempirono
di lacrime. Ero cresciuta sapendo di quell’uomo,
appena oltre il fiume, una persona gentile di cui mia
madre si fidava. Era diventato la mia ancora di
salvezza in Cina, l’unico collegamento con la mia
famiglia, il mio passato, il mio vero io.
La signora Ahn mi aiutò a sistemare le cose che
volevo mandare dall’altra parte. Erano oggetti di uso
quotidiano, ma rari e preziosi nella Corea del Nord. Il
mio ferro da stiro, l’asciugacapelli, qualche gioiello,
delle vitamine in pillole, un profumo di Chanel e altri
frammenti della mia vita finirono in due grossi sacchi
blu e in uno più piccolo, bianco. Poi arrotolai tutti i
contanti che avevo, sia i dollari americani sia gli yuan
cinesi, e li infilai nel sacco bianco. A questo punto
chiamai Min-ho e gli chiesi quando dovessi mandare
il tutto.
«Domani.»
«In pieno giorno?»
«Non preoccuparti. Con le guardie andrà tutto
bene.»
La signora Ahn ingaggiò due contrabbandieri per
portare i sacchi sull’altra sponda del fiume. Quando
tornarono, ci dissero che Min-ho era là ad aspettarli.
Tutto era andato liscio. Tirai un sospiro di sollievo, li
pagai e restammo in attesa della chiamata di Min-ho.
Ma non arrivò.
Non telefonò nemmeno il giorno dopo. Camminai
lungo la riva del fiume scrutando attentamente
Hyesan. Era la prima volta da quando l’avevo lasciata,
tanti anni prima. Vidi un paio di jeep militari e un
bue che trainava un carretto lungo la strada. Non ne
avevo mai visti, in città, quando ci abitavo. Vidi anche
un ritratto sorridente di Kim Il-sung sulla fiancata di
un palazzo lontano, l’unica macchia di colore. Ogni
cosa sembrava povera e fatiscente. Non era cambiato
nulla. In Cina, niente restava mai uguale a se stesso.
Ovunque c’era una tale frenesia di costruzione e
rinnovamento che una città poteva diventare
irriconoscibile nel giro di un anno.
Non riuscivo a stare ferma. Passavano le ore e la
mia disperazione non faceva che aumentare.
Qualcosa doveva essere andato storto. Attesi altri due
giorni a Changbai, alloggiata in un albergo
economico, l’unico che avevo trovato aperto la notte
in cui ero arrivata. Ma non riuscivo a dormire per la
preoccupazione, e anche perché le pareti erano così
sottili che potevo sentire gli uomini della stanza
accanto parlare fra loro. Avevano un forte accento
nordcoreano. Non sapevo se fossero agenti del bowibu
o contrabbandieri. In ogni caso avevo un brutto
presentimento, una sensazione di paura e di
catastrofe imminente. Il quarto giorno, ancora senza
notizie di Min-ho, tornai a Shanghai.

Una settimana dopo, mentre uscivo dal lavoro, il


telefono squillò. Era Min-ho.
«Nuna, che cosa ci hai spedito?»
Nessun saluto, solo quella brusca domanda.
«Un ferro da stiro, un asciugacapelli, qualche
vitamina e altra roba» risposi.
Ripetei la lista senza mai menzionare i soldi. Poi
gli chiesi perché non avesse telefonato. Ma lui ignorò
la mia domanda e volle che ripetessi ancora una volta
cosa avevo messo nei sacchi.
«Te l’ho appena detto.»
Riattaccò. Non riuscivo a capire il senso di quella
telefonata.
Il mattino dopo il telefono squillò di nuovo. Sentii
la voce di un uomo.
«Sono un amico di tua madre» disse. La voce era
profonda e rassicurante. L’uomo non aveva l’accento
di Hyesan. «C’è stato un piccolo problema con gli
oggetti che le hai spedito. Io voglio aiutarla a
risolvere il problema, ma ho bisogno di sapere
esattamente quanti soldi c’erano nel sacco.»
Era uno scherzo bizzarro del destino che io fossi
sempre sospettosa e paranoica nei confronti delle
persone più innocenti e benintenzionate, mentre
quando era un vero pericolo a parlare con voce
melliflua al telefono non sospettavo niente.
«Grazie per il suo aiuto» risposi senza riflettere. Mi
ero chiesta spesso se mia madre avrebbe potuto
conoscere un altro uomo: in fondo non aveva ancora
cinquant’anni. E pensai che la voce potesse essere
quella di un fidanzato.
«Prego. Ora, le hai mandato un asciugacapelli, dico
bene?»
«Sì.»
«E un ferro da stiro?»
«Sì.» L’uomo ripassò l’intera lista degli oggetti.
«E che mi dici dei soldi? Quanti ce n’erano?»
«Adesso non ricordo» risposi. «Ma mia madre lo
saprà di sicuro. Farebbe bene a chiederlo a lei.
Apprezzo sinceramente il suo aiuto.»
«Non c’è di che» disse l’uomo, e riattaccò.
Una settimana dopo Min-ho richiamò. Ero in un
supermercato di coreatown a fare la spesa.
«Sei stata brava, Nuna» disse.
«Che vuoi dire?»
«Le nostre telefonate delle ultime settimane sono
state registrate.»
Mi bloccai davanti al banco dei carciofi e del pak
choi.
«L’uomo con cui hai parlato era un ufficiale
dell’esercito. Ti chiamava da una sala riunioni. Il
telefono era in vivavoce, così che anche le altre
persone presenti potessero sentirti.»
Le altre persone?
Min-ho mi raccontò che alle due del pomeriggio si
era fatto prestare un’auto per andare a prendere i
sacchi. Con le guardie di frontiera era tutto sistemato.
Ma mentre stava caricando i sacchi in macchina un
ufficiale d’alto grado dell’esercito si era
materializzato in lontananza in sella a una bici, aveva
visto quel che stava accadendo e aveva cominciato a
urlare. Le guardie erano accorse. Min-ho era ripartito
sgommando.
Quella sera, sette o otto militari armati si erano
presentati a casa di mia madre, l’avevano perquisita e
avevano trovato i due sacchi blu ma non il terzo,
quello bianco più piccolo, che Min-ho aveva nascosto
fuori. Lui e la mamma erano stati arrestati e trasferiti
nella caserma dell’Esercito popolare coreano.
Interrogato, Min-ho aveva insistito sul fatto che tutto
era contenuto nei due sacchi blu e aveva negato di
conoscere l’esistenza di un terzo sacco bianco, anche
se l’ufficiale era certo di averlo visto. L’avevano chiuso
in una cella. Poco dopo erano entrati due uomini in
uniforme e avevano cominciato a picchiarlo in testa
con gli sfollagente e a prenderlo a calci. Lui aveva
continuato a negare. Min-ho sapeva quanti soldi
c’erano nel sacco bianco – gliel’avevo detto io –, ma
aveva deciso che preferiva morire piuttosto che
cederli a quei bastardi.
Oh, Min-ho.
Dalla sua cella, mamma poteva sentire le urla e i
gemiti di mio fratello. Sperava che confessasse subito,
ma lui resisteva alle percosse. Un minuto dopo l’altro,
la cosa era andata avanti fino a quando mamma non
era più riuscita a sopportarlo. Allora aveva
cominciato a picchiare sulla porta di ferro della cella,
il più forte possibile, gridando che era pronta a dire
quello che volevano sapere. E aveva confessato tutto,
anche dov’era nascosto il sacco bianco.
L’importo contenuto nel sacchetto pareva aver
colto di sorpresa i soldati. Avevano chiamato un
ufficiale superiore, il quale sostenne di non aver mai
visto una somma così ingente attraversare la
frontiera. Secondo lui doveva trattarsi di un
finanziamento inviato da spie sudcoreane, e io potevo
essere un’agente dell’angibu, i servizi segreti della
Corea del Sud. Era stato allora che avevano chiesto a
Min-ho di telefonarmi. Udendo la mia voce, i militari
si erano scambiati uno sguardo d’intesa. Il fatto che
avessi perduto il mio accento nordcoreano non era un
buon segno, e accrebbe in loro il sospetto che fossi un
agente di Seul.
Quando mi era arrivata la telefonata del
comandante, ovviamente, io non avevo la più pallida
idea di cosa stesse accadendo. La cosa era andata più
che bene, perché le mie risposte e i miei modi
rilassati lo avevano convinto che non agivo per conto
di qualcuno, e che avevo solo voluto mandare alcuni
oggetti e un po’ di soldi alla mia famiglia. Allora gli
ufficiali avevano proposto un accordo a mia madre e a
Min-ho. In circostanze normali, avevano detto,
entrambi sarebbero finiti in un campo di prigionia.
Ma in cambio del loro silenzio sarebbero stati
rilasciati. Mia madre e mio fratello avevano accettato.
Furono restituiti loro l’asciugacapelli e una parte
delle vitamine. Tutto il resto venne sequestrato:
compresi i contanti, i risparmi messi da parte con il
mio duro lavoro.

Ormai erano passati mesi da quando Ok-hee e io


avevamo avuto notizie del passatore che in teoria
doveva preparare i documenti per i nostri «perduti»
passaporti sudcoreani. Dopo quanto era accaduto a
Hyesan, e i continui rinvii, stavamo diventando
sempre più nervose. Ciò che si verificò in seguito mi
convinse che la nostra buona stella stava declinando.
Con una telefonata breve e urgente mia madre
disse che lei e Min-ho stavano lasciando Hyesan per
andare a stare da zia Carina, a Hamhung. Per un po’,
quindi, non sarebbe stata in grado di contattarmi.
Qualche giorno dopo il loro rilascio da parte
dell’esercito, Pyongyang aveva ordinato uno dei suoi
periodici repulisti contro la corruzione e il
capitalismo. Una squadra di investigatori speciali del
bowibu era arrivata in città. I vicini sapevano che mia
madre aveva passato dei guai, dato che avevano visto
degli uomini armati entrare in casa sua. Così
l’avevano denunciata, e le era stato ordinato di
presentarsi al quartier generale del bowibu di Hyesan.
Qui le era stato detto di aspettare, e aveva dovuto
attendere per ore. Mamma sapeva bene che chi
entrava in quel posto a volte non ne usciva più.
Chiese di poter usare il bagno. Poi chiuse la porta a
chiave, uscì attraverso una finestrella, saltò su un
muro e corse giù per la strada. La situazione era
diventata troppo seria perché potesse risolvere tutto
con le solite bustarelle e le sue doti di persuasione.
Mia madre, però, sapeva anche come andavano quei
giri di vite ordinati da Pyongyang: se te ne stavi
defilato, di solito potevi tornare tranquillamente al
tuo posto una volta passata la bufera, senza alcuna
conseguenza. Così chiuse la casa e mi telefonò per
dire che stava partendo.
Ciò sistemò la faccenda. Ogni cosa sembrava
colpita da una malasorte così intensa che cominciai
ad avere paura. Usare dei documenti falsi per
ottenere dei passaporti sudcoreani cominciava a
sembrarmi l’idea più stupida che avessi mai avuto.
Sicuramente sarebbe finita nel peggiore dei modi,
con Ok-hee e me rimpatriate per punizione nella
Corea del Nord. Anche Ok-hee era d’accordo, per cui
chiamammo il passatore e annullammo l’accordo.
Ciò accadde tre mesi prima che mia madre si
sentisse abbastanza sicura da tornare a Hyesan.
Come precauzione regalò un frigorifero cinese nuovo
e una notevole somma di denaro al capo della
squadra investigativa per far cancellare il proprio
nome dalla lista dei sospetti. Quindi fece ritorno a
casa. I vicini che l’avevano denunciata la fissarono
come se avessero visto un fantasma. Mamma dovette
salutare gentilmente quei virtuosi cittadini e
sorridere loro come se tutto fosse stato solo un
innocuo malinteso. «Girava voce che fossi stata
deportata in un campo di prigionia» le dissero. Si
aspettavano che gli ufficiali governativi si
presentassero da un giorno all’altro per prendere
possesso dell’abitazione.
Una volta entrata in casa e chiusa la porta, mamma
si lasciò cadere sul pavimento. Si era resa conto di
dover traslocare ancora una volta, perlomeno in un
nuovo quartiere.
35
Choc d’amore

Un altro anno passò ed ero sempre a Shanghai. Mi


ero trovata un nuovo lavoro, ben retribuito, in una
ditta di cosmetici del distretto di Mihang. Facevo da
interprete al titolare, un giapponese che non parlava
bene né il mandarino né il coreano.
Traslocai in un appartamento più bello a Longbai.
Mi piaceva la mia nuova strada, con i suoi sicomori
ombrosi. Era un quartiere popolare e stimolante, che
conservava alcune caratteristiche tipiche dei
bassifondi di Shanghai. Pensionati in giacca imbottita
stile Mao sedevano fuori dalla porta a giocare a mah-
jong, senza far caso alle ragazze vestite Prada che gli
passavano accanto recandosi al lavoro.
Tutti i miei amici, a eccezione di Ok-hee, erano
espatriati sudcoreani. Uscivamo spesso a cena
insieme, e nei fine settimana facevamo delle gite.
Avevo venticinque anni e non potevo lamentarmi
della mia vita. Il vuoto che avevo dentro poteva
capirlo solo Ok-hee.

Una sera, all’inizio del 2006, i miei amici trovarono


divertente andare a bere qualcosa di esclusivo nello
«sky bar» di uno dei lussuosi alberghi che sorgono
sul Bund. Negli ultimi tempi ne avevano aperti
parecchi, che gareggiavano fra loro per offrire la vista
più mozzafiato dello skyline di Pudong oltre il fiume
Huangpu. Nel gruppo c’era un uomo che non avevo
mai incontrato prima. Quando ci presentarono
avvertii una scossa elettrica attraversarmi dalla testa
ai piedi. Era l’uomo più privo di difetti che avessi mai
conosciuto. Lucidi capelli neri pettinati all’indietro,
un viso ben proporzionato, il naso diritto che finiva
con una punta sottile. Abito di sartoria e gemelli ai
polsini. Si chiamava Kim. Era a Shanghai per affari,
ma viveva a Seul. Sedemmo vicino alla vetrata e ci
mettemmo a parlare. Subito fu come entrare in una
bolla di sapone, quasi fossimo gli unici avventori del
bar, e ci scordammo degli amici seduti lì accanto. Le
luci sfumarono dal rosa all’oro, e il panorama al di là
del fiume cominciò a scintillare illuminando le nubi.
Lui sembrava riluttante a parlare di sé e sceglieva con
cura le parole: una riservatezza che trovavo
affascinante. Quando uno dei nostri amici si
intromise dicendo che per un po’ aveva fatto il
modello, non ne fui affatto sorpresa. Mi piacevano le
sue maniere. Non stava cercando di flirtare, o di fare
colpo su di me, ma nei suoi occhi potevo vedere che
gli piacevo molto. In lui c’era una vena di arroganza,
quella fiducia in se stessi che viene dallo status e dai
soldi. Ma anche quello non mi dispiaceva. Qualcosa
sciolse i vincoli che mi tenevano legata alla terra:
stavo galleggiando a mezz’aria. Dopo quelli che mi
erano sembrati pochi minuti qualcuno ci disse che il
bar stava chiudendo. Eravamo rimasti là per più di
quattro ore. Non avevo mai sperimentato una simile
contrazione del tempo.
Il giorno dopo mi telefonò e mi chiese se avevo
voglia di uscire a cena. Sarebbe rimasto a Shanghai
ancora un giorno prima di tornare a Seul. I miei
sentimenti verso di lui erano già così forti da sapere
che avrei sofferto quando se ne fosse andato, così gli
dissi di no. Temevo di restare ferita.
Quella notte rimasi sveglia, pentendomi di ciò che
avevo fatto. Sei una stupida. Adesso non lo vedrai mai
più.
Il mattino dopo lo richiamai e gli chiesi se aveva
tempo per un caffè prima di prendere l’aereo.
Quando lo vidi che mi aspettava in un bar di Longbai,
e si alzò in piedi per salutarmi, mi sembrò che avesse
attorno un’aura di luce. Gli chiesi se non poteva
rimandare il suo ritorno a casa. Lui fece una
telefonata e rispose che sì, poteva fermarsi ancora
qualche giorno.
Pregai di nuovo, una cosa che evidentemente
sapevo fare solo nelle situazioni estreme. So che
quest’uomo non è un compagno adatto a me. Veniamo da
due mondi diversi. Ma ti prego, fa’ che possa uscire con lui
ancora per qualche giorno.
La settimana seguente passò come in trance. Fino a
quel momento non avevo mai considerato la
possibilità di una storia d’amore: la devozione nei
confronti di mia madre e mio fratello aveva eclissato
ogni altro sentimento. L’impulso sessuale che sapevo
esistere dentro di me era qualcosa che avevo sempre
tenuto nascosto. Di fatto non avevo mai baciato un
uomo.
Per Kim i pochi giorni in più da passare a Shanghai
diventarono un mese. Poi quel mese si trasformò in
due anni. Ben presto affittò un appartamento a pochi
minuti a piedi dal mio, a Longbai. Avevamo
intrecciato una seria relazione d’amore praticamente
dal primo momento in cui ci eravamo visti.
Kim si era laureato in un’università di Seul e
lavorava per i suoi genitori gestendo un piccolo
portfolio di investimenti immobiliari a Shanghai. Mi
aprì una finestra su un mondo che prima di allora
avevo solo sbirciato da lontano. I soldi non erano mai
stati un problema per lui. La sua vita sembrava facile
e tutta in discesa, le sue preoccupazioni
estremamente esclusive (avevano a che fare con
rendimenti catastali, tasse d’occupazione e
presentazioni a funzionari della pianificazione).
Sembrava non rendersi conto del rispetto che la gente
gli dimostrava, perché nessuno l’aveva mai trattato
diversamente. Non aveva difficoltà a farsi assegnare
un tavolo nei più eleganti ristoranti francesi del
Bund. Quando volava in Cina in business class mi
portava con sé.
Ma aveva anche un lato oscuro, come scoprii, una
vena spericolata che sospettavo derivasse dal fatto di
aver sempre corrisposto ai desideri dei suoi genitori
senza mai compiere le sue scelte. Durante una gita a
Shenzen mi portò in un country club privato ubicato
in un finto paesaggio tropicale, con scintillanti
limousine e automobili sportive parcheggiate fuori.
Nel club c’era una discoteca dove alcune donne a
seno nudo ballavano su un palco. Io ero scioccata, ma
lui sembrava solo vagamente annoiato. Ci portarono
una bottiglia di champagne, omaggio della casa. Io
non bevo alcolici, così Kim la bevve tutta da solo. Di
questo suo lato vedevo solo dei lampi occasionali. Per
la maggior parte del tempo Kim era sensibile,
innamorato e taciturno. Discreto fino alla segretezza.
Io invece volevo fidarmi di lui e confidargli i miei
segreti. Ero sempre più sicura che fosse l’uomo che
avrei voluto sposare. Il che significava che la Corea
del Nord era scesa di parecchi punti nella mia lista
delle cose da fare.

Per la prima volta confidai a mia madre che volevo


andare nella Corea del Sud. Non la prese bene.
«Perché mai vuoi andare nel paese del nemico?»
chiese. «La cosa ci creerebbe ancora più problemi.»
Ma sentivo la rassegnazione nella sua voce. Min-ho
e io eravamo uguali, mi disse, due testoni,
disobbedienti e ostinati. Nemmeno il pestaggio in
una cella dell’esercito era riuscito a smuovere mio
fratello. Lei sapeva perfettamente che la
cocciutaggine tipica di Hyesan l’avrebbe sempre
avuta vinta, in me.
«Non ho radici qui in Cina. Questa non è casa mia.
La Corea del Sud, almeno, è Corea.»
«Ma presto dovrai sposarti...»
A ogni anno che passava era sempre più
preoccupata per il mio matrimonio. Aveva cercato un
marito giusto per me, disse, un uomo dal buon
songbun che potesse guadagnare dei bei soldi, e della
cui famiglia ci si potesse fidare per mantenere il
nostro segreto. Mi parlò di candidati di Hyesan che
aveva cominciato a vagliare per conto mio. Ancora
una volta era decisa a corrompere ufficiali e ad
aggiustare documenti affinché potessi ritornare senza
rischiare una punizione. Non ebbi cuore di dirle che
volevo andare nella Corea del Sud per sposare un
sudcoreano di cui ero innamorata.

Circa un anno dopo aver conosciuto Kim lasciai il


lavoro e per un po’ vissi dei miei risparmi. Con tutto
il tempo libero a disposizione cominciai a studiare
sul serio il modo di andare a Seul. Leggendo i post su
un sito sudcoreano curato da dei transfughi vidi che
decine di persone postavano la mia stessa domanda:
«Sono illegale in Cina. Come posso fare per
trasferirmi a Seul?». I disertori che lo avevano già
fatto offrivano consigli. Avevo pensato che nel 2004 ci
fosse stata semplicemente un’ondata di persone che
cercavano di raggiungere la Corea del Sud, ma ormai
era il 2007 e il flusso dei fuggiaschi era inarrestabile.
Chiamai la helpline collegata a quel sito di Seul.
Una signora comprensiva mi diede il numero di un
mediatore.
Pazientemente l’uomo mi spiegò che avevo tre
opzioni. Essendo in possesso di una carta d’identità
cinese potevo farmi rilasciare un passaporto cinese,
disse. Ma siccome ero single avrei poi avuto difficoltà
a ottenere il visto perché non avrei potuto convincere
le autorità sudcoreane della mia intenzione di tornare
in Cina. La strada più semplice, quindi, sarebbe stata
quella di sposare un cinese con dei parenti nella
Corea del Sud che potessero invitarci. Questa ipotesi
la scartai subito. Anche la seconda opzione, però, era
altrettanto poco invitante.
Avrei potuto pagare per un visto falso e volare
direttamente nella Corea del Sud. Mi sarebbe costato
circa diecimila dollari. Un’opzione non solo costosa,
ma anche molto rischiosa. Infatti, se il visto si fosse
rivelato falso mi avrebbero rimandato in Cina e la
polizia avrebbe indagato sul mio conto scoprendo che
tutta la mia identità era falsa.
La terza possibilità era quella di raggiungere un
paese terzo fra quelli che riconoscevano a ogni
nordcoreano che varcasse i suoi confini lo status di
rifugiato politico, per esempio la Mongolia, la
Thailandia, il Vietnam o la Cambogia, e di lì
raggiungere la Corea del Sud. Questa soluzione mi
sarebbe costata circa tremila dollari, ma avrebbe
comportato lunghi periodi d’attesa mentre il mio
status veniva verificato.
Alla fine della telefonata fui travolta da un’onda di
depressione. Nessuna di quelle opzioni mi attirava
particolarmente. Non stavo facendo alcun passo
avanti, ma non mi sarei certo arresa. Dopo quasi dieci
anni di vita in Cina non intendevo più accettare la
situazione in cui mi trovavo. Volevo risolverla. E
volevo sposare Kim.

Qualche sera dopo Kim e io eravamo a cena fuori


con degli amici. Non avevo fame, né mi sentivo
particolarmente socievole. Stavo ancora rimuginando
su quello che mi aveva detto il passatore. I camerieri
servivano enormi granchi al vapore, e noi
piluccavamo la bianca carne dai gusci rosa corallo. A
un certo punto notai che sulla tovaglietta di carta era
disegnato un planisfero con Shanghai al centro. Due
rossi draghi cinesi ondeggiavano lungo i bordi della
tovaglietta. Guardai gli altri paesi di cui mi aveva
parlato il passatore: Thailandia, Mongolia, Vietnam e
Cambogia. Non ero nemmeno sicura di dove si
trovassero. Anche se quei paesi erano in Asia, la Cina
era così immensa che nessuno sembrava
particolarmente vicino a Shanghai.
Kim mi domandò: «Stai bene?».
Risposi che ero solo stanca. Piegai la tovaglietta di
carta e me la infilai nella borsa.

Il mattino dopo mi svegliai alle prime luci


dell’alba.
C’era qualcosa che mi assillava in quella
tovaglietta. La tirai fuori dalla borsa e la distesi sul
tavolo. Guardai a lungo ciascuno dei paesi che il
passatore aveva menzionato.
Una sensazione di formicolio mi si diffuse per
tutta la testa quando capii.
Non ho bisogno di un visto falso. Non ho bisogno di
chiedere asilo in un paese remoto. E non devo nemmeno
sposare un cinese... Devo solo raggiungere l’aeroporto
internazionale Incheon di Seul.
Telefonai a Ok-hee. La sua voce era ancora
addormentata.
«Penso di aver trovato il modo» dissi.

Sapevo che con un passaporto cinese avrei potuto


ottenere un visto per la Thailandia. Se fossi riuscita a
prenotare un volo per Bangkok via Seul, una volta in
transito da quella città avrei potuto dichiararmi
nordcoreana e chiedere asilo. I visti erano per i
visitatori normali. Ma io non ero un visitatore
normale. Ero una transfuga. Per evitare ogni sospetto
al controllo immigrazione di Shanghai avrei dovuto
prenotare anche il volo di ritorno.
Quando Kim e io cenammo di nuovo fuori con i
nostri amici sudcoreani chiesi a uno di loro se quella
rotta fosse praticabile (senza dirgli perché). Lui mi
rispose: «Ma sei impazzita? Chi può voler volare su
una rotta del genere?».
Aveva ragione.
Il mio biglietto sarebbe stato per Shanghai-
Incheon-Bangkok-Incheon-Shanghai: una cosa che
sfidava ogni logica. Come avrei potuto spiegare al
controllo immigrazione di Shanghai che volevo
arrivare a Bangkok, che è a sudest, facendo una
deviazione di duemila chilometri per passare da
Incheon, che è a nordest, quando non avevo un visto
per la Corea del Sud ma potevo solo transitare per il
suo aeroporto?
Dovevo architettare una storia convincente.
Mentre ci pensavo feci domanda per un passaporto
cinese. Arrivò per posta, molto più in fretta di quanto
mi aspettassi.
Poi chiesi un visto per la Thailandia. L’agenzia di
viaggio mandò il mio passaporto al consolato
thailandese di Pechino e mi fu rispedito una
settimana dopo, vistato. Ero quasi pronta al grande
passo: comprare il biglietto aereo per il mio tour
circolare.
Nel frattempo Ok-hee non era riuscita a farsi
rilasciare un passaporto cinese con la sua falsa carta
d’identità. La cosa non poteva funzionare. Così pagò
un passatore per avere un falso passaporto
sudcoreano che sarebbe bastato a farla arrivare ai
controlli immigrazione della Corea del Sud. E optò
per una via diversa, il traghetto da Qingdao a
Incheon.
Restava ancora una cosa da fare. Una questione che
non potevo più rimandare. Dovevo dire a Kim la
verità sul mio conto.
36
Destinazione Seul

In un freddo e soleggiato fine settimana di dicembre


Kim stava preparando il pranzo per noi due nel suo
appartamento. Introdussi l’argomento dicendo che
mi sarebbe piaciuto vivere a Seul.
«Perché?» chiese lui, mentre rosolava il sedano
tritato girandolo con una spatola di bambù. Fece una
smorfia. «I sino-coreani non godono di grande
prestigio nella Corea del Sud.» L’olio sfrigolava nella
padella. «E tu lo sai bene.»
«Sì, lo so.»
Uno dei motivi, anche se speravo di non doverlo
dire ad alta voce, era che così avremmo potuto
sposarci.
Lo guardai aggiungere i calamari, i funghi, sale e
pepe.
«Qui stai bene, molto meglio di quanto staresti a
Seul. Sei cinese. Questo è il tuo paese.»
Non era un inizio incoraggiante.
Un pizzico di sakè e una goccia di salsa di soia e il
pranzo era servito. Era delizioso, ma io mangiai in
silenzio.
«È a questo che pensi ultimamente?» Kim mi
parlava con la bocca piena di cibo fumante. Secondo
lui sarei stata una mezza straniera nella Corea del
Sud perché ero sino-coreana. «Lascia che te lo dica, la
gente laggiù non rende la vita facile alle persone di
etnia coreana provenienti dagli altri paesi. Trattano
come stranieri perfino i coreani-americani, e
guardano dall’alto in basso tutti i cinesi.»
«Ho delle ragioni particolari.»
«E sarebbero?»
Feci un respiro profondo. «Non sono cinese.»
«Cosa vuoi dire?» La ciotola rimase sospesa a
mezz’aria.
«Che non sono cittadina cinese. La mia carta
d’identità è falsa. E non sono nemmeno sino-
coreana.»
Posò la ciotola. «Non ti seguo.»
«Sono nordcoreana.»
Per un lungo momento mi fissò come se avessi
fatto una battuta di cattivo gusto. «Cosa?»
«Vengo dalla Corea del Nord. È per questo che
voglio andare a Seul. Sono nata e cresciuta a Hyesan,
nella provincia di Ryanggang, in Corea del Nord. Ma
laggiù non posso tornare, quindi mi piacerebbe
vivere nell’altra metà della Corea.»
Lasciò cadere le bacchette sul tavolo e si appoggiò
allo schienale della sedia. Poi, dopo una pausa che
pensavo non sarebbe mai finita, disse: «Questo non
me lo sarei mai aspettato. Ti ho sentita parlare con la
tua famiglia un centinaio di volte. Stanno a
Shenyang».
«No, stanno a Hyesan, al confine con la Cina.»
Sbuffò di incredulità.
«Come hai potuto tenermelo nascosto per ben due
anni?» La sua bocca era tesa per il dolore. «Come hai
potuto mentirmi guardandomi in faccia per tutto
questo tempo?» Era sconvolto. Non per aver
finalmente appreso che venivo da un paese nemico
del suo. Ma perché lo avevo ingannato.
«Ti prego, cerca di capire» risposi, tentando di
controllare il tono della voce. «A Shenyang ho avuto
dei problemi e ho rischiato di essere rimandata nella
Corea del Nord perché avevo rivelato a delle persone
la verità sul mio conto. Sono venuta a Shanghai
proprio perché qui nessuno mi conosce. Solo
un’amica nordcoreana sa la verità. E adesso tu.
Nessun altro.»
Di nuovo Kim restò in silenzio, guardandomi come
se mi vedesse per la prima volta. Il sole invernale
entrava obliquo nella stanza scolpendo il suo viso in
netti contrasti di luce, e io pensai che non l’avevo mai
visto così bello. Un po’ alla volta il dolore lasciò i suoi
occhi, sostituito dalla curiosità.
Gli raccontai di come avevo attraversato il fiume
Yalu ghiacciato, e di tutta la mia vita in Cina. Alla fine
lui tese le mani e afferrò le mie. Poi la sua risata mi
sorprese; una risata rilassata, gentile, da «chi-
l’avrebbe-mai-detto». «In tal caso devi assolutamente
trasferirti nella Corea del Sud. Festeggiamo il
Capodanno qui e poi ce ne andiamo.»
Penso di averlo amato in quel momento come non
mai.
Comprai un biglietto per il gennaio 2008.

Mamma restò decisamente contraria, ma si


ammorbidì un po’ quando capì che non era possibile
farmi cambiare idea. Ormai Kim era diventato molto
importante nella mia vita, ma ancora non avevo
trovato il coraggio di parlarne con lei. Mamma
sperava ancora che un giorno sarei tornata a Hyesan.
In quei giorni mi registrai in un sito di transfughi
chiamato People Search per vedere se riuscivo a
rintracciare qualcuno di Hyesan. Digitai il nome
dell’ultima scuola che avevo frequentato e l’anno del
mio diploma, e lasciai il mio indirizzo e-mail. Nel giro
di qualche giorno ricevetti un messaggio da qualcuno
che diceva di essere di Hyesan, anche se non della
mia stessa scuola. Chiacchierammo tramite la chat.
Quando mi disse che stava a Harbin accennai al fatto
che io invece stavo a Shanghai. Ma ero riluttante a
svelare di più. Non lo dissi, ma sospettavo che quella
persona fosse un uomo, e probabilmente un agente
del bowibu operante in Cina.
«Ce l’hai una webcam?» chiese. Doveva aver
intuito i miei sospetti. «Posso accendere la mia
videochat, così potrai vedere tu stessa che sono una
donna e non una spia. Okay?»
Comparve l’immagine. Nella penombra grigio-
rosata c’era una donna sorridente, della mia stessa
età, ma con mia grande sorpresa aveva le spalle e il
petto nudi. Kim, seduto accanto a me, la fissava.
«Sei nuda?» chiesi.
«Sì. Mi dispiace, ma sono al lavoro.»
Kim e io ci guardammo.
«Se mi chiama un cliente devo cambiare subito
chat, e non ho il tempo di mettermi qualcosa
addosso.»
«Uhm, e che razza di lavoro sarebbe?»
«Videochat!» rispose lei allegramente.
Disse di chiamarsi Shin-suh. Anche lei aveva
cercato di raggiungere la Corea del Sud, ma a
Kunming l’avevano beccata e riportata nella Corea del
Nord (Kunming è la città sudoccidentale da cui
passano i nordcoreani diretti a quei paesi del Sudest
asiatico che accettano le richieste d’asilo). Un anno
dopo era scappata di nuovo, e ora stava facendo quel
lavoro per pagare un passatore disposto ad aiutarla a
raggiungere Seul.
«L’hai scelto tu, questo lavoro?»
«No, ovviamente» rispose lei con una risatina
triste. «La maggior parte dei passatori che aiutano i
transfughi in realtà sono trafficanti di esseri umani.
Aiutano a scappare solo le donne, non gli uomini.
Qualcuno li paga per portarle in Cina come spose o
prostitute. Anche quello che sto facendo io è un tipo
di prostituzione, immagino, ma molto innovativo. Lo
preferisco alla prostituzione vera e propria.»
Ormai tutti i miei sospetti erano svaniti.
«Presto andrò a Seul. Se ci riesco, aiuterò anche te
ad arrivarci» conclusi.
Ero davvero determinata ad aiutare quella ragazza.

Man mano che la data del mio volo si avvicinava


diventavo sempre più nervosa all’idea delle
procedure di imbarco dell’aeroporto internazionale
Pudong di Shanghai. Stavo per salire su un aereo per
Seul e avevo solo un visto per la Thailandia.
Kim mi disse: «Se sei preoccupata, chiama
l’aeroporto e domanda».
L’addetto con cui parlai era perplesso. Non sarebbe
stato impossibile passare i controlli, mi disse, ma
difficile sì.
«Innanzitutto guardi la carta geografica. Perché
una persona dovrebbe voler raggiungere la
Thailandia passando per la Corea del Sud? Secondo,
un mucchio di sino-coreani vanno a Seul e non
tornano più indietro. Il che è un problema per
entrambi i paesi. Lei dovrà spiegarci perché desidera
fare così. Se sarà convincente, le metteremo un
timbro sul passaporto e potrà passare.»
Visualizzai l’intero processo dei controlli
all’aeroporto, cercando di anticipare ciò che sarebbe
successo e provando e riprovando le mie risposte.
Avrebbero potuto chiedermi qualsiasi cosa, così
pensai che fosse meglio portare con me tutti i
documenti che avevo insieme al passaporto: la
patente di guida, la carta d’identità, ciò che restava di
una prospera e stabile esistenza a Shanghai.
Ero pronta.

Kim venne all’aeroporto per salutarmi. Avevamo


deciso che viaggiare insieme rischiava di complicare
ulteriormente le cose. «Ti chiamerò da Seul» gli dissi.
Non accennai all’altra possibilità per non attirare la
sfortuna. Pochi minuti e arrivai al banco
dell’immigrazione.
«Lei è diretta in Thailandia?» disse l’uomo
corrucciando le labbra.
«Sì.»
«È uno strano modo di andarci.»
«Scusi?»
«Il suo biglietto è per la Thailandia, ma lei farà
scalo a Incheon. È un modo contorto di viaggiare.»
«Il mio ragazzo è a Seul. E ha prenotato il mio
stesso volo da Incheon a Bangkok» risposi. «Faremo
lo stesso per il viaggio di ritorno.»
L’uomo mi tese la mano. «Faccia vedere la carta
d’identità.»
Ha dei sospetti. Forse pensa che il passaporto sia falso.
Misi sul bancone tutti i miei documenti. La cosa
sembrò funzionare. Ormai ero lì da almeno dieci
minuti, mentre l’uomo controllava il tutto con
attenzione, e stavo bloccando la fila. Ero spaventata,
ma decisa. Dopo quello che mi sembrò un secolo il
funzionario timbrò il passaporto, alzò gli occhi su di
me e lo timbrò una seconda volta. Ripresi i miei
documenti e mi diressi verso l’uscita.
Prima dell’imbarco c’era da aspettare un’ora.
Anche se a Shanghai il clima era mite indossavo un
cappotto imbottito che mi ero messa per il freddo che
mi aspettava in Corea. Sudavo dal nervosismo. Da un
momento all’altro, pensavo, il tizio allo sportello
avrebbe capito che il mio era un sotterfugio.
Sarebbero comparsi dei poliziotti che mi avrebbero
presa e portata via. Non facevo che guardarmi
attorno. Non appena cominciò l’imbarco, corsi in
prima fila. Anche quando ebbi occupato il mio sedile
sull’aereo continuai a tenere d’occhio la scaletta per
vedere se arrivava la polizia. Finalmente il portellone
si chiuse e l’aereo rullò sulla pista, pronto per il
decollo. Tutta la tensione uscì dal mio cervello come
l’aria da uno pneumatico. Sprofondai nel sedile.
Ma nel giro di qualche minuto avevo già
ricominciato ad angosciarmi per quello che sarebbe
accaduto a Incheon. Non avevo i documenti per
uscire. Per anni ero stata una fuggiasca costretta a
nascondersi, e forse quello sarebbe stato il momento
della mia resa. Fui travolta da un brivido di terrore.
Era trascorsa solo un’ora quando il pilota annunciò
l’inizio della discesa. Qualche minuto dopo stavamo
atterrando su Seul. Il cuore mi batteva all’impazzata.
Ero eccitata e molto, molto spaventata.
All’improvviso le nubi si aprirono e vidi
un’immensa città che si stendeva fino all’orizzonte, in
tutte le direzioni. Sembrava un’interminabile
formazione geologica, grandi colonie di stalagmiti
color sabbia con piccole automobili che ci passavano
nel mezzo.
Il confine tra la Corea del Nord e quella del Sud è
corto, e la distanza fra Pyongyang e Seul è di soli
centoventi chilometri. Eppure i due paesi sono
lontani uno dall’altro come da ogni altro paese del
mondo. Pensavo a mia madre e a Min-ho. Li avevo
chiamati il giorno di Capodanno, e Min-ho mi aveva
dato la sconvolgente notizia che la mamma era in
ospedale. Si era gravemente ustionata in un incidente
domestico. Ciò non faceva che peggiorare la mia
confusione e il mio senso di colpa e di perdita.
Il carrello fu abbassato per l’atterraggio.
L’avrei mai rivista?
Parte terza
VIAGGIO NELLE TENEBRE
37
«Benvenuta in Corea»

Mi mescolai alla folla dei passeggeri che sbarcavano


senza sapere dove andare né cosa fare. Sembrava una
gara. Quelli con i trolley sfrecciavano via il più in
fretta possibile. Pochi si staccavano dal gruppo per
riposarsi nelle sale d’attesa, e mi domandai se anche
loro, come me, stessero solo cercando di prendere
tempo prima di incontrare il loro destino alla barriera
dell’immigrazione.
Per tanto tempo avevo immaginato il mio arrivo a
Seul come la fine di un lungo viaggio, ma senza
dedicare nemmeno un pensiero a ciò che sarebbe
accaduto una volta là. Mi ritrovai a precipitarmi in
avanti insieme a tutti gli altri, con piccoli passi
nervosi. Un cartello proprio davanti a noi deviava i
passeggeri in transito lontano dal controllo
passaporti. Il mio biglietto avrebbe dovuto portarmi a
Bangkok, e quindi in quella direzione. Avevo lo
stomaco sottosopra. Inspirai, rallentai un po’ il passo
e mi concentrai sullo scontro che mi aspettava.
I passeggeri si distribuirono in lunghe file davanti
ai banchi dell’immigrazione. Io mi unii a una fila
riservata agli stranieri. Ci muovevamo in avanti con
regolarità, una persona ogni minuto circa, finché non
rimasero che cinque persone tra me e il funzionario
dell’immigrazione. Avevo la bocca secca e i palmi
delle mani sudati. Non sapevo assolutamente cosa
avrei detto. Vidi il funzionario scrutare attentamente
ogni persona, esaminarne il passaporto, controllare
qualcosa su uno schermo. Ancora quattro minuti e
sarebbe toccato a me. Sentii un trambusto alle mie
spalle e osservai la coda allungarsi per l’arrivo dei
passeggeri di un altro volo. Quando mi girai di
nuovo, la fila era avanzata ancora un po’. Solo tre
persone davanti a me. Imbarazzo. Paura. Solo due
persone. Una volta oltrepassata la linea gialla
dichiarandomi richiedente asilo non sarebbe stato
possibile evitare lo scandalo. Solo una persona.
Il coraggio mi abbandonò.
Lasciai la fila e mi diressi in fondo alla coda.
Mentre me ne stavo là notai una stanza alla mia
destra. Attraverso la porta aperta vedevo degli
ufficiali in divisa blu scuro davanti ad alcuni
computer, e tre persone sedute di fronte a loro, due
donne che sembravano venire dal Sudest asiatico e un
uomo dall’aria cinese. Immaginai che ci fosse
qualcosa che non andava nei loro documenti.
Pensai che quella situazione sarebbe stata meno
imbarazzante del banco dell’immigrazione ed entrai.
Nessuno fece caso a me.
Il cuore cominciò a battermi così forte che la voce
mi uscì strana, come quella di un registratore. «Sono
nordcoreana» dissi. «Voglio chiedere asilo.»
Tutti gli ufficiali alzarono gli occhi.
Poi il loro sguardo tornò sullo schermo a cui
stavano lavorando. L’uomo che mi aveva fissata per
primo mi rivolse un sorrisetto stanco.
«Benvenuta in Corea» disse, e bevve un sorso di
caffè da una tazzina di plastica.
Mi sentii sgonfiare. Avevo pensato che il mio arrivo
avrebbe creato un pandemonio. Ma al tempo stesso
dentro di me scattò qualcosa di primitivo: aveva usato
la parola hanguk.
Hanguk – così i sudcoreani chiamano il proprio
paese – significa «paese degli Han», in riferimento
all’antica etnia che vi abitava. Il nome ufficiale è
Repubblica di Corea. Il Nord, invece, chiama se
stesso chosun, un termine che deriva dal tempo del
regno Joseon. Il nome ufficiale è Repubblica
democratica popolare di Corea. L’odio e l’ignoranza
creati da una storia sanguinosa e dalla propaganda di
partito hanno fatto sì che noi del Nord cresciamo
associando hanguk alla parola che significa «nemico»,
e a tutte le cose brutte.
«Hai fatto bene a venire» disse l’agente. «Prego,
aspetta un minuto.»
Tornò con altri due uomini e una donna vestiti con
la stessa uniforme blu scuro. Uno degli uomini aveva
con sé un piccolo scanner. Mi chiesero il passaporto e
lo scannerizzarono. Poi scossero la testa e provarono
di nuovo. C’era qualcosa che non andava.
«Davvero sei nordcoreana?» mi chiese la donna.
Rivolgendosi ai suoi colleghi maschi non aveva usato
formule onorifiche: ne dedussi che era l’ufficiale di
grado superiore, l’agente del controspionaggio.
«Sì, lo sono.»
«Il passaporto e il visto sono autentici» disse
ancora la donna. «I nordcoreani non arrivano qui con
passaporti veri. Di solito ne hanno uno falso.»
«Il passaporto è vero, ma quella non è la mia vera
identità. Io vengo dalla Corea del Nord.»
Allarmata, capii che pensava fossi una sino-
coreana che fingeva di essere nordcoreana per
ottenere la cittadinanza della Corea del Sud.
Poi fu il mio bagaglio a mano ad attirare la sua
attenzione.
«Anche questa Samsonite è vera» disse
bruscamente. «Non è taroccata.» Io non mi ero
accorta del marchio, quindi non capivo perché
chiamasse la mia valigia «Samsonite». L’avevo
comprata perché sembrava robusta. Più tardi avrei
appreso che solo i transfughi vanno in giro con valigie
contraffatte. La donna mi guardò negli occhi come se
mi avesse sorpresa a dire una bugia.
«Adesso devi dirci la verità» intervenne uno degli
ufficiali. «Non è troppo tardi per farlo.» Il suo tono di
voce era amichevole ma anche minaccioso.
«La sto dicendo, la verità.»
«Una volta che sarai sottoposta a indagine da parte
del National Intelligence Service non potrai più
tornare indietro. Se sei cinese, finirai in carcere e poi
sarai rispedita in Cina» aggiunse.
Il NIS era l’agenzia che esaminava i nuovi arrivati
nordcoreani. Avevo sentito dire che, se mi avessero
estradata, avrei dovuto pagare un grossa multa in
Cina. Ma c’era anche il rischio che a quel punto le
autorità cinesi scoprissero il mio inganno e
decidessero di rimpatriarmi nella Corea del Nord.
Ero riuscita ad arrivare a Seul solo per non essere
creduta?
Ho fatto un terribile errore.
Intanto l’uomo continuava. «Devi dire la verità.
Adesso. Non finirai nei guai. Ti lasceremo tornare a
Shanghai.» Poi fece una pausa per lasciarmi assorbire
quell’opzione.
«Sto dicendo la verità. Il mio nome è Park Min-
young. E voglio essere sottoposta a indagine.»
La verità suonava strana e dubbia perfino alle mie
orecchie. Era da più di dieci anni che non usavo il mio
nome.
«Bene» disse la donna scuotendo la testa. «È una
tua decisione.»
Passai le due ore successive a rispondere alle sue
domande, sola con lei in una stanza senza finestre, e
a guardarla prendere nota. Quando pensavo che
ormai avessimo finito, arrivarono altri due uomini in
abiti civili e camicia con il colletto aperto. Erano più
anziani, uno sulla quarantina e l’altro, con i capelli
grigio acciaio, sui cinquanta. Dal modo in cui la
donna li salutò capii che dovevano essere suoi
superiori. Poi la donna se ne andò e i due uomini
ricominciarono a farmi sempre le stesse domande.
Nemmeno loro credevano che fossi nordcoreana.
Nella voce del più anziano c’era una vena di
aggressività.
Ormai ero stanca e cominciavo ad avere fame, e di
tanto in tanto perdevo il filo delle domande.
Che ironia. A Shenyang avevo dovuto convincere un
poliziotto sospettoso che ero cinese e non
nordcoreana. Ora dovevo fare il contrario.
Dopo altre due ore gli uomini mi dissero che
saremmo andati al centro di elaborazione del NIS , a
Seul. Mi accompagnarono a un’uscita secondaria e mi
fecero salire su un’auto con autista. Ormai era quasi
sera. Ero stata all’aeroporto per cinque ore. L’auto era
uno scintillante veicolo civile che odorava di nuovo.
Occupai il sedile posteriore insieme all’uomo più
giovane. Oltrepassammo l’edificio del terminal e
imboccammo una superstrada a sei corsie immersa
nella luce ambrata dei lampioni stradali.
«Questa è la strada che porta a Seul» disse l’uomo
più giovane. Era il più gentile degli ufficiali che mi
avevano interrogato. Il suo collega dai capelli
d’acciaio, seduto davanti, non disse nulla.
Intanto io cercavo di valutare la mia situazione.
Non sono in prigione. Non mi hanno rimesso sull’aereo.
Potevo considerarlo un passo avanti. Ma questo
pensiero fu rapidamente scacciato da un altro, molto
meno consolatorio. Cosa penserebbero i miei amici
rimasti in patria se sapessero con chi sono in questo
momento? Per i nordcoreani l’angibu, come è chiamato
il NIS , è l’infame agenzia che sta dietro tutti i disastri
stradali e ferroviari, dietro il crollo dei palazzi, i
prodotti difettosi, la mancanza di rifornimenti e gli
incendi inspiegabili. Molte persone condannate a
morte, soprattutto fra i quadri d’alto livello, sono
accusate di aver collaborato con l’angibu.
«Abbiamo avuto molto da fare» riprese l’uomo più
giovane. «Questo è il nostro secondo viaggio in
aeroporto, oggi. Appena prima di te sono arrivati
centocinquanta nordcoreani che in questo momento
sono sotto esame.»
«Quanti?»
«Centocinquanta. Ogni settimana ne arrivano
almeno settanta dalla Thailandia e quasi altrettanti
dalla Mongolia e dalla Cambogia.»
Si trovavano ad affrontare una grande ondata di
transfughi, aggiunse, causata da un vasto giro di vite
sui clandestini ordinato dalle autorità cinesi in vista
delle olimpiadi di Pechino.
Poi mi chiese cosa provassi riguardo al paese in cui
mi trovavo in quel momento, e cominciò a darmi
alcune informazioni essenziali su aspettativa di vita,
sistema sanitario, reddito pro capite medio. Sembrava
una tiritera ripetuta chissà quante volte. Il suo scopo
era smontare le false credenze che potevo aver
appreso dalla propaganda, e cioè che la gente nella
Corea del Sud era indigente e perseguitata, e che i
soldati americani di stanza a Seul prendevano
allegramente a calci bambini e disabili. La
propaganda nordcoreana è così grottescamente sopra
le righe che, per smascherarla, i sudcoreani non
hanno alcun bisogno di esagerare. Già negli anni
Settanta, quando la Corea del Sud cominciò a
classificarsi tra le principali economie del mondo, per
disimparare decenni di propaganda ai transfughi
nordcoreani bastava farsi un giro negli impianti
automatizzati della Hyundai o nei grandi magazzini
Lotte di Seul. La cosa funzionava anche con gli
indottrinati commandos catturati dopo il fallimento
delle loro missioni segrete al Sud.
Stavamo viaggiando nel traffico veloce dell’ora di
punta lungo il fiume Han, vicino a Yeoido, un
distretto commerciale pieno di grattacieli: grandi
dormitori scintillanti di luci. Guardando in su
riconobbi un palazzo che avevo visto nelle serie
televisive sudcoreane.
«Il 63 Building» spiegò l’agente. «Un punto di
riferimento. Sessantatré piani. Non li costruiamo mai
troppo alti perché rischierebbero di diventare
l’obiettivo di un attacco nordcoreano.»
Tutta quella luce. Tutta quella ricchezza.
Tutto ciò che vedevo era stato costruito mentre
crescevo a meno di trecento chilometri più a nord.
Scossi la testa mentre la piena comprensione del
luogo in cui mi trovavo si faceva largo dentro di me.
Per un istante mi sentii così eccitata da non riuscire
quasi a respirare. Ero dall’altra parte del mio paese
diviso. Nella Corea parallela. Che era vitale e reale:
paragonate all’ignavia e alla tetraggine del Nord,
tutta quell’energia e quella luce mi lasciavano senza
parole.
Arrivammo al monolitico centro di elaborazione
del NIS . Sentinelle armate montavano la guardia
all’esterno. L’immenso cancello si aprì
automaticamente senza un suono, e io sentii tutta la
mia eccitazione svanire. La mia «vera indagine», come
gli agenti l’avevano definita, stava per cominciare.
38
Le donne

Trascorsi la mia prima notte a Seul in un’enorme cella


di sicurezza insieme a una trentina di nordcoreane.
Nel momento in cui ci entrai tutte quelle facce si
voltarono verso di me, e io seppi di avere un
problema. Quasi tutte le donne erano più anziane di
me. I loro occhi scrutarono i miei abiti eleganti con
palese risentimento. Io venivo dritta dall’aeroporto;
loro sembravano aver trascorso anni dietro le sbarre.
Subito, una di loro mi chiese di darle i miei vestiti.
Venni a sapere che una ventina di quelle donne
erano appena uscite di prigione. Avevano fatto un
epico viaggio attraverso la Cina e fino in Thailandia,
dove erano state arrestate dalla polizia e rinchiuse in
carcere prima di essere consegnate all’ambasciata
sudcoreana. Un’esperienza straziante, che mi
raccontarono in ogni dettaglio. In trecento erano state
ammassate in un locale costruito per contenere cento
prigionieri, dove spesso non c’era nemmeno lo spazio
per sedersi. Se non avevano soldi per comprarsi un
posto migliore, le nuove venute erano costrette a
dormire vicino a una latrina puzzolente. In quelle
condizioni gli umori erano sempre bollenti, e
scoppiavano continuamente delle risse. Le autorità
thailandesi rilasciavano solo una manciata di
detenute alla settimana, quindi l’attesa poteva durare
anche mesi. Poiché le ragazze incinte avevano la
priorità, alcune delle donne più cattive le accusavano
di essere delle puttane che si erano fatte
deliberatamente ingravidare lungo la strada per la
Thailandia. Quei racconti mi sconvolsero. Io avevo
pensato che, una volta usciti dalla Cina per entrare in
qualsiasi altro paese, i transfughi nordcoreani
potessero chiedere asilo senza correre alcun pericolo.
Ma per molte di quelle donne il vero incubo era
cominciato solo dopo la Cina.
L’unica eccezione era costituita da un gruppetto di
donne fuggite attraverso la Mongolia. Le autorità le
avevano trattate molto bene, ospitandole in una
struttura confortevole dove potevano persino
cucinare i pasti da sole.
Tra loro c’era un livello tale di violenza che le
guardie del NIS le avevano avvisate: gli scontri fisici
erano considerati un crimine e avrebbero intralciato i
loro progressi verso la cittadinanza sudcoreana.
Ciononostante, nella nostra cella accesi diverbi
scoppiavano praticamente ogni giorno.
Quasi tutte mi consideravano una rammollita, e
una bugiarda. «Tu non saresti mai sopravvissuta in
Thailandia» era una delle loro frecciatine preferite.
«Non sei nordcoreana, vero?» «Sembri cinese, anche
nella parlata.» Io lasciavo che credessero ciò che
preferivano – non gli dovevo alcuna spiegazione –, ma
quell’atteggiamento mi rattristava profondamente.
Erano sulla soglia della libertà, ma erano così
caustiche che avrebbero potuto sciogliere le sbarre
alla finestra. I nordcoreani hanno un vero e proprio
talento per la negatività nei confronti degli altri, il
risultato di una vita di sessioni di critica obbligatorie.
Spesso saltava fuori l’argomento delle lesbiche.
Venni a sapere che nell’umida calca di corpi della
prigione femminile thailandese tutto accadeva in
pubblico, anche il sesso.
La donna dominante della nostra cella era una
grossa, imponente figura con i capelli tagliati corti
come quelli di un soldato. Le altre la chiamavano la
Bulla. Aveva stabilito la propria supremazia nella
prigione thailandese aggredendo fisicamente tutte
quelle che avevano osato sfidarla. Mi dissero che era
lesbica, e che la sua ragazza era tenuta in una stanza
separata. Lei stessa era sincera al riguardo, ed
espresse subito chiaramente la sua attrazione nei
miei confronti.
Era la prima volta che sentivo dire che nella Corea
del Nord c’erano dei gay. M’imbarazza ammettere che
fino ad allora avevo pensato che l’omosessualità fosse
un fenomeno esclusivamente straniero, o al massimo
un elemento della trama delle serie televisive. Una
donna mi disse che nel nostro paese gli omosessuali
venivano mandati nei campi di lavoro, che soffrivano
nella loro solitudine e non potevano confidarsi
nemmeno con le proprie famiglie. Ignoravo anche
questo. Ma in realtà fu solo la prima delle tante cose
che avrei appreso riguardo alla Corea del Nord. Il
mio risveglio politico era appena cominciato.
Per evitare di essere infastidita adottai dei modi
bruschi e parlai poco. Ma sfortunatamente questi
accorgimenti non bastavano a proteggermi dalla
Bulla. Posso solo immaginare quanto fosse stata
difficile la sua vita nella Corea del Nord, e quanto
avesse sofferto; ciononostante fu proprio lei a rendere
la mia vita in cella un vero inferno. Io sono alta un
metro e mezzo e peso quarantacinque chili. Lei era
talmente grossa che avrebbe potuto schiacciarmi con
un colpo solo. All’inizio cercai di farmela amica, ma
col passare dei giorni le canzonature si trasformarono
in scherno, con una vena sempre più aggressiva ed
esplicitamente sessuale. «Non ti farò niente finché
non ti addormenti» diceva.
Un paio di volte la guardia entrò e le disse di darsi
una calmata. Quella donna mi terrorizzava, ma
sapevo che era importante non mostrarmi spaventata.
Ben presto cominciò a prendermi di mira
praticamente ogni ora. Sembrava non ce la facesse
proprio a lasciarmi in pace. Mi rendevo conto che
avrei dovuto risponderle per le rime, anche se era più
anziana di me e, secondo la cultura coreana, dovevo
portarle rispetto. I suoi scherni mi rendevano sempre
più tesa e nervosa, ma continuavo a nascondermi
dietro una maschera d’indifferenza. Nessuna le
teneva testa, nemmeno le donne più anziane.
Una delle più giovani era una ragazza silenziosa
che si chiamava Sun-mi. Fra noi nacque una sorta di
amicizia. Lei era stata arrestata tre volte in Cina, mi
disse, e ogni volta era stata rimandata nella Corea del
Nord, dove il bowibu l’aveva presa a calci e picchiata
con il manganello chiedendole più e più volte se in
Cina avesse incontrato dei cristiani o dei sudcoreani.
«Cosa sono i cristiani?» aveva risposto lei. «Io non
lo sapevo, così quelli continuavano a picchiarmi.»
Notai che il più piccolo rumore – una porta che si
chiudeva o una sedia che grattava il pavimento – la
spingeva a chiudersi nel bunker della sua mente.
Un pomeriggio, verso la fine della prima settimana
nella cella delle donne, Sun-mi stava guardando uno
dei suoi programmi televisivi preferiti. Io stavo
leggendo un libro. La Bulla entrò, si sedette proprio
davanti a lei, prese il telecomando e cambiò canale.
È buffo come la goccia che fa traboccare il vaso sia
spesso un incidente da nulla.
Sentii una voce urlare: era la mia. La voce si
esprimeva in un linguaggio disgustoso, che non avevo
mai usato in vita mia, rivolgendosi senza alcun
rispetto a una persona più anziana. In una scena che
ancor oggi mi sembra irreale rovesciai su quella
donna un torrente di invettive, le più volgari cui
riuscissi a pensare, trovando dentro di me una rabbia
che non sapevo di possedere. Le altre donne mi
guardavano a bocca aperta. Improvvisamente la Bulla
sembrò sminuita. Non mi fermai finché non restai
senza fiato: nel silenzio che seguì si sentiva solo il
rumore del mio ansimare.
Allora una delle donne più anziane si rivolse a lei:
«Ecco cosa ti sei guadagnata con il tuo
comportamento: la mancanza di rispetto da parte di
una persona più giovane. Sei stata umiliata».

Dopo due settimane una guardia venne a cercarmi.


Era giunto per me il momento dell’interrogatorio
faccia a faccia con un investigatore speciale. Mi
tennero in isolamento in una cella senza finestre. Il
locale era lugubre, ma nel ritrovarmi da sola mi sentii
sollevata. Nella cella c’erano un tavolo di legno, due
sedie e un letto di ferro con una coperta di lana
azzurra e un piccolo cuscino bianco. Era lunga cinque
passi e larga quattro. Una lampadina spoglia gettava
un alone di luce anemica; una piccola telecamera di
sorveglianza mi controllava da un angolo. La porta
era chiusa a chiave. Lì accanto c’era un telefono che
mi metteva in comunicazione con una giovane
guardia che mi avrebbe aperto la porta quando avessi
avuto bisogno del bagno.
La mattina del secondo giorno un uomo di
mezz’età in abiti borghesi entrò, mi diede
un’occhiata, sbirciò nella sua cartelletta e se ne andò.
Un minuto dopo era di ritorno.
«Lei ha ventotto anni?»
«Sì.»
«Si chiama Park Min-young?»
«Sì.»
«E la sua età attuale è ventotto anni?»
«Sì, è esatto.»
Era l’uomo che mi avrebbe interrogato. Mi chiesi
perché mi avesse rivolto la stessa domanda due volte,
e come mai sembrasse confuso. L’informazione che
cercava doveva essere lì tra le sue carte.
Mi chiese di firmare due documenti. Il primo era
un impegno a non rivelare ad altri certi aspetti del
mio interrogatorio; l’altro era per prendere atto che
avrebbero usato su di me una macchina della verità
se avessero avuto il sospetto che stavo mentendo. Ciò
mi rese nervosa, risvegliando il mio terrore infantile
dell’angibu. Pensai che la macchina della verità
potesse comprendere qualche tipo di tortura. Poi
l’uomo mi chiese di mettere per iscritto la storia della
mia vita, il più dettagliatamente possibile. Una specie
di autobiografia, disse. Quel documento avrebbe
formato la base per le sue domande. Mi chiese anche
di disegnare una mappa della parte di Hyesan in cui
avevo abitato. Impiegai un mucchio di tempo per fare
quello che mi aveva chiesto, e ci misi tutti i dettagli
che mi ricordavo.
«C’erano le altalene nel campo giochi della sua
scuola elementare?» mi domandò. Cercava di
confrontare le mie risposte con ciò che il NIS sapeva
di Hyesan sulla scorta delle immagini satellitari.
Spesso non diceva niente e si limitava a fissarmi,
inclinando la testa come se stesse cercando qualcosa.
Una cosa snervante. Mi passò per la mente che fosse
una qualche strana forma di flirt. Dopo quello che le
donne mi avevano detto della prigione thailandese
niente poteva stupirmi. Cercavo di avere
un’espressione impassibile: non volevo suggerirgli
nessuna idea.
Rimasi in isolamento per una settimana. Dapprima
l’esaminatore mi intimidiva, ma dopo qualche giorno
ero impaziente di rivederlo ogni mattina alle nove.
Era la mia unica compagnia. Un pomeriggio, per
avere qualcosa da fare, cominciai a esercitarmi nella
grafia cinese scrivendo i miei pensieri e i miei
sentimenti su un paio di fogli. Descrissi l’opprimente
desolazione dei muri della mia cella ed espressi la
convinzione che una stanza non è completa senza
una finestra. Poi accartocciai i fogli e li buttai nel
cestino. Il mattino dopo una giovane guardia entrò
nella mia cella.
«Sei stata tu a scrivere queste cose?» mi domandò.
Aveva in mano i miei fogli tutti stropicciati.
Dunque controllano la mia spazzatura.
«Cosa c’è scritto?»
«Solo i miei pensieri e sentimenti» risposi.
«Perché, non è permesso?»
«Sì» rispose lui, stupito. «È che io ho studiato il
cinese all’università, tutto qui. E così ho provato a
leggerli. Volevo solo sapere perché li avessi scritti.»
«Perché qui non c’è niente da fare.»

Il mattino dopo, molto presto, la guardia aprì la


porta e mise dentro la testa.
«Sta nevicando. Hai voglia di vedere la neve?»
Mi portò in bagno, aprì la finestra e mi lasciò sola.
Era poco prima dell’alba. Una striscia dorata
all’orizzonte illuminava il bordo inferiore delle nubi;
fiocchi di neve fluttuavano nell’aria come piume
d’oca, una cosa che non avevo più visto da quando ero
bambina. La temperatura era di parecchio sotto lo
zero. Delle luci fiammeggiavano in tutti gli edifici che
potevo vedere, e sparse per la città c’erano delle
luminose croci rosse. Quanti ospedali, pensai. (Solo
più tardi avrei scoperto che la croce può indicare una
chiesa, e non un ospedale: non ne avevo mai viste
nella Corea del Nord o in Cina.) Fu una cosa magica.
Ripensai a quel lontano giorno di temporale ad Anju,
quando avevo aspettato di veder scendere dal cielo la
signora in nero. «Se l’afferri per la gonna ti porterà su
in alto con lei» aveva detto zio Oppio. Io ero rimasta
paralizzata dal terrore che potesse portarmi via, in un
altro reame. E in un certo senso l’aveva fatto: l’altro
reame lo avevo sotto gli occhi.
Il giorno dopo il mio esaminatore mi sorrise per la
prima volta. Le domande erano finite, mi disse.
«Adesso ci credo, che lei è nordcoreana.»
«Come ha fatto a scoprirlo?» Un enorme sorriso mi
si allargò sul viso. Ormai mi sembrava di conoscerlo
da mesi. «Perfino le donne sono convinte che io sia
cinese.»
Lui si schernì con un gesto delle mani. «Esamino
persone da quattordici anni» disse. «Un po’ si diventa
psicologi. Di solito riesco a capire quando una
persona mente.»
«E come?»
«Dagli occhi.»
Sentii il mio viso avvampare. Ecco perché mi
guardava in quel modo. Non stava flirtando con me.
«Eppure lei è un caso curioso» aggiunse. «Fa parte
di quell’uno per cento che ho visto in quattordici
anni.»
Uno per cento?
«Innanzitutto, lei è la prima persona che io abbia
visto arrivare qui in aereo. Secondo, ci ha messo
pochissimo tempo – non più di due ore di volo – e
terzo, non ha dovuto pagare nessun passatore. È
questo che intendo dire. Lei non ha fatto altro che
saltare su un aereo. È stata un’idea sua?»
«Sì.»
«Allora lei è un genio.» Era diventato una persona
diversa, loquace e amichevole. «Sapevo che con lei
sarebbe andato tutto liscio perché non ha mentito
sulla sua età. La maggior parte dei nordcoreani lo fa.
Quelli anziani dichiarano di essere ancora più anziani
per ottenere un qualche beneficio; quelli giovani si
fingono ancora più giovani per cercare di ottenere
una borsa di studio. Lei invece ha dichiarato di avere
quasi trent’anni. Quando sono venuto a interrogarla
mi aspettavo di vedere una persona sui trentacinque
anni, ma lei ne dimostrava al massimo ventuno. Ho
pensato di essere entrato nella cella sbagliata, così
sono uscito subito per controllare. Perché mai una
nordcoreana che dimostra ventuno anni dovrebbe
dichiarare di averne quasi trenta? Perché è sincera, ho
pensato.»
Sorrisi, ma una parte di me pensò che avevo perso
un’occasione.
Il mattino dopo mi svegliai rinfrancata. Era stata la
prima notte di sonno senza incubi da quando, più di
undici anni prima, ero arrivata a casa degli zii a
Shenyang.
39
La Casa dell’Unità

Una mattina presto, insieme a un gruppo di donne,


salii su un minibus per il viaggio di due ore destinato
a portarci ad Anseong, nella provincia di Gyeonggi.
L’aria era limpida e tiepida. Per la prima volta potevo
guardare il mio nuovo paese alla luce del giorno. Gli
alberi erano in fiore, con foglioline di un verde
luminoso. Tutt’attorno alla città, fin dove potevo
vedere, c’erano morbide colline verdi, un
caratteristico paesaggio coreano che mi era familiare.
Quando spuntò il sole, una cresta di basse colline si
materializzò nella foschia; poi una seconda fila, e
infine, impercettibile, una terza. Hanawon, che
significa «Casa dell’Unità», sorgeva fra quelle colline:
una struttura situata nelle campagne a sud di Seul
che offriva ai transfughi un corso full immersion sulla
società in cui stavano entrando. Senza questi due
mesi di corso, la maggior parte dei nordcoreani non
potrebbe cavarsela. Come molti scoprono una volta
arrivati nella Corea del Sud, la libertà – la libertà vera,
quella in cui la tua vita è ciò che decidi di farne e le
scelte sono tutte tue – può essere spaventosa.
Io ero ottimista. Giurai a me stessa che avrei avuto
successo in quel meraviglioso paese, non importava
come. L’avrei reso orgoglioso di me. Lo ringraziavo
con tutto il cuore per avermi accettata.
A un primo sguardo la struttura non era niente di
speciale – un complesso di aule, dormitori, una
clinica, un ambulatorio dentistico e una caffetteria
protetti da una recinzione –, ma probabilmente non
c’è niente di simile in tutto il mondo. Una casa situata
in mezzo a due universi, le due Coree parallele. La
gente che aveva attraversato l’abisso cominciava lì il
suo percorso di adattamento. Ben pochi la trovavano
una transizione facile.
Ci diedero una diaria con cui comprare merendine
e schede telefoniche. Chiamai immediatamente Kim.
Era la prima telefonata che mi era concesso fare da
quando ero arrivata nel Sud. Al sentire la mia voce
gridò di gioia. Man mano che il tempo passava aveva
cominciato a preoccuparsi seriamente.
«Pensavo ti avessero rimandata in Cina» disse.
Parlammo a lungo, e quando sentii quel suo
gentile, rilassato modo di ridere il mio cuore si gonfiò
di commozione. Non vedevo l’ora di riabbracciarlo.
Poi chiamai Ok-hee la quale, arrivata con il
traghetto, era stata esaminata molto più in fretta di
me. Parlammo con grande eccitazione. Lei aveva già
un appartamento a Seul, mi disse, e stava facendo dei
colloqui di lavoro.
Quando chiusi la comunicazione avrei voluto
librarmi in aria. Mancavano solo poche settimane alla
mia nuova vita.
Più tardi, all’ora concordata con mia madre,
chiamai anche Hyesan. Mamma mi diede la notizia
che Min-ho aveva una fidanzata: si chiamava Yoon-ji.
Disse che era molto bella e che veniva da una famiglia
con un buon songbun. I suoi genitori adoravano Min-
ho. Questo mi fece venire un groppo alla gola: non
avrei mai conosciuto quella ragazza fortunata.
Il complesso di Anseong era riservato alle sole
donne, e io condividevo la stanza con altre quattro
ragazze. Mi dissero che ogni settimana le donne
rinchiuse con me nella cella del NIS erano andate
incontro al minibus per vedere se c’ero. Erano
talmente convinte che fossi cinese che avevano
scommesso su quando sarei stata smascherata.
Quando le incontrai di nuovo, però, si erano un po’
ammorbidite. Alcune di loro erano tormentate dai
sensi di colpa per le famiglie che si erano lasciate alle
spalle, o dai ricordi dei terribili trattamenti subiti da
parte del bowibu. Si portavano dentro una zona buia
così intensa da oscurare completamente le loro
speranze per il futuro. Nonostante i rigidi controlli
alcune riuscivano a comprare alcolici all’esterno della
struttura e a ubriacarsi fino a barcollare, cosa per cui
venivano severamente redarguite dallo staff durante
le assemblee mattutine. In quell’ambiente più
permissivo scoppiavano anche delle risse. C’era anche
la Bulla, ma mi evitava.
I miei incubi erano finiti, ma curiosamente era
proprio lì, in quel porto sicuro, che molti transfughi
venivano riafferrati e tormentati in sogno dal loro
calvario. Alcuni soffrivano di esaurimento nervoso, o
di attacchi di panico al pensiero del mercato del
lavoro supercompetitivo in cui stavano per entrare.
Per questo c’erano degli psicologi con cui parlare, e
anche dei medici per curare malattie croniche a lungo
trascurate.
Per molti nuovi arrivati era difficile liberarsi della
vecchia mentalità. La paranoia, un vecchio, vitale
attrezzo per la sopravvivenza quando vicini e colleghi
potevano denunciarti, impediva loro di fidarsi di
qualcuno. Le critiche costruttive, di cui tutti abbiamo
bisogno al momento di apprendere una nuova abilità,
per loro erano difficili da accettare senza sentirsi
sotto accusa.
Frequentavo lezioni di democrazia, diritti, legge e
media. Ci veniva insegnato come aprire un conto in
banca e come prendere la metropolitana. Ci
mettevano in guardia contro i truffatori. C’erano
anche conferenze tenute da persone esterne
all’istituto. Ricordo quella di una donna che nella
Corea del Sud era riuscita ad aprire una bella
panetteria: la fiducia che aveva in se stessa mi fu di
grande ispirazione. Un’altra fu quella di un prete che
ci diede i primi rudimenti della fede cattolica (molti
transfughi, una volta raggiunto il Sud, abbracciavano
il cristianesimo), ma la sua giustificazione del
celibato di preti e suore suscitò l’ilarità delle donne.
Un altro oratore fu un gentile poliziotto di nome Park
che ci disse cosa fare in caso d’emergenza, per
esempio se avessimo avuto bisogno di un’ambulanza
o di denunciare un crimine.
Frequentammo anche alcune straordinarie lezioni
di storia, che per molte donne di Hanawon furono la
prima finestra libera dal dogmatismo aperta sul
mondo. Per molti transfughi la conoscenza della
storia consiste in poco più di qualche fulgida
leggenda sulla vita del Grande Leader e del Caro
Leader. A Hanawon molte di noi scoprirono che era
stato un attacco ingiustificato da parte del Nord, e
non del Sud, a scatenare la guerra di Corea il 25
giugno 1950. Molte donne respinsero con decisione
questa versione: non riuscivano ad accettare che il
principale articolo di fede del nostro paese, a cui
quasi tutti i nordcoreani credevano ciecamente, fosse
una deliberata menzogna. Perfino quelle che
sapevano che la Corea del Nord era marcia fino alle
budella trovavano la verità sulla guerra molto difficile
da accettare, perché significava che anche tutto il
resto era una menzogna; che le lacrime versate ogni
25 giugno, e il loro servizio militare decennale, e tutte
le «battaglie ad alta velocità» per la produzione che
avevano combattuto non avevano alcun significato.
Che loro stesse avevano fatto parte di una menzogna.
Era il crollo della loro intera esistenza.

Mangiavamo tre pasti al giorno, sempre diversi, e


tutte cominciammo a metter su peso. Mangiate quello
che volete, ci ripetevano i membri dello staff. Una
volta uscite di qui potrebbe non essere tanto facile
mangiar bene. Anzi, la vita in generale, ci dicevano,
sarebbe stata un’ardua sfida. Poteva non essere facile
trovare un lavoro. Ci sarebbero state bollette da
pagare, e se non le avessimo pagate ci saremmo
indebitate. Ciò era fonte di ansia per quelle di noi che
già dovevano una grossa somma a un passatore, a una
persona cioè che le aspettava ogni giorno fuori dal
cancello principale. Lo staff voleva farci capire che il
sentiero verso un futuro felice e di successo era
tortuoso e oscuro. Io avrei voluto sentire: «Lavora
sodo, fa’ del tuo meglio e avrai successo».
Sicuramente stavano cercando di tenere a freno le
nostre aspettative, ma quella vaga incertezza mi
rendeva nervosa. Ben presto non avrei più dovuto
sopravvivere grazie agli stratagemmi. Avrei avuto la
libertà di modellare la mia esistenza. Ma ogni volta
che cercavo di immaginare ciò che avevo davanti non
vedevo un chiarore bensì una nebbia vorticante, e al
suo interno le domande inevase su mia madre, su
Min-ho e su Kim.

Per impedire la nascita di un ghetto nordcoreano,


il governo di Seul distribuisce i transfughi fra città e
villaggi sparsi in tutto il paese. Noi però non
potevamo scegliere il luogo in cui volevamo essere
mandate. Il novantanove per cento avrebbe preferito
Seul ma, data la crisi degli alloggi, solo un piccolo
gruppo sarebbe stato selezionato per quella
destinazione. A ciascuna di noi fu dato un assegno di
diciannove milioni di won per le prime spese di
alloggio.
Io speravo con tutte le mie forze di poter vivere a
Seul. Pensavo che nella capitale ci fossero le migliori
opportunità di trovare lavoro. E poi era là che viveva
Kim. A Hanawon pensai a lui ogni giorno. In classe lo
sognavo a occhi aperti: cercavo di immaginare il suo
appartamento a Gangnam, come sarebbe stato
conoscere la sua famiglia, i suoi eleganti amici, sapere
come passasse il tempo la domenica mattina, con un
caffè espresso, della musica jazz e il giornale con le
notizie di borsa.
Ma il mio stato d’animo s’incupì quando compresi
che solo dieci persone su centinaia sarebbero state
scelte per vivere a Seul. Dieci. Per non essere accusati
di favoritismi, gli istruttori di Hanawon
selezionavano le persone destinate alla capitale per
mezzo di una lotteria. In un auditorium pieno da
scoppiare, come in un gioco televisivo, un membro
dello staff agitò uno scatolone ed estrasse dieci
numeri. Li chiamò uno a uno: 126, 191, 78, 2, 45...
Ciascuna delle donne selezionate alzava le braccia al
cielo, piangeva di felicità e si lasciava abbracciare
dalle amiche.
Io ascoltavo solo a metà. Trovavo quello spettacolo
un po’ deprimente. Cercavo solo di immaginare in
quale altro luogo del paese avrei potuto essere
mandata.
201, 176, 11...
L’uomo percorse l’auditorium con lo sguardo.
«Undici? Chi ha l’undici?»
In fondo, la costa occidentale non sarebbe stata poi
male.
«Undici? Vieni fuori.»
Mi ricordai di un’estate sulla spiaggia vicino ad
Anju, con mio padre che mi spiegava come fa la luna
a gonfiare le maree.
Poi sentii un dolore acuto al braccio. La donna
seduta accanto a me mi aveva dato un pizzicotto,
indicando il numero che avevo in mano. «Undici. Sei
tu.»
40
La corsa ad apprendere

Alla fermata dell’autobus mi venne incontro il signor


Park, il sorridente poliziotto che ci aveva fatto lezione
di sicurezza personale. «Sei stata assegnata al mio
quartiere» disse. «Sarò lì per aiutarti.» Aveva circa
quarant’anni, ed era della Divisione sicurezza
dell’Agenzia di polizia nazionale. La sua calma
autorevolezza mi ricordava un po’ mio padre. Mi
aiutò ad acclimatarmi nella nuova situazione e a
preparare i documenti per richiedere una carta
d’identità e un passaporto sudcoreani. Il signor Park
resta una delle persone più generose che abbia
incontrato nella Corea del Sud.
La mia nuova casa era un piccolo appartamento
composto da due camere e non ammobiliato nel
distretto di Geumcheon, zona sudovest di Seul, vicino
alla stazione della metropolitana di Doksan. Ero al
tredicesimo piano di un palazzo di venticinque, con
una vista su altri palazzi simili e sulla strada. Dietro
c’era una grande collina. Non era un quartiere
benestante.
Furono dei volontari della Croce rossa a mostrarmi
l’appartamento. Dopo, quando mi salutarono e la
porta metallica si chiuse dietro di loro con un clang
che riecheggiò a lungo nel vano delle scale, rimasi
sola. Non alla macchia: libera. Restai alla finestra per
moltissimo tempo, a osservare la vita scorrere là in
basso e le ombre dei palazzi allungarsi man mano
che il sole si spostava verso ovest. Non sapevo cosa
fare. Potevo uscire e comprarmi un materasso e un
televisore e guardare serie televisive tutto il giorno;
potevo lasciar accumulare piatti e vestiti sporchi;
potevo restare lì e aspettare di vedere l’estate
trasformarsi in autunno e l’autunno in inverno. Il
mondo non avrebbe interferito. La libertà non era più
semplicemente un concetto. All’improvviso mi prese
il panico. La libertà era così spaventosa e inquietante
che telefonai a Ok-hee e le chiesi se potevo dormire
da lei.
Ok-hee fu molto contenta di vedermi. Dopo esserci
abbracciate e congratulate l’una con l’altra per essere
riuscite a realizzare il nostro sogno, ci sedemmo sul
pavimento e mangiammo dei tagliolini istantanei. Le
sue esperienze dopo l’arrivo a Seul mi fecero
riflettere. Pur essendo vissuta per anni a Shanghai,
come me, Ok-hee stava incontrando delle difficoltà.
Mi raccontò una cosa che le era capitata dopo un
colloquio di lavoro. L’esaminatore le aveva detto che
l’avrebbe chiamata per comunicarle la decisione
dell’azienda: dopo aver aspettato inutilmente per
settimane, lei aveva richiamato e si era sentita dire
che non le avevano telefonato perché era da
maleducati respingere una persona in modo diretto.
I nordcoreani si vantano sempre di parlare in
modo franco, un atteggiamento incoraggiato dallo
stesso Kim Jong-il. I diplomatici di altre nazioni
restano spesso spiazzati dalla loro franchezza.
L’esperienza di Ok-hee fu per me il primo indizio del
fatto che le due Coree si erano separate fino a creare
due culture divergenti. Ma il peggio doveva ancora
venire. Stavo per scoprire che la lingua e i valori che
credevo condivisi fra il Nord e il Sud si erano evoluti
in direzioni molto diverse. Dopo sessant’anni di
separazione e di scambi quasi inesistenti, ormai non
eravamo più lo stesso popolo.

Il giorno dopo Kim prese un volo da Shanghai e


venne dritto a casa mia. Vedendolo, mi sentii
sciogliere. Erano passati tre mesi. Per un tempo
lunghissimo non facemmo che abbracciarci e
sussurrarci quanto ci eravamo mancati. A me erano
mancati le sue mani, il suo profumo, la sua voce
suadente. Si era lasciato crescere i capelli. Se
possibile era ancora più bello.
Più tardi mi portò in un grande cinema multisala a
Yongsan. Suggerì di comprare qualche snack e mi
chiese cosa volessi. Lessi il tabellone illuminato sopra
la cassa. Era in coreano, ma non capivo una sola
parola: cos’erano i na chos, il pop corn, la co la?
Ovviamente conoscevo quegli snack per averli
mangiati in Cina, ma le parole inglesi traslitterate mi
frastornavano. E come avrei scoperto ben presto ce
n’erano molte altre. Quando qualcuno diceva di aver
preso l’elebaytoh, di stare lasciando il suo apateu o di
voler prendere un tekshi per andare a un meeting, mi
sentivo imbarazzata. Non avevo la più pallida idea di
cosa stesse parlando. Dovevo imparare. In realtà, mi
serviva una formazione completamente nuova.

Ero cresciuta in uno stato comunista dove il


Paterno Leader provvedeva a tutto. La qualità più
importante di un buon cittadino era la lealtà, non
l’istruzione o la capacità di lavorare sodo. Lo status
sociale era fissato dal songbun della famiglia. Anche
nella Corea del Sud lo status sociale era molto
importante, ma non ereditario: veniva stabilito in
base all’istruzione. E sebbene l’istruzione fosse un
grande livellatore – nemmeno i figli dei ricchi
potevano arrivare lontano se non andavano bene a
scuola – anch’essa portava con sé nuovi livelli di
oppressione. E questa, almeno in parte, è la ragione
per cui i sudcoreani sarebbero, secondo i sondaggi, il
popolo meno felice del mondo sviluppato.
Tutte le persone che incontravo sembravano volere
disperatamente una buona formazione per non
precipitare in fondo alla scala sociale. Nella fuga
precipitosa per evitare questo triste destino, l’80 per
cento degli studenti decideva di andare all’università.
Perfino le popstar e gli atleti si laureavano per evitare
di essere percepiti come appartenenti al restante 20
per cento. Le mamme facevano prendere ai loro figli
lezioni private fin dall’asilo per dare loro un
vantaggio competitivo. Dopo, la pressione aumentava
al punto che gli anni di scuola potevano essere una
vera tortura. Ma poiché erano in tanti a conseguire la
laurea, ci volevano altre credenziali – il proficiency in
inglese, per esempio – affinché il candidato a un
posto di lavoro potesse brillare. E solo se dopo tutta
questa lotta uno studente conquistava una posizione
di rilievo in una delle aziende di primo piano della
Corea del Sud, come la Hyundai, la Samsung o la LG,
poteva dire di avercela fatta.
I transfughi annaspano perché la formazione che
hanno ricevuto in patria vale poco o nulla in un paese
sviluppato. Se sono troppo vecchi per tornare a
scuola, devono accettare dei lavori non qualificati; se
sono abbastanza giovani, si ritrovano terribilmente
indietro rispetto ai loro coetanei e perdono presto la
fiducia in se stessi. Io ero stata vagamente
consapevole di tutto ciò quando vivevo a Shanghai,
ma la realtà cominciò a mordere davvero durante
quelle prime settimane a Seul. Solo allora capii cosa
intendevano a Hanawon quando dicevano che la vita
nella Corea del Sud sarebbe stata «una sfida». Senza
una laurea non sarei stata nessuno.
E siccome di solito i nordcoreani fanno dei lavori
poco pagati e sostanzialmente privi di status, i
sudcoreani li guardano dall’alto in basso. La
discriminazione e la condiscendenza raramente sono
esplicite, ma si avvertono. Per questa ragione molti
transfughi tentano di cambiare accento e di
nascondere la loro identità quando vanno a cercare
lavoro. Quando lo scoprii ne fui profondamente
ferita. In Cina avevo tenuto nascosta per anni la mia
vera identità: avrei dovuto nascondermi anche lì?

Con l’aiuto di Kim mi adattai più facilmente delle


altre transfughe che avevo conosciuto a Hanawon,
alcune delle quali stavano cercando un impiego nei
servizi o comunque un lavoro da operaie dove si
potesse mangiare in una mensa. Non era quello che
volevo io. Non ne potevo più di fare la cameriera.
Non volevo vivere alla giornata o un lavoro con cui
arrivare a stento a fine mese. Mi ci volle un po’ per
capirlo, ma dopo qualche settimana decisi di
iscrivermi a un corso semestrale per contabili fiscali.
Ero sempre stata brava con le cifre, e pensavo che
quel titolo avrebbe potuto mettermi in una posizione
migliore per trovare lavoro. Gli altri studenti erano
tutti donne. Da loro avrei imparato quanto fosse
duro, anche per i sudcoreani, essere felici nella loro
stessa società.
Molte di quelle studentesse non erano riuscite a
trovare lavoro presso un’azienda prestigiosa ed erano
depresse, rassegnate e convinte che il destino fosse
contro di loro. Piccoli difetti fisici – l’essere un po’
troppo rotondette, o troppo basse – e dispiaceri
d’amore venivano esagerati e percepiti come cause di
fallimento. Eppure io non potevo fare a meno di
essere solidale con loro. Ogni paese ha le sue
preoccupazioni. A volte le loro lamentele mi
sembravano la trama di un melodramma televisivo.

Dopo qualche settimana dal mio ricongiungimento


con Kim cominciai a vivere io stessa una sorta di
melodramma romantico. Quando stavamo a
Shanghai, i nostri sentimenti reciproci erano così forti
che ero arrivata al punto di pensare davvero che ci
saremmo sposati, e avevo aspettato che mi facesse la
proposta. Ma dopo due anni e mezzo lui non l’aveva
ancora fatta. E ora capivo cosa gliel’avesse impedito.
Kim era cresciuto a Gangnam, il ricco ed elegante
quartiere sulla riva meridionale del fiume Han. La sua
famiglia aveva ricavato grandi profitti dagli anni del
boom, diventando milionaria grazie al rapido
aumento dei valori immobiliari. Aveva ricevuto una
brillante formazione, e anche i suoi genitori si erano
laureati in università prestigiose. Ma pur essendo
tanto cruciale nella Corea del Sud, l’istruzione non è
fine a se stessa: è il mezzo per conquistare lo status, il
quale a sua volta è una sorta di assicurazione contro
la paura che tutto un giorno possa franare. In un
paese che in un recente passato apparteneva al Terzo
mondo ed era diventato la quattordicesima economia
mondiale nel giro di una sola generazione, fame e
instabilità erano ricordi vicini. Se tutto il resto
dovesse fallire, una persona dotata di status potrà
sempre appoggiarsi alla famiglia e alle relazioni. Tutti
gli amici di Kim provenivano dallo stesso ambiente.
Alcuni erano attori e modelle famosi, e
appartenevano al «bel mondo» di Seul. Quando
uscivamo la sera, certe ragazze della mia età
arrivavano a bordo di lussuose auto sportive
occidentali. I loro genitori avevano impressionanti
titoli professionali nelle grandi aziende sudcoreane.
Io invece non avevo niente: niente famiglia, niente
lavoro, niente laurea, niente soldi. Non avevo alcun
back, come dicono i sudcoreani, dalla parola inglese
background; vale a dire che non avevo relazioni,
nessuno che mi appoggiasse.
Non era tanto per me che ero dispiaciuta. Avevo
già condiviso un sistema di credenze simili quando
vivevo nella Corea del Nord: zio Povero, per esempio,
era cresciuto in una famiglia dal songbun elevato, ma
poi non aveva tenuto conto dei consigli dei suoi,
aveva sposato una ragazza di una fattoria collettiva ed
era precipitato lungo la scala sociale. Kim poteva
ribellarsi ai suoi genitori, scappare con me e
sposarmi. Per un anno o due potevamo anche essere
felici, ma poi il romanticismo sarebbe sbiadito e la
delusione causata alla sua famiglia gli avrebbe fatto
venire i rimorsi di coscienza. La vita insieme lo
avrebbe consumato, come immaginavo fosse
successo a zio Povero, e lui sarebbe arrivato alla
conclusione che il nostro matrimonio era stato un
grosso errore.
Kim lo aveva capito prima ancora di me –
probabilmente quando abitavamo a Shanghai – e
aveva cercato un modo di uscire dall’impasse.
«Voglio che tu vada all’università» mi disse mentre
mi riportava a casa dopo una delle nostre serate con i
suoi amici famosi. «Se riuscissi a passare gli esami
per diventare medico o farmacista, ai miei farebbe
molto piacere.»
Io tenni lo sguardo fisso in avanti senza dire
niente. Non li avevo ancora conosciuti, i suoi genitori.
Il giorno dopo, comunque, feci qualche ricerca su
Internet. I corsi di medicina erano molto costosi, e
solo gli studenti più brillanti riuscivano a passare gli
esami. Peggio ancora, al NIS mi avevano detto che
siccome avevo lasciato la Corea del Nord senza un
diploma di scuola secondaria avrei dovuto
completare gli studi prima di fare domanda al
college. Questo titanico sforzo per gratificare i
genitori di Kim mi avrebbe preso almeno un
decennio.

Nell’estate del 2008 seguii i giochi olimpici di


Pechino alla TV , insieme a Kim e a un folto gruppo di
suoi amici, in un appartamento di Gangnam. Quando
gli atleti sudcoreani vincevano una gara, tutti
esultavano rumorosamente, unendo le loro grida a
quelle provenienti dagli appartamenti limitrofi. Era
come se un ruggito si levasse dall’intero quartiere.
Tutti gridavano «Uri nara!» («Il nostro paese!») e
«Daehan minguk!» («Repubblica di Corea!»). Anch’io
esultavo, ma non potevo gridare «Uri nara!». Cercavo
di farlo, perché volevo essere come gli altri, ma il mio
cuore taceva e le parole non volevano uscirmi dalla
bocca.
Il mio cuore tifava per la Corea del Nord. Ero fiera
di vedere il mio paese vincere delle medaglie d’oro.
Ma non potevo esultare. La Corea del Nord era il
nemico.
Più tardi declinai l’invito a cena di Kim e me ne
tornai nel mio piccolo appartamento, da dove potevo
ancora sentire in lontananza le grida di gioia e i
festeggiamenti negli altri palazzi. Quell’esperienza
mi aveva profondamente rattristata, e trascorsi la
notte sveglia, sdraiata sul mio letto, a guardare il
chiarore della città riflettersi sulle nubi. Il cielo sopra
Seul era un denso brodo giallastro che nascondeva le
stelle: a Hyesan potevo vedere la Via Lattea dalla
finestra della mia camera da letto.
Le olimpiadi mi provocarono una vera e propria
crisi d’identità. Probabilmente era già un po’ che
covava, alimentata dall’insicurezza che provavo nei
confronti di Kim e dalla mia mancanza di formazione
scolastica.
Chi sono io, sono forse nordcoreana? È là che sono nata
e cresciuta. Oppure sono cinese? È là che sono diventata
adulta. O sono sudcoreana? Il mio sangue è lo stesso che
scorre nelle vene della gente di qua, apparteniamo alla
stessa etnia. Ma basta una carta d’identità a fare di me
una sudcoreana? Qui trattano i nordcoreani come servi,
come esseri inferiori.
Anch’io, come tutti, sentivo il bisogno di
appartenere a qualcosa, ma non c’era un paese che
potessi chiamare realmente mio. E non conoscevo
nessuno che potesse dirmi che non ero l’unica al
mondo ad avere un’identità frammentata, che non
era una cosa importante. Che conta solo chi siamo
come persone.
Come quando si sfoglia un libro letto tante e tante
volte, pensavo spesso di tornare a casa, nella Corea
del Nord. Ma adesso che ero una cittadina della
Corea del Sud sarebbe stato illegale, per me, tornarci.
Se l’avessi fatto, nella migliore delle ipotesi sarei stata
esibita dalla propaganda come una persona che aveva
rifiutato le seduzioni del Sud (era già successo con
alcuni nordcoreani che avevano deciso di tornare in
patria); ma potevano anche imprigionarmi o
fucilarmi.
Mamma sapeva che ero sola e infelice. Parlavo con
lei ogni domenica, ma non volevo esserle di peso:
aveva già abbastanza preoccupazioni. Da quando i
militari avevano perquisito la sua casa, aveva vissuto
come sotto una nube. L’incidente aveva attirato su di
lei l’attenzione del bowibu, e ogni volta che Pyongyang
ordinava un giro di vite mamma si ritrovava in una
lista di persone da esiliare in qualche remoto
villaggio di montagna. E ogni volta doveva sborsare
somme enormi per corrompere gli investigatori
affinché cancellassero il suo nome, ma con la
preoccupazione di non poter andare avanti così
ancora a lungo.
Se avessero scoperto la verità – che sua figlia aveva
disertato nella Corea del Sud – gli uomini della
sicurezza non avrebbero esitato ad arrestare lei e
Min-ho.
La vita a Hyesan non faceva che peggiorare, mi
disse. E la fame stava ritornando.
Cominciai a sentirmi disperata per lei. Che fosse
venuto anche per mia madre il momento di
raggiungere la Corea del Sud?
Con delicatezza, ogni domenica, cominciai a
ventilare la possibilità che mi raggiungesse a Seul.
«No, non partirò mai, mai» rispondeva.

Lentamente, riuscii a tirarmi fuori dal mio


abbattimento. Avevo affrontato tanti rischi per
arrivare fin lì, non potevo arrendermi proprio adesso.
Mi ero promessa, nella luminosa mattinata in cui mi
avevano portata a Hanawon, di avere successo nel
mio nuovo paese e di renderlo orgoglioso di me.
Avrei fatto di tutto per avere successo, non importava
come. Il fallimento non era contemplato.
Dopo aver lavorato sodo, alla fine del 2008 ottenni
il mio titolo di contabile. Uno studio legale mi offrì
un lavoro con uno stipendio mensile di 1,3 milioni di
won: una somma più che rispettabile. Ma dopo averci
riflettuto sopra lo rifiutai, pensando che senza una
laurea qualunque carriera mi sarebbe stata preclusa.
Cominciai a pensare all’arduo esame d’ammissione
all’università.
Quando fossi riuscita ad avere i requisiti per
entrare al college, avrei avuto ormai trent’anni. E ne
avrei avuti trentaquattro al momento della laurea.
Potevo farcela? Postai quella domanda in un forum di
discussione online, scatenando un gran numero di
commenti. «Sarà dura lavorare accanto a persone che
hanno dieci anni meno di te» diceva uno. «Lascia
perdere e trovati un lavoro» recitava un altro. Un’altra
reazione piuttosto comune era: «Faresti meglio a
puntare al matrimonio». Avrebbero potuto
aggiungere: Prima che sia troppo tardi.
Il solo a incoraggiarmi fu il signor Park. Lui sì ci
teneva davvero che avessi successo, e mi spingeva a
provarci. Prima di fare domanda di ammissione
all’università, comunque, c’era un’altra cosa che
ritenevo di dover fare: darmi un nuovo nome.
A Hanawon avevo sentito dire di transfughi le cui
famiglie, in patria, erano state punite quando il
bowibu aveva scoperto che erano al Sud. Tra i disertori
c’erano certamente delle spie che facevano rapporto a
Pyongyang. Per questa ragione erano in molti a
cambiar nome. Ma non era l’unico motivo. Altri lo
facevano perché un’indovina aveva detto loro che un
cambio di nome gli avrebbe portato fortuna.
Quando dissi al signor Park che volevo un nuovo
nome – un nome che avesse un significato speciale –
lui mi presentò una jakmyeongso, una professionista
nell’assegnazione dei nomi. La pagai cinquantamila
won e le dissi la mia data di nascita e le due parti del
mio nome originario.
«Uno di questi nomi ti ha portato sfortuna» disse
lei dolcemente.
Non potei fare a meno di sorridere pensando a
quando, tanti anni prima, mia madre mi aveva
portato a Daeoh-cheon per una lettura mattutina del
destino con una mistica dai capelli brizzolati. Questa
era più presentabile, una signora di mezz’età con la
permanente. Mi ritrovai subito in uno stato d’animo
familiare quando la vidi chiudere gli occhi: pensavo
che fosse una cosa ridicola, ma dentro di me volevo
credere a ogni sua parola.
Decisi di aiutarla.
«Ho sempre freddo.»
«Sì» disse lei, accogliendo il suggerimento. «Sì, tu
hai una costituzione yin, non yang, quindi hai
bisogno di riscaldarti con un nome che tenga caldo.»
E mi presentò un ventaglio di cinque nomi. Io scelsi
Hyeonseo.
«Con questo nome la forza del sole brillerà sempre
su di te.» Ma poi mi mise in guardia. «Il nome è così
forte che può portarti fortuna, ma anche sopraffarti
ed essere causa di sventura. Di conseguenza ti
suggerisco di sceglierti anche un nomignolo, per
bilanciare la schiacciante forza positiva di
“Hyeonseo”.»
No, pensai io. Basta nomi. Hyeonseo andrà benissimo.
Nell’estate del 2009 feci domanda d’iscrizione in
varie università con il mio nuovo nome. Per
aggiungere al mio curriculum un’altra credenziale
cominciai a studiare l’inglese su un libro di testo, ma
lo trovai estremamente difficile. Se un’università mi
avesse invitata per un colloquio o per sostenere
l’esame d’ammissione, la cosa sarebbe accaduta in
settembre o in ottobre. C’era da aspettare qualche
settimana. Se mi avessero ammessa, gli anni
successivi sarebbero stati prevedibilmente suddivisi
tra semestri e vacanze.
Ma proprio quando la mia vita cominciava a
sembrare un po’ più stabile e strutturata fui gettata di
nuovo nell’abisso.
41
Aspettando il 2012

«Può essere che adesso la gente sia affamata» disse


mia madre. La sua voce si trascinava, incerta. «Ma
presto le cose miglioreranno. Stiamo tutti aspettando
il 2012.»
Mi lasciai sfuggire un gemito. Mancavano solo tre
anni al centenario della nascita di Kim Il-sung, il
momento in cui, secondo la propaganda, la Corea del
Nord avrebbe raggiunto l’obiettivo di diventare «una
nazione prospera e forte».
Io sapevo che niente sarebbe cambiato, ma lei
come poteva saperlo? Mamma poteva lagnarsi della
propria vita, ma non aveva il senso della prospettiva e
condivideva ancora i valori del regime. È difficile, per
chi è fuori dal paese, capire quanto sia arduo per i
nordcoreani accettare che il regime dei Kim non solo
è malvagio, ma anche sbagliato. Per molti versi la vita
nella Corea del Nord si svolge in modo del tutto
normale. Abbiamo le nostre preoccupazioni
economiche, troviamo gioia nei figli, beviamo troppo
e ci diamo da fare per la carriera. Ciò che non
facciamo mai è mettere in discussione la parola del
partito, perché rischieremmo di finire nei guai. I
nordcoreani che non sono mai usciti dal paese non
pensano in modo critico perché non hanno elementi
di confronto (con governi precedenti, con diverse
linee politiche o con altre società del mondo esterno).
Per questo mia madre, come tutti gli altri, aspettava
tanto la mitica alba del 2012.
«Omma, ma se tu stessa hai detto che le condizioni
di vita non fanno che peggiorare. Non accadrà nulla»
le dissi. «Ascolta. Ho incontrato tante famiglie
nordcoreane. Di solito chi arriva qui cerca poi di far
uscire il resto della famiglia.»
«Ho già visto troppe esecuzioni di persone che
avevano cercato di fuggire» scattò lei. «Non voglio
che Min-ho finisca in carcere per colpa mia. E non
voglio essere fucilata all’aeroporto di Hyesan, con i
tuoi zii e le tue zie seduti in prima fila.»
«Ma Omma, le condizioni di vita sono assai
migliori qui. Potresti avere tutto ciò che desideri. Il
governo ci dà soldi in abbondanza per stabilirci nel
paese.»
«Ma se tu stessa mi hai detto che non sei felice.»
«Mi stavo solo lamentando.» Sentivo che le mie
argomentazioni cominciavano ad avere la meglio
sulla sua resistenza. «Non ti vedo da quasi dodici
anni. I miei vent’anni sono venuti e se ne sono andati
e non ci siamo incontrate nemmeno una volta. Vorrei
sposarmi e avere dei bambini, ma a che scopo, se tu
non dovessi vederli? Se non facciamo qualcosa
adesso, magari un giorno sarà troppo tardi.»
Ci fu una lunga pausa, e mi resi conto che stava
piangendo in silenzio. Il pensiero di essere separata
per sempre da me le era insopportabile.
Mantenni la pressione su di lei per tre o quattro
settimane. «Vieni per diciotto mesi» dissi. «Se non ti
piace, potrai sempre tornare a casa. Sarebbe facile.»
Stavo mentendo, ovviamente, ma dovevo
convincerla e pensavo che quella piccola bugia fosse
giustificata. Ci saremmo ricongiunte e lei avrebbe
imparato a vivere libera dal pericolo. Insistetti perché
sapevo che aveva già cominciato a studiare il modo
affinché sui suoi documenti risultasse che non era
mai uscita dal paese.
Eppure esitava.
Poi, un evento sensazionale le fece cambiare idea.
Dei manifesti con scritto «ricercato» furono appesi in
tutta Hyesan, e sopra c’era la faccia di un notissimo
quadro di partito, Seol Jungsik, segretario provinciale
della Lega della gioventù socialista. Ben presto corse
voce che fosse scappato dal paese. Gli abitanti di
Hyesan erano attoniti. E mia madre pensò: Se un pezzo
grosso come Seol se ne va, perché non potrei farlo anch’io?
La tempistica non avrebbe potuto essere più
opportuna.
E così la domenica successiva se ne venne fuori
con: «Ho deciso. Parto». Usava delle frasi vaghe nel
caso il bowibu stesse ascoltando la nostra
conversazione. Era molto nervosa. «Sarà una cosa
sicura?»
Gridai quasi dalla felicità. «La renderò sicura al
cento per cento!» dissi, ben sapendo che solo il
presidente della Cina avrebbe potuto mantenere
quella promessa.
«Tuo fratello dice che lui non verrà.»
Questa frase mi riportò con i piedi per terra. «Ma
deve. Dovete venire insieme. Sarebbe troppo
pericoloso per lui restare.»
«Starà benissimo. Adesso ha un giro d’affari tutto
suo, e presto sposerà Yoon-ji.»
«Si sposerà?»
Era una cosa nuova per me. Sapevo che Min-ho era
nel contrabbando delle motociclette: i modelli cinesi
Haojue e Shuangshi, ma anche marche giapponesi di
lusso. D’estate smontava le moto e le trasportava
attraverso il fiume su una zattera; d’inverno le
guidava lui stesso sul ghiaccio. Alle guardie di
frontiera versava il 10 per cento del ricavato, e inoltre
dava loro sigarette, birra cinese o frutta tropicale. Era
pieno di risorse ed era cresciuto sulla strada – i suoi
primi ricordi di Hyesan erano quelli della carestia,
una cosa che l’aveva indurito –, ma era anche
cocciuto, proprio come me. Una volta decisa una cosa,
era difficile fargli cambiare idea.
Avrei dovuto essere felice per lui. Yoon-ji, stando
alle parole di mia madre, era incredibilmente bella.
Quando aveva compiuto diciotto anni alcuni
funzionari che selezionavano musicisti e belle
ragazze per la gioia di Kim Jong-il si erano presentati
alla sua scuola e l’avevano scelta per entrare a far
parte del Kippumjo, la Joy Division del Caro Leader.
Ma per evitare che le fosse portata via, sua madre
aveva finto che la ragazza avesse dei problemi di
salute.
Min-ho disse che avrebbe aiutato Omma ad
arrivare in Cina, ma che lui sarebbe rimasto in patria.
La madre di Yoon-ji lavorava per il bowibu, disse. Lui
era convinto che ciò lo avrebbe protetto. Alla famiglia
si poteva pure affidare un segreto così.
Non c’era altro che potessi dire. Era chiaro che
Min-ho provava dei sentimenti molto forti per quella
ragazza.

Cominciai a fare progetti. Il primo passo fu


contattare il reverendo Kim, un pastore protestante di
mezz’età la cui organizzazione manifestava ogni
domenica a Insa-dong, un popolare mercato di Seul,
per i diritti umani nella Corea del Nord. Chiassose
dimostrazioni che fanno parte della vita quotidiana
della capitale. Ogni volta che andavo in centro vedevo
un manifestante solitario fuori da un edificio
governativo con un cartello recante la ragione della
sua protesta, o dei lavoratori con degli slogan scritti
sulla bandana che gridavano e alzavano i pugni. La
prima volta che li avevo visti ero rimasta sbalordita:
in quel paese i cittadini potevano protestare senza
paura di essere arrestati e fucilati sulla pubblica
piazza.
Tramite i suoi contatti in Cina, il reverendo Kim
aveva aiutato centinaia di persone a fuggire dalla
Corea del Nord. La sua specialità era guidare i
transfughi fino alla città di Kunming, nella Cina
sudoccidentale, e poi oltre il confine con il Vietnam,
da dove potevano raggiungere l’ambasciata
sudcoreana.
Il viaggio attraverso la Cina era lungo oltre
duemila chilometri, e richiedeva una settimana di
tempo. Era pericoloso, tanto che alcuni fuggiaschi
portavano con sé del veleno per uccidersi in caso di
cattura piuttosto che affrontare le conseguenze del
rimpatrio nella Corea del Nord. Dato che la Corea del
Sud non voleva inimicarsi la Cina accogliendo i
richiedenti asilo nordcoreani nella sua ambasciata di
Pechino o nei consolati sparsi in tutto il paese, i suoi
funzionari cooperavano con le autorità cinesi per
tenerli alla larga. Anche se un transfuga fosse riuscito
a varcare i cancelli dell’ambasciata, avrebbe avuto
davanti a sé un’attesa davvero lunga. Alcuni avevano
aspettato anche sette anni prima che la Cina li
autorizzasse a lasciare il paese.
Trovai il reverendo Kim durante una delle consuete
manifestazioni domenicali. Cercando di sovrastare gli
slogan urlati dai partecipanti al sit-in mi disse che
mia madre avrebbe dovuto attraversare da sola il
fiume Yalu, ma che da quel punto in avanti avrebbe
potuto guidarla lui. Il tutto sarebbe costato
quattromila dollari. In alternativa avrebbe potuto
viaggiare per conto suo attraverso la Cina fino a
Kunming, da dove lui l’avrebbe guidata fino
all’ambasciata sudcoreana in Vietnam. In questo caso
avrebbe speso duemila dollari e sarebbe stata affidata
a un passatore cinese di sua fiducia. Lo ringraziai e
mi feci dare il suo numero di telefono, ma mi sentivo
inquieta.
Passatori.
Quella sera nel mio appartamento ci rimuginai
sopra. Kim mi telefonò e mi chiese cosa avessi fatto
quel giorno. Stavo per dirglielo, ma poi cambiai idea:
tanto non avrebbe capito. Mi avrebbe detto che ero
pazza a mettermi di nuovo in pericolo, e mi avrebbe
chiesto se non ero contenta di lasciare le cose come
stavano. Non capiva molto della Corea del Nord, e lo
stesso valeva per i suoi amici, la maggior parte dei
quali non voleva nemmeno sentir parlare del Nord: se
solo l’avessi menzionato avrei visto una saracinesca
calare sui loro occhi. Il Nord era il loro zio pazzo
chiuso in soffitta. Un argomento da evitare.
Avevo sperato che il reverendo Kim potesse in
qualche modo evitare di ricorrere ai passatori, ma
sapevo che anche le organizzazioni umanitarie, a
livello locale, dovevano affidarsi a quegli sgradevoli
individui. Poiché sono abituati a violare la legge – e il
motivo per cui lo fanno è il denaro –, di rado i
passatori sono soggetti degni di fiducia o comunque
piacevoli. Se le cose si mettono male, di solito
svaniscono come neve al sole lasciando i loro clienti
nelle mani della polizia o anche peggio. E se ciò fosse
accaduto a mia madre, se un passatore l’avesse
riconsegnata al Nord, non me lo sarei mai perdonato.
Dopo averne parlato con Ok-hee decisi di servirmi del
passatore solo per l’ultima parte del viaggio, cioè per
uscire dalla Cina.
Per il resto sarei andata personalmente a Changbai
e avrei aspettato mia madre sulla riva del fiume.
Dopodiché l’avrei guidata attraverso la Cina fino a
Kunming.
42
Un luogo di fantasmi e di cani selvatici

Suonai il campanello provando una ben nota


agitazione nervosa. All’improvviso avevo di nuovo
diciassette anni ed ero lì, davanti a quella stessa
porta, all’inizio della mia avventura. Rabbrividii.
Nella Cina del Nord faceva molto più freddo che a
Seul. Indossavo una spessa felpa col cappuccio, jeans
e scarpe da ginnastica, e portavo tutto ciò che avevo
in uno zainetto. Sentii qualcuno avvicinarsi alla porta
e un chiavistello tintinnare.
«Dio mio!» disse mia zia scrutandomi dalla testa ai
piedi. «Come sei cambiata. Eri solo una ragazzina
l’ultima volta che ti ho vista.»
Anche il suo aspetto, a dire il vero, mi sorprese
molto. Era diventata una vecchia signora, magra e
curva, con le dita storte e gonfie per i reumatismi.
Immediatamente pensai a quanto anche mia madre
dovesse essere invecchiata.
Mi invitò a entrare. Aveva ristrutturato
l’appartamento e mi portò a fare un giro. La chitarra
era ancora nella mia vecchia stanza. Lo zio era via per
lavoro, disse.
Avevo saldato già da un po’ il mio debito ed ero
rimasta in contatto con loro. Speravo che il tempo
avesse lenito il dolore che gli avevo causato tanti anni
prima, quando ero scappata di casa per non sposare
Geun-soo. Avevo sentito dire che si era sposato, ed
ero contenta per lui. La cosa mi aveva sollevato dal
voto di restare zitella. Mi chiedevo se avesse dato alla
sua terribile madre i nipoti che desiderava, ma non
osai chiederlo.
La zia era affettuosa e ospitale. Era chiaro che mi
aveva perdonata, anche se non aveva dimenticato. Ne
fui sollevata, perché avevo di nuovo bisogno del suo
aiuto. Ed era un grosso favore quello che stavo per
chiederle.
«La mia carta d’identità?» Era rimasta sbalordita.
Abbassai gli occhi. «Te la rimanderò per posta nel
giro di due settimane.»
Perché il mio piano funzionasse avevo bisogno di
prendere in prestito una vera carta d’identità cinese
che mia madre potesse usare come sua. Quando
glielo spiegai, mia zia scoppiò a ridere. Gliene fui
grata.
Avevo studiato con cura la tempistica e non potevo
trattenermi a lungo. Dopo essermi fatta dare la carta
d’identità le dissi, in tono di scusa, che dovevo
ripartire immediatamente. Lei scrollò la testa, mi
diede cinquecento yuan e mi augurò tutta la fortuna
del mondo. Nel giro di un’ora ero in un vagone letto
in viaggio per Changbai.
Nascosi con cura la carta d’identità della zia nel
portafogli. Avevo con me abbastanza denaro per
pagare il passatore, mangiare, dormire e per il treno.
Quel denaro era tutto ciò che mi era rimasto dei miei
risparmi di Shanghai. Avevo vissuto di quello e del
piccolo stipendio mensile di trecentocinquantamila
won che mi passava il governo sudcoreano.
Era la fine di settembre del 2009. Se tutto fosse
andato bene, nel giro di due settimane sarei stata di
ritorno a Seul e mia madre – un fremito di
apprensione e di eccitazione mi corse lungo la
schiena –, la mia cara Omma, sarebbe stata al sicuro
nell’ambasciata sudcoreana di Ho Chi Minh City, dove
avrebbe chiesto asilo. Ciò significa che avrei avuto il
tempo di sostenere gli esami di ammissione e di
presentarmi ai colloqui in qualunque università
avesse accettato la mia richiesta per l’anno
accademico 2010, che sarebbe cominciato la
primavera seguente.
Il signor Park mi aveva detto di stare molto attenta.
«Non dire a nessuno che sei una transfuga.» C’erano
stati dei casi di poliziotti cinesi che avevano
riconsegnato i fuggiaschi al bowibu anche se stavano
viaggiando con un valido passaporto sudcoreano.
Non appena superato il controllo immigrazione di
Shenyang, avevo nascosto il mio passaporto
sudcoreano e avevo tirato fuori la mia vecchia carta
d’identità cinese. Così mi sentivo più sicura.
Erano le tre di notte quando arrivai a Changbai.
Trovai un alberghetto a due stelle per gli ultimi
preparativi. Quando Min-ho avesse portato mia
madre oltre il fiume, il mio piano era di prenderci
qualche giorno di vacanza tutti e tre insieme prima
che Min-ho tornasse a Hyesan. E per aiutarli a passare
per cinesi avevo comprato dei pantaloni per mio
fratello e qualche abito colorato e di buona qualità
per mia madre, la quale avrebbe dovuto disfarsi di
qualsiasi oggetto prodotto nella Corea del Nord.
Visitai numerosi alberghi della città per vedere
quale sarebbe stato il più sicuro, e decisi per il
Changbai Binguan, quello che aveva la hall più
grande e nel quale non saremmo dovuti passare
davanti alla reception ogni volta che fossimo entrati e
usciti. Era anche l’albergo più caro della città, e
l’ultimo posto in cui la polizia cinese o il bowibu
sarebbero andati a cercare una nordcoreana in fuga.
Il giorno dopo mi registrai e presi una stanza con due
letti matrimoniali.
Min-ho mi aveva confermato il piano: avrebbe
accompagnato nostra madre oltre il fiume fra le sette
e le otto di sera. Mi disse in che punto avrebbero
attraversato. Conoscevo il posto: c’era una casa
diroccata sulla sponda cinese.
Mamma aveva preparato la partenza con grande
ingegno. Se avesse fatto ciò che fanno quasi tutte le
famiglie di fuggiaschi – mollare tutto e scappare – le
autorità sarebbero piombate su Min-ho. Ma anche se
avesse venduto la casa le autorità avrebbero voluto
sapere dov’era andata. In entrambi i casi, Min-ho
sarebbe stato interrogato. Per evitarlo, mamma aveva
venduto la casa e aveva comunicato alle autorità
cittadine la sua intenzione di trasferirsi a Hamhung.
Dopodiché, invece di registrare la propria residenza
in quella città, aveva corrotto un medico per firmarle
un certificato di morte e i documenti del funerale. Se
il bowibu avesse fatto delle indagini, sarebbe venuto
fuori solo che era morta durante il viaggio per
Hamhung.

Alle 18.15 del giorno seguente cominciai a


prepararmi. Ero molto preoccupata ma anche
stranamente su di giri, con i sensi all’erta e il corpo
teso di energia nervosa. Silenziai il cellulare, mi vestii
completamente di nero, presi la borsa in cui avevo
messo gli abiti nuovi per mia madre e per Min-ho e
attraversai con passo calmo e deciso la hall
dell’albergo. Appena fuori fermai un taxi e dissi
all’autista di portarmi nel punto in cui la città finiva, a
circa duecento metri dal fiume. Là, in fondo a una fila
di bassi edifici, c’era la casa diroccata tra gli alberi. Mi
accoccolai dietro il vecchio muretto di un giardino e
attesi. Il posto era freddo e umido e odorava di foglie
marce e deiezioni di animali. Sbirciando oltre il
muretto potevo vedere le guardie di frontiera
nordcoreane che andavano avanti e indietro sulla riva
opposta. Nella penombra del boschetto mi sentivo
perfettamente mimetizzata.
Il tramonto sembrava di cattivo augurio, con la sua
gamma di torbidi rossi e gialli. Di là dall’acqua
Hyesan sembrava senza vita, come una città scavata
nella roccia o un intricato cimitero. Un luogo di
fantasmi e di cani selvatici. Non ne provavo nostalgia,
solo un senso di sfida: Ti sfido a non consegnarmi mia
madre.
Una brezza gelata alzava piccoli turbini di foglie e
creava leggere increspature sul pelo dell’acqua. Se
non mi fossi sentita tanto viva, con quel nervosismo e
quell’eccitazione, avrei cercato un posto più caldo
dove aspettare. Faceva troppo freddo per stare in
piedi immobile.
Ormai non mancava più molto tempo. Sto per
incontrare di nuovo la mia Omma. Stentavo a crederci.
Min-ho mi aveva detto che l’avrebbe condotta là
dove la corrente arrivava al petto e poi le avrebbe
fatto salire una delle scalette del lato cinese. L’acqua
sarà ghiacciata.
Controllai più volte l’ora sul mio cellulare.
Alle otto ancora non c’era traccia di loro due. Il
verso di un uccello notturno, forte, mi fece fare un
balzo.
Un quarto d’ora dopo la notte era scesa su di me
come una nuvola di cenere. Ormai non vedevo più
niente sull’altra riva del fiume. A Hyesan doveva
essere andata via la luce.
Il sangue non mi circolava più nelle mani e nei
piedi. La temperatura scendeva a ogni minuto che
passava. Non sapevo se i denti mi battessero per il
freddo o per il panico. Ma dove sono?
Passò un’altra ora.
All’improvviso qualcuno gridò: «Ya!».
Il cuore mi batté all’impazzata. Lungo la riva
nordcoreana un fascio di luce ballonzolava sul
sentiero di terra battuta: guardie di frontiera che
pattugliavano in coppia salutavano un’altra pattuglia.
Passavano in quel punto ogni due minuti. Non
ricordavo che ci fossero così tante guardie. Erano a
meno di cinquanta metri da me, potevo addirittura
sentire la loro conversazione.
Una delle due pattuglie aveva un cane, che voltò la
testa dalla mia parte e abbaiò, dando il la a una
dozzina di altri cani. Mi tornò in mente una mattina
d’inverno, quando avevo visto del sangue sul
ghiaccio. Una fuga finita male. Portai le mani alle
orecchie. Se solo quei cani avessero smesso di
abbaiare...
Il cellulare si mise a vibrare.
La voce di Min-ho era rapida e tesa.
«C’è stato un problema.»
43
Un dilemma impossibile

In poche parole Min-ho mi spiegò che proprio mentre


stavano per attraversare erano incappati in una
guardia di frontiera. Per fortuna si trattava di una
persona con cui mio fratello era in affari. La guardia
gli aveva detto che c’era un’allerta generale perché
un’influente famiglia di Pyongyang avrebbe cercato
di scappare proprio quella sera. C’erano delle
pattuglie in più lungo tutta la riva del fiume, disse, e
anche agenti del bowibu. L’intera area era sigillata. Poi
la guardia aveva chiesto a Min-ho di fermarsi un po’
con lui per tenergli compagnia mentre dava
un’occhiata in giro. Mamma aveva augurato loro la
buonanotte e si era allontanata.
Min-ho disse che lui e mia madre avrebbero fatto
un altro tentativo l’indomani prima dell’alba.
Tornai a Changbai. Ormai era mezzanotte. La città
era deserta e, sola nel buio, mi sentii allo scoperto.
Ero troppo nervosa per dormire, così trovai un
ristorantino aperto tutta la notte. Ordinai una ciotola
di spezzatino in salsa di fagioli e cominciai a
ripensare a ciò che mi aveva detto Min-ho. Stentavo a
crederci. Avevo scelto la notte peggiore in assoluto
per far passare mia madre dall’altra parte, e le cose
stavano già andando orribilmente male. Volevo
mantenere la calma, pensare con lucidità. Tra poche ore
tutto andrà bene, mi dicevo. Non riuscii a finire lo
spezzatino. Tornai in albergo e cercai di dormire un
po’ senza togliermi i vestiti.
Dovevo essermi addormentata perché la cosa
successiva che sentii fu il cellulare che ronzava
proprio accanto alla mia faccia.
«Saremo là per le sei» disse Min-ho. Saltai su dal
letto. Qualche minuto dopo, mentre ero nel taxi, mi
chiamò ancora. «Siamo passati. Siamo nascosti nella
casa diroccata.»
Ero al settimo cielo. Non vedevo la mia cara madre
da undici anni, nove mesi e nove giorni. E ora
mancavano solo pochi minuti. Chiesi all’autista di
aspettare e avanzai lungo il sentiero di terra battuta
verso la riva del fiume.
Il cielo a est stava diventando di un turchese
pallido. Poi, là in fondo, meno di cinquanta metri più
avanti, vicino alla casa diroccata, intravidi le sagome
di due persone che camminavano chinate venendo
verso di me.
La mia Omma. Nella penombra vidi un viso
anziano, stanco e provato, e un corpo che si muoveva
rigidamente. Min-ho era dietro di lei, protettivo, e la
guidava tenendole un braccio attorno alle spalle.
Le corsi incontro, ma non c’era tempo per i
convenevoli. «Dobbiamo andare» dissi.
Eravamo troppo esposti, così tra il fiume e la città.
Alle prime luci del giorno le guardie di frontiera
cinesi avrebbero cominciato a pattugliare la zona. Il
tassista, che speravo ci stesse aspettando sulla strada,
poteva essere sceso dalla macchina per guardare cosa
facevamo. E anche lui avrebbe potuto denunciarci.
Tirai fuori gli abiti che avevo comprato per loro.
«Mettetevi questi. Sopra quelli che indossate. Svelti.»
Quando si furono rivestiti li condussi verso il taxi.
«Comportatevi in modo naturale, ma non parlate.
Penserà che siete di qui.»
Salimmo sul taxi. Nel caso l’autista avesse avuto
intenzione di denunciarci, gli dissi di portarci a un
altro albergo. Sedemmo in silenzio per i dieci minuti
della corsa. Pagai. Non era consuetudine lasciare una
mancia, ma non chiesi il resto. Scendemmo e, quando
l’autista si fu allontanato, raggiungemmo a piedi il
Changbai Binguan. Era talmente presto che in giro
non c’era ancora nessuno. La hall era deserta, e
l’unica receptionist era tutta assorbita dal suo
cellulare. Misi mia madre e mio fratello
nell’ascensore, dissi loro il numero della stanza e
tornai al banco.
«Mi scusi» dissi, cercando di sembrare
indifferente. «La signora è con me. Le porterò la sua
carta d’identità quando scenderemo a colazione. Il
signore invece non si ferma. Se ne andrà presto.»
«Bene» disse lei, nascondendo uno sbadiglio.

Chiusi la porta della camera e per un momento ci


guardammo senza dire niente. Erano trascorsi quasi
dodici anni dall’ultima volta in cui eravamo stati tutti
e tre insieme. Non riuscivamo a parlare. Poi mia
madre scoppiò a piangere e tutta la tensione si
sciolse. L’abbracciai. Avevo un groppo in gola. Non
avevo mai provato una gioia e una tristezza così
grandi insieme. Mamma piangeva in modo
incontrollabile. Oltre la sua spalla, il viso di Min-ho
era immensamente triste. Era stato lui a condividere
il suo dolore per tutti quegli anni, e di lì a poco le
avrebbe detto addio per non rivederla,
probabilmente, mai più. Mamma e io facemmo un
passo indietro per guardarci meglio, cercando di
assimilare i cambiamenti del nostro viso, le
devastazioni del tempo. Mamma sembrava fragile e
indifesa. Nella mia mente c’era ancora l’immagine del
suo viso così come l’avevo visto l’ultima volta. Allora
aveva quarantadue anni, ed era una persona così
energica da non riuscire a stare seduta; ora ne aveva
cinquantaquattro, ma sembrava assai più vecchia. Era
molto più magra di come la ricordassi, la bocca tirata
e piena di rughe.
Erano entrambi molto cambiati. Min-ho ormai era
un uomo. Vedevo la forza delle sue spalle e delle
braccia. Dal nostro breve incontro a casa del signor
Ahn erano trascorsi otto anni. Lui celava
accuratamente i suoi sentimenti, proprio come nostro
padre, ma i suoi occhi erano pieni di lacrime alla vista
del turbamento di nostra madre e delle sue mani che
tremavano mentre mi toccava il viso, e poi toccava il
suo, e poi nuovamente il mio.
«Omma» dissi. Mamma poteva leggere la
preoccupazione nei miei occhi.
«Sono invecchiata di dodici anni nelle ultime
dodici ore» replicò lei.
Risi e l’abbracciai di nuovo. Si era sempre presa in
giro per il suo aspetto. Mentre la tenevo stretta,
all’improvviso mi ricordai dei vestiti che indossava
sotto, ancora fradici e gelati.
Furono entrambi più rilassati dopo una bella
doccia calda, ma io ero di nuovo preoccupata. Lì non
eravamo affatto al sicuro. Dovevo mantenere il
controllo, essere vigile. La parte più pericolosa del
piano doveva ancora arrivare.

«Perché hai quelle macchie?» chiese mia madre,


come se il tempo non fosse passato: era esattamente
il commento che avrebbe potuto fare quando avevo
diciassette anni. Lo stress dei preparativi mi aveva
rovinato la pelle. «Se l’avessi saputo ti avrei portato
un po’ di bingdu.» Cristalli di metanfetamina.
«Non credo di averne bisogno, Omma.»
«Guarda che è fantastico per la pelle. Lo mescoli
con un po’ d’acqua, ti lavi la faccia e in men che non si
dica ti ripulisce.»
«Io lo uso quando devo guidare di notte» disse
Min-ho.
Era del tutto inutile discuterne: due mondi
separati e distinti stavano entrando in contatto in
quella camera d’albergo. Min-ho si era messo i jeans
nuovi e la felpa che gli avevo comprato. Era bello. Mio
fratello. Non volevo nemmeno pensare al nostro
imminente addio.

Nessuno di noi era andato a letto, ma non avevamo


voglia di dormire. Io volevo sapere cos’era successo la
sera prima. Dopo aver incontrato la guardia di
frontiera, mamma era andata ad aspettare a casa di
un’amica, a poca distanza da lì. Min-ho aveva tenuto
compagnia alla guardia per qualche ora, poi era
tornato a casa di Yoon-ji, dove già prima del
matrimonio abitava insieme a lei e ai suoi genitori. I
preparativi per le nozze erano a buon punto, ma la
data non era ancora stabilita.
«Avreste dovuto restare insieme» dissi
guardandoli.
«Non potevo permettere che Yoon-ji intuisse che
stavo aiutando mamma a scappare» disse Min-ho. Se
il loro rapporto si fosse guastato, la cosa avrebbe
potuto avere delle conseguenze fatali per lui. «Se
fossimo riusciti a passare la notte scorsa, l’avrei
semplicemente chiamata per dirle che ero qui per
affari e che sarei stato di ritorno fra un giorno o due.
Stamattina, quando sono uscito, stava ancora
dormendo. Le ho lasciato un biglietto.»
Quando Min-ho era tornato sulla riva insieme a
mia madre, appena prima dell’alba, due guardie
stavano pattugliando la sponda del fiume. Gli
avevano chiesto chi fosse la donna. Lui aveva risposto
che era una cliente che doveva incontrare qualcuno in
Cina, e che sarebbe tornata subito.
«Gli ho detto che pagava bene, e che al mio ritorno
ce ne sarebbe stato anche per loro.» Min-ho esitò, e io
vidi la tensione nei suoi occhi. «La cosa buffa è che,
mentre parlavamo, sono comparse altre guardie che
andavano a dare il cambio a quelle che pattugliavano
un po’ più avanti. All’improvviso erano in nove e
avevano smesso di parlare. Hanno cercato di
convincermi a non attraversare il fiume con quella
donna. Di me si fidavano, ma lei non sapevano chi
fosse. Lasciala qui, mi hanno detto. Così, mentre
discutevo con quelle guardie, abbiamo tardato un
po’.»
Gli dissi che avrebbe dovuto aspettare finché non
fossero andate via.
«Si stava facendo chiaro, e non volevo imbattermi
in una pattuglia cinese sull’altra sponda del fiume. A
ogni modo, tutti quei ragazzi mi conoscevano. Non
rappresentavano un problema. Mi sono limitato a
salutarli e ad attraversare.»
Il gruppetto di nove guardie di frontiera era
rimasto a guardarlo mentre prendeva mia madre per
mano e attraversava con lei la corrente fino al punto
più profondo.
Era una cosa assurda. Mi misi a ridacchiare, non
riuscivo più a smettere. L’attraversamento della
frontiera è il momento più pericoloso per chiunque
cerchi di scappare, ma mia madre e mio fratello erano
stati salutati da tutte le guardie di frontiera presenti
lungo quel tratto di fiume.
Avevamo tutti e tre le lacrime agli occhi dal gran
ridere.

Il mattino dopo, quando scendemmo con


l’ascensore, dissi a mia madre e a Min-ho di non
parlare a voce alta al tavolo della colazione. Di tanto
in tanto io avrei rivolto loro la parola in mandarino.
Per il resto del tempo saremmo stati in silenzio, senza
attirare troppo l’attenzione parlando in coreano.
Soprattutto non volevo che qualcuno notasse Min-ho.
Era la persona più giovane presente in albergo; tutti
gli altri ospiti erano gente di mezz’età o ancora più
anziani.
Dopo colazione ci avventurammo fuori, cercando
di parlare il meno possibile. Anche se molte persone
a Changbai parlano il coreano come prima lingua, un
forte accento nordcoreano non sarebbe passato
inosservato. Andammo a fare compere in un mercato,
così potei mostrar loro la grande ricchezza di merci in
esposizione. Poi li portai a mangiare in un lussuoso
ristorante coreano. Ancora una volta immaginavo che
fosse l’ultimo posto dove ci si poteva aspettare di
individuare dei fuggiaschi nordcoreani, ma volevo
anche trattarli bene. Presto Min-ho ci avrebbe
lasciate, e volevo che tutti e tre avessimo un
fantastico ricordo dell’ultima volta in cui eravamo
stati insieme.
Tornati in camera, Min-ho riaccese il suo cellulare.
Suonò subito. Era Yoon-ji.
Al momento di rispondere, la ragazza stava già
gridando. Mamma e io potevamo sentire ogni parola.
«Dove sei? Chi è quella puttana?»
«Perché?»
«Non lo sai cosa sta succedendo?»
«Calmati. Cosa succede?»
«Sembra che tutti siano impazziti, quaggiù.
L’ufficiale che ti ha lasciato attraversare è qui in casa.
Ed è nel panico.»
«Perché?»
«Qualcuno ha informato il comandante che eri
andato dall’altra parte con una donna. Ora lui dice
che se torni subito indietro con lei andrà tutto bene,
ma se torni da solo, allora sì che finisci nei guai. E
anche la guardia per averti lasciato attraversare. Ti
accuseranno di traffico di esseri umani.»
Gli occhi di Min-ho si riempirono di incredulità.
«La guardia è qui. Mi supplica di farti ritornare.
Adesso, subito» disse Yoon-ji. «E chi è quella donna
maledetta con cui hai attraversato?»
«Una che vuole far visita a dei parenti.»
«Bene, e allora perché non ti sei limitato a portarla
di là e a ritornare subito indietro?»
«Mi pagherà bene.»
«Soldi ne abbiamo. Perché correre un rischio
simile per quella puttana?»
«Non dire così.»
«Riportala indietro!» gridò la ragazza.
«Ti chiamo più tardi.»
Min-ho riattaccò e si lasciò cadere sul letto con le
mani sulla faccia.
Mamma e io avevamo sentito ogni cosa.
Min-ho si trovava in un dilemma impossibile da
risolvere, il peggiore della sua vita. Doveva tornare
indietro, ma non poteva farlo senza mia madre, o si
sarebbe sentito chiedere che diavolo lei stesse
facendo in Cina, nel qual caso la risposta poteva
essere solo che era con me. Se tornava da solo,
sarebbe stato accusato di traffico di esseri umani e
sottoposto a interrogatorio. Dopodiché il bowibu
l’avrebbe fatto a pezzi, arrivando in fretta alla verità.
E lui sarebbe finito in una prigione per detenuti
politici da cui non sarebbe più tornato. La sua vita
sarebbe finita.
Andai alla finestra e la mia fronte colpì il vetro con
un rumore sordo. Nemmeno negli scenari più
disastrosi della mia immaginazione avevo previsto
una complicazione simile. Per qualche minuto
nessuno disse niente. Ciascuno era immerso nei
propri pensieri.
Fui io a rompere il silenzio.
«Min-ho, se adesso torni indietro passerai dei guai
terribili» dissi, parlando lentamente e con voce piana.
Mio fratello sembrava una statua di cera. Mamma
non disse niente.
«Se tornate indietro tutti e due, potrebbe andare
anche peggio. E Omma non può tornare senza di te.
Restano due possibilità. Possiamo sperare che i tuoi
rapporti con le guardie di frontiera siano tali da tirarti
fuori dai guai...» Stavo parlando con lui, ma mio
fratello non dava segno di ascoltare. «Oppure... puoi
non tornare indietro.»
Le mie parole riempivano la stanza.
«La guardia tua amica è spacciata; mi dispiace
molto per lui, ma noi siamo la tua famiglia. Min-ho,
non puoi tornare indietro. Non puoi. Sarebbe troppo
pericoloso. Devi venire con noi. Non ho un piano
pronto, ma in qualche modo ce la faremo.»
Sapevo che non c’erano alternative, ma la decisione
spettava a lui. Entrambe le opzioni erano
estremamente rischiose. Min-ho avrebbe dovuto
attraversare la Cina illegalmente, inoltre io avevo
denaro sufficiente per mia madre e il passatore, ma
non pensavo di averne abbastanza anche per lui. Non
ero sicura che avremmo potuto farcela tutti e tre. Ma
se mio fratello pensava davvero di poter tornare
indietro, di poter affrontare la situazione con la sua
faccia tosta corrompendo abbastanza gente da uscire
da quel guaio, la decisione era esclusivamente sua.
Min-ho era sconvolto.
«Non posso tornare» disse in un sussurro. «Questo
lo sappiamo tutti.»
Presi la sua mano e quella di mia madre e le tenni
tra le mie. «Partiremo insieme. Faremo il possibile.»
Il suo telefono squillò. Era di nuovo Yoon-ji.
«Sei già sulla via del ritorno?» chiese.
«La cosa mi porterà via ancora un altro giorno»
rispose lui con voce pacata.
Stava cercando di guadagnare tempo. I genitori di
Yoon-ji gli volevano bene e conoscevano della gente
che avrebbe potuto aiutarlo. Ma se avessero pensato
che voleva scaricarla avevano anche il potere di
impedirgli la fuga. Il bowibu era autorizzato a operare
anche in Cina per rintracciare i fuggiaschi.
«Devi tornare subito!» gridò la ragazza. La
sentivamo piangere.
Evidentemente intuiva che non sarebbe più
ritornato.

Il mattino dopo decidemmo di lasciare Changbai il


più presto possibile. Min-ho non osava quasi
accendere il cellulare, che suonava ogni secondo. Era
di nuovo Yoon-ji, ora un po’ più calma. Disse che
aveva la sensazione che non sarebbe più tornato. I
suoi genitori erano lì con lei.
«Dimmi... la donna che è con te: è davvero
un’estranea? O è tua madre? Dimmi la verità.»
«È mia madre» rispose lui. «Mia sorella è venuta a
prenderla. È per questo che ho attraversato.»
I genitori della ragazza l’avevano immaginato.
Yoon-ji ricominciò a piangere.
«Min-ho, ti prego, ritorna!» Ora lo stava
supplicando. «Mi hai lasciato un biglietto, pur
sapendo che stavi andando via per sempre. Come hai
potuto lasciarmi dormire senza nemmeno dirmi
addio?»
Mamma si premette le mani sulla bocca. Tutto ciò
le stava spaccando il cuore.
A Min-ho tremavano le labbra. «Ti prego, devi
credermi. Io volevo tornare indietro, lo vorrei ancora,
ma non posso riportare indietro Omma. E come
faccio a ritornare da solo? Controlla i soldi nel
cassetto: sono tutti là. Se avessi avuto in mente di
andarmene per sempre, credi che li avrei lasciati a
casa?»
«Ti credo» disse la ragazza. «Ma ti prego, torna
indietro.»
«Min-ho.» Stavolta era una voce d’uomo. Ferma. Il
padre di Yoon-ji. «Ti supplico, ritorna. Fallo per Yoon-
ji.»
Min-ho non rispose. Faceva lunghi e profondi
respiri. Aveva l’espressione di quando era piccolo e
non voleva che qualcosa gli accadesse. Gli tolsi il
cellulare di mano.
«Sono la sorella di Min-ho» dissi. La freddezza
della mia voce mi colpì. «Anche noi vorremmo che
potesse tornare indietro; e lo vorrebbe lui. Qualsiasi
cosa scelga di fare adesso è estremamente pericolosa.
Ma vi prego, cercate di capire che tornare indietro è
l’opzione più pericolosa di tutte.»
«È un problema serio, lo so» disse l’uomo. «Ma
faremo tutto ciò che è in nostro potere, a qualsiasi
costo, per risolverlo.»
«Bene. Grazie mille. Anche noi cercheremo di farci
venire in mente qualcosa» risposi. «Ci sentiamo
domani.»
Sentivo Yoon-ji piangere istericamente. Chiusi la
comunicazione. Era evidente che quei due erano
davvero innamorati.
Spensi il cellulare e, del tutto inaspettatamente,
scoppiai in lacrime. Ero sfinita. Guardai mia madre,
che era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Potevo
solo immaginare quanto si sentisse in colpa. Lei era
sempre stata la roccia delle nostre vite, quella che
sapeva come risolvere i problemi, come sistemare le
cose. E ora poteva solo stare a guardare mentre i suoi
figli lottavano contro una calamità che li aveva colpiti
solo un giorno dopo il loro ricongiungimento.
«Vado a farmi la doccia» disse Min-ho.
Mamma mi lanciò un’occhiata perplessa. Mio
fratello si chiuse in bagno, poi lo sentimmo aprire i
rubinetti e far scorrere l’acqua. Infine udimmo il
fruscio della doccia. Mamma e io ci guardammo, poi
abbassammo lo sguardo. Lo sentivamo singhiozzare.
Era un’agonia. A mio fratello restavano solo i vestiti
che aveva addosso. Sua madre e sua sorella non
potevano fare niente per lui. E le parole non potevano
bastare.
Qualche minuto dopo Min-ho uscì dal bagno,
vestito, asciugandosi i capelli con una salvietta.
Fingemmo di non aver sentito nulla. Aveva ritrovato
un contegno.
«Dunque, Nuna, quale sarebbe il piano?» Mi aveva
già chiamato così una volta, al telefono, ma fui felice
di sentirglielo dire di persona.
«Lasceremo questa città fra meno di un’ora.»
44
Viaggio nella notte

Lasciai Min-ho e mia madre in camera e corsi alla


stazione degli autobus a comprare i biglietti. Fuori
c’era una grande animazione. Mi sentivo fremere di
nervosismo, come se tutte le persone che mi
passavano accanto stessero allungando la mano per
afferrare il cellulare e chiamare il bowibu. Alla
stazione, finalmente, capii il motivo di tanta
agitazione. C’erano poliziotti ovunque: polizia della
sicurezza in uniformi blu scuro, polizia dell’Esercito
del popolo in verde oliva. Che diavolo stava
succedendo?
Quando chiesi i biglietti, la donna allo sportello mi
tese la mano. «La sua carta d’identità e quella degli
altri viaggiatori.»
Ero incredula. «Le carte d’identità?»
«È la Festa nazionale» rispose la donna con voce
piatta. «Nel caso non l’abbia notato.»
Questo spiegava la presenza massiccia della
polizia: era il 1° ottobre del 2009, vale a dire il
sessantesimo anniversario della fondazione della
Repubblica popolare cinese. Per evitare che qualcosa
potesse guastare le celebrazioni, in occasione della
Festa nazionale la vigilanza veniva sempre
aumentata. Ma il sessantesimo era considerato un
anniversario talmente importante da richiedere il
massimo della sicurezza.
Mi guardai attorno. Stentavo a crederci. Non solo
avevo scelto la peggior notte possibile per far
attraversare il fiume a mia madre, ma avevo anche
scelto il giorno peggiore di tutto un decennio per
mettermi in viaggio.

«Min-ho, potresti farti prestare una carta d’identità


da qualcuno a Changbai? Andrà bene chiunque.»
Min-ho rispose che avrebbe potuto tentare con
qualcuno dei suoi contatti.
Il primo aveva un negozio di motociclette usate.
Uscì dall’officina non appena ci avvicinammo,
pulendosi le mani su una maglietta unta e piena di
macchie.
«Cosa ci fai qui? E lei chi è?» fu il suo modo di
salutare. Non era grasso, ma la sua postura era così
cadente che la pancia debordava da sopra la cintura.
Min-ho gli disse che stava comprando qualche
regalino per chuseok, la festa del raccolto autunnale,
che si sarebbe tenuto di lì a due giorni. Mi presentò
come una cugina di Shenyang, e aggiunse che anche
lui voleva andare in quella città ma aveva bisogno di
farsi prestare per qualche giorno una carta d’identità.
«Se te la presto e tu finisci nei guai, secondo te
cosa dovrei fare?»
Min-ho mi aveva detto che l’uomo era un tipo
onesto, ma un codardo fatto e finito quando si
trattava di aggirare un po’ le regole.
«Denunciarne il furto» risposi io.
L’uomo sbuffò e scosse lentamente la testa.
Il secondo contatto di Min-ho era un commerciante
di pezzi di ricambio per motociclette, un tipo
socievole con una barba a chiazze. Lo portammo fuori
a pranzo e gli raccontammo la stessa storia. Mi offrii
di pagargli mille yuan e promisi di rimandargli la
carta d’identità nel giro di una settimana.
«E se vi beccano?» domandò lui accendendosi una
sigaretta.
«Dichiari di averla persa e te ne fai fare una
nuova.»
Insieme al fumo l’uomo soffiò fuori una risata
nervosa. «C’è in giro un mucchio di poliziotti. Stanno
controllando tutti.» Era chiaramente tentato di dirci
di no. E invece disse: «Lasciatemi un giorno per
pensarci».
Non avevamo altra scelta, dovevamo aspettare.
Andai a casa della signora Ahn per vedere se poteva
aiutarci. La casa era chiusa. Un vicino ci disse che era
andata a vivere da un’altra parte.
Avevamo esaurito le possibilità. O era il
commerciante di pezzi di ricambio o... niente. E nel
frattempo dovevo pagare un’altra costosa notte in
albergo.
Ero stretta in un angolo. Di solito, quando ciò
succedeva, chiudevo gli occhi, e supplicavo disperata i
miei antenati chiedendo il loro aiuto. Ormai però non
mi aspettavo nessun miracolo. La nostra situazione
sembrava senza speranza.
Il commerciante chiamò la mattina dopo mentre
facevamo colazione.
«Questa cosa mi spaventa a morte, ma tuo fratello
mi ha aiutato a fare un mucchio di soldi. Glielo devo.»

Guardando la sua carta d’identità notai che l’uomo


aveva trentotto anni: Min-ho ne aveva ventidue, e non
gli somigliava affatto. Ma era il sesso a contare più di
tutto. Immaginavo che fosse l’unica cosa che la
polizia avrebbe controllato. Era una carta d’identità
diversa dalla mia, scritta sia in cinese sia in coreano,
una cosa che non avevo mai visto prima.
Il commerciante di pezzi di ricambio ci disse che,
in previsione delle celebrazioni per il sessantesimo
anniversario, la polizia aveva organizzato un repulisti
in grande stile. I viaggiatori avrebbero dovuto
affrontare controlli e blocchi stradali un po’
dappertutto. La cosa più sensata sarebbe stata
aspettare due settimane, fintanto che le acque non si
fossero calmate: ma non avevo abbastanza soldi.
Dovevamo partire. Non volevo spaventare mia madre
e Min-ho, così li rassicurai dicendo che avevo fiducia
nella nostra buona sorte. Se la fortuna era dalla
nostra, saremmo stati protetti in qualsiasi situazione.
Se non lo era, non c’era nulla che potessimo fare.
Alla stazione comprai tre biglietti per un pullman
che partiva alle due del pomeriggio del giorno dopo, e
che aveva delle cuccette su due livelli e su tre file
divise da corridoi. Chiesi le tre cuccette in fondo al
secondo livello. Speravo che, se il veicolo fosse stato
fermato, i poliziotti avrebbero percorso i due corridoi
raccogliendo tutte le carte d’identità: là in fondo,
allora, non avrebbero potuto vederci bene né
controllare se i documenti erano proprio i nostri.
Il pullman partì in orario. Il nostro viaggio era
cominciato. Avevo lo stomaco stretto in una morsa,
ma ero anche speranzosa. Il fatto di aver ottenuto un
documento per Min-ho mi faceva pensare che la
fortuna fosse girata dalla nostra parte. Uscimmo dalla
città in direzione sudovest, lungo il fiume Yalu. La
prima tratta del viaggio, fino a Shenyang, era di circa
duecentocinquanta chilometri, zigzagava fra le colline
e durava dodici ore.
Io tenevo la macchina fotografica vicino al
finestrino. Il giorno prima avevo scattato alcune foto
di Hyesan: quello sguardo fuggevole, probabilmente,
sarebbe stato l’ultimo. Intravedere l’alto muro bianco
della nostra vecchia casa in riva al fiume mi aveva
intristito e fatto riflettere. Ripensavo a certe giornate
di primavera, prima della carestia, quando mio padre
faceva saltare i sassi sull’acqua del fiume e il mondo
di là dalla corrente mi sembrava vasto e misterioso.
Il pullman passò oltre la dogana alla fine del Ponte
dell’Amicizia. Scattai qualche altra fotografia. Poi, a
meno di cinque minuti dall’inizio del nostro viaggio,
l’autobus rallentò e accostò.
Ci chinammo nel corridoio fra le cuccette per
vedere cosa stesse succedendo. La porta idraulica si
aprì con un sibilo e un soldato in uniforme e berretto
verde salì a bordo con un fucile automatico.
Mi si attorcigliarono le budella.
Guardai fuori dal finestrino dalla parte di Min-ho.
Un drappello di Polizia del popolo stava
organizzando quello che sembrava essere un posto di
blocco volante. C’erano alcune jeep parcheggiate
lungo entrambi i lati della strada.
Il poliziotto avanzò lungo il corridoio. Non
chiedeva di vedere le carte d’identità, scrutava la
gente negli occhi e guardava ogni passeggero in
faccia. Perché? In cerca di segni di nervosismo? A
caccia di qualcuno che non fosse cinese? Solo in quel
momento mi resi conto che Min-ho era l’unico uomo
di tutto il pullman: tutti gli altri passeggeri erano
donne, e Min-ho non sembrava affatto cinese. Aveva
la pelle segnata dalle intemperie ed era più scuro di
un cinese medio della sua età: la crema solare non
esiste nella Corea del Nord. Poco prima, per strada,
gli avevo dato il mio berretto da baseball per
proteggergli il viso dal sole. Ora lui se l’era tirato
sugli occhi per fingere di dormire.
Il poliziotto avanzava lentamente, scrutando ogni
viso. Il cuore mi pulsava nelle orecchie. Ormai aveva
controllato più di metà dei passeggeri.
Guardai il ponte con le sue bandiere al vento.
Potevo vedere le guardie di frontiera nordcoreane
camminare all’altra estremità.
Il poliziotto era ormai a pochi passi da noi.
Incrociò il mio sguardo. Poi vide Min-ho.
Tutto sembrò accadere al rallentatore. Io misi giù
le gambe dalla cuccetta bloccando il passaggio. Poi
sentii qualcosa di duro e metallico nella mano: era la
mia macchina fotografica. Senza pensarci, inquadrai
il viso del poliziotto e scattai. Non so perché, il flash
era inserito.
«Ehi!» esclamò il poliziotto.
Poi sollevai le gambe, inquadrai il finestrino e
cominciai a scattare fotografie della polizia armata al
posto di blocco.
Lui mi afferrò il braccio. «Niente fotografie.»
«Oh.» Feci un sorrisetto stupido e mi portai una
mano alla bocca. «Scusi. Ma lei è così bello in
uniforme.»
Dietro il poliziotto tutti i passeggeri del pullman
avevano sporto la testa nel corridoio per guardare.
«È proibito. Le cancelli subito.»
«Oh...» risposi io, cercando di sembrare
contrariata. «Non posso tenere almeno questa?»
«No. Adesso si sbrighi.»
Tutti gli altri passeggeri avevano l’aria di gente di
Changbai. Io sembravo una ragazza di qualche altra
parte del mondo, straniera ed elegante. Con un po’ di
fortuna avrebbero pensato che ero una turista che
non sapeva niente di niente. Il poliziotto era
imbarazzato e infastidito, consapevole del fatto che
tutto il pullman lo stava guardando.
«Ecco, questa è quella dove c’è lei» dissi. Il suo viso
era pallido e attonito. «Guardi, la sto cancellando.»
Poi l’uomo si voltò e se ne andò inciampando
lungo il corridoio per sottrarsi a quegli sguardi. La
porta automatica si chiuse dietro di lui.
Mi lasciai ricadere nella mia cuccetta. Cosa è
accaduto? Avevo la sensazione di stare tornando alla
realtà, come se fossi appena scesa da un palcoscenico
e la performance mi avesse lasciata esausta. Avevamo
ancora duemila chilometri davanti a noi. Ogni quanto
tempo sarebbe accaduto?
Per il resto del viaggio fino a Shenyang restammo
sdraiati nelle nostre cuccette senza parlare. Quando il
sole calò, anche gli altri passeggeri si prepararono a
dormire sotto delle ruvide coperte.
Io rimasi sveglia, ascoltando il ruggito del motore
mentre la strada si srotolava all’infinito davanti a noi.
Ero troppo nervosa per dormire. La mia mente
correva più veloce del pullman, cercando di prevedere
il pericolo.
45
Sotto un vasto cielo asiatico

A Shenyang la zia avrebbe voluto che portassi mia


madre a casa sua per un paio di giorni, affinché
potesse acclimatarsi: ma non avevamo tempo da
perdere. Avevo programmato con cura la tappa
successiva del nostro viaggio. Prendere l’aereo per
Kunming sarebbe stato più veloce, un viaggio di non
più di sei ore, ma purtroppo era fuori discussione: le
autorità aeroportuali avrebbero sicuramente prestato
molta attenzione alle nostre carte d’identità. In treno
ci avremmo messo due giorni, ma il controllo dei
documenti sarebbe stato ancor più angosciante
perché sarebbe avvenuto vis-à-vis. L’opzione meno
pericolosa era quella di viaggiare su strada. Sarebbe
stato però molto faticoso: con tutti i cambi di autobus
e le attese, avevo calcolato che ci sarebbe voluta una
settimana. Questo comportava un maggior numero di
controlli, ma l’autista avrebbe passato tutte insieme
le carte d’identità al poliziotto, che le avrebbe
controllate senza confrontarle ciascuna con il suo
proprietario.
Ci preparammo ancora una volta. Avremmo
attraversato in pullman ben otto grandi province
della Cina.
Se avessimo incontrato altri problemi avremmo
finto che mia madre e Min-ho fossero sordomuti e io
la loro guida. Era un’idea disperata, folle e ridicola,
ma era l’unica che mi fosse venuta in mente.
La tratta successiva del nostro viaggio era quella
per Zhengzhou, capitale della provincia di Henan, sul
Fiume Giallo, quasi novecento chilometri a sudovest
di Shenyang. Un viaggio di diciotto ore.
Raggiungemmo il primo posto di blocco un’ora dopo
l’inizio del viaggio. Come avevo sperato, l’autista
raccolse tutte le carte d’identità e le diede al
poliziotto, che se le portò via per il consueto
controllo. A Changbai mi era sembrato che l’agente
guardasse in fondo al corridoio appena salito a bordo.
Probabilmente per questo aveva subito individuato
Min-ho. Così quella volta decidemmo di sederci
proprio davanti, nei posti più visibili, per dare
l’impressione di non avere niente da nascondere. Di
nuovo prendemmo dei posti del secondo livello, con
Min-ho vicino al finestrino, me in mezzo e, siccome il
posto vicino al mio era già occupato, mamma appena
dietro, anche lei nella fila di mezzo. Dieci minuti
dopo il poliziotto tornò indietro e restituì i documenti
all’autista.
Nel momento in cui la porta automatica si richiuse
riprendemmo a respirare. Eravamo in salvo.
Cominciammo a parlare liberamente. Ci sentivamo
riposati, dopo la notte trascorsa nell’albergo di
Shenyang. Così chiacchierammo, ridemmo e
mangiammo merendine. Il pullman era pieno. Ormai,
se non ci avevano preso per sino-coreani, gli altri
passeggeri dovevano aver pensato che fossimo di
qualche gruppo etnico minoritario, o forse stranieri.
Lungo la superstrada il pullman si fermò due volte e i
passeggeri scesero per sgranchirsi un po’ le gambe,
andare in bagno e mangiare qualcosa al ristorante.
Sette o otto ore dopo il pullman si fermò di nuovo.
Erano le prime ore del mattino, e dovevamo trovarci
da qualche parte vicino a Pechino. Davanti a noi, delle
luci blu roteavano e lampeggiavano sul tetto delle
jeep della polizia. Ancora una volta l’autista raccolse i
documenti e li passò al poliziotto. Pochi minuti dopo
questi salì a bordo con le carte d’identità in una mano
e disse all’autista di accostare al bordo della strada e
di accendere le luci interne.
Sentendomi sfiorare dall’aria condizionata mi
accorsi di avere la fronte imperlata di sudore.
Il poliziotto guardò la prima carta d’identità,
chiamò un nome e un passeggero avanzò a fatica
lungo il corridoio.
«Nome?» chiese il poliziotto. «La sua residenza?
Dove sta andando? Qual è lo scopo del suo viaggio?»
E solo quando il passeggero ebbe risposto all’ultima
domanda l’agente gli restituì la carta d’identità.
All’improvviso mi resi conto di quanto stava
accadendo.
Sta cercando degli illegali che non sappiano parlare il
mandarino.
Mi sentivo esposta e indifesa. La nostra allegra
conversazione in coreano ci aveva rovinati. Mi venne
uno spasmo muscolare proprio sotto l’occhio, e
dovetti fare una smorfia per farlo smettere.
Ecco. Siamo spacciati.
Mi voltai per vedere se mamma e Min-ho avevano
capito ciò che stava succedendo. Mio fratello stava
bevendo di nascosto da una bottiglia di Maotai, uno
scadente liquore cinese. Il fetido odore dolciastro di
quella bevanda aveva già raggiunto la mia cuccetta. Se
gli avessero fatto delle domande, avrebbe finto di
essere ubriaco. Riavvitò silenziosamente il tappo
della bottiglia e chiuse gli occhi. Ero immensamente
dispiaciuta per lui e per mia madre. Era tutta colpa
mia. In quel momento avrebbero potuto essere sani e
salvi a casa. Saranno loro a pagare il prezzo del mio
egoismo.
La strategia di Min-ho non avrebbe funzionato.
«Chang-soo.» Il poliziotto stava chiamando il nome
scritto sulla carta d’identità di Min-ho. Il nome era
coreano, ma l’uomo lo pronunciò in mandarino. Mio
fratello aveva gli occhi chiusi. Non c’era niente che io
potessi fare per lui.
Il poliziotto chiamò di nuovo. Nessuna risposta. Lo
chiamò una terza volta, irritato. Io scrollai Min-ho,
fingendo di volerlo svegliare. Gli altri passeggeri lo
guardarono mentre saltava giù dalla cuccetta. Da
dove mi trovavo potevo vedere le sue gambe
ondeggiare. Si muoveva lentamente, come chi avanza
verso la fucilazione. Il mio cuore sanguinava per lui.
Ma non potevo fare ciò che avrebbe fatto un
qualunque passatore: accoccolarmi nella mia cuccetta,
guardare fuori dal finestrino e abbandonarlo al suo
destino.
Mi beccherò la pallottola destinata a lui.
«Come si chiama?» gli domandò il poliziotto in
mandarino. Min-ho se ne stava inerme davanti a lui, a
testa bassa, senza dire niente. Il poliziotto guardò la
carta d’identità, poi guardò lui.
«È sordomuto» dissi io in mandarino, saltando giù
dalla cuccetta.
«E lei chi è?»
«Siamo insieme» risposi. Lui tirò fuori il mio
documento.
«Davvero è sordomuto?» Il poliziotto guardava la
mia carta d’identità e quella di Min-ho. «La sua è in
cinese. Lui invece è straniero.»
«Quelli sono caratteri coreani» dissi io. «I sino-
coreani del Nordest hanno i documenti scritti in
entrambe le lingue.»
«Mai visto prima.»
«La ragazza ha ragione» intervenne il conducente.
Voltai la testa e lo vidi tamburellare con il dito sul
quadrante dell’orologio in segno d’irritazione. «I
documenti d’identità sono tutti così nelle province
autonome coreane.»
La novità dei caratteri coreani aveva distratto il
poliziotto dalla foto e dalla data di nascita segnata
sulla carta d’identità. Guardò ancora una volta Min-
ho con sospetto, poi gli restituì il documento.
All’improvviso un grugnito scimmiesco distrasse
tutti quanti. Mia madre era scesa dalla cuccetta e
stava farfugliando come chi non è consapevole di non
stare emettendo alcun suono. Agitava le braccia
fingendo una grande irritazione. La performance fu
così stupefacente che il poliziotto fece un passo
indietro.
Imprecò. «Un altro?»
«Anche lei è con me» risposi io, in tono di scusa.
«Sono la loro guida.»
Riluttante, il poliziotto ci restituì i documenti
senza ulteriori domande. L’intero pullman aveva
assistito a quella bizzarra sceneggiata. Quei
passeggeri ci avevano sentiti chiacchierare per ore:
forse erano solo troppo stupiti per parlare, ma
nessuno di loro ci tradì. Avevo cinquantadue complici
in un reato, e non ne conoscevo nemmeno uno.
Un minuto dopo l’autobus era di nuovo in viaggio.
Mamma e Min-ho avevano la faccia di chi è appena
scampato al plotone d’esecuzione. Dietro di me
sentivo il calore dello sguardo degli altri passeggeri.
Avrei voluto voltarmi e dir loro qualcosa, a mo’ di
scusa o di ringraziamento, ma ero troppo
imbarazzata e spaventata. Il resto del viaggio durò
otto ore. Mamma e Min-ho non osarono dire una sola
parola.

Arrivammo a Zhengzhou nel tardo pomeriggio e di


là viaggiammo fino a Guilin, la capitale della
provincia di Guangxi, inosservati in mezzo a un
gruppo di turisti in visita alle famose colline carsiche
lungo il fiume Li. Sonnecchiammo per buona parte di
queste ventiquattr ’ore. Di tanto in tanto scostavo la
tendina per vedere il vasto cielo asiatico incurvarsi su
una distesa infinita di basse colline. Il gelido Nordest
era ormai lontano: eravamo arrivati nella Cina
subtropicale. Un’altra tratta notturna verso ovest e il
mattino del settimo giorno raggiungemmo Kunming,
nella provincia dello Yunnan.
Sentivo crescermi dentro la determinazione e un
senso di eccitazione. Ormai eravamo vicini al confine
della Cina: il confine della libertà. Stavamo per
farcela. Stavamo per uscirne.

Il passatore del reverendo Kim ci aspettava nella


biglietteria della stazione dei pullman di Kunming.
Era un cinese abbronzato, di mezz’età, in jeans neri,
giacca di pelle da poco prezzo e occhiali scuri. Si
presentò come signor Fang. Mi fece subito una
pessima impressione.
Io ero quella che lo avrebbe pagato per i suoi
servigi, eppure fin dal primo istante si comportò
come se ci trovassimo lì solo per irritarlo, quasi ci
stesse facendo un favore. Lo vidi guardare mia madre
e scuotere la testa. Mamma, un tempo, aveva avuto un
rango elevato nella nostra società in quanto moglie di
un ufficiale importante, ma agli occhi di
quell’individuo era solo una vecchia in fuga e a mani
vuote. Tutto il suo linguaggio corporeo esprimeva
disprezzo; e il suo modo di parlare ancora di più.
Essendo coreana sono molto sensibile al modo in
cui gli altri mi trattano. Nella nostra cultura
gerarchica, tutte le altre persone sono al di sopra o al
di sotto di te. Con chiunque sia al di sopra sei tenuto
a usare dei termini onorifici: così, quando si incontra
qualcuno che non si conosce, la cosa più sicura è
essere molto gentili finché non si è in grado di
precisarne l’età o lo status. Ma quell’uomo cominciò
fin da subito a parlarci con un linguaggio solitamente
riservato ai bambini. Ed era particolarmente
sprezzante con Min-ho.
«Quello stupido se la prende comoda» disse
quando mio fratello ebbe bisogno del bagno della
stazione.
Se fossimo stati a Seul gli avrei detto
tranquillamente in faccia di badare al suo
comportamento, ma trattenni la rabbia. Non potevo
permettere che i sentimenti interferissero con il
nostro obiettivo. Così mi sforzai di pensare che si
trattava solo di un altro tipo di posto di blocco, da
passare con nervi saldi e autocontrollo. La sicurezza
della mia famiglia veniva al primo posto.
Il coreano del signor Fang era così infarcito di
mandarino che spesso dovevo chiedergli di ripetere.
Non avevo mai sentito un coreano così storpiato. Alla
fine gli dissi di parlare mandarino, cosa che lo irritò
ulteriormente.
Nel frattempo mamma e Min-ho non stavano
reagendo bene all’aria umida e pesante di Kunming e
al penetrante puzzo di benzina. A peggiorare le cose,
il cibo fritto nell’olio che avevamo mangiato lungo la
strada dopo la partenza da Shenyang gli stava
presentando il conto. Il loro organismo non era
abituato a quella roba, e avevano dei crampi allo
stomaco. Mio fratello, forte e muscoloso com’era, era
diventato apatico e fiacco proprio nella fase del
viaggio in cui avrebbe dovuto essere più in forma.
Il signor Fang ci condusse in una pensione dove
avremmo dovuto passare la notte. Era un alloggio
economico, in un fatiscente quartiere di vecchie case
a un solo piano separate da vicoli in terra battuta,
stretti e cosparsi di escrementi. Quando accesi la luce
del bagno, tante piccole lucertoline scapparono via
sulle pareti. Al posto della pigna della doccia c’era un
calzino infilato nel rubinetto.
Il signor Fang si sedette sul letto e parlò subito del
pagamento. Intanto, senza chiedere se ci desse
fastidio, si accese una sigaretta.
Tirai fuori i soldi. Sapevo ormai per esperienza che
con questa gente la cosa peggiore era tradire un
qualche segno di disperazione o fare appello alla
compassione. Quindi parlai come se si trattasse di
una situazione gestibile, sotto controllo.
«Quando mi sono messa d’accordo con il
reverendo Kim abbiamo pattuito il passaggio solo per
mia madre. Ma poi c’è stato un problema e mio
fratello è dovuto venire con noi. Fatto sta che al
momento ho i soldi solo per una persona.»
«Avevamo un accordo.»
«E ce l’abbiamo ancora» dissi io. «Non appena sarò
tornata a Seul pagherò la tariffa extra al reverendo
Kim. Che potrà trasferirla a lei.»
L’uomo imprecò piano. «Non credo possa
funzionare, piccola miss.»
«Certo che funzionerà, perché io le lascerò in
pegno la mia carta d’identità sudcoreana.» La presi
dal portafogli e gliela tesi. «Tenga. Così lei e il
reverendo Kim saprete esattamente chi sono e dove
vivo, e potrete venire a cercarmi se non pago. Ma io
pagherò.»
La carta d’identità era l’unica cosa in mio possesso
che potesse convincerlo ad avere fiducia.
Per un momento sembrò soppesare il documento
sulla mano misurandone il valore, poi se lo infilò nel
taschino della giacca.
«Partiranno domani mattina» disse, indicando con
un cenno del capo mia madre e Min-ho. «Saranno
accompagnati oltre il confine. In Laos.»
Dove? «No, noi stiamo andando in Vietnam.»
«Quello era il piano: ma due giorni fa un gruppo di
nordcoreani è stato catturato in Vietnam e rimandato
in Cina.»
Guardai mia madre, che non stava seguendo la
conversazione in mandarino ma poteva vedere
l’allarme nei miei occhi.
«Prima i vietnamiti lasciavano passare voi
nordcoreani diretti nella Corea del Sud» disse
l’uomo. «Non sappiamo perché le cose siano
cambiate, ma ora quel percorso non è più sicuro. Non
possiamo correre rischi. Meglio passare per il Laos.»
In testa mi frullavano mille pensieri. «Dov’è il
Laos?»
«Vicino al Vietnam. Da qui è la stessa distanza:
sette ore.»
«Ed è sicuro?»
«Sicuro?» L’uomo fece una smorfia. «Non c’è
niente di sicuro. Ma è una cosa che facciamo da molto
tempo. Possiamo farvi attraversare il confine e
portarvi fino all’ambasciata sudcoreana di Vientiane.»
Il passatore vide di nuovo il mio sguardo vuoto. «È
la capitale. È là che porterò sua madre e suo fratello.»
Aspirò un’ultima boccata dalla sigaretta e la gettò
fuori dalla finestra aperta, creando una scia di
scintille.
«Be’, verrò anch’io.»
«No, lei no.» Notai un lampo di sospetto nei suoi
occhi, come se io avessi voluto rubargli i segreti della
sua attività. «Lei se ne torna dritta a Seul.»
«No, non li lascerò. Hanno bisogno di me.»
«Saranno in buone mani.»
«Non parlano il mandarino e non sanno niente del
mondo fuori dalla Corea del Nord. Voglio stare con
loro.»
«Troppo pericoloso. Lei sarebbe di peso, piccola
miss.»
Strinsi i pugni. Se mi chiama in quel modo ancora una
volta...
«Tutto ciò che facciamo è illegale» disse. «Con un
passaporto sudcoreano si può entrare nel Laos per
quindici giorni senza bisogno del visto. Ma loro non
hanno alcun passaporto.» L’uomo fece un cenno
noncurante in direzione di mia madre e mio fratello.
«Se la beccassero insieme a loro sarebbe arrestata per
favoreggiamento di immigrazione clandestina.
Penserebbero che è una passatrice e finirebbe in
prigione, dopodiché non potrebbe più aiutare
nessuno. I suoi hanno bisogno che lei sistemi le cose
nella Corea del Sud.»
«Potrei viaggiare con la mia carta d’identità cinese»
dissi.
Nel momento in cui le parole mi uscirono di bocca
seppi che non era una buona idea.
L’uomo sembrò leggermi nel pensiero. «E se
qualcosa andasse storto dov’è che vorrebbe essere
rimandata, nella Corea del Sud o in Cina? Se i cinesi
dovessero scoprire che lei è una transfuga...»
Il pensiero rimase sospeso a mezz’aria.
Aveva vinto lui. Non c’era nient’altro che potessi
dire.
In ogni singola ora dell’ultima settimana ero stata
la sola ancora di salvezza per la mia famiglia. Ma ora
un’altra persona mi toglieva di mano il controllo. E io
dovevo cederlo a un uomo di cui non mi fidavo per
niente.

All’alba, nell’aria carica di umidità, risuonava il


cinguettio di uccelli sconosciuti. Il vicolo puzzava di
spazzatura in decomposizione. Non impiegammo più
di qualche minuto per prepararci. Mamma avrebbe
portato con sé solo una valigetta, così diede a me i
suoi vestiti invernali. Uscii per comprarle delle cose
per la toilette. Poi controllai la somma che mi restava
nel portafogli. Non c’era molto, e dovevo ancora
comprare il biglietto aereo per Seul.
Andai con loro alla stazione degli autobus. Diedi a
Min-ho mille yuan. Scrissi il numero del mio cellulare
sudcoreano e chiesi a entrambi di memorizzarlo.
Poi fu il momento dei saluti. Non avrei mai voluto
lasciar andare le loro mani, ma Min-ho mi sorrise e
disse: «Nuna, andrà tutto bene».
Guardai il pullman allontanarsi finché non svoltò
l’angolo, sparendo alla vista. Siate prudenti. I dadi
rotolavano ancora una volta. Ora era tutto nelle mani
del destino.
Restai a Kunming finché non ebbi notizie da Min-
ho, che mi chiamò in serata. Erano arrivati al confine
senza incidenti. L’avrebbero attraversato all’alba,
quando il signor Fang avesse corrotto le guardie. Alle
cinque del mattino mi chiamò di nuovo.
«Siamo nel Laos.»
Il sollievo mi inondò come una tiepida pioggia
primaverile. La fine del viaggio era in vista. Per giorni
e giorni i miei nervi erano stati tesi fin quasi al punto
di rottura; ora, man mano che la tensione
abbandonava il mio corpo, mi sentivo così stanca da
non riuscire a muovermi.
All’ufficio postale spedii le due carte d’identità che
avevamo preso in prestito. Poi, con qualche
esitazione, chiamai Kim a Seul. Era più di una
settimana che non lo sentivo, e non gli avevo detto
niente di ciò che intendevo fare. Non avevo nemmeno
risposto ai suoi preoccupati sms. Quando gli dissi
dov’ero, comunque, sembrò più scioccato che offeso.
«Dove?»
In sottofondo sentii la riunione di lavoro cui stava
partecipando zittirsi di colpo. Gli raccontai
brevemente ciò che avevo fatto, e che la mia famiglia
si trovava nel Laos e si stava dirigendo verso
l’ambasciata sudcoreana.
Avvertii un silenzio attonito dall’altra parte. Poi
Kim disse: «Non so cosa dire», e sentii di nuovo
quella sua risata gentile. «Torna presto.»
Probabilmente pensava che fossi pazza, ma nella sua
voce percepii anche una nota d’ammirazione. «Voglio
sapere tutto.»

Presi posto sul sedile posteriore di un taxi,


soddisfatta di aver portato a termine una missione
difficile. Non vedevo l’ora di uscire dalla sporcizia e
dall’umidità di Kunming. Ci stavamo avvicinando al
terminal delle partenze quando squillò il telefono.
Era il signor Fang. In un primo momento non
riuscii a sentire nulla perché un aeroplano stava
volando talmente basso sopra la mia testa che potevo
vedere i segni della ruggine sulla fusoliera. Colsi solo
la parola problema. Il mio stomaco si fece di pietra.
«Problema?»
Stavo fissando la nuca del tassista, con il cellulare
premuto contro l’orecchio.
«La polizia li ha presi.»
46
Persi nel Laos

Chiusi gli occhi. Non sta succedendo a me.


«Quale polizia? Quella cinese?»
«Quella del Laos.»
«Dove? Quando?»
«Non lo so.»
«Non lo sa?» La mia voce divenne un urlo. «Dove
sono, e cosa pensa di fare per loro?»
«Non c’è niente che io possa fare, piccola miss»
sibilò lui. «Li hanno fermati a un posto di blocco.
Avremmo potuto riscattarli, ma lei non mi ha dato
abbastanza denaro.»
«Le ho dato il 50 per cento, come concordato.»
«Al check-point abbiamo cercato di corrompere i
poliziotti e una delle guardie. Se mi avesse dato il 100
per cento dei soldi avrei potuto pagare per farli
rilasciare. Ma lei non l’ha fatto.»
Con uno sforzo tremendo riuscii a tenere sotto
controllo la rabbia. Perché il furore avrebbe potuto
solo annebbiarmi la mente, e io avevo bisogno di
pensare.
«Va bene. Okay. Dove crede che li abbiano
portati?»
«Probabilmente a Luang Namtha.»
«Luang Namtha?» Dove diavolo è?
«Una città a circa venticinque chilometri dal
confine.»
Chiusi la comunicazione e nascosi il viso tra le
mani.
Fino a due giorni prima non sapevo nemmeno
dell’esistenza del Laos. Non lo avevo mai sentito
nominare, o forse lo avevo dimenticato. Perché il Laos
era uno dei pochi alleati rimasti alla Corea del Nord,
e un paese comunista. La Repubblica popolare
democratica del Laos, per citare il nome ufficiale,
inviava ogni anno gli auguri di buon compleanno al
Caro Leader, e Pyongyang dava sempre grande risalto
alle cortesie diplomatiche cercando di suggerire
l’idea che il Kim in carica fosse amato e ammirato in
tutto il mondo.
Laos. Non riuscivo nemmeno a immaginarlo.
Nient’altro che un luogo oscuro all’estremità
meridionale della Cina, che ora aveva inghiottito mia
madre e mio fratello.
Il taxi accostò. Ovunque c’erano persone che si
trascinavano dietro i loro trolley.
Le forze sembravano avermi abbandonata. La mia
voce suonò flebile e stanca. «Per favore, mi riporti alla
stazione degli autobus.»
«Ma mi aveva detto di andare all’aeroporto»
esclamò il tassista.
«Lo so. Adesso però devo andare nel Laos.»
L’uomo si voltò e mi guardò come se avessi
bisogno di cure psichiatriche, non di una stazione
degli autobus.
«Va bene» disse poi lentamente, rimettendo in
moto.
Provai a chiamare Min-ho, ma le batterie del suo
cellulare dovevano essere scariche oppure il telefono
gli era stato tolto. E adesso come faccio a mettermi in
contatto? In qualche modo dovevo riuscire a trovarli.
Da sola.
Quando raggiunsi la stazione degli autobus mi
sentivo così debole che quasi non riuscivo a sollevare
lo zaino. Tolsi tutti gli abiti invernali e li regalai al
tassista. Pieno di gratitudine, lui mi guardò ancora
una volta con un’espressione strana.

Il mio viaggio finì l’indomani a mezzogiorno, poco


lontano dal confine laotiano. Mia madre e Min-ho
erano passati da lì ventiquattr ’ore prima. Lungo il
percorso, e dopo aver cenato, avevo recuperato un po’
delle mie energie. Chiesi quale fosse la direzione, mi
caricai lo zaino in spalla e mi incamminai verso il
Laos.
La sede del controllo passaporti cinese era un
moderno edificio circondato da basse colline
ricoperte di piante tropicali. Il cielo era di un bel blu
slavato, notai, più chiaro di qualsiasi cielo avessi visto
a Shanghai o a Seul. Grandi nuvole bianche
veleggiavano sopra le colline, comunicando un senso
d’eternità.
Una ventina di persone erano in fila per farsi
timbrare il passaporto. Alcuni erano viaggiatori
occidentali con lo zaino in spalla, molto allegri. Li
guardai con invidia. Erano abitanti di quell’altro
universo, un universo governato da leggi, diritti
umani e cartelloni che davano il benvenuto ai turisti.
E che ignorava il mondo cui appartenevo io, fatto di
polizia segreta, finte carte d’identità e spregevoli
passatori.
In piedi, un po’ discosto dagli altri, c’era un bianco
che era impossibile non notare. Sulla cinquantina,
robusto e alto da sopravanzare gli altri della testa e di
tutte le spalle. Aveva la pelle rosea e quei capelli color
sabbia che i bambini nordcoreani fissano
imbambolati nelle rare occasioni in cui gli capita di
vedere un occidentale. Lui e io sembravamo essere gli
unici viaggiatori solitari.
Passammo il confine. Dall’altra parte, il contrasto
con la Cina moderna non avrebbe potuto essere più
evidente. L’ufficio passaporti del Laos era un basso
edificio color fango. Non c’erano dubbi che fosse un
paese povero. Ci mettemmo in fila per salire su uno
sputacchiante autobus da venti posti. Anche l’uomo
bianco e alto salì a bordo, e fu costretto a piegare le
gambe in modo buffo tra le file di sedili di legno.
Mentre sobbalzavo su quello scrolla-ossa
attraverso il paesaggio montuoso guardai di nuovo il
cielo, di un colore turchese chiaro, che faceva
sembrare la vegetazione incredibilmente
lussureggiante: magnolie e alberi della gomma, e
campi di canna da zucchero, e fiori selvatici ovunque,
e grandi ibiscus color porpora e gelsomini dorati
pendenti dalle chiome degli alberi. In uno stato
d’animo più rilassato, probabilmente, non avrei
notato tutti quei dettagli con tanta chiarezza, ma
nella mia angoscia li vedevo come parte di un mondo
di bellezza che mi era negato. Perché io non avrei
avuto nessuna occasione di goderne.
Il Laos è un grande, piccolo paese come la Corea. È
un po’ più largo delle due Coree messe insieme, e
molto lungo, circa mille chilometri da nord a sud.
Non ha sbocchi sul mare ed è povero e circondato da
paesi assai più noti: Cina, Vietnam, Thailandia,
Birmania e Cambogia. Io ero entrata da nord e stavo
viaggiando verso sud.
Il tragitto verso Luang Namtha durò circa un’ora.
Quando scesi dal pullman, anche l’uomo bianco e
alto e altri tre o quattro passeggeri fecero altrettanto.
Luang Namtha è la capitale della provincia
omonima. C’erano molti occidentali in giro, che
vagavano per i mercati e oziavano sulle verande degli
ostelli. Oltre alla stazione di polizia e a un paio di
pensioni, la cittadina era composta da casette a un
solo piano con i cavi del telegrafo che si incrociavano
sopra le strade. Avevo bisogno di trovare qualcuno
del posto che potesse aiutarmi, così chiesi dove fosse
il ristorante cinese. Il proprietario era un grassottello,
amichevole padre di famiglia che mi ricordava un po’
il signor Ahn.
«Sto cercando due nordcoreani che sono stati
arrestati ieri» dissi in mandarino. E gli feci un gran
sorriso. «Se mi dà una mano, mangerò qui tutte le
sere.»
Lui rise. «Bene, potrebbe cominciare dall’ufficio
immigrazione» disse. «So che hanno una cella di
custodia.» E subito si offrì di accompagnarmi con il
suo scooter. Si chiamava Yin.
L’ufficio immigrazione era chiuso e sembrava
deserto. Rimasi là fuori, poi buttai la testa indietro e
gridai: «Omma-ya! Min-ho-ya! Na-ya!» («Mamma!
Min-ho! Sono io!»). Niente.
«Proviamo alla stazione di polizia» suggerì Yin.
Quando li interrogammo, i poliziotti scossero la
testa: niente nordcoreani qui, dissero. La nostra
ultima visita fu alla prigione, che sorgeva un po’ più
lontano. Il poliziotto di guardia ci disse che quel
posto era per i veri criminali. Effettivamente non mi
aspettavo che la mia famiglia si trovasse lì. Era un
complesso di edifici a un solo piano, circondato da un
alto muro di fango. Anche lì, comunque, gridai più
forte che potevo: «Omma-ya! Min-ho-ya! Na-ya!».
Davanti al cancello d’ingresso, alcune guardie fuori
servizio erano sedute a chiacchierare con delle
ragazze del posto. Si erano tolte la giacca
dell’uniforme e bevevano birra direttamente dalla
bottiglia ridendo con le ragazze. «Niente nordcoreani
qui», confermarono, «solo trafficanti di droga e
assassini.» E aggiunsero che quello non era il posto
che una persona come me avrebbe dovuto visitare.

Il buio cala in fretta nei paesi subtropicali. Yin si


offrì di accompagnarmi a una pensione, aggiungendo
che sarebbe stato pericoloso andare in giro per le
strade da sola. Lo ringraziai e gli dissi che sarei stata
benissimo. Mi aggrappavo a qualsiasi brandello di
speranza. Pensavo che forse mia madre e mio fratello
erano scappati e stavano vagando da qualche parte lì
attorno. Man mano che mi avvicinavo alle luci della
città il traffico aumentava: i tuk-tuk rallentavano
passandomi accanto e i conducenti mi gridavano
qualcosa in laotiano oppure fischiavano, alzando
nuvole di polvere e di fumo. Camminai per ore,
guardando con attenzione tutte le facce che
incrociavo.
Era venerdì sera. Non avrei potuto riprendere le
mie ricerche se non dopo il fine settimana. Non avevo
altra scelta che fermarmi in città.
Il lunedì mattina andai dritta all’ufficio
immigrazione. Alcuni uomini in uniforme erano
seduti sulle panchine antistanti l’edificio. Il posto
sembrava immerso nel torpore. Intuii subito che
niente, lì, sarebbe mai accaduto in fretta. I poliziotti
mi guardarono con sospetto. Mi presentai come una
volontaria sudcoreana venuta nel Laos per aiutare
due transfughi nordcoreani. E mostrai loro il mio
passaporto e il visto.
Nessuno di loro mosse un muscolo. Pensai che non
mi avessero capita.
Poi uno disse, in mandarino: «Due nordcoreani
sono stati catturati al confine e portati qui», e si
scacciò una mosca dalla faccia.
47
Qualsiasi cosa serva

Finalmente qualcosa si muoveva. «Posso vederli?»


«Dovrà presentare una richiesta formale alla
stazione di polizia» disse l’uomo. «Non si può far
nulla finché non avremo completato la
documentazione.»
Niente nell’atteggiamento di quegli uomini
suggeriva che i documenti avessero per loro la benché
minima importanza, ma finalmente ero su un terreno
familiare.
Trascorsi i successivi sette giorni a fare la spola tra
la stazione di polizia e l’ufficio immigrazione, a
familiarizzare con i funzionari, a lavorarmeli per
costruire un rapporto. Sapevo che avrei dovuto
corromperli. Cercavo di pensare a come si sarebbe
comportata mia madre in un frangente simile,
combinando insieme fascino, persuasione e contanti.
Mi mostravo gentile. Li adulavo. Imparai i loro nomi
e le loro piccole manie. Andavo all’ufficio
immigrazione ogni giorno, la mattina presto, prima
di tutti gli altri, e aspettavo sulla panchina affinché la
mia fosse la prima faccia che vedevano arrivando al
lavoro. Portavo dei pacchetti di sigarette per tutti. Se
non l’avessi fatto, se mi fossi limitata a stare seduta
su quella panchina finché non mi chiamavano, sarei
potuta restare là per settimane o anche per mesi. In
quel posto, una pratica amministrativa che avrebbe
potuto essere sbrigata in pochi minuti poteva
richiedere ore o anche giorni. L’umidità del
pomeriggio toglieva le forze. Ma ogni giorno sentivo
di essermi avvicinata di qualche centimetro al mio
obiettivo.
I funzionari dell’immigrazione volevano le
Marlboro rosse, la marca più costosa di tutte. Non
appena fu evidente che ero disponibile, la loro
corruzione divenne sfacciata. Ogni giorno mi
chiedevano quanto denaro avessi ritirato al bancomat.
«Cento dollari» rispondevo. Oppure: «Oggi solo
cinquanta». Allungavano la mano e mi chiedevano di
vedere. Allora consegnavo loro la mazzetta di kip, la
valuta locale; loro prendevano circa la metà delle
banconote, a volte di più, e mi restituivano le altre.
Dopo qualche giorno di queste estorsioni, più il
costo dei pasti e dell’alloggio, i miei fondi
cominciarono a scarseggiare. Non avevo scelta,
dovevo fare la telefonata che mi costava tanto fare.
Kim mi trasferì immediatamente dei soldi. Gliene fui
immensamente grata, e precisai che si trattava di un
prestito. Glieli avrei restituiti, come avevo restituito
quelli che mi aveva prestato mio zio di Shenyang.
Dopo la visita mattutina all’ufficio immigrazione,
nel pomeriggio avevo ben poco da fare: così andavo a
leggere in un posto chiamato Coffee House, un locale
che serviva cucina thailandese e occidentale.
Ricordavo ancora un po’ d’inglese, ma non riuscivo a
leggere il menu, così chiesi a una cameriera che cosa
stesse mangiando un altro cliente seduto accanto a
me.
«Noodles» rispose lei.
Mangiai tagliolini ogni giorno. Dopo una
settimana avrei voluto cambiare, così chiamai Kim
per chiedergli quale fosse la parola inglese per bab.
«Rice» disse lui.
«Lice» ripetei.
«No, non lice, rice. Sono due cose diverse. Tu devi
chiedere del rice.»
«Ho capito. Lice.»

Pranzavo ogni giorno al Coffee House e cenavo


ogni sera al ristorante cinese di Yin. Per contenere un
po’ le spese cominciai a saltare la colazione. Non
m’importava. Anzi, mi faceva sentire solidale con mia
madre e mio fratello: non osavo immaginare cosa
stessero mangiando, e quanto. Un pomeriggio al
Coffee House rividi l’uomo alto con i capelli color
sabbia: aveva la pelle molto arrossata per colpa del
sole. I suoi occhi incontrarono i miei e mentre lui si
muoveva pesantemente, come un gigante, ci
riconoscemmo. Io sorrisi.
Dopo sette giorni il capo dell’ufficio immigrazione,
un uomo grosso e pigro con il ventre che premeva
contro la camicia verde dell’uniforme, disse che mi
avrebbe portato dov’erano detenuti i due
nordcoreani. Provai un immenso sollievo.
Salii sulla sua auto. Lui disse: «Quanti soldi ha con
sé?».
Gli mostrai quello che avevo nel portafogli. Senza
contare ne prese la metà. Non accennò a tariffe o a
spese necessarie. Questa indifferente, svergognata
ruberia da parte di uno dei funzionari anziani della
città ancora oggi mi fa arrabbiare. All’epoca, però,
avevo in mente una strategia precisa, quella di
raggiungere i miei cari. Qualsiasi cosa serva, pensavo.
Farò qualsiasi cosa serva. Gli esseri umani sono egoisti e
gli importa solo di se stessi e della loro famiglia: sono poi
tanto diversa, io?
Con mia grande sorpresa arrivammo alla prigione
principale, quella in cui ero stata il primo giorno,
dove i poliziotti che bevevano fuori dal cancello mi
avevano detto in tono indifferente che lì non c’erano
nordcoreani. Se avessi saputo che Omma e Min-ho
erano lì ci sarei andata ogni giorno, anche se non
avrei potuto fare altro che mandargli dei pensieri
positivi e gridare da oltre il muro: «Omma-ya! Min-ho-
ya! Non preoccupatevi! Sono qui!». Ci sarei andata
ogni pomeriggio, restando seduta là fuori finché non
calava il buio e i grilli non riempivano l’aria della
notte con il loro verso.
Le guardie della prigione mi dissero che avrei
potuto incontrare mia madre nella sezione
femminile, ma non vedere mio fratello in quella
maschile. Poi mi condussero attraverso un cortile dai
muri di fango fino a un grande cancello nero. Con un
clangore di serrature e gemiti ferrosi il cancello si
aprì scorrendo lateralmente. Oltre il cancello, sola,
c’era mia madre.
Per un istante mi guardò con un’espressione
strana, distante. Il suo aspetto mi sconvolse:
dimagrita, coi capelli unti e appiccicati sulla testa. Per
una qualche ragione teneva una mano premuta sulle
labbra e inclinava la testa da un lato.
Improvvisamente si mise a correre verso di me, mi
gettò le braccia al collo e cominciò a singhiozzare.
Indossava gli stessi vestiti e le stesse ciabatte di
plastica dell’ultima volta che l’avevo vista, a
Kunming.
«Pensavo che te ne fossi andata» gemette.
«Pensavo di non rivederti mai più. Ancora un
secondo fa pensavo che fosse un sogno, per questo mi
sono pizzicata il fianco fino a farmi male.»
Non mi stupivo che mi avesse guardata in modo
strano.
Mi passò le mani sul viso, esattamente come aveva
fatto dopo aver attraversato il fiume Yalu, per
assicurarsi che fossi reale.
Tenendola fra le braccia anch’io avevo cominciato a
piangere, ma mi costrinsi a smettere. Mi asciugai gli
occhi con il palmo della mano e mi ricomposi. Non
volevo complicare le cose lasciando capire alle
guardie che ero sua figlia.
Sedetti con lei nel cortile della prigione. L’avevano
tenuta in una cella insieme a delle straniere. Mi
raccontò di una cinese che era lì da dieci anni. Foto
della sua famiglia erano appese un po’ dappertutto
alle pareti della cella. Non c’era acqua potabile, per
cui ogni giorno dovevano bere e lavarsi attingendo
dalla stessa razione di acqua sporca. Un paio di giorni
prima avevano sentito le guardie picchiare a morte un
prigioniero thailandese. Sua moglie era nella sua
stessa cella, e aveva pianto tutto il tempo.
«Qui è un inferno» disse. «Non avremmo mai
dovuto andar via da casa.»
Le immagini che fino a quel momento ero riuscita
ad arginare – latrine puzzolenti, violenza, sesso in
pubblico e criminale mancanza d’igiene – mi
inondarono la mente.
Non c’era niente che potessi dire, ormai era
impossibile tornare indietro. I poliziotti si erano presi
tutti i soldi che le avevo dato a Kunming. Mentre le
guardie erano voltate dall’altra parte, le feci scivolare
in mano una piccola somma in valuta locale con cui
comprarsi qualcosa da mangiare.
Dopo averla vista tornai in città e chiamai
immediatamente l’ambasciata sudcoreana a
Vientiane.
«Lei non deve restare là tutta sola, è pericoloso» mi
disse il console. «Lasci il Laos immediatamente, si
occuperà di tutto l’ambasciata.»
Sembrava incoraggiante. «Quanto tempo ci vorrà
per farli uscire?»
«Purtroppo dobbiamo seguire la procedura. Non ci
sono scorciatoie. Depositeremo una richiesta
d’informazioni e chiederemo un permesso di visita,
ma ovviamente sono cose che richiedono tempo...»
«Quanto tempo?»
«Cinque o sei mesi.»
Mi presi la testa fra le mani, ma non ero stupita.
Avevo già visto con i miei occhi l’abulica apatia della
burocrazia di quel paese.
Ma non potevo lasciare là dentro mia madre e Min-
ho.

L’interprete della prigione si voltò dalla mia parte.


«Cinquemila dollari» disse semplicemente.
Restai a bocca aperta. Spostai lo sguardo da lui al
sovrintendente. Teneva i gomiti appoggiati sul tavolo
e picchiettava le dita le une sulle altre, il volto
impassibile.
Un lento ventilatore elettrico gli scompigliava i
capelli che lui, di tanto in tanto, lisciava e rimetteva a
posto.
«È impossibile» dissi.
Il sovrintendente si strinse nelle spalle. «In dollari
americani» precisò, e fece un gesto con le mani come
per dire: Sta a lei.
Nei giorni seguenti tornai alla prigione con doni e
bustarelle per il sovrintendente. Ancora una volta
cercavo di creare un rapporto. L’interprete mi disse
che ero molto fortunata: fino a due anni prima, il
Laos aveva rimandato indietro tutti i transfughi.
Quella linea politica era cambiata solo dopo una
vigorosa protesta internazionale.
«Adesso ci limitiamo a multarli» aggiunse.
Poco a poco riuscii ad abbassare la cifra richiesta, e
finalmente i negoziati si stabilizzarono sui settecento
dollari a testa. Ogni volta che mi permettevano di
entrare nel cortile per vedere mia madre, il
sovrintendente si prendeva la metà dei contanti che
avevo con me, anche se erano cifre modeste. Allora
mi sedevo con lei in un angolino all’ombra e
l’aggiornavo sui miei progressi. Quando le dissi che
mi stavo dando da fare per raccogliere il denaro, mi
passò un lurido cilindretto di plastica con dentro i
soldi che le avevo dato. Ne aveva usati solo un po’ per
comprare dell’acqua potabile.
Probabilmente settecento dollari erano una cifra
vicina alla multa ufficiale, ma erano ancora fuori dalla
mia portata. Ormai avevo speso quasi tutti i soldi che
Kim mi aveva mandato. Per accrescere ulteriormente
le mie preoccupazioni, alla visita successiva mia
madre portò con sé altre tre donne tutte inzaccherate
che volevano conoscermi, anche loro transfughe
nordcoreane arrestate un mese prima. Erano una
donna anziana, una madre di mezz’età, non
imparentata con la prima, e sua figlia. Mia madre era
travolta dalla compassione, e voleva che le aiutassi. Le
guardai costernata, ma sapevo che avrei tentato
qualcosa anche per loro. Tutte e tre mi diedero i soldi
che avevano tenuti nascosti nelle parti intime:
millecinquecento dollari, molto meno di quanto ci
serviva.
Nel frattempo il mio visto di quindici giorni stava
per scadere. I due funzionari che dirigevano l’ufficio
visti di Luang Namtha mi dissero che potevano
andare loro nella capitale, Vientiane, con il mio
passaporto per farmi rinnovare il visto, ma siccome
ormai mancava solo un giorno alla scadenza
avrebbero dovuto andarci in aereo. Il costo del
biglietto e le altre spese sarebbero stati a mio carico.
Il tutto sarebbe costato qualche centinaio di dollari.

Tornai al Coffee House come in trance. Mi


sembrava di essere stata spogliata di tutto ciò che
avevo, come se per la mia famiglia avessi dovuto
pagare un riscatto. Mi lasciai cadere su una sedia
vicino alla vetrina e cercai di riflettere, ma ogni mio
pensiero sembrava finire in un vicolo cieco. Non
c’erano possibilità. Non avevo idea di cosa fare.
Chiusi gli occhi. Stavo per mettermi a supplicare
ad alta voce lo spirito dei miei antenati quando
un’ombra si frappose tra me e la luce rivolgendomi la
parola in inglese. Alzai lo sguardo. La luce del sole
brillava attraverso una massa di capelli color sabbia.
«Sei una viaggiatrice?» domandò.
48
La gentilezza degli stranieri

L’uomo dai capelli color sabbia usò proprio questa


parola, viaggiatrice. Io la conoscevo vagamente, ma
non avevo comunque capito la domanda. Ormai i
camerieri del Coffee House erano miei amici, così ne
chiamai uno che parlava inglese e un po’ di
mandarino perché ci facesse da interprete.
«La maggior parte della gente si trattiene qui solo
un giorno o due» mi stava dicendo l’uomo alto. «Tu
invece ci sei da settimane, come me. Sei qui per
affari? La mia è solo curiosità.»
Era la prima volta che un bianco mi rivolgeva la
parola. I suoi occhi erano azzurro chiaro e aveva una
barba color sabbia, tagliata corta, che si andava
ingrigendo. Tra noi due, sembrava lui il più timido.
L’inglese mi confondeva. Non riuscivo a trovare le
parole. Gli feci cenno di seguirmi e aprii una funzione
di traduzione inglese-coreano sul mio cellulare.
Lentamente, con molte risatine imbarazzate e
molte pause, riuscimmo a comunicare. Gli dissi che
ero una volontaria sudcoreana che stava cercando di
aiutare cinque transfughi nordcoreani finiti in carcere
per essere entrati illegalmente nel paese. L’uomo
sembrava molto stupito, e vidi del dolore nei suoi
occhi. Cercai altre parole e gli dissi che il governo del
Laos stava chiedendo una multa molto alta per il loro
rilascio.
«Quanto?» mi chiese.
«Settecento dollari a persona.»
Lui si grattò la barba e per un po’ guardò fisso la
strada. Poi fece un gesto che significava «Aspetta un
attimo», e un altro per indicare che doveva telefonare.
Se ne andò all’altro capo del locale, fece una
telefonata e dopo qualche minuto ritornò da me. In
tutta la mia vita non avrei mai potuto immaginare
quello che stava per accadere. Digitò le parole sul mio
cellulare.
In coreano dicevano: Ho appena telefonato a un
amico in Australia. Dopo averne discusso un po’ ho deciso
di aiutarti.
Le mie difese scattarono. Perché? Perché mai un
maschio bianco, sulla cinquantina, all’improvviso
doveva farsi carico dei problemi di un gruppo di
coreani mai visti prima?
Scrutai il suo viso in cerca di una risposta. Scartai
subito il pensiero che le sue motivazioni fossero di
natura sessuale perché l’avrei capito dal suo sguardo.
Decisi che probabilmente voleva fare un gesto che lo
facesse sentire bene senza poi tenervi fede. E mi dissi
di non contarci troppo.
«Grazie» risposi in inglese. Ma lui sembrava aver
intuito i miei dubbi. Perché digitò nuovamente
qualcosa sul mio cellulare: Ho incontrato due
nordcoreane mentre ero in Thailandia. La loro storia mi
ha molto commosso.
E mi fece di nuovo il gesto di Aspetta.
Lo vidi attraversare la strada e avvicinarsi al
bancomat. Tornò con una grossa mazzetta di
banconote verdi.
Con mio grande stupore mi ritrovai in mano
centinaia di dollari americani. «Questi sono parte dei
soldi che ti servono per le multe. Il resto lo ritirerò
domani.»
Sto sognando? Lottavo per comprendere quanto mi
era appena accaduto e per esprimere al tempo stesso
la mia gratitudine.
Con l’aiuto del dizionario del cellulare e del
cameriere-interprete, l’uomo mi spiegò che stava
facendo un viaggio di due anni in tutto il Sudest
asiatico. Era intenzionato a partire per la Thailandia il
giorno dopo, ma adesso voleva restare per darmi una
mano, se lo desideravo, e visitare la prigione insieme
a me.
«Ma certo» dissi io, quando finalmente capii.
La sua gentilezza e disponibilità a lasciarsi
coinvolgere mi sbalordivano. Il mio primo pensiero
fu che se quell’uomo imponente fosse venuto alla
prigione con me non avrei più dovuto affrontare il
sovrintendente da sola.
«Molto bene» rispose. «Ma intanto perché non ti
trasferisci nella mia pensione? Sarà più facile parlare.
Domani mattina andremo insieme alla prigione.»
Pronunciò queste parole con molta serietà, in un
modo che mi impediva di fraintendere le sue buone
intenzioni.
Annuii in silenzio.
«Più tardi possiamo cenare insieme, se vuoi»
aggiunse. «Portati la valigia.»
«Va bene» risposi io, con sguardo inespressivo.
Mi tese la mano. «Io mi chiamo Dick Stolp. Sono di
Perth, Australia.»
Ci stringemmo la mano. Non gli avevo nemmeno
chiesto il suo nome. Girò sui tacchi per andarsene,
ma lo trattenni. Nel mio inglese stentato gli chiesi:
«Perché vuoi aiutarmi?».
«Non aiuto te» rispose con un sorrisetto
imbarazzato. «Aiuto il popolo nordcoreano.»
Lo guardai allontanarsi.
Quando uscii dal caffè accadde qualcosa di
meraviglioso. Tutta la bellezza imprigionata che
avevo visto entrando nel paese, e che credevo mi
venisse negata, all’improvviso si spalancò davanti a
me. Sentivo il profumo dei gelsomini, mentre il sole e
le nuvole maestose sembravano celebrare il mio stato
d’animo. Il mondo intero era appena cambiato.

La pensione di Dick era molto più bella della mia.


Non mi aspettavo che pagasse anche la mia stanza,
oltre a ciò che già stava facendo per me, ma la pagò.
Quando hai trascorso tutta la vita adulta a calcolare il
costo di ogni più piccola decisione, non è facile
accettare tanta generosità. Perché comporta una
perdita di controllo: io non potevo far altro che dire
grazie. Lui non mi chiese mai nulla in cambio: non
avevo mai sperimentato una generosità così
disinteressata, che non comportasse nessun rapporto
e nessun debito. Se fossimo stati due solitari coreani
di Hyesan che si incontravano nel Laos, o due giovani
in una folla di persone anziane, avrei forse potuto
capire. Ma la semplice gentilezza di Dick non
conosceva né età, né razza, né lingua. Pensai che fosse
così ricco che i soldi non volessero dire niente per lui,
ma più tardi avrei scoperto che non era affatto così.
A cena raggiunsi Dick a un tavolo con altre cinque
persone: una coppia tedesca sulla cinquantina, una
donna cinese di mezz’età che girava documentari e
una giovane thailandese con il suo ragazzo tedesco.
Tutti parlavano in inglese. Io avevo molta difficoltà a
seguire la conversazione, ma non mi importava. Era
un tale sollievo non essere più sola. Mi resi conto del
fatto che avrei proprio dovuto imparare l’inglese,
perché è la lingua più diffusa al mondo. Fu una serata
rilassata e molto gradevole. Risi e sorrisi per la prima
volta da quando avevo lasciato Seul.

Per andare alla prigione, Dick e io noleggiammo


uno scooter. Poi comprammo un po’ di frutta, del cibo
e delle coperte.
Lui non sapeva che la donna rinchiusa in quella
prigione era mia madre, e che suo figlio era mio
fratello, e che anch’io ero nordcoreana. Ma anche se
l’avesse saputo non sarebbe cambiato niente. Avrei
voluto dirgli la verità sulla mia identità, perché lo
meritava. Ma i nordcoreani sono così abituati a
indossare la maschera che per loro è difficile
liberarsene.
Mi tenevo stretta a lui mentre guidava lo scooter.
Lungo la strada si fermò al bancomat per ritirare il
resto del denaro che serviva a pagare le multe.
I miei convincimenti sulla natura umana si stavano
ribaltando. Nella Corea del Nord avevo imparato da
mia madre che credere a qualcuno di esterno alla
famiglia era rischioso. In Cina avevo vissuto di
astuzie fin da adolescente, e avevo mentito per
nascondere la mia vera identità al fine di
sopravvivere. L’unica volta in cui mi ero fidata di
qualcuno ero finita nei guai con la polizia di
Shenyang. Non solo ero convinta che gli esseri umani
fossero egoisti e spregevoli, ma sapevo che molti di
loro erano incredibilmente malvagi, felici di
distruggere una vita per il proprio tornaconto. Avevo
visto dei sino-coreani denunciare alla polizia dei
transfughi nordcoreani in cambio di denaro. Avevo
conosciuto persone comprate e vendute da altri esseri
umani come fossero capi di bestiame. Quello era il
mondo che mi era familiare. Nella mia vita gli atti di
gentilezza disinteressati erano stati così rari che mi si
erano fissati nella memoria e avevo pensato: Che
strano. Ciò che Dick stava facendo per me cambiò la
mia vita. Quell’uomo mi dimostrò che esisteva anche
un altro mondo, in cui un estraneo può aiutare un
altro estraneo solo perché è bene farlo, e in cui
l’insensibilità è una stranezza, e non la norma. Dick
mi stava trattando come se fossi un membro della sua
famiglia, o una vecchia amica. Ripensandoci adesso,
ancora non riesco a capire fino in fondo le sue
motivazioni. Ma dal giorno in cui l’ho incontrato, per
me il mondo è diventato un posto meno cinico. Ho
cominciato a provare un certo calore per le altre
persone. Una cosa che può sembrare naturale, ma che
io non avevo mai sperimentato prima.

Il reverendo Kim mi aveva messa in guardia sui


molti posti di blocco lungo la strada per Vientiane. Il
viaggio in auto sarebbe durato diciotto ore e avrebbe
attraversato tre province, ciascuna governata in modo
abbastanza indipendente da farci rischiare in più di
un’occasione il carcere e la multa. Il suo consiglio era
stato di noleggiare un furgoncino della polizia.
Sembrava una buona idea. Se l’immigrazione avesse
voluto fermarci, almeno avremmo avuto una qualche
protezione.
Il capo dell’ufficio immigrazione mi disse che si
poteva fare, ma chiedeva una cifra esorbitante. Mi
appellai alla mia povertà e supplicai e mercanteggiai
fino a scendere a centocinquanta dollari a testa per
noi sei: la mia famiglia più le altre tre nordcoreane.
Ma anche così non avevo abbastanza soldi.
Ancora una volta, Dick intervenne e pagò.

Il poliziotto disse che Dick non poteva venire a


Vientiane con noi. Lui insistette, pensando che la sua
presenza avrebbe potuto essere utile per proteggerci,
ma l’uomo fu irremovibile. Evidentemente non lo
volevano tra i piedi. Il mattino dopo noleggiò uno
scooter e seguì il furgoncino fino alla prigione. Il
veicolo, un Toyota nuovo di zecca, era almeno
confortevole.
Quando i cinque prigionieri uscirono, vidi Min-ho
per la prima volta da settimane. Era molto pallido, e
sulla pelle del viso aveva una terribile acne. Ma mi
sorrise come se non ci fosse nulla di cui lamentarsi. Il
mio tosto fratellino, pensai. Mi sentivo orgogliosa di
essere sua sorella.
Ormai tutti e cinque sapevano chi fosse Dick e cosa
avesse fatto per noi. Uno dopo l’altro gli diedero la
mano e s’inchinarono con gratitudine e incredulità.
L’anziana signora riuscì anche a dire in inglese:
«Thank you very much».
Il motore del furgoncino già rombava: eravamo
pronti a partire.
Dick mi disse che sarebbe partito per la
Thailandia. Mi lasciò il suo numero di telefono e il
suo indirizzo e-mail, e poi un ultimo, commovente
regalo: i soldi per l’aereo per tornare a casa. «Ne hai
più bisogno tu di me.» Mi salutò senza lasciarmi il
tempo di ringraziarlo come si deve. Inforcò lo scooter
e partì, gridando: «Mettiti in contatto, se hai bisogno
di qualcosa».
E il mio angelo sparì così com’era apparso.
Partimmo per Vientiane noi sei più un poliziotto
graduato, l’interprete della prigione e un autista della
polizia. Come parte dell’accordo avrei dovuto pagare i
pasti che i tre uomini avrebbero consumato lungo il
tragitto, e quando ci fermammo a pranzo e a cena i
tre mangiarono avidamente.
Come il reverendo Kim mi aveva detto, lungo la
strada c’erano dei posti di blocco, ma al nostro
furgoncino i poliziotti facevano regolarmente cenno
di passare. Questo ci dava una sensazione
formidabile. Attraversammo una distesa di colline
punteggiate di alberi di mogano e di piccoli,
pittoreschi villaggi. Tutti i finestrini erano aperti per
lasciar entrare la brezza, e noi sembravamo respirare
profondamente il profumo della libertà.
Min-ho mi raccontò quanto era accaduto dopo che
ci eravamo separati, a Kunming. Arrivati vicino al
confine, il signor Fang li aveva guidati fino ai piedi di
una collina. «Io mi fermo qui» gli aveva detto. «Il
confine è sulla cima di quella collina.» Min-ho aveva
ascoltato attentamente tutte le sue indicazioni.
«Continuate a camminare diritto e arriverete a una
casetta abbandonata. Entrateci. Verrà un uomo.
Seguitelo.»
Così, nel buio più completo, lui e mia madre si
erano ritrovati improvvisamente soli. Sconvolti,
avevano cominciato ad arrampicarsi lungo il fianco
della collina. Ma ben presto il sentiero si era
trasformato in una fitta giungla. Si era messo a
piovere e non c’era alcun cammino da seguire. Sul
terreno scivoloso mamma e Min-ho erano stati
costretti a tenersi ai rami e alle piante rampicanti
finché le mani e il viso gli si erano ricoperti di graffi e
avevano cominciato a sanguinare. Nel buio più
assoluto avevano perso l’orientamento, ma cercavano
di continuare a muoversi in linea retta su quella che
ormai sembrava una montagna e non una collina. Per
mia madre era stato davvero troppo. Mi raccontò che
se non fosse stato per Min-ho lei sarebbe morta.
Un paio d’ore dopo, quando ormai stavano
scendendo dall’altro versante della collina, una figura
era sbucata fuori dal buio proprio davanti a loro. Un
uomo che se ne stava accucciato nel sottobosco si era
alzato in piedi per bloccargli la strada. Min-ho aveva
avuto l’impressione di cogliere lo scintillio di un
distintivo su un’uniforme. L’uomo aveva sollevato
una mano e fatto un gesto con le dita che significava:
soldi. Poi aveva mostrato i polsi ammanettati.
Pagate, o vi arresto.
Min-ho teneva il denaro che gli avevo dato
nascosto in tasche diverse. Così aveva tirato fuori
trecento yuan. L’uomo però non era soddisfatto, e
mio fratello era stato costretto a sborsare altri
cinquecento yuan. A quel punto, l’uomo gli aveva
sorriso, lasciandoli proseguire.
Poco dopo, quasi per miracolo, mamma e Min-ho
avevano trovato la casetta vuota che il passatore aveva
descritto loro. Era nascosta in una fitta foresta.
L’uomo che li stava aspettando gli aveva spiegato a
gesti di mettersi a dormire, poi si era sdraiato lui
stesso su alcuni cartoni appiattiti per terra. Mamma e
Min-ho lo avevano guardato addormentarsi.
Sembrava povero, mi raccontò la mamma.
Alle prime luci dell’alba l’uomo li aveva fatti salire
su un tuk-tuk. Arrivati a una stazione degli autobus,
gli aveva indicato un certo pullman e gli aveva detto
di salire. Min-ho era sicuro che l’uomo sarebbe salito
con loro, e invece era scomparso. Lui e mamma erano
di nuovo soli, e senza la più vaga idea di dove fossero
diretti.
«Uno degli uomini del passatore sarà sicuramente
sull’autobus» aveva detto Min-ho cercando di
rassicurare mia madre. «Vedrai che al momento
giusto si farà riconoscere.»
Ed effettivamente l’uomo del passatore, un
poliziotto, avrebbe dovuto trovarsi al posto di blocco
successivo, ma a causa di un cambio di turno non era
presente all’arrivo del pullman. Mamma e Min-ho
erano stati ammanettati e caricati su un’auto della
polizia. Ero contenta di aver appreso queste cose solo
in quel momento: il pensiero della mia Omma in
manette mi avrebbe tormentato oltre ogni dire. In
prigione, dei carcerati che aiutavano le guardie a
mantenere il controllo avevano rubato a Min-ho tutti i
soldi.

Arrivammo a Vientiane nelle prime ore del


mattino. Non era affatto come qualunque altra
capitale che potessi immaginare. Non c’erano
grattacieli di cemento: era composta quasi
interamente da bassi edifici separati da una
lussureggiante vegetazione tropicale. Sembravano
esserci più giardini che costruzioni.
Svoltammo in una strada frondosa con grandi
costruzioni dall’aspetto ufficiale coronate da pennoni
imbandierati. Pensai che fosse il quartiere delle
ambasciate. I miei occhi scrutavano la strada davanti
a noi alla ricerca della bandiera della Corea del Sud.
Ci fermammo davanti a uno di quegli edifici, con
una targa in laotiano ma senza alcuna bandiera
sudcoreana.
«Cos’è questo posto?» chiesi all’interprete.
«L’ufficio immigrazione di Vientiane» rispose lui.
«Scendiamo.»
Alzai immediatamente la guardia. «Perché?»
«È la procedura. Qualcuno dell’ambasciata
sudcoreana verrà nel pomeriggio.» Durante le mie
trattative con il sovrintendente della prigione avevo
costruito un certo rapporto con quell’interprete,
conquistandomi la sua simpatia. Sembrava una
persona per bene, e un po’ più onesto degli altri. Lo
vidi immergersi in una fitta conversazione con
l’ufficiale di polizia. Mi aveva detto che saremmo
andati direttamente all’ambasciata sudcoreana, ma
ora sembrava scontento di sentire quello che
l’ufficiale gli stava dicendo.
«Cosa succede?» gli chiesi.
«Non preoccuparti. Per favore, scendete.»
Prendemmo le nostre borse e l’uomo ci
accompagnò al secondo piano dell’ufficio
immigrazione. Lasciammo i bagagli in un angolo e ci
accingemmo ad aspettare, in silenzio. Tutta quella
faccenda mi stava mettendo a disagio. Poi un
funzionario dell’immigrazione entrò nella stanza e
chiamò il mio nome. «Prego, mi segua.»
Dissi a mia madre e a Min-ho che sarei tornata nel
giro di qualche minuto. Una delle nordcoreane mi
chiese di comprarle qualcosa per potersi lavare.
«Dobbiamo solo farle qualche domanda» mi disse
l’uomo mentre camminavamo lungo il corridoio.
«Non voglio essere separata dagli altri.»
«Va tutto bene, la riporterò di là al più presto.»
Mi fece entrare in una stanza per gli interrogatori
con l’aria condizionata, dove mi aspettavano quattro
ufficiali in uniforme verde. Uno era una donna con il
rossetto, sui quarantacinque anni, che mi fu
presentata come il capo dell’ufficio immigrazione.
Sulle sue spalline c’erano delle stellette dorate. Mi
parlò in laotiano. Uno degli ufficiali in uniforme
traduceva in mandarino.
«Sa perché la stiamo interrogando?» mi domandò
freddamente.
«No, non ne ho idea.»
«Perché lei è una criminale.»
49
Pellegrinaggi diplomatici

Aprii la bocca, ma le parole mi mancarono. Il mio


primo pensiero fu che ci fosse stato un qualche
assurdo malinteso, o che mi avessero portata nella
stanza sbagliata.
Posai lo sguardo su ciascuno degli ufficiali
presenti. Stavano tutti fissando me. «E perché sarei
una criminale?»
«Quei nordcoreani sono entrati nel nostro paese
illegalmente» disse la donna. «Sono criminali. E lei li
ha aiutati.»
Avevo provato una sensazione di rabbia repressa
fin dal momento in cui ci eravamo fermati davanti a
quell’edificio, immaginando che avrebbero tentato di
spillarci ancora del denaro prima di ottenere asilo.
Ma quando sentii quella donna definire «criminali» i
miei famigliari tutta la rabbia accumulata esplose di
colpo.
Mi misi a gridare. «Criminali? Non sono criminali!
Hanno forse ucciso qualcuno? Hanno rubato? Ne ho
incontrati parecchi, di ladri, in questo paese ed erano
tutti della polizia! Quelle persone sono rifugiati e
richiedenti asilo!»
Non avrei dovuto perdere la calma, perché questo
m’impediva di pensare con chiarezza.
La donna restò impassibile.
«Sono qui illegalmente. Non possiamo
soprassedere. E lei li ha aiutati.»
Cercai di tornare in me, ma ero ancora arrabbiata.
«È la prima volta che vengo nel Laos. Sto solo
cercando di aiutare quelle persone a richiedere asilo.
Non è un lavoro, per me. Non sono una passatrice.»
Sentii una fitta allo stomaco. Nel mio accesso d’ira
avevo forse pronunciato la parola famiglia? Non ne
ero sicura. Solo in quel momento mi era tornato in
mente che il signor Park, il poliziotto, mi aveva
avvertita di non dire a nessuno che mamma e Min-ho
erano miei parenti. Se quella donna avesse intuito che
anch’io ero nordcoreana avrei perso la protezione del
mio passaporto.
«Sappiamo bene che è la prima volta che viene
qui» disse la donna. «Ma lei è e resta una criminale.»
Se solo fossi stata più lucida avrei indovinato, da
ciò che ormai sapevo della burocrazia laotiana, che
voleva solo farmi ammettere un’infrazione in modo
da potermi infliggere una multa. Ma fintanto che
avessi rifiutato di riconoscere che ero una criminale
intenta ad aiutare dei criminali lei non avrebbe
potuto procedere con la questione del pagamento.
Senza contare che stavo cominciando a irritarla.
«Potrebbe andare in prigione.»
«Sono una volontaria» dissi, tirando fuori il
telefono. «Adesso chiamo l’ambasciata sudcoreana.»
«Lei non chiama nessuno.»
Fece cenno a uno degli ufficiali. Il quale si alzò,
venne verso di me e mi tolse il telefono.
«Qui siamo nel Laos» disse la donna. «La sua
ambasciata non ha alcun potere.»
L’ufficiale che mi aveva preso il telefono mi chiese
di consegnargli anche il passaporto. Non avevo scelta,
dovetti darglielo.
Per un minuto la donna parlò con gli altri ufficiali
in laotiano, poi disse: «Per ora può andare. Torni
domani mattina. Abbiamo bisogno di parlare ancora
con lei».
Tornai nella stanza in cui pensavo che gli altri mi
stessero aspettando. Erano spariti. Anche tutte le
borse erano scomparse tranne il mio zaino, lasciato lì
come un indizio minaccioso. Mi precipitai nella sala
dell’interrogatorio.
E gridai di nuovo. «Dove li avete portati?»
«In albergo» rispose l’ufficiale che parlava il
mandarino. La donna mi aveva ormai girato le spalle.
«Per ora non c’è niente che lei possa fare.»
Al piano di sotto, l’atrio dell’edificio era deserto.
Era l’ora di pranzo. Dal banco accettazione, su
entrambi i lati, partivano due lunghi corridoi. Mi
assicurai che non ci fosse nessuno in vista e mi infilai
nel primo corridoio, guardando in tutte le stanze. Poi
percorsi il secondo, alla fine del quale c’era una fila di
porte metalliche, tutte chiuse tranne una. Sbirciai
all’interno. La cella era gelida e odorava di cemento
umido; le pareti erano nere di muffa, e il soffitto così
basso che sarebbe stato impossibile starci in piedi.
Erano come gabbie per animali. Di sicuro non saranno
qui! Da dietro le porte chiuse a chiave non usciva
alcun rumore.
Non osavo gridare: «Omma-ya! Min-ho-ya!» per il
timore che da sopra potessero udirmi.
Fuori faceva così caldo che le strade erano deserte.
Vidi un mototaxi fermo in attesa di clienti e, in un
misto di inglese e lingua dei segni, chiesi all’autista di
portarmi all’ambasciata sudcoreana. Qualche minuto
dopo vidi la bandiera della Corea del Sud sventolare
sul tetto dell’ambasciata, ma il soldato di guardia al
cancello mi disse di tornare dopo l’ora di pranzo.
Vagai a lungo, cercando un posto dove sedermi.
Era più fresco lì, sotto le chiome di alcuni platani. Poi
alla mia sinistra, sull’altro lato della strada, notai una
bandiera che mi costrinse a guardare una seconda
volta. Le ambasciate delle due Coree erano a pochi
passi l’una dall’altra. Per la seconda volta in quel
giorno mi sentii presa in una situazione assurda. La
Germania Est e la Germania Ovest si erano riunificate
ormai da tempo. Lo stesso valeva per il Vietnam del
Nord e del Sud. Perché dovevamo essere proprio noi
l’unica nazione a soffrire per una bizzarra divisione
che avrebbe dovuto essere ormai svanita nelle pieghe
della storia? Perché la mia famiglia doveva pagare il
prezzo di quella divisione in quel paese remoto e così
poco accogliente? Restai lì, nella strada deserta,
pensando che tutta la mia vita si svolgeva nella
distanza fra quelle due bandiere.

«Benvenuta» mi disse il console. «Non riceviamo


molti viaggiatori coreani, qui.» E mi invitò a entrare
in una saletta riunioni.
Gli spiegai che venivo da Luang Namtha e che
avevo accompagnato cinque persone che in quel
momento erano detenute dall’ufficio immigrazione
di Vientiane. «Ci aspettavamo di venire direttamente
qui.»
«Sì.» L’uomo si fregò la radice del naso sotto gli
occhiali. «Abbiamo ricevuto un messaggio
dall’immigrazione di Luang Namtha secondo il quale
cinque nordcoreani erano in viaggio per venire qui.
Ma lei cosa ha a che fare con loro?»
«Vi ho chiamati un mese fa, ricorda? La mia
famiglia era imprigionata a Luang Namtha e lei mi
disse che se ne sarebbe occupato personalmente, e
che potevo partire.»
«Ah, sì.» E mi lanciò un’occhiata di tiepida
sorpresa. «E lei non è partita? Non avrei mai
immaginato che sarebbe riuscita a organizzare una
cosa del genere. E ha fatto tutto da sola? In un mese?
Incredibile. Davvero.»
Sembrava un po’ uno zio annoiato che cercasse di
mostrare interesse per i disegni di un bambino.
«Ci hanno detto che lei sarebbe andato all’ufficio
immigrazione, questo pomeriggio» dissi. «Qual è il
prossimo passo?»
Lui fece una risatina in tono di scusa. «Non posso
andare là ogni volta che ne ho voglia. Devo aspettare
che mi chiamino.»
«Ma stanno trattenendo cinque nordcoreani. Mi
hanno preso il passaporto e il cellulare. Possono
farlo?»
«Noi qui non abbiamo alcuna autorità. Non
possiamo dir loro cosa devono fare. Ma possiamo
cercare di capire cosa sta succedendo.»
A ogni passo di quel viaggio, quando mi era
sembrato di intravedere una speranza, ero rimasta
delusa. Quando mi alzai per andarmene gli raccontai
una cosa che mi aveva detto mia madre, e cioè che
qualche giorno prima dodici nordcoreani erano stati
catturati ed erano finiti nella prigione di Luang
Namtha proprio mentre lei e Min-ho venivano
rilasciati. «Ma sicuramente lei lo saprà già.»
«No, non lo sapevo» rispose, come se gli avessi
appena comunicato una notizia alquanto bizzarra.
«Me ne occuperò.»
Mi domandai quanti rifugiati nordcoreani
languissero nella cella di una prigione in attesa che
quell’uomo facesse qualcosa.

Il mattino dopo un diplomatico di basso rango mi


accompagnò all’ufficio immigrazione di Vientiane.
Con il senno di poi, non fu certo una buona idea,
perché la riunione prese subito l’andamento di un
incontro bilaterale. Eravamo in una grande sala
riunioni circondata da bandiere nazionali. Dall’altra
parte del lungo tavolo lucido sedevano cinque
ufficiali dell’immigrazione in uniforme, fra cui la
donna che avevo conosciuto il giorno prima.
La quale insistette che la discussione si svolgesse
in laotiano e si rifiutò di recedere dalla posizione
secondo cui io avevo commesso un crimine favorendo
l’ingresso illegale di stranieri nel paese. E aggiunse
che sarei finita in prigione se non avessi pagato la
multa regolamentare di milletrecento dollari.
«Quella donna è furiosa con lei» mi sussurrò il
diplomatico quando uscimmo per un momento dalla
stanza. «Dice che è stata estremamente maleducata.»
Compresi di aver fatto un errore tattico. Se fossi
tornata da sola, e avessi dato segno di contrizione, e
mi fossi scusata con lei, forse mi avrebbe lasciata
andare; ma ormai le cose si erano spinte troppo in là.
Portando con me un diplomatico avevo spostato
l’intera questione su un altro livello.
Mostrai il portafogli ai funzionari
dell’immigrazione e spiegai loro la mia situazione.
Avevo gli ottocento dollari che Dick mi aveva dato
l’ultimo giorno, quando si era reso conto che non
avevo abbastanza denaro per un volo per Seul. Una
cifra sufficiente per pagare un biglietto di sola
andata. La donna si prese tutti i soldi e mi restituì
passaporto e cellulare.
«E non osi mai più tornare nel mio paese in questo
modo» disse. «Se la rivedo, la manderò in prigione
come trafficante di esseri umani. Anche se...» E mi
sorrise del sorriso più insincero che avessi mai visto.
«Può sempre tornare come turista.»
Avrei voluto schiaffeggiarla.
«Abbiamo prolungato di ventiquattr ’ore il suo
visto» aggiunse. «Se sarà ancora qui domani a
quest’ora l’arresteremo. Capito?»
«Mi piacerebbe lasciare il vostro paese
immediatamente» risposi. «Ma non ho soldi per
comprare il biglietto.»
Lei strinse le labbra. Non è un mio problema.
Uscendo dall’edificio il diplomatico mi rassicurò
sul fatto che mia madre, Min-ho e le altre tre
nordcoreane sarebbero stati trasferiti all’ambasciata il
giorno seguente. Dopodiché sarebbero potuti partire
per Seul. Una questione di pochi giorni, mi disse.
Dicono che tendiamo a credere a ciò cui vogliamo
credere, e io volevo credere con tutte le mie forze a
quelle parole. Erano così meravigliose da sentire! Mi
profusi in ringraziamenti. Ovviamente avrei dovuto
mettere alla prova la verità di quanto diceva con
qualche ulteriore domanda, ma fui distratta da
un’altra preoccupazione immediata.
«Non mi è rimasto nemmeno un centesimo per
comprare un biglietto e andarmene da qui.
L’ambasciata potrebbe anticiparmi dei soldi?»
Purtroppo, rispose l’uomo risalendo sulla sua auto,
non era politica dell’ambasciata quella di prestare
denaro.
Stupidamente lo ringraziai di nuovo, grata che le
vicissitudini della mia famiglia stessero per finire. Ma
fu solo qualche minuto dopo, quando rimasi sola in
mezzo alla strada, che mi accorsi che quell’uomo se
n’era andato pur sapendo che non avevo un
centesimo in tasca né un posto dove andare. Più tardi,
quando avrei appreso che le ambasciate, secondo la
legge internazionale, hanno il dovere di proteggere e
sostenere i loro cittadini, avrei trovato
l’atteggiamento dell’ambasciata sudcoreana di
Vientiane piuttosto incomprensibile.
Non avevo la più pallida idea di cosa fare. Temevo
che sarei finita a dormire per strada. L’avevo riacceso
da qualche minuto quando il mio cellulare squillò.
Era Dick. Cominciai a pensare che fosse un essere
quasi divino. Nel mio inglese stentato gli spiegai la
situazione e lui si offrì di mandarmi altri soldi. Gli
dissi di no. Me ne aveva già dati tanti. Mi sarei fatta
venire in mente qualcosa per conto mio. In realtà
avevo una sola opzione: chiedere a Kim. Era una cosa
difficile da fare, ancora più difficile che chiedere a
Dick. Non volevo che lui mi vedesse disperata, perché
questo avrebbe semplicemente confermato l’abisso di
status che esisteva fra di noi. Avevo paura di
deluderlo. Ma Kim mi inviò il denaro, e ancora una
volta gli giurai che era solamente un prestito, e che
gli avrei restituito fino all’ultimo centesimo.
Lasciai il Laos la mattina dopo.

Era la prima settimana di dicembre. Ero passata


dai tropici a una luminosa, frizzante giornata di Seul,
con alti cieli azzurri e un’aria così fredda che sul vetro
interno delle mie finestre si erano formati dei cristalli
di ghiaccio leggeri come piume. Dovevo andare
subito a comprarmi degli abiti invernali: i miei li
avevo dati tutti allo sbalordito tassista di Kunming.
Quella sera, accoccolata nell’appartamento di Kim
a Gangnam, con addosso uno dei suoi morbidi
maglioni, una bella tazza di caffè bollente fra le mani
e della musica jazz in sottofondo, gli raccontai le mie
avventure. Sembrava in qualche modo surreale
ritrovarmi all’improvviso nel comfort e nella
sicurezza di quell’universo. E vedere Kim, che non
l’aveva mai lasciato, fissarmi cercando di
comprendere le vicissitudini che avevo attraversato.
Restò a lungo in silenzio, poi scosse la testa,
disorientato da quella sequela di colpi di scena. Era
anche molto impressionato dalla figura di Dick Stolp.
«Incontrare una persona così» disse «in quel
momento, e in quel posto? È incredibile. Sei stata
davvero molto fortunata.»
«Sono fortunata ad avere te» dissi io.
La musica jazz che stavamo ascoltando era finita. Il
silenzio riempì la stanza.

Essendo stata via molto più del previsto – due mesi


– mi ero persa i test e i colloqui d’accesso
all’università. Perciò dovevo aspettare un altro anno
prima di tentare l’ammissione. Ma non m’importava.
Immaginavo che avrei avuto molto da fare per aiutare
mia madre e Min-ho ad affrontare la vita di Seul.
Il giorno dopo il mio ritorno chiamai l’ambasciata
sudcoreana di Vientiane. Ero in uno stato d’animo
positivo, e mi aspettavo di ricevere buone notizie.
Ascoltai una voce registrata che mi diceva in inglese
di premere vari tasti per accedere a diversi servizi.
Provai tutto il giorno senza riuscire a parlare con
nessuno. Lo stesso accadde il giorno dopo, e quello
dopo ancora. Comunque non ero troppo preoccupata.
Mi aspettavo che mamma e Min-ho arrivassero da un
momento all’altro, e sapevo che una volta passati
attraverso l’esame del NIS per un po’ sarebbero spariti
dal radar. Eppure mi sarebbe piaciuto avere una
conferma dai diplomatici di Vientiane.
Dopo tre settimane senza notizie cominciavo a
essere in ansia. Kim cercava di rassicurarmi,
dicendomi che niente accadeva in fretta nel Laos.
Finalmente, nella quarta settimana, il telefono squillò
ed era un numero che non conoscevo. La voce era
molto fievole.
«Nuna?»
«Min-ho?»
«Sì, sono io.»
«Siete ancora all’ambasciata?»
«Questo cellulare me l’hanno prestato. Puoi
richiamarmi?»
Perché sussurra? Lo richiamai subito e rispose al
primo squillo.
«Sono nella prigione Phonthong.»
50
La lunga attesa per la libertà

Il mio appartamento sembrò vorticarmi attorno.


Tenevo il cellulare talmente stretto che le unghie mi
si conficcavano nel palmo della mano.
«Cosa?»
«È dove mettono gli stranieri» disse Min-ho. «È
molto più grande della prigione di Luang Namtha...»
Di nuovo nell’incubo, di nuovo nelle tenebre. Il
labbro inferiore cominciò a tremarmi. Il mio
fratellino invece sembrava imperturbabile: era come
se stesse descrivendo la sua nuova scuola.
«Ci sono anche dei bianchi, e dei neri, tutti meno
la gente di qui...»
«Di chi è il telefono?»
«Del mio amico cinese con cui condivido la cella»
sussurrò lui. «È contro le regole averne uno.»
Mi presi la testa fra le mani. «Perché, perché,
perché non sei all’ambasciata sudcoreana? Mi
avevano detto che sarebbero venuti a prendervi il
giorno dopo.»
«L’ambasciata? Qui non si è visto nessuno...»
Min-ho mi raccontò che, dopo che io avevo lasciato
l’ufficio immigrazione, i funzionari avevano preso lui,
mia madre e le altre e li avevano portati nelle celle al
pianoterra. Poi, alcuni giorni dopo, li avevano
trasferiti nella prigione Phonthong. La mamma era
rinchiusa nel braccio riservato alle donne. Min-ho non
vedeva la luce del sole da settimane, e la sua pelle era
diventata bianchissima. Eppure la sua voce era
allegra. Mi meravigliava questa sua capacità di
sopportare il disagio fisico e ogni tipo di difficoltà. Mi
resi conto in quel momento che sarebbero state le
pressioni del mondo ricco, per lui, le più difficili da
sopportare.
«Ci sono due sudcoreani, qui. Uno si sta facendo
cinque anni per spaccio di anfetamine. L’altro ha
avuto qualche piccola questione d’affari qui in Laos.
Quando hanno scoperto che venivamo dal Nord mi
hanno comprato del cibo fuori dalla prigione con i
loro soldi. Ne hanno mandato anche alla mamma e
alle altre. È da parecchio che sono qui, eppure mi
hanno fatto coraggio. Mi dicono sempre che non devo
preoccuparmi, che un mucchio di nordcoreani
passano di qui e poi vengono consegnati
all’ambasciata sudcoreana. È la normale procedura,
Nuna. Non stare in ansia per noi. Andrà tutto bene.»
Min-ho e il suo amico cinese condividevano la cella
con altri due, un inglese e uno del Ghana. L’inglese
stava scontando una lunga condanna per detenzione
di marijuana: si chiamava John ed era molto gentile.
«E sai cosa, Nuna? Sto imparando l’inglese.»
A quelle parole scoppiai a piangere come una
fontana. Tra le lacrime riuscii a dire soltanto: «Allora
io e te parleremo inglese, quando sarai qui».
Min-ho si stava godendo la scoperta del mondo –
sebbene dalla cella di una prigione – nel suo
caratteristico modo: cominciando dal fondo. Lo
ammiravo per questo. Non intendeva lasciarsi
abbattere dalla prospettiva di mesi o addirittura anni
di prigione. Guardava in faccia il futuro, preparandosi
per la fase successiva.

Ora capivo perché il diplomatico avesse avuto


tanta fretta di andarsene. Mi aveva deliberatamente
mentito sul fatto che la mia famiglia sarebbe uscita di
prigione in un paio di giorni. Conosceva la procedura,
ma non voleva che io restassi tra i piedi e finissi col
mettermi nei guai. Ciononostante c’era motivo di
credere che le loro peripezie sarebbero finite presto.
A ripensarci mi rendevo conto che nessuno,
nemmeno il capo dell’immigrazione laotiana che era
tanto arrabbiata con me, aveva mai ventilato la
possibilità che mia madre e Min-ho potessero essere
consegnati alla polizia nordcoreana o rimandati in
Cina.
Mamma e Min-ho trascorsero altri due mesi nella
prigione Phonthong di Vientiane prima di essere
affidati, come gli amici di Min-ho avevano predetto,
all’ambasciata sudcoreana. Poi trascorsero altri tre
mesi in una casa protetta, dove si unirono alla coda
dei nordcoreani in attesa di essere esaminati dal
governo laotiano per il visto d’uscita.
Infine, più di sei mesi dopo il mio ritorno dal Laos,
sul finire della primavera del 2010 ricevetti una
telefonata da parte del NIS di Seul. Fra i nordcoreani
in arrivo, mi disse l’agente, c’erano una donna che
sosteneva di essere mia madre e un uomo che
affermava di essere mio fratello.
Queste parole, e il modo neutro, burocratico in cui
l’agente le aveva pronunciate, scatenarono in me
un’ilarità incontrollabile. Cercai di scusarmi con lui. E
a suo credito va detto che replicò: «Si prenda il suo
tempo. Dev’essere un bel sollievo».
Erano arrivati.
Era tutto finito.
51
Una serie di piccoli miracoli

A causa delle nuove regole introdotte dopo che


alcune spie erano state scoperte fra i richiedenti asilo
nordcoreani, la mia famiglia dovette trascorrere nelle
mani del NIS un periodo più lungo del mio. Mamma e
Min-ho furono interrogati per tre mesi prima di
essere portati a Hanawon, dove furono trattenuti per
altri tre mesi. Anche le tre donne con cui erano stati
detenuti in Laos vi arrivarono più o meno nello stesso
periodo. Purtroppo, dopo tutto quello che aveva
passato per arrivare fin lì, la signora più anziana morì
di cancro.
In quelle settimane d’attesa fui contattata,
inaspettatamente, da Shin-suh, la ragazza della
videochat che a Shanghai era apparsa nuda sullo
schermo del mio laptop. Aveva provato a
rintracciarmi, disse, ma il mio cambio di nome aveva
reso le cose più difficili. Fui contenta di sapere che
anche lei si era trasferita a Seul, e la invitai a venire a
trovarmi. Ma quando aprii la porta mi trovai di fronte
una sconosciuta, non la ragazza che avevo visto sulla
videochat. Pensai che potesse essere una trappola:
nella comunità dei transfughi girava voce che fra noi
ci fossero spie e sicari del bowibu.
La mia confusione sembrò divertirla. «Sono io,
Shin-suh.» Batté le mani e scoppiò a ridere. Riconobbi
la voce. Mi raccontò di aver speso ventimila dollari
per una plastica correttiva totale: occhi, fronte, naso,
labbra, seno, tutto. Il suo fidanzato sudcoreano ne era
rimasto così scioccato da rompere con lei.
Quando le dissi che avevo fatto uscire la mia
famiglia dal Nord, la luce si spense nei suoi occhi. Si
fece pensierosa e taciturna. Come me, sentiva la
mancanza dei suoi famigliari quasi come un dolore
fisico. Anche lei avrebbe voluto far uscire i suoi, mi
disse, ma la terrorizzavano i pericoli. Aveva sofferto
assai più di me. Come molte donne nordcoreane,
anche lei era caduta vittima di trafficanti di esseri
umani ed era stata ingannata da uomini che si erano
finti passatori disposti ad aiutarla. Considerava già
una fortuna il fatto di non essere stata venduta a un
povero contadino cinese. Mi fece arrossire ricordare
come, a diciott’anni, avevo pensato che la cosa
peggiore della vita sarebbe stata sposare il ricco,
innocuo Geun-soo.

Una settimana prima che mamma e Min-ho


riemergessero da Hanawon decisi di fare con Kim
quella chiacchierata che per troppo tempo avevo
rinviata. Non volevo rimandarla ulteriormente: la mia
famiglia stava per raggiungermi. Per me si apriva un
nuovo capitolo, e sapevo che Kim non ne avrebbe
fatto parte. Le esperienze degli ultimi mesi mi
avevano reso realista. Non sarei stata più la sciocca
romantica che sognava di vederlo sfidare i suoi
genitori per sposarmi, né mi aspettavo che lo fosse
lui: in fondo non l’avevo mai visto fare niente che
potesse dispiacere alla sua famiglia. Struggersi
sull’amore perduto era una cosa da soap opera, non
da me. La mia priorità, adesso, era aiutare mia madre
e Min-ho a adattarsi alla loro nuova vita. Dovevo
guardare avanti.
«Non credo che avremo un futuro insieme» gli
dissi. Dal tono della mia voce sembrò capire perché
ero andata da lui quella sera.
Dopo una pausa lunga e pesante rispose: «Lo so.
Hai ragione. Sarebbe troppo difficile farlo digerire
alla mia famiglia».
Restammo seduti per un po’, a guardarci da un
capo all’altro del divano e ad ascoltare i rumori della
città. Non pensavo che mi sarei sentita così triste. Era
un tale peccato. Noi due ci piacevamo e ci
rispettavamo molto. Lui era appena tornato a casa
dalla palestra e indossava una felpa che gli
sottolineava le forme del corpo. Era un uomo bello e
gentile, ma il suo futuro era strettamente legato al
suo passato e a quello della sua famiglia, e lo stesso
valeva per me. E questo significava destini separati.
«Non c’è molto altro da dire, dunque.» Se non
volevo piangere, dovevo chiudere quella storia in
fretta.
«Credo di no» ammise.
Gli feci un bel sorriso caldo. «Separiamoci da
amici.»
Ci abbracciammo e me ne andai senza lasciargli il
tempo di vedere le mie lacrime.

Due giorni dopo stavo aspettando nervosamente,


in cima alle scale della metropolitana, di veder
comparire mia madre e Min-ho. Era l’agosto del 2010.
Erano trascorsi quasi un anno dalle nostre vicende di
Changbai e nove mesi da quando li avevo lasciati, in
Laos. Non appena li intravidi mi precipitai giù per le
scale e fra le loro braccia. Finalmente erano liberi, e
cittadini sudcoreani. Come si sarebbero trovati nel
mondo «libero»?
«Avevi detto che ci sarebbero volute in tutto due
settimane» fu la prima cosa che mamma mi disse. «Se
avessi saputo quanto sarebbe stato lungo e
terrificante il viaggio per arrivare qui, dubito che
avrei accettato.»
«Be’, adesso siamo tutti qui» risposi. «È questo
l’importante. Min-ho, ma guardati: eri così magro
l’ultima volta che ti ho visto, e adesso sei fin troppo
grasso.» Effettivamente sembrava molto più in salute.
«Niente affatto» rispose lui. Poi mi sorrise, e in lui
rividi mio padre. «Anzi, ho fame. Mangiamo
qualcosa.»
Avevano occhi per tutto. Dalla metropolitana
eravamo usciti nell’animata zona vicino al municipio.
I loro sensi erano aggrediti dalle cose da vedere e da
sentire in una delle città più moderne del mondo.
Seul brillava di insegne che gareggiavano per attirare
l’attenzione, e di pubblicità luminose concepite per
allettare e sedurre. Le strade erano piene di un
traffico ininterrotto che un nordcoreano non
potrebbe nemmeno immaginare. La folla si muoveva
in ogni direzione. Erano i coreani moderni, la cui
lingua era comprensibile per mia madre. Ma gli abiti,
gli atteggiamenti e l’indifferenza nei confronti delle
migliaia di stranieri di tutte le razze che vivevano
tranquilli fra loro contrastavano in modo assoluto con
tutto ciò che lei sapeva. Ovunque guardasse fervevano
attività e prosperità.
Avevo invitato anche Ok-hee a unirsi a noi per un
seolleongtang, una zuppa di osso di bue.
«Mangia, Omma» dissi. Ero preoccupata perché
sembrava molto debole. Avevo sperato che dopo
Hanawon si fosse rilassata e rimessa in forze.
«Ero troppo stressata per mangiare» ribatté lei.
Chiacchierammo fino all’ora di chiusura del
ristorante. Ero così felice che continuavo a stringere
le loro mani: avevo fantasticato su una scena come
quella per più di un decennio.
I primi giorni di libertà di mia madre nel mondo
sviluppato furono contrassegnati da una serie di
piccoli miracoli. Mamma lottava per restare al passo.
A Dongdaemun, un popolare mercato notturno pieno
di bancarelle di cibi pronti, rimase pietrificata davanti
al bancomat da cui stavo ritirando i soldi. «Non riesco
proprio a capirlo» mi disse. Pensava che ci fosse un
piccolo cassiere nascosto in una stanzetta al di là del
muro, capace di contare le banconote a una velocità
pazzesca. «Poveretto, chiuso lì dentro senza
nemmeno una finestra!»
«Omma!» dissi io scoppiando a ridere. «Ma è una
macchina!»
Anche il biglietto dell’autobus la lasciò
sconcertata. Quando salimmo su un autobus, passò il
biglietto sul lettore ottico, come le avevo insegnato, e
una voce meccanica disse «hwanseung imnida»
(«trasferito»), segno che la tariffa era stata pagata.
«Le devo rispondere?» disse mia madre ad alta
voce.
Più tardi, per strada, mi chiese se i ragazzini che
vedevamo un po’ dappertutto appartenessero a una
specie di Lega della gioventù socialista.
«No, perché me lo chiedi?»
«Perché si salutano l’un l’altro facendo così», e alzò
il palmo della mano.
«Ma mamma, quello si chiama “dare il cinque”.»
Una sera, mentre stavamo facendo una
passeggiata, mi disse: «Dunque non era solo un
imbroglio».
«Che cosa, Omma?»
«Tutte queste auto. Le luci. Le avevo viste nelle
serie televisive sudcoreane, ma avevo sempre pensato
che fosse mera propaganda e che concentrassero
tutte le auto della città in una strada solo per girare il
film.» Scosse la testa. «È stupefacente.»
52
«Sono pronta a morire»

Nel settembre del 2010 fui ammessa all’Università


per stranieri Hankuk per un corso universitario di
cinese e inglese che sarebbe cominciato nella
primavera dell’anno seguente. Min-ho aveva trovato
un appartamento tutto per sé. Mamma stava cercando
un lavoro in modo da potermi aiutare. Le precedenti
posizioni di privilegio di cui godeva in Corea del
Nord – all’ufficio governativo di Hyesan – non
contavano nulla a Seul, quindi dovette accettare un
lavoro come donna delle pulizie in un piccolo motel.
Riceveva vitto e alloggio e aveva un giorno libero al
mese. Ma stava invecchiando, e non era abituata alla
fatica fisica: dopo qualche settimana di quel lavoro,
mentre cambiava le lenzuola a un letto, le si spostò
un disco nella colonna vertebrale, cadde a terra fra
dolori terribili e ben presto dovette essere operata.
Il suo coraggioso tentativo di costruirsi una nuova
vita al Sud rischiava di fallire. E di sicuro non l’aiutava
il fatto di vedere che anche Min-ho faceva fatica.
I ventisettemila nordcoreani che vivono al Sud si
sono lasciati alle spalle due tipi di vita: quella
miserabile, fatta di persecuzioni e di fame, e quella in
fondo sopportabile, non poi così male. Le persone del
primo gruppo si adattano in fretta: la loro nuova vita,
per quanto ricca di sfide, non può che essere migliore
della precedente. Per le persone del secondo gruppo,
invece, la vita al Sud è più scoraggiante, e spesso
provano un’acuta nostalgia per l’esistenza semplice e
ordinata di prima, dove tutte le decisioni importanti
venivano prese dallo stato e la vita non era solo feroce
competizione.
Mia madre, che pure aveva preparato i documenti
per fingersi morta prima di partire da Hyesan, aveva
affidato i suoi soldi a zia Alta, dando per scontato di
poter ritornare un giorno. A un certo punto cominciò
ad avere nostalgia dei suoi fratelli e delle sue sorelle,
e a piangere per loro ogni sera dopo il lavoro.
Ripeteva all’infinito il racconto delle vecchie
buffonate di zio Oppio, o degli stenti di zio Povero, o
dei trucchetti commerciali di zia Carina. Infine, una
sera, arrivò al dunque.
«Voglio tornare a casa.»
«Omma!» Era quello che avevo temuto di sentirle
dire. «Non è possibile. Lo sai cosa ti farebbero.»
«Sono pronta a morire» rispose, fissando il vuoto
con espressione stoica. «E voglio morire a casa mia.»
«Non dirlo nemmeno.»
«Qui non vedo mai il sole» si lamentò. Era inverno:
buio quando si alzava per andare al lavoro, e buio
quando tornava. «È per questo che sono venuta fin
qui? Non ha senso restare, qui non c’è nessun
futuro.»
Ripetemmo questa conversazione, in una forma o
in un’altra, per tutti i mesi seguenti. Lei non mi
rimproverò mai per averla convinta a fuggire, ma io
cominciai a pensare di aver commesso un terribile
errore. Avevo esposto a un gravissimo rischio le
nostre vite, con un costo enorme in fatica e in denaro,
solo perché potessimo stare insieme. Ma a dispetto
delle mie migliori intenzioni mia madre era infelice, e
si trovava davanti a un terribile dilemma: desiderava
tanto tornare a casa, ma sapeva che così facendo
saremmo state di nuovo separate.
Dapprima cercai di incoraggiarla a essere paziente.
Non era facile abituarsi alla vita in quel posto, le
dissi, ma lei ce l’avrebbe fatta. Ci voleva solo un altro
po’ di tempo. Ma quando cominciò a ripetere che
voleva morire al Nord seppi che non potevo più
ignorarla.
Col cuore pesante le dissi che l’avrei aiutata a
tornare indietro sana e salva, se era questo che voleva.
Per qualche settimana cercai di valutare i rischi. Era
incredibile che, dopo tutto quello che avevamo
passato, mi ritrovassi a studiare il modo di riportare
mia madre in Corea del Nord. Ma se lei era decisa,
cosa potevo farci?
Tornare in Corea del Nord sarebbe stato quasi
altrettanto arduo e periglioso del lungo viaggio fino a
Seul. Al confine di Changbai potevamo arrivare senza
difficoltà, in quanto turiste sudcoreane, e a quel
punto avrei potuto contattare un passatore per farle
attraversare il fiume. Ma lei doveva essere sicura –
assolutamente sicura – di poter far perdere le proprie
tracce una volta arrivata dall’altra parte.
Restavo sdraiata sul letto, incapace di prendere
sonno, con gli occhi fissi sulla coperta beige del cielo
sopra Seul. Lo farò davvero?
«Omma» le dissi il giorno dopo. «Se scoprissero
che sei stata in Cina ti arresterebbero. Se poi
dovessero scoprire che sei stata qui...» Non era
necessario che completassi la frase. Sapevamo
entrambe quale sarebbe stato il suo destino. La
guardai negli occhi. «Ho bisogno di sapere che il tuo
piano funzionerà.»
«Funzionerà» disse lei. «So esattamente chi
corrompere all’ufficio registri, ed è una persona per
bene. Poi tua zia Carina mi aiuterà a traslocare in
un’altra città. Nessuno saprà mai che sono stata via.»
Con ciò la cosa era decisa. Min-ho ne fu molto
rattristato: anche a lui mancava la patria, anche lui
faceva fatica a adattarsi, e poi non voleva perdere sua
madre.
Nel corso della settimana seguente cominciai a
progettare il viaggio. Ma quando cercai di discutere
con lei di date e di questioni pratiche, mamma
divenne reticente, distratta, come se ad angosciarla
fosse piuttosto qualche turbamento interiore.
Al tempo stesso cercavo di convincere Min-ho a
fare domanda di ammissione all’università. Ma lui
era irrequieto e scontento. La mia più grande paura
era che decidesse di darsi al crimine. Nella Corea del
Nord il contrabbando poteva anche essere illegale,
ma la polizia chiudeva un occhio e, a livello
informale, era socialmente accettato e considerato
una forma di commercio come un’altra: ma nella
Corea del Sud non era tollerato. L’idea di andare al
college lo terrorizzava. Ogni volta che gliene parlavo
assumeva un’aria abbattuta. La sua inutile istruzione
lo collocava anni indietro rispetto agli studenti della
sua età. Alla fine gli dissi di prendersi un anno per
pensarci.
Min-ho aveva trovato lavoro in un cantiere edile, e
lo affrontava con la solita caparbietà, lavorando
talmente sodo che nel giro di qualche settimana fu
promosso caposquadra. Dopo sei mesi, però, si
licenziò, dicendo che se non avesse fatto qualcosa
adesso avrebbe trascorso il resto della sua vita in un
cantiere. Aveva deciso di provare con l’università. Io
ne fui enormemente sollevata e contenta, e questa fu
ben presto seguita da altre buone notizie.
«Non tornerò indietro» disse improvvisamente
mia madre un mattino.
Immaginai che le fossero venuti dei dubbi, e che
fosse stata zitta in attesa che mettessero radici dentro
di lei.
«Tu e tuo fratello mi manchereste troppo»
aggiunse. «Potrei rivedere i tuoi zii e i loro figli, ma
voi mi manchereste così tanto che sarebbe una
doppia sofferenza.» Quella notte aveva dormito da
me. Più tardi, quando uscì per andare al lavoro, piansi
di tristezza. Il mio sollievo era amareggiato dal fatto
che l’avevo condannata al dolore e al senso di perdita
per il resto della sua vita. Ero consapevole di essere
stata io a metterla in quella situazione.

Nella primavera del 2011 erano ormai passati nove


mesi da quando mamma e Min-ho erano arrivati a
Seul; ma proprio quando pensavo che tutti e due
stessero cominciando ad ambientarsi e a adattarsi
alla realtà della loro nuova esistenza, ci rovinò
addosso un altro dramma che quasi ci strappò di
nuovo l’uno all’altro.
Min-ho aveva ristabilito i contatti con Yoon-ji, la
sua fidanzata, e le telefonava regolarmente. Non
intendeva lasciar perdere con lei, e nel corso di
innumerevoli conversazioni l’aveva convinta a
raggiungerlo al Sud, accordandosi con i passatori per
farle attraversare il confine con la Cina. Io non cercai
di dissuaderlo. Ormai conosceva bene tutti i pericoli,
ma il suo cuore voleva così.
Min-ho fece richiesta per il passaporto, ottenne un
visto per la Cina e andò a prenderla: ma quando
giunse a Changbai scoprì che la ragazza aveva
cambiato idea. Non voleva creare problemi ai suoi
genitori, disse.
Era il mio primo giorno di università quando Min-
ho mi telefonò. Era una bella mattina di primavera, e
io stavo attraversando il campus guardando la cartina
per individuare la sede della mia facoltà.
«Sono a Changbai.» La sua voce era strana, come in
sogno. «In questo momento sto guardando Hyesan
sull’altra sponda.»
«Non dovresti avvicinarti troppo. Qualcuno
potrebbe riconoscerti.»
«Nuna, mi dispiace, ma io torno indietro.»
«Non fa ridere.»
«Oggi mi sono fatto tagliare i capelli, ho buttato
via i jeans e mi sono comprato un paio di pantaloni
che sembrano nordcoreani.»
Il sangue mi si gelò nelle vene. «Cosa? Quando?»
«Adesso. Sto per attraversare proprio adesso.»
Gridai: «Min-ho, non puoi!».
«La madre di Yoon-ji si occuperà di ogni cosa. Sarà
come se non fossi mai andato via.»
Cercai di concentrarmi. Dovevo assolutamente
fermarlo. Sentivo crescere dentro di me un’orribile
tensione.
«Min-ho, ascoltami. Una volta dall’altra parte non
potrai più tornare. Pensaci.»
«Non ho un futuro a Seul» disse lui. «Non so se
potrei farcela con il college. A Hyesan posso sposare
Yoon-ji. So come far soldi.»
«Non puoi sapere come vanno le cose qui, perché
sei appena arrivato e tutto ti sembra ancora
spaventoso. Ma fra un anno o due starai benissimo.»
Min-ho tacque, potevo sentire il suo respiro
pesante. Faceva sempre così quando non voleva che
una cosa accadesse.
«Non posso perderti di nuovo, Min-ho. Sei l’uomo
di famiglia. Pensa a Omma: come reagirà a questa tua
decisione? Abbiamo attraversato l’inferno per
arrivare qui, e ancora non è finita. È dura, ma insieme
ce la faremo. Io e te siamo giovani, possiamo fare
qualsiasi cosa. Ti ricordi com’è stato difficile venire
qui? Eppure ce l’abbiamo fatta. Vuoi proprio buttare
via tutto?»
«E che mi dici di Yoon-ji?» La sua voce era fievole e
tanto, tanto triste.
Era il dilemma in cui ci trovavamo tutti e tre. Ogni
decisione ci allontanava definitivamente da qualcuno
che amavamo.
«Starà benissimo.» Lo dissi con durezza perché
sapevo cosa si nascondeva dietro la decisione di non
tornare: la paura di non trovare mai, nella Corea del
Sud, una donna che potesse interessarsi a lui. «Ci
sono molte ragazze anche qui. Ti farò conoscere le
mie amiche. Loro sanno che sei il mio eroe.»
«Forse.»
«Oppure potremmo andare in America. Possiamo
laurearci e andare in America. C’è ancora qualche
incertezza nella Corea del Sud, ma l’America è la
patria della libertà.»
«In America? E che diavolo ci andrei a fare?»
«Possiamo fare quello che vogliamo, Min-ho.
Andare in qualsiasi posto. Siamo persone libere.
Dobbiamo solo metterci il cuore, e ce la faremo.»
Parlammo per oltre un’ora, e poco a poco riuscii a
farlo tornare alla realtà. Per tutto il tempo non feci
che camminare in cerchio in mezzo a un cortile
interno, con gli studenti che mi sciamavano attorno
chiacchierando e spingendo le biciclette.
«Penso sempre al sentiero lungo il fiume» disse
lui. «Mi manca sapere che cosa sto facendo.»
«Lo so.»
«Ma hai ragione. Torno lì. Ci proverò un’altra
volta.»
Chiudemmo la comunicazione. Trovai una
panchina e mi ci lasciai cadere. Tremavo in tutto il
corpo. Mi sentivo come un pilota appena scampato a
un incidente aereo.
53
La bellezza di una mente libera

Non molto dopo l’arrivo della mia famiglia, Ok-hee


mi fece conoscere un’organizzazione chiamata
PS CORE (People for Successful Corean Reunification)
che aiuta i transfughi nordcoreani ad avere una vita
migliore. Un sabato sera lei e io ci unimmo a un
gruppo di volontari del PS CORE per una serata a
Hongdae, un quartiere pieno di locali e di club molto
frequentati dagli studenti di Seul. Tutti gli altri del
gruppo erano sudcoreani ma, stranamente, c’erano
anche tre giovani occidentali. A cena mi ritrovai
seduta vicino a uno di loro. Da quando avevo
incontrato Dick Stolp, in Laos, gli occidentali mi
incuriosivano molto. Se anche solo qualcuno di loro
fosse stato meraviglioso come Dick, ero interessata a
conoscerli meglio. E devo confessare che ero anche
colpita da quanto fosse carino quello seduto accanto a
me: aveva i capelli chiari, gli occhi color nocciola e dei
modi gentili e alla buona. A occhio e croce, era sui
venticinque anni.
Mi disse di chiamarsi Brian, e stava conseguendo
una laurea specialistica all’Università di Yonsei di
Seul. Mi chiese da dove venivo.
«Da una città che si chiama Hyesan» risposi in
tono piatto, come se tutti dovessero sapere dove si
trovava, e rimasi a osservare il suo stupore mentre si
grattava il mento.
«Hyesan, Hyesan...» borbottò. Stava cercando di
localizzarla sulla carta del mondo. «È strano. Credevo
di conoscere questo paese piuttosto bene.»
«È nel Nord. Vicino alla Cina.»
Mi guardò con un’espressione meravigliata. «Stai
scherzando?» Ero la prima nordcoreana che avesse
mai incontrato.
Mi disse di essere del Wisconsin. Ma poi vide
l’espressione vuota dei miei occhi. «Negli Stati Uniti.»
Trascorremmo il resto della serata immersi in una
fitta conversazione. Mi stupì constatare quanto fosse
aperto e onesto riguardo a qualsiasi argomento.
Parlava senza malizia e senza evasività; non era mai
sulla difensiva, o consapevole del proprio status. Mi
sentivo perfettamente a mio agio con quello
straniero. E anch’io fui assolutamente sincera con lui,
almeno fino a quando, incautamente, tirai fuori
l’argomento dell’età.
«Be’, tu quanti anni hai?» chiese lui ridendo.
«Venticinque.» Fu una bugia spontanea, una sorta
di riflesso condizionato. Ero tornata automaticamente
nella cinica modalità di calcolare ogni beneficio, ma
c’entravano anche i molti anni in cui avevo mentito
sulla mia identità. Mi ero tolta qualche anno per
sembrargli più attraente. Non me ne sentii troppo in
colpa, e comunque non immaginavo che ci saremmo
rivisti.
Quello che non mi aspettavo era che Brian mi
richiamasse, che cominciassimo a uscire insieme e
che a qualche mese dal nostro primo incontro
avremmo dato inizio a una relazione seria. Oggi
quella piccola bugia non ha alcuna importanza, ma
allora continuai a rimandare il momento di dirgli la
verità finché la cosa non divenne insostenibile.
«Brian, devo scusarmi con te» gli dissi un giorno,
per strada. «Ti ho mentito. Non ho venticinque anni:
ne ho ventinove.»
«Oh...» Mi lanciò un’occhiata stupita. «Non ha
importanza. Ma voglio che tu sappia che potrai
sempre essere sincera con me. Io non ti giudicherò
per questo.»
Con l’umorismo e lo scetticismo di chi non dà
niente per scontato, Brian fu il primo a mostrarmi
come si possa fare un uso libero della propria
intelligenza e a rendermi consapevole di certi miei
pensieri, a cui prima non avevo prestato molta
attenzione. Mi fece capire anche che il mondo ha a
cuore le sofferenze della Corea del Nord, e ne è
informato. Il suo atteggiamento mi diede il coraggio
di affrontare gli stupidi pregiudizi che nella Corea del
Sud si hanno nei confronti dei transfughi, una cosa
che non potrebbe mai succedere negli Stati Uniti. La
maggior parte dei transfughi che conoscevo
nascondevano la loro identità per paura di essere
catalogati in un rango inferiore. Ma io non intendevo
nascondere ancora la mia. Ora che la mia famiglia era
al sicuro, lì con me, non avevo più niente di cui
vergognarmi.
Brian mi fece notare anche un problema che non
avevo considerato. Non avrei dovuto affrontare solo i
pregiudizi dei sudcoreani, ma anche quelli di alcuni
transfughi a me molto vicini.

Mia madre e Min-ho sapevano che avevo una storia


con qualcuno, volevano incontrarlo e si domandavano
perché continuassi ad accampare delle scuse e non
rivelassi loro nemmeno il suo nome. Man mano che il
mio rapporto con Brian si faceva più serio, mi resi
conto che prima o poi avrebbero dovuto sapere di lui.
Alla fine, decisi che lo choc sarebbe stato la terapia
migliore.
E così presentai Brian a mia madre e a Min-ho in
un ristorante, e i due si ritrovarono faccia a faccia con
uno dei tanto vituperati «sciacalli yankee» della
propaganda nordcoreana. Sedemmo in silenzio.
Mamma, di solito così attenta all’etichetta, lo
guardava a bocca aperta. Lei e mio fratello
sembravano sbalorditi e offesi. Sapevo a cosa stavano
pensando. Un detto popolare nordcoreano recita:
«Come uno sciacallo non può diventare un agnello,
così gli imperialisti americani non possono cambiare
la loro natura rapace». Io feci loro da interprete. Dopo
una cena breve e penosa, Brian se ne andò non
appena la buona educazione glielo consentì. Min-ho
restò in silenzio, con gli occhi fissi sulla tavola.
Mamma disse una cosa sola, borbottando fra sé: «Ho
vissuto troppo a lungo. Sono troppo vecchia per
questa merda».
Più tardi, Min-ho ammise di aver odiato Brian fin
dal primo sguardo. Era un miguk nom, disse: un
americano bastardo.
Non m’importava di averli offesi: ero addolorata
per Brian, una persona buona e gentile che non aveva
fatto niente per meritare il loro disprezzo. Ma sapevo
che non avrei ottenuto niente scontrandomi con
mamma e Min-ho. Loro due erano fuori dalla Corea
del Nord solo da pochi mesi. Certe convinzioni non si
cambiano dalla sera alla mattina.

Poco a poco cominciai a parlare in pubblico in


difesa dei transfughi e sulle violazioni dei diritti
umani nella Corea del Nord, dapprima in assemblee
di espatriati, poi in piccole conferenze, infine in un
programma televisivo intitolato «Now on My Way to
Meet You», nel quale tutti gli ospiti erano transfughi
che indossavano abiti dai colori sgargianti per
combattere il luogo comune secondo cui i
nordcoreani sarebbero tutti trasandati e patetici. Il
programma ebbe un grosso impatto nel trasformare
l’atteggiamento pubblico della Corea del Sud verso
chi veniva dal Nord.
Cominciai a riflettere a fondo sul tema dei diritti
umani. Una delle principali ragioni per cui la
distinzione fra oppressori e vittime è tanto sfumata in
Corea del Nord è che nessuno laggiù ha la minima
idea di questi diritti. Per sapere che i tuoi diritti
vengono violati, o che tu stai violando quelli di un
altro, prima devi sapere di averli, e quali sono. Ma
senza nessuna informazione sulle società del resto
del mondo, nella Corea del Nord non può esistere
una simile consapevolezza. È per questo che in
genere le persone scappano dal paese: perché hanno
fame o sono nei guai, non perché hanno fame di
libertà. Molti transfughi che si nascondono in Cina
indietreggiano di fronte all’idea di raggiungere la
Corea del Sud, perché lo vedrebbero come un
tradimento del loro paese e dell’eredità del Grande
Leader. Se il popolo nordcoreano prendesse coscienza
dei propri diritti, delle libertà individuali e della
democrazia, il regime di Pyongyang avrebbe i giorni
contati, perché ben presto i nordcoreani si
renderebbero conto che l’unica persona a beneficiare
appieno dei diritti umani è proprio il Kim al governo:
il solo, in tutto il paese, a esercitare la libertà di
pensiero, di parola, di movimento, il diritto a non
essere torturato, imprigionato o condannato a morte
senza processo, il diritto a un’alimentazione e a una
sanità adeguate.
Il caso volle che, proprio mentre stavo riflettendo
su questi temi, accadesse una cosa che nessun
transfuga si sarebbe mai aspettato.
La sera del 17 dicembre 2011 mamma e io stavamo
guardando la TV quando trasmisero la notizia che
Kim Jong-il, il Caro Leader, era morto. Era deceduto
sul suo treno privato, disse un’affranta annunciatrice
nordcoreana, per l’«eccessivo stress fisico e mentale»
di una vita interamente dedicata alla causa del
popolo.
Mi voltai verso mia madre, scioccata. Gridammo.
Lei alzò la mano e ci scambiammo il cinque. Ok-hee
telefonò quasi subito. Volevamo festeggiare:
ingenuamente, pensavamo che grandi cambiamenti
stessero per verificarsi nella Corea del Nord.
Stentavamo a crederci. Kim Jong-il aveva solo
settant’anni: tutti noi pensavamo che avesse ancora
almeno dieci anni da vivere. Un intero istituto
scientifico di Pyongyang dedicava ogni energia allo
scopo di assicurarne la longevità; il Caro Leader aveva
accesso alle migliori cure del mondo, e al cibo
migliore: ogni singolo chicco di riso che mangiava era
ispezionato con cura alla ricerca di imperfezioni.
Il nostro umore si guastò pochi giorni dopo,
quando vedemmo i reportage con le obbligatorie
esibizioni di pianti e gemiti per quello spietato
tiranno. Kim Jong-il era stato un pessimo governante,
che non aveva fatto quasi nulla per alleviare gli effetti
della grande carestia, uno degli eventi più catastrofici
della storia coreana. Ciononostante, dal suo punto di
vista aveva avuto successo: il suo potere era rimasto
assoluto, era morto in pace e aveva passato le redini
del comando al figlio minore, Kim Jong-un.

Brian portò stabilità nella mia vita. Mi sentivo


«sistemata» e un po’ meno distratta; affrontai con
decisione i miei studi e cominciai a conquistare un
po’ di fiducia nelle mie capacità, soprattutto in
inglese. Intanto continuavo a parlare in pubblico in
difesa dei transfughi, finché non successe un’altra
cosa che non avrei potuto prevedere: fui selezionata
per pronunciare un discorso a una conferenza TED
(«Tecnologia, Educazione e Design»:
un’organizzazione non profit statunitense che
promuove conferenze annuali per presentare idee
nuove e interessanti). E così, nel febbraio del 2013
presi un aereo per la California, dove avrei raccontato
la mia storia davanti a un grande pubblico.
Con mio grande stupore, il mio discorso suscitò
una reazione straordinariamente positiva in persone
sparse ai quattro angoli del mondo. Alcuni dei
messaggi più toccanti provenivano dalla Cina, un
paese che amo ma che mi ha causato tante difficoltà.
Erano tanti i cinesi che esprimevano vergogna per la
complicità del loro governo nel dare la caccia ai
fuggiaschi nordcoreani. Ricevetti anche dei messaggi
d’odio, che mi definivano una traditrice e anche
peggio. Brian ne rideva, e mi suggeriva di fare
altrettanto.
Più tardi in quello stesso anno fui invitata a New
York per testimoniare davanti alla Commissione ONU
per i diritti umani nella Corea del Nord insieme ad
alcuni transfughi sopravvissuti ai campi di lavoro. Le
campagne di protesta internazionali che fecero
seguito al verdetto della Commissione sui crimini
contro l’umanità nella Corea del Nord finirono con
l’attirare su di me l’attenzione del regime di
Pyongyang. La cui Agenzia centrale per i notiziari, nel
suo stile inimitabile, proclamò: «Un giorno il mondo
apprenderà la verità su questi criminali. L’Occidente
ne sarà imbarazzato quando si renderà conto di aver
invitato questi terroristi [a testimoniare]».
Dietro l’arroganza si percepiva la paura. Le
dittature possono sembrare forti e compatte, ma sono
sempre più fragili di quanto non appaia. Sono
governate dall’arbitrio di un solo uomo, che non può
attingere alla grande ricchezza delle discussioni e dei
dibattiti come fanno invece le democrazie perché
quel solo uomo governa grazie al terrore e l’unica
verità permessa è la sua. Ciononostante, non credo
che la dittatura di Kim Jong-un sia così fragile da
poter collassare in breve tempo. Purtroppo, per dirla
con le parole dello storico Andrei Lankov, un regime
disposto a uccidere tutte le persone che è necessario
uccidere pur di restare al potere tende a restare al
potere per un tempo molto lungo.
E allora quando finiranno tutte queste sofferenze?
Alcuni coreani rispondono che termineranno con la
riunificazione. Questo è forse il nostro sogno, da una
parte e dall’altra del confine, anche se, dopo più di
sessant’anni di separazione e una radicale divergenza
negli standard di vita, molti cittadini del Sud
guardano a questa prospettiva con ansia. Ma non
possiamo restarcene con le mani in mano mentre
aspettiamo il miracolo di una nuova Corea unificata.
Se lo facessimo, i discendenti di famiglie divise un
giorno si riunirebbero solo per scoprire di essere
stranieri gli uni agli altri. La riunificazione, qualora si
verificasse – e si verificherà –, potrebbe essere meno
traumatica se i cittadini del Nord e del Sud potessero
avere qualche forma di contatto, se le famiglie
potessero trascorrere le vacanze insieme o
partecipare al matrimonio dei nipoti. Ma il minimo
che si possa fare per i transfughi è assicurarsi che
sappiano, quando rischiano tutto ciò che hanno per
scappare, che non dovranno perdere per sempre le
persone che si lasciano alle spalle, che hanno
sostenitori e gente solidale in tutto il mondo, e che
non attraversano il confine completamente soli.

Dopo tutti questi eventi, mia madre non poteva più


ignorare la mia relazione con Brian, che mi ha sempre
sostenuto con passione e affetto. Ma soprattutto,
l’attenzione che ricevevo per il mio lavoro stava
provocando un cambiamento nell’atteggiamento suo
e di Min-ho. Le circostanze li stavano costringendo a
vedere le loro stesse vite in una prospettiva più
ampia. Lentamente, anche loro cominciavano a
percepirsi come cittadini di un mondo più vasto, e
non come sfollati da un minuscolo territorio della
provincia di Ryanggang.
Ciononostante il passo successivo fu piuttosto
difficile per mia madre. Quando le comunicai la
notizia, infatti, divenne passiva e taciturna.
«Omma, Brian mi ha chiesto di sposarlo. Significa
molto, per me, ricevere la tua benedizione.»
Epilogo

Per quanto possa sembrare incredibile nel nostro


mondo iperconnesso, dopo aver lasciato il Laos persi
ogni contatto con Dick Stolp. Il server di posta
elettronica che stavo utilizzando smise di funzionare,
cancellando tutti i miei contatti. Scrissi lettere agli
editori di vari giornali australiani, nella speranza che
qualcuno le pubblicasse e che a Dick capitasse di
vederle e potesse cercarmi. Volevo sapesse il risultato
della sua gentilezza e del suo eroismo. Ma nessuna di
quelle lettere fu pubblicata. Solo dopo l’attenzione
suscitata dalla conferenza TED , una e-mail comparve
nella mia casella di posta elettronica: «Hyeonseo, sei
tu?». Dick non era sicuro che fossi proprio io la
persona cui stava scrivendo, anche perché non sapeva
che fossi nordcoreana. A quel punto un programma
televisivo australiano, «S BS Insight», sentì parlare
della mia storia e mi fece volare in Australia perché
potessi ringraziare Dick di persona. A riprendere il
nostro incontro c’erano anche delle telecamere.
Normalmente avrei risposto a una pressione del
genere nascondendomi dietro la mia maschera
nordcoreana, ma quando vidi la torreggiante figura di
Dick e lo stesso gentile, tenero sorriso che avevo visto
quel giorno lontano fuori dal Coffee House di Luang
Namtha, gli gettai le braccia al collo e scoppiai a
piangere.
So che probabilmente quella maschera non
scomparirà mai del tutto. A volte basta una piccola
cosa per rispedirmi nella vecchia modalità di
sopravvivenza foderata d’acciaio, o per trasformarmi
in un blocco di ghiaccio quando invece le persone
attorno a me si aspetterebbero di trovarmi
disponibile e aperta. In una puntata di un popolare
show sudcoreano sui transfughi, altre donne hanno
raccontato la loro storia in un fiume di lacrime. Io no.
Attraverso ancora fasi di autocolpevolizzazione. In
un certo momento, anni fa, mentre vivevo in Cina, ho
smesso di piacermi. Dopo essermi lasciata alle spalle
la mia famiglia ho pensato di non meritare più di
festeggiare il mio compleanno, e non l’ho più fatto.
Non sono mai soddisfatta di me: non faccio in tempo
a raggiungere un risultato che subito mi sento
infelice per non aver fatto di più, conquistando il
risultato successivo.
Mi sforzo di apprezzare ciò che ho e di continuare
a sorridere. Di recente mi sono laureata, grazie
soprattutto all’amichevole incoraggiamento del
signor Park, il poliziotto. Min-ho frequenta
l’università, parla inglese e ultimamente lui e Brian
sono diventati ottimi amici e ridono insieme di quella
cena in cui si sono conosciuti, e che in qualche modo
simboleggia i grotteschi pregiudizi creati dalla
politica.
Mia madre, la mia fantastica Omma, ora piange
molto meno spesso. Di tanto in tanto riesce
addirittura a sorridere, soprattutto quando Brian
storpia qualche parola in coreano. Quelli che si è
lasciata indietro – i miei zii e le mie zie – a volte le
compaiono in sogno. Lei si sforza di essere forte per
me, ma certe notti la sento piangere in silenzio.
Forse il passo più notevole compiuto da mia
mamma nel suo viaggio personale è stato quando le
abbiamo chiesto di presenziare al nostro matrimonio
nella città di Brian, nel Midwest: mi ha stupita molto,
perché non ha sollevato alcuna obiezione e non ha
protestato.
E così ci ha accompagnati in un viaggio nel cuore
della «bestia imperialista yankee», gli Stati Uniti
d’America. Se sua madre, mia nonna, quella che
sessant’anni prima aveva nascosto nel camino la
tessera del Partito dei lavoratori per non farla trovare
agli americani, portandola poi per il resto della sua
vita appesa al collo, l’avesse vista ammirare il
panorama che si gode dal centesimo piano del John
Hancock Center di Chicago, o sedere in un
ristorantino intenta ad assaggiare le pietanze
americane, probabilmente non avrebbe creduto ai
propri occhi. Così come sarebbe rimasta sbalordita,
insieme a Brian e a me, vedendola chiedere a una
cameriera, in inglese, un’altra tazza di caffè, per poi
borbottare qualcosa tra sé guardando i canyon di
grattacieli illuminati dal sole, completamente a suo
agio.
Referenze iconografiche

Grattacieli di Pyongyang: per gentile concessione di ©


breathoflifestar
Complesso di alloggi popolari: per gentile
concessione di © breathoflifestar
Ritratti di Kim Il-sung e Kim Jong-il: per gentile
concessione di © breathoflifestar
Cittadini di fronte alle statue di Kim Il-sung e Kim
Jong-il: per gentile concessione di ©
breathoflifestar
Carro da parata: per gentile concessione di ©
breathoflifestar
Gruppo di operai che si recano al lavoro: ©
Reuters/Reinhard Krause
Slogan su un edificio pubblico: © Reuters/Reinhard
Krause
Hyesan vista dal confine cinese: fotografia di
Hyeonseo Lee
Tentativo di ingresso al consolato giapponese: ©
Reuters/Kyodo
La prima «battaglia» con i fucili ad acqua: fotografia
di Hyeonseo Lee
Inserto fotografico
Questa foto scattata in studio, l’unica che ho di me nella Corea
del Nord, mi ritrae all’età di tre anni sulla schiena di mia madre.
Mamma e zia Carina poco prima della fuga di mia madre dalla
Corea del Nord. Le due sorelle erano assai legate, ma come
molte famiglie divise nella penisola coreana hanno dovuto
accettare il fatto di non rivedersi mai più.
Questi grattacieli di Pyongyang furono completati in tempo per
il centenario della nascita di Kim Il-sung, nel 2012, anno entro il
quale la Corea del Nord sarebbe dovuta diventare «una nazione
forte e prospera». Vi abitano i dirigenti del Partito dei
lavoratori.
A volte, però, anche per le famiglie appartenenti alla «classe
leale» gli alloggi sono miserandi.
I ritratti di Kim Il-sung e di suo figlio Kim Jong-il sono formati
da migliaia di bambini e ragazzi che alzano all’unisono dei
cartoncini colorati durante i giochi di massa. Nello stadio di
Hyesan io e i miei compagni di scuola dovevamo allenarci per
ore senza nemmeno una pausa per andare in bagno. Eravamo
costretti a farla nei vestiti.
Cittadini che si inchinano davanti alle colossali statue di bronzo
di Kim Il-sung e Kim Jong-il sulla collina di Mansu, a
Pyongyang, principale santuario del culto della famiglia che dal
1948 controlla la Corea del Nord. Anche gli stranieri in visita
alla città devono inchinarsi: così il regime induce i miei
connazionali a credere che i Kim siano rispettati e ammirati in
tutto il mondo.
Un dipinto propagandistico di Kim Jong-il adorna un carro da
parata durante una sfilata. Il Caro Leader è ritratto su una
terrazza battuta dalla pioggia con lo sguardo rivolto all’aurora:
nella simbologia del regime ciò significa che Kim Jong-il ha
guidato il paese attraverso tempi burrascosi verso un luminoso
avvenire. Lo slogan sul carro in secondo piano recita:
«Rigenerazione tramite lo sforzo di migliorarsi!».
Operai di Hyesan marciano per andare al lavoro dietro il loro
capo-unità. Anche i bambini vanno a scuola nello stesso modo.
Uno slogan su un edificio pubblico di Hyesan recita:
«Unificazione della patria. Il nostro Grande Leader Kim Il-sung
è sempre con noi».
Una foto scattata da Changbai, in Cina. Sullo sfondo si vede
Hyesan, nella Corea del Nord. Quando le acque del fiume che
separa i due paesi gelano, è più facile per i nordcoreani
scappare. Molte persone sono morte saltando dal ponte
ferroviario per evitare un treno in arrivo.
In Cina, una donna e una bambina cercano di entrare nel
consolato giapponese per chiedere asilo alla Corea del Sud, ma
vengono trascinate via dalla polizia. In seguito alle pressioni
internazionali, Pechino permise poi alle due fuggiasche di
partire per la Corea del Sud. Da allora la Cina ha intensificato le
misuredi sicurezza attorno alle ambasciate, e rimpatria
regolarmente i transfughi nella Corea del Nord, dove vanno
incontro a severe punizioni.
La nostra famiglia al Navy Pier di Chicago. Era la prima volta
che mia madre si recava in America, e spesso rimase stupita dal
livello di sviluppo del paese e dalla gentilezza delle persone. In
patria le era sempre stato insegnato che gli yankee erano gente
malvagia.
Mia madre e mio fratello «combattono» la loro prima battaglia
con i fucili ad acqua, la cosa più divertente che avessero fatto
da anni. La Corea del Nord è una società conservatrice, dove
perfino una battaglia in famiglia con i fucili ad acqua non si è
mai vista. Mia madre e mio fratello hanno giurato di giocarsi la
rivincita, un giorno o l’altro.
Nell’aprile del 2014 fui invitata a testimoniare alla sessione
speciale del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Fu una sessione di
portata storica: era la prima volta, infatti, che il Consiglio si
occupava specificamente delle violazioni dei diritti umani nella
Corea del Nord.
Insieme a Samantha Power, ambasciatrice americana alle
Nazioni Unite. Power è stata una strenua sostenitrice del
Responsability to Protect (R2P) e di ogni tentativo di
promuovere i diritti umani.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e
non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito,
noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato
in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato
specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto
esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi
distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo
così come l’a lterazione delle informazioni elettroniche sul
regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti
dell’editore e dell’a utore e sarà sanzionata civilmente e
penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e
successive modifiche.
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altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto
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alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata
pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno
essere imposte anche al fruitore successivo.

www.librimondadori.it

La ragazza dai sette nomi


di Hyeonseo Lee con David John
© Hyeonseo Lee 2015 by Agreement with Pontas Literary &
Film Agency, acting on behalf of the Asian Literary Agency
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: The Girl with Seven Names
Traduzione di Stefania Cherchi
Cartine di John Gilkes
Ebook ISBN 9788852066405

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO |


GRAPHIC DESIGNER: MARCELLO DOLCINI | FOTO ©
REINHARD KRAUSE/REUTERS/CONTRASTO
«GLI AUTORI» || HYEONSEO LEE AL CONSIGLIO DI
SICUREZZA DELL’ONU, 2014
Indice

Il libro
Gli autori
Frontespizio
La ragazza dai sette nomi
Nota dell’autrice
Introduzione
Prologo
Parte prima - IL PAESE PIÙ GRANDE DEL MONDO
1. Un treno attraverso le montagne
2. La città ai confini del mondo
3. Occhi sulla parete
4. La signora in nero
5. L’uomo sotto il ponte
6. Le scarpe rosse
7. Boomtown
8. La fotografia segreta
9. Essere una brava comunista
10. Rocky Island
11. «La casa è maledetta»
12. Tragedia sul ponte
13. Raggi di sole su acque scure
14. «Il grande cuore ha cessato di battere»
15. Fidanzata di un delinquente
16. «Quando avrai letto queste righe, noi cinque non ci
saremo più»
17. Le luci di Changbai
18. Sul ghiaccio
Parte seconda - NEL CUORE DEL DRAGO
19. Dal signor Ahn
20. Verità di casa
21. Il pretendente
22. La trappola matrimoniale
23. La ragazza di Shenyang
24. La telefonata del senso di colpa
25. Gli uomini del Sud
26. L’interrogatorio
27. Il piano
28. La gang
29. Consolazione del chiaro di luna
30. La città più grande e impertinente dell’Asia
31. Una donna in carriera
32. Un contatto con Hyesan
33. Conversazioni con l’orsacchiotto
34. Le tribolazioni di Min-ho
35. Choc d’amore
36. Destinazione Seul
Parte terza - VIAGGIO NELLE TENEBRE
37. «Benvenuta in Corea»
38. Le donne
39. La Casa dell’Unità
40. La corsa ad apprendere
41. Aspettando il 2012
42. Un luogo di fantasmi e di cani selvatici
43. Un dilemma impossibile
44. Viaggio nella notte
45. Sotto un vasto cielo asiatico
46. Persi nel Laos
47. Qualsiasi cosa serva
48. La gentilezza degli stranieri
49. Pellegrinaggi diplomatici
50. La lunga attesa per la libertà
51. Una serie di piccoli miracoli
52. «Sono pronta a morire»
53. La bellezza di una mente libera
Epilogo
Referenze iconografiche
Inserto fotografico
Copyright

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