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IL PROFESSORE
E IL PAZZO
Adelphi
Nel cuore di quella grande impresa dello
spirito moderno che fu la redazione del-
l’Oxford English Dictionary è nascosta da sem
pre ima storia straordinaria. Il primo a sco
prirla, e in parte a viverla, fu il professor
James Murray, anima e responsabile del
maestoso progetto. Dopo anni di lavoro,
Murray si rese infatti conto di come una
parte consistente dei lemmi - che qualsiasi
«letterato» poteva redigere, su base volon
taria - arrivassero alla redazione da un uni
co posto in Inghilterra, e recassero in calce
sempre la stessa firma: «W.C. Minor». A
questo punto Murray decise di incontrare
il suo prezioso e infaticabile collaboratore,
salvo scoprire che il luogo da cui tutte quel
le lettere partivano era Broadmoor, e ü lo
ro autore uno degli ospiti più in vista del te
mibile manicomio. Sì, anni prima, per le
strade di Londra, W.C. Minor - un medico
militare reduce dalla Guerra di Secessione,
e vittima di una gravissima sindrome para-
noide - aveva ucciso un passante, e adesso
era rinchiuso in una cella dove gli era stato
concesso di trasferire la sua collezione di li
bri antichi. L’incontro fra questi due per
sonaggi era già materia per un grande ro
manzo vittoriano. A Simon Winchester, in
fondo, non è rimasto che scriverlo. Ma, d’al
tra parte, solo lui avrebbe potuto farlo.
IL PROFESSORE
E IL PAZZO
Traduzione di Maria Cristina Leardini
ADELPHI EDIZIONI
TITOLO originale:
The Professor and the Madman
A Tale of Murder, Insanity, and the Making
of the « Oxford English Dictionary »
Anno Edizione
Prefazione 11
alla memoria di G. M.
Ogni capitolo è preceduto in esergo da una voce originale dell’ Oxford
English Dictionary, La traduzione dei testi si trova al termine del volume.
PREFAZIONE
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più verso la fine degli anni Novanta, quando ormai il
dizionario si avviava al compimento della prima metà:
piovevano riconoscimenti ufficiali su tutti i suoi creato
ri, e Murray voleva essere sicuro che a ogni singola per
sona coinvolta, anche a quelle così palesemente schive
come il dottor Minor, venisse riconosciuto il prezioso
lavoro che aveva svolto. Pensò dunque di fargli visita.
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1
NEL CUORE DELLA NOTTE A LAMBETH MARSH
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E tuttavia fu soltanto al processo per omicidio, svolto
si all’inizio di aprile, che le vere proporzioni della ma
lattia del dottor Minor divennero nettamente evidenti.
Una ventina di testimoni si presentò in tribunale davan
ti al presidente della Corte d’assise di Kingston (Lam
beth era ancora giurisdizione del Surrey, non di Lon
dra) e tre persone raccontarono a un’aula stupefatta ciò
che sapevano dell’infelice capitano.
La polizia di Londra, tanto per cominciare, ammise
che in un certo modo egli era già una loro conoscenza,
e che già qualche tempo prima dell’omicidio sapevano
di avere a che fare con un soggetto difficile. Un detective
di Scotland Yard di nome Williamson testimoniò che
Minor era andato al comando tre mesi prima, denun
ciando il fatto che degli uomini entravano nella sua
stanza di notte cercando di avvelenarlo. Lui pensava che
si trattasse di membri della società segreta dei feniani,
nazionalisti irlandesi militanti, intenzionati a introdursi
nel suo alloggio nascondendosi fra le travi del tetto o
entrando di soppiatto dalle finestre.
Aveva fatto analoghe dichiarazioni parecchie volte,
disse Williamson; poco prima di Natale Minor aveva
persino convinto il commissario di polizia di New Ha
ven a scrivere una lettera a Scodand Yard in cui ribadiva
i timori nutriti dall’americano. Anche dopo il trasferi
mento in Tennison Street, il medico si era tenuto in
contatto con Williamson: il 12 gennaio 1872 gli aveva
scritto di essere stato drogato e di temere che i feniani
stessero elaborando un piano per ucciderlo, facendo
passare la sua morte per un suicidio.
Un classico grido di aiuto, si potrebbe pensare oggi.
Ma l’esasperato sovrintendente Williamson non fece
niente e non ne parlò con nessuno: scrisse soltanto sul
suo registro un appunto dal tono un po’ sprezzante se
condo il quale Minor era senza dubbio (e questa fu la
prima volta che l’espressione venne usata per descrivere
lo sventurato americano) malato di mente.
Poi ci fu un testimone che aveva qualcosa di molto
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singolare da riferire sul dottor Minor, che aveva tenuto
sotto osservazione nel periodo in cui si trovava in custo
dia cautelare nelle celle di Horsemonger Lane.
Il testimone, che si chiamava William Dennis, lavorava
a Londra, all’ospedale per i malati di mente di St. Mary
of Bethlehem (un posto tanto orribile che il suo nome ci
ha lasciato la parola bedlam, manicomio o pandemonio),
dove tra i suoi doveri rientrava la sorveglianza dei pazien
ti-prigionieri durante la notte, per assicurarsi che si com
portassero bene e che non cercassero di beffare la giusti
zia suicidandosi. Era stato assegnato alla prigione di
Horsemonger Lane a metà febbraio, disse, per sorveglia
re le attività notturne di quello strano ospite. L’aveva sor
vegliato, testimoniò, per ventiquattro notti.
Era stata un’esperienza estremamente singolare e in
quietante, raccontò Dennis alla giuria. Ogni mattina il
dottor Minor si svegliava e lo accusava di essere stato as
soldato da qualcuno con lo scopo specifico di molestarlo
mentre dormiva. Poi sputava, decine di volte, come se
cercasse di rimuovere qualcosa che gli fosse stato messo
in bocca. Quindi balzava giù dal letto e vi frugava sotto a
tentoni, a caccia di persone che, insisteva, vi si erano na
scoste con l’intenzione di importunarlo. Dennis aveva
detto al suo superiore, il medico della prigione, di essere
assolutamente certo che William Minor fosse pazzo.
Dal verbale deH’interrogatorio della polizia emerse la
prova di un movente immaginario per il crimine, e con
esso un’ulteriore conferma dell’evidente instabilità
mentale del dottor Minor. Ogni notte, Minor aveva rac
contato ai suoi inquirenti, degli uomini sconosciuti,
spesso di bassa estrazione sociale, spesso irlandesi, en
travano nella sua stanza mentre lui dormiva. Lo maltrat
tavano, gli facevano violenza in modi che non poteva
nemmeno descrivere. Da mesi ormai, da quando questi
visitatori notturni avevano iniziato a tormentarlo, aveva
preso l’abitudine di dormire con la sua Colt d’ordinan
za, caricata con cinque cartucce, sotto il cuscino.
La notte in questione si era svegliato di sobbalzo, sicu
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ro che ci fosse un uomo nell’ombra, ai piedi del letto.
Aveva afferrato la pistola: l’uomo l’aveva visto e se l’era
data a gambe, precipitandosi giù per le scale e fuori di
casa. Minor lo aveva inseguito il più velocemente possi
bile e, quando aveva visto un uomo correre lungo Belve
dere Road, certo che fosse lui l’intruso, aveva gridato,
poi fatto fuoco per quattro volte, finché l’aveva colpito e
l’uomo era rimasto immobile a terra, ormai incapace di
fargli altro male.
La Corte ascoltava in silenzio. La padrona di casa
scosse il capo. Nessuno poteva entrare in casa sua di not
te senza chiave, disse. Tutti avevano il sonno molto leg
gero; non ci potevano essere intrusi.
A definitiva conferma la Corte ascoltò poi il fratella
stro del prigioniero, George Minor. Era stato un incu
bo, disse George, avere suo fratello William in giro per
casa a New Haven. Tutte le mattine accusava qualcuno
di aver cercato di introdursi nella sua stanza durante la
notte per molestarlo. Lo perseguitavano. Uomini mal
vagi cercavano di ficcargli in bocca dei biscotti metallici
ricoperti di veleno. Facevano lega con altri che si na
scondevano in soffitta e scendevano di notte, mentre lui
dormiva, per fargli cose oscene. Tutto ciò era la punizio
ne, diceva, per un atto che era stato costretto a compie
re mentre era nell’esercito americano. Solo andando in
Europa, diceva, sarebbe potuto sfuggire ai suoi demoni.
Avrebbe viaggiato, e dipinto, e vissuto la vita di un uomo
rispettabile amante dell’arte e della cultura - e forse i
persecutori sarebbero svaniti nella notte.
La Corte ascoltava in melanconico silenzio; il dottor
Minor, intanto, sedeva al banco degli imputati, cupo,
umiliato. L’avvocato procuratogli dal console generale
americano disse soltanto che il suo cliente, con ogni evi
denza, era malato di mente, e che la giuria lo doveva
considerare come tale.
Il presidente della Corte annuì. Era stato un caso bre
ve ma doloroso, essendo l’accusato un uomo di educa
zione e cultura, uno straniero e un patriota, una figura
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del tutto diversa da quei disgraziati che più comune
mente stavano al banco degli imputati davanti a lui. Ma
la legge doveva essere applicata con correttezza ed equi
tà, a prescindere dalle condizioni o dallo stato sociale
dell’imputato; e la sentenza in questa storia era in un
certo senso un finale scontato.
Da trent’anni la legge in tali casi era guidata da quelle
che erano conosciute come le norme McNaughton, co
sì chiamate dal nome dell’uomo che, nel 1843, aveva
ucciso il segretario di Sir Robert Peel ed era stato assolto
sulla base del fatto che era tanto pazzo da non saper di
stinguere il bene dal male. Quelle norme, che giudica
vano la responsabilità criminale più che la colpa, dove
vano essere applicate a questo caso, disse il presidente
alla giuria. Se erano convinti che l’imputato « non era
sano di mente » e che aveva ucciso George Merrett sotto
l’effetto di una fissazione del genere che avevano appe
na sentito, allora dovevano fare quello che le giurie e-
rano solite fare in quel periodo straordinariamente cle
mente della giustizia britannica: dovevano dichiarare
William Chester Minor non colpevole per motivi di in
fermità mentale, e consentire al giudice di applicare le
sanzioni detentive che riteneva opportune e necessarie.
E fu proprio questo che fece la giuria, senza dibatte
re, in quel tardo pomeriggio del 6 aprile 1872. Il dottor
Minor venne dichiarato legalmente innocente, per un
omicidio che tutti, lui compreso, sapevano di sua mano.
Il presidente della Corte, poi, emise l’unica sentenza
che avesse a disposizione: una sentenza occasionalmen
te emessa ancora oggi e che ha un fascino seducente nel
le parole, nonostante la terribile atrocità delle sue impli
cazioni.
«Verrete custodito in luogo sicuro, dottor Minor,»
disse il giudice « sinché piacerà a Sua Maestà». Era una
decisione che avrebbe avuto conseguenze inimmagina
bili e imprevedibili, effetti che hanno continuato a rie
cheggiare e propagarsi in tutto il mondo letterario in
glese sino a oggi.
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Il ministero dell’interno prese atto brevemente della
sentenza e decise inoltre che la detenzione del dottor Mi
nor, la quale, considerata la gravità della malattia, avreb
be probabilmente occupato il resto della sua vita natura
le, doveva essere scontata nel nuovo pezzo forte del siste
ma penale britannico, un esteso complesso di edifici di
mattoni rossi situato dietro alte mura e recinzioni appun
tite nel villaggio di Crowthome, nella regia contea del
Berkshire. Il dottor Minor doveva essere tradotto non
appena possibile dalla sua temporanea prigione nel Sur
rey al manicomio criminale di Broadmoor.
Il dottor William C. Minor, capitano e medico nell’e
sercito degli Stati Uniti, membro orgoglioso e reietto di
una delle famiglie più antiche e in vista del New En
gland, d’ora in poi doveva essere formalmente chiama
to in Gran Bretagna con il suo numero di matricola di
Broadmoor, il 742, e tenuto sotto custodia permanente
come « pazzo criminale conclamato ».
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2
L’UOMO CHE INSEGNAVA IL LATINO
ALLE MUCCHE
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Si può a buon diritto affermare che la storia che se
gue ha due protagonisti. Uno è il dottor Minor, l’ufficiale
omicida degli Stati Uniti, e poi ce n’è un altro. Dire che
una storia ha due protagonisti, o tre, o dieci, è un’espres
sione moderna molto comune e perfettamente accetta
bile. Si dà il caso, tuttavia, che in passato si sia scatenata
una furiosa controversia lessicografica sull’uso del ter
mine: una disputa che contribuisce a illustrare il modo
singolare e peculiare in cui è stato costruito V Oxford En
glish Dictionary, e l’autorità sprezzante e intimidatoria di
cui dispone quando mette in mostra i muscoli.
Il termine stesso, « protagonista», se usato nel signifi
cato generico di personaggio principale nella trama di
una storia, o in una gara, o di paladino di una causa, è
piuttosto comune. Ed è, come ci si potrebbe aspettare
per ogni termine familiare, definito in modo completo
e appropriato già nella prima edizione del dizionario
del 1928.
La voce inizia con l’abituale intestazione che indica
ortografia, pronuncia ed etimologia (deriva dal greco
npœroç che significa « primo » e aycoviorfiç che significa
« attore » o, letteralmente, « personaggio principale di
un’opera teatrale »). Segue poi l’elemento che caratteriz
za e distingue l’OED: una serie di sei citazioni esemplifi
cative selezionate dai curatori, all’incirca il numero me
dio di citazioni per qualsiasi termine dell’OED, sebbene
alcuni ne meritino molte di più. I curatori le hanno sud
divise in due accezioni.
La prima accezione, con tre fonti citate, mostra l’uso
della parola nel significato letterale di « personaggio
principale di un’opera teatrale »; le tre citazioni seguen
ti testimoniano una sottile differenza, per effetto della
quale la parola significa « il personaggio chiave in qual
sivoglia contesto di antagonismo », oppure « un sosteni
tore di rilievo ... di una qualsiasi causa». Per consenso
generale questo secondo significato è il più moderno; il
primo è la versione più datata e oggi un po’ arcaica.
La più antica citazione utilizzata per illustrare il pri
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mo dei due significati è quella rintracciata dagli investi
gatori-lessicografi del dizionario tra gli scritti di John
Dryden risalenti al 1671. « Mi si accusa » dice la citazione
« di fare di persone debosciate ... i miei protagonisti, ov
vero le figure principali dell’opera teatrale ».
Dal punto di vista lessicografico questa sembra la fon
te primaria della parola inglese, un buon indizio per cui
il termine potrebbe essere stato introdotto nella lingua
scritta proprio in quell’anno, e con ogni probabilità non
prima. (Ma l’OED non dà garanzie. Gli studiosi tedeschi,
in particolare, provano sempre una grande soddisfazio
ne nel proclamarsi vincitori di quella gara lessicografica
informale che mira a trovare citazioni antecedenti a
quelle dell’OED. Dalle ultime stime i tedeschi, da soli,
hanno trovato ben trentacinquemila esempi in cui la ci
tazione dell’OED non era la prima; altri, in modo meno
plateale, segnalano i loro piccoli trionfi di investigazio
ne lessicale, e i curatori di Oxford li accettano tutti con
sdegnosa equanimità, non professando infallibilità né
monopolio).
Questa citazione di protagonist è particolarmente chia
ra, anche perché Dryden definisce esplicitamente il si
gnificato di un termine di nuovo conio all’interno della
frase stessa. Quindi dal punto di vista dei curatori del di
zionario c’è il doppio beneficio di avere una data per l’o
rigine del termine e la spiegazione del suo significato,
entrambi per mano di un unico autore inglese.
Trovare e pubblicare citazioni degli usi di un termine
è chiaramente un modo imperfetto per pronunciarsi su
origini e significati, ma secondo i lessicografi dell’Otto-
cento era il metodo migliore mai concepito, e resta tut
tora insuperato. Di quando in quando degli esperti rie
scono a contestare determinate conclusioni come que
sta, e occasionalmente il dizionario è costretto a ritratta
re, è obbligato ad accettare una nuova citazione più an
tica e a dare a un certo termine una storia più lunga di
quella inizialmente attribuitagli dai primi curatori. For
tunatamente protagonist non è ancora stato validamente
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contestato su basi cronologiche. Per quanto riguarda
l’OED, la data rimane ancora il 1671: da trecento anni e
più il termine è parte di quel corpus gigantesco cono
sciuto come il vocabolario della lingua inglese.
La parola si ripresenta, e con nuove citazioni esempli
ficative, nel Supplement del 1933, un volume che dovette
essere aggiunto semplicemente per la mole di nuove pa
role e attestazioni di nuovi significati accumulatasi du
rante i decenni in cui il dizionario originale veniva com
pilato. A questo punto era stata individuata un’altra sfu
matura di significato, quella di « giocatore principale in
una partita o in un’attività sportiva ». A testimonianza di
quest’uso viene prodotto l’esempio di una frase tratta
da un numero del 1908 di « The Complete Lawn Tennis
Player » (Il perfetto giocatore di tennis).
Ma ecco scoppiare la controversia. L’altro grande te
sto di riferimento della lingua inglese, il popolarissimo
Modem English Usage (La lingua inglese moderna) di
Henry Fowler, pubblicato per la prima volta nel 1926,
insisteva, contrariamente a quanto affermava Dryden
nella citazione riportata dall’OED, che il termine pro
tagonist poteva essere usato esclusivamente al singolare.
Secondo Fowler, qualsiasi uso che desse a intendere il
contrario era, dal punto di vista grammaticale, assoluta-
mente sbagliato. E non soltanto sbagliato, continuava,
bensì anche assurdo. Sarebbe un nonsenso sostenere
che, tra due personaggi di un’opera teatrale, ciascuno
sia definibile come il più importante. O uno è il più im
portante, o non lo è.
Ci volle più di mezzo secolo prima che l’OED deci
desse di definire la questione. Il Supplement del 1981,
con i classici modi autorevoli del dizionario, cerca di re
plicare al suscettibile (e ormai defunto) signor Fowler e
propone una nuova citazione a sostegno della teoria se
condo cui il termine può essere usato al plurale o al sin
golare a seconda dei casi. George Bernard Shaw, dice,
scrisse nel 1950: «Gli attori con temporanei devono im
parare che anch’essi devono essere invisibili mentre i
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protagonisti conversano, e perciò non devono muovere
muscolo, né cambiare espressione». Può darsi che la
grande autorevolezza linguistica di Fowler fosse tecnica-
mente corretta ma, spiega il dizionario in una versione
ampliata della definizione del 1928, forse soltanto
nell’ambito specifico del teatro greco classico, per il
quale il termine era stato inizialmente coniato.
Nel mondo dell’inglese moderno, dominato dal buon
senso (il mondo che, dopotutto, il grande dizionario era
preposto a materializzare e a definire - a fissare, per dirla
con la lingua dei dizionari), è sicuramente ammissibile
che in una storia esistano due o più personaggi principa
li. Molte opere teatrali hanno spazio per più di un eroe, e
due o tutti quanti possono essere ugualmente eroici. Gli
antichi greci erano drammaturghi da un solo eroe? E sia.
Nel resto del mondo, ce ne possono essere tanti quante
sono le parti che i drammaturghi hanno voglia di scrivere
per loro.
Ora esiste una seconda edizione del dizionario, in
venti volumi, con tutto il materiale dei supplementi in
tegrato nell’opera originale, e con le nuove parole e le
nuove forme emerse nel corso degli anni debitamente
inserite. In questa edizione protagonist compare nella
sua forma oggi consolidata: con tre significati fonda
mentali e diciannove citazioni esemplificative. Quella di
Dryden rimane inalterata, la prima testimonianza del
termine, per giunta al plurale; e per dare ancora più
peso all’idea che il plurale è una forma perfettamente
accettabile, accanto a Shaw vengono citati sia il « Times »
sia Dorothy L. Sayers, scrittrice di thriller e medioeva-
lista. Quindi ora il termine è lessicalmente definito in
modo adeguato una volta per tutte e, come stabilisce
l’autorità quasi indiscutibile dell’OED, ne è consentito
l’uso sia al singolare sia al plurale.
Il che cade giusto a proposito, considerata (e così ri
badita) l’esistenza di due protagonisti in questa storia.
Il primo, come si è già capito, è il dottor William Ches
ter Minor, l’omicida americano reo confesso e malato
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di mente. L’altro è un uomo la cui vita coincise più o
meno con quella di Minor in senso temporale, ma se ne
differenziò in quasi ogni altro aspetto: si chiamava James
Augustus Henry Murray. Le vite dei due uomini, nel cor
so degli anni, si sarebbero intrecciate inestricabilmente
e nel modo più strano.
In più, entrambe dovevano intrecciarsi con quella del-
l’Oxford English Dictionaiy, in quanto il secondo dei due
uomini, James Murray, ne sarebbe diventato, negli ulti
mi quarantanni di vita, il direttore editoriale più gran
de e giustamente più famoso.
1. Quello di Lewis Carroll, con il quale l’autore di Alice nel paese delle
meraviglie divenne famoso, era in realtà uno pseudonimo [N.d. T.].
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Uomini Che Contavano, gli architetti delle grandiose
costruzioni intellettuali che ebbero origine nel periodo
inglese più altero e più fiducioso di sé. Quanto Isam-
bard Kingdom Brunel rappresentò per i ponti e le ferro
vie, Sir Richard Burton per l’Africa e Robert Falcon
Scott di lì a poco per l’Antartide, fu in egual misura rap
presentato nel loro campo da questi uomini, i migliori,
gli artefici di indelebili monumenti al sapere: i libri che
sarebbero diventati il fondamento essenziale delle gran
di biblioteche di tutto il mondo.
Avevano un progetto, dissero, che il professor Murray
avrebbe sicuramente trovato molto interessante. Un
progetto che, sebbene nessuna delle parti coinvolte ne
fosse consapevole, doveva infine porre James Murray in
rotta di collisione con un personaggio i cui interessi e la
cui religiosità erano stranamente consonanti con i suoi.
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3
LA FOLLIA DELLA GUERRA
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tere, anche la Confederazione di Jefferson Davis sareb
be rimasta. Annientiamo l’esercito secessionista, ragiona
va Grant, e annienteremo anche la causa secessionista.
Questa ambiziosa strategia ebbe formalmente inizio
nel maggio del 1864, quando la grande macchina mili
tare che Grant aveva creato per sbaragliare l’esercito dei
confederati cominciò ad avanzare dal Potomac verso
sud. La campagna, avviata con questa prima offensiva,
sarebbe passata sulla regione di Dixie come una falce:
Sherman dal Tennessee avrebbe messo a ferro e fuoco
la Georgia; Savannah sarebbe stata conquistata, le prin
cipali forze confederate si sarebbero arrese ad Appo
mattox solo undici mesi più tardi, e la battaglia finale di
questi cinque anni di guerra si sarebbe combattuta in
Louisiana, a Shreveport, a quasi un anno dal giorno in
cui Grant aveva iniziato a muoversi.
Ma la fase iniziale della strategia, con il nemico ancora
compatto e molto determinato, fu la più difficile da rea
lizzare e di rado in quelle prime settimane si diede batta
glia più fieramente che nel primo giorno della campa
gna. Gli uomini del generale Grant marciarono ai piedi
dei monti Blue Ridge e, nel pomeriggio del 4 maggio, at
traversarono il fiume Rapidan ed entrarono nella contea
di Orange. Qui incapparono neU’armata della Virginia
settentrionale guidata da Robert E. Lee: la battaglia che
ne seguì, iniziata con l’attraversamento del fiume e con
clusa solo quando gli uomini di Grant si spostarono late
ralmente verso Spotsylvania, costò circa ventisettemila
vite in sole cinquanta ore di fuoco e ferocia.
Tre diversi aspetti di questa gigantesca battaglia sem
brano averla resa particolarmente importante nella sto
ria del dottor William Minor.
Il primo è l’efferatezza selvaggia ed estrema dello
scontro, unita alle impietose condizioni del campo di
battaglia dove ebbe luogo. Migliaia di uomini si affron
tarono in un ambiente del tutto inadatto alle tattiche di
fanteria. Era, ed è ancora, un paesaggio dolcemente in
declivio, fittamente coperto da una foresta secondaria e
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da un sottobosco folto e impenetrabile. Ci sono tratti di
terreno paludoso, fangoso e fetido, infestato di zanzare.
In maggio fa spaventosamente caldo, e il fogliame lon
tano dalle paludi e dai rivi che filtrano dal terreno è sem
pre secco come la stoppa.
Il combattimento perciò non poteva essere condotto
con l’artiglieria (perché non si vedeva niente), né con la
cavalleria (perché non si poteva avanzare a cavallo). Do
veva essere condotto dalla fanteria con i moschetti, cari
cati con gli spaventosi proiettili dirompenti Minié - un
nuovo tipo di pallottola che esplodeva grazie a una cari
ca posta alla base, provocando ferite enormi e agghiac
cianti -, oppure corpo a corpo, con la baionetta e la scia
bola. E con il calore e il fumo della battaglia giungeva
un’ulteriore fonte di terrore: il fuoco.
I cespugli prendevano fuoco e le fiamme avanzavano
tra la vegetazione selvaggia, spinte da un vento forte e
caldo. Centinaia, forse migliaia di uomini, feriti o illesi
che fossero, morirono bruciati, soffrendo la più terribi
le delle agonie.
Un medico scrisse che i soldati erano feriti «in ogni
modo immaginabile, uomini con corpi mutilati, con
membra a pezzi e teste rotte, uomini che sopportavano le
loro piaghe con pazienza stoica e uomini che si abbando
navano alla violenza del dolore, uomini stoicamente in
differenti e uomini che coraggiosamente si consolavano
del fatto che... era solo una gamba! ». Le poche piste esi
stenti erano intasate di carri rudimentali che trasportava
no le vittime zuppe di sangue alle postazioni di primo
soccorso, dove medici sudati e sovraccarichi di lavoro fa
cevano del loro meglio per curare le ferite più raccapric
cianti.
Un soldato del Maine descriveva il fuoco con sgomen
ta meraviglia: « Le vampate correvano con scintille e
crepitìi lungo i tronchi dei pini, fino a trasformarli in
colonne di fuoco, dalla base fino al ramoscello più alto.
Poi gli alberi oscillavano e precipitavano, gettando in
torno una pioggia di scintille lucenti, sotto una coltre di
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nubi di fumo nero, tinte di rosso dal riverbero delle
fiamme».
« Nella foresta infuriavano gli incendi, » scriveva un
altro soldato che si trovava a Wilderness:
i traini di munizioni saltavano in aria; i cadaveri veni
vano arsi nella conflagrazione; sospinti dal suo alito cal
do i feriti, con la folle energia della disperazione, si tra
scinavano con gli arti laceri e mutilati per sfuggire al
tormento delle fiamme; e sembrava che da ogni cespu
glio pendessero brandelli di indumenti macchiati di
sangue. Era come se i cristiani si fossero trasformati in
diavoli, e l’inferno avesse usurpato il posto alla terra.
Il secondo aspetto della battaglia che può essere
significativo per spiegare la sconcertante patologia di
Minor si riferisce a un gruppo particolare che ebbe un
ruolo importante nel combattimento: gli irlandesi. Pro
prio quegli irlandesi di cui, secondo la testimonianza del
la padrona di casa di Minor a Londra, egli aveva una stra
na paura.
Al conflitto partecipavano, dalla parte degli unionisti,
circa 150.000 soldati irlandesi, molti dei quali arruolati
anonimamente traie unità yankee, che avevano recluta
to uomini nei luoghi dove essi vivevano. Ma c’era anche
una schiera orgogliosa di irlandesi che combattevano
insieme, in blocco: erano i soldati della 2a brigata, la Bri
gata irlandese, ed erano più coraggiosi e tosti di quasi
ogni altra unità dell’intero esercito federale. « Quando
si doveva tentare qualcosa di assurdo, vano o disperato, »
scriveva un corrispondente di guerra inglese « si chia
mava in aiuto la Brigata irlandese ».
Questa brigata combattè nella foresta di Wilderness:
c’erano uomini del 28° Massachusetts e del 116° Penn
sylvania a fianco degli irlandesi dei leggendari reggi
menti di New York, il 63°, 1’88° e il 69°, che ancora oggi
in marzo aprono la parata del giorno di San Patrizio
lungo l’alberata 5th Avenue.
Tuttavia, rispetto a chi aveva combattuto uno o due
70
anni prima, c’era una sottile differenza nello stato d’a
nimo degli irlandesi schierati con le truppe federali nel
1864. All’inizio della guerra, prima del Proclama di e-
mancipazione, gli irlandesi erano stati fedeli sostenito
ri della causa del Nord, e altrettanto avversi a un Sud
che sembrava, almeno nei primi giorni, spalleggiato
da quell’Inghilterra che essi tanto odiavano. Le moti
vazioni per cui partecipavano al conflitto erano com
plesse, ma ancora una volta si tratta di una complessità
importante per questa storia. Erano immigrati da poco
da un’Irlanda oppressa dalla carestia, e combattevano
in America non solo per gratitudine verso un paese
che aveva dato loro soccorso, ma anche per ricevere
l’addestramento per battersi un giorno nella loro pa
tria e liberare l’isola dagli odiati inglesi una volta per
tutte. Una lirica irlandese-americana del tempo chiari
sce il punto:
Quando pace e concordia in questa terra torneranno,
e l’unione per sempre sarà stabilita,
prodi figli d’Irlanda, oh, non deponete le spade;
avrete allora un’unione da spezzare.
Gli irlandesi non avrebbero condiviso a lungo tutti gli
obiettivi dei federali. Erano accaniti rivali dei neri ame
ricani, contro i quali lottavano alla base della scala socia
le per le opportunità (il lavoro, soprattutto) che veniva
no offerte. E una volta che gli schiavi vennero formal
mente emancipati da Lincoln nel 1863, il vantaggio na
turale che gli irlandesi credevano di avere grazie al colo
re della loro pelle svanì del tutto, e con esso gran parte
del loro sostegno alla causa dell’Unione nella guerra
che avevano scelto di combattere. In più avevano fatto i
loro conti: « Non abbiamo voluto noi questa guerra, »
diceva uno dei capi « ma molta della nostra gente è mor
ta a causa sua».
La conseguenza fu che le truppe irlandesi, special-
mente nelle battaglie dove sembrava che venissero usa
te come carne da macello, iniziarono ad abbandonare i
71
campi di battaglia. Iniziarono a scappare via, a disertare.
E un gran numero di loro sicuramente disertò per sfug
gire alle fiamme terribili e agli spargimenti di sangue
della battaglia di Wilderness. Proprio la diserzione, e u-
na delle specifiche punizioni spesso inflitte ai prigionie
ri per questo reato, rappresentano la terza e forse la
principale ragione della successiva tragedia di William
Minor.
La diserzione, come l’insubordinazione e l’ubria
chezza, fu durante la Guerra di Secessione un problema
ricorrente, e lo fu sul serio, in quanto privava i coman
danti degli uomini di cui avevano tanto bisogno. Il pro
blema crebbe con il perdurare della guerra: l’entusia
smo per le due cause scemava col passare dei mesi e de
gli anni, mentre il numero delle vittime cresceva. Le
forze complessive dell’esercito dell’Unione ammonta
vano probabilmente a 2.900.000 uomini, quelle della
Confederazione a 1.300.000 e, come abbiamo visto, su
birono perdite sbalorditive per un totale di 360.000 e di
258.000 unità rispettivamente. Il numero degli uomini
che gettarono il fucile e scapparono nella foresta è qua
si altrettanto spettacolare: 287.000 tra le file dell’Unio-
ne, 103.000 per gli Stati del Sud. Naturalmente queste
cifre sono in parte distorte: si riferiscono a uomini che
fuggivano, venivano catturati e rimessi a combattere, per
poi disertare di nuovo, forse per molte volte di seguito.
Ma rimangono cifre gigantesche: uno su dieci nell’eserci
to dell’Unione, uno su dodici tra i ribelli.
Già a metà della guerra disertavano più di cinquemila
soldati ogni mese: alcuni rimanevano semplicemente
indietro durante le interminabili marce, altri scappava
no davanti ai colpi di arma da fuoco. Nel maggio del
1864, il mese in cui il generale Grant iniziò l’avanzata
verso sud e il mese di Wilderness, se la svignarono non
meno di 5371 soldati federali. Abbandonavano il cam
po in più di 170 al giorno: erano coscritti e volontari, ed
erano pieni di sconforto o di nostalgia, depressi, stan
chi, delusi, non pagati, o soltanto spaventati. William
72
Minor non solo era precipitato dalla calma del Connecti
cut in uno scenario di carneficina e orrore, ma si era
anche trovato di fronte a una manifestazione dell’essere
umano nella sua veste meno ammirevole: pavido, svuo
tato nello spirito, codardo.
Il regolamento militare del tempo poteva essere piut
tosto flessibile quando si trattava di comminare delle
pene per l’ubriachezza (una punizione comune era
quella di far stare in piedi l’uomo su una cassa per diver
si giorni, con un ceppo sulle spalle), ma non era affatto
ambiguo quando si trattava di diserzione. Chiunque fos
se stato catturato e imprigionato per « l’unico peccato
che non può essere perdonato né in questo mondo né
nell’altro » doveva essere fucilato. Questo, almeno, è
quanto stava scritto sulla carta: « La diserzione è un cri
mine punibile con la morte ».
Ma uccidere uno dei propri soldati, qualunque fosse
la sua colpa, comportava uno svantaggio concreto: di
minuiva il numero degli uomini, indeboliva le forze in
campo. Questo calcolo aritmetico, crudamente realisti
co, persuase la maggior parte dei comandanti della
Guerra di Secessione, da entrambe le parti, a escogitare
punizioni alternative per coloro che scappavano. Ven
nero fucilate solo poche centinaia di uomini, ma venne
data ampia pubblicità alla loro morte, nel vano tentati
vo di farne un monito per tutti. Molti vennero gettati in
prigione, rinchiusi in celle di isolamento, frustati o pe
santemente sanzionati.
Tutti gli altri, specie i rei non recidivi, venivano solita
mente sottoposti a pubbliche umiliazioni di vario tipo.
Ad alcuni veniva rasato il capo, del tutto o a metà, e veni
vano costretti a portare dei cartelli con la scritta « Co
dardo». Altri venivano condannati da una Corte mar
ziale straordinaria a una dolorosa punizione: le braccia,
legate strettamente all’altezza dei polsi, venivano fatte
estendere ad abbracciare le ginocchia piegate, un basto
ne veniva fatto passare tra le ginocchia e le braccia, e il
condannato veniva lasciato in questa atroce posizione
73
contorta, spesso per più giorni. (Era una punizione così
dura da dimostrarsi spesso decisamente controprodu
cente: un generale che l’aveva ordinata per un uomo
colpevole di essere fuggito, scoprì che metà della sua
compagnia aveva disertato in segno di protesta).
In alternativa si poteva legare al condannato una ba
ionetta sulla bocca spalancata, a mo’ di morso. Si pote
va sospenderlo per i pollici, costringerlo a portare un
pezzo di rotaia lungo un metro sulle spalle, destituirlo
e allontanarlo al rullo dei tamburi, obbligarlo a cavalca
re un cavallo di legno o ad aggirarsi coperto solo da un
barile, senza altri indumenti. O persino, come in un caso
raccapricciante successo in Tennessee, inchiodarlo a un
albero, crocifiggerlo.
Oppure, e questa sembrava essere la perfetta combi
nazione di sofferenza e umiliazione, il condannato po
teva essere marchiato. Sulla natica, sul fianco o sulla
guancia gli veniva impressa a fuoco la lettera D, che do
veva essere alta quattro centimetri (il regolamento dive
niva molto specifico su questo punto) ed essere impres
sa con un ferro rovente, oppure incisa con un rasoio
cospargendo la ferita di polvere nera, sia per causare ir
ritazione, sia per renderla indelebile.
Per qualche ragione sconosciuta veniva spesso impie
gato il tamburino del reggimento per spargere la polvere
sull’incisione, oppure il medico, nel caso venisse usato il
ferro per marchiare. E questo, si disse a Londra al proces
so, fu ciò che William Minor era stato costretto a fare.
Un soldato irlandese, imprigionato al termine di un
processo sommario con l’accusa di diserzione durante
gli orrori di Wilderness, fu condannato alla marchiatu
ra. Gli ufficiali della Corte (ci dovevano essere un colon
nello, quattro capitani e tre tenenti) disposero in que
sto caso che l’ordine di eseguire la punizione venisse
dato al giovane sottufficiale medico che da poco era sta
to loro assegnato, quell’aristocratico dalla faccia pulita
e dall’aspetto ostentatamente signorile, quello studen-
tello di Yale, arrivato fresco fresco dalle colline del New
74
England. Sarebbe stato un sistema buono come un al
tro, nell’ottica degli ufficiali navigati e già avvezzi alla
guerra, per iniziare il dottor Minor ai rigori del conflit
to. E così gli venne portato l’irlandese, le mani amma
nettate dietro la schiena.
Era un uomo sporco e scarmigliato di una ventina
d’anni appena, l’uniforme scura ridotta a brandelli dal
la corsa frenetica e disperata tra i rovi. Era esausto e spa
ventato. Sembrava un animale: ben diverso dal giovanot
to che tre anni prima era arrivato, baldanzoso e pieno
della furbizia dublinese, nel West Side di Manhattan.
Ne aveva visti tanti di combattimenti, di morti, ma ora la
causa per la quale aveva combattuto non era più vera
mente la sua, certo non dopo il Proclama di emancipa
zione. I suoi, comunque, stavano vincendo: non avreb
bero più avuto bisogno di lui, non avrebbero sentito la
sua mancanza se fosse scappato.
Voleva sbarazzarsi di qualsiasi obbligo nei confronti
dei forestieri americani. Voleva tornarsene a casa, in Ir
landa. Voleva rivedere la sua famiglia e farla finita con
questo assurdo conflitto straniero in cui, a dire il vero,
non era mai stato altro che un mercenario. Voleva usare
le tecniche militari che aveva imparato in tutti quei
combattimenti in Pennsylvania e nel Maryland, e ora
anche sui campi di battaglia della Virginia, per combat
tere contro i tanto disprezzati britannici, gli invasori del
la sua terra natale.
Ma aveva fatto Terrore di tentare la fuga, e cinque sol
dati dell’unità del comandante della polizia militare,
che lo stavano cercando, lo avevano acciuffato nel suo
nascondiglio dietro il granaio di una fattoria, in collina.
La Corte marziale era stata riunita su due piedi e, come
in tutti i casi di giustizia sommaria, la sentenza era stata
emessa dopo un lasso di tempo brutalmente breve: do
veva essere frustato, trenta sferzate con il gatto a nove
code, ma solo dopo essere stato marchiato con un ferro
rovente, il segno della diserzione che avrebbe per sem
pre sfregiato il suo viso.
75
Implorò pietà dalla Corte; implorò pietà dalle guar
die. Pianse, gridò, lottò. Ma i soldati lo tennero fermo e
il dottor Minor afferrò il ferro rovente da una cesta di
carboni ardenti, presa a prestito in tutta fretta dal mani
scalco della brigata. Esitò per un momento, un’esitazio
ne che tradiva la sua riluttanza: ma tutto ciò, si chiese
per un istante, era davvero permesso dal giuramento di
Ippocrate? Gli ufficiali gli grugnirono di andare avanti,
ed egli premette il metallo rovente sulla guancia dell’ir
landese. La carne sfrigolò, il sangue gorgogliò fuman
do; il prigioniero gridava a perdifiato.
E poi fu tutto finito. Il disgraziato venne portato via,
tenendo sulla guancia ferita lo straccio imbevuto d’alcol
che Minor gli aveva dato. Forse la ferita si sarebbe infet
tata, si sarebbe riempita del « lodevole pus » che secon
do altri medici denotava l’inizio della guarigione. Forse
sarebbe andata in suppurazione e si sarebbe coperta di
piaghe. Forse si sarebbe riempita di vesciche che sareb
bero scoppiate e avrebbero sanguinato per settimane.
Non lo sapeva.
L’unica cosa di cui era sicuro era che quel marchio
l’avrebbe accompagnato per il resto della vita. Mentre
negli Stati Uniti lo avrebbe contraddistinto come codar
do, la punizione tanto vergognosa decretata dalla Cor
te, tornato in Irlanda, lo avrebbe contraddistinto come
qualcosa di totalmente diverso: come un uomo che era
andato in America per addestrarsi nell’esercito, e che
ora era tornato in Irlanda determinato a combattere
contro le autorità britanniche. Avrebbe potuto essere
facilmente identificato, da allora in poi, come membro
di uno dei gruppi ribelli di nazionalisti irlandesi. Ogni
soldato o poliziotto in Inghilterra e in Irlanda l’avrebbe
riconosciuto, e l’avrebbe messo dentro per tenerlo lon
tano dalle strade, o l’avrebbe perseguitato e tormentato
in ogni momento della sua vita.
Il suo avvenire di rivoluzionario irlandese, in altre pa
role, era finito. Gli importava poco della sua posizione
sociale negli Stati Uniti, ormai distrutta; ma per quel mar-
76
chio ricevuto come punizione sul campo di battaglia il
suo ruolo futuro in Irlanda, ora molto incerto, era rovi
nato per sempre, e lui era furioso. Aveva capito che co
me patriota irlandese e come rivoluzionario era inutile,
inservibile, senza alcun valore, sotto ogni punto di vista.
E con tutta probabilità l’irlandese sentì, giustamente
o meno, che la sua ira inestinguibile doveva essere diret
ta contro l’uomo che aveva tradito la propria vocazione
di medico marchiandogli la faccia in modo tanto feroce
e irreparabile, senza opporre resistenza. Forse decise di
essere, e di dover essere, profondamente ed eternamen
te in collera con William Chester Minor.
E così sarebbe tornato a casa, giurò, non appena que
sta guerra fosse finita; e una volta a casa, nel momento
stesso in cui avesse messo piede a terra, sul molo di Cobh
o Dun Laoghaire (o Queenstown e Kingstown, i porti di
Cork e Dublino), avrebbe detto ai patrioti irlandesi quan
to segue: William Chester Minor, americano, era un ne
mico di tutti i buoni guerrieri feniani, e vendetta doveva
essere fatta, nei tempi e nei modi opportuni.
78
Era una voce che circolava in aula: la fonte era la si
gnora Fisher, la padrona della casa di Tennison Street,
a Lambeth, secondo i verbali ufficiali della Corte supre
ma pubblicati sul « Times ». La voce venne ripresa molte
volte nei decenni successivi (quando la gente si ricorda
va che Minor era ancora rinchiuso in manicomio) per
motivare la sua malattia; e fino al 1915, quando egli, or
mai vecchio, concesse un’intervista a un giornalista di
Washington e raccontò tutta un’altra storia, rimase una
delle più probabili cause della sua malattia mentale.
« Marchiò un irlandese durante la Guerra di Secessio
ne » si diceva. « E questo lo fece impazzire ».
88
4
LA RACCOLTA DELLE FIGLIE DELLA TERRA
89
erano passate le sei; il luogo in questione era una stretta
casa a schiera all’angolo nordoccidentale di una delle
oasi londinesi più aristocratiche e alla moda, St. James’s
Square. Da tutti i lati si ergevano le imponenti residenze
cittadine e i circoli privati dello straordinario numero di
vescovi e pari e membri del Parlamento che vi abitava
no. I negozi più eleganti della città erano appena a un
tiro di schioppo, come pure le chiese più belle, gli uffici
più sontuosi, le ambasciate straniere più antiche e su
perbe. La costruzione all’angolo di St. James’s Square
ospitava un’istituzione che era cruciale per la vita intel
lettuale dei grandi uomini che vivevano nelle vicinanze
(e ancora oggi riveste questo ruolo, anche se, fortunata
mente, in un mondo un po’ più democratico) : accoglie
va infatti quella che i suoi ammiratori consideravano, e
considerano ancora oggi, la raccolta privata più pregia
ta al mondo di libri accessibili al pubblico, la London
Library.
La biblioteca vi si era trasferita dodici anni prima, dal
la sede ormai troppo stipata di Pali Mail. La nuova co
struzione era alta e spaziosa e, sebbene oggi sia piena da
scoppiare di ben più di un milione di libri, allora, nel
1857, disponeva solo di poche migliaia di volumi e di
spazio libero a iosa. E così il suo comitato decise ben
presto di incamerare del denaro extra affittandone al
cune stanze, ma solo, venne stabilito, a società i cui ade
renti avessero presumibilmente condiviso gli stessi no
bili fini culturali della biblioteca, e i cui membri avesse
ro saputo amalgamarsi felicemente con gli aristocratici
gentiluomini, spesso straordinariamente snob, che ne
formavano il ruolo.
Furono scelte due associazioni: una era la Statistical
Society, l’altra la Philological Society. Fu durante uno
degli incontri quindicinali di quest’ultìma, tenutosi quel
90
gelido giovedì sera in una stanza al piano superiore, che
si pronunciarono parole da cui avrebbe preso il via una
considerevole serie di avvenimenti.
L’oratore era il decano di Westminster, un autorevo
le ecclesiastico di nome Richard Chenevix Trench. For
se più di chiunque altro al mondo, Trench incarnava le
sconfinate nobili ambizioni della Philological Society.
Egli credeva fermamente, come la maggior parte dei
duecento membri della società, che ci fosse un disegno
divino alla base di quella che allora sembrava l’incessan
te diffusione della lingua inglese in tutto il pianeta.
Dio, che naturalmente in quella parte della società
londinese era ritenuto con certezza un inglese, approva
va senza dubbio la divulgazione della lingua come es
senziale strumento imperialistico; ma ne incoraggiava
anche l’indiscusso corollario, ossia l’affermazione del
cristianesimo in tutto il mondo. L’equazione era davve
ro elementare, la formula di un indubbio beneficio glo
bale: quanto più inglese si parlava nel mondo, tanto più
timorati di Dio sarebbero stati i popoli. (E per un uomo
di Chiesa protestante c’era una ulteriore, proficua im
plicazione: se l’inglese fosse infine riuscito a surclassare
l’influenza linguistica della Chiesa di Roma, la sua por
tata avrebbe persino potuto contribuire a riunire le due
Chiese in una qualche forma di armonia ecumenica -
posto tuttavia che il predominio fosse anglicano).
Quindi, sebbene il ruolo ufficiale della società fosse
accademico, il suo obiettivo informale, sotto la direzio
ne di esimi teologi come Trench, era molto più vigoro
samente sciovinista. Vere discussioni filologiche di
stampo rigorosamente classico (su tematiche oscure co
me « Le variazioni fonetiche nei dialetti dei papuani e
dei pigmei asiatici » oppure « Il ruolo delle fricative e-
splosive nell’alto tedesco ») davano credibilità accade
mica alla società, il che andava benissimo. Ma l’obiettivo
principale del gruppo consisteva in effetti nel promuo
vere la comprensione di quella che tutti i partecipanti
92
consideravano la lingua giustamente dominante del
mondo, ossia la loro.
Sessanta membri si erano riuniti alle sei di quella sera
novembrina. Il buio era sceso su Londra poco dopo le
cinque e mezzo. Le lampade a gas sfrigolavano e scop
piettavano, e agli angoli di Piccadilly e di Jermyn Street
c’erano ancora dei ragazzini che raccoglievano gli ulti
mi penny per i fuochi d’artificio, tenendo dritti davanti
a sé i pupazzi di stracci raffiguranti Guy Fawkes, che ben
presto sarebbero bruciati nei falò. In lontananza si sen
tivano già fischi e botti e sibili di razzi e candele romane
che esplodevano, mentre iniziavano le prime feste.
Come le domestiche spaventate dai fuochi d’artificio
correvano via verso le entrate di servizio dei grandi edifi
ci vicini, così gli anziani filologi, imbacuccati per il fred
do, si affrettavano nell’oscurità. Erano uomini che da
tempo si erano lasciati alle spalle divertimenti movimen
tati come quelli. Erano ansiosi di scappare dal rumore
delle esplosioni e dall’eccitamento della festa, e di rifu
giarsi nella quiete dei loro dotti ragionamenti.
Tanto più che l’argomento su cui si sarebbero intrat
tenuti quella sera sembrava promettente e nient’affatto
gravoso. Trench, in una conferenza divisa in due parti
che si preannunciava di considerevole importanza, do
veva discutere il tema dei dizionari. Il titolo della sua
disquisizione lasciava presagire un ordine del giorno
molto ambizioso: egli avrebbe spiegato al suo pubblico
che i pochi dizionari allora esistenti erano soggetti a
molti e gravi limiti: serie lacune delle quali, probabil
mente, sia la lingua sia, di riflesso, l’impero e la sua
Chiesa avrebbero infine risentito. Era proprio il tipo di
disquisizione che amavano ascoltare i vittoriani che ac
cettavano i solidi precetti della Philological Society.
95
Eppure si potrebbe pensare che avesse bisogno di cer
care termini a ritmo continuo. « Non sono forse suo con
sanguineo? »’ scrive nella stessa commedia. Poche bat
tute dopo parla di «un giustacuore di taffettà cangian
te ».12 Poi afferma: « La beccaccia è vicina alla trappola ».3
Il vocabolario di Shakespeare era evidentemente prodi
gioso: ma come poteva essere sicuro il poeta, in tutti i casi
in cui utilizzava parole poco familiari, di essere gramma
ticalmente e concettualmente corretto? Cosa gli impe
diva, a spingerlo avanti di un paio di secoli, di diventare
un occasionale signor Malaprop?4
Vale la pena porsi queste domande, se non altro per
capire cosa penseremmo noi oggi del gravissimo incon
veniente di non poter mai consultare un dizionario. Ai
tempi in cui Shakespeare scriveva c’erano atlanti a profu
sione, c’erano libri di preghiere, messali, biografie, ro
manzi d’amore e d’avventura, e libri di storia, di scienza e
di arte. Si pensa che Shakespeare abbia tratto molti dei
suoi riferimenti classici da un Thesaurus, un testo enciclo
pedico compilato da un uomo di nome Thomas Cooper
(i suoi numerosi errori sono replicati in modo troppo e-
satto nelle opere teatrali perché si tratti di pura coinci
denza) e si pensa che abbia attinto anche dall’Arte ofRhé
torique (Arte della retorica) di Thomas Wilson. Ma questo
era tutto: non era disponibile alcun altro strumento lette
rario, linguistico o lessicale.
Nel Cinquecento, in Inghilterra, i dizionari come li
conosciamo oggi semplicemente non esistevano. Se la
lingua che tanto ispirava Shakespeare aveva dei limiti,
se le sue parole avevano origini, ortografie, pronunce,
96
significati definibili, non esisteva un solo libro che li ac
certasse, li definisse e li mettesse per iscritto. È forse
difficile immaginare una mente tanto creativa lavorare
senza un solo testo lessicografico davanti a sé da consul
tare, tranne il bigino di Cooper (che la signora Cooper
una volta gettò nel fuoco, costringendo il grande uomo
a ricominciare tutto daccapo) e il piccolo manuale di
Wilson; eppure furono quelle le condizioni che indus
sero il suo genio singolare a dare tutti i suoi frutti. La
lingua inglese veniva parlata e scritta, ma ai tempi di
Shakespeare non era definita, non era fissata. Era come
l’aria: lo si dava per scontato, questo mezzo di espressio
ne che raccoglieva e definiva tutti i britannici. Ma che
cosa fosse esattamente, e quali ne fossero i componenti,
non lo sapeva nessuno.
Ciò non significa che non esistesse alcun tipo di dizio
nario. C’era stata una raccolta di parole latine pubblica
ta con il titolo di Dictionarius nel lontano 1225 e un’altra
poco più di un secolo dopo, anch’essa tutta in latino,
come ausilio per chi studiava la Vulgata, la difficile tra
duzione delle Scritture fatta da san Girolamo. Nel 1538
venne pubblicato a Londra il primo di una serie di di
zionari latino-inglese: l’elenco in ordine alfabetico di
Thomas Elyot, che fu anche il primo libro a utilizzare la
parola inglese dictionary nel titolo. Vent’anni dopo un
uomo di nome Withals pubblicò A Shorte Dictionarie for
Yonge Beginners (Un breve dizionario per giovani princi
pianti) in entrambe le lingue, ma con i termini organiz
zati non in ordine alfabetico, bensì per soggetto, come
per esempio « il nome degli uccelli, uccelli d’acqua, uc
celli domestici, come galli, galline, ecc., delle api, degli
insetti, e altri».
Ma quello che ancora mancava era un vero e proprio
dizionario d’inglese, una definizione completa dell’am
piezza della lingua. Con un’unica eccezione, di cui Shake
speare probabilmente non era al corrente quando morì
nel 1616, questo bisogno rimaneva persistentemente
insoddisfatto. Anche altri dovevano rimarcare questa
97
evidente lacuna. Proprio nell’anno in cui Shakespeare
morì, il suo amico John Webster scrisse La duchessa di
Amalfi, che contiene una scena in cui il fratello della du
chessa, Ferdinando, immagina di trasformarsi in lupo,
« un male pernicioso chiamato licantropia ». « E che vuol
dire? » esclama uno dei personaggi. « Mi serve un dizio
nario! ».
Ma in effetti qualcuno, un maestro della contea di
Rudand di nome Robert Cawdrey, che in seguito andò a
insegnare a Coventry, aveva evidentemente dato ascolto
a questa richiesta assillante. Lesse, prendendo copiosi
appunti, tutti i testi di consultazione di allora e infine
fece il suo primo debole tentativo di realizzare ciò che
ormai era necessario, pubblicando nel 1604 (l’anno in
cui probabilmente Shakespeare scrisse Misura per misu
ra) un elenco delle parole da lui scelte.
Era un libretto di centoventi pagine in ottavo, che
Cawdrey intitolò A Table Alphabeticall ... of hard unusual
English Words (Una tavola alfabetica... di termini ingle
si difficili e insoliti). Conteneva circa duemilacinque-
cento voci. L’aveva compilato, disse, « a beneficio e au
silio delle dame, delle gentildonne o di ogni altra per
sona inesperta, cosicché possano più facilmente e me
glio capire molte parole inglesi difficili, che sentiran
no o leggeranno nelle Scritture, nei sermoni o altrove,
e possano inoltre divenire capaci di usare personal
mente le stesse in modo appropriato». L’opera aveva
molti limiti, ma era senza dubbio il primissimo vero
dizionario monolingue d’inglese, e la sua pubblica
zione rimane un momento chiave nella storia della
lessicografia inglese.
Nei centocinquant’anni seguenti ci fu un gran fer
mento di attività commerciali in questo campo: i tor
chi tipografici sfornavano un dizionario dopo l’altro,
ciascuno più ampio del precedente, ciascuno vantando
meriti superiori nell’istruzione degli ignoranti (tra cui
si annoveravano le donne del tempo, la maggior parte
98
delle quali godeva, a confronto degli uomini, di scarsa
scolarizzazione).
Per tutto il Seicento queste pubblicazioni dimostraro
no la tendenza a concentrarsi, come il primo tentativo di
Cawdrey, su quelle che venivano definite le « parole dif
ficili », parole che non rientravano nell’uso comune e quo
tidiano, oppure parole che erano state appositamente in
ventate per far colpo sugli altri, le cosiddette «pedanterie
da calamaio », di cui i testi del Cinquecento e del Seicento
sembrano generosamente fomiti. Thomas Wilson, la cui
Arte ofRhétorique aveva aiutato Shakespeare, pubblicò qual
che esempio di questo stile ampolloso, come quello di un
ecclesiastico del Lincolnshire che così scriveva a un funzio
nario governativo, chiedendo una promozione:
Esiste una dignità sacerdotale nel mio paese natale
contigua alla mia, la quale ora io contemplo: e la quale
la vostra pregiatissima benignità potrebbe ben presto
impetrare per me, se a voi piacesse estendere le solleci
tudini vostre, e in esse laudare me in cospetto dell’ono
ratissimo Lord Cancelliere, o piuttosto dell’arcigram-
matico d’Inghilterra.
Il fatto che i volumi si concentrassero solo sulla picco
la frazione del vocabolario nazionale che raccoglieva
assurdità del genere, ai nostri occhi sembrerebbe ren
derli bizzarramente incompleti, ma allora questa sele
zione editoriale era considerata una virtù. Parlare e scri
vere in questo modo era l’ambizione più alta del bel
mondo inglese. «Vi offriamo » strombazzava l’autore di
uno di questi volumi ai possibili acquirenti « le parole
più scelte ».
E così in questi libri comparivano creazioni fantasti
che come abequitate, bulbulcitate e sulleuation insieme ad
altre come archgrammacian e contiguate, accompagnate
da profuse definizioni; c’erano parole come necessitude,
commotrix e parentate,1 che ora sono tutte elencate, se lo
99
sono, come « obsolete » o « rare » o entrambe le cose. Il
linguaggio era adorno di invenzioni pretenziose e fiori
te, il che forse non è così sorprendente, considerata la
moda pomposa del tempo, con le parrucche e i parruc
coni incipriati, i colletti inamidati e i farsetti, le gorgie
re, i nastri e i pantaloni al ginocchio di velluto rosso. E
così erano incluse nei vocabolari anche parole come
adminiculation, cautionate, deruncinate e attemptate,1 cia
scuna debitamente catalogata nei minuscoli libri di allo
ra, rilegati in pelle; e tuttavia erano parole dirette sol
tanto alle orecchie più sofisticate, ed era improbabile
che suscitassero grande impressione tra i lettori cui si
rivolgeva Cawdrey, le dame, le gentildonne e le « perso
ne inesperte ».
Anche le definizioni fornite da questi libri erano ge
neralmente insoddisfacenti. Alcune offrivano un mero,
unico sinonimo o dei sinonimi scarsamente illuminan
ti: magnitude', «grandezza», oppure ruminate: «rimastica
re, riflettere profondamente su qualcosa ». Talvolta le de
finizioni erano soltanto divertenti: The English Dictionarie
(Il dizionario d’inglese) di Henry Cockeram (1623) de
finisce commotrix come « una cameriera che veste e spo
glia la sua padrona », mentre per parentate dà « celebrare i
funerali dei propri genitori ». Oppure, i creatori di questi
libri di parole difficili proponevano spiegazioni oltremo
do complesse come quelle della Glossographia di Thomas
Blount, che per shrew, « toporagno » o « bisbetica », offre
questa definizione: « Una specie di topo di campagna
che, se sale sulla schiena di un animale, gli fiacca la spina
dorsale; e se morde, l’animale si gonfia nel cuore, e muo
re ... Di qui viene la nostra espressione inglese Ibeshrew
100
thee [ti maledico], quando auguriamo del male a qualcu
no; e chiamiamo una donna insopportabile shrew [bisbe
tica] ».
Ma in tutto questo furore lessicografico (nell’Inghil
terra seicentesca furono prodotti sette dizionari princi
pali, l’ultimo dei quali conteneva ben trentottomila lem
mi) due questioni continuavano a essere ignorate.
La prima era il bisogno di un buon dizionario che
raccogliesse la lingua nella sua interezza, sia le parole faci
li e di uso comune, sia quelle diffìcili e oscure, il parlare
sia dell’uomo comune sia della casata di cultura, dell’a
ristocratico e della scuola esclusiva. Doveva esserci tutto:
la bazzecola di una preposizione di due lettere doveva
avere, in un elenco ideale, un rilievo non inferiore alla
maestà di un polisillabo sesquipedale.
La seconda questione ignorata dai compilatori, men
tre altrove se ne stava già prendendo coscienza, era il fat
to che, da quando la Gran Bretagna e il suo influsso ave
vano iniziato a propagarsi nel mondo (con arditi naviga
tori come Drake e Raleigh e Frobisher che scorrazzava
no per i mari, con i rivali europei che si inchinavano alla
potenza dell’impero britannico, e con le nuove colonie
saldamente fondate nelle Americhe e in India che dif
fondevano la lingua inglese e le idee inglesi ben oltre le
coste d’Inghilterra), l’inglese era in procinto di diven
tare una lingua globale. Stava iniziando a essere un vei
colo importante per lo svolgimento dei commerci in
ternazionali, per le guerre e per la legge. Stava spode
stando il francese, lo spagnolo, l’italiano e le lingue di
corte degli stranieri. Era necessario che fosse conosciuto
meglio, che fosse studiato in maniera più adeguata. Biso
gnava fare un inventario di ciò che si diceva, si scriveva
e si leggeva.
Gli italiani, i francesi e i tedeschi erano già molto a-
vanti nella salvaguardia del loro patrimonio linguistico,
e si erano spinti addirittura al punto di fondare delle i-
stituzioni allo scopo di mantenere la loro lingua in per
fette condizioni. A Firenze nel 1582 era stata fondata
101
l’Accademia della Crusca, finalizzata alla tutela della
cultura «italiana», anche se ci sarebbero voluti altri tre
secoli prima che nascesse un’entità politica chiamata I-
talia. Ma l’Accademia produsse nel 1612 un dizionario
d’italiano: la cultura linguistica, se non la nazione, era
viva. A Parigi nel 1634 Richelieu aveva costituito l’Aca
démie française. I Quaranta Immortali, detti più breve
mente e in modo forse più sinistro «i Quaranta», pre
siedono ancora oggi all’integrità della lingua con mera
vigliosa imperscrutabilità.
Ma in Gran Bretagna non avevano tentato questo tipo
di approccio. Solo nel Settecento si fece strada l’idea
che la nazione avesse bisogno di sapere più nel dettaglio
che cosa fosse la sua lingua, e che cosa significasse. Alla
fine del Seicento, si diceva, gli inglesi erano « sgradevol
mente consapevoli della propria arretratezza nello stu
dio della lingua ». Da allora in poi si fecero molti proget
ti per promuovere la lingua inglese, per conferirle mag
gior prestigio in patria e all’estero.
I dizionari migliorarono, e in modo molto evidente,
nella prima metà del nuovo secolo. Il più notevole di
tutti, un libro che effettivamente estese l’enfasi dalle so
le parole difficili a un’ampia fascia dell’intero vocabola
rio inglese, fu curato dal proprietario di un collegio di
Stepney, di nome Nathaniel Bailey. Di lui si sa pochissi
mo, tranne il fatto che apparteneva alla Chiesa battista
del settimo giorno. Ma l’ampiezza della sua erudizione e
la portata dei suoi interessi si manifestano ampiamente
nel frontespizio della sua prima edizione (ce ne sareb
bero state venticinque, tra il 1721 e il 1782, tutte di gran
de successo). La pagina lascia intendere, inoltre, l’ecce
zionale vastità dell’impegno che si presentava a qualun
que sgobbone elaborasse il progetto di creare un dizio
nario d’inglese veramente completo. L’opera di Bailey
si intitolava:
Dizionario etimologico universale, comprendente la
derivazione della maggioranza delle parole della lingua
102
inglese, sia antiche sia moderne, da britannico antico,
sassone, danese, normanno e francese moderno, ger
manico, olandese, spagnolo, italiano, latino, greco ed
ebraico, ciascuna secondo le proprie caratteristiche. E
inoltre una breve e chiara spiegazione di tutte le parole
difficili... e dei termini delle arti riferiti alla botanica,
all’anatomia, alla fìsica... Con un’ampia raccolta e spie
gazione di parole ed espressioni usate nei nostri antichi
statuti, codici, ordinanze, vecchi registri e processi di
legge; e l’etimologia e l’interpretazione dei nomi pro
pri di uomini, donne e luoghi notevoli della Gran Breta
gna; inoltre i dialetti delle nostre diverse contee. Conte
nente molte migliaia di parole in più ... rispetto a ogni
altro dizionario d’inglese finora esistente. Vi è aggiunta
una raccolta dei nostri proverbi più comuni, con la loro
spiegazione e illustrazione. L’intera opera è stata com
pilata ed elaborata con metodo, sia per il divertimento
dei curiosi, sia per l’informazione degli ignoranti, e per
il beneficio di giovani studenti, artigiani, commercianti
e stranieri...
Per quanto validi potessero essere stati l’impegno e i
volumi pubblicati, ancora non bastava. Nathaniel Bailey
e coloro che cercarono di imitarlo nella prima metà del
Settecento lavorarono duramente al proprio compito,
sebbene il progetto di imbrigliare tutta la lingua diven
tasse sempre più vasto man mano che veniva considera
to. E tuttavia ancora nessuno sembrava abbastanza capa
ce dal punto di vista intellettuale, o coraggioso, o dedi
to, o provvisto di tempo sufficiente, per realizzare una
catalogazione veramente completa di tutta la lingua in
glese. E invece proprio questo, anche se nessuno sem
brava nemmeno capace di dirlo, era veramente necessa
rio. Porre fine alla timidezza, al tergiversare: sostituire il
filologicamente sperimentale con il lessicograficamente
definitivo.
103
E poi venne l’uomo che Tobias Smollett definì « il
gran khan della letteratura», una delle più eminenti
figure letterarie di tutti i tempi: Samuel Johnson. Egli
decise di raccogliere la sfida davanti alla quale tanti altri
si erano ritirati. E anche con il giudizio critico degli ol
tre due secoli intercorsi, si può ancora tranquillamente
dire che quello che creò fu un trionfo senza pari. Il suo
Dictionary of the English Language (Dizionario della lin
gua inglese) era, e rimane, un ritratto della lingua del
tempo in tutta la sua maestosità, la sua bellezza, e la sua
meravigliosa confusione.
Ben pochi sono i libri che possono dare tanto piacere
a chi li guarda, li tocca, li sfoglia, li legge.
Se ne trovano delle copie ancora oggi, spesso rinchiuse
in custodie di marocchino marrone. Sono pesantissime,
fatte per essere tenute su un leggio più che in mano. So
no rilegate in preziosa pelle marrone, la carta è spessa e
oleosa, la stampa penetrata profondamente nelle fibre.
Pochi di coloro che oggi leggono questi volumi possono
sfuggire al fascino della singolare eleganza delle defini
zioni, in cui Johnson era maestro. Prendiamo per esem
pio la parola che Shakespeare avrebbe potuto cercare,
elephant. Era, affermavaJohnson:
Il più grande di tutti i quadrupedi, sulla cui sagacità,
fedeltà, prudenza e persino intelligenza, si hanno molte
sorprendenti testimonianze. Questo animale non è car
nivoro, bensì si nutre di fieno, erbe e ogni tipo di legu
mi; e si dice che abbia una vita estremamente lunga. E
per natura molto mite; ma quando è infuriato, non c’è
creatura più terribile. E dotato di proboscide, o lunga
cartilagine cava, simile a grossa tromba, che gli penzola
tra i denti, e che ha la funzione di una mano: con un
colpo di proboscide può uccidere un cammello o un
cavallo, e può alzare con essa pesi prodigiosi. I suoi den
ti sono l’avorio tanto noto in Europa; se ne sono visti al
cuni grossi quanto la gamba di un uomo e alti sei piedi.
Gli elefanti selvaggi vengono catturati con l’aiuto di una
104
femmina pronta per il maschio: essa viene rinchiusa in
uno spazio limitato, intorno al quale vengono scavate
delle fosse; ed essendo queste coperte da un sottile stra
to di terra sparsa su ramoscelli, l’elefante maschio cade
facilmente nella trappola. Nella copula la femmina rice
ve il maschio che le si appoggia sulla schiena; e tale è la
sua pudicizia che egli non copre mai la femmina finché
c’è qualcuno in vista.
E tuttavia il dizionario diJohnson è molto, molto di più
di un oggetto affascinante e singolare. La sua pubblica
zione ha rappresentato un momento chiave nella storia
della lingua inglese; l’unico momento più significativo
doveva avere inizio quasi esattamente un secolo dopo.
Samuel Johnson pensò e progettò la struttura del suo
dizionario per molti anni. Uno dei suoi scopi era quello
di crearsi una buona fama: era un maestro di scuola di
venuto giornalista, conosciuto solo in ristrette cerehie
metropolitane come l’autore di resoconti parlamentari
per il « Gendeman’s Magazine », ed era ansioso di ottene
re una considerazione maggiore. Ma iniziò questo per
corso anche per rispondere agli appelli dei giganti: ri
chieste pressanti che si facesse qualcosa.
La loro era una lamentela quasi universale: Joseph
Addison, Alexander Pope, Daniel Defoe, John Dryden,
Jonathan Swift, i fari della letteratura inglese, si erano
tutti espressi con molta chiarezza, appellandosi «dia ne
cessità di fissare la lingua (« fissare » da allora è diventa
to un termine del gergo lessicografico). Questo signifi
cava stabilire i limiti della lingua, creare un inventario
del suo patrimonio lessicale, forgiare la sua cosmologia,
decidere esattamente che cosa fosse. La loro ponderata
opinione sulla natura dell’inglese era splendidamente
autocratica: la lingua, insistevano, alla fine del Seicento
era ormai sufficientemente perfezionata e pura, tanto
da poter soltanto rimanere statica o altrimenti, da allora
in poi, deteriorarsi.
Nel complesso concordavano con i princìpi dei Qua
105
ranta Immortali d’oltremanica (anche se l’avrebbero
ammesso solo con estrema riluttanza) : era necessario
che una lingua nazionale standard venisse definita, mi
surata, scritta, cesellata nell’argento e scolpita nella pie
tra. Le alterazioni, poi, sarebbero state permesse o me
no in base agli umori dei grandi e dei saggi, i Quaranta
britannici, un’autorità linguistica nazionale.
Il più accanito sostenitore di tale causa fu Jonathan
Swift. Una volta scrisse al conte di Oxford per esprimere
la sua indignazione per il fatto che cominciassero ad ap
parire sulla carta stampata parole come bamboozle, up
pish e - più di ogni altra cosa - couldn ’t.1 Voleva si decre
tassero regole ferree che bandissero tali parole in quan
to offensive per il buon senso. In futuro voleva che ve
nisse fissata la grafia di tutte le parole: un’ortografia
stabile, il corretto scrivere. Voleva che venisse stabilita la
loro pronuncia: un’ortoepia altrettanto stabile, il cor
retto dire. Regole, regole, regole: erano essenziali, di
chiarò il creatore di Gulliver.
Si doveva accordare alla lingua la stessa dignità e lo
stesso rispetto attribuiti agli altri valori che la scienza
proprio allora stava cercando di definire. Che cosa sono
il blu o il giallo?, si chiedevano i fisici. Quanto è calda
l’acqua bollente? Quanto è lunga una iarda? Come
definire quello che i musicisti conoscevano come do
centrale? E che dire, poi, dell’esatta misurazione della
longitudine, tanto vitale per i marinai? Si stavano com
piendo sforzi enormi in questo particolare settore, pro
prio nello stesso periodo del dibattito sulla lingua nazio
nale: era stata istituita dal governo una Commissione
per la longitudine, si elargivano fondi e si offrivano pre
mi affinché si inventasse uno strumento di misurazione
che potesse andare per mare su una nave ed essere solo
106
impercettìbilmente inesatto. La longitudine era di im
portanza vitale: per una grande nazione commerciale
come la Gran Bretagna era necessario che i capitani del
le navi sapessero con precisione dove si trovavano.
E dunque così ragionavano i grandi uomini di lettere:
se la longitudine era importante, se la definizione di co
lore, lunghezza, massa e suono era vitale, perché non
veniva dato lo stesso valore alla lingua nazionale? Come
giustamente deprecava l’autore di un pamphlet: « Noi
non abbiamo né grammatica né dizionario, né carta
nautica né bussola che ci guidino nel grande mare delle
parole».
Nessun dizionario si era dimostrato adeguato sino ad
allora, dicevano Swift e i suoi amici, ma date le vette di
perfezione che la lingua aveva già raggiunto, ora ne ser
viva uno, e si doveva trovare un uomo di genio con la
necessaria vocazione che si dedicasse al compito di crear
lo. Esso avrebbe realizzato due imprese auspicabili: fis
sare la lingua e conservarne la purezza.
Samuel Johnson non poteva essere meno d’accordo.
Quantomeno non voleva saperne di sistematizzare la
lingua affinché rimanesse pura. Forse gli sarebbe pia
ciuto che lo fosse, ma sapeva che era impossibile. Su
quanto, poi, ritenesse possibile o auspicabile fissarla,
fiumi di teorie sono usciti negli ultimi anni dalle rotati
ve accademiche, nei quali si è dibattuto variamente sulla
questione. Attualmente l’opinione generale è che in o-
rigine egli avesse progettato di fissare la lingua, ma che
poi, giunto a metà del suo lavoro di sei anni, fosse arriva
to a capire che era impossibile e anche non auspicabile.
Uno dei suoi predecessori, Benjamin Martin, ne spie
gava il motivo: «Nessuna lingua che dipenda dall’uso
arbitrario e dal costume potrà mai essere permanente-
mente la stessa, ma sarà sempre in una condizione mu
tevole e fluttuante; e ciò che è considerato gentile ed e-
legante in un’epoca, potrebbe essere ritenuto rozzo e
barbaro in un’altra». Questa affermazione, che fu pub
blicata nella prefazione a un ennesimo, malriuscito ten
107
tativo di creare un dizionario adeguato, appena un an
no prima dell’uscita di quello dijohnson, potrebbe aver
guidato anche il gran khan in tutto il suo lavoro di co
struzione.
Al di là dei grandi discorsi teorici dell’intelligencija
londinese, fu in realtà il mercato libero che spinse John
son a cominciare. Nel 1746 un gruppo di cinque librai
londinesi (tra cui i famosi signori Longman) furono
presi dall’idea che un dizionario nuovo di zecca sarebbe
riuscito a vendere come il pane. Avvicinarono perciò il
loro giornalista parlamentare favorito, che sapevano es
sere al contempo tenace e al verde, e gli fecero un’offer
ta che diffìcilmente avrebbe potuto rifiutare: millecin
quecento ghinee, di cui la metà sull’unghia. Johnson
accettò prontamente, ma a una condizione: avere come
patrono l’uomo che era al momento arbitro indiscusso
di ogni espressione buona e meritevole dell’Inghilterra
letteraria, Philip Dormer Stanhope, il quarto conte di
Chesterfield.
Lord Chesterfield era una delle figure più notevoli
del paese: ambasciatore, luogotenente d’Irlanda, ami
co di Pope, Swift, Voltaire e John Gay. Fu Chesterfield
a spingere l’Inghilterra ad adottare il calendario gre
goriano, e furono le lettere in cui dava consigli di com
portamento al figlio bastardo Philip a diventare, una
volta pubblicate, un indispensabile vademecum delle
buone maniere. Il suo imprimatur al dizionario sarebbe
stato prezioso, il suo patronato per il progetto inestima
bile.
Che egli promettesse l’imprimatur, ma declinasse il
patronato (salvo allungare a Johnson una cambiale per
la misera somma di dieci sterline), per poi invece recla
mare il proprio contributo al successivo trionfo dell’au
tore, divenne fonte di rancori ampiamente divulgati.
Lord Chesterfield, avrebbe detto Johnson in seguito,
insegnava « i valori morali di una sgualdrina e le manie
re di un maestro di ballo ». Chesterfield, che aveva la
108
pelle dura del vero aristocratico, accantonò le critiche
giudicandole amichevoli, cosa che non erano affatto.
Il suo iniziale appoggio al progetto del dizionario,
sommato alle settecentocinquanta ghinee che i librai a-
vevano messo in mano ajohnson, servirono però a met
tere al lavoro il curatore trentasettenne. Egli prese delle
stanze nei pressi di Fleet Street, assunse come amanuen
si sei aiutanti (cinque dei quali scozzesi, il che sarebbe
stato di conforto per James Murray), e intraprese i sei
anni di faticoso e incessante lavoro che si sarebbero rive
lati necessari. Aveva deciso, come anche Murray avreb
be deciso cent’anni più tardi, che il modo migliore (o
meglio, l’unico modo) di compilare un dizionario com
pleto era quello di leggere: scorrere tutta la letteratura ed
elencare le parole che comparivano su centinaia di mi
gliaia di pagine.
E un assioma che esistano tre alternative per stilare
un elenco di parole. Si possono registrare le parole che
si sentono. Si possono copiare le parole da altri diziona
ri già esistenti. Oppure si può leggere e poi, nel più scru
poloso dei modi, registrare tutte le parole che si sono
lette, selezionarle e disporle in un elenco.
Johnson scartò la prima idea perché troppo farragi
nosa per essere utilizzabile; naturalmente si trovò d’ac
cordo con la seconda: tutti i lessicografi si servono dei
dizionari precedenti come punto di partenza, per esse
re sicuri di non dimenticare niente; e, cosa molto più
significativa, stabilì l’importanza primaria della terza
alternativa: la lettura. Di qui l’affitto delle stanze nei
pressi di Fleet Street, di qui la necessità di acquistare o
prendere a prestito quintali, metri, sacchi di libri, e di
qui l’assunzione dei sei uomini. La squadra era stata crea
ta per pascersi di tutta la letteratura esistente, e per fare
un catalogo di tutto quello che le finiva sotto i denti.
Fu ben presto chiaro che sarebbe stato impossibile e-
saminare tutto, e quindi Johnson impose dei limiti. La
lingua, stabilì, aveva probabilmente raggiunto le sue
vette più alte con gli scritti di Shakespeare, Bacon e
109
Edmund Spenser, e quindi c’era probabilmente ben
poco bisogno di risalire più indietro del periodo in cui
erano vissuti. Decretò dunque che le opere di Sir Philip
Sidney, che aveva solo trentadue anni quando morì, nel
1586, dovessero segnare il punto d’inizio della sua ricer
ca; e che gli ultimi libri pubblicati da autori morti di re
cente dovessero segnarne la fine.
Il suo dizionario, in questo modo, sarebbe stato il
frutto di una grande partita di pesca in appena un seco
lo e mezzo di letteratura, con l’aggiunta, per ogni eve
nienza, di un elemento estraneo che era Chaucer. Così
Johnson prese tutti questi libri e li lesse, poi sottolineò e
cerchiò le parole che gli interessavano e annotò il nu
mero delle pagine in cui si trovavano; quindi ordinò ai
suoi uomini di copiare su foglietti di carta la frase intera
che conteneva la parola da lui prescelta; e infine archi
viò i foglietti per usarli quando gli fossero serviti per illu
strare la tesi che voleva sostenere, il significato di una
parola che cercava di comprovare.
E furono tutte quelle occorrenze delle parole con di
verso significato (la dimostrazione delle molteplici, sot
tili sfumature di senso che possono essere racchiuse in
un semplice gruppo di lettere accostate tra loro) a se
gnare il grande trionfo del dizionario di Johnson. Per
ché, se possiamo ridere del fascino singolare della sua
definizione di elefante, o di oats, avena («granaglie che
in Inghilterra vengono date generalmente ai cavalli, ma
che in Scozia servono al sostentamento della gente »), o
di lexicographer, lessicografo («un compilatore di dizio
nari; uno sgobbone inoffensivo che si impegna a rin
tracciare l’origine delle parole e a spiegarne in dettaglio
il significato »), non possiamo che restare sbalorditi dal
la sua analisi, per esempio, del verbo take, prendere.
Johnson elencò, con citazioni esemplificative, ben 113
usi della forma transitiva di questo particolare verbo e
21 della forma intransitiva. «Pigliare, afferrare o cattu
rare; acchiappare con l’amo; cogliere in fallo qualcuno;
110
conquistare il favore popolare; diventare operativo; as
serire di fare qualcosa; arrogarsi il diritto ... montare a
cavallo, scappare, compiere l’azione di spogliarsi dei
propri vestiti... ».
L’elenco è quasi interminabile. È indice della genialità
di SamuelJohnson il fatto che, armato di riferimenti tratti
da centocinquant’anni di letteratura inglese, egli sia stato
in grado, essenzialmente con le proprie forze, di trovare e
trascrivere quasi tutti gli usi di ciascuna parola del tempo.
Non soltanto take, ma altri termini comuni come set (met
tere) , do (fare), go (andare) e centinaia e centinaia di altri.
Nessuna meraviglia se, a progetto ben avviato, presentan
dosi la trascurabile questione delle pretese dei creditori,
un bel giorno sbarrò l’ingresso al lattaio con il proprio let
to, gridando da dietro la porta: « Siatene certo, difenderò
questa cittadella fino allo stremo! ».
Finì di accumulare le parole del patrimonio linguisti
co inglese nel 1750. Trascorse i quattro anni seguenti
occupandosi della redazione delle citazioni e sceglien
do le 118.000 frasi illustrative (talvolta compiendo l’ere
sia di modificare le citazioni che non gli piacevano).
Completò infine le definizioni di quelli che dovevano
diventare i 43.500 lemmi da lui scelti. Scrisse alcune di
queste definizioni da zero, per altre prese a prestito pas
si consistenti di autori che ammirava (come per elephant,
in parte opera di un certo Calmet).
Tuttavia non pubblicò l’opera completa se non nel
1755: voleva convincere l’Università di Oxford a conce
dergli una laurea, convinto del fatto che, se avesse potu
to aggiungerla al suo nome sul frontespizio, avrebbe
fatto un gran bene a Oxford, alle vendite del libro e a se
stesso, e non necessariamente in quest’ordine. Oxford
accettò, e il 15 aprile 1755 venne pubblicato:
Un dizionario della lingua inglese, le cui parole so
no tratte da fonti originali e illustrate nei loro diversi
significati con esempi presi dai migliori scrittori, prece
111
duto da una storia della lingua e una grammatica ingle
se, di Samuel Johnson, A.M.,1 in due volumi.
112
altro che il glossario delle sue barbare opere ». Ma l’au
tore del commento era anonimo e con ogni probabilità
si trattava di un rivale frustrato. O altrimenti di un fana
tico whig: Johnson era un tory ben noto e scriveva con
quelli che alcuni ritenevano caratteristici preconcetti
tory. E quindi il libro non era altro che un «veicolo per
ambiziosi trattati giacchiti » scrisse un whig, senza dub
bio un intransigente. Una donna arrivò persino a deni
grare Johnson per non aver incluso le oscenità. «No, si
gnora, voglio sperare di non essermene sporcato le ma
ni » replicò lui, e aggiunse con un pizzico di malizia: «Ve
do, comunque, che voi le avete cercate ».
Tuttavia le lodi furono molte. Voltaire propose che i
francesi elaborassero un proprio dizionario sul modello
di quello di Johnson, e la venerabile Accademia della
Crusca scrisse da Firenze che la sua opera sarebbe stata
un perpetuo monumento alla fama dell’autore, un ono
re per il suo paese in particolare e un beneficio generale
per la repubblica delle lettere in tutta Europa. « In un’e
poca di dizionari di ogni sorta, » scrive un commentato-
re moderno « il contributo di Johnson fu primus inter
pares». E Robert Burchfield, che negli anni Settanta del
Novecento curò il supplemento in quattro volumi al-
l’Oxford English Dictionary, non aveva dubbi: Johnson era
riuscito a conciliare le qualità di lessicografo con quelle
di squisito uomo di lettere: « In tutta la tradizione della
lingua e della letteratura inglesi l’unico dizionario com
pilato da uno scrittore di alto livello è quello del dottor
Johnson».
Nel frattempo, sotto questa pioggia di fulmini e saet
te, di plausi ed encomi, Samuel Johnson rimase pacata
mente modesto. Non senza ragione, in quanto era orgo
glioso della sua opera, ma era anche intimorito dalla
magnificenza della lingua che lui, con tanta temerarie
tà, aveva scelto di imbrigliare. Il libro rimase il suo mo
numento. James Murray avrebbe detto anni dopo che
ogniqualvolta una persona diceva « il dizionario », così
113
come si potrebbe dire « la Bibbia » o « il Libro delle Pre
ghiere», si riferiva sicuramente all’opera del dottor
Johnson.
Ma no, avrebbe detto il gran khan della letteratura: in
realtà erano le parole a essere il monumento più auten
tico e, a un livello ancor più profondo, le entità stesse
che quelle parole definivano. « Non sono ancora tanto
perso nella lessicografia » disse nella sua famosa prefa
zione « da dimenticare che le parole sono le figlie della
terra, e gli oggetti i figli del cielo ». La sua vita era stata
dedicata a raccogliere quelle figlie, ma era stato il cielo
a ordinarne la creazione.
114
5
COME FU CONCEPITO IL GRANDE DIZIONARIO
128
6
L’INTELLETTUALE DEL BLOCCO 2
1. Corsivodell’Autore [N.d.T.].
133
chiamavano anche il « blocco dei damerini ». Un visita
tore una volta scrisse che l’atmosfera del blocco 2 era
stata « descritta da qualcuno che conosce entrambi gli
ambienti come identica a quella dell’Athenaeum Club ».
Ben pochi membri del più snob dei club londinesi per
gentiluomini snob (comprendeva tra i suoi iscritti la
maggior parte dei vescovi e degli uomini di cultura del
paese) avranno fremuto di gioia per questo paragone.
E tuttavia Minor ottenne una sistemazione più che
accettabile e confortevole, non da ultimo perché era u-
na persona di buona famiglia e di buona cultura. E ave
va una rendita: tutti i funzionari di Broadmoor sapeva
no che era un militare in congedo, con regolare pensio
ne pagata dall’esercito degli Stati Uniti. Per questo rice
vette non una cella ma due, un paio di stanze comuni
canti sul lato meridionale deH’ultimo piano del blocco.
Le stanze di giorno non erano chiuse a chiave; di notte,
in caso di necessità, le medicine e il cibo gli venivano pas
sati attraverso una lunga feritoia verticale, troppo stretta
per farci entrare un braccio, con una porticina che si po
teva chiudere a chiave dal lato esterno.
Le finestre avevano sbarre di ferro all’interno, ma in
compenso c’era una vista incantevole: una lunga valle
pianeggiante, con prati dove pascolava il bestiame e le
mucche riposavano all’ombra di grandi querce; i campi
da tennis di Broadmoor e un piccolo campo da cricket
da un lato; in lontananza, una fila di basse colline azzur
re coronate da faggi. Quel giorno d’inizio primavera,
con il cielo limpido e i lillà e i meli in fiore e i canti di
tordi e allodole, forse la condanna non gli parve più,
tutto sommato, un incubo.
AH’estremità settentrionale del corridoio sedeva la
guardia (nel manicomio chiamata «ausiliario») che
sorvegliava i venti uomini del piano. Aveva tutte le chia
vi, controllava la porta d’accesso al piano, sempre chiu
sa a chiave e, quando gli internati dovevano andare in
bagno, li faceva uscire dalle loro stanze e poi rientrare;
durante il giorno, teneva accanto a sé un becco a gas di
134
ottone con la fiammella sempre accesa. Agli uomini in
fatti non erano concessi i fiammiferi, e andavano da lui
ad accendersi la sigaretta o la pipa, per fumare la razio
ne di tabacco che ricevevano ogni settimana. (Tutto il
tabacco veniva dagli uffici doganali di Sua Maestà: tutto
ciò che veniva confiscato ai porti come merce di con
trabbando veniva consegnato al ministero dell’Intemo,
che lo distribuiva alle prigioni e ai manicomi pubblici).
Qualche giorno dopo il viceconsole americano scris
se una lettera, per accertarsi che lo sventurato ufficiale
del loro esercito venisse trattato bene. Non sarebbe pos
sibile per «il nostro povero amico», chiedeva in tono
supplichevole, ricevere alcuni dei suoi effetti personali?
(Erano stati lasciati al consolato per contribuire a paga
re eventuali spese legali dei diplomatici). In teoria sa
rebbe possibile fagli visita? Per rallegrarlo, potremmo
mandargli una libbra di caffè Dennis o qualche prugna
francese? Orange non si espresse sull’argomento speci
fico delle prugne, ma comunicò al console che il dottor
Minor poteva avere tutto ciò che desiderava, a condizio
ne che non pregiudicasse la sua sicurezza o il rispetto
delle norme disciplinari del manicomio.
E così, una settimana dopo, il funzionario mandò per
ferrovia un baule-armadio di cuoio: conteneva una re
dingote e tre panciotti, tre paia di mutande e quattro
camiciole, quattro camicie, quattro colletti, sei fazzoletti
da tasca, un libro di preghiere, una scatola di fotografie,
quattro pipe, cartine per le sigarette, un sacchetto di ta
bacco, una mappa di Londra, un diario e un orologio
da taschino con catena d’oro (quest’ultima un cimelio
di famiglia, si era detto durante il processo).
Ma soprattutto, riportò in seguito il sovrintendente,
vennero restituiti al dottor Minor i suoi strumenti da
disegno: una cassetta da poco prezzo con tutto l’occor
rente, una scatola di colori per dipingere e una serie di
pennini, un tavolo da disegno, album per gli schizzi e
fogli di cartoncino. Ora avrebbe potuto occupare il tem
735
po in modo costruttivo, cosa che tutti i pazienti erano
incoraggiati a fare.
Nei mesi successivi Minor arredò la sua cella in modo
confortevole (proprio come, in verità, avrebbe fatto un
membro dell’Athenaeum). Il denaro l’aveva: la sua pen
sione da ufficiale, di circa milleduecento dollari l’anno,
veniva pagata in Connecticut a suo fratello Alfred (che
rappresentava legalmente William, giudicato dallo Sta
to « incapace di intendere e di volere ») e questi per tele
grafo trasmetteva regolarmente fondi in Inghilterra, per
rimpinguare il conto corrente del fratello malato. Usan
do questo credito continuo, il dottor Minor potè saziare
l’unica passione che lo divorava: quella per i libri.
Prima richiese che gli venissero mandati i suoi libri
dalla casa di New Haven. Quando furono sistemati, or
dinò dalle grandi librerie di Londra decine e decine di
volumi nuovi e usati, che inizialmente accatastò in pile
precarie nelle sue celle, finché chiese (e pagò) delle li
brerie fatte su misura. Alla fine aveva trasformato la
stanza che dava più a ovest in una biblioteca, con una
scrivania, un paio di sedie e librerie in teak che toccava
no il soffitto.
Teneva il cavalletto e i colori nell’altra stanza, quella
che dava a est; possedeva anche una piccola scelta di vi
ni e del bourbon, di cui il console lo riforniva regolar
mente. Riprese a suonare il flauto e diede lezioni ad al
cuni internati delle celle vicine. Scoprì inoltre che gli e-
ra consentito (e lui se lo poteva tranquillamente per
mettere) pagare uno degli altri pazienti perché facesse
dei lavori per lui: riordinare le stanze, sistemare i libri,
ripulire quando aveva finito di dipingere. Lavita, che in
quei primi mesi gli era sembrata quantomeno tollerabi
le, ora iniziava a diventare davvero molto piacevole: Wil
liam Minor poteva trascorrere i suoi giorni in completa
sicurezza e tranquillità, stava al caldo e mangiava ragio
nevolmente bene, la sua salute veniva tenuta sotto con
trollo, poteva passeggiare sul lungo sentiero di ghiaia
detto Terrace, poteva riposarsi con calma su una delle
136
panchine vicine al prato e guardare il boschetto, o pote
va leggere e dipingere a piacimento.
Le sue celle esistono ancora: in un secolo a Broadmoor
non è cambiato molto e il blocco 2, anche se ora si chia
ma Essex House, rimane ancora il preferito per quei pa
zienti che ci dovranno restare per un bel po’. Una delle
due stanze, quella a ovest, dove il dottor Minor teneva la
sua biblioteca, ospita un paziente le cui propensioni alla
violenza si capiscono all’istante: la stanza è ingombra di
riviste dedicate al body-building, alle pareti ci sono dei
poster che celebrano i successi di figuri alla Rambo, ci
sono disegni tecnici di grandi motociclette americane,
e un ritaglio di un giornalino a fumetti è stato incollato
alla porta. C’è scritto: « Killer Pazzo ».
L’altra stanza, quella dove Minor dipingeva, è al con
trario così ordinata da sembrare quasi vuota: il letto è
talmente ben fatto che la proverbiale monetina rimbal
zerebbe sulla superficie perfettamente tesa; ci sono del
le scarpe in pelle, lucidate e ben allineate, i vestiti sono
appesi con cura nell’armadio. Non ci sono libri, niente
alle pareti. Il caminetto è chiuso ormai da molto tempo,
ma c’è ancora la mensola, con sopra un piccolo calen
dario da tavolo. L’occupante della stanza, mi riferisco
no, è un egiziano.
La salute mentale del dottor Minor, o la sua mancan
za, non venne mai messa in dubbio. Egli non fu mai tan
to grave da dover essere spostato dall’atmosfera benevo
la del blocco 2 al regime più severo dei blocchi sul retro
(nonostante uno strano e terribile incidente che, nel
1902, lo tenne lontano dalle sue stanze per molte setti
mane). Ma i rapporti dei sorveglianti confermano che
le sue fissazioni diventavano negli anni sempre più radi
cate, sempre più bizzarre, e che non sembrava esserci al
cuna probabilità che egli tornasse in possesso delle sue
facoltà mentoli. Stava bene a Broadmoor, forse, ma non
c’era altro posto dove potesse vivere.
I rapporti dei sorveglianti relativi ai primi dieci anni
mostrano il triste e inarrestabile progresso della sua pa
137
rabola discendente. Già all’epoca del ricovero era preci
samente consapevole degli strani eventi che lo tormen
tavano di notte, sempre di notte. Dei ragazzini, ne era
convinto, venivano issati sulle travi sopra il suo letto;
scendevano quando dormiva profondamente, lo cloro
formizzavano e poi lo costringevano a compiere atti in
decenti (se con i ragazzi stessi o con le donne che sogna
va di continuo, però, non fu mai detto a chiare lettere
da coloro che tenevano i registri). Sosteneva che si sve
gliava con abrasioni intorno al naso e alla bocca, dove
gli avevano fissato la bombola dell’anestetico; alle cavi
glie i pantaloni del suo pigiama erano sempre umidi,
diceva, segno che lo avevano costretto a camminare nel
la notte in stato d’incoscienza.
Aprile 1873: « Il dottor Minor è magro e anemico, ira
scibile nei modi, tuttavia di giorno appare razionale e
impiega il suo tempo dipingendo e suonando il flauto.
Ma di notte barrica la porta della stanza con i mobili, e a
questi collega la maniglia della porta usando un pezzo
di spago, in modo da potersi svegliare se qualcuno cerca
di entrare in camera sua... ».
Giugno 1875: « Il dottore è convinto che degli intrusi
riescano a entrare dal pavimento o dalle finestre e che,
servendosi di un imbuto, gli versino del veleno in bocca:
ora insiste per essere pesato ogni mattina, per vedere se
il veleno lo ha fatto aumentare di peso ».
Agosto 1875: « L’espressione del viso la mattina è spes
so distrutta e stravolta, come se non si fosse riposato
abbastanza. Lamenta di sentirsi come se durante la notte
gli avessero premuto un ferro freddo sui denti, e gli aves
sero fatto ingerire qualcosa a forza. Per il resto, non ci
sono cambiamenti ».
Un anno dopo i suoi demoni sembravano avere un
effetto molto deprimente su di lui. Nel febbraio del 1876
i medici scrivono: « Un paziente oggi ha affermato che il
dottor Minor è andato con lui nel ripostiglio e gli ha
detto che gli avrebbe dato tutto quello che aveva se gli
138
avesse tagliato la gola. Un ausiliario è stato incaricato di
sorvegliarlo ».
L’anno seguente le cose non andavano certo meglio.
« Nel vivere sociale » scriveva un ausiliario nel maggio
del 1877, riportando una spiegazione avuta da lui « tutti
i sistemi sono basati su trame di corruzione e di furfan
teria, ed egli è la vittima di queste macchinazioni. Ecco
l’origine delle brutali torture alle quali è sottoposto o-
gni notte. Gli trafiggono il midollo spinale e gli manipo
lano il cuore con strumenti di tortura. I suoi assalitori
entrano dal pavimento... ».
Nel 1878 la tecnologia entrava a far parte delle scel
leratezze subite. « Gli fanno passare, ripete, la corrente
elettrica in tutto il corpo da fonti invisibili. Gli applicano
degli elettrodi sulla fronte, lo caricano su una carrozza e
lo portano in giro per la campagna ». Lo avevano porta
to fino a Costantinopoli, disse una volta a un ausiliario,
dove era stato costretto a compiere atti osceni in pubbli
co. « Stanno cercando » affermò « di fare di me un per
vertito! ».
Ma mentre le fissazioni evidentemente persistevano e
peggioravano nel corso di quei primi anni di manico
mio, la sua cartella clinica evidenzia (il che è fondamen
tale per la nostra storia) il parallelo sviluppo di un aspet
to più riflessivo ed erudito in quest’uomo tormentato.
« Eccezion fatta per le sue suggestioni riguardo alla
questione delle visite notturne, » dice un’annotazione
della fine degli anni Settanta « sa parlare in modo logico
e intelligente di molti argomenti. Lavora nel suo angolo
di giardino, e in questo momento è piuttosto allegro; tut
tavia ha i suoi giorni di melanconia e riservatezza ». Un
anno più tardi un medico scrive semplicemente: «E ra
zionale e intelligente in quasi tutte le circostanze ».
Iniziava anche a sistemarsi, a considerare il grande o-
spedale come la sua casa e gli ausiliari come la sua fami
glia. « Non sente più in modo particolare quel forte de
siderio di tornare in America che aveva in passato » scri
veva un altro medico. «Tutto ciò che chiede è un po’
139
più di libertà, magari per andare a cercare delle vedute
di Londra o per visitare la mostra di orchidee per la qua
le ha appena ricevuto un biglietto ». E tuttavia il medico
che ebbe con lui questo colloquio era sicuro della ma
lattia del suo paziente e aggiunse una frase che, con il
senno di poi, sembra quasi aver siglato l’eterno destino
di William Minor:
Non c’è alcun dubbio sul fatto che il dottor Minor,
seppure occasionalmente molto calmo e padrone di sé,
abbia, e manifesti, generalmente parlando, disturbi men
tali molto più gravi rispetto a qualche anno fa. Ha la si
cura e ferma convinzione di essere quasi ogni notte vit
tima di tormenti e molestie intenzionali, da parte degli
ausiliari e di altre persone collegate a trame criminali e
diaboliche.
Fu all’incirca in questo periodo che ci furono due svi
luppi, uno dei quali, in modo del tutto fortuito, avrebbe
portato indirettamente all’altro. Il primo ebbe origine
da un fattore che non è insolito tra coloro che commet
tono crimini efferati: Minor fu preso da un sincero ri
morso per quello che aveva fatto e decise di cercare in
qualche modo di riparare. Fu con questo pensiero in
mente che fece la mossa ardita di scrivere alla vedova
della sua vittima tramite l’ambasciata americana, la qua
le, come egli sapeva, aveva già contribuito a raccogliere
dei fondi per lei nei mesi immediatamente successivi alla
tragedia.
Spiegò a Eliza Merrett quanto fosse infinitamente ad
dolorato per quello che aveva fatto e si offrì di dare il
proprio aiuto in ogni modo possibile, magari destinan
do del denaro a lei o ai suoi figli. Già la matrigna di Mi
nor, Judith, aveva dato un contributo: ora, forse, se la
signora Merrett avesse avuto la cortesia di accettare, lui
avrebbe potuto fare qualcosa di più.
Quella lettera sembrò operare un piccolo miracolo:
non solo la signora Merrett accettò l’aiuto finanziario di
Minor, ma chiese anche se fosse possibile fargli visita.
140
Era una richiesta senza precedenti, che all’omicida in
carcere venisse concesso di passare del tempo con un
parente della vittima; ma il ministero dell’interno, do
po aver discusso la questione con il dottor Orange, auto
rizzò una visita sperimentale sorvegliata. Di conseguen
za, verso la fine del 1879, la signora Eliza Merrett andò
da Lambeth fino a Broadmoor e incontrò per la prima
volta l’uomo che sette anni prima aveva messo fine alla
vita del marito e aveva tanto drasticamente cambiato la
sua e quella dei suoi otto figli.
L’incontro, secondo il rapporto del dottor Orange,
all’inizio fu teso, ma poi proseguì bene, e alla fine la si
gnora Merrett accettò di tornare. Non passò molto tem
po prima che si avventurasse fino a Crowthorne ogni
mese, per il piacere di parlare con compassionevole in
teressamento con questo americano ora apparentemen
te innocuo. E sebbene risulti che le loro conversazioni si
interrompessero poco prima di diventare una concreta
amicizia, si ritiene che la signora si rendesse disponibile
a fare ciò che avrebbe condotto al secondo dei fonda
mentali sviluppi di questo periodo della vita di Minor.
Accettò, così sembra, di portargli dei pacchi di libri pro
venienti dagli antiquari di Londra.
145
7
PAROLE, PAROLE, PAROLE
160
8
« ANNULATED, ART, BRICK-TEA, BUCKWHEAT »
163
In realtà ne sarebbero occorsi altri quarantaquattro.
Ma ora, dopo tanti anni di attesa, chiunque fosse inte
ressato poteva almeno vedere la magnifica complessità
dell’impresa, la cura per il dettaglio, il lavoro di filigra
na, i veri e propri arabeschi di minuziosità che i curatori
erano determinati a realizzare. In Inghilterra si poteva
richiederne per iscritto una copia a dodici scellini e sei
penny; negli Stati Uniti si riceveva un fascicolo stampato
a Oxford, ma pubblicato da Macmillan a New York, per
tre dollari e venticinque centesimi.
La prima parola della prima parte, dopo le quattro pa
gine dedicate alla semplice lettera A, era il sostantivo ob
soleto aa, che significa «ruscello» o «corso d’acqua». A
comprovarne l’esistenza c’era una citazione da un’opera
del 1430, che conteneva un riferimento a Saltfleetby, una
città del Lincolnshire ancora oggi piuttosto umida e cinta
d’acqua, in cui, quattro secoli prima, esisteva un rivoletto
conosciuto localmente come « le Seventown Aa ».
La prima, vera parola di uso corrente contenuta nel
fascicolo era aal, il nome bengalese o hindi di una pian
ta (la robbia) della famiglia delle rubiacee, da cui si può
estrarre un colorante per tessuti. Lo confermava con la
sua testimonianza il Dictionary ofArts, Manufactures and
Mines (Dizionario delle arti, delle manifatture e delle
miniere) di Andrew Ure (1839): « Egli ha ottenuto dalla
radice della robbia (aal) una sostanza giallo pallido che
chiama morindina ».
E poi la prima parola propriamente inglese, se - po
trebbe obiettare un linguista pedante - è mai esistita
una cosa del genere. Era aardvark, oritteropo, il mez
zo armadillo e mezzo formichiere che vive nell’Africa
subsahariana e che ha una lingua viscosa lunga sessan
ta centimetri. Venivano proposte tre citazioni, la prima
del 1833.
1. A sua volta contrazione di am not, is not, are not, have not e has not
(forme negative di to be, essere, e to have, avere) [AT.d. T.].
165
la vista, e così Murray la fece interrare di un metro, il
che la rese umida e fredda per il personale e produsse
una gigantesca montagna di terra di scarto che disturba
va ancora di più i vicini. Quando fu finita, la gente dice
va che somigliava a un deposito per gli attrezzi, a una
stalla o a una lavanderia, e quelli che vi lavoravano male
dicevano il monacale ascetismo della costruzione e il
freddo che irrimediabilmente gelava le ossa, e la defini
vano « un orrido covo di lamiera ».
Il nuovo Scriptorium però era di sei metri più lungo
di quello di Mill Hill (che esiste ancora, annesso alla bi
blioteca della scuola a tutt’oggi costosa ed elegante) e le
strutture per archiviare, ordinare e poi utilizzare le sche
de in arrivo (che a questo punto piovevano al ritmo di
più di mille al giorno) erano molto migliorate.
Vennero subito costruite 1029 caselle (Coleridge ne
aveva appena 54) ; poi, man mano che il volume e il peso
delle schede crescevano tanto da diventare impossibili
da gestire, vennero costruite nuove file di scaffali. Lun
ghe tavole di mogano ben lucidate sostenevano i testi
selezionati per la parola del giorno o dell’ora, e grandi
leggii da chiesa reggevano i principali dizionari e testi di
consultazione, ai quali Murray e i suoi uomini facevano
riferimento costantemente. Ai tempi di Mill Hill, il di
rettore aveva sistemato il suo tavolo e la sua sedia su una
predella; qui a Oxford erano tutti più democraticamen
te sullo stesso livello, ma lo sgabello di Murray era più
alto degli altri, e da lì egli presiedeva ancora con indi
scussa autorità, vedeva tutto, e si lasciava sfuggire ben
poco.
Murray organizzò le operazioni allo Scriptorium come
avrebbe fatto un ufficiale sul campo di battaglia. Le sche
de erano di competenza specifica del commissariato mi
litare, di cui Murray era il generale. I pacchetti arrivavano
ogni mattina, un migliaio di schede al giorno. Un lettore
eseguiva un rapido controllo per vedere se la citazione e-
ra completa e se tutte le parole erano ortograficamente
corrette; poi un secondo (spesso uno dei figli di Murray,
166
messi al lavoro praticamente non appena imparavano a
leggere, pagati sei penny la settimana per un’ora e mezzo
di lavoro al giorno e resi precocemente esperti di parole
crociate) divideva il contenuto di ogni mazzetto in base
all’ordine alfabetico dei catchwords. Un terzo impiegato
divideva poi queste parole secondo le varie parti del di
scorso cui appartenevano (per esempio, bell come sostan
tivo, campana; bell come aggettivo, campanario; bell come
verbo, dotare di campana) e infine un quarto control
lava che le citazioni raccolte per ciascuna fossero dispo
ste in ordine cronologico.
Poi un redattore, uno dei membri più importanti del
la squadra, suddivideva i significati di ciascuna parola
secondo le varie sfumature che essa aveva assunto nel
corso della sua esistenza, e a questo punto (se non l’ave
va già fatto) faceva un primo tentativo di scrivere l’ele
mento cruciale della maggior parte dei dizionari: la de
finizione.
169
Fu all’incirca in questo periodo in cui Murray era tan
to tormentato da art che uno dei redattori (o forse fu
Murray in persona) scrisse la prima richiesta ufficiale a
Broadmoor. Voleva che il dottor Minor controllasse se
aveva accantonato qualche citazione per art che propo
nesse altri significati, o che fosse di data anteriore, ri
spetto a quelle raccolte fino ad allora. Sedici diverse sfu
mature di significato erano state individuate per quel
sostantivo: forse Minor ne aveva altre, o qualche ulterio
re delucidazione sulla parola. Se così fosse stato, lui (o
chiunque altro) era pregato di inviarle a Oxford con la
massima urgenza.
Diciotto lettere concernenti questa parola arrivarono
debitamente da svariati lettori che avevano visto l’artico
lo. Una delle risposte, innegabilmente la più fruttuosa,
venne da Broadmoor.
Rispetto a tutti gli altri lettori, che avevano offerto so
lamente una frase o due, l’oscuro dottor Minor ne aveva
accluse ben ventisette. Colpì i redattori di Oxford per la
meticolosità, ma non solo: era anche molto prolifico, e
capace di attingere ampiamente alle sorgenti della co
noscenza e della ricerca. La squadra del dizionario ave
va fatto una scoperta rara.
Va detto che la maggior parte delle citazioni di Minor
per questa parola in particolare veniva da una fonte per
certi versi ovvia: Discourses (Discorsi) di Joshua Reynolds,
le famose dissertazioni scritte nel 1769, l’anno successi
vo alla sua nomina a presidente della Royal Academy.
Le frasi si rivelarono però di valore inestimabile per i
compilatori del dizionario, e ne è prova, ancora oggi, il
primo contributo accertato di William Chester Minor
all’opera finita, muta testimonianza delle fasi iniziali del
suo lavoro.
È la seconda citazione relativa all’accezione The Arts, le
arti, e dice semplicemente: « 1769 Reynolds, Sir J. Disc. I
Wks. 1870 306 Tra i nostri nobili c’è il desiderio diffuso di
distinguersi come amanti e intenditori delle arti ».
Senza saperlo, le parole di SirJoshua dovevano costi
170
tuire il punto di partenza per un rapporto - quello tra il
professor Murray e il dottor Minor - che avrebbe unito
somma cultura, crudele tragedia, riserbo vittoriano, pro
fonda gratitudine, reciproco rispetto, e una cordialità
che cresceva lentamente e che avrebbe potuto persino,
nel senso più lato del termine, definirsi amicizia. Comun
que si chiamasse, era un legame che sarebbe rimasto tra i
due uomini finché la morte, trent’anni più tardi, non li
avrebbe infine separati. Il lavoro che il dottor Minor fece
per il dizionario, iniziato con i Discourses di Reynolds, pro
seguì nei due decenni successivi; ma con esso era stato
forgiato un legame più forte del semplice amore per le
parole, un legame che tenne questi due uomini anziani,
tanto diversi tra loro, profondamente uniti per altri dieci
anni.
Dovevano tuttavia passare ben sette anni prima che
Murray e Minor si incontrassero. In quel periodo Minor
iniziò a spedire le sue citazioni a ritmo prodigioso: tal
volta ben più di cento nuove schede la settimana, vale a
dire venti al giorno, tutte scritte con la sua calligrafia
limpida e ferma. Scriveva al professor Murray sempre in
tono piuttosto formale, deviando solo di rado in faccen
de che esulavano dagli obiettivi che si era prefisso.
172
parole in preparazione, come art all’inizio, e poi blaste
buckwheat, quelle che stanno per essere inserite nella suc
cessione di pagine, parti, e volumi del momento. Murray
osserva in una lettera a un collega che Minor vuole a tutti
i costi restare al passo e che, a differenza della maggior
parte degli altri lettori, non ha alcun interesse a lavorare
su parole destinate ai volumi e alle lettere da pubblicare
nel giro di anni o decenni. In seguito scrive di avere la
chiara impressione che Minor si voglia sentire coinvolto,
voglia godere della sensazione di essere in qualche mo
do parte della squadra, di fare le cose fianco a fianco
con gli scrivani dello Scriptorium.
Minor non era troppo lontano da Oxford, dopotutto.
Forse gli pareva di essere nella sezione staccata di un
college, come la St. Catherine’s Society o Mansfield
Hall, e che le sue celle, o quelle che James Murray cre
deva ancora un comodo studio rivestito di legno e tap
pezzato di libri, fossero semplicemente una succursale
campagnola dello Scriptorium, un covo di dotte crea
zioni e di laboriose indagini lessicali. Se qualcuno aves
se deciso di rifletterci più a fondo, si sarebbe potuto me
ravigliare della strana simmetria tra i due uomini: impri
gionati com’erano tra grandi cataste di libri, dediti ani
ma e corpo agli studi più astrusi, la corrispondenza co
me unico sbocco verso l’esterno, in grandi e quotidiane
tempeste di carta e fiumane d’inchiostro.
178
9
L’INCONTRO DI DUE MENTI
185
mente modulata, dall’accento scozzese « direttore edi
toriale dell’ Oxford English Dictionary. E voi siete senza
dubbio il dottor William Minor. Finalmente. Sono pro
fondamente onorato di incontrarvi ».
Ci fu una pausa. Poi l’altro rispose:
« Me ne rincresce, signore. Non posso arrogarmi que
sto onore. Sono il sovrintendente del manicomio crimi
nale di Broadmoor. Il dottor Minor è americano, ed è
uno dei nostri pazienti di più antica data. Ha commes
so un omicidio. E gravemente malato di mente ».
Murray, continua la storia, rimase sbigottito, stupefat
to, e tuttavia colmo di compassionevole interesse. « Chie
se di essere condotto dal dottor Minor, e rincontro tra i
due uomini di cultura, che avevano corrisposto tanto a
lungo e che ora si incontravano in circostanze tanto stra
ne, fu estremamente toccante ».
187
UN MOMENTO DI SQUILIBRIO MENTALE. COME SIR JAMES
MURRAY, DIRETTORE EDITORIALE DEL DIZIONARIO, PAR
TITO, COSÌ CREDEVA, PER FAR VISITA A UN DOTTO COLLEGA
A CASA SUA, SI TROVÒ AL MANICOMIO E UDÌ LA SUA STORIA
STRAORDINARIA, INIZIATA DURANTE LA GUERRA DI SECES
SIONE, QUANDO IL NOSTRO PROTAGONISTA ERA UFFICIALE
MEDICO NELL’ESERCITO NORDISTA. UN COLLABORATORE
RICCO E ORA RESIDENTE IN AMERICA, DICE L’AMICO.
Questo titolo mozzafiato introduceva una storia che
lasciava ancor più sbalorditi, resa però alquanto ridicola
dalla riluttanza o dall’impossibilità da parte dell’autore
di nominare Minor. Ogni volta che è citato viene chia
mato soltanto il dottor X, come per esempio: « E voi sie
te senza dubbio il dottor X. Sono profondamente ono
rato di incontrarvi ».
Ciononostante la storia funzionò bene con il pubblico
americano, al quale negli anni precedenti erano giunti
accenni e notizie frammentarie: l’arresto per omicidio a
Londra di uno dei loro ufficiali non era passato inosser
vato all’epoca, la sua reclusione era oggetto di occasiona
li rispolverate ogniqualvolta un nuovo corrispondente o
un nuovo diplomatico approdava nella capitale ingle
se. Ma la rivelazione del suo lavoro per il dizionario era
nuova e, sotto questo aspetto, quello di Hayden Church
era stato uno scoop eccezionale, sia pure per quei tem
pi. I telegrafi rilanciarono la storia, che venne pubbli
cata sui giornali di tutto il mondo, persino a Tientsin,
in Cina.
Ma a Londra non funzionò altrettanto bene. Henry
Bradley, che a quel punto era subentrato a Murray come
direttore editoriale di quello che ormai era ufficialmente
conosciuto come l’Oxford English Dictionary, si risentì per
l’artìcolo pubblicato da « Strand » e scrisse una lettera
furibonda al « Daily Telegraph », in cui lamentava « pa
recchie affermazioni inesatte rispetto alla realtà dei fat
ti » e concludeva che « la storia del primo colloquio del
professor Murray con il dottor Minor è, per quanto ri
guarda i suoi risvolti più romantici, pura invenzione ».
188
Hayden Church scrisse in tutta fretta un’animata ri
sposta a Bradley, che il «Telegraph», sperando ovvia
mente in uno scontro, pubblicò prontamente. Il testo
contiene vaghe confutazioni, ma cita soltanto « un con
gruo numero di corrispondenti, alcuni dei quali molto
autorevoli » (nessuno dei quali viene però nominato)
che avevano confermato gli aspetti salienti della storia,
e protesta, seppur debolmente, di avere « fondate ragio
ni per ritenere che il resoconto dell’incontro tra Minor
e Murray sia esatto ».
La parte più strana della replica di Church, comun
que, è il suo enigmatico post scriptum. « Ho da poco avu
to contatti con uno dei più illustri letterati inglesi, che...
ha evidenziato l’assenza, nel mio articolo, di quello che egli
personalmente considera l’avvenimento più sensazionale nella
storia dell ’americano ».1
Rigorosamente vero o meno, il resoconto che Hayden
Church aveva fornito di quel primo incontro risultò
semplicemente troppo bello per essere ignorato. Affa
scinava tutta l’Inghilterra, diceva la gente. Distoglieva la
mente dalla prima guerra mondiale: il 1915, dopotutto,
era l’anno di Ypres, di Gallipoli, dell’affondamento del
Lusitania, e la gente era senza dubbio contenta di avere
una saga del genere come diversivo dalle lugubri realtà
dei combattimenti. « Nessuna storia d’amore o d’avven
tura » diceva la « Pall Mall Gazette » « è pari a questa sto
ria meravigliosa, una storia di somma cultura in una cel
la dalle pareti imbottite ».
Di fatto, ogni successivo riferimento alla saga della
creazione del dizionario di Oxford riprende la storia di
Church più o meno alla lettera. Nella sua biografia del
nonno (1977), giustamente celebrata, K.M. Elisabeth
Murray ripete la versione presentata da Church senza
quasi metterla in discussione, come fa anche Jonathon
Green in un libro di carattere più generale sulla storia
della lessicografia pubblicato nel 1996. Solo Elizabeth
189
Knowles, curatrice alla Oxford University Press, che si è
lasciata affascinare dalla storia all’inizio degli anni No
vanta, ha un approccio più freddo e distaccato; tuttavia
è chiaramente perplessa per il fatto che non si riesca a
trovare un resoconto definitivo del primo incontro. La
patina prodotta da decenni di buon uso ha reso la leg
genda piacevolmente credibile.
La verità, tuttavia, si rivela solo marginalmente meno
romantica. Affiora da una lettera che Murray scrisse nel
1902 a un illustre amico, il dottor Francis Brown di Bo
ston, e che è stata rinvenuta in una cassa di legno nella
soffitta di uno dei pochissimi parenti di William Minor
ancora in vita, un uomo d’affari in pensione che vive a
Riverside, Connecticut. La lettera sembra essere l’origi
nale integrale e completo, nonostante fosse logorante
abitudine di molti corrispondenti di allora preparare
una bella copia di tutta la posta in partenza e, nel farlo,
emendare ed elidere alcuni passi.
197
La posizione suprema ... è sicuramente occupata dal
dottor W.C. Minor di Broadmoor, che negli ultimi due
anni ha inviato non meno di 12.000 citazioni, quasi tut
te riferite alle parole delle quali io e Bradley ci stavamo
occupando al momento, in quanto al dottor Minor pia
ce sapere su quali parole lavoreremo presumibilmente
nel corso del mese, per dedicare tutte le sue forze alla
raccolta di citazioni di quelle stesse parole, e quindi sen
tirsi partecipe della creazione del Dizionario.
Tanto enorme è stato il contributo del dottor Minor negli
scorsi diciassette o diciotto anni, che potremmo facilmente illu
strare gli ultimi quattro secoli usando soltanto le sue citazioni.'
Ma questa profusione di energie nel lavoro stava ini
ziando a dimostrarsi gravosa sia per il corpo sia per la
mente di Minor. Il suo benevolo amico, il dottor Nichol
son, lasciò l’incarico nel 1895, ancora sofferente per l’ag
gressione subita sei anni prima da parte di un paziente
che lo aveva colpito in testa con un mattone nascosto in
una calza. Venne sostituito dal dottor Brayn, un uomo
scelto (non solo per il nome, si spera)12 da un ministro
dell’interno che sentiva la necessità di instaurare un re
gime più rigido nel manicomio.
Brayn era un vero caporale, un carceriere della vec
chia scuola che si sarebbe trovato bene in una colonia
penale agricola in Tasmania o sull’isola di Norfolk. Ma
fece ciò che richiedeva il governo: durante la sua per
manenza in carica non ci fu nessuna evasione (ce n’era-
no state diverse in passato, che avevano messo tutti in
allarme), e nel corso del primo anno vennero registrate
duecentomila ore di isolamento per gli internati più ri
belli. Era temuto e odiato da tutti, anche dal professor
Murray, convinto che trattasse il dottor Minor senza un
briciolo di cuore.
E Minor continuava a lagnarsi: si lamentava per un
198
buco nel tallone della calza, indubbiamente causato dal
la scarpa di uno sconosciuto nella quale, di notte, era sta
to costretto a infilare il piede (novembre 1896). E sospet
tava che i suoi vini e i suoi liquori venissero adulterati (di
cembre 1896).
203
10
IL TAGLIO PIÙ CRUDELE
207
Era convinto che tutto il suo essere fosse stato com
pletamente saturato dalla lascivia di oltre vent’anni, du
rante i quali, notte dopo notte, aveva avuto rapporti con
migliaia di donne nude. Le sue dissipazioni notturne
non avevano avuto conseguenze percettibili sulla sua
forza fisica, ma il suo organo era aumentato di dimen
sioni per effetto dell’uso costante, il costante priapismo
lo aveva fatto sviluppare enormemente. Ricordava una
francese che al vederlo aveva esclamato: « Bien fait!»’,
un’altra donna lo aveva chiamato «apostolo del piace
re »; niente al mondo gli dava piacere quanto le avventu
re e le fantasie sessuali.
Ma quando è tornato alla fede cristiana ha capito di
doversi distaccare dalla vita lasciva che aveva condotto
sino ad allora, e ha deciso che l’amputazione del pene
avrebbe risolto il problema.
L’asportazione chirurgica del pene è nel migliore dei
casi un’operazione pericolosa, raramente eseguita anche
dai medici: l’attacco del famoso pesciolino brasiliano co
nosciuto con il nome di candirù, che ama risalire il rivolo
dell’urina dell’uomo e fermarsi nell’uretra, ed è dotato
di un anello di spine retrorse che ne impediscono la ri
mozione, è una delle rarissime circostanze in cui un me
dico esegue questa operazione, definibile come penecto-
mia. Deve essere coraggioso, temerario e disperato l’uo
mo che vorrà eseguire un’autopenectomia asportando il
proprio organo, tanto più se l’operazione viene fatta in
ambiente non sterile e con un temperino.
Tra i suoi molti privilegi, come abbiamo visto, il dot
tor Minor, diversamente da ogni altro paziente di Broad
moor, aveva avuto dal sovrintendente il permesso di te
nere un temperino. Da molto tempo ormai aveva cessa
to di essergli utile: poche erano le occasioni in cui dove
va tagliare le pagine intonse di una prima edizione, che
era il motivo per cui inizialmente lo aveva richiesto. Ora
lo teneva in tasca, come farebbe una qualsiasi persona
normale nel mondo esterno. Tranne il fatto che Minor
208
non era in alcun modo normale; e in quel momento il
bisogno di avere un coltello nasceva per lui da un moti
vo insolito e impellente.
Era disperatamente sicuro che fosse il suo pene ad a-
verlo indotto a compiere tutti gli atti disgustosi che ave
vano dominato la sua vita. I suoi continui appetiti sessua
li, se non avevano origine nel pene, ne venivano quanto
meno appagati. Nel mondo delle sue fissazioni sentiva
di non avere alternativa se non asportarlo. Era un medi
co, naturalmente, e quindi più o meno sapeva quello
che stava facendo.
E così, quel mercoledì mattina affilò il coltello su una
pietra abrasiva. Strinse una sottile cordicella alla base
del membro, in modo che facesse da legatura e chiudes
se i vasi sanguigni; aspettò per una decina di minuti che
il lume delle vene e delle arterie si rimarginasse bene e
poi, con un unico gesto fulmineo che molti preferireb
bero non immaginare, tagliò di netto il pene a qualche
centimetro dalla base.
Gettò nel fuoco l’oggetto del peccato. Allentò la cor
dicella e vide che, come aveva previsto, non c’era quasi
traccia di sangue. Restò per qualche tempo sdraiato,
per assicurarsi che non ci fossero emorragie; poi, quasi
come se niente fosse, scese al piano terra del blocco 2 e
dalla porta chiamò l’ausiliario. La sua esperienza gli in
segnava che a questo punto sarebbe probabilmente so
praggiunto lo shock, e riteneva di dover essere ricovera
to nell’infermeria del manicomio, come infatti ordina
rono gli sbalorditi medici di Broadmoor.
Vi rimase per quasi un mese; ma nel giro di pochi
giorni già esibiva il suo vecchio carattere litigioso e si la
mentava per il rumore che facevano gli operai, anche se
il giorno che aveva scelto per lamentarsi era una dome
nica, quando gli operai erano tutti a casa.
Il pene guarì gradualmente, lasciando un piccolo
moncone che permetteva a Minor di urinare, ma che,
con sua probabile soddisfazione, risultò essere del tutto
inutile come organo sessuale. Il problema era risolto: la
209
divinità sarebbe stata soddisfatta, non ci sarebbero più
stati sollazzi di quella natura. Nel suo rapporto, il medi
co si professò sbigottito all’idea che qualcuno avesse a-
vuto tanto sangue freddo da operare su se stesso una
mutilazione così straordinaria.
219
11
POI, SOLO I MONUMENTI
237
POST SCRIPTUM
241
NOTA DELL’AUTORE
245
RINGRAZIAMENTI
252
LETTURE CONSIGLIATE
255
TRADUZIONE DEI TESTI IN ESERGO
PREFAZIONE
Mysterious
1. Colmo o carico di mistero; avvolto nel mistero; celato
alla conoscenza o alla comprensione umana; impossibile o
difficile da spiegare, risolvere, o scoprire; di origine, natura,
o scopo oscuri.
CAPITOLO i
Murder
1. La specie più atroce di assassinio criminale; anche, un
esempio dello stesso. Nella legge inglese (anche scozz. e a-
mer.), definito come l’uccisione, deliberata e contraria alla
legge, di un essere umano; spesso più esplicitamente omiàdio
premeditato.
In ingl. ant. la parola poteva essere applicata a qualunque
assassinio fortemente biasimato (aveva anche il significato di
« grande malvagità », « ferite mortali », « tormento »). Più stret
tamente, tuttavia, denotava l’omicidio segreto, che nell’antichi
tà germanica era il solo a essere considerato (nel senso mo
derno) un crimine, essendo l’omicidio pubblico ritenuto un
torto privato che reclamava una vendetta di sangue o una ri
257
parazione. Ancora durante il regno di Edoardo I, Britton
spiega l’anglo-fr. murdre esclusivamente come l’omicidio fel
lonesco in cui il perpetratore e la vittima sono entrambi non
identificati. La « premeditazione » che entra nella definizione
legale di omicidio non ammette (nell’esegesi moderna) una
definizione sommaria. Una persona può rendersi colpevole
di « omicidio premeditato » anche senza aver inteso la morte
della vittima, come nel caso in cui la morte sia conseguenza
di un atto contrario alla legge, se chi lo ha compiuto sapeva di
poter causare la morte altrui, o sia il frutto di traumi inflitti
per facilitare il compimento di certi reati. Per 1’« omicidio » è
essenziale che il perpetratore sia sano di mente, e (in Inghil
terra, ma non in Scozia) che la morte subentri entro un anno
e un giorno dall’atto che si presume l’abbia causata. La legge
inglese non riconosce dei gradi di colpa nell’omicidio; negli
Stati Uniti la legge distingue tra « omicidio di primo grado »
(dove non sussistono circostanze attenuanti) e « omicidio di
secondo grado ».
CAPITOLO 2
Polymath
Una persona di ampio e variegato sapere; una persona e-
dotta su vari argomenti di studio.
Philology
1. Amore per il sapere e la letteratura; lo studio della lette
ratura, in senso ampio, comprendente la grammatica, la criti
ca letteraria e l’interpretazione, il rapporto della letteratura e
dei documenti scritti con la storia, ecc.; cultura letteraria o
classica; studi raffinati.
capitolo 3
Lunatic
1. In origine, affetto dalla malattia mentale che si riteneva
ricorrere periodicamente in relazione alle fasi lunari. Nell’u
so mod., sinonimo di malato di mente; comune nel linguag-
258
gio popolare e legale, ma oggi non utilizzato dagli specialisti
come termine tecnico.
capitolo 4
Sesquipedalian
A. agg. 1. Di parole ed espressioni (da sesquipedalia verba,
«parole lunghe un piede e mezzo», in Orazio, Ars poetica,
97) : di molte sillabe.
B. s. 1. Cosa o persona alta o lunga un piede e mezzo.
2. Parola di molte sillabe.
capitolo 5
Elephant
1. Enorme quadrupede dell’ordine dei pachidermi, con
lunghe zanne ricurve in avorio, e un organo prensile o pro
boscide. Delle molte specie un tempo diffuse in tutto il mon
do, Gran Bretagna compresa, oggi solo due sopravvivono,
quella indiana e quella africana; gli appartenenti alla prima
(i più grandi animali terrestri esistenti) sono spesso utilizzati
come bestie da carico, e in guerra.
capitolo 6
Bedlam
Riferito all’ospedale di St. Mary of Bethlehem a Londra,
fondato come monastero nel 1247, con lo scopo specifico di
ricevere e intrattenere il vescovo, i canonici, ecc. di Santa Ma
ria di Betlemme, la chiesa madre, ogni volta che venivano in
Inghilterra. Nel 1330 viene citato come « un ospedale », e nel
1402 come un ospedale per pazzi (Timbs); nel 1346 venne
messo sotto la protezione della città di Londra e, con la sop
pressione dei monasteri, ceduto al sindaco e ai cittadini, e nel
1547 venne legalmente costituito come regia fondazione per
259
l’accoglienza dei pazzi. Di qui l’uso moderno, di cui compa
iono degli esempi all’inizio del Cinquecento.
2. L’ospedale di St. Mary of Bethlehem, utilizzato come
struttura per l’accoglienza e la cura di persone mentalmente
squilibrate; in origine situato a Bishopsgate, nel 1676 venne
ricostruito nelle vicinanze delle antiche mura di Londra, e
nel 1815 trasferito a Lambe th. Jacko Tomo'Bedlam: un pazzo.
3. Per estensione: ospedale psichiatrico, manicomio.
capitolo 7
Catchword
1. Tipogr. La prima parola della pagina seguente inserita
nell’angolo inferiore destro di ogni pagina di un libro, al di
sotto dell’ultima riga. (Ormai usato raramente).
2. Una parola posizionata in modo da colpire l’occhio o
attirare l’attenzione; in partie, a. la parola posta all’inizio di
ciascuna voce nei dizionari o simili.
capitolo 8
Poor
1.1. Che ha pochi beni materiali, o non ne ha affatto; privo
dei mezzi che forniscono le comodità, o le necessità della vita;
bisognoso, indigente, misero; in partie, (spec, nell’uso legale)
tanto misero da dipendere da donazioni di beni o denaro per
sopravvivere. Nell’uso comune esprime vari gradi, dall’indi
genza assoluta a una condizione di ristrettezze o di disponibili
tà limitata di mezzi rispetto al proprio rango, come « un genti
luomo povero», «un professionista, un ecclesiastico, un intel
lettuale, un politico povero», ecc. Il contrario di ricco, o bene
stante. Ipoveri*, la gente povera come classe sociale: spesso con
connotazione di ceto o classe sociale umile.
6. Tale, o in circostanze tali, da suscitare compassione o
pietà; sfortunato, sventurato. Ora principalmente colloq.
In molte zone dell’Inghilterra abitualmente detto dei co
noscenti morti = fu, defunto.
260
CAPITOLO 9
Dénouement
Scioglimento; in partie, lo scioglimento finale degli intrecci
della trama di un’opera teatrale, di un romanzo ecc.; la cata
strofe; in senso traslato, la soluzione finale o l’esito di una si
tuazione complicata, di una difficoltà, o di un mistero.
capitolo io
Masturbate
Una vecchia tesi considerava la parola un composto di ma
nus, mano, e stuprare, stuprare; di qui le forme etimologiz
zanti MANUSTUPRATION, MASTUPRATE, -ATION, Usate da alcu
ni scrittori ingl. Intr. e rifl. Praticare la masturbazione.
CAPITOLO 11
Diagnosis
1. Med. Determinazione dell’origine di una condizione di
malattia; identificazione di una malattia attraverso l’analisi
accurata dei sintomi e dell’anamnesi; anche l’opinione (e-
spressa formalmente) derivante da tale analisi.
POST SCRIPTUM
Memorial
1. Che conserva la memoria di una persona o di una cosa.
3. Ciò che permette di conservare la memoria di una per
sona, di una cosa, o di un evento, come un monumento.
261
NOTA DELL’AUTORE
Coda
Un passaggio di carattere più o meno indipendente intro
dotto dopo l’esecuzione delle parti essenziali di un movimen
to, in modo da formare una conclusione più definita e soddi
sfacente.
RINGRAZIAMENTI
A cknowledgment
1. L’atto di riconoscere, confessare, ammettere o concede
re; confessione, ammissione.
5. Espressione di gratitudine per un dono o un beneficio
ricevuti, o per un messaggio; riconoscenza grata, cortese o
debita.
6. Per estensione, il segno tangibile con cui viene accettata
una cosa ricevuta; qualcosa che viene dato o fatto in cambio
di un favore o di un messaggio, oppure la comunicazione for
male dell’awenuto ricevimento.
262
LA COLLANA DEI CASI
VOLUMI pubblicati:
J°o