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Simon Winchester

IL PROFESSORE
E IL PAZZO

Adelphi
Nel cuore di quella grande impresa dello
spirito moderno che fu la redazione del-
l’Oxford English Dictionary è nascosta da sem­
pre ima storia straordinaria. Il primo a sco­
prirla, e in parte a viverla, fu il professor
James Murray, anima e responsabile del
maestoso progetto. Dopo anni di lavoro,
Murray si rese infatti conto di come una
parte consistente dei lemmi - che qualsiasi
«letterato» poteva redigere, su base volon­
taria - arrivassero alla redazione da un uni­
co posto in Inghilterra, e recassero in calce
sempre la stessa firma: «W.C. Minor». A
questo punto Murray decise di incontrare
il suo prezioso e infaticabile collaboratore,
salvo scoprire che il luogo da cui tutte quel­
le lettere partivano era Broadmoor, e ü lo­
ro autore uno degli ospiti più in vista del te­
mibile manicomio. Sì, anni prima, per le
strade di Londra, W.C. Minor - un medico
militare reduce dalla Guerra di Secessione,
e vittima di una gravissima sindrome para-
noide - aveva ucciso un passante, e adesso
era rinchiuso in una cella dove gli era stato
concesso di trasferire la sua collezione di li­
bri antichi. L’incontro fra questi due per­
sonaggi era già materia per un grande ro­
manzo vittoriano. A Simon Winchester, in
fondo, non è rimasto che scriverlo. Ma, d’al­
tra parte, solo lui avrebbe potuto farlo.

Di Simon Winchester, nato a Londra nel 1944


e residente oggi negli Stati Uniti, Adelphi ha
pubblicato L’uomo che amava la Cina (2010) e
Atlantico (2013). H professore e il pazzo è apparso
per la prima volta nel 1998.
LA COLLANA
DEI CASI
126
DELLO STESSO AUTORE:
Atlantico
L'uomo che amava la Cina
Simon Winchester

IL PROFESSORE
E IL PAZZO
Traduzione di Maria Cristina Leardini

ADELPHI EDIZIONI
TITOLO originale:
The Professor and the Madman
A Tale of Murder, Insanity, and the Making
of the « Oxford English Dictionary »

© 1998 SIMON WINCHESTER


All rights reserved
© 2018 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
www.adelphi.it
ISBN 978-88-459-3260-1

Anno Edizione

2021 2020 2019 2018 3 4 5 6 7 8


INDICE

Prefazione 11

1. Nel cuore della notte a Lambeth Marsh 15


2. L’uomo che insegnava il latino alle mucche 37
3. La follia della guerra 57
4. La raccolta delle figlie della terra 89
5. Come fu concepito il grande dizionario 115
6. L’intellettuale del blocco 2 129
7. Parole, parole, parole 147
8. Annulated, art, brick-tea, buckwheat 161
9. L’incontro di due menti 179
10. Il taglio più crudele 205
11. Poi, solo i monumenti 221

Post scriptum 239


Nota dell’autore 243
Ringraziamenti 'ZAl
Letture consigliate 253
Traduzione dei testi in esergo 257
IL PROFESSORE E IL PAZZO

alla memoria di G. M.
Ogni capitolo è preceduto in esergo da una voce originale dell’ Oxford
English Dictionary, La traduzione dei testi si trova al termine del volume.
PREFAZIONE

Mysterious (mistùrias), a. [f. L. mystêrium


Mystery1 + ous. Cf. F. mystérieux.]
1. Full of or fraught with mystery; wrapt in mys­
tery; hidden from human knowledge or under­
standing; impossible or difficult to explain, solve,
or discover; of obscure origin, nature, or purpose.

Narra la leggenda che una delle più straordinarie


conversazioni nella storia della letteratura moderna eb­
be luogo nel 1897, in un pomeriggio tardoautunnale
freddo e brumoso, a Crowthome, un paesino nella con­
tea del Berkshire.
Uno degli interlocutori era nientemeno che il profes­
sor James Murray, direttore editoriale dell’ Oxford En­
glish Dictionary. Quel giorno egli aveva percorso ottanta
chilometri in treno da Oxford per incontrare un perso­
naggio enigmatico, il dottor William Chester Minor, uno
dei più prolifici tra le migliaia di collaboratori volonta­
ri le cui fatiche costituivano una colonna portante della
creazione del dizionario.
Da quasi un ventennio questi due uomini corrispon­
devano regolarmente sulle più sottili questioni di lessi­
cografia inglese, ma non si erano mai incontrati. Ogni
volta, sembrava che il dottor Minor non volesse o non
potesse lasciare la sua casa di Crowthorne, che non voles­
se recarsi a Oxford. Non dava mai alcun tipo di giustifi­
cazione, né faceva altro se non esprimere il proprio ram­
marico.
Il professor Murray, tuttavia, che dal canto suo riusci­
va a liberarsi solo di rado dalle incombenze del lavoro
nel quartier generale del suo dizionario, il famoso Scrip­
torium di Oxford, desiderava ardentemente e da lungo
tempo incontrare e ringraziare questo misterioso colla­
boratore che tanto stuzzicava la sua curiosità. E ancor

11
più verso la fine degli anni Novanta, quando ormai il
dizionario si avviava al compimento della prima metà:
piovevano riconoscimenti ufficiali su tutti i suoi creato­
ri, e Murray voleva essere sicuro che a ogni singola per­
sona coinvolta, anche a quelle così palesemente schive
come il dottor Minor, venisse riconosciuto il prezioso
lavoro che aveva svolto. Pensò dunque di fargli visita.

Una volta presa la decisione, gli telegrafò le sue inten­


zioni, aggiungendo che gli sarebbe stato più comodo
prendere il treno che arrivava alla stazione di Crowthome
(allora conosciuta, a dire il vero, come la stazione del Wel­
lington College, in quanto serviva la famosa scuola ma­
schile che sorgeva in quel paese) subito dopo le due di un
certo mercoledì pomeriggio di novembre. Il dottor Mi­
nor mandò un telegramma a giro di posta per dire che lo
attendeva con molto piacere e che sarebbe stato il benve­
nuto. Durante il viaggio da Oxford Murray trovò bel tem­
po e treni in orario; tutto, insomma, prometteva bene.
Alla stazione ferroviaria c’erano ad attenderlo un luci­
do landò e un cocchiere in livrea, che insieme a lui riper­
corsero a ritroso i sentieri delle campagne del Berkshire.
Dopo una ventina di minuti la carrozza svoltò in un lun­
go viale fiancheggiato da alti pioppi e infine si fermò da­
vanti a un edificio di mattoni rossi, imponente e alquanto
minaccioso. Un servitore dal fare solenne accompagnò il
lessicografo al piano di sopra, in uno studio tappezzato di
libri dove, dietro un’immensa scrivania di mogano, sede­
va un uomo di indubbia importanza. Il professor Murray
fece un inchino formale e si lanciò nel breve discorso di
saluto che tante volte aveva provato:
« Buon pomeriggio a voi, signore. Sono il professor
James Murray della Philological Society di Londra, di­
rettore editoriale deW Oxford English Dictionary. È un ve­
ro onore e un vero piacere fare finalmente la vostra co­
noscenza, perché voi siete senza dubbio il mio più assi­
duo collaboratore, il dottor W.C. Minor, vero? ».
12
Ci fu una breve pausa, un’aria di momentaneo e reci­
proco imbarazzo. Un orologio ticchettava rumorosa­
mente. Si udirono passi attutiti neU’ingresso. Un lonta­
no sbattere di chiavi. E poi l’uomo dietro la scrivania si
schiarì la voce e parlò:
« Me ne rincresce, signore, ma non sono io. Non è af­
fatto come pensate. In realtà io sono il direttore del ma­
nicomio criminale di Broadmoor. Il dottor Minor è qui,
senza dubbio. Ma è un detenuto. E ricoverato da più di
vent’anni. E il nostro paziente di più antica data».

Benché i documenti governativi ufficiali che riguarda­


no questo caso siano segreti, e siano rimasti sotto chiave
per più di un secolo, mi è stato recentemente permesso
di vederli. Ciò che segue è la storia strana, tragica e tutta­
via spiritualmente edificante che essi svelano.

13
1
NEL CUORE DELLA NOTTE A LAMBETH MARSH

Murder (nre-jdai), sb. Forms: a. i morpor, -ur,


3^4 morire, 3-4, 6 murthre, 4 myrjjer, 4-6
murthir, morther, 5 Se. murthour, murthyr, 5-6
murthur, 6 mwrther, Se. morthour, 4-9 (now dial.
and Hist, or arch.) murther; ft. 3-5 murdre, 4-5
moerdre, 4-6 mordre, 5 moordre, 6 murdur, mour-
dre, 6- murder. [OE. mordor neut. (with pl. of
masc. form morpras) = Goth, maurpr neut.:-
OTeut. *wwr/?rom:-pre-Teut. *mrtro-m, f. root
*mer-\ mor-’, mr- to die, whence L. morì to die,
mors (morti-) death, Gr. popxôç, ftporôç mortal,
Skr. mr to die, marò masc., mrti fem., death, mòr­
ta mortal, OSI. mïrëti, Lith. mirti to die, Welsh
marw, Irish marp dead.
The word has not been found in any Teut. lang,
but Eng. and Gothic, but that it existed in Conti­
nental WGer. is evident, as it is the source of OF.
murdre, murtre (mod. F. meurtre) and of med. L.
mordrum, murdrum, and OHG. had the derivative
murdren Murder v. All the Teut. langs, exc.
Gothic possessed a synonymous word from the
same root with different suffix: OE. mord neut.,
masc. (Murth1), OS. mord neut., OFris. morth,
mord neut., MDu. mort, mord neut. (Du. moord),
OHG. mord (MHG. mort, mod. G. mord), ON.
mord neut.:-OTeut. *wwr/?o-:-pre-Teut. *mrto-.
The change of original d into d (contrary to the
general tendency to change d into d before syllab­
ic r) was prob, due to the influence of the AF. mur­
dre, moerdre and the Law Latin murdrum.
1. The most heinous kind of criminal homicide;
also, an instance of this. In English (also Sc. and
U.S.) Law, defined as the unlawful killing of a hu­
man being with malice aforethought; often more
explicitly wilful murder.
15
In OE. the word could be applied to any homi­
cide that was strongly reprobated (it had also the
senses ‘greatwickedness’, ‘deadly injury’, ‘torment’).
More strictly, however, it denoted secret murder,
which in Germanic antiquity was alone regarded as
(in the modem sense) a crime, open homicide being
considered a private wrong calling for blood-re­
venge or compensation. Even under Edward I, Brit­
ton explains the AF. murdre only as felonious homi­
cide of which both the perpetrator and the victim
are unidentified. The ‘malice aforethought ’ which
enters into the legal definition of murder, does not
(as now interpreted) admit of any summary defini­
tion. A person may even be guilty of ‘wilful murder’
without intending the death of the victim, as when
death results from an unlawful act which the doer
knew to be likely to cause the death of some one, or
from injuries inflicted to facilitate the commission
of certain offences. It is essential to ‘murder’ that
the perpetrator be of sound mind, and (in England,
though not in Scotland) that death should ensue
within a year and a day after the act presumed to
have caused it. In British law no degrees of guilt are
recognized in murder; in the U.S. the law distin­
guishes ‘murder in the first degree’ (where there are
no mitigating circumstances) and ‘murder in the
second degree’.

Nella Londra vittoriana, persino in un posto tanto


malfamato e notoriamente infestato dal crimine come
Lambeth Marsh, il rumore di colpi d’arma da fuoco era
un evento rarissimo. Lambeth Marsh era un luogo sini­
stro, un guazzabuglio di baracche e peccato che si ac­
quattava fosco e minaccioso sulle rive del Tamigi, pro­
prio di fronte a Westminster; ben pochi londinesi ri­
spettabili avrebbero mai ammesso di esservisi avventura­
ti. Era inoltre una parte della città decisamente violenta:
a Lambeth si appostavano i briganti, una volta c’era sta-
16
ta una serie di strangolamenti, e in ogni vicolo affollato
c’erano borseggiatori della peggior specie. Fagin, Bill
Sikes e Oliver Twist sarebbero stati perfettamente a pro­
prio agio nella Lambeth vittoriana: era la Londra di-
ckensiana all’ennesima potenza.
Ma non era un posto per uomini armati di pistola. Ai
tempi del primo ministro Gladstone, il criminale arma­
to era un fenomeno poco conosciuto a Lambeth, e an­
cor meno in tutta la vastità metropolitana di Londra. Le
armi da fuoco erano costose, ingombranti, complicate
da usare, diffìcili da nascondere. Allora, e ancora oggi,
l’uso di un’arma del genere in un’azione criminale era
considerato in qualche modo un atto poco britannico,
qualcosa di cui scrivere e da registrare fra gli eventi rari.
« Fortunatamente » proclamava un compiaciuto edito­
riale del foglio settimanale di Lambeth « in questo pae­
se non abbiamo alcuna esperienza del reato di “omici­
dio a mano armata”, tanto comune negli Stati Uniti ».
E così, il 17 febbraio 1872, quando una breve scarica
di tre colpi di revolver risuonò poco dopo le due di un
sabato notte rischiarato dalla luna, quel rumore fu inu­
sitato, inaudito, sconvolgente. Le tre esplosioni (forse
quattro) furono forti, molto forti, e riecheggiarono
nell’aria fredda, umida e velata della notte. Vennero u-
dite (e, considerata la loro rarità, solo per caso imme­
diatamente riconosciute) da un poliziotto giovane e ze­
lante di nome Henry Tarrant, allora assegnato alla divi­
sione L del comando di polizia di Southwark.
Gli orologi avevano da poco battuto le due, avrebbe
spiegato in seguito il suo verbale; lui stava svolgendo
con la consueta flemma gli incarichi del turno di notte:
camminava lento sotto gli archi del viadotto vicino alla
stazione ferroviaria di Waterloo, scuoteva le serrature
dei negozi, e malediceva il freddo che lo gelava sin nel­
le ossa.
Quando udì gli spari, Tarrant usò il fischietto per al­
lertare i colleghi che sperava fossero di pattuglia nelle
vicinanze, e iniziò a correre. In pochi secondi aveva già
17
attraversato il labirinto delle stradine misere e scivolose
di quello che ai tempi veniva ancora considerato un sob­
borgo ed era sbucato vicino al fiume, sull’ampia spiana­
ta di Belvedere Road, da cui era sicuro che fossero venu­
ti i colpi.
Due poliziotti, Henry Burton e William Ward, senti­
rono il fischio acuto e si precipitarono sulla scena. Secon­
do il suo verbale, Burton si slanciò in direzione dell’eco
di quel suono e si imbattè nel suo collega Tarrant, che a
quel punto stava trattenendo un uomo come per arre­
starlo. « Presto! » gridò Tarrant. « Correte sulla strada: è
stato colpito un uomo! ». Burton e Ward corsero verso
Belvedere Road e in pochi secondi trovarono il corpo im­
mobile di un uomo morente. Si inginocchiarono, e dei
passanti notarono che avevano scagliato via casco e guan­
ti e stavano curvi sulla vittima.
C’era del sangue che si allargava sul marciapiede,
macchiando un punto che per molti mesi a venire sa­
rebbe stato descritto dai giornali londinesi più sensazio­
nalisti come il luogo esatto di un crimine orrendo, di
Un FATTO TERRIBILE, di UH CASO ATROCE, di UD VILE O-
MICIDIO.
«La tragedia di Lambeth»: così i giornali giunsero
infine a chiamarla, come se la semplice esistenza di
Lambeth non fosse già in sé qualcosa di simile a una
tragedia. E tuttavia questo fu un avvenimento davvero
insolito, anche per gli standard molto bassi degli abitan­
ti di Lambeth. Poiché, sebbene il luogo dove era avve­
nuto l’assassinio fosse stato negli anni testimone di mol­
ti strani episodi, del genere narrato con dovizia di parti­
colari nei romanzacci gialli da quattro soldi, proprio
questo dramma doveva dare inizio a una catena di con­
seguenze assolutamente senza precedenti. E mentre al­
cuni aspetti di questo crimine e dei suoi strascichi si sa­
rebbero rivelati tristi e quasi incredibili, non tutti, come
dimostrerà questo resoconto, sarebbero risultati total­
mente tragici. Anzi.
18
Ancora oggi Lambeth è una zona della capitale bri­
tannica singolarmente sgradevole, del tutto anonima,
stretta tra l’ampio ventaglio di strade e linee ferroviarie
che portano i pendolari delle contee meridionali den­
tro e fuori dal centro cittadino. Vi sorgono la Royal Fes­
tival Hall e il Southbank Centre, costruiti sui terreni del­
la fiera organizzata nel 1951 per risollevare gli animi
dei londinesi, provati dal razionamento dei viveri e ri­
dotti allo stremo. Per il resto, è un posto sgradevole e
senza carattere: file di caseggiati che sembrano prigioni
dove sono ospitati ministeri governativi minori, il quar­
tier generale di una compagnia petrolifera, frustato cru­
damente dai venti invernali, pochi pub senza importan­
za, qualche edicola, e l’opprimente presenza della sta­
zione di Waterloo (recentemente ampliata con il termi­
nal per gli espressi del tunnel sotto la Manica), che eser­
cita una cupa attrazione magnetica su tutta la zona cir­
costante.
Le autorità ferroviarie di un tempo non si curarono
mai di costruire qualche hotel sontuoso vicino alla sta­
zione di Waterloo, pur avendo invece realizzato delle
strutture mostruose e lussuosissime nei pressi delle altre
stazioni londinesi, come Victoria e Paddington, e persi­
no St. Paneras e King’s Cross. Lambeth è da molti anni
una delle parti peggiori di Londra: sino a pochissimo
tempo fa, prima dell’ulteriore riqualificazione dell’area
della Festival Hall, nessun personaggio della benché mi­
nima importanza o distinzione ha mai voluto soffermar­
visi, né un viaggiatore vittoriano ai tempi delle coinci­
denze fra treno e battello, né altri, per nessuna ragione,
ai giorni nostri. Sta gradualmente migliorando, ma la
sua reputazione la perseguita.
Cento anni fa era decisamente sordida. Era ancora
bassa, paludosa e non bonificata, un gorgo acquitrinoso
di sentieri dove un triste fiumiciattolo detto Neckinger
colava nel Tamigi. Il territorio era posseduto congiunta-
mente dall’arcivescovo di Canterbury e dal duca di Cor-
novaglia, proprietari terrieri che, ricchi abbastanza per
20
diritto ereditario, non si preoccuparono mai di svilup­
parlo alla maniera dei grandi signori di Londra (Gros­
venor, Bedford, Devonshire), che crearono sulla riva
opposta del fiume piazze, palazzi e case a schiera.
Era invece una zona di magazzini, baracche e file mise­
revoli di case mal costruite. C’erano fabbriche di lucido
da scarpe (come quella dove lavorò il giovane Charles
Dickens), saponifici, bottegucce di tintori, fornaciai pro­
duttori di calce, e concerie dove per scurire le pelli si usa­
va una sostanza raccolta sulle strade ogni notte dai più
immondi tra gli indigenti del luogo: la merda di cane.
Un odore nauseante di lievito e luppolo aleggiava sul­
la zona, spandendosi dai camini del grande birrificio
Red Lion che si trovava in Belvedere Road, appena più
a nord dell’Hungerford Bridge. E questo ponte ben
rappresentava ciò che circondava tutta l’area paludo­
sa: le ferrovie, alte sopra gli acquitrini, su viadotti dove
sbuffavano e ansimavano i treni (compresi quelli della
London Necropolis Railway, la linea ferroviaria costrui­
ta per trasportare i cadaveri ai cimiteri del sobborgo di
Woking) e traballavano e sobbalzavano chilometri di va­
goni. Lambeth era considerata da tutti come una delle
zone più rumorose e sulfuree di una capitale che aveva
già una pessima reputazione per il frastuono e la spor­
cizia.
Di fatto, Lambeth Marsh era anche appena al di fuori
della giurisdizione legale sia della City sia di Westminster.
Dal punto di vista amministrativo apparteneva, almeno
fino al 1888, alla contea del Surrey, il che significava che
le leggi relativamente severe in vigore per i cittadini della
capitale non valevano più per chiunque si avventuras­
se, attraversando uno dei nuovi ponti come Waterloo,
Blackfriars, Westminster o Hungerford, nella babele di
Lambeth. Perciò il sobborgo divenne in breve noto come
luogo di baldoria e dissolutezza, un posto dove abbonda­
vano pub, bordelli e teatri osé, e dove un uomo poteva
trovare sollazzi per tutti i gusti (e malattie di ogni specie)
spendendo non più di una manciata di penny.
21
Per vedere uno spettacolo ritenuto non accettabile
dai censori di Londra, per poter bere assenzio fino alle
prime ore dell’alba, per comprare la pornografia più
ricercata giunta fresca di contrabbando da Parigi, o per
avere a disposizione una ragazza di qualsiasi età senza
preoccuparsi di essere rincorsi da un poliziotto o dai
suoi genitori, si andava «dalla parte del Surrey», come
si soleva dire, a Lambeth.

Tuttavia, come la maggior parte dei sobborghi, per la


sua economicità Lambeth attirava anche persone rispet­
tabili in cerca di casa e lavoro e, a detta di tutti, George
Merrett era fra queste. Faceva il fuochista al birrificio Red
Lion; era lì già da otto anni, reclutato nella squadra che
teneva accesi i fuochi giorno e notte per mantenere i tini
in ebollizione e trasformare l’orzo in malto. Aveva tren-
taquattro anni e viveva poco distante, nei Cornwall Cot­
tages, al numero 24 di Cornwall Road.
George Merrett, come tanti dei lavoratori più giovani
della Londra vittoriana, veniva dalla campagna, e così
pure sua moglie Eliza. Lui era originario di un villaggio
nel Wiltshire, lei del Gloucestershire. Entrambi avevano
lavorato in una fattoria e, senza la protezione di un sin­
dacato, senza la solidarietà dei loro compagni, erano
stati pagati un tozzo dì pane per svolgere lavori umilian­
ti sotto padroni spietati. Si erano incontrati a una fiera
nelle colline dei Cotswolds e avevano giurato di partire
insieme per cogliere le infinite opportunità offerte da
Londra, che si trovava ormai a sole due ore di viaggio sul
treno espresso che partiva da Swindon. Andarono a vi­
vere inizialmente nella zona settentrionale di Londra,
dove, nel 1860, nacque la loro primogenita, Clare; poi si
spostarono verso il centro della città; infine, nel 1867,
quando la famiglia era diventata ormai troppo grande e
dispendiosa e il lavoro manuale troppo scarso, si ritrova­
rono a vivere vicino alla sede del birrificio, nel laido bru­
lichio di Lambeth.
22
L’ambiente in cui viveva la giovane coppia e il loro al­
loggio sembravano usciti da uno dei disegni realizzati da
Gustave Doré nelle sue inorridite spedizioni da Parigi: un
mondo indistinto di mattoni rossi e fuliggine e ferraglie
stridenti, di casamenti ammucchiati l’uno sull’altro, di
minuscoli cortili sul retro con il gabinetto e il pentolone
per bollire il bucato e i fili per stenderlo, e ovunque
nell’aria un fetore umido e sulfureo, e quel buonumore
tipicamente londinese, grossolano, esuberante, confu­
sionario e strafottente. Se i Merrett sentivano la mancan­
za dei campi e del sidro e delle allodole, o se pensavano
che questo ideale corrispondesse veramente al mondo
che avevano lasciato, non lo sapremo mai.
Nell’inverno del 1871 George ed Eliza, come molti a-
bitanti dei quartieri più squallidi della Londra vittoria­
na, avevano già una famiglia assai consistente: sette figli,
da Clare, di quasi dodici anni, a Freddy, di uno. La si­
gnora Merrett era vicina al termine dell’ottava gravidan­
za. La loro era una famiglia povera, come quasi tutte a
Lambeth: George Merrett portava a casa ventiquattro
scellini la settimana, una ben misera somma anche per
quei tempi. Con l’affitto da pagare all’arcivescovo e il
cibo necessario per le sette (quasi otto) bocche sempre
spalancate, la loro era una vita grama davvero.
Quel sabato notte, poco prima delle due, Merrett
venne svegliato, come stabilito, da un vicino che batteva
alla finestra. Si alzò dal letto e si preparò per il turno
dell’alba. Era una mattina gelida e si vestì con le cose
più calde che aveva: un cappotto liso sopra la giacca da
lavoro, una logora camicia grigia, pantaloni di fustagno
legati alle caviglie con lo spago, calze pesanti e stivali
neri. Gli abiti non erano affatto lindi, ma doveva spalare
carbone per le successive otto ore, e non c’era da preoc­
cuparsi troppo per le apparenze.
Sua moglie ricordò poi che prima di uscire di casa a-
veva acceso un fiammifero: lo vide per l’ultima volta sot­
to una di quelle luminose lampade a gas di cui le strade
di Lambeth erano state recentemente dotate. Si distin­
23
gueva il suo fiato nell’aria fredda della notte, o forse sta­
va solo fumando la pipa, e camminava con decisione
verso la fine di Cornwall Road, per poi svoltare in Belve­
dere Road. La notte era chiara e stellata e, una volta sva­
nito il rumore dei passi di George Merrett, immersa nel
silenzio, tranne che per gli sbuffi e lo sferragliare delle
immancabili locomotive.

La signora Merrett non aveva motivo di preoccuparsi:


presumeva che, come nelle venti notti precedenti in cui
suo marito aveva fatto il turno dell’alba, sarebbe andato
tutto bene. George stava semplicemente dirigendosi co­
me al solito verso l’alto muro di cinta e i cancelli decora­
ti del birrificio dove lavorava, spalando carbone all’om­
bra del grande leone rosso che era uno dei punti di rife­
rimento meglio conosciuti di tutta Londra. Il suo incari­
co poteva anche rendere poco, ma a lavorare in un’isti­
tuzione tanto famosa quanto il birrificio Red Lion, eb­
bene, c’era di che essere orgogliosi.
Quella notte, però, George Merrett non giunse a de­
stinazione. Mentre attraversava Tennison Street, dove il
lato meridionale delle fonderie di piombo Lambeth
confinava con il muro settentrionale del birrificio, si le­
vò un grido improvviso. Un uomo gli urlava contro,
sembrava che stesse dando la caccia proprio a lui, sbrai­
tando furiosamente. Merrett ebbe paura: era qualcosa
di più di un semplice brigante - una di quelle figure si­
lenziose e minacciose che si appostano nel buio con il
volto coperto da una maschera e in mano un manganel­
lo con la punta di piombo; era qualcosa di assolutamen­
te fuori del comune, e Merrett iniziò a correre terroriz­
zato, scivolando e sdrucciolando sui ciottoli resi viscidi
dal gelo. Si guardò alle spalle: l’uomo gli stava ancora
addosso, gridando come un forsennato. Poi, cosa del tut­
to incredibile, si fermò, gli puntò contro una pistola, pre­
se la mira e sparò.
Il proiettile mancò il bersaglio, gli sibilò vicino e andò
24
a colpire il muro del birrificio. George Merrett cercò di
correre più in fretta. Chiamò aiuto. Ci fu un altro sparo.
Forse un altro ancora. E poi un ultimo sparo che colpì
10 sfortunato Merrett al collo. Cadde pesantemente
sull’acciottolato, la faccia a terra, una pozza di sangue
che si allargava intorno a lui.
Qualche istante dopo si udirono i passi dell’agente
Burton che accorreva: trovò l’uomo, lo tirò su, cercò di
fargli coraggio. L’altro poliziotto, William Ward, fermò
una vettura pubblica che passava in Waterloo Road,
un’arteria stradale ancora molto trafficata. Sollevarono
11 ferito con delicatezza, lo sistemarono sulla vettura e
ordinarono al cocchiere di portarli il più in fretta possi­
bile all’ospedale di St. Thomas, circa cinquecento me­
tri più a sud in Belvedere Road, di fronte alla residenza
londinese dell’arcivescovo. I cavalli fecero del loro me­
glio, gli zoccoli sprizzavano scintille sui ciottoli mentre
galoppavano verso l’entrata del pronto soccorso.
Fu una corsa inutile. I dottori visitarono George Mer­
rett e cercarono di chiudergli la ferita aperta sul collo.
Ma la carotide era stata recisa e la spina dorsale spezzata
da due proiettili di grosso calibro.
L’uomo che aveva perpetrato questo crimine senza
precedenti era già stato arrestato, pochi minuti dopo a-
verlo commesso, dall’agente Tarrant. Era un uomo alto,
ben vestito, di « aspetto militare », dal portamento eret­
to e l’aria altera, secondo la descrizione del poliziotto.
Nella mano destra teneva un revolver ancora fumante.
Non fece alcun tentativo di fuga: restò fermo e silenzio­
so mentre il poliziotto gli si avvicinava.
« Chi ha sparato? » chiese l’agente.
«Sono stato io» disse l’uomo, e mostrò l’arma. Tar­
rant gliela strappò di mano.
«A chi avete sparato? » gli chiese.
L’uomo indicò in direzione di Belvedere Road la
figura accasciata e immobile sotto un lampione, pro­
prio accanto al deposito del birrificio. Fece l’unica os­
servazione grottesca che la storia gli attribuisca, ma era
25
un’osservazione che, in effetti, tradiva una delle debo­
lezze che l’avrebbero segnato per tutta la vita.
« Era un uomo » disse in tono sdegnato. « Non mi cre­
derete tanto codardo da sparare a una donnai ».
A questo punto gli altri due poliziotti erano giunti sul­
la scena, come anche della gente del posto, a curiosare:
tra essi l’esattore dei pedaggi dell’Hungerford Bridge,
che sulle prime non aveva avuto il coraggio di uscire
«per timore di beccarmi una pallottola», e una donna
che si stava svestendo nella sua camera in Tennison
Street (una strada in cui evidentemente non era affatto
insolito per le donne svestirsi a qualsiasi ora). L’agente
Tarrant, indicando la vittima e ordinando ai suoi due
colleghi di vedere cosa potevano fare per lui e di impe­
dire alla folla di radunarsi, scortò il presunto assassino,
che non apriva bocca, al comando di polizia di Tower
Street.
Lungo la strada il prigioniero diventò invece piutto­
sto loquace, sebbene Tarrant lo descrivesse calmo e
controllato, e indubbiamente non in stato di ubriachez­
za. Si era trattato di un terribile incidente: aveva sparato
all’uomo sbagliato, insisteva. Stava inseguendo qualcun
altro, una persona completamente diversa. Qualcuno si
era introdotto nella sua stanza e lui lo stava semplice-
mente cacciando via, si stava difendendo, come chiun­
que aveva il sacrosanto diritto di fare.
«Non mi toccate! » esclamò, quando Tarrant gli mise
una mano sulla spalla. Ma poi, in tono un po’ più gentile,
disse al poliziotto: « Non mi avete perquisito, sapete ».
« Lo farò al comando » replicò l’agente.
« Come fate a essere certo che non ho un’altra pistola
e che non vi sparerò? ».
Il poliziotto, imperturbabile, continuando a cammi­
nare col suo passo cadenzato, gli rispose che, se vera­
mente aveva un’altra pistola, forse sarebbe stato tanto
gentile da tenersela in tasca, per il momento.
« Però ho un coltello » ribattè il prigioniero.
26
«Tenetevi in tasca anche quello» disse impassibile
l’agente.
Risultò poi che non c’erano altre pistole, ma nel cor­
so della perquisizione saltò fuori un lungo coltello da
caccia in un fodero di pelle assicurato alla cintura del­
l’uomo, dietro la schiena.
« Uno strumento chirurgico » fu la spiegazione. « Non
lo porto sempre con me ».
Tarrant, una volta completata la perquisizione, spie­
gò al sergente in ufficio che cosa era successo in Belve­
dere Road pochi istanti prima. I due poi si accinsero a
interrogare formalmente l’arrestato.

Si chiamava William Chester Minor. Aveva trentasette


anni e, come il poliziotto aveva intuito dal suo portamen­
to, era un ex ufficiale dell’esercito. Era anche un chirur­
go abilitato. Stava a Londra da meno di un anno e aveva
trovato una sistemazione in quella zona: viveva da solo in
una stanza arredata in modo semplice al primo piano
del 41 di Tennison Street. Era chiaro che non viveva in
modo tanto parco a causa di problemi finanziari, perché
in realtà era un uomo di notevolissimi mezzi. Accennò al
fatto che era venuto in questo lubrico quartiere della cit­
tà per ragioni diverse da quelle puramente economiche,
ma quali potessero essere queste ragioni non emerse nel
corso dei primi interrogatori. Verso l’alba venne tradotto
alla prigione di Horsemonger Lane con l’accusa di omi­
cidio.
Ma c’era un’ulteriore complicazione. William Minor,
si scoprì, veniva da New Haven, Connecticut. Era un uf­
ficiale di nomina nell’esercito degli Stati Uniti. Era ame­
ricano.
Questo gettava sul caso una luce del tutto diversa. Ora
si doveva avvertire l’ambasciata americana. E così, in tar­
da mattinata, nonostante fosse sabato, il ministero degli
Esteri notificò formalmente all’ambasciatore degli Stati
Uniti a Londra che un medico del loro esercito era stato
27
arrestato e trattenuto con l’accusa di omicidio. La spara­
toria di Belvedere Road, a Lambeth, già un caso famoso
per la sua rarità, ora era diventata un incidente intema­
zionale.
I giornali britannici, sempre ansiosi di accanirsi sui
rivali d’oltreoceano, batterono proprio su questo parti­
colare aspetto della storia.
« La scarsa considerazione in cui gli americani tengo­
no la vita umana » deplorava il « South London Press »
può essere vista come uno dei più significativi elementi
di diversità tra loro e gli inglesi, e questo ne è l’esempio
più sconvolgente, arrivato sin nelle nostre case. La vitti­
ma di un errore crudele ha lasciato alla misericordia del
mondo una moglie in avanzato stato di gravidanza e sette
figli, la maggiore dei quali appena dodicenne. E conso­
lante poter scrivere che persone caritatevoli si stanno già
facendo avanti con solerzia in soccorso della vedova e de­
gli orfani, ed è auspicabile con tutto il cuore che chiun­
que possa offrire anche soltanto pochi spiccioli faccia del
proprio meglio per aiutare le vittime di questa terribile
tragedia. Il viceconsole generale americano, con la massi­
ma sollecitudine, ha aperto una sottoscrizione e lanciato
un appello agli americani presenti a Londra affinché fac­
ciano quanto è loro possibile per alleviare l’atroce dolore
causato dal gesto di un connazionale.
I detective di Scodand Yard vennero tempestivamen­
te messi al lavoro sul caso: all’improvviso era diventato
fondamentale far giustizia su entrambe le coste dell’A-
dantico. Poiché Minor, silenzioso nella sua cella, non
collaborava se non per dire che non conosceva la vitti­
ma e che l’aveva uccisa per errore, essi iniziarono a inve­
stigare su ogni possibile movente. Così facendo, portaro­
no alla luce le origini di una vita tragica e straordinaria.

William Minor era arrivato in Inghilterra nell’autun­


no precedente perché era malato: soffriva di un distur­
28
bo che, come dissero alcuni giornali, era causato alme­
no in parte « dalla dissolutezza della sua vita privata ».
L’avvocato successivamente assegnatogli per la difesa
lasciò intendere che lo scopo del viaggio in Inghilterra
era stato quello di calmare una mente «infiammata»,
per usare una parola cara ai medici vittoriani. Si disse
che aveva subito « una lesione cerebrale » e vennero a-
vanzate molte ipotesi sulle possibili cause. A quanto rife­
rì il suo avvocato, era stato in manicomio negli Stati Uni­
ti ed era in congedo dall’esercito per motivi di salute.
Veniva descritto da coloro che lo avevano incontrato co­
me « un gentiluomo di buona cultura e di grande talen­
to, ma con abitudini eccentriche e dissolute ».
Inizialmente si era stabilito al Radley’s Hotel, nel
West End, da dove si spostava in treno verso le principa­
li città europee. Aveva portato con sé una lettera di un
amico dell’università di Yale che lo raccomandava a
John Ruskin, l’illustre artista e critico britannico. I due
si erano incontrati una volta e Minor era stato incorag­
giato a portare con sé gli acquerelli durante i suoi viaggi
e a dipingere per distendere i nervi.
La polizia riteneva che Minor si fosse trasferito dal
West End poco dopo il Natale del 1871 e si fosse stabilito
a Lambeth: una scelta molto dubbia per un uomo della
sua estrazione e della sua educazione, se non fosse che,
come egli stesso ammise più tardi, gli garantiva l’accesso
a donne di facili costumi. Le autorità americane comu­
nicarono a Scotìand Yard che avevano già dei dati in ar­
chivio sul suo comportamento come ufficiale dell’eser­
cito: vantava un lungo passato di frequentatore dei bas­
sifondi delle città nelle quali veniva inviato, in particola­
re New York, dove era stato assegnato a Governors Is­
land e dove, nei giorni di permesso, andava regolarmen­
te in alcuni dei bar e dei music-hall più sordidi di Man­
hattan. Aveva, si diceva, prodigiosi appetiti sessuali. A-
veva contratto almeno una volta tutte le malattie vene­
ree, e a un esame medico condotto nella prigione di
Horsemonger Lane risultò che anche allora era affetto
29
da gonorrea. L’aveva presa, disse, da una prostituta del
luogo e aveva cercato di curarla iniettandosi vino bianco
del Reno nell’uretra, un tentativo gustosamente creati­
vo che, come prevedibile, era fallito.
La sua stanza, comunque, non tradiva nulla di questo
suo lato più abietto. I detective riferirono di avervi trova­
to i suoi pesanti bauli-armadio in cuoio profilati in otto­
ne, una grande quantità di denaro, principalmente va­
luta francese in banconote da venti livre, un orologio
d’oro con catena, alcuni proiettili Eley per la pistola,
l’abilitazione come chirurgo e la lettera di nomina a ca­
pitano nell’esercito americano. C’erano anche la lette­
ra di presentazione indirizzata a Ruskin e un gran nu­
mero di acquerelli, chiaramente eseguiti dallo stesso
Minor. Tutti quelli che li videro li giudicarono della mi­
gliore qualità: vedute di Londra, prevalentemente, spe­
cie dalle colline dietro il Crystal Palace.
La padrona di casa, la signora Fisher, disse che era stato
un inquilino perfetto, ma strano. Di tanto in tanto se ne
andava per diversi giorni e, quando tornava, con una cer­
ta ostentazione lasciava in giro le ricevute degli alberghi
(la signora Fisher ricordava, tra gli altri, il Charing Cross e
il Crystal Palace) in modo che tutti le vedessero. Sembra­
va, disse, un uomo molto ansioso. Spesso ordinava di spo­
stare i mobili nella sua stanza. Sembrava anche spaventato
dall’idea che qualcuno vi si potesse introdurre.
Aveva una preoccupazione in particolare, disse la si­
gnora Fisher alla polizia: il dottor Minor, a quanto pare­
va, aveva terrore degli irlandesi. Le chiedeva incessante­
mente se aveva dei domestici irlandesi in casa e, se c’era­
no, pretendeva che fossero licenziati. Aveva forse degli
ospiti o degli inquilini irlandesi? Lui doveva sempre es­
serne tenuto al corrente, ma era una possibilità che a
Lambeth (con la sua vasta popolazione di lavoratori ir­
landesi occasionali, reclutati nelle miriadi di cantieri e-
dili di Londra) era in effetti sin troppo realistica.

30
E tuttavia fu soltanto al processo per omicidio, svolto­
si all’inizio di aprile, che le vere proporzioni della ma­
lattia del dottor Minor divennero nettamente evidenti.
Una ventina di testimoni si presentò in tribunale davan­
ti al presidente della Corte d’assise di Kingston (Lam­
beth era ancora giurisdizione del Surrey, non di Lon­
dra) e tre persone raccontarono a un’aula stupefatta ciò
che sapevano dell’infelice capitano.
La polizia di Londra, tanto per cominciare, ammise
che in un certo modo egli era già una loro conoscenza,
e che già qualche tempo prima dell’omicidio sapevano
di avere a che fare con un soggetto difficile. Un detective
di Scotland Yard di nome Williamson testimoniò che
Minor era andato al comando tre mesi prima, denun­
ciando il fatto che degli uomini entravano nella sua
stanza di notte cercando di avvelenarlo. Lui pensava che
si trattasse di membri della società segreta dei feniani,
nazionalisti irlandesi militanti, intenzionati a introdursi
nel suo alloggio nascondendosi fra le travi del tetto o
entrando di soppiatto dalle finestre.
Aveva fatto analoghe dichiarazioni parecchie volte,
disse Williamson; poco prima di Natale Minor aveva
persino convinto il commissario di polizia di New Ha­
ven a scrivere una lettera a Scodand Yard in cui ribadiva
i timori nutriti dall’americano. Anche dopo il trasferi­
mento in Tennison Street, il medico si era tenuto in
contatto con Williamson: il 12 gennaio 1872 gli aveva
scritto di essere stato drogato e di temere che i feniani
stessero elaborando un piano per ucciderlo, facendo
passare la sua morte per un suicidio.
Un classico grido di aiuto, si potrebbe pensare oggi.
Ma l’esasperato sovrintendente Williamson non fece
niente e non ne parlò con nessuno: scrisse soltanto sul
suo registro un appunto dal tono un po’ sprezzante se­
condo il quale Minor era senza dubbio (e questa fu la
prima volta che l’espressione venne usata per descrivere
lo sventurato americano) malato di mente.
Poi ci fu un testimone che aveva qualcosa di molto
31
singolare da riferire sul dottor Minor, che aveva tenuto
sotto osservazione nel periodo in cui si trovava in custo­
dia cautelare nelle celle di Horsemonger Lane.
Il testimone, che si chiamava William Dennis, lavorava
a Londra, all’ospedale per i malati di mente di St. Mary
of Bethlehem (un posto tanto orribile che il suo nome ci
ha lasciato la parola bedlam, manicomio o pandemonio),
dove tra i suoi doveri rientrava la sorveglianza dei pazien­
ti-prigionieri durante la notte, per assicurarsi che si com­
portassero bene e che non cercassero di beffare la giusti­
zia suicidandosi. Era stato assegnato alla prigione di
Horsemonger Lane a metà febbraio, disse, per sorveglia­
re le attività notturne di quello strano ospite. L’aveva sor­
vegliato, testimoniò, per ventiquattro notti.
Era stata un’esperienza estremamente singolare e in­
quietante, raccontò Dennis alla giuria. Ogni mattina il
dottor Minor si svegliava e lo accusava di essere stato as­
soldato da qualcuno con lo scopo specifico di molestarlo
mentre dormiva. Poi sputava, decine di volte, come se
cercasse di rimuovere qualcosa che gli fosse stato messo
in bocca. Quindi balzava giù dal letto e vi frugava sotto a
tentoni, a caccia di persone che, insisteva, vi si erano na­
scoste con l’intenzione di importunarlo. Dennis aveva
detto al suo superiore, il medico della prigione, di essere
assolutamente certo che William Minor fosse pazzo.
Dal verbale deH’interrogatorio della polizia emerse la
prova di un movente immaginario per il crimine, e con
esso un’ulteriore conferma dell’evidente instabilità
mentale del dottor Minor. Ogni notte, Minor aveva rac­
contato ai suoi inquirenti, degli uomini sconosciuti,
spesso di bassa estrazione sociale, spesso irlandesi, en­
travano nella sua stanza mentre lui dormiva. Lo maltrat­
tavano, gli facevano violenza in modi che non poteva
nemmeno descrivere. Da mesi ormai, da quando questi
visitatori notturni avevano iniziato a tormentarlo, aveva
preso l’abitudine di dormire con la sua Colt d’ordinan­
za, caricata con cinque cartucce, sotto il cuscino.
La notte in questione si era svegliato di sobbalzo, sicu­
32
ro che ci fosse un uomo nell’ombra, ai piedi del letto.
Aveva afferrato la pistola: l’uomo l’aveva visto e se l’era
data a gambe, precipitandosi giù per le scale e fuori di
casa. Minor lo aveva inseguito il più velocemente possi­
bile e, quando aveva visto un uomo correre lungo Belve­
dere Road, certo che fosse lui l’intruso, aveva gridato,
poi fatto fuoco per quattro volte, finché l’aveva colpito e
l’uomo era rimasto immobile a terra, ormai incapace di
fargli altro male.
La Corte ascoltava in silenzio. La padrona di casa
scosse il capo. Nessuno poteva entrare in casa sua di not­
te senza chiave, disse. Tutti avevano il sonno molto leg­
gero; non ci potevano essere intrusi.
A definitiva conferma la Corte ascoltò poi il fratella­
stro del prigioniero, George Minor. Era stato un incu­
bo, disse George, avere suo fratello William in giro per
casa a New Haven. Tutte le mattine accusava qualcuno
di aver cercato di introdursi nella sua stanza durante la
notte per molestarlo. Lo perseguitavano. Uomini mal­
vagi cercavano di ficcargli in bocca dei biscotti metallici
ricoperti di veleno. Facevano lega con altri che si na­
scondevano in soffitta e scendevano di notte, mentre lui
dormiva, per fargli cose oscene. Tutto ciò era la punizio­
ne, diceva, per un atto che era stato costretto a compie­
re mentre era nell’esercito americano. Solo andando in
Europa, diceva, sarebbe potuto sfuggire ai suoi demoni.
Avrebbe viaggiato, e dipinto, e vissuto la vita di un uomo
rispettabile amante dell’arte e della cultura - e forse i
persecutori sarebbero svaniti nella notte.
La Corte ascoltava in melanconico silenzio; il dottor
Minor, intanto, sedeva al banco degli imputati, cupo,
umiliato. L’avvocato procuratogli dal console generale
americano disse soltanto che il suo cliente, con ogni evi­
denza, era malato di mente, e che la giuria lo doveva
considerare come tale.
Il presidente della Corte annuì. Era stato un caso bre­
ve ma doloroso, essendo l’accusato un uomo di educa­
zione e cultura, uno straniero e un patriota, una figura
53
del tutto diversa da quei disgraziati che più comune­
mente stavano al banco degli imputati davanti a lui. Ma
la legge doveva essere applicata con correttezza ed equi­
tà, a prescindere dalle condizioni o dallo stato sociale
dell’imputato; e la sentenza in questa storia era in un
certo senso un finale scontato.
Da trent’anni la legge in tali casi era guidata da quelle
che erano conosciute come le norme McNaughton, co­
sì chiamate dal nome dell’uomo che, nel 1843, aveva
ucciso il segretario di Sir Robert Peel ed era stato assolto
sulla base del fatto che era tanto pazzo da non saper di­
stinguere il bene dal male. Quelle norme, che giudica­
vano la responsabilità criminale più che la colpa, dove­
vano essere applicate a questo caso, disse il presidente
alla giuria. Se erano convinti che l’imputato « non era
sano di mente » e che aveva ucciso George Merrett sotto
l’effetto di una fissazione del genere che avevano appe­
na sentito, allora dovevano fare quello che le giurie e-
rano solite fare in quel periodo straordinariamente cle­
mente della giustizia britannica: dovevano dichiarare
William Chester Minor non colpevole per motivi di in­
fermità mentale, e consentire al giudice di applicare le
sanzioni detentive che riteneva opportune e necessarie.
E fu proprio questo che fece la giuria, senza dibatte­
re, in quel tardo pomeriggio del 6 aprile 1872. Il dottor
Minor venne dichiarato legalmente innocente, per un
omicidio che tutti, lui compreso, sapevano di sua mano.
Il presidente della Corte, poi, emise l’unica sentenza
che avesse a disposizione: una sentenza occasionalmen­
te emessa ancora oggi e che ha un fascino seducente nel­
le parole, nonostante la terribile atrocità delle sue impli­
cazioni.
«Verrete custodito in luogo sicuro, dottor Minor,»
disse il giudice « sinché piacerà a Sua Maestà». Era una
decisione che avrebbe avuto conseguenze inimmagina­
bili e imprevedibili, effetti che hanno continuato a rie­
cheggiare e propagarsi in tutto il mondo letterario in­
glese sino a oggi.
34
Il ministero dell’interno prese atto brevemente della
sentenza e decise inoltre che la detenzione del dottor Mi­
nor, la quale, considerata la gravità della malattia, avreb­
be probabilmente occupato il resto della sua vita natura­
le, doveva essere scontata nel nuovo pezzo forte del siste­
ma penale britannico, un esteso complesso di edifici di
mattoni rossi situato dietro alte mura e recinzioni appun­
tite nel villaggio di Crowthome, nella regia contea del
Berkshire. Il dottor Minor doveva essere tradotto non
appena possibile dalla sua temporanea prigione nel Sur­
rey al manicomio criminale di Broadmoor.
Il dottor William C. Minor, capitano e medico nell’e­
sercito degli Stati Uniti, membro orgoglioso e reietto di
una delle famiglie più antiche e in vista del New En­
gland, d’ora in poi doveva essere formalmente chiama­
to in Gran Bretagna con il suo numero di matricola di
Broadmoor, il 742, e tenuto sotto custodia permanente
come « pazzo criminale conclamato ».

35
2
L’UOMO CHE INSEGNAVA IL LATINO
ALLE MUCCHE

Polymath (pplimæjj'), sb. (a.) Also 7 polu-


mathe. [ad. Gr. itokvpafiïiç having learnt much, f.
Ttohj- much + pad-, stem ofpavOàveiv to leam. So
F. polymaths.} A person of much or varied learning;
one acquainted with various subjects of study.
1621 Burton Anat. Mel. Democr. to Rdr.
( 1676) 4/2 To be thought and held Polumathes and
Polyhistors. a 1840 Moore Devil among Schol. 7
The Polymaths and Polyhistors, Polyglots and all
their sisters. 1855 M. Pattison Ess. I. 290 He
belongs to the class which German writers .. have
denominated ‘Polymaths’. 1897 O. Smeaton
Smollett ii. 30 One of the last of the mighty Scots
polymaths.

Philology (flip- litoti). [In Chaucer, ad. L. philo­


logia', in I7th c. prob. a. F. philologie, ad. L. phi­
lologia, a. Gr. <I>û.o),oyia, abstr. sb. from <PikôXoyoç
fond of speech, talkative; fond of discussion or
argument; studious of words; fond of learning and
literature, literary; f. «Pzâo-Philo- + Àoyoç word,
speech, etc.]
1. Love of learning and literature; the study of
literature, in a wide sense, including grammar, lit­
erary criticism and interpretation, the relation of
literature and written records to history, etc; liter­
ary or classical scholarship; polite learning.

Ci vollero più di settantanni per creare i dodici masto­


dontici volumi che formavano la prima edizione di quel­
lo che sarebbe diventato il grande Oxford English Dictio­
nary. Questo titanico capolavoro letterario dedicato alla
regina (inizialmente intitolato New English Dictionary, ma
31
infine diventato Oxford English Dictionary e da allora in
poi conosciuto familiarmente con le sue iniziali, OED) fu
portato a termine nel 1928; negli anni successivi ci furo­
no cinque supplementi e poi, mezzo secolo dopo, una
seconda edizione che integrava la prima e tutti i volumi
supplementari in una nuova serie di venti volumi. Il dizio­
nario rimane, in ogni senso, un’opera davvero monu­
mentale e, con ben poche critiche rilevanti, è tuttora con­
siderato un modello, la più autorevole di tutte le guide a
quella che, nel bene e nel male, è diventata la lingua fran­
ca del moderno mondo civilizzato.
Come l’inglese è una lingua estremamente ampia e
complessa, allo stesso modo l’OED è un’opera estrema-
mente ampia e complessa. Definisce oltre mezzo milio­
ne di parole; contiene decine di milioni di lettere e, al­
meno nelle prime versioni, parecchi chilometri di carat­
teri composti a mano. I suoi volumi enormi - ed enor­
memente pesanti - sono rilegati in tessuto blu scuro:
stampatori e grafici e rilegatori di tutto il mondo lo con­
siderano come l’apoteosi della loro arte, una creazione
bella ed elegante che risulta, alla vista e al tatto, più che
all’altezza dell’esaustività e dell’accuratezza lessicali.
Il principio informatore dell’OED, quello che lo di­
stingue dalla maggior parte degli altri dizionari, consi­
ste nel rigoroso utilizzo, per illustrare il significato di o-
gni singola parola della lingua inglese, di citazioni tratte
da fonti scritte o da altre attestazioni. La ratio soggia­
cente a questo insolito ed estenuante sistema di redazio­
ne e compilazione era allo stesso tempo ardita e sempli­
ce: raccogliendo e pubblicando una scelta di citazioni, il
dizionario forniva con un altissimo grado di precisione
tutta la gamma delle caratteristiche di ogni singola pa­
rola. Le citazioni dimostravano esattamente come era
stata usata una parola nel corso dei secoli, quali sottili
variazioni aveva subito nelle sue sfumature di significato,
nell’ortografia o nella pronuncia e, cosa forse ancor più
importante, come e più esattamente quando era entrata
per la prima volta nella lingua. Nessun altro metodo di
39
compilazione poteva fare altrettanto: solo trovando e
mostrando degli esempi si poteva esplorare l’intera gam­
ma delle trascorse possibilità di una parola.
Gli obiettivi di coloro che iniziarono il progetto negli
anni Cinquanta dell’ottocento erano arditi ed encomia­
bili, ma nei loro metodi c’erano evidenti svantaggi com­
merciali: occorreva una quantità smisurata di tempo per
costruire un dizionario fondato su questo criterio e per
tenere il passo con l’evoluzione della lingua che esso cer­
cava di catalogare, e il risultato finale era un’opera straor­
dinariamente vasta, che richiedeva di essere aggiornata
con integrazioni quasi altrettanto vaste e che ancora og­
gi, per tutte queste ragioni, resta enormemente costosa
sia da approntare sia da comprare.
Eppure è ampiamente riconosciuto che l’OED ha un
valore che va ben oltre il suo prezzo: è tuttora in stampa,
e vende ancora bene. E l’impareggiabile pietra angola­
re di ogni buona biblioteca, un’opera essenziale in qual­
siasi raccolta di testi di consultazione. E continua a esse­
re citato abitualmente (« l’OED dice... ») nei parlamen­
ti, nelle aule dei tribunali, nelle scuole, nelle aule uni­
versitarie di ogni angolo del mondo di lingua inglese e
probabilmente in innumerevoli altri luoghi.
L’OED riveste il suo ruolo con autorevole sicurezza,
anche per il tono inflessibile, vigorosamente vittoriano,
che conferisce al suo mezzo milione di definizioni. Al­
cuni accusano il linguaggio del dizionario di essere anti­
quato, ampolloso, persino arrogante. Osservate bene,
dicono a titolo di esempio, quanto i compilatori conser­
vino il loro odioso sussiego anche nel dare la definizione
di un’imprecazione tanto modesta come bloody, male­
detto: benché i curatori moderni pongano tra virgolet­
te la definizione originale del New English Dictionary —
« ormai costantemente in bocca alle classi sociali più
basse, dalle persone rispettabili è considerata “una pa­
rola esecrabile”, sullo stesso piano del linguaggio osce­
no o blasfemo, e dai giornali (nei verbali della polizia,
ecc.) viene solitamente riportata come “b—y”» -, pure
40
la definizione moderna è, per i più, troppo autoreferen­
ziale per essere efficace: «Non c’è fondamento alcuno
nella teoria » rassicura la voce « che bloody contenga al­
lusioni blasfeme, per quanto a orecchi beneducati suoni
carica di sfumature sconvenienti... ».
Sono le persone dagli «orecchi beneducati», si sup­
pone, che vedono nel dizionario qualcosa di radical­
mente diverso: che cioè lo venerano come estremo ba­
luardo dell’inglesità colta, ultima eco del valore del più
grande di tutti gli imperi moderni.
Ma persino costoro ammetteranno un certo numero
di amene eccentricità nel libro, sia nelle selezioni sia
nelle scelte editoriali relative all’ortografia. Del resto, si
è recentemente sviluppata una vera e propria industria
accademica, seppur piccola, in cui moderni studiosi
mugugnano su quelli che reputano il sessismo e il razzi­
smo dell’opera, il suo atteggiamento imperialistico pe­
dante e sorpassato. (E, a imperitura vergogna della Ox­
ford, c’è persino una parola, seppure una sola, che tutti
ammettono andò effettivamente perduta durante i sette
decenni della preparazione dell’OED; la parola, tutta­
via, venne reintegrata in un supplemento, cinque anni
dopo la pubblicazione della prima edizione).
Ci sono molti critici del genere e, con un bersaglio
tanto grande e immobile, ce ne saranno sicuramente
molti altri. E tuttavia la maggior parte di coloro che u-
sano il dizionario, a prescindere da quanto critici pos­
sano essere per principio riguardo ai suoi difetti, sem­
brano giustamente e inevitabilmente finire per ammi­
rarlo come un’opera letteraria, e al contempo meravi­
gliarsi della sua erudizione lessicografica. E un’opera che
ispira un’ammirazione vera e duratura: un lavoro im­
ponente, il più importante testo di consultazione mai
realizzato e, data l’importanza sconfinata della lingua
inglese, probabilmente il più importante che potrà
mai esistere.

41
Si può a buon diritto affermare che la storia che se­
gue ha due protagonisti. Uno è il dottor Minor, l’ufficiale
omicida degli Stati Uniti, e poi ce n’è un altro. Dire che
una storia ha due protagonisti, o tre, o dieci, è un’espres­
sione moderna molto comune e perfettamente accetta­
bile. Si dà il caso, tuttavia, che in passato si sia scatenata
una furiosa controversia lessicografica sull’uso del ter­
mine: una disputa che contribuisce a illustrare il modo
singolare e peculiare in cui è stato costruito V Oxford En­
glish Dictionary, e l’autorità sprezzante e intimidatoria di
cui dispone quando mette in mostra i muscoli.
Il termine stesso, « protagonista», se usato nel signifi­
cato generico di personaggio principale nella trama di
una storia, o in una gara, o di paladino di una causa, è
piuttosto comune. Ed è, come ci si potrebbe aspettare
per ogni termine familiare, definito in modo completo
e appropriato già nella prima edizione del dizionario
del 1928.
La voce inizia con l’abituale intestazione che indica
ortografia, pronuncia ed etimologia (deriva dal greco
npœroç che significa « primo » e aycoviorfiç che significa
« attore » o, letteralmente, « personaggio principale di
un’opera teatrale »). Segue poi l’elemento che caratteriz­
za e distingue l’OED: una serie di sei citazioni esemplifi­
cative selezionate dai curatori, all’incirca il numero me­
dio di citazioni per qualsiasi termine dell’OED, sebbene
alcuni ne meritino molte di più. I curatori le hanno sud­
divise in due accezioni.
La prima accezione, con tre fonti citate, mostra l’uso
della parola nel significato letterale di « personaggio
principale di un’opera teatrale »; le tre citazioni seguen­
ti testimoniano una sottile differenza, per effetto della
quale la parola significa « il personaggio chiave in qual­
sivoglia contesto di antagonismo », oppure « un sosteni­
tore di rilievo ... di una qualsiasi causa». Per consenso
generale questo secondo significato è il più moderno; il
primo è la versione più datata e oggi un po’ arcaica.
La più antica citazione utilizzata per illustrare il pri­
42
mo dei due significati è quella rintracciata dagli investi­
gatori-lessicografi del dizionario tra gli scritti di John
Dryden risalenti al 1671. « Mi si accusa » dice la citazione
« di fare di persone debosciate ... i miei protagonisti, ov­
vero le figure principali dell’opera teatrale ».
Dal punto di vista lessicografico questa sembra la fon­
te primaria della parola inglese, un buon indizio per cui
il termine potrebbe essere stato introdotto nella lingua
scritta proprio in quell’anno, e con ogni probabilità non
prima. (Ma l’OED non dà garanzie. Gli studiosi tedeschi,
in particolare, provano sempre una grande soddisfazio­
ne nel proclamarsi vincitori di quella gara lessicografica
informale che mira a trovare citazioni antecedenti a
quelle dell’OED. Dalle ultime stime i tedeschi, da soli,
hanno trovato ben trentacinquemila esempi in cui la ci­
tazione dell’OED non era la prima; altri, in modo meno
plateale, segnalano i loro piccoli trionfi di investigazio­
ne lessicale, e i curatori di Oxford li accettano tutti con
sdegnosa equanimità, non professando infallibilità né
monopolio).
Questa citazione di protagonist è particolarmente chia­
ra, anche perché Dryden definisce esplicitamente il si­
gnificato di un termine di nuovo conio all’interno della
frase stessa. Quindi dal punto di vista dei curatori del di­
zionario c’è il doppio beneficio di avere una data per l’o­
rigine del termine e la spiegazione del suo significato,
entrambi per mano di un unico autore inglese.
Trovare e pubblicare citazioni degli usi di un termine
è chiaramente un modo imperfetto per pronunciarsi su
origini e significati, ma secondo i lessicografi dell’Otto-
cento era il metodo migliore mai concepito, e resta tut­
tora insuperato. Di quando in quando degli esperti rie­
scono a contestare determinate conclusioni come que­
sta, e occasionalmente il dizionario è costretto a ritratta­
re, è obbligato ad accettare una nuova citazione più an­
tica e a dare a un certo termine una storia più lunga di
quella inizialmente attribuitagli dai primi curatori. For­
tunatamente protagonist non è ancora stato validamente
43
contestato su basi cronologiche. Per quanto riguarda
l’OED, la data rimane ancora il 1671: da trecento anni e
più il termine è parte di quel corpus gigantesco cono­
sciuto come il vocabolario della lingua inglese.
La parola si ripresenta, e con nuove citazioni esempli­
ficative, nel Supplement del 1933, un volume che dovette
essere aggiunto semplicemente per la mole di nuove pa­
role e attestazioni di nuovi significati accumulatasi du­
rante i decenni in cui il dizionario originale veniva com­
pilato. A questo punto era stata individuata un’altra sfu­
matura di significato, quella di « giocatore principale in
una partita o in un’attività sportiva ». A testimonianza di
quest’uso viene prodotto l’esempio di una frase tratta
da un numero del 1908 di « The Complete Lawn Tennis
Player » (Il perfetto giocatore di tennis).
Ma ecco scoppiare la controversia. L’altro grande te­
sto di riferimento della lingua inglese, il popolarissimo
Modem English Usage (La lingua inglese moderna) di
Henry Fowler, pubblicato per la prima volta nel 1926,
insisteva, contrariamente a quanto affermava Dryden
nella citazione riportata dall’OED, che il termine pro­
tagonist poteva essere usato esclusivamente al singolare.
Secondo Fowler, qualsiasi uso che desse a intendere il
contrario era, dal punto di vista grammaticale, assoluta-
mente sbagliato. E non soltanto sbagliato, continuava,
bensì anche assurdo. Sarebbe un nonsenso sostenere
che, tra due personaggi di un’opera teatrale, ciascuno
sia definibile come il più importante. O uno è il più im­
portante, o non lo è.
Ci volle più di mezzo secolo prima che l’OED deci­
desse di definire la questione. Il Supplement del 1981,
con i classici modi autorevoli del dizionario, cerca di re­
plicare al suscettibile (e ormai defunto) signor Fowler e
propone una nuova citazione a sostegno della teoria se­
condo cui il termine può essere usato al plurale o al sin­
golare a seconda dei casi. George Bernard Shaw, dice,
scrisse nel 1950: «Gli attori con temporanei devono im­
parare che anch’essi devono essere invisibili mentre i
44
protagonisti conversano, e perciò non devono muovere
muscolo, né cambiare espressione». Può darsi che la
grande autorevolezza linguistica di Fowler fosse tecnica-
mente corretta ma, spiega il dizionario in una versione
ampliata della definizione del 1928, forse soltanto
nell’ambito specifico del teatro greco classico, per il
quale il termine era stato inizialmente coniato.
Nel mondo dell’inglese moderno, dominato dal buon
senso (il mondo che, dopotutto, il grande dizionario era
preposto a materializzare e a definire - a fissare, per dirla
con la lingua dei dizionari), è sicuramente ammissibile
che in una storia esistano due o più personaggi principa­
li. Molte opere teatrali hanno spazio per più di un eroe, e
due o tutti quanti possono essere ugualmente eroici. Gli
antichi greci erano drammaturghi da un solo eroe? E sia.
Nel resto del mondo, ce ne possono essere tanti quante
sono le parti che i drammaturghi hanno voglia di scrivere
per loro.
Ora esiste una seconda edizione del dizionario, in
venti volumi, con tutto il materiale dei supplementi in­
tegrato nell’opera originale, e con le nuove parole e le
nuove forme emerse nel corso degli anni debitamente
inserite. In questa edizione protagonist compare nella
sua forma oggi consolidata: con tre significati fonda­
mentali e diciannove citazioni esemplificative. Quella di
Dryden rimane inalterata, la prima testimonianza del
termine, per giunta al plurale; e per dare ancora più
peso all’idea che il plurale è una forma perfettamente
accettabile, accanto a Shaw vengono citati sia il « Times »
sia Dorothy L. Sayers, scrittrice di thriller e medioeva-
lista. Quindi ora il termine è lessicalmente definito in
modo adeguato una volta per tutte e, come stabilisce
l’autorità quasi indiscutibile dell’OED, ne è consentito
l’uso sia al singolare sia al plurale.
Il che cade giusto a proposito, considerata (e così ri­
badita) l’esistenza di due protagonisti in questa storia.
Il primo, come si è già capito, è il dottor William Ches­
ter Minor, l’omicida americano reo confesso e malato
45
di mente. L’altro è un uomo la cui vita coincise più o
meno con quella di Minor in senso temporale, ma se ne
differenziò in quasi ogni altro aspetto: si chiamava James
Augustus Henry Murray. Le vite dei due uomini, nel cor­
so degli anni, si sarebbero intrecciate inestricabilmente
e nel modo più strano.
In più, entrambe dovevano intrecciarsi con quella del-
l’Oxford English Dictionaiy, in quanto il secondo dei due
uomini, James Murray, ne sarebbe diventato, negli ulti­
mi quarantanni di vita, il direttore editoriale più gran­
de e giustamente più famoso.

James Murray nacque nel febbraio del 1837. Era il


figlio maggiore di un sarto e negoziante di tessuti di Ha­
wick, una bella cittadina mercantile nella valle del fiu­
me Teviot, nella regione scozzese dei Borders. E queste
notizie sono in sostanza le sole che desiderava far cono­
scere al mondo sul proprio conto. « Non sono nessuno »
scriveva verso la fine del secolo, quando la sua fama sta­
va lentamente iniziando a crescere. « Consideratemi co­
me un mito solare, o un’eco, o un numero irrazionale,
oppure ignoratemi del tutto ».
Ma ignorarlo è impossibile, dal momento che doveva
diventare una figura di spicco della cultura britannica.
Fu sommerso dai riconoscimenti in vita, e dopo la mor­
te è assurto al rango di un eroe mitico. Già la sua infan­
zia, svelata vent’anni fa dalla nipote Elisabeth, che aprì
il suo baule di documenti, lascia intuire in modo accatti­
vante che Murray fosse destinato, nonostante gli inizi
poco promettenti, poveri e tutt’altro che sofisticati, a
cose straordinarie.
Era un ragazzino precoce e molto serio; si trasformò
ben presto in un adolescente sorprendentemente colto,
alto, ben fatto, con i capelli lunghi e una precoce barba
rosso acceso, che accentuava il suo aspetto grave e seve­
ro. « Sapere è potere » dichiarava sul risguardo del suo
quaderno, e aggiungeva (perché oltre ad avere, all’età
46
di quindici anni, una discreta conoscenza del francese,
dell’italiano, del tedesco e del greco, come tutti i ragazzi
istruiti di allora, sapeva anche il latino) : « Nihil est melius
quam vita diligentissima, Niente è meglio di una vita dili­
gentissima ».
Aveva un appetito vorace, una vera e propria sete im­
placabile di ogni tipo di sapere. Studiò da autodidatta la
geologia e la botanica locali; trovò un mappamondo
grazie al quale imparò la geografia e alimentò il suo a-
more per le mappe; scovò dozzine di libri di testo da cui
trasse l’enorme bagaglio della storia; osservò e si sforzò
di ricordare tutti i fenomeni naturali che lo circondava­
no. I fratelli minori solevano raccontare della volta in
cui li svegliò tutti nel cuore della notte per mostrare lo­
ro il sorgere di Sirio, la stella del Cane Maggiore, di cui
aveva calcolato l’orbita e il momento in cui sarebbe ap­
parsa all’orizzonte, dati che, per l’assonnata esultanza
della famiglia, si dimostrarono perfettamente corretti.
Amava molto conoscere e interrogare le persone che
incontrava e che si rivelavano dei ponti viventi con la
storia: una volta conobbe un uomo molto anziano che a
sua volta aveva conosciuto qualcuno presente in Parla­
mento nel 1689, quando erano stati proclamati sovrani
Guglielmo e Maria; e ancora, si fece raccontare più e
più volte da sua madre di come aveva saputo della vitto­
ria di Waterloo; e, quando ebbe figli suoi, li faceva gioca­
re sulle ginocchia di un anziano ufficiale della marina
che aveva assistito alla resa di Napoleone.
James Murray lasciò la scuola a quattordici anni, co­
me faceva la maggior parte dei bambini più poveri delle
Isole britanniche. Non c’erano soldi per mandarlo alla
scuola superiore privata della vicina Melrose e, comun­
que, i genitori confidavano nelle sue potenzialità di au­
todidatta nel perseguire, come aveva giurato, l’ideale di
una vita diligentissima. Le loro speranze si dimostrarono
ben fondate: James continuò ad accumulare conoscen­
ze sempre più vaste, se non altro (per sua stessa ammis­
47
sione) per amore della conoscenza in sé, e spesso nel più
eccentrico dei modi.
Si buttò a compiere scavi furiosi in una moltitudine di
siti archeologici nella regione dei Borders (che, essen­
do vicina al Vallo di Adriano, era una fonte inesauribile
di antichità sepolte) ; tentò di insegnare alle mucche del
luogo a rispondere ai suoi richiami in latino; leggeva ad
alta voce, alla luce di una minuscola lampada a olio, le
opere di un francese con il nome altisonante di Théo­
dore Agrippa d’Aubigné e le traduceva per la sua fami­
glia, che gli si raccoglieva intorno affascinata.
Una volta, nel tentativo di inventare dei braccioli per
nuotare, si costruì un paio di galleggianti con dei fasci
di giunchi e se li legò alle braccia, ma finì a testa in giù
perché la spinta idrostatica era superiore a quella da lui
calcolata. Sarebbe annegato (non sapeva nuotare) se
gli amici non lo avessero salvato lanciandogli il suo cra-
vattino, lungo un metro e mezzo, e tirandolo così fuori
dall’acqua. Memorizzò centinaia di frasi in romani, la lin­
gua parlata dagli zingari di passaggio; apprese l’arte di
rilegare i libri; imparò da solo ad abbellire i suoi scritti
con piccoli disegni eleganti, svolazzi e fregi, nello stile
dei monaci miniatori del Medioevo.
All’età di diciassette anni questo giovane scozzese
« speculativo, serio, ingenuo » era già impiegato nella
sua città natale come assistente del direttore della scuo­
la, intento a trasmettere tutto il sapere che aveva tanto
appassionatamente accumulato; a venti era già diretto­
re a tutti gli effetti della locale accademia privata (« dai
dieci ai sedici anni, retta di una ghinea al trimestre ») e
con suo fratello Alexander divenne un membro di rilie­
vo della sezione di Hawick del Mutual Improvement In­
stitute, un’organizzazione prettamente vittoriana e scoz­
zese. Presso la Literary and Philosophical Society della
città tenne la sua prima conferenza, « La lettura, i suoi
piaceri e i suoi vantaggi », e continuò esponendo dotte
relazioni sulla sua nuova passione per la fonetica, sulle
origini della pronuncia e sui fondamenti della lingua
48
scozzese, nonché, dopo averne scoperto le meraviglie,
sulla magia dell’anglosassone.
Ma tutte queste precoci promesse sembrarono im­
provvisamente ostacolate, prima dallo sbocciare dell’a­
more e poi dal profondo sconforto della tragedia. Infat­
ti nel 1861, quando aveva appena ventiquattro anni,
James conobbe, e l’anno seguente sposò, una bella ma
delicata insegnante di musica per bambini di nome
Maggie Scott. Nella foto del matrimonio James è una
figura dall’altezza anomala, vagamente scimmiesca, con
una redingote di cattiva fattura e pantaloni flosci; un
uomo dalle braccia lunghissime, che gli sfiorano le gi­
nocchia; la barba incolta e i capelli già radi sul cocuzzo­
lo; occhi stretti e intensi, né felici né infelici, ma pensie­
rosi; la mente in apparenza presa da una specie di turba­
to presentimento.
Due anni più tardi ebbero una bambina che battezza­
rono con il nome di Anna. Ma, tragedia frequente a
quei tempi, la bimba morì ancora in fasce. Anche Mag­
gie Murray in seguito si ammalò gravemente di tisi e i
medici di Hawick dissero che era improbabile che so­
pravvivesse ai rigori di un altro lungo inverno scozzese.
La terapia consigliata era un soggiorno nel Sud della
Francia, il che, dato l’esiguo compenso di James come
direttore della scuola, era del tutto fuori questione.
La coppia disperata partì invece per Londra, dove tro­
vò una modesta sistemazione a Peckham. James Murray,
che ora aveva ventisette anni, con suo grande disappun­
to fu così costretto dalle circostanze familiari ad abban­
donare tutti gli interessi intellettuali del momento, tutti
gli scavi e le ricerche e le scoperte sulla linguistica, la fo­
netica e l’origine delle parole (argomento sul quale in­
tratteneva una vivace corrispondenza con l’esimio stu­
dioso Alexander Melville Bell, padre dell’infinitamente
più famoso Alexander Graham Bell).
Le necessità economiche e i doveri coniugali (pur es­
sendo devoto a Maggie e non lamentandosi mai) lo co­
strinsero ad accettare invece, come era tristemente pre­
49
vedibile, un impiego in una banca londinese. Con que­
sto lavoro - in polsini inamidati e visiera verde, appolla­
iato su un alto sgabello nel retro della sede principale
della Chartered Bank of India -, parve che la sua storia
fosse giunta a un epilogo indecoroso.
Non fu così. Nel giro di pochi mesi era già tornato sui
suoi passi: aveva ripreso la sua eccentrica ricerca del sa­
pere, studiando l’indostano e il persiano achemenide
tutti i giorni mentre andava e rientrava dal lavoro, cer­
cando di stabilire in base all’accento da quale regione
della Scozia provenissero certi poliziotti londinesi, te­
nendo conferenze su « Il corpo e la sua architettura »
per la chiesa congregazionalista di Camberwell (dove,
in qualità di inveterato astemio, era membro convinto
della Lega della temperanza), e persino osservando con
divertito distacco come la beneamata Maggie, ormai mo­
ribonda, nei suoi deliri notturni scivolasse nel colorito
dialetto scozzese della sua infanzia, abbandonando il lin­
guaggio più colto da maestra. Questa piccola scoperta,
questa aggiunta marginale al suo sapere, contribuì in
qualche modo ad aiutarlo a superare il dolore per la mor­
te della moglie, che seguì di lì a poco.
Un anno dopo James era fidanzato con un’altra gio­
vane donna e, un anno dopo ancora, era sposato. Se a-
veva chiaramente amato e ammirato Maggie Scott, fu
ben presto assolutamente chiaro che in Ada Ruthven (il
cui padre lavorava per la Great Indian Peninsula Railway
ed era estimatore di Alexander von Humboldt, e la cui
madre affermava di essere stata a scuola con Charlotte
Brontë) aveva trovato una donna molto più alla sua al­
tezza, socialmente e intellettualmente. Sarebbero rima­
sti sempre fedeli l’uno all’altra e avrebbero avuto undici
figli, di cui i primi nove, secondo i desideri del suocero di
James, avrebbero portato anche il nome Ruthven.
Una lettera che James Murray scrisse nel 1867, a
trent’anni, candidandosi per un impiego al British Mu­
seum, offre un assaggio della vastità quasi incredibile
50
delle sue conoscenze (e anche del suo imperturbato
candore nel parlarne alla gente) :
Devo dire che la filologia, sia comparativa sia speciali­
stica, è stata per tutta la vita il mio campo di ricerca favo­
rito, e che possiedo una padronanza generale delle lin­
gue e della letteratura delle classi ariane e siro-arabiche;
con ciò non voglio dire di avere familiarità con tutte o
quasi tutte, ma di possedere le conoscenze generali les­
sicali e strutturali che fanno della loro conoscenza più
approfondita solo una questione di un po’ di applica­
zione. Di diverse ho una padronanza più solida, come
delle lingue romanze - italiano, francese, catalano, spa­
gnolo, latino e in misura minore portoghese, valdese,
provenzale e vari dialetti. Nel ramo germanico, ho
un’accettabile familiarità con l’olandese (dovendo, in
qualità di corrispondente commerciale, leggere in olan­
dese, tedesco, francese e occasionalmente in altre lin­
gue), il fiammingo, il tedesco, il danese. I miei studi di
anglosassone e meso-gotico sono stati molto più accura­
ti, avendo preparato su queste lingue alcuni lavori per la
pubblicazione. So un po’ di celtico, e al momento sono
impegnato con lo slavo, avendo raggiunto una soddisfa­
cente conoscenza del russo. Nell’ambito del persiano,
della scrittura cuneiforme del periodo achemenide e
del sanscrito, so quanto basta per gli obiettivi della filo­
logia comparativa. Ho una conoscenza dell’ebraico e
del siriaco sufficiente per leggere a prima vista l’Antico
Testamento e la Peshitta; a un livello inferiore conosco
l’arabo aramaico, il copto e il fenicio fino al punto in cui
fu lasciato da Genesio.
Si stenta a crederlo, ma il museo respinse la sua do­
manda d’impiego. Inizialmente Murray ne fu distrutto,
ma si riprese ben presto. Non passò molto tempo prima
che si consolasse in un suo modo caratteristico: confron­
tando, in termini lessicali, la numerologia nella conta
delle pecore degli indiani Wowenoc del Maine con quel­
la dei contadini delle brughiere dello Yorkshire.
51
L’interesse di Murray per la filologia sarebbe potuto
rimanere quello di un appassionato dilettante, se non
fosse stato per la sua amicizia con due uomini. Uno era
un matematico del Trinity College di Cambridge, di no­
me Alexander Ellis, e l’altro un fonetista famoso per la
sua cocciutaggine e per la smisurata maleducazione, di
nome Henry Sweet. A quest’ultimo Bernard Shaw si sa­
rebbe ispirato per il professor Henry Higgins, uno dei
personaggi di Pigmalione, in seguito trasformato nell’in­
tramontabile My Fair Lady (nel film Higgins era inter­
pretato da un attore altrettanto maleducato e cocciuto,
Rex Harrison).
Questi due uomini trasformarono rapidamente l’ap­
passionato dilettante in un serio studioso di filologia.
Murray venne accolto tra i membri dell’augusta ed e-
sclusiva Philological Society, un traguardo non da poco
per un giovane che, dobbiamo ricordarlo, aveva lasciato
la scuola a quattordici anni e non aveva mai frequentato
l’università. Nel 1869 era già nel consiglio dell’istituzio­
ne. Nel 1873, lasciata la banca e tornato all’insegnamen­
to (alla scuola di Mill Hill), pubblicò The Dialect of the
Southern Counties of Scotland (Il dialetto delle contee me­
ridionali della Scozia), opera che doveva rafforzare e
dare lustro alla sua reputazione fino a procurargli una
vasta ammirazione (e guadagnargli l’invito a redigere
un saggio sulla storia della lingua inglese per la nona e-
dizione della Encyclopaedia Britannica). Lo fece inoltre
entrare in contatto con uno degli uomini più sbalorditi­
vi dell’Inghilterra vittoriana: lo studioso zingaro e paz­
zoide che era segretario della Philological Society, Fred­
erick Furnivall.
Alcuni ritenevano Furnivall, nonostante la sua dedi­
zione alla matematica, al medio inglese e alla filologia,
un vero e proprio pagliaccio, un asino, un dandy scan­
daloso e uno sciocco (le folte schiere dei suoi detrattori
davano molto rilievo al fatto che il padre gestisse priva­
tamente un manicomio nella casa dove era cresciuto il
giovane Frederick).
52
Era socialista, agnostico, vegetariano e « all’alcol e al
tabacco rimase estraneo per tutta la vita». Era un atleta
appassionato, ossessionato dalla voga a bratto, e gli pia­
ceva in particolar modo insegnare a giovani e belle ca­
meriere (reclutate all’ABC, una sala da tè in New Ox­
ford Street) il modo migliore per portare alla massima
velocità un’agile imbarcazione da gara che lui stesso a-
veva progettato. Ci rimane una sua foto risalente al
1901: ha un sorrisetto malizioso, non da ultimo perché
è circondato da otto graziose vogatrici dell’Hammer­
smith Sculling Club for Girls, donne compiaciute e in
ottima forma, con la gonna lunga, sì, ma la camicia ben
aderente al seno generoso. Sullo sfondo c’è una severa
matrona vittoriana, tutta vestita in gramaglie di ruvida
sargia, lo sguardo torvo.
Frederick Furnivall era proprio un inguaribile don­
naiolo. A livello sociale era stigmatizzato per aver com­
messo il peccato doppiamente imperdonabile di aver
sposato la cameriera di una gentildonna e di averla poi
abbandonata. Dozzine di curatori e di editori rifiutavano
di lavorare con lui: era « privo di tatto e di discrezione...
parlava con un’infantile schiettezza di linguaggio che
offendeva molti e lo gettava in controversie poco edifi­
canti ... le sue dichiarazioni di ostilità alla religione e cil­
le differenze di classe erano spesso irragionevoli e fonte
di risentimenti ».
Ma era uno studioso brillante e, come James Murray,
aveva un’ossessiva sete di sapere; tra i suoi amici e ammi­
ratori poteva annoverare Lord Tennyson, Charles Kings­
ley, William Morris, John Ruskin (il mentore londinese
del dottor Minor, come sarebbe emerso in seguito) e il
compositore Frederick Delius, dello Yorkshire. Ken­
neth Grahame, a sua volta appassionato vogatore e im­
piegato alla Banca d’Inghilterra, fu debitamente irreti­
to dalla malia di Furnivall e nel suo celebre libro per
bambini II vento tra i saliti raffigurò anche Furnivall co­
me il Topo d’acqua. « Gliel’abbiamo imparato! » dice il
Rospo. « Gliel’abbiamo insegnato! » corregge il Topo.
53
Furnivall poteva anche essere capriccioso e maligno, ma
molto spesso aveva ragione.
Se per Grahame fu un mentore, Furnivall fu una figu­
ra ben più importante nella vita di James Murray. Come
ebbe a dire in tono ammirato la biografa di quest’ulti­
mo, fu per lui « stimolante e persuasivo, spesso importu­
no ed esasperante, ma sempre un’influenza dinamica e
potente, che eclissava persino James nel suo gusto per
la vita».
Per molti aspetti Murray era il vittoriano per eccellen­
za, l’inglese per eccellenza, e fu naturale affidargli, in
qualità di principale filologo del paese, un ruolo domi­
nante nella creazione del nuovo grande dizionario allo­
ra in via di elaborazione.
Furono l’amicizia e il patrocinio di Furnivall, come
pure i contatti con Sweet ed Ellis, a condurlo infine ver­
so l’avvenimento di maggior soddisfazione. Nel pomerig­
gio del 26 aprile 1878, James Augustus Henry Murray fu
invitato a Oxford, in una sala del Christ Church College,
a una solenne assemblea plenaria delle più grandi menti
del paese, i Delegati della Oxford University Press.
Si trattava di un gruppo formidabile: il decano del
college, Henry Liddell (la cui figlia, Alice, aveva tanto
incantato il matematico del Christ Church, Charles Lut-
widge Dodgson, da indurlo a scrivere un libro di avven­
ture a lei dedicato, ambientato nel paese delle meravi­
glie) ;* Max Müller, filologo, orientalista e sanscritista di
Lipsia, allora titolare della cattedra di filologia compa­
rata a Oxford; il regio professore di storia William Stubbs,
l’uomo a cui, in epoca vittoriana, si attribuiva il merito
di aver reso la materia degna di rispettabile ricerca acca­
demica; il canonico del Christ Church e classicista Edwin
Palmer; il direttore del New College, James Sewell, ecce­
tera, eccetera.
Alto clero, alti studi, alte ambizioni: questi erano gli

1. Quello di Lewis Carroll, con il quale l’autore di Alice nel paese delle
meraviglie divenne famoso, era in realtà uno pseudonimo [N.d. T.].

54
Uomini Che Contavano, gli architetti delle grandiose
costruzioni intellettuali che ebbero origine nel periodo
inglese più altero e più fiducioso di sé. Quanto Isam-
bard Kingdom Brunel rappresentò per i ponti e le ferro­
vie, Sir Richard Burton per l’Africa e Robert Falcon
Scott di lì a poco per l’Antartide, fu in egual misura rap­
presentato nel loro campo da questi uomini, i migliori,
gli artefici di indelebili monumenti al sapere: i libri che
sarebbero diventati il fondamento essenziale delle gran­
di biblioteche di tutto il mondo.
Avevano un progetto, dissero, che il professor Murray
avrebbe sicuramente trovato molto interessante. Un
progetto che, sebbene nessuna delle parti coinvolte ne
fosse consapevole, doveva infine porre James Murray in
rotta di collisione con un personaggio i cui interessi e la
cui religiosità erano stranamente consonanti con i suoi.

Di primo acchito William Minor potrebbe sembrare


un uomo contrassegnato più dalle differenze con Mur­
ray che dalle somiglianze. Era ricco, mentre Murray era
povero. Era di alto rango, mentre l’estrazione sociale di
Murray era irrimediabilmente, seppur rispettabilmen­
te, bassa. E sebbene avesse quasi la stessa età (solo tre
anni li dividevano), era nato con una diversa cittadinan­
za e, in effetti, in un luogo che dalle Isole britanniche di
Murray distava migliaia di chilometri - più di quanto,
secondo i parametri di allora, per la gente comune era
prudente e fattibile percorrere.

55
3
LA FOLLIA DELLA GUERRA

Lunatic (I'm nàtik), a. [ad. late L. lünâtic-us, f.


L. luna moon: see -atic. Cf. F. lunatique, Sp., It.
lunatico.} A. adj.
1. Originally, affected with the kind of insanity
that was supposed to have recurring periods de­
pendent on the changes of the moon. In mod. use,
synonymous with Insane; current in popular and
legal language, but not now employed technically
by physicians.

Ceylon, l’isola tropicale coperta di lussureggiante ve­


getazione che sembra pendere daH’estremità meridio­
nale dell’india come una lacrima (o una pera, o una
perla, o persino, dicono alcuni, come un prosciutto), è
considerata dai sacerdoti delle più austere religioni del
mondo come il luogo in cui Adamo ed Èva vennero esi­
liati dopo aver perduto lo stato di grazia. E il giardino
dell’Eden dei peccatori, un’isola-limbo per coloro che
hanno ceduto alla tentazione.
Oggi si chiama Sri Lanka; un tempo i mercanti del
Mare Arabico la chiamavano Serendip, e nel Settecento
Horace Walpole citò un’antica fiaba ambientata lì, su
tre principi che con prodigiosa frequenza incappavano
per puro caso in cose meravigliose. Così la lingua ingle­
se si arricchì della parola serendipity, senza che il suo in­
ventore, che non era mai stato in Oriente, ne compren­
desse fino in fondo l’origine.
Ma, in effetti, Walpole fu più preciso di quanto potes­
se immaginare. Ceylon è davvero una sorta di isola del
tesoro per peccatori, dove ogni dono voluttuoso dei tro­
pici è a portata di mano per soddisfare le tentazioni e
per sedurre e incantare. E dunque ci sono cannella e
cocco, tè e caffè, manghi e anacardi; ci sono zaffiri e ru­
57
bini, leopardi ed elefanti; e ovunque soffia una brezza
ricca, calda, dolcemente umida, profumata di mare, di
spezie, di fiori.
E poi ci sono le donne - ragazze giovani, dalla pelle di
cioccolato, sempre sorridenti e nude, con i lucidi corpi
bagnati, i capezzoli come boccioli di rosa, i capelli lun­
ghi, le gambe irrequiete, e petali viola e scarlatti infilati
dietro l’orecchio - che giocano tra i marosi bianchi di
spuma dell’Oceano Indiano e tornano a casa correndo,
senza alcuna vergogna, sulla fresca sabbia bagnata.
Erano queste ragazze senza nome dei villaggi singale­
si, che da sempre giocavano nude tra la spuma delle
onde, ciò che il giovane William Chester Minor ricorda­
va meglio. Erano queste giovani ragazze di Ceylon, af­
fermò più tardi, ad averlo inconsapevolmente messo su
quel sentiero a spirale che lo avrebbe infine condotto
alla lussuria insaziabile, alla incurabile follia e alla per­
dizione finale. Aveva sentito per la prima volta il fremi­
to erotico suscitato dalle loro grazie quando aveva ap­
pena tredici anni, ed esso aveva innescato una vergo­
gnosa ossessione per la sessualità che da quel momento
in poi gli avrebbe sempre sollecitato i sensi e prosciuga­
to le energie.

William Minor nacque sull’isola nel giugno del 1834:


poco più di tre anni prima (e ottomila chilometri più a
est) di James Murray, l’uomo con cui si sarebbe ben pre­
sto legato indissolubilmente. E per un aspetto, e uno
solo, la vita delle due famiglie tanto lontane fra loro era
simile: sia i Murray sia i Minor erano oltremodo devoti.
Thomas e Mary Murray erano membri della Chiesa
congregazionalista e seguivano i costumi conservatori
della Scozia settecentesca all’interno di un gruppo co­
nosciuto con il nome di Covenanters. Anche Eastman e
Lucy Minor erano congregazionalisti, ma del ramo più
vigorosamente evangelico che prevaleva nelle colonie
americane, le cui opinioni e credenze discendevano da
58
quelle dei Padri Pellegrini. E sebbene Eastman Strong
Minor avesse imparato l’arte della stampa e avesse pro­
sperato come proprietario di un torchio tipografico,
scelse infine di dedicare la sua vita a portare la luce di
uno schietto protestantesimo americano negli oscuri
recessi delle Indie Orientali. I Minor erano a Ceylon
come missionari e William, nato nell’ospedale della mis­
sione, entrò a far parte di una devota famiglia missio­
naria.
A differenza dei Murray, i Minor erano aristocratici
americani di discendenza diretta. Il primo a stabilirsi
nel Nuovo Mondo era stato Thomas Minor, originario
del villaggio di Chew Magna nel Gloucestershire. Aveva
attraversato l’Atlantico meno di dieci anni dopo i Padri
Pellegrini, a bordo di una nave chiamata Lion’s Whelp,
che attraccò a Stonington, il porto vicino a Mystic, allo
sbocco dello Stretto di Long Island. Dei nove figli nati
da Thomas e dalla moglie Grace, sei erano maschi, e a-
vevano continuato a diffondere il nome della famiglia
in tutto il New England, annoverati tra i retti e devoti
padri fondatori dello Stato del Connecticut, nel tardo
Settecento.
Eastman Strong Minor, nato a Milford nel 1809, era il
capostipite della settima generazione dei Minor ameri­
cani; a questo punto della storia tutti i membri della fa­
miglia erano in linea di massima prosperi, ben sistema­
ti, rispettati. Furono pochi a non considerare meritoria
la scelta di Eastman e della giovane moglie bostoniana
Lucy, da lui sposata nel 1833: chiudere la tipografia,
partire da Salem a bordo di una nave a vapore che tra­
sportava un carico di ghiaccio e fare rotta verso Ceylon.
La loro religiosità era risaputa, e la famiglia Minor sem­
brò felicissima del fatto che, nonostante il benessere e-
conomico e sociale, gli sposi sentissero abbastanza for­
te la chiamata di Dio da contemplare l’idea di trascor­
rere un periodo di tempo - con ogni probabilità molti
anni - lontano dagli Stati Uniti, predicando il Vangelo
a coloro che erano ritenuti meno fortunati.
59
La coppia arrivò a Ceylon nel marzo del 1834 e venne
sistemata nella stazione missionaria di un villaggio chia­
mato Manipay, sulla costa settentrionale dell’isola, non
lontano dalla grande base navale britannica di Trinco-
malee. Appena tre mesi più tardi, in giugno, nacque Wil­
liam: sua madre aveva sofferto molto per il sommarsi del
mal di mare alle nausee mattutine della gravidanza. Una
seconda figlia, chiamata Lucy, come sua madre, nacque
due anni dopo.
Anche se la cartella clinica di William testimonia una
tipica infanzia indiana piuttosto accidentata (clavicola
rotta per una caduta da cavallo, perdita di conoscenza
dopo essere volato giù da un albero, la solita dose legge­
ra di malaria e di febbre dell’acqua nera), la sua non fu
di certo un’infanzia normale.
Sua madre morì di tisi quando lui aveva tre anni. Due
anni dopo, invece di tornare negli Stati Uniti con i bam­
bini, Eastman Minor partì per un viaggio nella penisola
malese, determinato a trovare una seconda moglie nel­
le comunità missionarie di quelle terre. Lasciò la bambi­
na in custodia a una coppia di missionari in un villaggio
singalese chiamato Oodooville e partì su una nave da
carico diretta a est, con il piccolo William al seguito.
I due arrivarono a Singapore, dove Minor aveva un a-
mico che lo presentò a una comitiva di missionari ame­
ricani diretti a nord per predicare i Vangeli a Bangkok.
Una di loro era una studiosa di teologia, una donna gra­
ziosa (e opportunamente orfana) di nome Judith Man­
chester Taylor, originaria di Madison, New York. Si cor­
teggiarono brevemente e con discrezione, lontano da­
gli occhi del bambino curioso che li accompagnava. Mi­
nor persuase la signorina Taylor a tornare indietro con
loro sulla prima nave a vapore diretta ajaffna, e i due si
sposarono davanti al console americano a Colombo po­
co prima del Natale del 1839.
Judith Minor era tanto energica quanto il marito. Ge­
stiva la scuola locale, imparò il singalese e lo insegnò al
60
f igliastro, la cui intelligenza era evidentissima, e a tem­
po debito ai suoi sei bambini.
Due dei figli nati da questo matrimonio morirono: il
primo all’età di un anno, il secondo a cinque anni. Una
delle sorellastre di William morì a otto anni. Sua sorella,
1 Aicy, morì di tisi a ventuno. (Un terzo fratellastro, Thom­
as T. Minor, morì in strane circostanze molti anni più
tardi. Si era trasferito in America, nell’Ovest, prima co­
me medico per la tribù dei Winnebago in Nebraska,
poi nei territori dell’Alaska recentemente acquisiti in
cerca di esemplari di abitazioni artiche, e infine a Port
Townsend e a Seatde, dove era stato eletto sindaco. Nel
1889, quando era ancora in carica, partì per una spedi­
zione in canoa diretta all’isola di Whidbey, con un ami­
co, G. Morris Haller. Nessuno dei due tornò. Il corpo
di Minor non fu mai trovato. Rimangono a Seattle una
Minor Street, una scuola intitolata a Thomas T. Minor
e anche una certa popolarità, che associa il nome di
Minor a una buona dose di fascino, di pionierismo e di
mistero).

La biblioteca della missione di Manipay era ben forni­


ta e, sebbene l’alloggio della famiglia fosse « poverissi­
mo », come risulta dai diari di Judith, la scuola della mis­
sione era invece eccellente, il che permise al giovane
William di ricevere un’istruzione assai migliore di quel­
la che avrebbe potuto avere nel New England. Grazie alle
mansioni da tipografo del padre, aveva accesso alla let­
teratura e ai giornali; i suoi genitori viaggiavano spesso a
cavallo e in calesse, e lo portavano con loro, incorag­
giandolo a imparare il maggior numero possibile di lin­
gue locali. A dodici anni parlava già bene il singalese e
presumibilmente aveva delle buone basi di birmano e
anche di hindi e di tamil, e un’infarinatura di vari dialet­
ti cinesi. Sapeva inoltre orientarsi nelle strade di Singa­
pore, Bangkok e Rangoon, come pure sull’isola di Pe-
61
nang, al largo delle coste di quella che allora era la Ma­
lesia Britannica.
William aveva appena tredici anni, raccontò in segui­
to ai medici, quando iniziò a indulgere a « pensieri lasci­
vi » sulle giovani ragazze singalesi delle spiagge intorno
a lui: dovevano sembrargli una rara costante in una vita
incostante e incerta. Ma quando compì quattordici an­
ni, i genitori (forse consapevoli dei suoi ardori pubera­
li) decisero di rispedirlo negli Stati Uniti, ben lontano
dalle tentazioni dei tropici. Avrebbe dovuto vivere con
lo zio Alfred, che allora gestiva un grande emporio di
ceramiche nel centro di New Haven. William salpò dal
porto di Colombo su un transatlantico di linea della
P&O, che faceva l’infinita traversata tra Bombay e Lon­
dra solcando (era il 1848, molto tempo prima del com­
pletamento del Canale di Suez) i mari sterminati intor­
no al Capo di Buona Speranza.
Più tardi William ammise di avere dei vividi ricordi ero­
tici del viaggio. In particolare rammentava di essere stato
« furiosamente attratto » da una giovane inglese che ave­
va incontrato a bordo. Sembra che nessuno lo avesse
messo in guardia dalla facilità con cui i lunghi giorni e le
lunghe notti tropicali per mare, uniti al movimento lento
e dondolante delle onde e alla tendenza delle donne a
indossare corti vestiti di cotone leggero e dei baristi a of­
frire bevande esotiche, potevano, allora come ora, indur­
re all’idillio sentimentale, specie quando i genitori di u-
no o addirittura di entrambi gli interessati erano assenti.
Molto deve essere successo durante le quattro setti­
mane in mare, anche se, forse, non l’irreparabile. Non
risulta che i due amici siano mai arrivati a consumare,
malgrado il tempo trascorso insieme da soli. Molti anni
dopo Minor precisò ai medici che, come nelle fantasie
sulle ragazze indiane, non si era mai « gratificato in mo­
di innaturali » né aveva mai permesso ai suoi istinti ses­
suali per la compagna di viaggio di prendere il soprav­
vento su di lui. Le cose sarebbero potute finire in modo
ben diverso, se ciò fosse successo.
62
Il senso di colpa (forse fido compagno delle persone
di particolare religiosità) sembra essersi frapposto tra i
due, più ancora della timidezza o della naturale cautela
di ogni adolescente. Da quel momento in poi, nella vita
lunga e tormentata di William Minor, sesso e senso di
colpa risulteranno saldamente e fatalmente incatenati
tra loro. In anni più maturi egli continua a scusarsi con
gli inquirenti: i suoi pensieri erano « lascivi », egli se ne
« vergognava », faceva del suo meglio per non « cedervi ».
E come se si guardasse di continuo alle spalle per assicu­
rarsi che i suoi genitori (forse la madre che aveva perso
nella prima infanzia, o forse la matrigna, così di frequen­
te all’origine dei problemi dei figli maschi) non venisse­
ro mai a conoscenza delle «vili macchinazioni», come
le vedeva lui, della sua mente sempre più turbata.

Ma queste emozioni erano appena accennate negli


anni adolescenziali di William Minor, e al momento
non ne era affatto preoccupato. Aveva la sua vita accade­
mica a cui dedicarsi, e con passione. Da Londra prese
un’altra nave diretta a Boston e di lì proseguì per New
Haven, dove presto avrebbe iniziato l’ardua impresa di
studiare medicina all’università di Yale. I suoi genitori,
con la famiglia ormai molto ridotta, non sarebbero tor­
nati che sei anni dopo, quando lui ne aveva venti. Deve
aver trascorso quegli anni, e pure i nove seguenti di ap­
prendistato medico, in studi assidui e tranquilli, accan­
tonando quello che sarebbe ben presto diventato il suo
cruccio maggiore.
Superò tutti gli esami, in apparenza senza eccessivi
problemi, e nel febbraio del 1863, a ventinove anni,
concluse gli studi di medicina a Yale con laurea e spe­
cializzazione in anatomia comparata. L’unico episodio
drammatico di quegli anni, a quanto si sa, fu una seria
infezione che si prese ferendosi a una mano mentre ese­
guiva l’autopsia di un uomo morto di setticemia: reagì
con prontezza, disinfettandosi la mano con abbondante
63
tintura di iodio, ma la prontezza non fu sufficiente. Era
stato gravemente ammalato, dissero poi i medici, e ave­
va rischiato di morire.
Ormai era un uomo fatto, temprato dagli anni passati
in Oriente e affinato dagli studi in quella che era già u-
na delle migliori università americane. Senza alcuna av­
visaglia della pericolosa fragilità della sua mente, stava
per imbarcarsi in quello che con ogni probabilità sareb­
be stato il periodo più traumatico della sua giovane vita.
Presentò domanda per entrare come medico nell’eser­
cito, che in quel periodo era assai a corto di personale
sanitario. E non era semplicemente l’esercito, ma l’eser­
cito dell’Unione. Gli Stati Uniti, ancora così giovani, pro­
prio in quegli anni affrontavano il periodo più doloroso
e traumatico della loro vita nazionale. La Guerra di Se­
cessione era in atto.

Quando Minor firmò il suo primo contratto con l’e­


sercito, che in precedenza lo aveva comodamente adde­
strato vicino a casa, al Knight Hospital di New Haven, la
guerra era quasi a metà, sebbene allora, com’è ovvio,
nessuno lo sapesse. C’erano già stati ottocento giorni di
combattimenti: gli uomini avevano visto le battaglie di
Fort Sumter, Fort Clark, Fort Hatteras e Fort Henry; la
prima e la seconda battaglia di Bull Run; i combattimen­
ti per dei fazzoletti di terra a Chancellorsville, Freder­
icksburg, Vicksburg, Antietam, e per decine e decine di
trofei di guerra altrimenti sepolti e dimenticati, come il
ponte sul Big Black River nel Mississippi, Island Num­
ber Ten nel Missouri, o Greasy Creek nel Kentucky. Il
Sud aveva ottenuto sino ad allora una quantità di vitto­
rie. L’esercito dell’Unione, penosamente oppresso da
ottocento giorni di duri combattimenti e da troppe di­
sfatte, arruolava tutti gli uomini che poteva: accolse
quindi con entusiasmo un uomo come William Chester
Minor, laureato a Yale, di evidente competenza e di
buona famiglia yankee.
64
Quattro giorni dopo il suo arruolamento, il 29 giu­
gno 1863, ci fu la battaglia di Gettysburg, la più sangui­
nosa di tutta la guerra, il punto di svolta oltre il quale le
ambizioni militari della Confederazione iniziarono a
vacillare. I giornali che Minor leggeva tutte le sere a
New Haven erano pieni di resoconti sull’andamento dei
combattimenti. Ci furono ventimila vittime nelle file
dell’Unione, e a questa cifra anche uno Stato minuscolo
come il Connecticut contribuì con una quota mostruo­
sa: perse più di un quarto degli uomini che aveva man­
dato a combattere in Pennsylvania in quei tre giorni di
luglio. Il mondo, avrebbe detto sei mesi dopo il presi­
dente Lincoln consacrando quelle terre come cimitero
di guerra per i caduti, non avrebbe mai potuto dimenti­
care ciò che là era stato commesso.
Senza dubbio i racconti della battaglia avevano stimo­
lato il giovane medico: c’erano vittime in quantità, lag­
giù, lavoro in abbondanza per un professionista giova­
ne, energico e ambizioso, per giunta schierato con quel­
la che ora sembrava, con ogni probabilità, la parte vin­
cente. In agosto William Minor giurò ubbidienza all’e­
sercito; in novembre era già sotto contratto come sottuf­
ficiale medico, pronto a eseguire tutte le richieste del
ministero della Sanità. Moriva dalla voglia, come avreb­
be poi testimoniato suo fratello, di essere mandato sul
campo di battaglia.
Ma passarono altri sei mesi prima che l’esercito accon­
sentisse infine a trasferirlo a sud, dove infuriava la guer­
ra. A New Haven se l’era passata relativamente bene, do­
vendosi prendere cura di uomini che erano stati portati
lontano dal trauma del combattimento, uomini che sta­
vano guarendo, sia nel fisico sia nella mente. Ma nella
Virginia del Nord, dove all’inizio venne inviato, le cose
erano ben diverse.
Laggiù, d’un tratto e senza preavviso, lo investì tutto
l’orrore di quel conflitto crudele e spaventosamente
sanguinario. C’era in quella guerra civile un’ineluttabi­
le ironia, sconosciuta in ogni altro scontro tra uomini
65
precedente o successivo: si trattava di una guerra com­
battuta con armi nuove ed estremamente efficaci, mac­
chine per falciare gli uomini, ma in un periodo in cui
una lunga èra di medicina povera e primitiva comincia­
va appena a volgere al termine. Si combatteva con il
mortaio e il moschetto e i proiettili Minié, ma ancora
non con l’anestesia, i sulfamidici o la penicillina. Il sol­
dato si trovava dunque in una posizione più difficile che
mai: poteva essere mostruosamente ferito dalle nuove
armi, ma solo in parte curato con le vecchie medicine.
E così negli ospedali da campo c’erano cancrena, am­
putazioni, sporcizia, dolore e malattia: l’apparire del
pus in una ferita era definito dai dottori « lodevole », il
segno della guarigione. I suoni provenienti dalle tende
di primo soccorso erano impossibili da dimenticare: le
grida e i gemiti di uomini le cui vite erano state rovinate
da nuove armi crudeli in feroci, interminabili battaglie.
In quella guerra morirono circa 360.000 soldati federa­
li, come pure 258.000 confederati; e per ogni uomo che
moriva per le ferite causate dalle nuove armi, due mori­
vano per infezioni minori, malattie o scarsa igiene.
A Minor tutto ciò riusciva terribilmente nuovo. Egli
era, come avrebbero poi detto i suoi amici di New Ha­
ven, un uomo sensibile: cortese sino all’eccesso, alquan­
to intellettuale, un po’ troppo mite per il mestiere del
soldato. Leggeva, dipingeva con gli acquerelli, suonava
il flauto. Ma la Virginia del 1864 non era il posto giusto
per chi aveva modi garbati e ricercati. E sebbene non sia
mai del tutto possibile individuare con precisione ciò
che scatena l’esplosione della follia in un uomo, in que­
sto caso c’è almeno qualche indicazione circostanziata
di un evento, o di una concomitanza di eventi, che
infine sconvolsero il dottor Minor e lo spinsero oltre il
limite, facendolo precipitare in una forma di pazzia che
in quei tempi inesorabili era ritenuta senza speranza.
Considerato ciò che ora sappiamo delle circostanze
del suo primo impatto con la guerra, sembra quantome­
no ragionevole supporre che la sua follia (latente, in ag­
66
guato) esplodesse proprio allora. Qualcosa di particola­
re sembra essere successo nella contea di Orange, in
Virginia, all’inizio di maggio del 1864, durante i due
giorni del sanguinosissimo scontro noto come la batta­
glia di Wilderness.1 Fu un combattimento che avrebbe
messo a dura prova il più sano di mente degli uomini:
alcuni degli avvenimenti di quei due giorni andarono
assolutamente oltre ogni umana immaginazione.

Non è chiaro il motivo preciso per cui Minor fosse


nella foresta di Wilderness: i suoi ordini scritti, infatti,
prevedevano che da New Haven raggiungesse l’ufficio
del direttore sanitario a Washington, per sostituire un
certo dottor Abbott, che allora lavorava nell’ospedale di
una divisione militare ad Alexandria. Osservò la conse­
gna, ma prima, forse per ordine specifico del direttore
sanitario, si spinse centotrenta chilometri a sudovest
della capitale federale, sul campo di battaglia, dove a-
vrebbe visto, per la prima e ultima volta nella sua carrie­
ra, un combattimento vero e proprio.
La battaglia di Wilderness fu la prima, autentica con­
ferma dell’ipotesi che con la vittoria di Gettysburg del
luglio 1863 il corso degli eventi della Guerra di Secessio­
ne fosse veramente cambiato. Nel marzo successivo il
presidente Lincoln aveva radunato tutte le forze dell’U-
nione sotto il comando del generale Ulysses S. Grant,
che aveva rapidamente elaborato un piano volto niente
di meno che alla totale distruzione dell’esercito confede­
rato. Le campagne disordinate e male organizzate delle
settimane e dei mesi precedenti (scaramucce qui e là, vil­
laggi e forti conquistati e riconquistati) non significavano
nulla in termini di strategia coerente: fintantoché l’eser­
cito dei confederati rimaneva intatto e pronto a combat-

1. Wilderness, letteralmente «terra desolata, selvaggia», è il nome


dell’immensa foresta della Virginia dove ebbe luogo la battaglia
[N.d.T.].

67
tere, anche la Confederazione di Jefferson Davis sareb­
be rimasta. Annientiamo l’esercito secessionista, ragiona­
va Grant, e annienteremo anche la causa secessionista.
Questa ambiziosa strategia ebbe formalmente inizio
nel maggio del 1864, quando la grande macchina mili­
tare che Grant aveva creato per sbaragliare l’esercito dei
confederati cominciò ad avanzare dal Potomac verso
sud. La campagna, avviata con questa prima offensiva,
sarebbe passata sulla regione di Dixie come una falce:
Sherman dal Tennessee avrebbe messo a ferro e fuoco
la Georgia; Savannah sarebbe stata conquistata, le prin­
cipali forze confederate si sarebbero arrese ad Appo­
mattox solo undici mesi più tardi, e la battaglia finale di
questi cinque anni di guerra si sarebbe combattuta in
Louisiana, a Shreveport, a quasi un anno dal giorno in
cui Grant aveva iniziato a muoversi.
Ma la fase iniziale della strategia, con il nemico ancora
compatto e molto determinato, fu la più difficile da rea­
lizzare e di rado in quelle prime settimane si diede batta­
glia più fieramente che nel primo giorno della campa­
gna. Gli uomini del generale Grant marciarono ai piedi
dei monti Blue Ridge e, nel pomeriggio del 4 maggio, at­
traversarono il fiume Rapidan ed entrarono nella contea
di Orange. Qui incapparono neU’armata della Virginia
settentrionale guidata da Robert E. Lee: la battaglia che
ne seguì, iniziata con l’attraversamento del fiume e con­
clusa solo quando gli uomini di Grant si spostarono late­
ralmente verso Spotsylvania, costò circa ventisettemila
vite in sole cinquanta ore di fuoco e ferocia.
Tre diversi aspetti di questa gigantesca battaglia sem­
brano averla resa particolarmente importante nella sto­
ria del dottor William Minor.
Il primo è l’efferatezza selvaggia ed estrema dello
scontro, unita alle impietose condizioni del campo di
battaglia dove ebbe luogo. Migliaia di uomini si affron­
tarono in un ambiente del tutto inadatto alle tattiche di
fanteria. Era, ed è ancora, un paesaggio dolcemente in
declivio, fittamente coperto da una foresta secondaria e
68
da un sottobosco folto e impenetrabile. Ci sono tratti di
terreno paludoso, fangoso e fetido, infestato di zanzare.
In maggio fa spaventosamente caldo, e il fogliame lon­
tano dalle paludi e dai rivi che filtrano dal terreno è sem­
pre secco come la stoppa.
Il combattimento perciò non poteva essere condotto
con l’artiglieria (perché non si vedeva niente), né con la
cavalleria (perché non si poteva avanzare a cavallo). Do­
veva essere condotto dalla fanteria con i moschetti, cari­
cati con gli spaventosi proiettili dirompenti Minié - un
nuovo tipo di pallottola che esplodeva grazie a una cari­
ca posta alla base, provocando ferite enormi e agghiac­
cianti -, oppure corpo a corpo, con la baionetta e la scia­
bola. E con il calore e il fumo della battaglia giungeva
un’ulteriore fonte di terrore: il fuoco.
I cespugli prendevano fuoco e le fiamme avanzavano
tra la vegetazione selvaggia, spinte da un vento forte e
caldo. Centinaia, forse migliaia di uomini, feriti o illesi
che fossero, morirono bruciati, soffrendo la più terribi­
le delle agonie.
Un medico scrisse che i soldati erano feriti «in ogni
modo immaginabile, uomini con corpi mutilati, con
membra a pezzi e teste rotte, uomini che sopportavano le
loro piaghe con pazienza stoica e uomini che si abbando­
navano alla violenza del dolore, uomini stoicamente in­
differenti e uomini che coraggiosamente si consolavano
del fatto che... era solo una gamba! ». Le poche piste esi­
stenti erano intasate di carri rudimentali che trasportava­
no le vittime zuppe di sangue alle postazioni di primo
soccorso, dove medici sudati e sovraccarichi di lavoro fa­
cevano del loro meglio per curare le ferite più raccapric­
cianti.
Un soldato del Maine descriveva il fuoco con sgomen­
ta meraviglia: « Le vampate correvano con scintille e
crepitìi lungo i tronchi dei pini, fino a trasformarli in
colonne di fuoco, dalla base fino al ramoscello più alto.
Poi gli alberi oscillavano e precipitavano, gettando in­
torno una pioggia di scintille lucenti, sotto una coltre di
69
nubi di fumo nero, tinte di rosso dal riverbero delle
fiamme».
« Nella foresta infuriavano gli incendi, » scriveva un
altro soldato che si trovava a Wilderness:
i traini di munizioni saltavano in aria; i cadaveri veni­
vano arsi nella conflagrazione; sospinti dal suo alito cal­
do i feriti, con la folle energia della disperazione, si tra­
scinavano con gli arti laceri e mutilati per sfuggire al
tormento delle fiamme; e sembrava che da ogni cespu­
glio pendessero brandelli di indumenti macchiati di
sangue. Era come se i cristiani si fossero trasformati in
diavoli, e l’inferno avesse usurpato il posto alla terra.
Il secondo aspetto della battaglia che può essere
significativo per spiegare la sconcertante patologia di
Minor si riferisce a un gruppo particolare che ebbe un
ruolo importante nel combattimento: gli irlandesi. Pro­
prio quegli irlandesi di cui, secondo la testimonianza del­
la padrona di casa di Minor a Londra, egli aveva una stra­
na paura.
Al conflitto partecipavano, dalla parte degli unionisti,
circa 150.000 soldati irlandesi, molti dei quali arruolati
anonimamente traie unità yankee, che avevano recluta­
to uomini nei luoghi dove essi vivevano. Ma c’era anche
una schiera orgogliosa di irlandesi che combattevano
insieme, in blocco: erano i soldati della 2a brigata, la Bri­
gata irlandese, ed erano più coraggiosi e tosti di quasi
ogni altra unità dell’intero esercito federale. « Quando
si doveva tentare qualcosa di assurdo, vano o disperato, »
scriveva un corrispondente di guerra inglese « si chia­
mava in aiuto la Brigata irlandese ».
Questa brigata combattè nella foresta di Wilderness:
c’erano uomini del 28° Massachusetts e del 116° Penn­
sylvania a fianco degli irlandesi dei leggendari reggi­
menti di New York, il 63°, 1’88° e il 69°, che ancora oggi
in marzo aprono la parata del giorno di San Patrizio
lungo l’alberata 5th Avenue.
Tuttavia, rispetto a chi aveva combattuto uno o due
70
anni prima, c’era una sottile differenza nello stato d’a­
nimo degli irlandesi schierati con le truppe federali nel
1864. All’inizio della guerra, prima del Proclama di e-
mancipazione, gli irlandesi erano stati fedeli sostenito­
ri della causa del Nord, e altrettanto avversi a un Sud
che sembrava, almeno nei primi giorni, spalleggiato
da quell’Inghilterra che essi tanto odiavano. Le moti­
vazioni per cui partecipavano al conflitto erano com­
plesse, ma ancora una volta si tratta di una complessità
importante per questa storia. Erano immigrati da poco
da un’Irlanda oppressa dalla carestia, e combattevano
in America non solo per gratitudine verso un paese
che aveva dato loro soccorso, ma anche per ricevere
l’addestramento per battersi un giorno nella loro pa­
tria e liberare l’isola dagli odiati inglesi una volta per
tutte. Una lirica irlandese-americana del tempo chiari­
sce il punto:
Quando pace e concordia in questa terra torneranno,
e l’unione per sempre sarà stabilita,
prodi figli d’Irlanda, oh, non deponete le spade;
avrete allora un’unione da spezzare.
Gli irlandesi non avrebbero condiviso a lungo tutti gli
obiettivi dei federali. Erano accaniti rivali dei neri ame­
ricani, contro i quali lottavano alla base della scala socia­
le per le opportunità (il lavoro, soprattutto) che veniva­
no offerte. E una volta che gli schiavi vennero formal­
mente emancipati da Lincoln nel 1863, il vantaggio na­
turale che gli irlandesi credevano di avere grazie al colo­
re della loro pelle svanì del tutto, e con esso gran parte
del loro sostegno alla causa dell’Unione nella guerra
che avevano scelto di combattere. In più avevano fatto i
loro conti: « Non abbiamo voluto noi questa guerra, »
diceva uno dei capi « ma molta della nostra gente è mor­
ta a causa sua».
La conseguenza fu che le truppe irlandesi, special-
mente nelle battaglie dove sembrava che venissero usa­
te come carne da macello, iniziarono ad abbandonare i
71
campi di battaglia. Iniziarono a scappare via, a disertare.
E un gran numero di loro sicuramente disertò per sfug­
gire alle fiamme terribili e agli spargimenti di sangue
della battaglia di Wilderness. Proprio la diserzione, e u-
na delle specifiche punizioni spesso inflitte ai prigionie­
ri per questo reato, rappresentano la terza e forse la
principale ragione della successiva tragedia di William
Minor.
La diserzione, come l’insubordinazione e l’ubria­
chezza, fu durante la Guerra di Secessione un problema
ricorrente, e lo fu sul serio, in quanto privava i coman­
danti degli uomini di cui avevano tanto bisogno. Il pro­
blema crebbe con il perdurare della guerra: l’entusia­
smo per le due cause scemava col passare dei mesi e de­
gli anni, mentre il numero delle vittime cresceva. Le
forze complessive dell’esercito dell’Unione ammonta­
vano probabilmente a 2.900.000 uomini, quelle della
Confederazione a 1.300.000 e, come abbiamo visto, su­
birono perdite sbalorditive per un totale di 360.000 e di
258.000 unità rispettivamente. Il numero degli uomini
che gettarono il fucile e scapparono nella foresta è qua­
si altrettanto spettacolare: 287.000 tra le file dell’Unio-
ne, 103.000 per gli Stati del Sud. Naturalmente queste
cifre sono in parte distorte: si riferiscono a uomini che
fuggivano, venivano catturati e rimessi a combattere, per
poi disertare di nuovo, forse per molte volte di seguito.
Ma rimangono cifre gigantesche: uno su dieci nell’eserci­
to dell’Unione, uno su dodici tra i ribelli.
Già a metà della guerra disertavano più di cinquemila
soldati ogni mese: alcuni rimanevano semplicemente
indietro durante le interminabili marce, altri scappava­
no davanti ai colpi di arma da fuoco. Nel maggio del
1864, il mese in cui il generale Grant iniziò l’avanzata
verso sud e il mese di Wilderness, se la svignarono non
meno di 5371 soldati federali. Abbandonavano il cam­
po in più di 170 al giorno: erano coscritti e volontari, ed
erano pieni di sconforto o di nostalgia, depressi, stan­
chi, delusi, non pagati, o soltanto spaventati. William
72
Minor non solo era precipitato dalla calma del Connecti­
cut in uno scenario di carneficina e orrore, ma si era
anche trovato di fronte a una manifestazione dell’essere
umano nella sua veste meno ammirevole: pavido, svuo­
tato nello spirito, codardo.
Il regolamento militare del tempo poteva essere piut­
tosto flessibile quando si trattava di comminare delle
pene per l’ubriachezza (una punizione comune era
quella di far stare in piedi l’uomo su una cassa per diver­
si giorni, con un ceppo sulle spalle), ma non era affatto
ambiguo quando si trattava di diserzione. Chiunque fos­
se stato catturato e imprigionato per « l’unico peccato
che non può essere perdonato né in questo mondo né
nell’altro » doveva essere fucilato. Questo, almeno, è
quanto stava scritto sulla carta: « La diserzione è un cri­
mine punibile con la morte ».
Ma uccidere uno dei propri soldati, qualunque fosse
la sua colpa, comportava uno svantaggio concreto: di­
minuiva il numero degli uomini, indeboliva le forze in
campo. Questo calcolo aritmetico, crudamente realisti­
co, persuase la maggior parte dei comandanti della
Guerra di Secessione, da entrambe le parti, a escogitare
punizioni alternative per coloro che scappavano. Ven­
nero fucilate solo poche centinaia di uomini, ma venne
data ampia pubblicità alla loro morte, nel vano tentati­
vo di farne un monito per tutti. Molti vennero gettati in
prigione, rinchiusi in celle di isolamento, frustati o pe­
santemente sanzionati.
Tutti gli altri, specie i rei non recidivi, venivano solita­
mente sottoposti a pubbliche umiliazioni di vario tipo.
Ad alcuni veniva rasato il capo, del tutto o a metà, e veni­
vano costretti a portare dei cartelli con la scritta « Co­
dardo». Altri venivano condannati da una Corte mar­
ziale straordinaria a una dolorosa punizione: le braccia,
legate strettamente all’altezza dei polsi, venivano fatte
estendere ad abbracciare le ginocchia piegate, un basto­
ne veniva fatto passare tra le ginocchia e le braccia, e il
condannato veniva lasciato in questa atroce posizione
73
contorta, spesso per più giorni. (Era una punizione così
dura da dimostrarsi spesso decisamente controprodu­
cente: un generale che l’aveva ordinata per un uomo
colpevole di essere fuggito, scoprì che metà della sua
compagnia aveva disertato in segno di protesta).
In alternativa si poteva legare al condannato una ba­
ionetta sulla bocca spalancata, a mo’ di morso. Si pote­
va sospenderlo per i pollici, costringerlo a portare un
pezzo di rotaia lungo un metro sulle spalle, destituirlo
e allontanarlo al rullo dei tamburi, obbligarlo a cavalca­
re un cavallo di legno o ad aggirarsi coperto solo da un
barile, senza altri indumenti. O persino, come in un caso
raccapricciante successo in Tennessee, inchiodarlo a un
albero, crocifiggerlo.
Oppure, e questa sembrava essere la perfetta combi­
nazione di sofferenza e umiliazione, il condannato po­
teva essere marchiato. Sulla natica, sul fianco o sulla
guancia gli veniva impressa a fuoco la lettera D, che do­
veva essere alta quattro centimetri (il regolamento dive­
niva molto specifico su questo punto) ed essere impres­
sa con un ferro rovente, oppure incisa con un rasoio
cospargendo la ferita di polvere nera, sia per causare ir­
ritazione, sia per renderla indelebile.
Per qualche ragione sconosciuta veniva spesso impie­
gato il tamburino del reggimento per spargere la polvere
sull’incisione, oppure il medico, nel caso venisse usato il
ferro per marchiare. E questo, si disse a Londra al proces­
so, fu ciò che William Minor era stato costretto a fare.
Un soldato irlandese, imprigionato al termine di un
processo sommario con l’accusa di diserzione durante
gli orrori di Wilderness, fu condannato alla marchiatu­
ra. Gli ufficiali della Corte (ci dovevano essere un colon­
nello, quattro capitani e tre tenenti) disposero in que­
sto caso che l’ordine di eseguire la punizione venisse
dato al giovane sottufficiale medico che da poco era sta­
to loro assegnato, quell’aristocratico dalla faccia pulita
e dall’aspetto ostentatamente signorile, quello studen-
tello di Yale, arrivato fresco fresco dalle colline del New
74
England. Sarebbe stato un sistema buono come un al­
tro, nell’ottica degli ufficiali navigati e già avvezzi alla
guerra, per iniziare il dottor Minor ai rigori del conflit­
to. E così gli venne portato l’irlandese, le mani amma­
nettate dietro la schiena.
Era un uomo sporco e scarmigliato di una ventina
d’anni appena, l’uniforme scura ridotta a brandelli dal­
la corsa frenetica e disperata tra i rovi. Era esausto e spa­
ventato. Sembrava un animale: ben diverso dal giovanot­
to che tre anni prima era arrivato, baldanzoso e pieno
della furbizia dublinese, nel West Side di Manhattan.
Ne aveva visti tanti di combattimenti, di morti, ma ora la
causa per la quale aveva combattuto non era più vera­
mente la sua, certo non dopo il Proclama di emancipa­
zione. I suoi, comunque, stavano vincendo: non avreb­
bero più avuto bisogno di lui, non avrebbero sentito la
sua mancanza se fosse scappato.
Voleva sbarazzarsi di qualsiasi obbligo nei confronti
dei forestieri americani. Voleva tornarsene a casa, in Ir­
landa. Voleva rivedere la sua famiglia e farla finita con
questo assurdo conflitto straniero in cui, a dire il vero,
non era mai stato altro che un mercenario. Voleva usare
le tecniche militari che aveva imparato in tutti quei
combattimenti in Pennsylvania e nel Maryland, e ora
anche sui campi di battaglia della Virginia, per combat­
tere contro i tanto disprezzati britannici, gli invasori del­
la sua terra natale.
Ma aveva fatto Terrore di tentare la fuga, e cinque sol­
dati dell’unità del comandante della polizia militare,
che lo stavano cercando, lo avevano acciuffato nel suo
nascondiglio dietro il granaio di una fattoria, in collina.
La Corte marziale era stata riunita su due piedi e, come
in tutti i casi di giustizia sommaria, la sentenza era stata
emessa dopo un lasso di tempo brutalmente breve: do­
veva essere frustato, trenta sferzate con il gatto a nove
code, ma solo dopo essere stato marchiato con un ferro
rovente, il segno della diserzione che avrebbe per sem­
pre sfregiato il suo viso.
75
Implorò pietà dalla Corte; implorò pietà dalle guar­
die. Pianse, gridò, lottò. Ma i soldati lo tennero fermo e
il dottor Minor afferrò il ferro rovente da una cesta di
carboni ardenti, presa a prestito in tutta fretta dal mani­
scalco della brigata. Esitò per un momento, un’esitazio­
ne che tradiva la sua riluttanza: ma tutto ciò, si chiese
per un istante, era davvero permesso dal giuramento di
Ippocrate? Gli ufficiali gli grugnirono di andare avanti,
ed egli premette il metallo rovente sulla guancia dell’ir­
landese. La carne sfrigolò, il sangue gorgogliò fuman­
do; il prigioniero gridava a perdifiato.
E poi fu tutto finito. Il disgraziato venne portato via,
tenendo sulla guancia ferita lo straccio imbevuto d’alcol
che Minor gli aveva dato. Forse la ferita si sarebbe infet­
tata, si sarebbe riempita del « lodevole pus » che secon­
do altri medici denotava l’inizio della guarigione. Forse
sarebbe andata in suppurazione e si sarebbe coperta di
piaghe. Forse si sarebbe riempita di vesciche che sareb­
bero scoppiate e avrebbero sanguinato per settimane.
Non lo sapeva.
L’unica cosa di cui era sicuro era che quel marchio
l’avrebbe accompagnato per il resto della vita. Mentre
negli Stati Uniti lo avrebbe contraddistinto come codar­
do, la punizione tanto vergognosa decretata dalla Cor­
te, tornato in Irlanda, lo avrebbe contraddistinto come
qualcosa di totalmente diverso: come un uomo che era
andato in America per addestrarsi nell’esercito, e che
ora era tornato in Irlanda determinato a combattere
contro le autorità britanniche. Avrebbe potuto essere
facilmente identificato, da allora in poi, come membro
di uno dei gruppi ribelli di nazionalisti irlandesi. Ogni
soldato o poliziotto in Inghilterra e in Irlanda l’avrebbe
riconosciuto, e l’avrebbe messo dentro per tenerlo lon­
tano dalle strade, o l’avrebbe perseguitato e tormentato
in ogni momento della sua vita.
Il suo avvenire di rivoluzionario irlandese, in altre pa­
role, era finito. Gli importava poco della sua posizione
sociale negli Stati Uniti, ormai distrutta; ma per quel mar-
76
chio ricevuto come punizione sul campo di battaglia il
suo ruolo futuro in Irlanda, ora molto incerto, era rovi­
nato per sempre, e lui era furioso. Aveva capito che co­
me patriota irlandese e come rivoluzionario era inutile,
inservibile, senza alcun valore, sotto ogni punto di vista.
E con tutta probabilità l’irlandese sentì, giustamente
o meno, che la sua ira inestinguibile doveva essere diret­
ta contro l’uomo che aveva tradito la propria vocazione
di medico marchiandogli la faccia in modo tanto feroce
e irreparabile, senza opporre resistenza. Forse decise di
essere, e di dover essere, profondamente ed eternamen­
te in collera con William Chester Minor.
E così sarebbe tornato a casa, giurò, non appena que­
sta guerra fosse finita; e una volta a casa, nel momento
stesso in cui avesse messo piede a terra, sul molo di Cobh
o Dun Laoghaire (o Queenstown e Kingstown, i porti di
Cork e Dublino), avrebbe detto ai patrioti irlandesi quan­
to segue: William Chester Minor, americano, era un ne­
mico di tutti i buoni guerrieri feniani, e vendetta doveva
essere fatta, nei tempi e nei modi opportuni.

Questo, quantomeno, è ciò che quasi sicuramente il


dottor Minor pensò passasse nella mente dell’uomo che
aveva marchiato. Sì, fit poi detto, egli era rimasto sconvol­
to dall’esposizione alla violenza dei campi di battaglia, e
proprio questa «esposizione alla violenza» fu suggerita
da alcuni medici quale causa dei suoi mali. Un’altra ver­
sione sosteneva che aveva assistito all’esecuzione di un
uomo (un suo compagno a Yale, secondo alcuni rappor­
ti, anche se nessuno indicava né il giorno né il luogo) e
che era stato duramente provato da quanto aveva visto;
ma più spesso gli si attribuì il timore che gli irlandesi abu­
sassero di lui in modi vergognosi, come diceva lui, e que­
sto perché negli Stati Uniti gli era stato ordinato di inflig­
gere a uno di loro una punizione tanto crudele.

78
Era una voce che circolava in aula: la fonte era la si­
gnora Fisher, la padrona della casa di Tennison Street,
a Lambeth, secondo i verbali ufficiali della Corte supre­
ma pubblicati sul « Times ». La voce venne ripresa molte
volte nei decenni successivi (quando la gente si ricorda­
va che Minor era ancora rinchiuso in manicomio) per
motivare la sua malattia; e fino al 1915, quando egli, or­
mai vecchio, concesse un’intervista a un giornalista di
Washington e raccontò tutta un’altra storia, rimase una
delle più probabili cause della sua malattia mentale.
« Marchiò un irlandese durante la Guerra di Secessio­
ne » si diceva. « E questo lo fece impazzire ».

All’incirca una settimana dopo, Minor, che sembrava


non aver subito alcuna ripercussione immediata in se­
guito a questa esperienza, venne allontanato dall’inse­
gna rossa dell’ospedale da campo in prima linea (il sim­
bolo della croce rossa fu adottato dagli Stati Uniti nel
1882, dopo la ratifica della Convenzione di Ginevra) e
mandato nel luogo cui era stato originariamente asse­
gnato, la città di Alexandria.
Vi arrivò il 17 maggio e andò dapprima a lavorare al­
l’ospedale L’Ouverture, allora riservato in gran parte
ai neri e ai cosiddetti pazienti « di contrabbando », cioè
schiavi scappati dal Sud. Ci sono dei documenti che at­
testano vari suoi spostamenti all’interno del sistema o-
spedaliero federale: lavorò all’ospedale generale di Alex­
andria e all’ospedale di Slough; c’è anche una lettera
del suo vecchio ospedale militare di New Haven in cui si
chiede di lasciarlo rientrare, dal momento che il suo o-
perato era stato così buono.
Richieste del genere erano insolite, visto che Minor
lavorava ancora come sottufficiale medico nei ranghi
più bassi del personale sanitario di guerra. Nel corso del
conflitto vennero arruolati con contratto federale 5500
uomini con questa qualifica, inclusi alcuni di un’incom­
petenza devastante: specialisti in botanica e omeopatia,
79
ubriaconi che avevano fallito nell’esercizio privato della
professione, truffatori che spillavano soldi ai loro pa­
zienti, uomini che non avevano mai frequentato una
facoltà di medicina. La maggior parte di loro sarebbe
svanita dall’esercito non appena la guerra fosse finita:
ben pochi avrebbero osato sperare in una promozione
o in una nomina regolare.
William Minor invece sì. Sembra che si buttasse a
capofitto nel lavoro. Rimangono ancora alcuni dei suoi
vecchi referti autoptici: esibiscono una calligrafia chia­
ra, un uso preciso del linguaggio, dichiarazioni sicure
sulle cause dei decessi. Molte delle sue diagnosi sono
senza speranza: un sergente del 1° Cavalleria del Michi­
gan morto di cancro ai polmoni, un soldato semplice
morto di tifo, un altro di polmonite, malanni sin troppo
comuni nel periodo della Guerra di Secessione, tutti cu­
rati con l’ignoranza del tempo, con poco più delle due
armi dell’oppio e del calomelano, un analgesico e un
purgante.
C’è una diagnosi più interessante: fu scritta nel settem­
bre del 1866, due anni dopo la battaglia di Wilderness, e
riguarda una recluta, « un uomo robusto e muscoloso » di
nome Martin Kuster, colpito da un fulmine mentre stava
imprudentemente di sentinella sotto un pioppo durante
un temporale. Era in pessime condizioni. «La parte sini­
stra della bustina aperta ... rivestimento del bottone di
metallo squarciato ... capelli sulla tempia sinistra strinati
e bruciacchiati... calza e stivale destro lacerati... una li­
nea di color giallo pallido e ambra lungo tutto il corpo ...
bruciature fino al pube e «dio scroto ».
Questa diagnosi non veniva dalla Virginia, però, né
era stata scritta da un sottufficiale medico. Veniva inve­
ce da Governors Island, New York, ed era firmata da Mi­
nor nel suo nuovo ruolo di ufficiale medico dell’eserci­
to degli Stati Uniti. Nell’autunno del 1866 non era più a
contratto, ma godeva invece a pieno titolo del grado di
capitano. Aveva fatto ciò che la maggior parte dei suoi
colleghi non era riuscita a fare: con il duro lavoro e lo
80
studio, e sfruttando al meglio i suoi contatti nel Connecti­
cut, era passato nei ranghi superiori degli ufficiali dell’e­
sercito regolare.
I suoi sostenitori, in Connecticut e altrove, non erano
consapevoli della sua follia incipiente: il professor James
Dana, geologo e mineralogista di Yale i cui manuali clas­
sici sono in uso ancora oggi in tutto il mondo, disse che
Minor era « uno dei cinque o sei uomini migliori del pae­
se » e che la sua nomina a ufficiale medico sarebbe stata
« un bene per l’esercito e un onore per la nazione ». Un
altro professore lo descrisse come «un medico abile, un
professionista eccellente, uno studioso capace», aggiun­
gendo però l’osservazione (in seguito interpretabile co­
me un segnale d’allarme) che le sue qualità morali era­
no « modeste ».
Poco prima dell’esame formale Minor aveva firmato
un modulo in cui dichiarava di non operare in condizio­
ni di « infermità fìsica o mentale di qualsiasi tipo, che pos­
sa in qualunque modo interferire con il più efficiente
svolgimento dell’incarico in qualsiasi clima». I suoi esa­
minatori si trovarono d’accordo: nel febbraio del 1866 gli
conferirono il grado di ufficiale e a metà estate era già a
Governors Island ad affrontare una delle più gravi emer­
genze del dopoguerra, la quarta e ultima grande epide­
mia di colera degli Stati Uniti orientali.
Si disse che la malattia fosse stata portata dagli immi­
grati irlandesi che allora arrivavano a fiumi attraverso El­
lis Island: circa milleduecento persone morirono duran­
te il flagello dell’estate, e gli ospedali e le cliniche di
Governors Island erano zeppi di gente malata e in isola­
mento. Minor lavorò indefessamente per tutta la durata
dell’epidemia, e il suo impegno gli venne riconosciuto:
entro la fine dell’anno, pur essendo ancora ufficialmente
un tenente, gli fu assegnato il grado di capitano in segno
di merito per i suoi servigi.
Ma contemporaneamente si presentarono in lui i pri­
mi disturbi del comportamento, segnali di quella che,
con il senno di poi, era una palese manifestazione di pa­
81
ranoia incombente. Iniziò a portare la pistola quando era
in borghese. Del tutto illegalmente teneva con sé il revol­
ver d’ordinanza, una Colt calibro 38 con il tamburo a sei
colpi che, come d’uso, aveva uno degli alloggiamenti
bloccato da una cartuccia a salve fissa. Portava l’arma,
spiegò, perché un suo collega ufficiale era stato ucciso
dai rapinatori mentre tornava da un bar della Lower
Manhattan. Anche lui, sosteneva, poteva essere seguito
da qualche mascalzone intenzionato ad aggredirlo.
Iniziò a diventare un frequentatore abituale dei bar e
dei bordelli più sfrenati del Lower East Side e di Brook­
lyn. Intraprese una carriera di stupefacente promiscui­
tà, frequentando prostitute notte dopo notte, e tornan­
do in barca a remi all’ospedale di Fort Jay, a Governors
Island, solo alle prime ore dell’alba. I suoi colleghi si al­
larmarono: tutto ciò era assolutamente fuori luogo per
un ufficiale tanto educato e diligente, e ancor più quan­
do fu palese che aveva spesso bisogno delle cure allora a
disposizione per una serie di infezioni veneree.
Nel 1867, l’anno in cui a New Haven morì suo padre
Eastman, egli sorprese i colleghi annunciando inaspet­
tatamente il fidanzamento con una giovane donna che
viveva a Manhattan. Né lei né il suo lavoro sono mai sta­
ti individuati, ma si sospetta che fosse una ballerina o
un’ entraîneuse conosciuta durante una delle sue spedi­
zioni nei quartieri malfamati. La madre della ragazza,
tuttavia, non fu tanto favorevolmente impressionata da
Minor quanto lo erano stati i suoi amici del Connecti­
cut: avvertì qualcosa di spiacevole nel giovane capitano
e insistette affinché la figlia rompesse il fidanzamento.
In seguito Minor rifiutò sempre e risolutamente di par­
lare sia della relazione, sia dei suoi sentimenti dopo la
conclusione forzata. I medici, però, dissero che era visi­
bilmente amareggiato dall’episodio.
L’esercito, nel frattempo, era sgomento davanti a ciò
che sembrava un’improvvisa trasformazione del suo
protetto. Informato del suo comportamento fuori dal­
l’ordinario, il ministero della Sanità decise, nel giro di
82
poche settimane, di allontanarlo dalle tentazioni di New
York e di mandarlo al sicuro, fuori città. Fu in pratica
retrocesso e assegnato al relativo isolamento dell’oscu­
ro Fort Barrancas, in Florida. Il forte, che vigila sulla baia
di Pensacola, nel Golfo del Messico, stava già diventan­
do obsoleto. Si trattava di una vecchia struttura in mura­
tura, costruita per proteggere la baia e il suo porto dai
predoni stranieri, ma allora ospitava solo un piccolo di­
staccamento di soldati, per i quali Minor divenne medi­
co di reggimento. Per un uomo di così buona famiglia,
tanto istruito, tanto promettente, si trattava di una situa­
zione davvero umiliante.
Maturò in lui una collera furiosa contro l’esercito. E-
ra chiaro che gli mancavano le sue depravazioni; i suoi
commilitoni notarono che era diventato lunatico e, oc­
casionalmente, molto aggressivo. Nei momenti più tran­
quilli prendeva in mano i pennelli: gli acquerelli dei tra­
monti della Florida lo rasserenavano, diceva. Aveva anco­
ra il tocco magico, sostenevano i suoi colleghi ufficiali.
Era un uomo d’arte, asseriva uno in particolare. Sem­
brava uno con l’anima.
Ma poi iniziò a covare sospetti sui suoi commilitoni.
Riteneva che gli parlassero alle spalle, che lo osservasse­
ro di continuo con circospezione. Un ufficiale in parti­
colare gli dava problemi: aveva cominciato a infastidir­
lo, a pungolarlo, a perseguitarlo in modi che Minor non
volle mai spiegare. Sfidò l’uomo a duello e fu ammonito
dal comandante del forte. L’ufficiale era uno dei suoi
migliori amici, disse il comandante, e né lui né lo stesso
ufficiale riuscivano a credere che quella lite tanto aspra
fosse nata senza alcun motivo preciso. Era impossibile
convincere Minor - il tuo migliore amico non sta com­
plottando contro di te, non sta tramando, non vuole far­
ti del male -, non c’era verso di farglielo capire. Era co­
me se avesse perso l’uso della ragione. Tutto ciò era dav­
vero sconcertante e, per gli amici e i familiari, fonte di
profonda angoscia.
Il culmine si raggiunse nell’estate del 1868 quando,
83
dopo essere stato troppo a lungo sotto il sole della Flori­
da, così si disse, il capitano iniziò a lamentarsi di gravi
mal di testa e terribili vertigini. Venne mandato a New
York, accompagnato da alcuni infermieri, per dame no­
tizia alla sua precedente unità e al suo vecchio medico.
Lo interrogarono, lo visitarono, lo palparono, lo scruta­
rono. In settembre era ormai perfettamente chiaro agli
occhi di tutti che era seriamente malato. Per la prima vol­
ta il sospetto divenne certezza, con la constatazione for­
male che la sua mente stava iniziando a vacillare.
Un documento firmato da un ufficiale medico di no­
me Hammond il 3 settembre 1868 afferma che Minor
soffriva chiaramente di monomania, una forma di ma­
lattia mentale che implica un’ossessione accanita per
una singola idea. Quale fosse questa idea il dottor Ham­
mond non lo scrive, ma dice invece che secondo lui le
condizioni di Minor erano così gravi che lo si doveva
classificare come « psicotico ». Minor aveva solo trenta-
quattro anni: la sua mente e la sua vita avevano comin­
ciato a sfuggire vorticosamente al suo controllo.
In seguito, settimana dopo settimana, iniziarono ad
accumularsi i rapporti sulla sua malattia: « Secondo la
mia opinione egli non è adatto a svolgere i suoi incari­
chi e non è in grado di viaggiare » confermavano tutti.
In novembre i medici stavano già raccomandando un
passo più drastico: Minor, secondo l’opinione dell’eser­
cito, doveva essere immediatamente internato. Doveva,
inoltre, essere affidato alle cure del rinomato dottor
Charles Nichols, il sovrintendente dell’ospedale federa­
le per malati di mente di Washington.
« La monomania » affermò il medico che lo aveva visi­
tato, in una lettera scritta con una magnifica grafia chia­
ra e regolare consona all’occasione « è ora decisamente
nella fase suicida e omicida. Il dottor Minor ha espresso
la propria disponibilità a ricoverarsi presso il manico­
mio, e ha detto che sperava gli fosse concesso di andarvi
senza guardie, cosa che ritengo sia al momento perfetta­
mente in grado di fare ».
84
In grado sì, ma pieno di vergogna. Esiste ancora una
lettera in cui si chiede, per conto di Minor, che il ricove­
ro in manicomio non sia reso pubblico. «Rifugge da ciò
che considera lo stigma di una terapia medica in un ma­
nicomio. Egli non sa che sto scrivendo questo. Sarebbe
grato a chiunque usasse la propria influenza per porlo
in terapia medica nel manicomio senza che ciò venga
divulgato».
La lettera funzionò, l’influenza dell’antica famiglia,
dell’antica università, si dimostrò efficace. Il giorno se­
guente, senza guardie e in segreto, il dottor Minor prese
l’espresso che, passando per Philadelphia, Wilmington
e Baltimora, lo portò alla Union Station di Washington.
Da lì prese una vettura pubblica che lo condusse a su­
dest della città, fino al parco ben curato dell’ospedale.
Varcò l’ingresso di pietra, e da quel momento iniziò la
sua familiarità con i manicomi, destinata a durare per
tutta la vita.
La casa di cura di Washington, rinominata in seguito
St. Elizabeths, sarebbe diventata tristemente famosa: vi
sarebbe stato rinchiuso Ezra Pound, come pure John
Hinckley, colui che tentò di assassinare il presidente Rea­
gan. Fino alla fine dell’ottocento, invece, era conosciu­
ta in modo più generico come l’unico luogo gestito dal
governo federale dove i soldati e i marinai di cui era sta­
ta certificata la follia potevano essere detenuti, riabilita­
ti, rinchiusi. William Minor vi doveva restare per i diciot­
to mesi seguenti. Era, però, un paziente fidato: il sovrin­
tendente gli permetteva di muoversi liberamente nel
parco e lo lasciava andare senza scorta nella campagna
vicina (un secolo e mezzo fa Washington era un posto
molto diverso, con i campi dove ora ci sono le baracco­
poli) . Arrivava a piedi fino in città; passava davanti alla
Casa Bianca; si presentava all’ufficio paga ogni mese e
riscuoteva il suo salario in contanti.
Ma rimaneva assillato da ossessioni maniacali. Un’équi­
pe di medici dell’esercito lo visitò nel settembre seguen­
te. « Le nostre osservazioni ci portano a formulare un’o­
85
pinione molto sfavorevole riguardo alle condizioni del
dottor Minor » dissero al ministro della Sanità. « Potrà
passare moltissimo tempo prima che possa, forse, torna­
re in salute ». Un altro medico rincarò: « I disturbi delle
funzioni cerebrali sono ancor più marcati ».
Nell’aprile successivo i suoi comandanti giunsero a
una conclusione nient’affatto ottimistica: non c’era al­
cuna possibilità che Minor guarisse, dissero, e doveva
essere formalmente inserito nell’elenco dei militari in
congedo. Si tenne un’udienza nel palazzo dell’esercito
di New York, all’angolo tra Greene e Houston Street, in
quella che oggi è la zona raffinata e alla moda di SoHo,
per formalizzare il congedo dell’ufficiale e per accerta­
re che esso fosse giustificato dalle circostanze.
Il procedimento fu lungo e triste. La commissione -
composta da un generale di brigata, due colonnelli, un
maggiore e un ufficiale medico con il grado di capitano
- ascoltò in silenzio, mentre i medici fornivano l’uno
dopo l’altro le prove del declino di questo giovane un
tempo così promettente. Forse lo stato mentale in cui
versava era frutto dell’esposizione al sole della Florida,
disse uno; forse era stato solo aggravato da questa, disse
un altro; forse era tutto da imputare al coinvolgimento
dell’uomo nella violenza della guerra, una conseguenza
degli orrori dei quali era stato testimone.
Non importava il motivo preciso per cui era precipita­
to nella follia: la commissione raggiunse infine l’unica
decisione adeguata riguardo al modo di gestirla dal
punto di vista amministrativo. Per l’esercito, William C.
Minor, ufficiale medico con il grado di capitano, allo sta­
to attuale era del tutto « inidoneo al servizio per cause
insorte nell’espletamento del proprio dovere » (la frase
cruciale di tutto il decreto) e doveva essere congedato
con effetto immediato.
Era, in altre parole, una delle tante vittime di guerra.
Aveva servito il suo paese, si era rovinato nel farlo, e il
suo paese era in debito con lui. Se i seducenti erotismi
di Ceylon, le tragiche circostanze familiari, il desiderio
86
ossessivo per le prostitute, la nostalgie de la boue, se uno di
questi fattori o tutti avevano contribuito al suo costante
declino mentale, amen. L’esercizio del dovere l’aveva
rovinato. Ora l’esercito degli Stati Uniti si sarebbe preso
cura di lui. Era sotto la protezione dello zio Sam. Poteva
fregiarsi del titolo onorifico di « militare in congedo ».
Paga e pensione sarebbero rimaste: e così fu, in effetti,
per il resto della sua vita.

Nel febbraio del 1871 un conoscente di New York scris­


se per comunicare che Minor era stato dimesso dal mani­
comio e che si stava dirigendo a Manhattan, dove avreb­
be soggiornato con un amico medico in West 20th Street.
Poche settimane più tardi si seppe che era tornato a casa
sua, a New Haven, per passare l’estate con il fratello Al­
fred, per rivedere i vecchi amici di Yale e per trovare qual­
cosa da fare nell’emporio del defunto zio ( “Minor & Co.,
commercianti in ceramiche, vetro e vasellame”), gestito
da Alfred e dal fratello maggiore George al numero 261
di Chapel Street. Quelli dell’estate e dell’autunno del
1871 furono tra gli ultimi giorni liberi e tranquilli che il
dottor Minor si potè godere in America.
In ottobre, con le foglie rosse e gialle degli alberi del
New England che già iniziavano a cadere, William Mi­
nor si imbarcò a Boston su una nave a vapore, con un
biglietto di sola andata per il porto di Londra. Aveva in
mente di passare circa un anno in Europa, disse ai suoi
amici. Avrebbe riposato, letto, dipinto. Forse avrebbe
frequentato qualche bagno termale, avrebbe visitato Pa­
rigi, Roma e Venezia, avrebbe cercato refrigerio e nuo­
vo vigore per quella che ben sapeva essere una mente
turbata. Uno dei suoi amici di Yale gli aveva scritto una
lettera di presentazione indirizzata a Ruskin; avrebbe
senza dubbio fatto colpo sul demi-monde artistico della
capitale britannica. Era, dopotutto (e quante volte ave­
va sentito questa frase alle udienze dell’esercito), «un
gentiluomo di cristiana cultura, finezza e gusto ». Avreb-
87
be conquistato Londra. Si sarebbe ristabilito. Sarebbe
tornato negli Stati Uniti da uomo nuovo.
Scese dalla nave una mattina nebbiosa all’inizio di
novembre. Esibì ai funzionari della dogana i documenti
di ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti e si fece portare
da un landò al Radley’s Hotel, vicino alla Victoria Sta­
tion. Aveva del denaro con sé. Aveva i suoi libri, il caval­
letto, gli acquerelli, i pennelli.
E aveva anche, al sicuro nella scatola laccata di nero,
la sua pistola.

88
4
LA RACCOLTA DELLE FIGLIE DELLA TERRA

Sesquipedalian (se:skwipìd<?' liàn), a. and sb.


[f. L. sesquipedalis', see Sesquipedal and-iAN.]
A. adj. 1. Of words and expressions (after Hor­
ace’s sesquipedalia verba ‘words a foot and a half
long’, A. P. 97): Of many syllables.
B. sb. 1. A person or thing that is a foot and a
half in height or length.
1615 Curry-Combe for Coxe-Combe iii. 113
He thought fit by his variety, to make you knowne
for a viperous Sesquipedalian in euery coast. 1656
Blount Glossogr.
2. A sesquipedalian word.
1830 Fraser’s Mag. I. 350 What an amazing
power in writing down hard names and sesquipe­
dalians does not the following passage manifest!
1894 Nat. Observer 6 Jan. 194/2 His sesquipeda­
lians recall the utterances of another Doctor.
Hence Se:squipeda*lianism, style character­
ized by the use of long words; lengthiness.

Era un nebbioso novembre anche quasi un quarto di


secolo prima, quando le vicende centrali sull’altro ver­
sante di questa strana congiuntura avevano iniziato a
seguire il loro corso. Ma mentre il dottor Minor arrivò a
Londra una gelida mattina del novembre 1871 e scese
in un albergo fuori moda di Victoria, quest’altra serie di
ben diversi avvenimenti ebbe luogo in una gelida serata
dello stesso mese nell’anno 1857, e in una zona sceltissi­
ma di Mayfair.
Era il 5 novembre, il giorno di Guy Fawkes.1 Da poco

1. Il 5 novembre 1605 fu sventata a Londra la cosiddetta Congiura


delle polveri, ordita da un gruppo di cospiratori cattolici capeggiati
da Guy Fawkes con l’obiettivo di far saltare in aria la Camera dei

89
erano passate le sei; il luogo in questione era una stretta
casa a schiera all’angolo nordoccidentale di una delle
oasi londinesi più aristocratiche e alla moda, St. James’s
Square. Da tutti i lati si ergevano le imponenti residenze
cittadine e i circoli privati dello straordinario numero di
vescovi e pari e membri del Parlamento che vi abitava­
no. I negozi più eleganti della città erano appena a un
tiro di schioppo, come pure le chiese più belle, gli uffici
più sontuosi, le ambasciate straniere più antiche e su­
perbe. La costruzione all’angolo di St. James’s Square
ospitava un’istituzione che era cruciale per la vita intel­
lettuale dei grandi uomini che vivevano nelle vicinanze
(e ancora oggi riveste questo ruolo, anche se, fortunata­
mente, in un mondo un po’ più democratico) : accoglie­
va infatti quella che i suoi ammiratori consideravano, e
considerano ancora oggi, la raccolta privata più pregia­
ta al mondo di libri accessibili al pubblico, la London
Library.
La biblioteca vi si era trasferita dodici anni prima, dal­
la sede ormai troppo stipata di Pali Mail. La nuova co­
struzione era alta e spaziosa e, sebbene oggi sia piena da
scoppiare di ben più di un milione di libri, allora, nel
1857, disponeva solo di poche migliaia di volumi e di
spazio libero a iosa. E così il suo comitato decise ben
presto di incamerare del denaro extra affittandone al­
cune stanze, ma solo, venne stabilito, a società i cui ade­
renti avessero presumibilmente condiviso gli stessi no­
bili fini culturali della biblioteca, e i cui membri avesse­
ro saputo amalgamarsi felicemente con gli aristocratici
gentiluomini, spesso straordinariamente snob, che ne
formavano il ruolo.
Furono scelte due associazioni: una era la Statistical
Society, l’altra la Philological Society. Fu durante uno
degli incontri quindicinali di quest’ultìma, tenutosi quel

Lord e uccidere il re protestante Giacomo I. Ogni anno, il fallimen­


to del complotto è commemorato con fuochi d’artificio e falò in cui
viene bruciato il fantoccio di Guy Fawkes [N.d. T.].

90
gelido giovedì sera in una stanza al piano superiore, che
si pronunciarono parole da cui avrebbe preso il via una
considerevole serie di avvenimenti.
L’oratore era il decano di Westminster, un autorevo­
le ecclesiastico di nome Richard Chenevix Trench. For­
se più di chiunque altro al mondo, Trench incarnava le
sconfinate nobili ambizioni della Philological Society.
Egli credeva fermamente, come la maggior parte dei
duecento membri della società, che ci fosse un disegno
divino alla base di quella che allora sembrava l’incessan­
te diffusione della lingua inglese in tutto il pianeta.
Dio, che naturalmente in quella parte della società
londinese era ritenuto con certezza un inglese, approva­
va senza dubbio la divulgazione della lingua come es­
senziale strumento imperialistico; ma ne incoraggiava
anche l’indiscusso corollario, ossia l’affermazione del
cristianesimo in tutto il mondo. L’equazione era davve­
ro elementare, la formula di un indubbio beneficio glo­
bale: quanto più inglese si parlava nel mondo, tanto più
timorati di Dio sarebbero stati i popoli. (E per un uomo
di Chiesa protestante c’era una ulteriore, proficua im­
plicazione: se l’inglese fosse infine riuscito a surclassare
l’influenza linguistica della Chiesa di Roma, la sua por­
tata avrebbe persino potuto contribuire a riunire le due
Chiese in una qualche forma di armonia ecumenica -
posto tuttavia che il predominio fosse anglicano).
Quindi, sebbene il ruolo ufficiale della società fosse
accademico, il suo obiettivo informale, sotto la direzio­
ne di esimi teologi come Trench, era molto più vigoro­
samente sciovinista. Vere discussioni filologiche di
stampo rigorosamente classico (su tematiche oscure co­
me « Le variazioni fonetiche nei dialetti dei papuani e
dei pigmei asiatici » oppure « Il ruolo delle fricative e-
splosive nell’alto tedesco ») davano credibilità accade­
mica alla società, il che andava benissimo. Ma l’obiettivo
principale del gruppo consisteva in effetti nel promuo­
vere la comprensione di quella che tutti i partecipanti
92
consideravano la lingua giustamente dominante del
mondo, ossia la loro.
Sessanta membri si erano riuniti alle sei di quella sera
novembrina. Il buio era sceso su Londra poco dopo le
cinque e mezzo. Le lampade a gas sfrigolavano e scop­
piettavano, e agli angoli di Piccadilly e di Jermyn Street
c’erano ancora dei ragazzini che raccoglievano gli ulti­
mi penny per i fuochi d’artificio, tenendo dritti davanti
a sé i pupazzi di stracci raffiguranti Guy Fawkes, che ben
presto sarebbero bruciati nei falò. In lontananza si sen­
tivano già fischi e botti e sibili di razzi e candele romane
che esplodevano, mentre iniziavano le prime feste.
Come le domestiche spaventate dai fuochi d’artificio
correvano via verso le entrate di servizio dei grandi edifi­
ci vicini, così gli anziani filologi, imbacuccati per il fred­
do, si affrettavano nell’oscurità. Erano uomini che da
tempo si erano lasciati alle spalle divertimenti movimen­
tati come quelli. Erano ansiosi di scappare dal rumore
delle esplosioni e dall’eccitamento della festa, e di rifu­
giarsi nella quiete dei loro dotti ragionamenti.
Tanto più che l’argomento su cui si sarebbero intrat­
tenuti quella sera sembrava promettente e nient’affatto
gravoso. Trench, in una conferenza divisa in due parti
che si preannunciava di considerevole importanza, do­
veva discutere il tema dei dizionari. Il titolo della sua
disquisizione lasciava presagire un ordine del giorno
molto ambizioso: egli avrebbe spiegato al suo pubblico
che i pochi dizionari allora esistenti erano soggetti a
molti e gravi limiti: serie lacune delle quali, probabil­
mente, sia la lingua sia, di riflesso, l’impero e la sua
Chiesa avrebbero infine risentito. Era proprio il tipo di
disquisizione che amavano ascoltare i vittoriani che ac­
cettavano i solidi precetti della Philological Society.

Il «dizionario d’inglese», nel senso in cui oggi usia­


mo comunemente questa espressione, inteso come un
elenco in ordine alfabetico delle parole inglesi con la
93
spiegazione del loro significato, è un’invenzione relati­
vamente nuova. Quattrocento anni fa non c’era una si­
mile comodità su nessuno scaffale inglese.
Non c’era, per esempio, quando William Shakespeare
scriveva le sue opere per il teatro. Ogniqualvolta gli ve­
niva di usare una parola insolita, o di mettere una paro­
la in quello che sembrava un contesto insolito (e le sue
opere teatrali sono straordinariamente ricche di esem­
pi), non aveva quasi alcun modo di verificare la corret­
tezza di ciò che si apprestava a fare. Non gli era possibile
frugare tra gli scaffali e scegliere un volume che lo po­
tesse aiutare: non avrebbe trovato nessun libro che gli
dicesse se la parola che aveva scelto era scritta corretta-
mente, se l’aveva scelta bene, e se l’aveva usata nel modo
giusto e nel punto giusto.
Shakespeare non poteva nemmeno compiere un’a­
zione che noi oggi consideriamo del tutto normale e
comune quanto la lettura stessa. Non poteva, come si
dice in inglese, look up, « cercare » un termine. In effetti
l’espressione in sé, usata nel senso di « cercare qualcosa
in un dizionario o in un’enciclopedia o in un altro testo
di consultazione», semplicemente non esisteva. Nella
lingua inglese compare solo nel 1692, quando viene u-
sata da uno storico di Oxford di nome Anthony Wood.
Dal momento che di una simile espressione non vi è
traccia se non a partire dalla fine del Seicento, ne conse­
gue che non esisteva nemmeno un simile concetto, cer­
to non ai tempi in cui Shakespeare scriveva: tempi in cui
gli scrittori scrivevano furiosamente e i pensatori pensa­
vano come solo di rado avevano fatto prima. Nonostan­
te l’intensa attività intellettuale del tempo, non c’era in
stampa alcuna guida alla lingua, alcun vademecum lin­
guistico, alcun libro che Shakespeare o Martin Frobisher,
Francis Drake, Walter Raleigh, Francis Bacon, Edmund
Spenser, Christopher Marlowe, Thomas Nash, John
Donne, Ben Jonson, Izaak Walton o qualsiasi altro loro
dotto contemporaneo potessero consultare.
Consideriamo, per esempio, la stesura della Dodicesi-
94
ma notte, che Shakespeare completò nei primi anni del
Seicento. Consideriamo il momento, probabilmente
l’estate del 1601, in cui arriva a scrivere la scena dell’atto
terzo in cui Sebastiano e Antonio, il marinaio naufraga­
to e il suo salvatore, sono appena arrivati al porto e si
stanno chiedendo dove passare la notte. Sebastiano ri­
flette sul problema per un momento e poi, come uno
che ha letto e ricorda bene l’ultima Guida ai migliori ho­
tel, dice con tutta semplicità: «A sud, nei sobborghi, l’E-
lefante / è l’alloggio migliore »?
Ora, che cosa sapeva, esattamente, William Shake­
speare degli elefanti? E poi, che cosa ne sapeva degli Ele­
fanti come alberghi? Era un nome che veniva dato spesso
alle locande in varie città sparse in tutta Europa. Capita
che questo particolare Elefante, dato che si tratta della
Dodicesima notte, si trovasse in Illiria; ma ce n’erano molti
altri, almeno due dei quali a Londra. Ma, a prescindere
da quanti fossero, perché mai esistevano? Perché dare a
una locanda il nome di un animale del genere? E, co­
munque, che cos’era questo animale? Erano tutte do­
mande alle quali, si penserebbe, uno scrittore doveva ave­
re almeno la possibilità di rispondere.
E invece no. Se per caso Shakespeare non avesse sa­
puto granché degli elefanti, il che era molto probabile,
e se non fosse stato al corrente di questa curiosa usanza
di chiamare gli alberghi con quel nome, dove mai pote­
va andare a cercare informazioni? E poi, se non fosse
stato del tutto sicuro di dare a Sebastiano gli elementi
giusti per la sua battuta (era veramente probabile che il
nome dato alla locanda fosse quello dell’elefante, o non
poteva forse trattarsi di un altro animale, il cammello o
il rinoceronte, o lo gnu?), dove poteva guardare per ac­
certarsene? Insomma, un drammaturgo ai tempi di
Shakespeare dove mai poteva andare a cercare una qual-
siasi parola?

1. William Shakespeare, La dodicesima notte, atto III, scena in, w. 39-


40[iV.d.T.].

95
Eppure si potrebbe pensare che avesse bisogno di cer­
care termini a ritmo continuo. « Non sono forse suo con­
sanguineo? »’ scrive nella stessa commedia. Poche bat­
tute dopo parla di «un giustacuore di taffettà cangian­
te ».12 Poi afferma: « La beccaccia è vicina alla trappola ».3
Il vocabolario di Shakespeare era evidentemente prodi­
gioso: ma come poteva essere sicuro il poeta, in tutti i casi
in cui utilizzava parole poco familiari, di essere gramma­
ticalmente e concettualmente corretto? Cosa gli impe­
diva, a spingerlo avanti di un paio di secoli, di diventare
un occasionale signor Malaprop?4
Vale la pena porsi queste domande, se non altro per
capire cosa penseremmo noi oggi del gravissimo incon­
veniente di non poter mai consultare un dizionario. Ai
tempi in cui Shakespeare scriveva c’erano atlanti a profu­
sione, c’erano libri di preghiere, messali, biografie, ro­
manzi d’amore e d’avventura, e libri di storia, di scienza e
di arte. Si pensa che Shakespeare abbia tratto molti dei
suoi riferimenti classici da un Thesaurus, un testo enciclo­
pedico compilato da un uomo di nome Thomas Cooper
(i suoi numerosi errori sono replicati in modo troppo e-
satto nelle opere teatrali perché si tratti di pura coinci­
denza) e si pensa che abbia attinto anche dall’Arte ofRhé­
torique (Arte della retorica) di Thomas Wilson. Ma questo
era tutto: non era disponibile alcun altro strumento lette­
rario, linguistico o lessicale.
Nel Cinquecento, in Inghilterra, i dizionari come li
conosciamo oggi semplicemente non esistevano. Se la
lingua che tanto ispirava Shakespeare aveva dei limiti,
se le sue parole avevano origini, ortografie, pronunce,

1. Ibid., atto II, scena m,v. 79 [JV.d.T.].


2. Ibid., scena tv, v. 73 [N.d. T.].
3. Ibid., scena v, v. 87 [N.d. T.].
4. Mrs Malaprop è un personaggio di The Rivals, commedia brillante
scritta nel 1775 dal drammaturgo irlandese Richard Brinsley Sheri­
dan. La caratterizza l’abitudine di esprimersi storpiando le parole o
scambiandole con altre di suono simile, con effetti particolarmente
comici [N.d.T.].

96
significati definibili, non esisteva un solo libro che li ac­
certasse, li definisse e li mettesse per iscritto. È forse
difficile immaginare una mente tanto creativa lavorare
senza un solo testo lessicografico davanti a sé da consul­
tare, tranne il bigino di Cooper (che la signora Cooper
una volta gettò nel fuoco, costringendo il grande uomo
a ricominciare tutto daccapo) e il piccolo manuale di
Wilson; eppure furono quelle le condizioni che indus­
sero il suo genio singolare a dare tutti i suoi frutti. La
lingua inglese veniva parlata e scritta, ma ai tempi di
Shakespeare non era definita, non era fissata. Era come
l’aria: lo si dava per scontato, questo mezzo di espressio­
ne che raccoglieva e definiva tutti i britannici. Ma che
cosa fosse esattamente, e quali ne fossero i componenti,
non lo sapeva nessuno.
Ciò non significa che non esistesse alcun tipo di dizio­
nario. C’era stata una raccolta di parole latine pubblica­
ta con il titolo di Dictionarius nel lontano 1225 e un’altra
poco più di un secolo dopo, anch’essa tutta in latino,
come ausilio per chi studiava la Vulgata, la difficile tra­
duzione delle Scritture fatta da san Girolamo. Nel 1538
venne pubblicato a Londra il primo di una serie di di­
zionari latino-inglese: l’elenco in ordine alfabetico di
Thomas Elyot, che fu anche il primo libro a utilizzare la
parola inglese dictionary nel titolo. Vent’anni dopo un
uomo di nome Withals pubblicò A Shorte Dictionarie for
Yonge Beginners (Un breve dizionario per giovani princi­
pianti) in entrambe le lingue, ma con i termini organiz­
zati non in ordine alfabetico, bensì per soggetto, come
per esempio « il nome degli uccelli, uccelli d’acqua, uc­
celli domestici, come galli, galline, ecc., delle api, degli
insetti, e altri».
Ma quello che ancora mancava era un vero e proprio
dizionario d’inglese, una definizione completa dell’am­
piezza della lingua. Con un’unica eccezione, di cui Shake­
speare probabilmente non era al corrente quando morì
nel 1616, questo bisogno rimaneva persistentemente
insoddisfatto. Anche altri dovevano rimarcare questa
97
evidente lacuna. Proprio nell’anno in cui Shakespeare
morì, il suo amico John Webster scrisse La duchessa di
Amalfi, che contiene una scena in cui il fratello della du­
chessa, Ferdinando, immagina di trasformarsi in lupo,
« un male pernicioso chiamato licantropia ». « E che vuol
dire? » esclama uno dei personaggi. « Mi serve un dizio­
nario! ».
Ma in effetti qualcuno, un maestro della contea di
Rudand di nome Robert Cawdrey, che in seguito andò a
insegnare a Coventry, aveva evidentemente dato ascolto
a questa richiesta assillante. Lesse, prendendo copiosi
appunti, tutti i testi di consultazione di allora e infine
fece il suo primo debole tentativo di realizzare ciò che
ormai era necessario, pubblicando nel 1604 (l’anno in
cui probabilmente Shakespeare scrisse Misura per misu­
ra) un elenco delle parole da lui scelte.
Era un libretto di centoventi pagine in ottavo, che
Cawdrey intitolò A Table Alphabeticall ... of hard unusual
English Words (Una tavola alfabetica... di termini ingle­
si difficili e insoliti). Conteneva circa duemilacinque-
cento voci. L’aveva compilato, disse, « a beneficio e au­
silio delle dame, delle gentildonne o di ogni altra per­
sona inesperta, cosicché possano più facilmente e me­
glio capire molte parole inglesi difficili, che sentiran­
no o leggeranno nelle Scritture, nei sermoni o altrove,
e possano inoltre divenire capaci di usare personal­
mente le stesse in modo appropriato». L’opera aveva
molti limiti, ma era senza dubbio il primissimo vero
dizionario monolingue d’inglese, e la sua pubblica­
zione rimane un momento chiave nella storia della
lessicografia inglese.
Nei centocinquant’anni seguenti ci fu un gran fer­
mento di attività commerciali in questo campo: i tor­
chi tipografici sfornavano un dizionario dopo l’altro,
ciascuno più ampio del precedente, ciascuno vantando
meriti superiori nell’istruzione degli ignoranti (tra cui
si annoveravano le donne del tempo, la maggior parte
98
delle quali godeva, a confronto degli uomini, di scarsa
scolarizzazione).
Per tutto il Seicento queste pubblicazioni dimostraro­
no la tendenza a concentrarsi, come il primo tentativo di
Cawdrey, su quelle che venivano definite le « parole dif­
ficili », parole che non rientravano nell’uso comune e quo­
tidiano, oppure parole che erano state appositamente in­
ventate per far colpo sugli altri, le cosiddette «pedanterie
da calamaio », di cui i testi del Cinquecento e del Seicento
sembrano generosamente fomiti. Thomas Wilson, la cui
Arte ofRhétorique aveva aiutato Shakespeare, pubblicò qual­
che esempio di questo stile ampolloso, come quello di un
ecclesiastico del Lincolnshire che così scriveva a un funzio­
nario governativo, chiedendo una promozione:
Esiste una dignità sacerdotale nel mio paese natale
contigua alla mia, la quale ora io contemplo: e la quale
la vostra pregiatissima benignità potrebbe ben presto
impetrare per me, se a voi piacesse estendere le solleci­
tudini vostre, e in esse laudare me in cospetto dell’ono­
ratissimo Lord Cancelliere, o piuttosto dell’arcigram-
matico d’Inghilterra.
Il fatto che i volumi si concentrassero solo sulla picco­
la frazione del vocabolario nazionale che raccoglieva
assurdità del genere, ai nostri occhi sembrerebbe ren­
derli bizzarramente incompleti, ma allora questa sele­
zione editoriale era considerata una virtù. Parlare e scri­
vere in questo modo era l’ambizione più alta del bel
mondo inglese. «Vi offriamo » strombazzava l’autore di
uno di questi volumi ai possibili acquirenti « le parole
più scelte ».
E così in questi libri comparivano creazioni fantasti­
che come abequitate, bulbulcitate e sulleuation insieme ad
altre come archgrammacian e contiguate, accompagnate
da profuse definizioni; c’erano parole come necessitude,
commotrix e parentate,1 che ora sono tutte elencate, se lo

1. Abequitate', allontanarsi a cavallo; bulbulcitate-. cantare armoniosa-

99
sono, come « obsolete » o « rare » o entrambe le cose. Il
linguaggio era adorno di invenzioni pretenziose e fiori­
te, il che forse non è così sorprendente, considerata la
moda pomposa del tempo, con le parrucche e i parruc­
coni incipriati, i colletti inamidati e i farsetti, le gorgie­
re, i nastri e i pantaloni al ginocchio di velluto rosso. E
così erano incluse nei vocabolari anche parole come
adminiculation, cautionate, deruncinate e attemptate,1 cia­
scuna debitamente catalogata nei minuscoli libri di allo­
ra, rilegati in pelle; e tuttavia erano parole dirette sol­
tanto alle orecchie più sofisticate, ed era improbabile
che suscitassero grande impressione tra i lettori cui si
rivolgeva Cawdrey, le dame, le gentildonne e le « perso­
ne inesperte ».
Anche le definizioni fornite da questi libri erano ge­
neralmente insoddisfacenti. Alcune offrivano un mero,
unico sinonimo o dei sinonimi scarsamente illuminan­
ti: magnitude', «grandezza», oppure ruminate: «rimastica­
re, riflettere profondamente su qualcosa ». Talvolta le de­
finizioni erano soltanto divertenti: The English Dictionarie
(Il dizionario d’inglese) di Henry Cockeram (1623) de­
finisce commotrix come « una cameriera che veste e spo­
glia la sua padrona », mentre per parentate dà « celebrare i
funerali dei propri genitori ». Oppure, i creatori di questi
libri di parole difficili proponevano spiegazioni oltremo­
do complesse come quelle della Glossographia di Thomas
Blount, che per shrew, « toporagno » o « bisbetica », offre
questa definizione: « Una specie di topo di campagna
che, se sale sulla schiena di un animale, gli fiacca la spina
dorsale; e se morde, l’animale si gonfia nel cuore, e muo­
re ... Di qui viene la nostra espressione inglese Ibeshrew

mente come un bulbul, un uccello molto comune in India; sulleua-


tion: insurrezione; archgrammacian: arcigrammatico; contiguate: con­
tiguo; necessitude: relazione o rapporto tra persone o cose; commotrix
e parentate sono spiegati sotto [N.d.T.].
1. Adminiculationi Fazione del dare aiuto o sostegno; cautionate:
prendere precauzioni; deruncinate: togliere o eliminare ciò che è
superfluo; attemptate: tentativo o attentato [N.d.T.].

100
thee [ti maledico], quando auguriamo del male a qualcu­
no; e chiamiamo una donna insopportabile shrew [bisbe­
tica] ».
Ma in tutto questo furore lessicografico (nell’Inghil­
terra seicentesca furono prodotti sette dizionari princi­
pali, l’ultimo dei quali conteneva ben trentottomila lem­
mi) due questioni continuavano a essere ignorate.
La prima era il bisogno di un buon dizionario che
raccogliesse la lingua nella sua interezza, sia le parole faci­
li e di uso comune, sia quelle diffìcili e oscure, il parlare
sia dell’uomo comune sia della casata di cultura, dell’a­
ristocratico e della scuola esclusiva. Doveva esserci tutto:
la bazzecola di una preposizione di due lettere doveva
avere, in un elenco ideale, un rilievo non inferiore alla
maestà di un polisillabo sesquipedale.
La seconda questione ignorata dai compilatori, men­
tre altrove se ne stava già prendendo coscienza, era il fat­
to che, da quando la Gran Bretagna e il suo influsso ave­
vano iniziato a propagarsi nel mondo (con arditi naviga­
tori come Drake e Raleigh e Frobisher che scorrazzava­
no per i mari, con i rivali europei che si inchinavano alla
potenza dell’impero britannico, e con le nuove colonie
saldamente fondate nelle Americhe e in India che dif­
fondevano la lingua inglese e le idee inglesi ben oltre le
coste d’Inghilterra), l’inglese era in procinto di diven­
tare una lingua globale. Stava iniziando a essere un vei­
colo importante per lo svolgimento dei commerci in­
ternazionali, per le guerre e per la legge. Stava spode­
stando il francese, lo spagnolo, l’italiano e le lingue di
corte degli stranieri. Era necessario che fosse conosciuto
meglio, che fosse studiato in maniera più adeguata. Biso­
gnava fare un inventario di ciò che si diceva, si scriveva
e si leggeva.
Gli italiani, i francesi e i tedeschi erano già molto a-
vanti nella salvaguardia del loro patrimonio linguistico,
e si erano spinti addirittura al punto di fondare delle i-
stituzioni allo scopo di mantenere la loro lingua in per­
fette condizioni. A Firenze nel 1582 era stata fondata
101
l’Accademia della Crusca, finalizzata alla tutela della
cultura «italiana», anche se ci sarebbero voluti altri tre
secoli prima che nascesse un’entità politica chiamata I-
talia. Ma l’Accademia produsse nel 1612 un dizionario
d’italiano: la cultura linguistica, se non la nazione, era
viva. A Parigi nel 1634 Richelieu aveva costituito l’Aca­
démie française. I Quaranta Immortali, detti più breve­
mente e in modo forse più sinistro «i Quaranta», pre­
siedono ancora oggi all’integrità della lingua con mera­
vigliosa imperscrutabilità.
Ma in Gran Bretagna non avevano tentato questo tipo
di approccio. Solo nel Settecento si fece strada l’idea
che la nazione avesse bisogno di sapere più nel dettaglio
che cosa fosse la sua lingua, e che cosa significasse. Alla
fine del Seicento, si diceva, gli inglesi erano « sgradevol­
mente consapevoli della propria arretratezza nello stu­
dio della lingua ». Da allora in poi si fecero molti proget­
ti per promuovere la lingua inglese, per conferirle mag­
gior prestigio in patria e all’estero.
I dizionari migliorarono, e in modo molto evidente,
nella prima metà del nuovo secolo. Il più notevole di
tutti, un libro che effettivamente estese l’enfasi dalle so­
le parole difficili a un’ampia fascia dell’intero vocabola­
rio inglese, fu curato dal proprietario di un collegio di
Stepney, di nome Nathaniel Bailey. Di lui si sa pochissi­
mo, tranne il fatto che apparteneva alla Chiesa battista
del settimo giorno. Ma l’ampiezza della sua erudizione e
la portata dei suoi interessi si manifestano ampiamente
nel frontespizio della sua prima edizione (ce ne sareb­
bero state venticinque, tra il 1721 e il 1782, tutte di gran­
de successo). La pagina lascia intendere, inoltre, l’ecce­
zionale vastità dell’impegno che si presentava a qualun­
que sgobbone elaborasse il progetto di creare un dizio­
nario d’inglese veramente completo. L’opera di Bailey
si intitolava:
Dizionario etimologico universale, comprendente la
derivazione della maggioranza delle parole della lingua
102
inglese, sia antiche sia moderne, da britannico antico,
sassone, danese, normanno e francese moderno, ger­
manico, olandese, spagnolo, italiano, latino, greco ed
ebraico, ciascuna secondo le proprie caratteristiche. E
inoltre una breve e chiara spiegazione di tutte le parole
difficili... e dei termini delle arti riferiti alla botanica,
all’anatomia, alla fìsica... Con un’ampia raccolta e spie­
gazione di parole ed espressioni usate nei nostri antichi
statuti, codici, ordinanze, vecchi registri e processi di
legge; e l’etimologia e l’interpretazione dei nomi pro­
pri di uomini, donne e luoghi notevoli della Gran Breta­
gna; inoltre i dialetti delle nostre diverse contee. Conte­
nente molte migliaia di parole in più ... rispetto a ogni
altro dizionario d’inglese finora esistente. Vi è aggiunta
una raccolta dei nostri proverbi più comuni, con la loro
spiegazione e illustrazione. L’intera opera è stata com­
pilata ed elaborata con metodo, sia per il divertimento
dei curiosi, sia per l’informazione degli ignoranti, e per
il beneficio di giovani studenti, artigiani, commercianti
e stranieri...
Per quanto validi potessero essere stati l’impegno e i
volumi pubblicati, ancora non bastava. Nathaniel Bailey
e coloro che cercarono di imitarlo nella prima metà del
Settecento lavorarono duramente al proprio compito,
sebbene il progetto di imbrigliare tutta la lingua diven­
tasse sempre più vasto man mano che veniva considera­
to. E tuttavia ancora nessuno sembrava abbastanza capa­
ce dal punto di vista intellettuale, o coraggioso, o dedi­
to, o provvisto di tempo sufficiente, per realizzare una
catalogazione veramente completa di tutta la lingua in­
glese. E invece proprio questo, anche se nessuno sem­
brava nemmeno capace di dirlo, era veramente necessa­
rio. Porre fine alla timidezza, al tergiversare: sostituire il
filologicamente sperimentale con il lessicograficamente
definitivo.

103
E poi venne l’uomo che Tobias Smollett definì « il
gran khan della letteratura», una delle più eminenti
figure letterarie di tutti i tempi: Samuel Johnson. Egli
decise di raccogliere la sfida davanti alla quale tanti altri
si erano ritirati. E anche con il giudizio critico degli ol­
tre due secoli intercorsi, si può ancora tranquillamente
dire che quello che creò fu un trionfo senza pari. Il suo
Dictionary of the English Language (Dizionario della lin­
gua inglese) era, e rimane, un ritratto della lingua del
tempo in tutta la sua maestosità, la sua bellezza, e la sua
meravigliosa confusione.
Ben pochi sono i libri che possono dare tanto piacere
a chi li guarda, li tocca, li sfoglia, li legge.
Se ne trovano delle copie ancora oggi, spesso rinchiuse
in custodie di marocchino marrone. Sono pesantissime,
fatte per essere tenute su un leggio più che in mano. So­
no rilegate in preziosa pelle marrone, la carta è spessa e
oleosa, la stampa penetrata profondamente nelle fibre.
Pochi di coloro che oggi leggono questi volumi possono
sfuggire al fascino della singolare eleganza delle defini­
zioni, in cui Johnson era maestro. Prendiamo per esem­
pio la parola che Shakespeare avrebbe potuto cercare,
elephant. Era, affermavaJohnson:
Il più grande di tutti i quadrupedi, sulla cui sagacità,
fedeltà, prudenza e persino intelligenza, si hanno molte
sorprendenti testimonianze. Questo animale non è car­
nivoro, bensì si nutre di fieno, erbe e ogni tipo di legu­
mi; e si dice che abbia una vita estremamente lunga. E
per natura molto mite; ma quando è infuriato, non c’è
creatura più terribile. E dotato di proboscide, o lunga
cartilagine cava, simile a grossa tromba, che gli penzola
tra i denti, e che ha la funzione di una mano: con un
colpo di proboscide può uccidere un cammello o un
cavallo, e può alzare con essa pesi prodigiosi. I suoi den­
ti sono l’avorio tanto noto in Europa; se ne sono visti al­
cuni grossi quanto la gamba di un uomo e alti sei piedi.
Gli elefanti selvaggi vengono catturati con l’aiuto di una
104
femmina pronta per il maschio: essa viene rinchiusa in
uno spazio limitato, intorno al quale vengono scavate
delle fosse; ed essendo queste coperte da un sottile stra­
to di terra sparsa su ramoscelli, l’elefante maschio cade
facilmente nella trappola. Nella copula la femmina rice­
ve il maschio che le si appoggia sulla schiena; e tale è la
sua pudicizia che egli non copre mai la femmina finché
c’è qualcuno in vista.
E tuttavia il dizionario diJohnson è molto, molto di più
di un oggetto affascinante e singolare. La sua pubblica­
zione ha rappresentato un momento chiave nella storia
della lingua inglese; l’unico momento più significativo
doveva avere inizio quasi esattamente un secolo dopo.
Samuel Johnson pensò e progettò la struttura del suo
dizionario per molti anni. Uno dei suoi scopi era quello
di crearsi una buona fama: era un maestro di scuola di­
venuto giornalista, conosciuto solo in ristrette cerehie
metropolitane come l’autore di resoconti parlamentari
per il « Gendeman’s Magazine », ed era ansioso di ottene­
re una considerazione maggiore. Ma iniziò questo per­
corso anche per rispondere agli appelli dei giganti: ri­
chieste pressanti che si facesse qualcosa.
La loro era una lamentela quasi universale: Joseph
Addison, Alexander Pope, Daniel Defoe, John Dryden,
Jonathan Swift, i fari della letteratura inglese, si erano
tutti espressi con molta chiarezza, appellandosi «dia ne­
cessità di fissare la lingua (« fissare » da allora è diventa­
to un termine del gergo lessicografico). Questo signifi­
cava stabilire i limiti della lingua, creare un inventario
del suo patrimonio lessicale, forgiare la sua cosmologia,
decidere esattamente che cosa fosse. La loro ponderata
opinione sulla natura dell’inglese era splendidamente
autocratica: la lingua, insistevano, alla fine del Seicento
era ormai sufficientemente perfezionata e pura, tanto
da poter soltanto rimanere statica o altrimenti, da allora
in poi, deteriorarsi.
Nel complesso concordavano con i princìpi dei Qua­
105
ranta Immortali d’oltremanica (anche se l’avrebbero
ammesso solo con estrema riluttanza) : era necessario
che una lingua nazionale standard venisse definita, mi­
surata, scritta, cesellata nell’argento e scolpita nella pie­
tra. Le alterazioni, poi, sarebbero state permesse o me­
no in base agli umori dei grandi e dei saggi, i Quaranta
britannici, un’autorità linguistica nazionale.
Il più accanito sostenitore di tale causa fu Jonathan
Swift. Una volta scrisse al conte di Oxford per esprimere
la sua indignazione per il fatto che cominciassero ad ap­
parire sulla carta stampata parole come bamboozle, up­
pish e - più di ogni altra cosa - couldn ’t.1 Voleva si decre­
tassero regole ferree che bandissero tali parole in quan­
to offensive per il buon senso. In futuro voleva che ve­
nisse fissata la grafia di tutte le parole: un’ortografia
stabile, il corretto scrivere. Voleva che venisse stabilita la
loro pronuncia: un’ortoepia altrettanto stabile, il cor­
retto dire. Regole, regole, regole: erano essenziali, di­
chiarò il creatore di Gulliver.
Si doveva accordare alla lingua la stessa dignità e lo
stesso rispetto attribuiti agli altri valori che la scienza
proprio allora stava cercando di definire. Che cosa sono
il blu o il giallo?, si chiedevano i fisici. Quanto è calda
l’acqua bollente? Quanto è lunga una iarda? Come
definire quello che i musicisti conoscevano come do
centrale? E che dire, poi, dell’esatta misurazione della
longitudine, tanto vitale per i marinai? Si stavano com­
piendo sforzi enormi in questo particolare settore, pro­
prio nello stesso periodo del dibattito sulla lingua nazio­
nale: era stata istituita dal governo una Commissione
per la longitudine, si elargivano fondi e si offrivano pre­
mi affinché si inventasse uno strumento di misurazione
che potesse andare per mare su una nave ed essere solo

1. Bamboozle-, ingannare; uppish, borioso; couldn’t è la forma contrat­


ta di could not (passato o condizionale negativo di can, potere), usata
principalmente nella lingua parlata, ma oggi comunemente accet­
tata anche nella lingua scritta. Tutti e tre i termini appartengono al
registro colloquiale e familiare [N.d.T.].

106
impercettìbilmente inesatto. La longitudine era di im­
portanza vitale: per una grande nazione commerciale
come la Gran Bretagna era necessario che i capitani del­
le navi sapessero con precisione dove si trovavano.
E dunque così ragionavano i grandi uomini di lettere:
se la longitudine era importante, se la definizione di co­
lore, lunghezza, massa e suono era vitale, perché non
veniva dato lo stesso valore alla lingua nazionale? Come
giustamente deprecava l’autore di un pamphlet: « Noi
non abbiamo né grammatica né dizionario, né carta
nautica né bussola che ci guidino nel grande mare delle
parole».
Nessun dizionario si era dimostrato adeguato sino ad
allora, dicevano Swift e i suoi amici, ma date le vette di
perfezione che la lingua aveva già raggiunto, ora ne ser­
viva uno, e si doveva trovare un uomo di genio con la
necessaria vocazione che si dedicasse al compito di crear­
lo. Esso avrebbe realizzato due imprese auspicabili: fis­
sare la lingua e conservarne la purezza.
Samuel Johnson non poteva essere meno d’accordo.
Quantomeno non voleva saperne di sistematizzare la
lingua affinché rimanesse pura. Forse gli sarebbe pia­
ciuto che lo fosse, ma sapeva che era impossibile. Su
quanto, poi, ritenesse possibile o auspicabile fissarla,
fiumi di teorie sono usciti negli ultimi anni dalle rotati­
ve accademiche, nei quali si è dibattuto variamente sulla
questione. Attualmente l’opinione generale è che in o-
rigine egli avesse progettato di fissare la lingua, ma che
poi, giunto a metà del suo lavoro di sei anni, fosse arriva­
to a capire che era impossibile e anche non auspicabile.
Uno dei suoi predecessori, Benjamin Martin, ne spie­
gava il motivo: «Nessuna lingua che dipenda dall’uso
arbitrario e dal costume potrà mai essere permanente-
mente la stessa, ma sarà sempre in una condizione mu­
tevole e fluttuante; e ciò che è considerato gentile ed e-
legante in un’epoca, potrebbe essere ritenuto rozzo e
barbaro in un’altra». Questa affermazione, che fu pub­
blicata nella prefazione a un ennesimo, malriuscito ten­
107
tativo di creare un dizionario adeguato, appena un an­
no prima dell’uscita di quello dijohnson, potrebbe aver
guidato anche il gran khan in tutto il suo lavoro di co­
struzione.
Al di là dei grandi discorsi teorici dell’intelligencija
londinese, fu in realtà il mercato libero che spinse John­
son a cominciare. Nel 1746 un gruppo di cinque librai
londinesi (tra cui i famosi signori Longman) furono
presi dall’idea che un dizionario nuovo di zecca sarebbe
riuscito a vendere come il pane. Avvicinarono perciò il
loro giornalista parlamentare favorito, che sapevano es­
sere al contempo tenace e al verde, e gli fecero un’offer­
ta che diffìcilmente avrebbe potuto rifiutare: millecin­
quecento ghinee, di cui la metà sull’unghia. Johnson
accettò prontamente, ma a una condizione: avere come
patrono l’uomo che era al momento arbitro indiscusso
di ogni espressione buona e meritevole dell’Inghilterra
letteraria, Philip Dormer Stanhope, il quarto conte di
Chesterfield.
Lord Chesterfield era una delle figure più notevoli
del paese: ambasciatore, luogotenente d’Irlanda, ami­
co di Pope, Swift, Voltaire e John Gay. Fu Chesterfield
a spingere l’Inghilterra ad adottare il calendario gre­
goriano, e furono le lettere in cui dava consigli di com­
portamento al figlio bastardo Philip a diventare, una
volta pubblicate, un indispensabile vademecum delle
buone maniere. Il suo imprimatur al dizionario sarebbe
stato prezioso, il suo patronato per il progetto inestima­
bile.
Che egli promettesse l’imprimatur, ma declinasse il
patronato (salvo allungare a Johnson una cambiale per
la misera somma di dieci sterline), per poi invece recla­
mare il proprio contributo al successivo trionfo dell’au­
tore, divenne fonte di rancori ampiamente divulgati.
Lord Chesterfield, avrebbe detto Johnson in seguito,
insegnava « i valori morali di una sgualdrina e le manie­
re di un maestro di ballo ». Chesterfield, che aveva la
108
pelle dura del vero aristocratico, accantonò le critiche
giudicandole amichevoli, cosa che non erano affatto.
Il suo iniziale appoggio al progetto del dizionario,
sommato alle settecentocinquanta ghinee che i librai a-
vevano messo in mano ajohnson, servirono però a met­
tere al lavoro il curatore trentasettenne. Egli prese delle
stanze nei pressi di Fleet Street, assunse come amanuen­
si sei aiutanti (cinque dei quali scozzesi, il che sarebbe
stato di conforto per James Murray), e intraprese i sei
anni di faticoso e incessante lavoro che si sarebbero rive­
lati necessari. Aveva deciso, come anche Murray avreb­
be deciso cent’anni più tardi, che il modo migliore (o
meglio, l’unico modo) di compilare un dizionario com­
pleto era quello di leggere: scorrere tutta la letteratura ed
elencare le parole che comparivano su centinaia di mi­
gliaia di pagine.
E un assioma che esistano tre alternative per stilare
un elenco di parole. Si possono registrare le parole che
si sentono. Si possono copiare le parole da altri diziona­
ri già esistenti. Oppure si può leggere e poi, nel più scru­
poloso dei modi, registrare tutte le parole che si sono
lette, selezionarle e disporle in un elenco.
Johnson scartò la prima idea perché troppo farragi­
nosa per essere utilizzabile; naturalmente si trovò d’ac­
cordo con la seconda: tutti i lessicografi si servono dei
dizionari precedenti come punto di partenza, per esse­
re sicuri di non dimenticare niente; e, cosa molto più
significativa, stabilì l’importanza primaria della terza
alternativa: la lettura. Di qui l’affitto delle stanze nei
pressi di Fleet Street, di qui la necessità di acquistare o
prendere a prestito quintali, metri, sacchi di libri, e di
qui l’assunzione dei sei uomini. La squadra era stata crea­
ta per pascersi di tutta la letteratura esistente, e per fare
un catalogo di tutto quello che le finiva sotto i denti.
Fu ben presto chiaro che sarebbe stato impossibile e-
saminare tutto, e quindi Johnson impose dei limiti. La
lingua, stabilì, aveva probabilmente raggiunto le sue
vette più alte con gli scritti di Shakespeare, Bacon e
109
Edmund Spenser, e quindi c’era probabilmente ben
poco bisogno di risalire più indietro del periodo in cui
erano vissuti. Decretò dunque che le opere di Sir Philip
Sidney, che aveva solo trentadue anni quando morì, nel
1586, dovessero segnare il punto d’inizio della sua ricer­
ca; e che gli ultimi libri pubblicati da autori morti di re­
cente dovessero segnarne la fine.
Il suo dizionario, in questo modo, sarebbe stato il
frutto di una grande partita di pesca in appena un seco­
lo e mezzo di letteratura, con l’aggiunta, per ogni eve­
nienza, di un elemento estraneo che era Chaucer. Così
Johnson prese tutti questi libri e li lesse, poi sottolineò e
cerchiò le parole che gli interessavano e annotò il nu­
mero delle pagine in cui si trovavano; quindi ordinò ai
suoi uomini di copiare su foglietti di carta la frase intera
che conteneva la parola da lui prescelta; e infine archi­
viò i foglietti per usarli quando gli fossero serviti per illu­
strare la tesi che voleva sostenere, il significato di una
parola che cercava di comprovare.
E furono tutte quelle occorrenze delle parole con di­
verso significato (la dimostrazione delle molteplici, sot­
tili sfumature di senso che possono essere racchiuse in
un semplice gruppo di lettere accostate tra loro) a se­
gnare il grande trionfo del dizionario di Johnson. Per­
ché, se possiamo ridere del fascino singolare della sua
definizione di elefante, o di oats, avena («granaglie che
in Inghilterra vengono date generalmente ai cavalli, ma
che in Scozia servono al sostentamento della gente »), o
di lexicographer, lessicografo («un compilatore di dizio­
nari; uno sgobbone inoffensivo che si impegna a rin­
tracciare l’origine delle parole e a spiegarne in dettaglio
il significato »), non possiamo che restare sbalorditi dal­
la sua analisi, per esempio, del verbo take, prendere.
Johnson elencò, con citazioni esemplificative, ben 113
usi della forma transitiva di questo particolare verbo e
21 della forma intransitiva. «Pigliare, afferrare o cattu­
rare; acchiappare con l’amo; cogliere in fallo qualcuno;
110
conquistare il favore popolare; diventare operativo; as­
serire di fare qualcosa; arrogarsi il diritto ... montare a
cavallo, scappare, compiere l’azione di spogliarsi dei
propri vestiti... ».
L’elenco è quasi interminabile. È indice della genialità
di SamuelJohnson il fatto che, armato di riferimenti tratti
da centocinquant’anni di letteratura inglese, egli sia stato
in grado, essenzialmente con le proprie forze, di trovare e
trascrivere quasi tutti gli usi di ciascuna parola del tempo.
Non soltanto take, ma altri termini comuni come set (met­
tere) , do (fare), go (andare) e centinaia e centinaia di altri.
Nessuna meraviglia se, a progetto ben avviato, presentan­
dosi la trascurabile questione delle pretese dei creditori,
un bel giorno sbarrò l’ingresso al lattaio con il proprio let­
to, gridando da dietro la porta: « Siatene certo, difenderò
questa cittadella fino allo stremo! ».
Finì di accumulare le parole del patrimonio linguisti­
co inglese nel 1750. Trascorse i quattro anni seguenti
occupandosi della redazione delle citazioni e sceglien­
do le 118.000 frasi illustrative (talvolta compiendo l’ere­
sia di modificare le citazioni che non gli piacevano).
Completò infine le definizioni di quelli che dovevano
diventare i 43.500 lemmi da lui scelti. Scrisse alcune di
queste definizioni da zero, per altre prese a prestito pas­
si consistenti di autori che ammirava (come per elephant,
in parte opera di un certo Calmet).
Tuttavia non pubblicò l’opera completa se non nel
1755: voleva convincere l’Università di Oxford a conce­
dergli una laurea, convinto del fatto che, se avesse potu­
to aggiungerla al suo nome sul frontespizio, avrebbe
fatto un gran bene a Oxford, alle vendite del libro e a se
stesso, e non necessariamente in quest’ordine. Oxford
accettò, e il 15 aprile 1755 venne pubblicato:
Un dizionario della lingua inglese, le cui parole so­
no tratte da fonti originali e illustrate nei loro diversi
significati con esempi presi dai migliori scrittori, prece­
111
duto da una storia della lingua e una grammatica ingle­
se, di Samuel Johnson, A.M.,1 in due volumi.

Il libro, che ebbe quattro edizioni durante la vita di


Johnson, doveva rimanere l’opera fondamentale, un in­
superato ricettacolo della lingua inglese, per tutto il se­
colo seguente. Ebbe un enorme successo commerciale
e venne elogiato quasi universalmente, in particolare
dall’ineffabile Lord Chesterfield, che lasciò intendere
di aver partecipato alla creazione del libro molto più di
quanto non avesse fatto. Questo mandò Johnson su tut­
te le furie; non solo borbottò di sgualdrine e maestri di
ballo, ma sfoderò un’arma ancora più affilata: alla voce
patron, patrono, aveva scritto: « Una persona spregevole
che dà appoggio con insolenza e viene ripagata con l’a­
dulazione ». Ma il nobile lord, come si confa a ogni lord,
sorvolò anche su questo.
Ci furono delle critiche. Il fatto che Johnson permet­
tesse Zilla sua personalità di invadere le pagine oggi può
sembrare un gradevole capriccio, ma per alcuni, che
cercavano nel libro l’autorità indiscutibile, era una fasti­
diosa mancanza di professionalità. Molti scrittori spara­
rono sulla limitata autorevolezza di alcuni autori citati
da Johnson, critica che Johnson stesso aveva anticipato
nella sua prefazione. Certi trovarono le definizioni dise­
guali: alcune trite, altre inutilmente complicate (come
per network, rete: « Qualsiasi oggetto reticolato, o decus­
sato, a distanze regolari, con interstizi tra le intersezio­
ni »). Un secolo dopo la pubblicazione il temibile Thom­
as Babington Macaulay avrebbe condannato Johnson
come « uno sciagurato etimologo ».
Ma, a parte Macaulay, molti dei critici erano probabil­
mente solo gelosi, invidiosi cheJohnson avesse fatto quel­
lo che a nessuno di loro sarebbe mai riuscito. «Qualsiasi
maestro di scuola avrebbe potuto fare quello che ha fat­
to Johnson» scrisse qualcuno. «Il suo dizionario non è

1. Dal latino Artium Magister, laureato in Lettere [N.d.T.].

112
altro che il glossario delle sue barbare opere ». Ma l’au­
tore del commento era anonimo e con ogni probabilità
si trattava di un rivale frustrato. O altrimenti di un fana­
tico whig: Johnson era un tory ben noto e scriveva con
quelli che alcuni ritenevano caratteristici preconcetti
tory. E quindi il libro non era altro che un «veicolo per
ambiziosi trattati giacchiti » scrisse un whig, senza dub­
bio un intransigente. Una donna arrivò persino a deni­
grare Johnson per non aver incluso le oscenità. «No, si­
gnora, voglio sperare di non essermene sporcato le ma­
ni » replicò lui, e aggiunse con un pizzico di malizia: «Ve­
do, comunque, che voi le avete cercate ».
Tuttavia le lodi furono molte. Voltaire propose che i
francesi elaborassero un proprio dizionario sul modello
di quello di Johnson, e la venerabile Accademia della
Crusca scrisse da Firenze che la sua opera sarebbe stata
un perpetuo monumento alla fama dell’autore, un ono­
re per il suo paese in particolare e un beneficio generale
per la repubblica delle lettere in tutta Europa. « In un’e­
poca di dizionari di ogni sorta, » scrive un commentato-
re moderno « il contributo di Johnson fu primus inter
pares». E Robert Burchfield, che negli anni Settanta del
Novecento curò il supplemento in quattro volumi al-
l’Oxford English Dictionary, non aveva dubbi: Johnson era
riuscito a conciliare le qualità di lessicografo con quelle
di squisito uomo di lettere: « In tutta la tradizione della
lingua e della letteratura inglesi l’unico dizionario com­
pilato da uno scrittore di alto livello è quello del dottor
Johnson».
Nel frattempo, sotto questa pioggia di fulmini e saet­
te, di plausi ed encomi, Samuel Johnson rimase pacata­
mente modesto. Non senza ragione, in quanto era orgo­
glioso della sua opera, ma era anche intimorito dalla
magnificenza della lingua che lui, con tanta temerarie­
tà, aveva scelto di imbrigliare. Il libro rimase il suo mo­
numento. James Murray avrebbe detto anni dopo che
ogniqualvolta una persona diceva « il dizionario », così
113
come si potrebbe dire « la Bibbia » o « il Libro delle Pre­
ghiere», si riferiva sicuramente all’opera del dottor
Johnson.
Ma no, avrebbe detto il gran khan della letteratura: in
realtà erano le parole a essere il monumento più auten­
tico e, a un livello ancor più profondo, le entità stesse
che quelle parole definivano. « Non sono ancora tanto
perso nella lessicografia » disse nella sua famosa prefa­
zione « da dimenticare che le parole sono le figlie della
terra, e gli oggetti i figli del cielo ». La sua vita era stata
dedicata a raccogliere quelle figlie, ma era stato il cielo
a ordinarne la creazione.

114
5
COME FU CONCEPITO IL GRANDE DIZIONARIO

Elephant (eb'fant). Forms: a. 4-6 oli-, oly-


faunte, (4 pi. olifauns, -fauntz), 4 olyfont, -funt,
5-6 olifante, 4 olephaunte, 5-6 olyphaunt, 4-7
oli-, olyphant(e./?. 4 elifans, 4-5 eie-, elyphaunt(e,
5 elefaunte, 6 eliphant, 5-6 elephante, 6- e-
lephant. [ME. olifaunt, a. OF. olifant, repr. a popu­
lar L. *olifantu-m (whence Pr. olifan-, cf. MDu.
olfant, Bret. olifant, Welsh oliffant, Com. oli-
phans, which may be all from ME. or OFr.), cor­
rupt form of L. elephantum, elephantem (nom. e-
lephantus, -phas, -phans), ad. and a. Gr. ékéipaç
(gen. étâpavToç). The refashioning of the word af­
ter Lat. seems to have taken place earlier in Eng.
than in Fr., the Fr. forms with el- being cited only
from 15thc.
Of the ultimate etymology nothing is really
known. As the Gr. word is found (though only in
sense ‘ivory’) in Homer and Hesiod, it seems un­
likely that it can be, as some have supposed, of In­
dian origin. The resemblance in sound to Heb.
eleph ‘ox’ has given rise to a suggestion of deriva­
tion from some Phoenician or Punic compound of
that word; others have conjectured that the word
may be African. See Yule Hobson-Jobson Suppl.,
s.v. For the possible relation to this word of the
Teut. and Slavonic name for ‘camel’, see Olfend.
The origin of the corrupt Romanic forms with ol-
is unknown, but they may be compared with L. o-
leum, oliva, ad. Gr. ëXaiov, è).aia.]
1. A huge quadruped of the Pachydermate or­
der, having long curving ivory tusks, and a prehen­
sile trunk or proboscis. Of several species once
distributed over the world, including Britain, only
two now exist, the Indian and African; the former
115
(the largest of extant land animals), is often used
as a beast of burden, and in war.

I traguardi raggiunti dai grandi compilatori di dizio­


nari nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento furo­
no veramente prodigiosi. Il loro sapere era senza pari, la
loro cultura puro genio, i loro contributi alla storia del­
la letteratura profondi. Questo è innegabile; e tuttavia,
per quanto crudele possa sembrare persino porsi la do­
manda, chi, oggi, ricorda veramente i loro dizionari, e
chi, oggi, fa uso di tutto ciò che essi realizzarono?
La domanda comporta una verità ineluttabilmente
dolorosa, del genere che offusca tante altre conquiste
pionieristiche anche in settori che vanno al di là di que­
sto e che sono del tutto estranei a esso. La realtà, vista
dalla prospettiva attuale, è semplicemente questa: per
quanto ragguardevoli fossero le opere lessicografiche di
Thomas Elyot, Robert Cawdrey, Henry Cockeram e Na­
thaniel Bailey, per quanto eccelsa e cardinale fosse la
creazione del gran khan, Samuel Johnson, le loro con­
quiste appaiono oggi mere pietre isolate di un lungo
guado, e i magnifici volumi frutto del loro lavoro poco
più che pezzi da collezione, da scambiare, accumulare e
dimenticare.
E la ragione di tutto ciò è da ricercare principalmente
nel fatto che nel 1857, a poco più di un secolo dalla pub­
blicazione della prima edizione del Dictionary di John­
son, arrivò la proposta formale di creare un’opera nuo­
vissima e di ambizioni addirittura siderali, un progetto
lessicografico che sarebbe stato di gran lunga superiore
per ampiezza e complessità a qualsiasi precedente ten­
tativo.
L’operazione aveva un fine ultimo semplicemente
sfrontato, ma elegante: mentre Johnson aveva presenta­
to una selezione della lingua (e una selezione enorme,
realizzata superbamente), questo nuovo progetto l’a­
vrebbe presentata tutta-, ogni parola, ogni variazione, o-
gni sfumatura di significato, ortografia e pronuncia, o­
116
gni risvolto etimologico, ogni possibile citazione esem­
plificativa tratta da ogni possibile autore inglese.
Lo chiamarono semplicemente il «grande diziona­
rio ». Quando fu concepito, era un progetto di audacia
e temerarietà quasi inimmaginabili, richiedeva grande
virtuosismo, esponeva al rischio di peccare di hybris. E
tuttavia c’erano uomini nell’Inghilterra vittoriana dota­
ti della giusta audacia e temerarietà, e più che all’altezza
dei rischi intrinseci: quella era, dopotutto, un’epoca di
grandi uomini, grandi visioni, grandi conquiste. Forse
nessun’altra epoca della storia moderna fu più adatta al
lancio di un progetto tanto grandioso, e può essere que­
sto il motivo per cui al momento giusto la poderosa mac­
china si mise in moto. Gravi problemi e crisi apparente­
mente insolubili minacciarono più di una volta di man­
dare tutto all’aria. Dispute e ritardi accompagnarono i
lavori. Ma infine, quando molti degli uomini grandi e
complessi che avevano avuto la visione iniziale erano or­
mai da tempo nella tomba, l’opera (quella che Johnson
stesso avrebbe forse sognato di realizzare) fu debitamen­
te portata a termine.
Se Samuel Johnson e la sua squadra avevano impiega­
to sei anni per raggiungere il proprio trionfo, coloro
che contribuirono alla creazione di ciò che doveva esse­
re, ed è ancora, il dizionario inglese definitivo impiega­
rono quasi settantanni.
La creazione del grande dizionario ebbe inizio con il
discorso tenuto alla London Library nel 1857, il giorno
di Guy Fawkes.
Richard Chenevix Trench venne ufficialmente desi­
gnato dai necrologi del tempo con l’epiteto di divine,
che oggi è usato di rado, ma che allora indicava tutti i
retti e insigni vittoriani che perseguissero ogni specie di
vocazione portando nel contempo l’abito talare. Al tem­
po in cui morì, nel 1886, Trench era ancora considerato
più che altro un intellettuale religioso di questo tipo: a-
veva avuto una sfavillante carriera ecclesiastica culmina­
ta nella nomina a decano di Westminster e successiva-
117
mente ad arcivescovo di Dublino. Era zoppo per via di
una frattura a entrambe le ginocchia: non certo a causa
di un eccesso di devote genuflessioni, ma perché era ca­
duto da una passerella imbarcandosi per un viaggio via
mare verso l’Irlanda.
Il tema di quella serata, famosa per i lessicografi, era
allettante. Pubblicizzato su foglietti e volantini distribui­
ti in tutto il West End di Londra, verteva su «Alcune ca­
renze dei nostri dizionari d’inglese ». Per gli standard at­
tuali il titolo sembra modesto; date però la temperie im­
periale dell’epoca e la ferma convinzione che l’inglese
fosse la lingua imperiale per eccellenza, e che ogni libro
che se ne occupava fosse uno strumento importante di
salvaguardia dell’impero, il titolo lasciava chiaramente
presagire l’impatto che Trench avrebbe avuto.
Egli individuò sette aspetti principali rispetto ai quali
i dizionari allora disponibili risultavano deficitari; sono
per lo più aspetti tecnici e in questa sede non ci dovreb­
bero riguardare. Ma il suo argomento di base era davve­
ro elementare: era un credo imprescindibile per ogni
futuro compilatore, disse, capire che un dizionario era
semplicemente « un inventario della lingua » e assoluta-
mente non una guida all’uso corretto. Chi lo redigeva
non doveva preoccuparsi di selezionare le parole da in­
cludere in base al fatto che fossero belle o brutte. E inve­
ce tutti i precedenti professionisti di quest’arte, com­
preso Samuel Johnson, si erano resi colpevoli proprio di
questo. Il lessicografo, fece notare Trench, è « uno stori­
co ... non un critico ». Non rientra nelle competenze di
un solo dittatore (« né di quaranta» aggiunse con un’im­
pertinente allusione a Parigi) stabilire quali parole possa­
no essere usate e quali no. Un dizionario dev’essere un
archivio di tutte le parole che sono esistite per un qualsia­
si arco di tempo accertato nella lingua standard.
E il fulcro di un tale dizionario, proseguì, dev’essere
la storia dell’arco di esistenza di ogni singola parola. Al­
cune parole sono antiche ed esistono ancora. Altre sono
nuove e svaniscono come le efemere. Altre ancora e­
118
mergono nell’arco di una vita, continuano a esistere in
quello seguente e in quello dopo ancora, e sembrano
destinate a durare per sempre. Altre meritano una pro­
gnosi meno ottimistica. Eppure tutti questi tipi di paro­
le sono parti legittime della lingua inglese, non importa
se vecchie e obsolete o nuove e con un futuro incerto.
Considerate la questione di fondo: se qualcuno avesse
bisogno di cercare una qualsiasi parola, quella ci dovreb­
be essere, perché se così non fosse, il testo di riferimento
che il libro pretende di essere diventerebbe un contro­
senso, qualcosa cui non è possibile far riferimento.
A questo punto Trench entrò nel vivo del tema. Per
ricostruire la vita di ciascuna parola, continuò, per for­
nirne, per così dire, la biografia, è importante sapere
quando è nata esattamente la parola, avere una docu­
mentazione del suo atto di nascita. Non nel senso di
quando la parola venne pronunciata per la prima volta,
naturalmente (questo, fino all’avvento del registratore,
sarebbe stato impossibile), ma di quando venne scritta
per la prima volta. Ogni dizionario basato sui princìpi
storici - gli unici, insisteva Trench, veramente validi -
doveva avere, per tutte le parole, un brano letterario
che mostrasse dove ciascuna di esse era stata usata per la
prima volta.
Dopodiché, sempre per ogni parola, ci dovevano es­
sere delle frasi che ne illustrassero le mutazioni del signi­
ficato - il modo in cui le parole variano, come pesciolini
argentei che guizzano di qua o di là, caricandosi di sotti­
li sfumature e poi, forse, spogliandosene in base ai det­
tami del pubblico umore. « Un dizionario » disse Trench
« è un monumento storico, la storia di una nazione con­
templata da un certo punto di vista, e le strade sbagliate
percorse dalla lingua ... possono essere istruttive quasi
quanto quelle giuste ».
Il dizionario di Johnson era stato sì tra i pionieri nel
presentare delle citazioni (un italiano, per esempio, as­
seriva di averlo già fatto nel 1598), ma esse erano servite
soltanto per illustrare i significati. La nuova ardita im­
119
presa che Trench sembrava ora voler proporre avrebbe
documentato non solo il significato, bensì anche la sto­
ria del significato, la storia della vita di ciascuna parola.
E per fare questo bisognava leggere tutto e citare tutto
ciò che esemplificasse un qualsiasi aspetto della storia
delle parole riportate. Il compito si prospettava gigante­
sco, monumentale e, secondo il pensiero convenziona­
le del tempo, impossibile.
Senonché Trench qui stava presentando un’idea,
un’idea che, per quelle file di conservatori in redingote
che in quella sera umida e nebbiosa sedevano silenziosi
nella biblioteca, era potenzialmente pericolosa e rivolu­
zionaria. Ma era l’idea che alla fine avrebbe reso possibi­
le l’intera impresa.
Cimentarsi in questo progetto, disse, andava oltre le
capacità di un singolo individuo. Leggere attentamente
tutta la letteratura inglese e passare al setaccio i quoti­
diani di Londra e New York e le riviste e i periodici più
dotti doveva essere invece « l’azione combinata di mol­
ti». Sarebbe stato necessario reclutare una squadra, di
più, una squadra enorme, formata probabilmente da
centinaia e centinaia di appassionati non pagati, che la­
vorassero tutti come volontari.
Tra i presenti ci fu un mormorio di sorpresa. Un’idea
simile, per quanto possa suonare ovvia ai giorni nostri,
non era mai stata avanzata prima. Però, dissero alcuni
mentre la riunione si scioglieva, aveva davvero dei pregi
concreti. Godeva di un’attrattiva scabra, alquanto demo­
cratica. Era conforme a quello che era sempre stato il
pensiero di Trench, secondo il quale il nuovo grande
dizionario avrebbe dovuto essere di per sé un prodotto
democratico, un libro che dimostrasse la supremazia del­
le libertà individuali, della possibilità di usare le parole
liberamente, così come si voleva, senza regole inderoga­
bili di comportamento lessicale.
Un dizionario del genere di certo non poteva essere
un prodotto assolutistico e autocratico come quello che
avevano in mente i francesi: gli inglesi, che avevano in­
120
rialzato l’eccentricità e la scarsa organizzazione al livello
di arte sopraffina e che avevano posto lo stravagante su
un piedistallo, detestavano le cose da Europa centrale co­
me le regole, le convenzioni e le dittature. Aborrivano
l’idea dei diktat (e poi, santi numi, sulla lingua!) emana­
ti da corporazioni segrete di arcani immortali. Sì, annui­
va un gruppo di membri della Philological Society, men­
tre recuperava i mantelli dal collo di astrakan, le sciarpe
di seta bianca e i cappelli a cilindro, e si allontanava nella
nebbia giallastra di novembre: l’idea del decano Trench
di convocare dei volontari era buona, un’iniziativa meri­
tevole e in verità alquanto nobile.
Ed era anche un’idea che, in realtà, avrebbe infine
permesso il coinvolgimento nel progetto di un lessico-
grafo mancato, molto dotto ma mentalmente disturba­
to: William Chester Minor, ufficiale medico con il grado
di capitano dell’esercito americano, in congedo.

Questa, tuttavia, era solo l’idea. Ci vollero altri venti-


due anni di attività sporadica e talvolta sconnessa prima
che il nuovo dizionario decollasse sul serio. La Philolog­
ical Society aveva già impegni gravosi: sei mesi prima del
famoso discorso di Trench aveva costituito un Comitato
per i termini non registrati, alla cui direzione aveva mes­
so, insieme a Trench, l’estroverso Frederick Furnivall e
Herbert Coleridge, nipote del poeta; e aveva pianificato
di dedicare i propri sforzi collettivi alla pubblicazione di
un supplemento contenente tutto ciò che non si trovava
nei dizionari già pubblicati.
Ci vollero molti mesi prima che scemasse l’entusiasmo
per questo progetto, peraltro subito appannato dalla sco­
perta che le ricerche avevano fatto emergere così tante
parole da rendere il supplemento di gran lunga più volu­
minoso di ogni opera già disponibile, persino di quella
di Johnson. Una volta accantonato il progetto, la socie­
tà approvò ufficialmente l’idea di un dizionario del tut­
to nuovo: il 7 gennaio 1858, il giorno in cui il piano ven­
121
ne varato, è comunemente riconosciuto come la data
d’inizio dei lavori, almeno sulla carta.
Furnivall pubblicò allora una lettera circolare con un
appello ai lettori volontari. Potevano scegliere di legge­
re i libri del periodo storico che preferivano: dal 1250 al
1526, l’anno del Nuovo Testamento inglese; da allora
fino al 1674, l’anno della morte di Milton; o dal 1674 a
quello che allora era il tempo presente. Ciascun perio­
do, si riteneva, rappresentava l’esistenza di tendenze di­
verse nello sviluppo della lingua.
Il compito dei volontari era abbastanza semplice, sep­
pure gravoso. Avrebbero dovuto scrivere alla società of­
frendo i loro servigi nella lettura di certi libri; sarebbe
stato loro richiesto di leggere e preparare liste di parole
tratte da tutto ciò che leggevano, e in seguito di cercare,
in modo più specifico, certe parole che al momento in­
teressavano alla squadra del dizionario. Ogni volontario
doveva prendere un foglietto di carta, scrivere nell’an­
golo superiore sinistro la parola in questione, e sotto,
sempre a sinistra, la data delle informazioni che seguiva­
no: esse erano, nell’ordine, il titolo del libro o la testata
del giornale, il numero del volume e della pagina, e poi,
sotto, la frase completa che illustrava l’uso della parola.
È una tecnica che è stata poi adottata dai lessicografi si­
no ai giorni nostri.
Herbert Coleridge divenne il primo direttore edito­
riale di quello che si sarebbe intitolato A New English Dic­
tionary on Historical Principles (Nuovo dizionario inglese
basato su princìpi storici). Intraprese per prima cosa un
impegno che potrebbe sembrare prosaico all’estremo:
la progettazione di un piccolo scaffale di legno di quer­
cia diviso in caselle, nove in larghezza per sei in altezza,
dove avrebbero dovuto trovar posto dalle sessanta alle
centomila schede che, secondo le previsioni, sarebbe­
ro arrivate dai volontari. Valutava che il primo volume
del dizionario sarebbe stato disponibile al mondo inte­
ro entro due anni. « E se non fosse per i ritardi di molti
122
collaboratori, » scrisse chiaramente stizzito « non esiterei
a indicare un periodo più breve ».
Tutto nelle sue previsioni era favolosamente sbaglia­
to. Alla fine dai volontari arrivarono più di sei milioni di
schede; e l’utopistica valutazione di Coleridge, secondo
cui ci sarebbero voluti due anni per vedere stampata la
prima sezione del dizionario da mettere in vendita (do­
veva infatti essere venduto in parti, in modo che le en­
trate fossero continue), era di dieci volte inferiore alla
realtà. Fu questo tipo di deplorevole e ingenua sottova­
lutazione (del lavoro, del tempo, del denaro) che ini­
zialmente tanto ostacolò i progressi del dizionario. Nes­
suno aveva la più pallida idea di quello che aveva di
fronte: procedevano tutti alla cieca.
E la morte prematura di Herbert Coleridge rallentò
ulteriormente le cose. Morì dopo soli due anni di lavo­
ro, all’età di trentun anni, quando non era ancora arri­
vato a metà neH’esaminare le citazioni delle parole che
iniziavano per A. Era stato sorpreso dalla pioggia men­
tre si recava a una conferenza della Philological Society,
alla quale aveva assistito fino alla fine seduto nella stan­
za non riscaldata al piano superiore dell’edificio affac­
ciato su St. James’s Square; aveva preso un’infreddatura
ed era morto. Le sue ultime parole, come ci sono state
tramandate, furono: « Domani devo cominciare con il
sanscrito ».
Gli subentrò Furnivall, che riversò nel lavoro tutta la
sua frizzante energia e la sua ferma determinazione, ma
nel solito modo pazzo e irresponsabile che già gli aveva
procurato folte schiere di nemici. A lui si deve la splen­
dida e duratura idea di assumere una squadra di redat­
tori da frapporre tra i lettori volontari e il direttore edi­
toriale, oberato dall’afflusso di quella massa di schede
con le relative citazioni.
I redattori dovevano verificare l’accuratezza e la rile­
vanza delle schede in arrivo, poi dividerle in mucchietti e
inserirle nelle caselle. Sarebbe stato compito del diretto­
re decidere quale parola «fare», prendere il mucchietto
123
di citazioni relative alla parola in questione dal suo posto
nelle caselle sistemate in ordine alfabetico, e scegliere le
citazioni che facevano al caso suo: appurare qual era la
più antica (questo era di importanza vitale, naturalmen­
te) e quali altre, in seguito, attestavano il lento cammino
della parola, il modo in cui il suo significato era variato
nei secoli, fino a raggiungere il suo significato primario
di quel momento.
Ma Fumivall dirigeva un progetto che, a dispetto di
tutte le sue energie e del suo slancio, stava iniziando, pian
piano ma inequivocabilmente, a morire. Per qualche ra­
gione, mai del tutto chiarita, Fumivall non ebbe il vigore
necessario per tenere alto l’entusiasmo delle centinaia di
volontari e fu così che, pian piano e gradualmente, essi
smisero di leggere, smisero di mandare le schede. A mol­
ti sembrava un impegno insormontabile. Molti in effetti
rimandarono indietro i libri e i giornali che Fumivall a-
veva spedito loro da leggere: solo nel 1879 furono resti­
tuite due tonnellate di materiale. Il dizionario era comple­
tamente in stallo, vittima forse della propria sfrenata am­
bizione. Le relazioni spedite da Fumivall alla Philologi­
cal Society divennero sempre più brevi, le vogate con le
cameriere dell’ABC sempre più lunghe. Nel 18681’« Ath­
enaeum », il periodico che più da vicino seguiva i progres­
si dell’opera, comunicò ai suoi lettori di Londra che
« l’impressione generale è che il progetto non verrà por­
tato a termine».
Ma l’iniziativa non morì. James Murray, si ricorderà,
era membro della Philological Society dal 1869. Si era
già fatto un nome grazie alle pubblicazioni (sul dialetto
scozzese), a enormi edizioni critiche (di poesia scozze­
se) e a nobili progetti, non ancora realizzati (come un
lavoro già pianificato sulla declinazione dei sostantivi
tedeschi). Aveva lasciato la Chartered Bank of India e
aveva ripreso l’insegnamento che tanto amava, questa
volta nell’esclusiva scuola privata londinese di Mill Hill.
Fumivall, che, pur dedito alla causa del dizionario,
mancava delle qualità personali necessarie a dirigerlo,
124
pensò che Murray fosse perfetto come direttore editoria­
le. Avvicinò lui e anche altri membri della Philological
Society: quest’uomo sorprendente e ancora giovane (al­
lora aveva appena passato i quaranta) non avrebbe potu­
to essere il candidato ideale? E inoltre, la Oxford Univer­
sity Press, con il suo prestigio accademico, con le sue bor­
se adeguatamente gonfie e la sua visione elastica della
temperie letteraria, non avrebbe potuto essere la casa e-
ditrice ideale per la pubblicazione dell’opera?
Murray venne convinto a produrre alcune pagine di
prova, un’idea di come poteva presentarsi l’opera. Scel­
se le parole arrow (freccia), carouse (gozzovigliare), castle
(castello) e persuade (persuadere) e, nel tardo autunno
del 1877, le schede vennero debitamente spedite a Ox­
ford, ai Delegati della casa editrice, notoriamente diffici­
li: erano per lo più i membri del consiglio d’amministra­
zione, che avevano la cattiva fama di essere dotati di uno
spaventoso sussiego, di una pedanteria irritante e di una
grettezza vergognosa. Furnivall frattanto continuava a
incontrare altri editori e tipografi (a un certo punto
venne coinvolta la casa editrice Macmillan, che tuttavia
si ritirò dopo un diverbio con lui) e ad accertarsi con
assiduità che il grande dizionario restasse nella mente
di tutti.
Le questioni parallele relative alla scelta del giusto
direttore e del giusto editore continuarono a preoccu­
pare le autorità letterarie lessicografiche e commerciali
dell’Inghilterra fino alla fine degli anni Settanta. I Dele­
gati della Oxford inizialmente sgomentarono tutti af­
fermando di essere insoddisfatti degli esempi prepara­
ti da Murray: volevano ulteriori prove del fatto che que­
sti avesse cercato con la dovuta cura le citazioni relative
alle quattro parole prescelte; dissero che non erano d’ac­
cordo sul modo in cui egli aveva presentato la pronun­
cia ed erano incerti se omettere la sezione etimologica
(non da ultimo per il fatto che avevano già in corso di
pubblicazione un proprio dizionario etimologico mol­
to dotto).
125
Esasperati, Murray e Furnivall si rivolsero speranzosi
alla casa editrice di Cambridge, ma i suoi sindaci (gli o-
mologhi locali dei Delegati della Oxford) offrirono solo
un brusco rifiuto. Maneggi e pressioni continuarono,
nelle sale comuni dei college e nei club londinesi, una
settimana dopo l’altra. E col passare del tempo la Ox­
ford lentamente si persuase che era possibile effettuare
delle modifiche, che le autorità costituite avrebbero
infine trovato accettabili le pagine di prova che erano
state loro proposte, che Murray poteva essere davvero
l’uomo giusto e che il grande dizionario un giorno a-
vrebbe effettivamente riscosso l’interesse commerciale
e intellettuale che la casa editrice voleva.

E fu così che, il 26 aprile 1878, James Murray venne


finalmente invitato a Oxford per il primo incontro con
i Delegati in persona. Lui vi andò aspettandosi di esser­
ne terrificato; loro immaginavano che sarebbero stati
sprezzanti nei suoi confronti. Ma con piacere e sorpresa
da parte di tutti, egli trovò che i grandi vecchi seduti
nell’ampia sala riunioni della Oxford tutto sommato gli
piacevano e, cosa più importante, anche a loro, come
scoprirono presto, piaceva lui, e molto. L’esito dell’in­
contro fu la decisione dei Delegati, in un momento di
giubilo contenuto e tipicamente oxfordiano (celebra­
to con qualche bicchiere di mediocre sherry secco), di
procedere.
Le discussioni sui dettagli del contratto (spesso aspre,
ma raramente condotte di persona da un James Murray
decisamente fuori dal mondo, al contrario della moglie
Ada, che invece stava con i piedi per terra e aveva sempre
da dire la sua) richiesero un altro anno intero. Infine, il
1° marzo 1879, quasi un quarto di secolo dopo il discorso
di Richard Chenevix Trench, si giunse alla formale ap­
provazione di un documento: James Murray doveva cu­
rare, per conto della Philological Society di Londra, A
New English Dïctionary on Historical Principles, che secon­

do le previsioni sarebbe stato costituito da settemila pa­
gine in-quarto divise in quattro spessi volumi, e sareb­
be stato completato in dieci anni. Era un’altra deplorevo­
le sottovalutazione, ma ora il lavoro stava iniziando nel
modo giusto, e questa volta non si sarebbe più interrotto.
Nel giro di pochi giorni Murray prese due decisioni. In
primo luogo, avrebbe costruito un piccolo fabbricato in
lamiera ondulata nel parco della scuola di Mill Hill, l’a­
vrebbe chiamato Scriptorium (la prima delle due sedi
appositamente costruite del suo quartier generale) e a-
vrebbe curato l’edizione del grande dizionario da lì. In
secondo luogo, avrebbe scritto e pubblicato un appello
di otto pagine « al pubblico di lettori di lingua inglese »,
per reclutare un nuovo, numeroso corpo di volontari. Il
comitato, dichiarava, «richiede l’aiuto di lettori in Gran
Bretagna, in America e nelle colonie britanniche, per
portare a termine l’opera di volontariato iniziata con tan­
to entusiasmo vent’anni fa, leggendo e selezionando cita­
zioni dai libri che ancora rimangono da esaminare ».
I quattro fogli, otto facciate scritte, vennero distribui­
ti ai giornali e alle riviste del tempo, che li consideraro­
no come un comunicato stampa e ne pubblicarono le
parti che potevano interessare ai lettori. Vennero distri­
buiti anche alle librerie e alle edicole, e i commessi li
offrivano ai clienti. I bibliotecari li dispensavano come
segnalibri, e nei negozi e nelle biblioteche c’erano dei
piccoli contenitori di legno da cui il pubblico poteva
prenderli per leggerli. In breve tempo avevano trovato
ampia circolazione in tutto il Regno Unito e nei suoi
vari domini, vecchi e nuovi.

E un bel giorno, all’inizio degli anni Ottanta, una co­


pia dell’appello, lasciata dentro un libro o infilata tra le
pagine di un dotto periodico, capitò in una delle due
grandi celle all’ultimo piano del blocco 2 del manico­
mio criminale di Broadmoor, a Crowthorne, nel Berk­
shire. Venne letta voracemente da William Minor, un
127
uomo per il quale i libri, che tappezzavano una delle sue
due celle dal pavimento al soffitto, erano diventati una
seconda vita.
Il dottor Minor era ricoverato a Broadmoor da otto
anni. Soffriva di manie di persecuzione, è vero; ma era
un uomo sensibile e intelligente, laureato a Yale, istrui­
to e curioso. Era, si capisce, incredibilmente ansioso di
avere qualcosa di utile da fare, qualcosa che potesse oc­
cupare le settimane e i mesi e gli anni e i decenni che gli
si prospettavano davanti senza fine, « sinché piacerà a
Sua Maestà».
Questo invito da parte di un certo professor James
Murray di Mill Hill, Middlesex, N.W., sembrava promet­
tere un’occasione intellettualmente stimolante (e forse
anche un mezzo di redenzione personale) di gran lun­
ga migliore di quant’altro egli potesse immaginare. A-
vrebbe scritto, immediatamente.
Prese carta e penna e con mano ferma scrisse il suo
indirizzo: Broadmoor, Crowthorne, Berks. Un indirizzo
assolutamente normale. Per chiunque non avesse infor­
mazioni più precise era semplicemente un modo per
indicare una casa normale, in un villaggio normale, in
una regia contea graziosamente rurale, appena oltre i
confini di Londra.
E anche se qualcuno là fuori conosceva la parola che
accompagnava Broadmoor, ovvero asylum, l’unica defini­
zione allora disponibile forniva una spiegazione del tutto
innocente. Il significato si poteva trovare nel dizionario
di Johnson, naturalmente: « Un luogo al di fuori del qua­
le non può essere portato chi vi si sia rifugiato». Asylum
per il dottor Johnson non era altro che un luogo dove
trovare asilo, un rifugio. William Chester Minor sarebbe
stato ben contento se si fosse saputo che scriveva da un
posto del genere... ma solo fino a quando nessuno avesse
cercato con troppa attenzione il significato più profondo
e sinistro che la parola andava assumendo proprio allora,
nei duri anni dell’Inghilterra vittoriana.

128
6
L’INTELLETTUALE DEL BLOCCO 2

Bedlam (be dlam). Forms: 1-3 betleem, 3


bejjpleæm, 3-6 beth(e)leem, 4 bedleem, 4-8
bethlem, 6—lehem, 3-7 bedlem, 5 bedelem, 6
bedleme, 6-7 -lame, 6- bedlam. [ME. Bedlem =
Bethlem, Bethlehem-, applied to the Hospital of St.
Mary of Bethlehem, in London, founded as a prio­
ry in 1247, with the special duty of receiving and
entertaining the bishop of St. Mary of Bethlehem,
and the canons, etc. of this, the mother church, as
often as they might come to England. In 1330 it is
mentioned as ‘an hospital,’ and in 1402 as a hospi­
tal for lunatics (Timbs); in 1346 it was received
under the protection of the city of London, and on
the Dissolution of the Monasteries, it was granted
to the mayor and citizens, and in 1547 incorporat­
ed as a royal foundation for the reception of luna­
tics. Thence the modem sense, of which instances
appear early in 16th c.]
2. The Hospital of St. Mary of Bethlehem, used
as an asylum for the reception and cure of mental­
ly deranged persons; originally situated in Bish-
opsgate, in 1676 rebuilt near London Wall, and in
1815 transferred to Lambeth. Jack or Tom o’Bed­
lam'. a madman.
3. By extension: A lunatic asylum, a madhouse.

Minor, William Chester. Magro, pallido, lineamenti


spigolosi, capelli chiari biondo rossiccio, occhi incavati e
zigomi pronunciati. Ha 38 anni, un’istruzione superiore,
più precisamente è medico chirurgo, ma è di religione i-
gnota. Pesa 64 chilogrammi, ed è ufficialmente ricono­
sciuto come pericoloso per i suoi simili. Accusato del­
l’omicidio intenzionale di un certo George Merrett di
129
Lambeth, è stato dichiarato non colpevole per infermi­
tà mentale. Dice di essere da anni vittima di persecuzio­
ni: vittima delle classi sociali più basse, nelle quali non
ha alcuna fiducia. Degli sconosciuti cercano di fargli del
male, con il veleno.
Così inizia la cartella clinica del paziente 742 di Broad­
moor, basata su una visita cui venne sottoposto nel po­
meriggio del giorno del ricovero, mercoledì 17 aprile
1872.
Le guardie l’avevano portato lì in manette con un altro
assassino di nome Edmund Dainty, un uomo dichiarato
«non imputabile per vizio totale di mente»: entrambi a-
vevano atteso nel carcere di Newington nel Surrey finché
non erano arrivati da Londra i documenti necessari. Ave­
vano preso un treno a vapore fino alla piccola stazione
neogotica di mattoni rossi costruita dal Wellington Col­
lege, una delle grandi scuole del Sud dell’Inghilterra,
che sorgeva nelle vicinanze e le aveva dato il nome. Da lì,
con un landò nero di Broadmoor con il mantice alzato,
Minor e la sua scorta avevano percorso gli stretti sentieri
coperti di foglie che serpeggiavano intorno al minusco­
lo villaggio. I cavalli sudavano leggermente mentre trai­
navano il veicolo a quattro ruote e i suoi occupanti su per
la bassa collina di arenaria in cima alla quale si ergeva
Broadmoor.
L’ospedale specializzato, come si chiama oggi, ha an­
cora un aspetto minaccioso, anche se molti particolari
che dovettero renderlo terrificante in epoca vittoriana
sono ora nascosti con discrezione dietro le alte mura
moderne di massima sicurezza, leggermente arrotonda­
te in alto. Nel 1872 il dottor Minor arrivò davanti al por­
tone principale originale: due torri a tre piani, con gros­
se sbarre alle finestre, collegate da un arco imponente
sovrastato da un grande orologio dal quadrante nero. Il
varco tra le torri era chiuso da due massicci battenti e-
stemi di legno verde. Al rumore degli zoccoli uno spion­
cino si aprì di scatto e i battenti si spalancarono verso
130
l’interno, mostrando un altro pesante portone, a una
decina di metri di distanza.
Il landò entrò rapidamente, i battenti vennero richiu­
si con violenza e saldamente sprangati, e si accesero le
luci nell’area oscura e cavernosa dell’accettazione. Al
dottor Minor venne ordinato di scendere per essere per­
quisito. Gli tolsero le catene, che dovevano essere ripor­
tate nel Surrey. L’ufficiale giudiziario che lo scortava (l’u­
sciere di Broadmoor) consegnò i documenti: un lungo
mandato elegantemente redatto con calligrafia chiara e
regolare e firmato da Henry Austin Bruce, il primo se­
gretario di Stato di Sua Maestà per il ministero dell’in­
terno. Il sovrintendente del manicomio, un uomo bene­
volo e comprensivo di nome William Orange, fece firma­
re la ricevuta al suo delegato.
Il dottor Minor venne condotto attraverso il secondo
portone nel blocco 4 per le formalità del ricovero. Sen­
tì i cavalli girarsi, sentì la scorta montare in carrozza e
ordinare al cocchiere di tornare «dia stazione ferrovia­
ria. Sentì il portone esterno aprirsi per lasciar passare la
carrozza e poi richiudersi. Ci fu un secondo fragore rie-
cheggiante quando si chiuse il portone metallico inter­
no, che venne sprangato e incatenato. Adesso William
Chester Minor era a tutti gli effetti un internato di Broad­
moor, confinato in quella che probabilmente sarebbe
stata la sua casa per il resto dei suoi giorni.

Era una casa piuttosto nuova, tuttavia. Broadmoor e-


ra aperto da soli nove anni. Era stato costruito perché il
principale manicomio statale, l’ospedale di St. Mary of
Bethlehem, era ormai pieno da scoppiare. (Per coinci­
denza, si trovava a Lambeth, a poco più di un chilome­
tro dal luogo dell’omicidio.) Il riconoscimento legale
della follia criminale era stato sancito dal Parlamento
nel 1800, e i giudici da mezzo secolo spedivano nei ma­
nicomi (con la condanna a rimanervi, come si è visto,
«sinché piacerà a Sua Maestà») dozzine di uomini e
131
donne che fino a quel momento erano stati mandati nel­
le prigioni comuni.
I vittoriani, con la loro caratteristica mescolanza di
severità e illuminismo, erano convinti che gli internati
nei manicomi potessero essere tenuti al sicuro lontano
dalla gente per la quale erano tanto pericolosi e allo
stesso tempo essere curati in modo adeguato. Ma il loro
illuminismo non andava oltre: mentre oggi gli internati
di Broadmoor sono pazienti, e Broadmoor è un ospeda­
le specializzato, un secolo fa non c’erano tanti giri di
parole: gli internati erano pazzi e criminali, erano cura­
ti da « alienisti » e da « medici dei matti », e Broadmoor
era indubbiamente un manicomio, in cui essi erano de­
tenuti sotto stretta sorveglianza.
Broadmoor aveva sicuramente l’aspetto e l’atmosfera
di una prigione (e l’effetto era voluto). Era stato proget­
tato da un architetto militare, Sir Joshua Jebb, che in
precedenza aveva creato due dei penitenziari di massi­
ma sicurezza più cupi di tutta l’Inghilterra, Pentonville
e Dartmoor. Aveva blocchi di celle lunghi e desolati, au­
steri e inquietanti; tutti gli edifici erano di mattoni rosso
scuro; tutte le finestre erano munite di sbarre; c’era un
enorme muro di cinta coronato da punte di ferro e vetri
rotti.
L’istituto, orribile e minaccioso, stava appiattato co­
me un granchio sulla sommità della collina; gli abitanti
del villaggio guardavano in su e rabbrividivano. Ogni
lunedì mattina si controllavano le sirene d’allarme:
quei lamenti, come di spiriti forieri di morte, che echeg­
giavano e riecheggiavano da una collina all’altra, erano
agghiaccianti; la gente diceva che poi gli uccelli rimane­
vano in silenzio, spaventati, per diversi minuti.
Ma il dottor Minor, un omicida americano... dove
metterlo? La normale procedura che, a giudicare dalla
sua cartella clinica, fu quasi certamente seguita anche
nel caso di Minor, consisteva nel passare i primi giorni
a chiedere al nuovo venuto informazioni sul suo conto
e poi, se era disposto a parlarne, sul crimine per il qua­
132
le era finito lì. (Un nuovo arrivato, a cui era stato chie­
sto perché avesse ucciso la moglie e i figli, rispose al
sovrintendente: « Non so perché vi dico tutto questo.
Non sono affari vostri. In effetti, non erano nemmeno
affari del giudice. Sono solo questioni puramentefamilia­
ri»)}
Una volta debitamente conclusa questa fase (era pras­
si comune a Broadmoor non chiedere più nulla del cri­
mine), il sovrintendente decideva quale dei sei blocchi
maschili (ce n’erano altri due per le donne, separati
con una solida recinzione da quelli degli uomini) fosse
il più adatto. Se il paziente si riteneva affetto da tenden­
ze suicide (e i suoi dati venivano allora registrati su fogli
rosa e non bianchi), veniva messo in una cella del bloc­
co 6, dove c’era del personale supplementare che l’a­
vrebbe controllato incessantemente; se la diagnosi era
di epilessia, veniva messo in un’altra cella dello stesso
blocco, una cella speciale che aveva le pareti imbottite e
un cuscino di forma particolare che gli avrebbe impedi­
to di soffocare durante un attacco.
Se si riteneva che fosse pericoloso e violento, veniva
ugualmente rinchiuso nel blocco 6, o forse nel blocco 1,
con personale in numero appena inferiore: i due bloc­
chi erano conosciuti con vari nomi, come i « blocchi dei
duri », i « blocchi dei disturbati » o, più recentemente, i
« blocchi dei refrattari ». Allora come ora i due edifici, più
lugubri e desolati degli altri, erano noti agli internati
come i « blocchi sul retro », perché non avevano alcuna
vista sul paesaggio. Erano sicuri, ostici, squallidi.
Dopo solo pochi giorni di indagini i medici di Broad­
moor si resero conto che il nuovo detenuto in loro cu­
stodia, anch’egli medico, in fin dei conti non era epilet­
tico, non avrebbe tentato il suicidio e non era sufficien­
temente violento da fare del male a qualcuno. Perciò
venne mandato al blocco 2, un’ala relativamente ospi­
tale, riservata di solito ai pazienti in libertà vigilata. Lo

1. Corsivodell’Autore [N.d.T.].

133
chiamavano anche il « blocco dei damerini ». Un visita­
tore una volta scrisse che l’atmosfera del blocco 2 era
stata « descritta da qualcuno che conosce entrambi gli
ambienti come identica a quella dell’Athenaeum Club ».
Ben pochi membri del più snob dei club londinesi per
gentiluomini snob (comprendeva tra i suoi iscritti la
maggior parte dei vescovi e degli uomini di cultura del
paese) avranno fremuto di gioia per questo paragone.
E tuttavia Minor ottenne una sistemazione più che
accettabile e confortevole, non da ultimo perché era u-
na persona di buona famiglia e di buona cultura. E ave­
va una rendita: tutti i funzionari di Broadmoor sapeva­
no che era un militare in congedo, con regolare pensio­
ne pagata dall’esercito degli Stati Uniti. Per questo rice­
vette non una cella ma due, un paio di stanze comuni­
canti sul lato meridionale deH’ultimo piano del blocco.
Le stanze di giorno non erano chiuse a chiave; di notte,
in caso di necessità, le medicine e il cibo gli venivano pas­
sati attraverso una lunga feritoia verticale, troppo stretta
per farci entrare un braccio, con una porticina che si po­
teva chiudere a chiave dal lato esterno.
Le finestre avevano sbarre di ferro all’interno, ma in
compenso c’era una vista incantevole: una lunga valle
pianeggiante, con prati dove pascolava il bestiame e le
mucche riposavano all’ombra di grandi querce; i campi
da tennis di Broadmoor e un piccolo campo da cricket
da un lato; in lontananza, una fila di basse colline azzur­
re coronate da faggi. Quel giorno d’inizio primavera,
con il cielo limpido e i lillà e i meli in fiore e i canti di
tordi e allodole, forse la condanna non gli parve più,
tutto sommato, un incubo.
AH’estremità settentrionale del corridoio sedeva la
guardia (nel manicomio chiamata «ausiliario») che
sorvegliava i venti uomini del piano. Aveva tutte le chia­
vi, controllava la porta d’accesso al piano, sempre chiu­
sa a chiave e, quando gli internati dovevano andare in
bagno, li faceva uscire dalle loro stanze e poi rientrare;
durante il giorno, teneva accanto a sé un becco a gas di
134
ottone con la fiammella sempre accesa. Agli uomini in­
fatti non erano concessi i fiammiferi, e andavano da lui
ad accendersi la sigaretta o la pipa, per fumare la razio­
ne di tabacco che ricevevano ogni settimana. (Tutto il
tabacco veniva dagli uffici doganali di Sua Maestà: tutto
ciò che veniva confiscato ai porti come merce di con­
trabbando veniva consegnato al ministero dell’Intemo,
che lo distribuiva alle prigioni e ai manicomi pubblici).
Qualche giorno dopo il viceconsole americano scris­
se una lettera, per accertarsi che lo sventurato ufficiale
del loro esercito venisse trattato bene. Non sarebbe pos­
sibile per «il nostro povero amico», chiedeva in tono
supplichevole, ricevere alcuni dei suoi effetti personali?
(Erano stati lasciati al consolato per contribuire a paga­
re eventuali spese legali dei diplomatici). In teoria sa­
rebbe possibile fagli visita? Per rallegrarlo, potremmo
mandargli una libbra di caffè Dennis o qualche prugna
francese? Orange non si espresse sull’argomento speci­
fico delle prugne, ma comunicò al console che il dottor
Minor poteva avere tutto ciò che desiderava, a condizio­
ne che non pregiudicasse la sua sicurezza o il rispetto
delle norme disciplinari del manicomio.
E così, una settimana dopo, il funzionario mandò per
ferrovia un baule-armadio di cuoio: conteneva una re­
dingote e tre panciotti, tre paia di mutande e quattro
camiciole, quattro camicie, quattro colletti, sei fazzoletti
da tasca, un libro di preghiere, una scatola di fotografie,
quattro pipe, cartine per le sigarette, un sacchetto di ta­
bacco, una mappa di Londra, un diario e un orologio
da taschino con catena d’oro (quest’ultima un cimelio
di famiglia, si era detto durante il processo).
Ma soprattutto, riportò in seguito il sovrintendente,
vennero restituiti al dottor Minor i suoi strumenti da
disegno: una cassetta da poco prezzo con tutto l’occor­
rente, una scatola di colori per dipingere e una serie di
pennini, un tavolo da disegno, album per gli schizzi e
fogli di cartoncino. Ora avrebbe potuto occupare il tem­
735
po in modo costruttivo, cosa che tutti i pazienti erano
incoraggiati a fare.
Nei mesi successivi Minor arredò la sua cella in modo
confortevole (proprio come, in verità, avrebbe fatto un
membro dell’Athenaeum). Il denaro l’aveva: la sua pen­
sione da ufficiale, di circa milleduecento dollari l’anno,
veniva pagata in Connecticut a suo fratello Alfred (che
rappresentava legalmente William, giudicato dallo Sta­
to « incapace di intendere e di volere ») e questi per tele­
grafo trasmetteva regolarmente fondi in Inghilterra, per
rimpinguare il conto corrente del fratello malato. Usan­
do questo credito continuo, il dottor Minor potè saziare
l’unica passione che lo divorava: quella per i libri.
Prima richiese che gli venissero mandati i suoi libri
dalla casa di New Haven. Quando furono sistemati, or­
dinò dalle grandi librerie di Londra decine e decine di
volumi nuovi e usati, che inizialmente accatastò in pile
precarie nelle sue celle, finché chiese (e pagò) delle li­
brerie fatte su misura. Alla fine aveva trasformato la
stanza che dava più a ovest in una biblioteca, con una
scrivania, un paio di sedie e librerie in teak che toccava­
no il soffitto.
Teneva il cavalletto e i colori nell’altra stanza, quella
che dava a est; possedeva anche una piccola scelta di vi­
ni e del bourbon, di cui il console lo riforniva regolar­
mente. Riprese a suonare il flauto e diede lezioni ad al­
cuni internati delle celle vicine. Scoprì inoltre che gli e-
ra consentito (e lui se lo poteva tranquillamente per­
mettere) pagare uno degli altri pazienti perché facesse
dei lavori per lui: riordinare le stanze, sistemare i libri,
ripulire quando aveva finito di dipingere. Lavita, che in
quei primi mesi gli era sembrata quantomeno tollerabi­
le, ora iniziava a diventare davvero molto piacevole: Wil­
liam Minor poteva trascorrere i suoi giorni in completa
sicurezza e tranquillità, stava al caldo e mangiava ragio­
nevolmente bene, la sua salute veniva tenuta sotto con­
trollo, poteva passeggiare sul lungo sentiero di ghiaia
detto Terrace, poteva riposarsi con calma su una delle
136
panchine vicine al prato e guardare il boschetto, o pote­
va leggere e dipingere a piacimento.
Le sue celle esistono ancora: in un secolo a Broadmoor
non è cambiato molto e il blocco 2, anche se ora si chia­
ma Essex House, rimane ancora il preferito per quei pa­
zienti che ci dovranno restare per un bel po’. Una delle
due stanze, quella a ovest, dove il dottor Minor teneva la
sua biblioteca, ospita un paziente le cui propensioni alla
violenza si capiscono all’istante: la stanza è ingombra di
riviste dedicate al body-building, alle pareti ci sono dei
poster che celebrano i successi di figuri alla Rambo, ci
sono disegni tecnici di grandi motociclette americane,
e un ritaglio di un giornalino a fumetti è stato incollato
alla porta. C’è scritto: « Killer Pazzo ».
L’altra stanza, quella dove Minor dipingeva, è al con­
trario così ordinata da sembrare quasi vuota: il letto è
talmente ben fatto che la proverbiale monetina rimbal­
zerebbe sulla superficie perfettamente tesa; ci sono del­
le scarpe in pelle, lucidate e ben allineate, i vestiti sono
appesi con cura nell’armadio. Non ci sono libri, niente
alle pareti. Il caminetto è chiuso ormai da molto tempo,
ma c’è ancora la mensola, con sopra un piccolo calen­
dario da tavolo. L’occupante della stanza, mi riferisco­
no, è un egiziano.
La salute mentale del dottor Minor, o la sua mancan­
za, non venne mai messa in dubbio. Egli non fu mai tan­
to grave da dover essere spostato dall’atmosfera benevo­
la del blocco 2 al regime più severo dei blocchi sul retro
(nonostante uno strano e terribile incidente che, nel
1902, lo tenne lontano dalle sue stanze per molte setti­
mane). Ma i rapporti dei sorveglianti confermano che
le sue fissazioni diventavano negli anni sempre più radi­
cate, sempre più bizzarre, e che non sembrava esserci al­
cuna probabilità che egli tornasse in possesso delle sue
facoltà mentoli. Stava bene a Broadmoor, forse, ma non
c’era altro posto dove potesse vivere.
I rapporti dei sorveglianti relativi ai primi dieci anni
mostrano il triste e inarrestabile progresso della sua pa­
137
rabola discendente. Già all’epoca del ricovero era preci­
samente consapevole degli strani eventi che lo tormen­
tavano di notte, sempre di notte. Dei ragazzini, ne era
convinto, venivano issati sulle travi sopra il suo letto;
scendevano quando dormiva profondamente, lo cloro­
formizzavano e poi lo costringevano a compiere atti in­
decenti (se con i ragazzi stessi o con le donne che sogna­
va di continuo, però, non fu mai detto a chiare lettere
da coloro che tenevano i registri). Sosteneva che si sve­
gliava con abrasioni intorno al naso e alla bocca, dove
gli avevano fissato la bombola dell’anestetico; alle cavi­
glie i pantaloni del suo pigiama erano sempre umidi,
diceva, segno che lo avevano costretto a camminare nel­
la notte in stato d’incoscienza.
Aprile 1873: « Il dottor Minor è magro e anemico, ira­
scibile nei modi, tuttavia di giorno appare razionale e
impiega il suo tempo dipingendo e suonando il flauto.
Ma di notte barrica la porta della stanza con i mobili, e a
questi collega la maniglia della porta usando un pezzo
di spago, in modo da potersi svegliare se qualcuno cerca
di entrare in camera sua... ».
Giugno 1875: « Il dottore è convinto che degli intrusi
riescano a entrare dal pavimento o dalle finestre e che,
servendosi di un imbuto, gli versino del veleno in bocca:
ora insiste per essere pesato ogni mattina, per vedere se
il veleno lo ha fatto aumentare di peso ».
Agosto 1875: « L’espressione del viso la mattina è spes­
so distrutta e stravolta, come se non si fosse riposato
abbastanza. Lamenta di sentirsi come se durante la notte
gli avessero premuto un ferro freddo sui denti, e gli aves­
sero fatto ingerire qualcosa a forza. Per il resto, non ci
sono cambiamenti ».
Un anno dopo i suoi demoni sembravano avere un
effetto molto deprimente su di lui. Nel febbraio del 1876
i medici scrivono: « Un paziente oggi ha affermato che il
dottor Minor è andato con lui nel ripostiglio e gli ha
detto che gli avrebbe dato tutto quello che aveva se gli
138
avesse tagliato la gola. Un ausiliario è stato incaricato di
sorvegliarlo ».
L’anno seguente le cose non andavano certo meglio.
« Nel vivere sociale » scriveva un ausiliario nel maggio
del 1877, riportando una spiegazione avuta da lui « tutti
i sistemi sono basati su trame di corruzione e di furfan­
teria, ed egli è la vittima di queste macchinazioni. Ecco
l’origine delle brutali torture alle quali è sottoposto o-
gni notte. Gli trafiggono il midollo spinale e gli manipo­
lano il cuore con strumenti di tortura. I suoi assalitori
entrano dal pavimento... ».
Nel 1878 la tecnologia entrava a far parte delle scel­
leratezze subite. « Gli fanno passare, ripete, la corrente
elettrica in tutto il corpo da fonti invisibili. Gli applicano
degli elettrodi sulla fronte, lo caricano su una carrozza e
lo portano in giro per la campagna ». Lo avevano porta­
to fino a Costantinopoli, disse una volta a un ausiliario,
dove era stato costretto a compiere atti osceni in pubbli­
co. « Stanno cercando » affermò « di fare di me un per­
vertito! ».
Ma mentre le fissazioni evidentemente persistevano e
peggioravano nel corso di quei primi anni di manico­
mio, la sua cartella clinica evidenzia (il che è fondamen­
tale per la nostra storia) il parallelo sviluppo di un aspet­
to più riflessivo ed erudito in quest’uomo tormentato.
« Eccezion fatta per le sue suggestioni riguardo alla
questione delle visite notturne, » dice un’annotazione
della fine degli anni Settanta « sa parlare in modo logico
e intelligente di molti argomenti. Lavora nel suo angolo
di giardino, e in questo momento è piuttosto allegro; tut­
tavia ha i suoi giorni di melanconia e riservatezza ». Un
anno più tardi un medico scrive semplicemente: «E ra­
zionale e intelligente in quasi tutte le circostanze ».
Iniziava anche a sistemarsi, a considerare il grande o-
spedale come la sua casa e gli ausiliari come la sua fami­
glia. « Non sente più in modo particolare quel forte de­
siderio di tornare in America che aveva in passato » scri­
veva un altro medico. «Tutto ciò che chiede è un po’
139
più di libertà, magari per andare a cercare delle vedute
di Londra o per visitare la mostra di orchidee per la qua­
le ha appena ricevuto un biglietto ». E tuttavia il medico
che ebbe con lui questo colloquio era sicuro della ma­
lattia del suo paziente e aggiunse una frase che, con il
senno di poi, sembra quasi aver siglato l’eterno destino
di William Minor:
Non c’è alcun dubbio sul fatto che il dottor Minor,
seppure occasionalmente molto calmo e padrone di sé,
abbia, e manifesti, generalmente parlando, disturbi men­
tali molto più gravi rispetto a qualche anno fa. Ha la si­
cura e ferma convinzione di essere quasi ogni notte vit­
tima di tormenti e molestie intenzionali, da parte degli
ausiliari e di altre persone collegate a trame criminali e
diaboliche.
Fu all’incirca in questo periodo che ci furono due svi­
luppi, uno dei quali, in modo del tutto fortuito, avrebbe
portato indirettamente all’altro. Il primo ebbe origine
da un fattore che non è insolito tra coloro che commet­
tono crimini efferati: Minor fu preso da un sincero ri­
morso per quello che aveva fatto e decise di cercare in
qualche modo di riparare. Fu con questo pensiero in
mente che fece la mossa ardita di scrivere alla vedova
della sua vittima tramite l’ambasciata americana, la qua­
le, come egli sapeva, aveva già contribuito a raccogliere
dei fondi per lei nei mesi immediatamente successivi alla
tragedia.
Spiegò a Eliza Merrett quanto fosse infinitamente ad­
dolorato per quello che aveva fatto e si offrì di dare il
proprio aiuto in ogni modo possibile, magari destinan­
do del denaro a lei o ai suoi figli. Già la matrigna di Mi­
nor, Judith, aveva dato un contributo: ora, forse, se la
signora Merrett avesse avuto la cortesia di accettare, lui
avrebbe potuto fare qualcosa di più.
Quella lettera sembrò operare un piccolo miracolo:
non solo la signora Merrett accettò l’aiuto finanziario di
Minor, ma chiese anche se fosse possibile fargli visita.
140
Era una richiesta senza precedenti, che all’omicida in
carcere venisse concesso di passare del tempo con un
parente della vittima; ma il ministero dell’interno, do­
po aver discusso la questione con il dottor Orange, auto­
rizzò una visita sperimentale sorvegliata. Di conseguen­
za, verso la fine del 1879, la signora Eliza Merrett andò
da Lambeth fino a Broadmoor e incontrò per la prima
volta l’uomo che sette anni prima aveva messo fine alla
vita del marito e aveva tanto drasticamente cambiato la
sua e quella dei suoi otto figli.
L’incontro, secondo il rapporto del dottor Orange,
all’inizio fu teso, ma poi proseguì bene, e alla fine la si­
gnora Merrett accettò di tornare. Non passò molto tem­
po prima che si avventurasse fino a Crowthorne ogni
mese, per il piacere di parlare con compassionevole in­
teressamento con questo americano ora apparentemen ­
te innocuo. E sebbene risulti che le loro conversazioni si
interrompessero poco prima di diventare una concreta
amicizia, si ritiene che la signora si rendesse disponibile
a fare ciò che avrebbe condotto al secondo dei fonda­
mentali sviluppi di questo periodo della vita di Minor.
Accettò, così sembra, di portargli dei pacchi di libri pro­
venienti dagli antiquari di Londra.

Eliza Merrett sapeva ben poco di libri: a dire il vero,


sapeva a malapena leggere e scrivere. Ma vedendo con
quanta passione il dottor Minor collezionava e custodi­
va i suoi libri, e ascoltando le sue lamentose osservazioni
sui ritardi e i costi del servizio postale tra Londra e Crow-
thome, si offrì di andare a prendere i libri a nome suo e
di portarglieli quando lo veniva a trovare. E così succes­
se che, un mese dopo l’altro, la signora Merrett iniziò a
consegnargli dei pacchi avvolti nella carta e sigillati con
lo spago e la ceralacca, provenienti dai grandi empori
di libri del West End come Maggs, Bernard Quaritch e
Hatchards.
Questo sistema di consegna, così congegnato, funzio­
141
nò probabilmente solo per qualche mese: la signora
Merrett si diede infine al bere ed evidentemente perse
ogni interesse per quello strano ed eccentrico sventura­
to. Ma a quanto pare fu proprio questo sistema, nella
sua breve esistenza, a portare con sé quello che indub­
biamente fu l’evento più ricco di serendipità nella vita,
altrimenti melanconica, di William Minor.
Perché fu all’inizio degli anni Ottanta che egli si im­
battè nel primo dei famosi appelli di James Murray ai
volontari, in cui chiedeva agli interessati di comunicare
la loro eventuale disponibilità a lavorare per il nuovo
dizionario. Come si è visto, Murray aveva pubblicato que­
sto appello per la prima volta nell’aprile del 1879, ne a-
veva fatte stampare duemila copie e le aveva distribuite
nelle librerie: quasi sicuramente una di esse, forse poco
dopo la distribuzione, finì in uno o più pacchetti che la
signora Merrett portava a Minor in manicomio.
Le otto pagine fornivano in termini molto generali le
spiegazioni indispensabili. In primo luogo Murray sug­
geriva quale genere di libri leggere:
Riguardo al periodo dell’inglese antico fino all’inven­
zione della stampa tanto è stato fatto e si sta ancora fa­
cendo che è necessario ben poco aiuto dall’esterno. Ma
pochi dei primi libri a stampa (quelli di Caxton e dei
suoi successori) sono già stati letti, e chiunque abbia la
possibilità e il tempo di leggerne uno o più, nell’origi­
nale o in ristampe accurate, offrirà nel farlo un valido
aiuto. La letteratura del tardo Cinquecento è quasi to­
talmente fatta; e tuttavia anche qui rimangono da legge­
re diversi libri. Il Seicento, così ricco di scrittori, natural­
mente presenta più ampi territori non ancora esplorati.
I libri dell’ottocento, essendo a portata di mano per
tutti, sono stati letti estesamente; ma un gran numero di
essi - non solo quelli pubblicati durante gli ultimi dieci
anni, quando il dizionario era in sospeso, bensì anche
alcuni anteriori - è tuttora non rappresentato. Ma è so­
prattutto per il Settecento che c’è urgente bisogno di a­
142
iuto. Gli studiosi americani avevano promesso di occu­
parsi della letteratura di quel periodo, promessa che è
stata evidentemente del tutto disattesa, e ora dobbiamo
fare appello ai lettori inglesi affinché si assumano que­
sto impegno, in quanto la quasi totalità dei libri di allo­
ra, eccezion fatta per le opere di Burke, deve ancora es­
sere esaminata.
Poi Murray elencava ben più di duecento autori spe­
cifici le cui opere, secondo lui, erano una lettura essen­
ziale. La lista era impressionante: la maggior parte dei
volumi era rara e probabilmente in mano soltanto a po­
chi collezionisti. Alcuni libri, d’altro canto, erano già di­
sponibili nella biblioteca del dizionario da poco allestita
a Mill Hill, e potevano essere inviati ai lettori che si fosse­
ro impegnati a lavorare su di essi. (E che garantissero di
restituirli: quando Henry Fumivall era direttore editoria­
le, scoprì che un bel numero di lettori malcontenti aveva
approfittato del sistema dei prestiti per rimpinguare le
proprie collezioni e non aveva mai mandato le schede
con le citazioni richieste, né restituito i libri).
Quando lesse l’opuscolo, il dottor Minor era chiara­
mente in uno dei suoi periodi più riflessivi, positivi e di
maggior interesse per la cultura, in quanto reagì con
sollecitudine ed entusiasmo e scrisse a James Murray
quasi subito, offrendo formalmente i suoi servigi in qua­
lità di lettore.
Non è del tutto chiaro, tuttavia, quando esattamente
Minor iniziò la sua impresa leggendaria. Murray in se­
guito avrebbe ricordato di aver ricevuto la sua lettera
«molto presto, poco dopo aver iniziato il dizionario».
Non è stata però rintracciata alcuna corrispondenza tra
i due anteriore al 1885, che è arduo definire «molto
presto».
Ma c’è un indizio: nel settembre del 1879 era stato
pubblicato sulla rivista «Athenaeum » un articolo in cui
si osservava che agli americani sarebbe forse interessato
farsi coinvolgere di più, ed è del tutto probabile che Mi-
143
nor, il quale a Broadmoor era abbonato alla rivista, l’a­
vesse visto. Sulla base di questa ipotesi, dei ricordi di
Murray e della documentazione relativa ai contributi di
Minor che recentemente è stata portata alla luce nella
Bodleian Library di Oxford, sembra probabile che la
sua collaborazione al dizionario avesse inizio nel 1880 o
nel 1881.
Ma Murray dove pensava che vivesse il suo corrispon­
dente? E cosa pensava facesse? Murray disse di ricordare
soltanto che la prima lettera di Minor e le successive era­
no state inviate al quartier generale del dizionario sem­
plicemente da «Broadmoor, Crowthorne, Berkshire».
Murray era troppo indaffarato per rimuginare sulla que­
stione, per quanto quell’indirizzo gli suonasse strana­
mente familiare. Quando lesse la prima lettera di Minor,
aveva già ricevuto circa ottocento lettere simili in rispo­
sta al suo appello: era travolto dal successo della sua pe­
tizione.
Murray rispose a Minor con la cortesia che lo contrad­
distingueva comunicandogli che, considerate le sue qua­
lifiche, l’entusiasmo e l’interesse evidenti, egli avrebbe
potuto cominciare a leggere immediatamente, esaminan­
do uno qualsiasi dei libri che già possedeva, oppure rivol­
gendosi al quartier generale del dizionario per richiede­
re una copia dei testi che gli potevano servire.
A tempo debito, proseguiva Murray, il dottore avreb­
be potuto ricevere delle richieste relative ad alcune pa­
role in particolare, nell’eventualità che i curatori del di­
zionario avessero difficoltà nel rintracciare personal­
mente le citazioni relative a un termine specifico. Al mo­
mento, comunque, il dottor Minor e tutti coloro che ave­
vano già risposto all’appello, ai quali il direttore esprime­
va la sua « considerevole gratitudine », potevano sempli­
cemente iniziare a leggere e a compilare delle liste di pa­
role, trascrivendo le citazioni in maniera accurata e siste­
matica, ma generica.
Gli altri due fogli stampati acclusi da Murray alla lette­
ra, che confermava l’accordo formale secondo il quale
144
il dottor Minor veniva accolto ufficialmente come letto­
re volontario, avrebbero fornito ogni ulteriore chiari­
mento di cui poteva aver bisogno.
Ma in tutto ciò, James Murray avrebbe spiegato qual­
che anno dopo, « non ho mai minimamente riflettuto
su chi potesse essere Minor. Pensavo che fosse un medi­
co in attività con la passione per la letteratura e una gran­
de quantità di tempo libero, o magari un medico o un
chirurgo in pensione che non aveva altro da fare ».
La verità sul suo nuovo corrispondente americano e-
ra ben più strana di quanto potesse immaginare questo
scozzese distaccato, ingenuo e fuori dal mondo.

145
7
PAROLE, PAROLE, PAROLE

catchword (kætjwzüd). [f. Catch- 3 b +


Word.]
1. Printing. The first word of the following page
inserted at the right-hand lower corner of each
page of a book, below the last line. (Now rarely
used.)
2. A word so placed as to catch the eye or atten­
tion; spec. a. the word standing at the head of each
article in a dictionary or the like;
1879 Directions to Readers for Diet., Put the
word as a catchword at the upper comer of the
slip. lü^Athenœum 26 Jan. 124/2 The arranging
of the slips collected.. and the development of the
various senses of every Catchword.

Le due pagine fittamente stampate allegate alla pri­


ma lettera di Murray risultarono essere una serie di i-
struzioni meticolosamente formulate. Quando la posta
del mattino gli venne consegnata dal sorvegliante, di
certo Minor si precipitò avidamente su quella particola­
re busta, leggendone e rileggendone il contenuto. Ma
non era soltanto il contenuto che lo affascinava: non era
l’elenco delle regole per i collaboratori del dizionario la
causa della sua emozione.
Era semplicemente il fatto che, prima di tutto, la let­
tera fosse stata mandata proprio a lui. Essa rappresenta­
va, agli occhi di Minor, un ulteriore segno del perdono
e della comprensione che le visite di Eliza Merrett gli
avevano già fatto intuire. L’invito sembrava la prova a
lungo cercata della rinnovata appartenenza a quella so­
cietà dalla quale era stato escluso per tanto tempo. Con
l’invio di queste regole, gli sembrava, stava tornando a
essere accolto in un cantuccio del mondo reale. Un can-
147
tuccio, certo, ancora circoscritto a due celle all’interno
di un manicomio dove si sentiva un estraneo, ma dal qua­
le aveva stabilito saldi contatti con il mondo del sapere e
collegamenti con una realtà più confortevole.
Dopo aver languito per un decennio nelle fosche pa­
ludi della prigionia, dell’isolamento intellettuale e del­
l’emarginazione, Minor sentiva che finalmente stava per
innalzarsi di nuovo verso gli assolati altipiani della cultu­
ra. E con ciò che Minor vedeva come un nuovo arruola­
mento nei ranghi, anche la sua fiducia in se stesso, sep­
pur marginalmente, iniziò a riaffiorare. Dalle poche te­
stimonianze risultanti dalle cartelle cliniche ancora esi­
stenti, si evince che stava tornando a sentirsi più sicuro e
persino appagato, sia nei momenti passati a leggere la
lettera di accettazione di Murray, sia più tardi, mentre si
apprestava a tuffarsi nell’impegno che si era assunto.
Per un po’, almeno, sembrò davvero più felice. Persi­
no i rapporti quotidiani, formulati dai sorveglianti nel
loro austero stile vittoriano, accennano al fatto che il
temperamento di norma sospettoso e tristemente medi­
tabondo di quest’uomo di mezza età dall’aspetto prema­
turamente invecchiato (aveva quasi cinquant’anni) stava
in qualche modo iniziando a cambiare. La sua personali­
tà stava compiendo, anche se solo per un breve periodo,
un’inversione di rotta, e tutto perché finalmente aveva
qualcosa di importante da fare.
Eppure, proprio nell’importanza dell’impresa stava il
problema, per come lo vedeva Minor. Il medico arrivò
ben presto a capire, con grande turbamento, un fatto
molto semplice: l’immenso valore potenziale di quest’o­
pera grandiosa, per la storia, i posteri e il mondo di lin­
gua inglese, implicava che essa dovesse essere realizzata
nel migliore dei modi. I fogli di Murray spiegavano che
il dizionario si basava interamente sulla raccolta di cen­
tinaia di migliaia di citazioni. Era un impegno di una
vastità inimmaginabile. Poteva essere svolto dalla cella
di un manicomio?
Minor era assennato abbastanza sia da comprendere
149
e da porsi il problema (poiché sapeva bene dove si tro­
vava, e perché vi era finito) sia poi, a parziale risposta,
da lodare Murray per aver scelto l’approccio giusto al­
l’opera in cui stava per lanciarsi. L’amore che Minor nu­
triva per i libri e la letteratura gli consentiva di avere una
certa conoscenza dei dizionari, e la capacità di valutare,
in quelli già pubblicati, ciò che era buono e ciò che inve­
ce tanto buono non era. E così, dopo aver riflettuto, de­
cise che desiderava fortemente lavorare al progetto e
fame parte: non soltanto perché gli avrebbe dato un’oc­
cupazione utile e meritevole, il che era la sua motivazio­
ne primaria, ma principalmente perché, secondo lui, era
lampante che il piano di Murray per realizzarlo era quel­
lo giusto.
Ma il piano di Murray implicava una conseguenza
molto chiara: confinato tra le quattro mura della cella,
Minor non poteva limitarsi a scorrazzare beato e tran­
quillo tra le opere della letteratura inglese già pubblica­
te. Doveva prestare un’attenzione scrupolosissima a tut­
to ciò che leggeva, gettare religiosamente le sue reti per
soddisfare qualunque richiesta della squadra di Murray,
e infine selezionare tra i pesci finiti nella rete le voci mi­
gliori da mandare affinché venissero inserite nel libro.
Le indicazioni di Murray gli illustravano il modo mi­
gliore di procedere. Le citazioni, spiegava la prima pagi­
na compilata dal direttore, dovevano essere scritte su una
metà del foglio. La parola che costituiva il lemma {catch-
word, parola che cattura, come amava chiamarla Mur­
ray) andava nell’angolo superiore sinistro. La data della
citazione, fondamentale, doveva comparire subito sotto,
seguita dal nome dell’autore e dal titolo del libro, dal nu­
mero di pagina e, infine, dal testo completo della frase
che si voleva citare. Erano già state prestampate le schede
relative ad alcuni libri importanti e famosi, che presu­
mibilmente sarebbero stati usati molto spesso: opere di
autori ben conosciuti come Chaucer, Dryden, Hazlitt e
Swift. I lettori cui erano stati affidati questi libri non do­
vevano far altro che scrivere a Mill Hill per farsi spedire
150
le schede; altrimenti, Murray chiedeva cortesemente di
compilarne di nuove con tutti i dati, di ordinarle alfabe­
ticamente e mandarle allo Scriptorium.
Era abbastanza semplice. Ma, chiedevano tutti, quali
erano le parole da cercare?
Le prime regole di Murray erano chiare e inequivoca­
bili: ogni parola poteva essere un lemma. I volontari do­
vevano cercare delle citazioni per ogni singola parola di
un libro. Dovevano forse concentrare maggiormente i
loro sforzi sulle parole che li colpivano in quanto rare,
obsolete, antiquate, nuove, particolari, o usate in modo
particolare; allo stesso modo, però, dovevano cercare
assiduamente anche le parole comuni, a patto che la
frase che le conteneva dicesse qualcosa sull’uso o sul
significato della parola stessa. Era necessario inoltre
prestare molta attenzione alle parole che sembravano
nuove o sperimentali, obsolete o arcaiche, in modo che
la data potesse essere utilizzata per cercare di fissare il
momento del loro ingresso nella lingua. Tutto ciò, spe­
rava Murray, era senz’altro sufficientemente chiaro.
Ma poi, chiedevano ancora i potenziali lettori, quan­
te citazioni dovevano essere fornite per ciascuna paro­
la? « Quante ne servono » rispondeva Murray, soprattut­
to se contesti differenti potevano spiegare differenze di
significato o contribuire a illustrare le sottili variazioni
nell’uso di una parola specifica. Più schede fossero arri­
vate al capanno di lamiera costruito a Mill Hill, meglio
sarebbe stato: egli assicurava ai lettori di avere una nu­
trita schiera di assistenti per selezionarle, e che i pavi­
menti erano stati rinforzati apposta per reggerle tutte.
(Erano arrivate più di due tonnellate di schede, con
i primi tentativi di Coleridge e Furnivall, aggiungeva
Murray. Ma non diceva nulla di tutte quelle che erano
state rosicchiate dai topi o rovinate dall’umidità, né sve­
lava che un’intera partita era stata trovata in una culla di
vimini, o che un sacco di schede che cominciavano con
la lettera I era stato abbandonato in una cesta sfondata
in una canonica vuota, o che tutta la lettera F era stata
151
accidentalmente spedita a Firenze, o che migliaia di
schede erano scritte con una grafia così brutta che, co­
me raccontò Murray a un amico, sarebbe stato più facile
leggerle se fossero state scritte in cinese).
A Minor la seconda pagina di istruzioni parve da su­
bito offrire consigli più pratici, anche se molto più pro­
saici. Chiariva innanzitutto che Murray aveva un fondo
con il quale poteva rimborsare le spese postali ai volon­
tari che avrebbero voluto mandare pacchi di schede ma
non se lo potevano permettere; chiedeva quindi di spe­
dire i pacchi a Mill Hill come stampe, con le estremità
non sigillate, in modo da risparmiare a Murray una mul­
ta per tutti quelli chiusi anche con la più piccola goccia
di collante (vietato dal regolamento postale).
Molti dei primi lettori si dimostrarono terribilmente
confusi: semplicemente non capivano lo scopo del com­
pito loro assegnato. Per esempio, domandavano alcuni,
si richiedeva una citazione esemplificativa per ogni sin­
gola occorrenza dell’articolo determinativo the all’inter­
no di ogni libro? Ce ne sarebbero volute decine di mi­
gliaia per ogni volume, prima di poter iniziare con un
qualsiasi sostantivo. E poi, si lamentava una lettrice, che
cosa succedeva se qualcuno, come lei, giungeva faticosa­
mente alla fine di un volume di 750 pagine senza trova­
re una sola parola rara da poter estrapolare?
Le indicazioni di Murray offrono una risposta tolleran­
te e affabile a lamentele del genere, nonostante trapeli
tra le righe qualche lieve traccia del suo rigore calvinista.
No, diceva a denti moderatamente stretti, non c’era al­
cun bisogno di fornire decine di esempi per gli articoli
determinativi e le preposizioni, a meno che non si pre­
sentassero dei casi molto strani. E no, no, no! I libri non
dovevano essere perlustrati solo alla ricerca di parole ra­
re: doveva spesso ricordarlo ai volontari. I lettori doveva­
no trovare e annotare ogni singola parola che sembrasse
interessante, o che fosse citata in modo interessante e
significativo o in modo buono, appropriato ed efficace.
Per dare un saggio dei pericoli incontrati sino a quel
152
momento, diceva, aveva ricevuto non meno di cinquan­
ta citazioni per la parola abusion (che significa « distor­
sione della realtà »), ma solo cinque per la parola molto
più comune abuse, abuso.
« I miei redattori devono impiegare ore preziose per
cercare le citazioni esemplificative delle parole comuni,
che i lettori hanno trascurato, ritenendole indegne di
essere incluse » scriveva. Pensate in modo semplice, insi­
steva Murray: pensate in modo semplice!
E poi, piuttosto esasperato dal fatto che, evidente­
mente, non era ancora stato abbastanza chiaro, scrisse
una versione distillata delle sue istruzioni, una regola
aurea, una frase che doveva diventare il motto di tutti i
lettori del dizionario. I lettori dovevano essere in grado
di dire: « Questa è una citazione fondamentale per, di­
ciamo, “cielo”, o “metà”, o “abbracciare” o “manciata”;
illustra il significato o l’uso della parola; è un esempio
adatto per il Dizionario ». Seguite questo modo di ragio­
nare, insisteva Murray, e non sbaglierete troppo.

William Minor lesse e capì perfettamente tutto quan­


to. Si guardò intorno nella sua cella-biblioteca, scorren­
do i volumi della stupefacente collezione che aveva già
accumulato nei dieci anni precedenti. Prese la lista di
libri arrivata con l’appello originale di Murray. Avrebbe
controllato innanzitutto se ne aveva qualcuno sui suoi
scaffali che nel tempo gli poteva tornare utile.
All’improvviso i suoi fibri, che fino ad allora erano stati
solamente un’amata decorazione e un mezzo per libera­
re la mente dalla tetra routine della vita di Broadmoor,
erano diventati il suo bene più prezioso. Per il momento,
almeno, poteva accantonare le fantasie su tutto il male
che certa gente voleva fargli: erano invece le sue centinaia
di libri che ora dovevano essere tenute al sicuro, lontano
dai predatori da cui era convinto che il manicomio fosse
infestato. I suoi libri, e il lavoro sulle parole che vi avrebbe
trovato, stavano per diventare l’elemento caratterizzante
153
della vita che aveva appena scelto. Per i successivi vent’an­
ni non avrebbe fatto quasi nient’altro a Broadmoor se
non rinchiudere se stesso e il suo cervello torturato nel
mondo dei libri, dei loro scritti e delle loro parole.
Era una mente abbastanza indipendente e abbastan­
za originale, comunque, da comprendere che avrebbe
potuto fare di meglio che seguire alla lettera gli ordini
di Murray. Considerati la sua particolare situazione, il
suo tempo libero, la sua biblioteca, poteva fare di più,
fare diversamente. Gli ci vollero alcuni giorni per capire
esattamente come si sarebbe potuto rendere più utile al
progetto; ma dopo qualche settimana di riflessione ela­
borò quello che per lui era il modo migliore di affronta­
re l’impegno. Giunse a una decisione. Prese dallo scaf­
fale il primo dei suoi libri e lo aprì sulla scrivania.
Non possiamo sapere con precisione che libro fosse.
Facciamo finta, però, che si trattasse della traduzione,
rilegata in pelle con il dorso in oro e carta marmorizza­
ta, di un libro francese intitolato The Compleat Woman (La
donna onesta), di un certo Jacques du Boscq (un testo
che, sappiamo, Minor possedeva e usava di sicuro). Pub­
blicato a Londra nel 1639, era stato tradotto da un tale
identificato solo come « N.N. ».
I motivi per iniziare proprio con questo, o anche sem­
plicemente per leggerlo, erano molti. Era una buona
opera secentesca, oscura ed esotica, senza dubbio zeppa
di parole strane e interessanti. Dopotutto, Murray aveva
esortato i suoi lettori a esaminare questo specifico pe­
riodo della storia letteraria: « Il Seicento, così ricco di
scrittori, naturalmente presenta più ampi territori non
ancora esplorati ». Il libro di Jacques du Boscq, nella sua
traduzione anonima, era perfetto.
E così Minor prese da un cassetto quattro fogli di car­
ta bianca e una boccetta di inchiostro nero, e scelse la
penna dal pennino più sottile. Piegò i fogli in due for­
mando un quaderno, un fascicolo di otto pagine. Poi,
dando forse un ultimo sguardo dalla finestra della cella
alla rigogliosa campagna di sotto, si mise a leggere il libro
154
prescelto, riga dopo riga, paragrafo dopo paragrafo,
con un’accuratezza lenta e infinitamente regolare. Così
facendo, diede inizio alla routine che aveva pianificato
durante i primi giorni di preparazione.
Ogniqualvolta incontrava una parola che sollecitava
il suo interesse, la trascriveva in caratteri minuscoli, qua­
si microscopici, nella giusta posizione aH’intemo del qua­
derno che aveva creato.
L’unicità della sua procedura doveva ben presto di­
ventare il marchio di garanzia della stupefacente accu­
ratezza di Minor e della sua attenzione ai dettagli. Il suo
lavoro avrebbe suscitato ammirazione e rispetto in tutti
coloro che in seguito l’avrebbero visto; ancora oggi i
quaderni conservati negli archivi del dizionario fanno
restare tutti a bocca aperta.
Scegliamo ad esempio il momento in cui incappò nel­
la parola buffoon, buffone. Fu subito colpito dalla signifi­
catività della sua presenza in una frase alquanto emble­
matica, a pagina 34 del libro di Jacques du Boscq. La tra­
scrisse prontamente nella sua calligrafìa minuscola, per­
fettamente chiara, perfettamente leggibile, sulla prima
pagina del suo libretto vuoto. La scrisse nella prima co­
lonna, e decise di inserire la parola e il relativo numero
di pagina a circa un terzo dell’altezza.
La posizione era precisa, ed era stata scelta con cura.
Il motivo era che Minor era certo di trovare, prima o
poi, un’altra parola interessante che iniziasse con la
stessa lettera, la B; e c’era una probabilità molto alta che
questa parola andasse inserita prima di buffoon e soltan­
to una probabilità molto più bassa che andasse inserita
dopo (perché, essendo la seconda lettera di buffoon una
U, c’erano soltanto tre possibilità: trovare una o più pa­
role la cui seconda lettera fosse di nuovo una U, o una
tra le uniche altre due lettere possibili, cioè la W - con
un’unica parola, bwana -o la Y).
E infatti, poche pagine dopo incappò nell’interessan­
te parola balk (striscia di terra rilevata tra due solchi),
con una bella citazione, che quindi meritava di essere
155
annotata sul quaderno. La inserì nella lista sopra buf­
foon, lasciando però un po’ di spazio, nell’eventualità di
incontrare un’altra parola che iniziasse per B e la cui
seconda lettera fosse nell’alfabeto tra la nuova A e la
vecchia U. Cinque pagine più in là notò poi con un cer­
to piacere la parola blab, ciance, proprio il genere di pa­
rola che sperava di trovare, e anch’essa finì nella lista,
inserita nello spazio che aveva magistralmente lasciato
libero, sotto balk e ben sopra buffoon.
E così iniziò l’elenco delle parole del primo dei libri
che riempivano la cella del dottor Minor: parola dopo
parola dopo parola, ciascuna con l’ortografia esatta, la
posizione nel quaderno perfettamente appropriata, la
pagina del libro in cui si trovava riportata con precisio­
ne. Da atom (atomo) e azure (azzurro), a gust (folata) e
hearten (rincuorare), fix (fissare) e foresight (preveggen­
za), la lista cresceva e cresceva. Alcune delle parole ri­
correvano spesso: per esempio, feel (sentire), che Minor
riscontrò in sedici diverse pagine del libro di Jacques du
Boscq, anche se poi in alcuni casi si trattava in realtà di
feeling, nella forma gerundiva (come in « I can’t help feel­
ing this way, Non riesco a non sentirmi così »), o come
sostantivo (per esempio « Thefeeling of which you speak is
painful, Il sentimento di cui parlate è doloroso »).
Gli saranno occorse molte settimane, forse mesi, per
completare questa prima lista di parole. E forse, quando
la finì, il 1883 era già iniziato da tempo. Ma sebbene fos­
sero ormai trascorsi ben quattro anni da quando James
Murray aveva lanciato il suo primo appello con l’opu­
scolo, e più di tre anni dalla prima esortazione rivolta ai
lettori americani della rivista « Athenaeum », e un anno,
o forse due, dal giorno in cui Minor aveva letto uno dei
due appelli e deciso di partecipare, egli non aveva anco­
ra mandato una sola scheda allo Scriptorium. Per quan­
to ne sapeva il personale che lavorava al dizionario, Mi­
nor aveva perso interesse, si era sentito sopraffatto, si
era arreso.
Ma niente avrebbe potuto essere più lontano dal ve­
156
ro. Il dottor Minor, in realtà, aveva un piano d’attacco
completamente diverso: un metodo di lavoro che risul­
tò essere molto differente da quello di tutti gli altri let­
tori volontari, ma che ben presto fece di lui un aiuto
prezioso e insostituibile per la creazione del grande di­
zionario.
Infatti, completato l’impegno monumentale di scri­
vere la prima lista di parole dal suo primo libro, rimise a
posto il volume e ne prese un altro. Forse il secondo fu
The Painting of the Ancients (La pittura degli antichi) di
Franciscus Junius, del 1638, o The Rule ofReason (La re­
gola della ragione) di Thomas Wilson, del 1551. Oforse
tutt’altra cosa. Poteva essere uno qualsiasi di centinaia
di libri, perché Minor aveva una raccolta prodigiosa, e il
suo modo di procedere era quello di sceglierne uno,
poi un altro, e poi un altro ancora, e di scrivere una nuo­
va lista di parole per ciascuno. Per completare un libro
poteva impiegare tre mesi, con il grado di precisione
che secondo lui i lontani editori richiedevano.
E così continuava a lavorare, un giorno dopo l’altro,
con il minuscolo spioncino della sua porta che dall’e­
sterno si apriva e si chiudeva con uno scatto ogni ora
circa, quando gli ausiliari di Broadmoor controllavano
che il loro strano paziente fosse incolume e ancora vivo.
Lavorava sodo, immerso nei pensieri e con rapita con­
centrazione: fece indici e raccolte e collazioni di parole
e frasi da ognuno dei suoi libri, finché la scrivania della
prigione non fu ingombra dei suoi quaderni, ciascuno
contenente un elenco alfabetico generale di parole trat­
te da tutta la sua eclettica biblioteca, una piccola gem­
ma preziosissima e molto apprezzata.

Anche se non possiamo sapere con certezza quali dei


suoi libri lesse per primi, conosciamo però il titolo di
alcuni dei libri che lesse di sicuro. La maggior parte di
essi sembra riflettere il suo interesse vivo e sconsolato
per i viaggi e per la storia. Possiamo soltanto immagina­
157
re quanto quella povera mente debba aver vagato, in­
trappolata com’era nel suo eremo tappezzato di libri
all’ultimo piano del suo blocco. E quanto si sia sentito
frustrato e con le ali tarpate, leggendo riga per riga libri
come quello di Thomas Herbert, scritto nel 1634 e inti­
tolato A Relation of Some Yeares Travaile Begunne Anno
1626 into Afrique and the Greater Asia (Un resoconto di
alcuni anni di viaggio iniziati nel 1626 in Africa e nell’A­
sia Maggiore) ; possiamo solo supporre quanta nostalgia
Minor abbia sentito per Trincomalee (e per le sue gio­
vani indigene), leggendo e indicizzando la traduzione
fatta da Nicholas Lichfield (1582) del First Booke of the
Historié of the Disamene and Conquest of the East Indies (Pri­
mo libro della storia della scoperta e della conquista
delle Indie Orientali) di Fernâo Lopes de Castanheda.
Un foglio dopo l’altro, la sua collezione di parole ac­
curatamente raccolte continuò a lievitare. Nell’autun­
no del 1884 ne aveva a sufficienza, una selezione abba­
stanza ampia di termini per i quali aveva immediato ac­
cesso alle relative citazioni, e poteva iniziare a doman­
dare ai curatori del dizionario, Murray in particolare,
di quali parole, esattamente, avessero bisogno. Perché,
mentre tutti gli altri volontari leggevano semplicemen­
te i libri loro assegnati, annotavano sulle schede le cita­
zioni interessanti, quando le incontravano, e le spedi­
vano in mazzetti, il dottor Minor, con tutto il tempo che
aveva a disposizione, era in grado di estrapolare dati
grazie all’approccio radicalmente diverso da lui elabo­
rato.
Con la sua raccolta in rapida espansione di indici e li­
ste di parole, adesso era pronto a dare il suo contributo,
secondo necessità, al progetto del dizionario, mandan­
do le citazioni nel momento esatto in cui i curatori ne
avevano bisogno. Poteva stare al passo; poteva procede­
re in qualsiasi momento fianco a fianco con il diziona­
rio, perché aveva accesso immediato alle parole di cui
c’era bisogno, quando ce n’era bisogno. Aveva predi­
sposto una chiave, un indice analitico di tutte le parole,
158
un dizionario nel dizionario, accessibile all’istante. I qua­
derni con le liste sul suo semplice tavolo di legno costi­
tuivano, tutti insieme, una sua personale creazione, del­
la quale andava giustamente e gelosamente orgoglioso.
Il suo modo di procedere consisteva prima nello scri­
vere alla redazione del dizionario chiedendo su quale
lettera o su quale parola stessero lavorando. Poi, quan­
do riceveva la risposta, controllava i suoi quaderni per
vedere se aveva già annotato la parola desiderata. Se ce
l’aveva (e dati il suo metodo e le sue letture ampie e vi­
gorose era più che probabile che ce l’avesse), seguiva
l’annotazione del numero o dei numeri di pagina, e an­
dava a individuare direttamente la parola là dove com­
pariva una o più volte nei suoi libri. Allora, e solo allora,
trascriveva la citazione migliore su una scheda già predi­
sposta e la mandava direttamente allo Scriptorium.
Era un approccio senza precedenti: il metodo che so­
lo qualcuno con una quantità immensa di energia e di
tempo a disposizione poteva contemplare. E natural­
mente era un metodo che soddisfaceva pienamente i
curatori: ora essi sapevano che laggiù, all’indirizzo mi­
sterioso e anonimo di Crowthorne, con ogni probabilità
avevano una fonte a getto continuo di parole già indiciz­
zate e corredate delle relative citazioni.
Con l’arrivo della prima lettera di Minor, in cui spie­
gava quanto aveva fatto e si diceva pronto a ogni succes­
siva richiesta, i collaboratori di Murray, sempre oberati
di lavoro, scoprirono che la vita era diventata in teoria
molto più semplice. Da quel momento in poi, non era­
no più costretti a rovistare tra gli scaffali e le caselle, né a
passare al setaccio migliaia di schede a caccia di citazio­
ni, che potevano esistere oppure no, relative a una paro­
la che volevano includere. Ora potevano limitarsi a sce­
gliere una parola che dava loro dei problemi, scrivere a
Crowthorne e richiederla.
Con un po’ di fortuna (e un’alta probabilità statisti­
ca) avrebbero a tempo debito ricevuto dal dottor Minor
una lettera e un pacchetto, con l’indicazione precisa del
159
capitolo o del verso e le schede con le citazioni, nel mo­
mento esatto in cui esse servivano ai compositori, agli
impaginatori, ai tipografi per poter completare una pa­
gina.

La prima parola con la quale venne sperimentato


questo metodo era ingannevolmente semplice (nella
misura in cui ogni singola parola è semplice a confronto
di ogni altra). Era una parola che doveva essere inclusa
nel secondo fascicolo, o seconda parte, del dizionario,
che nella tarda estate del 1885 era in fase di preparazio­
ne per la stampa e la pubblicazione. Vi preghiamo di i-
spezionare le vostre liste di parole, scrisse un redattore,
per vedere se riuscite a trovare in esse dei riferimenti al­
la parola art, arte, e a tutte le sue forme derivate.
La lettera venne indirizzata direttamente al dottor
Minor di Broadmoor, come indicato nella sua offerta di
collaborazione. Chiunque fosse il redattore che per pri­
mo gli pose il quesito, non aveva la minima idea dell’i­
dentità dell’uomo da cui si attendeva una risposta. Per
molti anni da allora nessuno allo Scriptorium avrebbe
saputo niente di lui, tranne l’innegabile verità che egli e-
ra molto bravo nel suo lavoro, molto veloce, e sulla buo­
na strada per diventare un membro indispensabile della
squadra del nuovo grandioso dizionario.
Art sarebbe stato il suo primo cimento.

160
8
« ANNULATED, ART, BRICK-TEA, BUCKWHEAT »

Poor (pü9j), a. (sb.) Forms: a. 3-5 pouere (po­


vere), 3-6 pouer (pover), (4 poeuere, poeure,
pouir), 4-5 poer, powere, 5 poyr, 5-6 power, (6
poware). ft. 3-5 poure, 4-6 powre, pour. y. 3-7 (-9
dial.) pore, 4-7 poore, (6) 7- poor. ò. Sc. and
north, dial. 4-6 pur, 4-8 pure, (4 puyre, 5 pwyr,
poyr, 6 peur(e, pwir, puire), 6- puir(ü), (9 peer).
[ME. pov(e)re. pouere. poure. a. OF. povre. -ere.
poure. in mod E. pauvre. dial, paure.pouvre.pou­
re = Pr. paubre.paure. It.povero. Sp., Pg.pobre'.-
L. pauper, late L. also pauper-us. poor. The mod.
Eng. poor and Sc. puir represent the ME. pore\
with mod. vulgar pore. cf. whore and the pronun­
ciation of door,floor.
On account of the ambiguity of the letter u and
its variant v before 1600, it is uncertain whether
ME. pouere. poure. pouer. meant pou- or pov-.
The phonetic series paupere(m. paupre. paubre.
pobre. povre. shows that povre preceded poure.
which may have been reached in late OF., and is
the form in various mod.F. dialects. But the 15th
and early 16th c. literary Fr. form was povre. arti­
ficially spelt in 15th c. pauvre, after L. pauper, and
ME. pore (the source of mod.Eng./Joor) seems to
have been reduced frompovre like o "er from over,
lord from loverd. Cf. also Poortith, Porail,
Poverty. But some Eng. dialects now have pour
(paur), which prob, represents ME.powr (pwr).]
I. 1. Having few, or no, material possessions;
wanting means to procure the comforts, or the nec­
essaries, of life; needy, indigent, destitute; spec.
(esp. in legal use) so destitute as to be dependent
upon gifts or allowances for subsistence. In com­
mon use expressing various degrees, from abso­
lute want to straitened circumstances or limited
161
means relatively to station, as ‘a poor gentleman’, ‘a
poor professional man, clergyman, scholar, clerk’,
etc. The opposite of rich, or wealthy. Poor people,
the poor as a class: often with connotation of hum­
ble rank or station.
6. Such, or so circumstanced, as to excite one’s
compassion or pity; unfortunate, hapless. Now
chiefly colloq.
In many parts of England regularly said of the
dead whom one knew; = late, deceased.

Le prime schede, foglietti di carta bianchissima non


rigata, quindici centimetri per dieci, coperti dalla limpi­
da calligrafia di William Minor, elaboratamente corsiva, e
così peculiarmente americana, in inchiostro nero-verda­
stro, iniziarono a partire dall’ufficio spedizioni di Broad­
moor nella primavera del 1885. Verso la fine dell’estate
arrivavano ormai a destinazione ogni mese, in piccoli
pacchetti avvolti nella carta, e poi ogni settimana, in pac­
chetti più grandi. Nel giro di poco tempo, la pioggerella
di carta era diventata una violenta bufera, una bufera che
avrebbe imperversato ululando senza tregua da Crow-
thome per quasi tutti i vent’anni seguenti.
Le schede, però, non venivano spedite a Mill Hill. Quan­
do il dottor Minor iniziò a impegnarsi nella seconda fase
del suo lavoro, ovvero fornire le citazioni piuttosto che
compilare le liste, James Murray e la sua squadra si erano
già trasferiti tutti a Oxford. Il direttore era stato persuaso
ad abbandonare il suo comodo impiego di maestro e, no­
nostante la misera paga e le interminabili ore di lavoro, si
era tuffato nella lessicografia a tempo pieno.
Tutto ciò nonostante un’atmosfera generale di ma­
lessere e sventura. Le esperienze di Murray nei primi
anni di lavoro al grande dizionario erano state tutt’altro
che felici, e molte erano state le volte in cui aveva giura­
to di dimettersi. I Delegati della casa editrice erano par­
simoniosi e impiccioni; il ritmo di lavoro si dimostrava
162
intollerabilmente lento; la sua salute risentiva di tutte
quelle ore infinite di lavoro, della sua devozione mono­
maniacale a un impegno quasi impossibile.
C’era però un fatto incoraggiante: il primo dei fasci­
coli, le dispense in cui la Oxford aveva insistito a divide­
re il dizionario per avere delle entrate, era finalmente
stato pubblicato il 29 gennaio 1884. Quasi cinque anni
erano trascorsi da quando James Murray era stato nomi­
nato direttore editoriale. Ventisette anni erano passati
da quando Richard Chenevix Trench aveva tenuto la
famosa allocuzione in cui reclamava un nuovo diziona­
rio. Ora, con la copertina bianco sporco e le pagine ta­
gliate solo a metà, era stata pubblicata dalla Clarendon
Press di Oxford, al prezzo di dodici scellini e sei penny,
la prima parte del dizionario, 352 pagine con tutte le
parole inglesi conosciute da A ad Ant.
Ecco, finalmente, un briciolo di concretezza: la parte
prima di A New English Dictionary on Historical Principles,
Founded Mainly on the Materials Collected by the Philological
Society, edited byJames A. H. Murray, LL.D., Sometime Presi­
dent of the Philological Society, with the Assistance of Many
Scholars and Men of Science (Un nuovo dizionario inglese
basato su princìpi storici, fondato essenzialmente sui ma­
teriali raccolti dalla Philological Society, a cura di James
A.H. Murray, LL.D.,1 già presidente della Philological
Society, con la collaborazione di molti intellettuali e uo­
mini di scienza).
Murray non poteva che esserne orgoglioso; i proble­
mi che sembravano così insuperabili, e che tanto lo op­
primevano, tendevano a svanire ogni volta che prende­
va in mano l’esile volume in brossura. E, in un improvvi­
so guizzo di ottimismo alla vigilia del suo compleanno, il
direttore (che avrebbe compiuto quarantasette anni a
meno di una settimana di distanza) dichiarò di sentirsi
abbastanza fiducioso da prevedere che l’ultima parte sa­
rebbe stata pubblicata nel giro di undici anni.

1. Dal latino Legum Doctor, dottore in Legge [JV.d.T.].

163
In realtà ne sarebbero occorsi altri quarantaquattro.
Ma ora, dopo tanti anni di attesa, chiunque fosse inte­
ressato poteva almeno vedere la magnifica complessità
dell’impresa, la cura per il dettaglio, il lavoro di filigra­
na, i veri e propri arabeschi di minuziosità che i curatori
erano determinati a realizzare. In Inghilterra si poteva
richiederne per iscritto una copia a dodici scellini e sei
penny; negli Stati Uniti si riceveva un fascicolo stampato
a Oxford, ma pubblicato da Macmillan a New York, per
tre dollari e venticinque centesimi.
La prima parola della prima parte, dopo le quattro pa­
gine dedicate alla semplice lettera A, era il sostantivo ob­
soleto aa, che significa «ruscello» o «corso d’acqua». A
comprovarne l’esistenza c’era una citazione da un’opera
del 1430, che conteneva un riferimento a Saltfleetby, una
città del Lincolnshire ancora oggi piuttosto umida e cinta
d’acqua, in cui, quattro secoli prima, esisteva un rivoletto
conosciuto localmente come « le Seventown Aa ».
La prima, vera parola di uso corrente contenuta nel
fascicolo era aal, il nome bengalese o hindi di una pian­
ta (la robbia) della famiglia delle rubiacee, da cui si può
estrarre un colorante per tessuti. Lo confermava con la
sua testimonianza il Dictionary ofArts, Manufactures and
Mines (Dizionario delle arti, delle manifatture e delle
miniere) di Andrew Ure (1839): « Egli ha ottenuto dalla
radice della robbia (aal) una sostanza giallo pallido che
chiama morindina ».
E poi la prima parola propriamente inglese, se - po­
trebbe obiettare un linguista pedante - è mai esistita
una cosa del genere. Era aardvark, oritteropo, il mez­
zo armadillo e mezzo formichiere che vive nell’Africa
subsahariana e che ha una lingua viscosa lunga sessan­
ta centimetri. Venivano proposte tre citazioni, la prima
del 1833.

Così inizia a dispiegarsi il vasto emporio delle parole,


passando per acatalectic (acatalettico) e adhesion (adesio-
164
ne), via agnate (agnato) e allumine (illuminare), fino ad
animal (animale), answer (risposta) e infine ant (formi­
ca). Con quest’ultima voce la squadra di Murray non in­
tendeva solo «il piccolo insetto sociale dell’ordine degli
imenotteri»: c’è anche la forma contratta di ain’t’,1 c’è un
raro prefisso che significa « anti- », come in antacid (antia­
cido) , e il più comune suffisso derivante dal francese e u-
sato per formare parole come tenant (affittuario), valiant
(valoroso), claimant (chi fa un ricorso o un reclamo) e
pleasant (piacevole). Trecentocinquanta pagine di una
dotta raccolta, le prime di quelle che in più di quattro
decenni sarebbero diventate ben 15.487.
E nel nuovo Scriptorium di Oxford che il professor
Murray avrebbe compiuto tutto il futuro lavoro sul di­
zionario. Lui e Ada e la loro numerosa famiglia (sei figli
e cinque figlie) vi si erano trasferiti nell’estate del 1884,
sei mesi dopo la pubblicazione del volume A-Ant. Aveva­
no preso una casa spaziosa chiamata Sunnyside in quelli
che allora erano i sobborghi a nord della città, al nume­
ro 78 di Banbury Road. La casa, ampia e comoda, tipica
della zona settentrionale di Oxford (un’area tranquilla
dove si sono insediati i più importanti professori uni­
versitari e gli istituti minori), esiste ancora, come pure
la rossa cassetta postale a cilindro fatta installare lì ac­
canto per meglio fagocitare l’immensa quantità di lette­
re in partenza. Oggi la casa è occupata da un noto antro­
pologo, che all’esterno ha cambiato ben poco.
Solo lo Scriptorium, Scrippy, come lo chiamava la fa­
miglia di Murray, che proprio il suo dizionario defini­
sce come « la stanza di un monastero riservata alla tra­
scrizione dei manoscritti », è sparito. E forse questo non
sorprende: a nessuno, nemmeno in tempi vittoriani,
piaceva molto quella costruzione in ferro e lamiera on­
dulata, di quattro metri e mezzo per quindici, eretta nel
giardino sul retro. Il vicino di casa diceva che deturpava

1. A sua volta contrazione di am not, is not, are not, have not e has not
(forme negative di to be, essere, e to have, avere) [AT.d. T.].

165
la vista, e così Murray la fece interrare di un metro, il
che la rese umida e fredda per il personale e produsse
una gigantesca montagna di terra di scarto che disturba­
va ancora di più i vicini. Quando fu finita, la gente dice­
va che somigliava a un deposito per gli attrezzi, a una
stalla o a una lavanderia, e quelli che vi lavoravano male­
dicevano il monacale ascetismo della costruzione e il
freddo che irrimediabilmente gelava le ossa, e la defini­
vano « un orrido covo di lamiera ».
Il nuovo Scriptorium però era di sei metri più lungo
di quello di Mill Hill (che esiste ancora, annesso alla bi­
blioteca della scuola a tutt’oggi costosa ed elegante) e le
strutture per archiviare, ordinare e poi utilizzare le sche­
de in arrivo (che a questo punto piovevano al ritmo di
più di mille al giorno) erano molto migliorate.
Vennero subito costruite 1029 caselle (Coleridge ne
aveva appena 54) ; poi, man mano che il volume e il peso
delle schede crescevano tanto da diventare impossibili
da gestire, vennero costruite nuove file di scaffali. Lun­
ghe tavole di mogano ben lucidate sostenevano i testi
selezionati per la parola del giorno o dell’ora, e grandi
leggii da chiesa reggevano i principali dizionari e testi di
consultazione, ai quali Murray e i suoi uomini facevano
riferimento costantemente. Ai tempi di Mill Hill, il di­
rettore aveva sistemato il suo tavolo e la sua sedia su una
predella; qui a Oxford erano tutti più democraticamen­
te sullo stesso livello, ma lo sgabello di Murray era più
alto degli altri, e da lì egli presiedeva ancora con indi­
scussa autorità, vedeva tutto, e si lasciava sfuggire ben
poco.
Murray organizzò le operazioni allo Scriptorium come
avrebbe fatto un ufficiale sul campo di battaglia. Le sche­
de erano di competenza specifica del commissariato mi­
litare, di cui Murray era il generale. I pacchetti arrivavano
ogni mattina, un migliaio di schede al giorno. Un lettore
eseguiva un rapido controllo per vedere se la citazione e-
ra completa e se tutte le parole erano ortograficamente
corrette; poi un secondo (spesso uno dei figli di Murray,
166
messi al lavoro praticamente non appena imparavano a
leggere, pagati sei penny la settimana per un’ora e mezzo
di lavoro al giorno e resi precocemente esperti di parole
crociate) divideva il contenuto di ogni mazzetto in base
all’ordine alfabetico dei catchwords. Un terzo impiegato
divideva poi queste parole secondo le varie parti del di­
scorso cui appartenevano (per esempio, bell come sostan­
tivo, campana; bell come aggettivo, campanario; bell come
verbo, dotare di campana) e infine un quarto control­
lava che le citazioni raccolte per ciascuna fossero dispo­
ste in ordine cronologico.
Poi un redattore, uno dei membri più importanti del­
la squadra, suddivideva i significati di ciascuna parola
secondo le varie sfumature che essa aveva assunto nel
corso della sua esistenza, e a questo punto (se non l’ave­
va già fatto) faceva un primo tentativo di scrivere l’ele­
mento cruciale della maggior parte dei dizionari: la de­
finizione.

Definire adeguatamente le parole è un’arte sottile e


peculiare. Ci sono delle regole: una parola (per esem­
pio un sostantivo) deve prima essere definita in base alla
classe alla quale appartiene (mammifero, quadrupede)
e poi differenziata da altre appartenenti alla stessa clas­
se (bovino, femmina). Non ci deve essere alcuna parola
all’interno della definizione che sia più complicata o
che abbia meno probabilità di essere conosciuta della
parola che si sta definendo. La definizione deve dire
quello che la cosa è, e non quello che non è. Se c’è una
gamma di significati di una qualsiasi parola (cow, vacca,
ha un’ampia gamma di significati, cower, accovacciarsi,
essenzialmente uno solo), allora devono essere definiti
tutti. E tutte le parole della definizione devono potersi
rintracciare altrove nel dizionario: un lettore non deve
mai incappare in una parola che non possa scoprire al­
trove nello stesso dizionario. Se chi scrive le definizioni
riesce a seguire tutte queste regole, senza perdere di vi­
167
sta l’esigenza impellente di concisione ed eleganza, e se
si mantiene fedele al suo impegno, ne risulterà proba­
bilmente una definizione adeguata.
A questo punto le parole del fascio di citazioni erano
state suddivise in sottogruppi più piccoli, ciascuno con
un significato e una definizione ben precisi, appena
scritti da un redattore, o scritti già da qualche tempo,
quando la parola era completa solo a metà. Ora restava
soltanto da ordinare i sottogruppi in senso cronologico,
per dimostrare, con l’esercito delle citazioni, come le
sfumature di significato del catchword si erano modificate
ed evolute nell’arco della sua esistenza.
Fatto anche questo, Murray prendeva tutte le schede
raccolte per ciascuno dei sottogruppi di ogni singola pa­
rola, e li disponeva o li ridisponeva o li suddivideva ulte­
riormente in base a quanto riteneva opportuno. Scrive­
va e aggiungeva l’etimologia della parola (che la Ox­
ford, nonostante l’esistenza di un proprio dizionario e-
timologico, gli aveva infine permesso di includere) e la
pronuncia (una decisione insidiosa, capace di provoca­
re, come è successo, infinite controversie), e poi faceva
una selezione definitiva delle citazioni migliori in asso­
luto. Idealmente ci doveva essere almeno una frase trat­
ta dalla letteratura per ogni secolo in cui la parola era
stata usata, tranne nel caso di parole che cambiavano
molto velocemente e che richiedevano quindi più cita­
zioni per far capire la rapidità delle nuove sfumature.
Infine, sistemato tutto questo, Murray scriveva le defi­
nizioni concise, dotte, accurate e amabilmente eleganti
per le quali il dizionario è famoso, e mandava alla stampa
le colonne così ultimate. Queste venivano composte con
caratteri Clarendon o Old Style (oppure con caratteri
greci, o di altre lingue straniere, o dell’inglese antico e
dell’anglosassone, se necessario) e rispedite allo Scripto­
rium sotto forma di bozze. La pagina, pronta per la stam­
pa, veniva infine assemblata nella forma, destinata alle
grandi macchine tipografiche degli edifici in pietra in
fondo a Walton Street.
168
Murray non era un piagnucolone, ma le sue lettere la
dicono lunga sulla difficoltà dell’impegno che si era ad­
dossato, e che gli editori, ansiosi di vedere un ritorno
per i loro investimenti, a loro volta gli avevano addossa­
to. La sua speranza era che si potessero pubblicare due
parti (seicento pagine di dizionario finito) ogni anno.
Murray stesso cercava valorosamente di completare
trentatré parole al giorno, ma « spesso una singola paro­
la, come approve, approvare... richiede da sola tre quarti
di una giornata ».
Murray parlò dei problemi di quel lavoro nell’allocu­
zione presidenziale alla Philological Society, e successi­
vamente in un articolo apparso sull’«Athenaeum» nel
marzo del 1884: l’articolo che lo condusse al primo vero
contatto con William Minor. Parlava della difficoltà di
« aprirsi la strada in via sperimentale in una foresta in­
violata dove mai prima di noi è passata l’ascia dell’uomo
bianco »:
Solo coloro che ne hanno fatto esperienza conosco­
no lo smarrimento con cui un curatore o un redattore,
dopo aver ripartito le citazioni per una parola come above,
sopra... in venti, trenta o quaranta gruppi, e aver appron­
tato per ciascuno una definizione provvisoria, le dispo­
ne su un tavolo o sul pavimento per poter avere una vi­
sione generale dell’insieme, e passa ore e ore a spostarle
come i pezzi su una scacchiera, sforzandosi di trovare,
nelle prove frammentarie di una documentazione stori­
ca incompleta, una sequenza di significati che possa for­
mare una catena logica di sviluppo. Talvolta la ricerca
sembra disperata; di recente, per esempio, la parola art
mi ha confuso per giorni: bisognava fare qualcosa; qual­
cosa si è fatto e siamo passati alla composizione per la
stampa; ma il nuovo esame della voce stampata, con la
maggior facilità di lettura e di confronto che essa per­
metteva, ci ha condotti alla completa distruzione e ri­
costruzione dell’edificio, che si estendeva su diverse co­
lonne.

169
Fu all’incirca in questo periodo in cui Murray era tan­
to tormentato da art che uno dei redattori (o forse fu
Murray in persona) scrisse la prima richiesta ufficiale a
Broadmoor. Voleva che il dottor Minor controllasse se
aveva accantonato qualche citazione per art che propo­
nesse altri significati, o che fosse di data anteriore, ri­
spetto a quelle raccolte fino ad allora. Sedici diverse sfu­
mature di significato erano state individuate per quel
sostantivo: forse Minor ne aveva altre, o qualche ulterio­
re delucidazione sulla parola. Se così fosse stato, lui (o
chiunque altro) era pregato di inviarle a Oxford con la
massima urgenza.
Diciotto lettere concernenti questa parola arrivarono
debitamente da svariati lettori che avevano visto l’artico­
lo. Una delle risposte, innegabilmente la più fruttuosa,
venne da Broadmoor.
Rispetto a tutti gli altri lettori, che avevano offerto so­
lamente una frase o due, l’oscuro dottor Minor ne aveva
accluse ben ventisette. Colpì i redattori di Oxford per la
meticolosità, ma non solo: era anche molto prolifico, e
capace di attingere ampiamente alle sorgenti della co­
noscenza e della ricerca. La squadra del dizionario ave­
va fatto una scoperta rara.
Va detto che la maggior parte delle citazioni di Minor
per questa parola in particolare veniva da una fonte per
certi versi ovvia: Discourses (Discorsi) di Joshua Reynolds,
le famose dissertazioni scritte nel 1769, l’anno successi­
vo alla sua nomina a presidente della Royal Academy.
Le frasi si rivelarono però di valore inestimabile per i
compilatori del dizionario, e ne è prova, ancora oggi, il
primo contributo accertato di William Chester Minor
all’opera finita, muta testimonianza delle fasi iniziali del
suo lavoro.
È la seconda citazione relativa all’accezione The Arts, le
arti, e dice semplicemente: « 1769 Reynolds, Sir J. Disc. I
Wks. 1870 306 Tra i nostri nobili c’è il desiderio diffuso di
distinguersi come amanti e intenditori delle arti ».
Senza saperlo, le parole di SirJoshua dovevano costi­
170
tuire il punto di partenza per un rapporto - quello tra il
professor Murray e il dottor Minor - che avrebbe unito
somma cultura, crudele tragedia, riserbo vittoriano, pro­
fonda gratitudine, reciproco rispetto, e una cordialità
che cresceva lentamente e che avrebbe potuto persino,
nel senso più lato del termine, definirsi amicizia. Comun­
que si chiamasse, era un legame che sarebbe rimasto tra i
due uomini finché la morte, trent’anni più tardi, non li
avrebbe infine separati. Il lavoro che il dottor Minor fece
per il dizionario, iniziato con i Discourses di Reynolds, pro­
seguì nei due decenni successivi; ma con esso era stato
forgiato un legame più forte del semplice amore per le
parole, un legame che tenne questi due uomini anziani,
tanto diversi tra loro, profondamente uniti per altri dieci
anni.
Dovevano tuttavia passare ben sette anni prima che
Murray e Minor si incontrassero. In quel periodo Minor
iniziò a spedire le sue citazioni a ritmo prodigioso: tal­
volta ben più di cento nuove schede la settimana, vale a
dire venti al giorno, tutte scritte con la sua calligrafia
limpida e ferma. Scriveva al professor Murray sempre in
tono piuttosto formale, deviando solo di rado in faccen­
de che esulavano dagli obiettivi che si era prefisso.

La prima corrispondenza di cui abbiamo traccia,


dell’ottobre del 1886, verteva in gran parte su questioni
agricole. Forse il medico, interrompendo il lavoro a ta­
volino, si era alzato in piedi per stiracchiarsi e con no­
stalgia aveva guardato dalla finestra della sua cella i
braccianti delle fattorie giù nella valle, li aveva osservati
mentre abbicavano gli ultimi covoni autunnali e beveva­
no sidro caldo sotto le querce. Fa riferimento nella sua
lettera a un libro che sta leggendo, The Country Farme
(La fattoria di campagna) di Gervase Markham, pubbli­
cato nel 1616, e alla presenza nel testo del verbo bell, u-
sato per le infiorescenze del luppolo in via di maturazio­
ne che si aprono a formare delle campanule, alla fine di
171
agosto. Anche blight, l’awizzire delle piante colpite da
malattie, attira la sua attenzione, come pure blast, appas­
sire, e poi heckling, che nelle fattorie una volta indicava il
processo di separare tra loro le fibre del lino, e che solo
in seguito venne usato (spesso in contesto politico) nel
senso di tempestare di domande, di mettere alla prova
ogni argomentazione sottoponendola a un esame mi­
nuzioso e rigoroso, come una pianta di lino che venga
tartassata per essere divisa in vista della gramola.
Gli piace anche la parola buckwheat, grano saraceno, e
la sua traduzione francese blénoir, e riesce a scovare delle
amenità come «unguento di grano saraceno». È chiaro
che si diverte con il suo lavoro: sembra di vederlo in pre­
da a un’eccitazione quasi adolescenziale mentre osserva:
« Potrei darvi di più, se voleste ». E poi butta lì una piccola
perla, una parola buffa e stuzzicante, horsebread, un pasto­
ne per i cavalli. Conclude la lettera quasi sollecitando una
risposta dal grande uomo del grande mondo esterno:
« Confido che tanto vi possa essere d’aiuto. Sinceramente
vostro, W.C. Minor, Broadmoor, Crowthome, Berks. ».
Il tono di questa e di altre lettere simili che ci sono ri­
maste sembra a metà strada tra l’ossequioso e il distacca­
to: dignitoso e controllato da un lato, e gonfio dall’altro
di servilismi alla Uriah Heep.1 Minor vuole disperata-
mente rendersi utile. Vuole sentirsi coinvolto. Vuole
che gli piovano addosso degli elogi, ma sa di non poter­
lo pretendere. Vuole rispettabilità, e vuole che i pazien­
ti del manicomio sappiano che lui è speciale, diverso
dagli internati delle altre celle.
Pur non sospettando minimamente quali siano il ca­
rattere o la situazione del suo corrispondente, e creden­
dolo ancora un medico con propensioni letterarie e
molto tempo libero, Murray sembra cogliere qualcosa
di strano nel suo tono supplichevole. Nota, per esem­
pio, che curiosamente Minor lavora più volentieri sulle

1. Personaggio del David Copperfield di Dickens, noto per la sua ipo­


crisia e la sua ossequiosità [N.d.T.].

172
parole in preparazione, come art all’inizio, e poi blaste
buckwheat, quelle che stanno per essere inserite nella suc­
cessione di pagine, parti, e volumi del momento. Murray
osserva in una lettera a un collega che Minor vuole a tutti
i costi restare al passo e che, a differenza della maggior
parte degli altri lettori, non ha alcun interesse a lavorare
su parole destinate ai volumi e alle lettere da pubblicare
nel giro di anni o decenni. In seguito scrive di avere la
chiara impressione che Minor si voglia sentire coinvolto,
voglia godere della sensazione di essere in qualche mo­
do parte della squadra, di fare le cose fianco a fianco
con gli scrivani dello Scriptorium.
Minor non era troppo lontano da Oxford, dopotutto.
Forse gli pareva di essere nella sezione staccata di un
college, come la St. Catherine’s Society o Mansfield
Hall, e che le sue celle, o quelle che James Murray cre­
deva ancora un comodo studio rivestito di legno e tap­
pezzato di libri, fossero semplicemente una succursale
campagnola dello Scriptorium, un covo di dotte crea­
zioni e di laboriose indagini lessicali. Se qualcuno aves­
se deciso di rifletterci più a fondo, si sarebbe potuto me­
ravigliare della strana simmetria tra i due uomini: impri­
gionati com’erano tra grandi cataste di libri, dediti ani­
ma e corpo agli studi più astrusi, la corrispondenza co­
me unico sbocco verso l’esterno, in grandi e quotidiane
tempeste di carta e fiumane d’inchiostro.

C’era però una differenza: William Minor rimaneva


assolutamente e irreversibilmente pazzo.
Gli ausiliari di Broadmoor avevano notato qualche
miglioramento all’inizio degli anni Ottanta, quando a-
veva risposto per la prima volta all’appello lanciato da
Mill Hill. Ma con il passare del tempo, mentre Minor
solo e sconsolato superava nel giugno del 1884 la pietra
miliare del suo cinquantesimo compleanno (l’anziana
matrigna era andata a trovarlo il mese prima, durante il
viaggio di ritorno negli Stati Uniti da Ceylon, dove era
173
rimasta dalla morte del marito), i suoi vecchi mali ritor­
narono, più vigorosi, più forti.
« Egregio dottor Orange, » scrive Minor al sovrinten­
dente di Broadmoor all’inizio del settembre seguente
« la deturpazione dei miei libri prosegue ancora. Sono
del tutto certo che qualcun altro oltre a me ha accesso a
essi, e ne abusa».
La sua calligrafia è tremula, incerta. Ha sentito aprirsi
la porta della cella la notte passata alle tre, dice, e conti­
nua vaneggiando: « Come potrete verificare, il rumore
di quella porta, da quando è stata manomessa, è incon­
fondibile; e da quel rumore si può essere onestamente
certi della sua chiusura come di ogni altra cosa che non
si possa vedere con i propri occhi». Se non c’è altro ri­
medio, avverte, « sarò costretto a rispedire i miei libri a
Londra e a farli vendere ». Fortunatamente queste sue
piccole bizze ebbero vita breve. Se fossero continuate o
peggiorate, il dizionario avrebbe perso uno dei suoi a-
mici più stretti e più preziosi.
Un mese più tardi una nuova ossessione lo prende:
Egregio dottor Orange,
permettetemi di menzionare un fatto che avvalora la
mia ipotesi. Negli Stati Uniti si sono verificati molti in­
cendi, scoppiati in modo del tutto inspiegabile nelle in­
tercapedini di soffitto e pavimento, tanto che, appren­
do proprio ora, le compagnie assicurative rifiutano di
assicurare i grandi edifici (opifici, fabbriche) che abbia­
no i consueti spazi vuoti sotto il pavimento. Pretendono
pavimenti massicci. Tutto ciò è noto da una decina
d’anni, ma nessuno ha ancora avanzato alcuna spiega­
zione.
O meglio, nessuno tranne il dottor Minor. Nelle inter­
capedini di pavimenti e soffitti strisciano degli esseri dia­
bolici, causando danni e commettendo crimini, non da
ultimo a Broadmoor, dove si nascondono ed escono fur­
tivi di notte per abusare del povero medico: gli segnano
i libri, gli rubano il flauto e lo sottopongono a crudeli
174
torture. L’ospedale, dice, deve far costruire dei pavimen­
ti massicci: altrimenti, niente assicurazione contro gli in­
cendi, e valanghe di malefatte notturne.
I rapporti quotidiani si susseguono in un flusso denso
e ininterrotto di follia. Quattro dolci rubati; il flauto
sparito; i libri tutti segnati; lui stesso costretto a marciare
lungo il corridoio dagli ausiliari James e Annett, che gli
tenevano le mani bloccate dietro la schiena e lo spinto­
navano. Una seconda chiave usata di notte per far entra­
re gente del villaggio nelle sue stanze perché abusasse di
lui e delle sue proprietà. Il dottor Minor, in camicia e
mutande, calze e ciabatte, che protestava perché aveva­
no incastrato dei pezzettini di legno nella serratura, per­
ché avevano usato l’elettricità sul suo corpo, perché dei
« figuri con intenti assassini » lo avevano colpito durante
la notte, lasciandogli un dolore atroce su tutto il lato si­
nistro del corpo. Delle canaglie erano entrate nella sua
stanza. L’ausiliario Coles era venuto alle sei di mattina e
aveva « usato il mio corpo »: « E un affare molto sporco »
aveva gridato Minor una mattina, stavolta soltanto in
mutande « che non si possa mai dormire senza che Coles
entri in questo modo ». E ancora: « Ha fatto di me un per­
vertito! ».
Eppure, con la follia venivano anche le parole. Molte
di quelle che lo affascinavano erano anglo-indiane, un
riflesso del suo paese natale: c’erano bhang, canapa india­
na, brinjal, melanzana, catamaran, catamarano, cholera,
colera, chunnam, calce, e cutcherry, ufficio amministrati­
vo. Gli piaceva brick-tea, tè in panetti. Verso la metà degli
anni Novanta era già molto attivo sulla lettera D e, oltre
a studiare parole indostane come dubash, interprete,
dubba, recipiente in pelle per l’olio, e dhobi, lavandaio, si
dedicava anche a quelli che venivano considerati i lem­
mi fondamentali del dizionario. Così negli archivi di
Oxford ci sono i suoi contributi di citazioni per parole
come delicately, delicatamente, directly, direttamente,
dirt, sporcizia o terra, disquiet, inquietare, drink, bere, du­
ty, dovere e dye, tinta. Molto spesso riusciva a fornire la
175
citazione che testimoniava l’uso più antico di una paro­
la, il che era sempre un’occasione da celebrare. Per l’u­
so della parola dirt nel significato di «terra», cita da
John Fryer, New Account ofEast Indies and Persia (Nuovo
resoconto sulle Indie Orientali e sulla Persia), pubblica­
to nel 1698. Per un significato di magnificence, magnifi­
cenza, per uno di model, modello, per reminiscence, ricor­
do, e per spalt, sciocco, anche la prima opera, quella di
Jacques du Boscq, forniva del materiale ideale.
A Oxford il personale che lavorava al dizionario aveva
notato soltanto una variazione leggera ma regolare, e
piuttosto strana, nel ritmo frenetico di Minor: in piena
estate di solito arrivavano meno pacchetti. Forse, ipotiz­
zavano ingenuamente, al dottor Minor piaceva passare
le giornate calde all’aperto, lontano dai suoi libri: una
spiegazione senz’altro ragionevole. Ma quando si avvici­
nava l’autunno, e le sere cominciavano a diventare più
buie, allora anche lui riprendeva a lavorare incessante­
mente, rispondendo a tutte le richieste, informandosi a
più riprese, con ansia, sui progressi del lavoro, e inon­
dando la squadra con pacchi di schede ancora più nu­
merose: addirittura con più citazioni di quante non ne
servissero.
« Sarebbe stato quasi preferibile che il dottor Minor si
fosse limitato ad annotare la metà dei riferimenti da lui
presentati, » scriveva Murray, ormai sommerso, a un altro
curatore « ma in effetti non si sa mai davvero quali parole
torneranno utili, finché non si arriva a trattarle dal punto
di vista lessicografico ».
Visto che il suo metodo era completamente diverso
da quello di tutti gli altri, è più difficile fare un confron­
to quantitativo, comparare i risultati numerici del suo
lavoro con quelli di altri grandi collaboratori. Forse alla
fine del progetto aveva effettivamente inviato non più di
diecimila schede, che sembra una cifra piuttosto mode­
sta. Ma poiché di fatto tutte quante si erano dimostrate
utili, e poiché ciascuna di esse era necessaria, ed era sta­
ta richiesta, il suo successo come collaboratore equivale­
nti
va e superava lo sforzo fatto da altri, che mandavano an­
che diecimila schede l’anno.
La squadra di Oxford gli era veramente grata. Nella
prefazione al primo volume completato, il volume I, A-
B, finito nel 1888 (nove anni interi dall’inizio del pro­
getto) , gli viene dedicata una riga. Avrebbe potuto esse­
re una pagina intera di stucchevoli ringraziamenti, tan­
to ne fu inorgoglito il collaboratore, non da ultimo per­
ché il caso volle che fosse tanto discreta da non offrire
alcun indizio sulla sua strana situazione. Diceva sempli­
cemente ed elegantemente: « Dott. W.C. Minor di Crow-
thorne».
Per quanto grata potesse essere, la squadra di Oxford
stava diventando, col passare del tempo, molto, molto
perplessa. E Murray era il più perplesso di tutti.
Chi era esattamente quest’uomo brillante, strano, esi­
gente?, si chiedevano l’un l’altro. Murray cercò, infrut­
tuosamente, di indagare. Crowthorne era a una sessan­
tina di chilometri da Oxford, un’ora con la Great West­
ern Railway che passava per Reading. Come era possi­
bile che Minor, un uomo tanto distinto ed energico, e
tanto vicino a loro, non si fosse mai fatto vedere? Come
poteva esistere un personaggio di tale competenza
lessicografica, con tanto tempo libero e tanta energia,
che viveva così vicino e che tuttavia non sembrava in al­
cun modo voler vedere il tempio al quale mandava mi­
gliaia di offerte? Dov’era la curiosità di quell’uomo? In
che cosa trovava piacere? Era forse in qualche modo
malato, disabile, spaventato? Poteva essere che si sentis­
se intimidito dalla compagnia di grandi uomini di Ox­
ford com’erano loro?
La risposta al mistero sempre più fitto giunse in mo­
do curioso. Venne recapitata al professor Murray da un
bibliotecario e intellettuale di passaggio, che si fermò
allo Scriptorium nel 1889 per parlare di questioni più
serie. Nel corso di una conversazione che spaziava in
lungo e in largo nell’intero spettro della lessicografia,
egli nominò casualmente il medico di Crowthorne.
177
Il buon James Murray era stato chiaramente molto
gentile con lui, sottolineò l’intellettuale. « Quanto siete
stato buono con il povero dottor Minor ».
Ci fu una pausa sbigottita, e i redattori e i segretari
dello Scriptorium che avevano casualmente sentito la
conversazione si fermarono di botto. Come un sol uo­
mo alzarono lo sguardo verso il punto dov’erano seduti
il direttore e il suo ospite.
« Il povero dottor Minor? » chiese Murray, perplesso
come tutti quelli che ora stavano a sentire attentamen­
te. « Che cosa intendete dire? ».

178
9
L’INCONTRO DI DUE MENTI

I Dénouement (denwman). [E dénouement,


dénoûment, formerly desnouement, f. dénouer,
desnouer, in OE desnoer to untie = Pr. denozar, It.
disnodare, a Romanie formation from L. dis- +
nodâre to knot, nodus knot.]
Unravelling; spec, the final unravelling of the
complications of a plot in a drama, novel, etc.; the
catastrophe; transf the final solution or issue of a
complication, difficulty, or mystery.

Secondo una moderna leggenda letteraria, viva anco­


ra oggi, il mistero più strano che avvolse la carriera di
William Chester Minor fu il seguente: perché mai non
partecipò alla cena in onore del grande dizionario, ce­
na alla quale era stato invitato e che si tenne a Oxford la
sera sfavillante di martedì 12 ottobre 1897?
Era il giubileo della regina Vittoria e tutti coloro che
erano collegati al progetto dell’OED avevano voglia di
festeggiare. Il dizionario, finalmente, stava andando be­
ne. L’incerto cammino dei primi anni ora stava accele­
rando il passo: il fascicolo Anta-Batteningera. stato pub­
blicato nel 1885, Battentlie-BozzomneX 1887, Bra-ByzenneX
1888. Un nuovo spirito di efficienza aleggiava sullo Scrip­
torium. E, a somma gloria, la regina Vittoria nel 1896 a-
veva «graziosamente acconsentito», come piaceva dire
alla corte, che il volume III appena completato (dove si
trattava per intero l’esasperante lettera C, che i lessico-
grafi avevano trovato insolitamente ricca di ambiguità e
di complessità, non da ultimo per le frequenti sovrappo­
sizioni con le lettere G, Ke S) fosse dedicato a lei.
Un’aura di maestosa stabilità aveva all’improvviso in­
vestito il dizionario. Ormai non c’erano più dubbi sul
fatto che infine sarebbe stato completato: infatti, ora
179
che era stato approvato dalla regina, chi mai ne avrebbe
tollerato la soppressione? Con questa felice consapevo­
lezza, e con la regina che aveva fatto la sua parte, Ox­
ford, in vena di festeggiamenti, decise di agire di conse­
guenza. James Murray meritava onori e ringraziamenti,
e chi meglio della sua università d’adozione era adatto a
conferirglieli?
Il nuovo vicerettore dell’università decise che si sa­
rebbe tenuta una grande cena in onore del professor
Murray, una cena coi fiocchi, o slap-up, per usare un’e­
spressione che il dizionario avrebbe riportato, citando­
ne l’occorrenza in un passo del 1823. Avrebbe avuto
luogo nell’enorme salone del Queen’s College, dove
per antica tradizione un accademico raduna gli ospiti
con lo squillo di una tromba d’argento, e avrebbe cele­
brato quella che il «Times» il giorno della cena procla­
mò «probabilmente la più grande impresa che un’uni­
versità, o forse anche una casa editrice, abbia intrapreso
dall’invenzione della stampa... Non sarà la minore del­
le glorie dell’università di Oxford l’aver portato a ter­
mine questo impegno ciclopico ». La serata sarebbe sta­
ta un evento memorabile a Oxford.
E lo fu davvero. Le lunghe tavolate erano decorate
splendidamente con fiori e con tutta la migliore argen­
teria e cristalleria di cui il Queen’s era riuscito a fare in­
cetta nelle sue cantine. Il menu era genuino e molto in­
glese: brodo di tartaruga, rombo in salsa d’aragosta, co­
scia di montone, pernici arrosto, Queen Mab pudding e
gelato di fragole. Ma, proprio come il dizionario, era
anch’esso insaporito, generosamente ma non troppo,
con gallicismi: « Animelle alla maniera di Villeroi, grena­
dines di vitello, ramequins». I vini erano abbondanti ed
eccellenti: uno sherry secco del 1858, un maraschino
dell’Adriatico del 1882, uno Château d’Yquem invec­
chiato e uno champagne Pfungst del 1889. Gli ospiti
portavano la cravatta bianca, la toga accademica, le me­
daglie. Durante i discorsi (e dopo il brindisi alla regina,
in cui venne debitamente ricordata la graziosità di Sua
180
Maestà e vennero orgogliosamente celebrati i suoi sei
decenni sul trono) fumarono sigari.
Senza dubbio fumarono a lungo e bene. Si tennero
ben quattordici discorsi: James Murray su tutta la storia
della creazione del dizionario, il presidente della Ox­
ford University Press sulla sua convinzione che il proget­
to fosse un grande dovere nei confronti della nazione, e
lo scandaloso Henry Furnivall, vivace e divertente come
sempre, sospeso temporaneamente il reclutamento per
le sue vogate delle formose amazzoni della locale sala da
tè ABC, parlò di quello che vedeva come una presa di
posizione molto crudele da parte di Oxford riguardo
all’ammissione delle donne.
Tra gli ospiti si potevano annoverare tutti i grandi no­
mi del mondo accademico: i curatori del dizionario, i
Delegati della casa editrice, i tipografi, parecchi mem­
bri della Philological Society e, non ultimi, alcuni dei
più assidui ed energici tra i lettori volontari.
C’erano il signor F.T. Elworthy di Wellington, la si­
gnorina J.E.A. Brown di Further Barton, vicino a Ciren­
cester, il reverendo W.E. Smith di Putney, Lord Alden-
ham (meglio conosciuto dagli amici del dizionario co­
me il signor H. Huck Gibbs), il signor Russell Martineau,
Monsieur FJ. Amours e, per l’ultima parte della D, le
signorine Edith e E. Perronet Thompson, entrambe di
Reigate. L’elenco era lungo: ma tanto altisonanti erano
i nomi e tanto palesemente imponenti le loro conquiste,
che i commensali, a questo punto già al porto e al co­
gnac, li ascoltarono in un silenzio che facilmente si pote­
va confondere con il rapimento.
A dire il vero, quella sera le osservazioni più spesso
ricorrenti riguardo ai volontari si riferirono a due uomi­
ni che avevano molto in comune: entrambi erano ame­
ricani, entrambi erano stati in India, entrambi erano
militari, entrambi erano pazzi e, sebbene entrambi fos­
sero stati invitati, nessuno dei due si era presentato alla
cena di Oxford.
Il primo era il professor Fitzedward Hall, che veniva
181
da Troy, New York. La sua era una storia bizzarra. Pro­
prio quando stava per entrare a Harvard, nel 1848, la
sua famiglia gli chiese di partire per Calcutta per rin­
tracciare un fratello vagabondo. Sopravvissuto al nau­
fragio della sua nave nel Golfo del Bengala, si diede allo
studio del sanscrito e ne divenne così esperto che gli
venne offerta la cattedra di sanscrito al Government
College di Varanasi, allora chiamata Benares, la città
più santa della valle del Gange. Combattè come fucilie­
re a fianco degli inglesi durante la rivolta dei sepoy, nel
1857; poi, nel 1860, lasciò l’india e divenne professore
di sanscrito al King’s College di Londra e bibliotecario
presso il ministero dell’india.
Ma poi, repentinamente, la sua vita fu travolta da una
crisi terribile. Nessuno sa con sicurezza il perché; si sa
soltanto che ebbe una disputa furiosa con un accademi­
co austriaco, come lui esperto di sanscrito, di nome
Theodor Goldstùcker. Fu una disputa di gravità tale (i
linguisti e i filologi erano famosi per la volubilità e per il
rancore che sapevano serbare in eterno) che portò Hall
a lasciare il ministero, a farsi sospendere sommariamen­
te dalla Philological Society e a lasciare Londra per un
piccolo villaggio nel Suffolk.
La gente diceva di lui che era un ubriacone, una spia
straniera, una persona irrimediabilmente immorale, un
accademico ciarlatano. A sua volta Hall accusava tutto il
popolo britannico di essersi messo contro di lui, di aver­
gli rovinato la vita, di aver fatto scappare sua moglie, e di
ostentare un « odio diabolico » per gli americani. Girò la
chiave nella serratura della sua casetta di Marlesford e,
tranne i viaggi occasionali a New York in piroscafo, fece
una vita da eremita quasi assoluto in quelle campagne.
E tuttavia ogni santo giorno scriveva ajames Murray a
Oxford: una corrispondenza che sarebbe durata per
vent’anni. I due non si incontrarono mai, ma nel corso
degli anni Hall, senza mai lagnarsi, compilò schede, ri­
spose a quesiti, offrì consigli e rimase l’alleato più fede­
le del dizionario nei giorni più neri. Non c’è di che me-
182
ravigliarsi se Murray scrisse nella grande prefazione: « Ri­
cordiamo soprattutto l’inestimabile apporto del profes­
sor Fitzedward Hall, le cui volontarie fatiche hanno com­
pletato la storia letteraria e documentaria di innumere­
voli parole, usi e modi di dire, e i cui contributi si posso­
no incontrare in ogni pagina».
Chi partecipava alla cena sapeva perché non era ve­
nuto: lo si conosceva come un eremita, un soggetto
difficile. Ma nessuno (o, quantomeno, così si è sempre
detto) sapeva esattamente perché l’uomo menzionato
accanto a lui nella celebre prefazione non si era presen­
tato. Murray era stato quasi altrettanto generoso nelle
sue lodi: «... anche gli instancabili servigi del dottor
W.C. Minor che, settimana dopo settimana, ha indicato
ulteriori ricorrenze dei lemmi al momento in prepara­
zione per la stampa». «Secondi solo ai contributi del
professor Fitzedward Hall » avrebbe scritto Murray poco
dopo « nel perfezionare la nostra rappresentazione del­
la storia letteraria di singole parole, espressioni e costru­
zioni, sono stati quelli del dottor W.C. Minor, ricevuti
ogni settimana ».
Ma dov’era, si chiedeva l’assemblea riunita, il dottor
Minor? Viveva a Crowthorne, a soli sessanta minuti sui
treni a vapore verde e oro della Great Western. Non ave­
va fama di essere un misantropo irascibile come il dot­
tor Hall. Le sue lettere erano sempre state apprezzate
per la loro garbata sollecitudine. E allora perché non a-
veva avuto la cortesia di venire? Ad alcuni di coloro che
cenavano al Queen’s in quella fulgida sera autunnale,
l’assenza di Minor dovette sembrare una melanconica
nota a margine in un momento letterario altrimenti glo­
rioso.
La versione comunemente accettata della storia vuo­
le che Murray fosse perplesso, persino vagamente irrita­
to. Si dice che giurasse, dall’alto di tutto il suo sapere
lessicografico, di voler seguire l’esempio offerto da
Francis Bacon, che nel 1624 aveva scritto in inglese l’as­
sioma ispirato alla raccolta di detti del Profeta conosciu­
ti
ti come hadith, secondo il quale « Se la montagna non va
a Maometto, Maometto andrà alla, montagna ».
Si dice che scrivesse subito al dottor Minor, e la sua
lettera sarà stata presumibilmente di questo tenore:
Voi e io ci conosciamo pervia epistolare da diciassette
anni compiuti, ed è triste il fatto che non ci siamo mai
incontrati. Forse non avete mai avuto l’opportunità di
viaggiare; forse era troppo costoso; ma nonostante sia
veramente difficile per me lasciare il lavoro dello Scrip­
torium anche per un solo giorno, desidero da lungo
tempo incontrarvi, e forse potrei suggerire di venire
personalmente a farvi visita. Se vi sembra opportuno,
potreste suggerire voi il giorno e il treno, e se sarà op­
portuno anche per me vi telegraferò l’ora prevista per il
mio arrivo.
Il dottor Minor presumibilmente rispose subito, di­
cendo che sarebbe stato senz’altro felicissimo di riceve­
re il direttore, rammaricandosi che circostanze fisiche
(non specificò oltre) gli avessero fino ad allora reso im­
possibile recarsi a Oxford, e proponendo numerosi tre­
ni fra quelli indicati nell’orario ferroviario. Murray scel­
se debitamente un mercoledì di novembre e un treno
che, cambiando a Reading, doveva arrivare alla stazione
del Wellington College poco dopo l’ora di pranzo.
Telegrafò i dettagli a Crowthome, tirò fuori il suo fede­
le triciclo Humber nero e, la barba bianca sventolante
sopra la spalla nella brezza fredda, scese lungo Banbury
Road, passò davanti al Randolph Hotel, all’Ashmolean
Museum e al Worcester College, e arrivò alla stazione di
Oxford, al binario da cui partivano i treni per Londra.
Il viaggio durò poco più di un’ora. Fu piacevolmente
sorpreso, aU’arrivo a Crowthome, di trovare ad atten­
derlo una carrozza con un cocchiere in livrea. La suppo­
sizione da tempo formulata che Minor fosse un uomo di
lettere con molto tempo libero trovò conferma: forse,
pensò tra sé e sé, era persino un uomo agiato.
Gli zoccoli dei cavalli risuonavano lungo i sentieri u-
184
midi di nebbia. Il magnifico edificio del Wellington Col­
lege si stagliava in lontananza, a una considerevole di­
stanza dal villaggio di Crowthorne, che non era altro
che un grappolo di umili casette, con mucchi di foglie
fumiganti sul retro. Era un bel posticino tranquillo, in
mezzo ai boschi, piuttosto raccolto.
Dopo un paio di chilometri il cocchiere diresse i ca­
valli in un viale fiancheggiato da pioppi che saliva verso
una collina lunga e bassa. Le casette si diradarono e ven­
nero sostituite da costruzioni in mattoni rossi dall’aspet­
to alquanto più severo. Poi i cavalli si fermarono di fron­
te a un imponente portone d’accesso, una coppia di tor­
ri con un grande orologio dal quadrante nero sopra i
battenti dipinti di verde che in quel momento venivano
aperti da un servitore. Il direttore era forse vagamente
emozionato: quella dovette sembrargli una grande resi­
denza di campagna nella quale veniva accolto con tutti
gli onori, come se fosse atteso per un sontuoso tè del
pomeriggio, o come qualcuno che arrivasse a Kedleston
per pranzare con Lord Curzon.1
James Murray si tolse il cappello e sbottonò la mantel­
lina del pastrano che l’aveva protetto dal freddo. Il servi­
tore non disse niente, lo accompagnò all’interno, lo in­
vitò a salire una scalinata di marmo e lo introdusse in u-
na grande stanza con il caminetto acceso e una parete
coperta di ritratti di personaggi dall’aspetto arcigno. C’e­
ra un’ampia scrivania presidenziale di mogano e, dietro,
un uomo imponente di chiara importanza. Il servitore si
ritirò e chiuse la porta.
Murray avanzò verso quell’uomo autorevole, che si
alzò. Il professore gli fece un rigido inchino e gli porse
la mano.
« Sono, signore, il professor James Murray della Phil­
ological Society di Londra, » disse con la sua voce fine-

1. George Nathaniel Curzon (1859-1925), primo marchese di Kedles­


ton, viceré dell’india e ministro degli Esteri britannico, era noto co­
me collezionista d’arte e d’antiquariato, ma anche per la sua aristo­
cratica altezzosità [N.d.T.J.

185
mente modulata, dall’accento scozzese « direttore edi­
toriale dell’ Oxford English Dictionary. E voi siete senza
dubbio il dottor William Minor. Finalmente. Sono pro­
fondamente onorato di incontrarvi ».
Ci fu una pausa. Poi l’altro rispose:
« Me ne rincresce, signore. Non posso arrogarmi que­
sto onore. Sono il sovrintendente del manicomio crimi­
nale di Broadmoor. Il dottor Minor è americano, ed è
uno dei nostri pazienti di più antica data. Ha commes­
so un omicidio. E gravemente malato di mente ».
Murray, continua la storia, rimase sbigottito, stupefat­
to, e tuttavia colmo di compassionevole interesse. « Chie­
se di essere condotto dal dottor Minor, e rincontro tra i
due uomini di cultura, che avevano corrisposto tanto a
lungo e che ora si incontravano in circostanze tanto stra­
ne, fu estremamente toccante ».

La storia di questo primo incontro, però, non è altro


che una romantica e piacevole invenzione. Fu creata da
un giornalista americano di nome Hayden Church, vis­
suto a Londra per quasi tutta la prima metà del Nove­
cento. Venne pubblicata per la prima volta in Inghilter­
ra sulla rivista « Strand» nel settembre del 1915, e poi
ancora, riveduta e ampliata, sullo stesso periodico sei
mesi più tardi.
In effetti Church l’aveva già sperimentata sul pubbli­
co americano, scrivendo anonimamente per il « Sunday
Star » di Washington nel luglio del 1915. Alla storia ven­
ne dato un risalto straordinario, con quei lunghissimi
titoli a effetto che purtroppo sono passati quasi del tutto
di moda.
OMICIDA AMERICANO AIUTA A SCRIVERE L’« OXFORD EN­
GLISH dictionary » diceva il primo titolo, prendendo
tutte le otto colonne della pagina, il misterioso colla­
boratore DI UN DIZIONARIO D’INGLESE SI È RIVELATO UN
RICCO MEDICO AMERICANO RECLUSO AL MANICOMIO CRI­
MINALE DI BROADMOOR PER UN OMICIDIO COMMESSO IN

187
UN MOMENTO DI SQUILIBRIO MENTALE. COME SIR JAMES
MURRAY, DIRETTORE EDITORIALE DEL DIZIONARIO, PAR­
TITO, COSÌ CREDEVA, PER FAR VISITA A UN DOTTO COLLEGA
A CASA SUA, SI TROVÒ AL MANICOMIO E UDÌ LA SUA STORIA
STRAORDINARIA, INIZIATA DURANTE LA GUERRA DI SECES­
SIONE, QUANDO IL NOSTRO PROTAGONISTA ERA UFFICIALE
MEDICO NELL’ESERCITO NORDISTA. UN COLLABORATORE
RICCO E ORA RESIDENTE IN AMERICA, DICE L’AMICO.
Questo titolo mozzafiato introduceva una storia che
lasciava ancor più sbalorditi, resa però alquanto ridicola
dalla riluttanza o dall’impossibilità da parte dell’autore
di nominare Minor. Ogni volta che è citato viene chia­
mato soltanto il dottor X, come per esempio: « E voi sie­
te senza dubbio il dottor X. Sono profondamente ono­
rato di incontrarvi ».
Ciononostante la storia funzionò bene con il pubblico
americano, al quale negli anni precedenti erano giunti
accenni e notizie frammentarie: l’arresto per omicidio a
Londra di uno dei loro ufficiali non era passato inosser­
vato all’epoca, la sua reclusione era oggetto di occasiona­
li rispolverate ogniqualvolta un nuovo corrispondente o
un nuovo diplomatico approdava nella capitale ingle­
se. Ma la rivelazione del suo lavoro per il dizionario era
nuova e, sotto questo aspetto, quello di Hayden Church
era stato uno scoop eccezionale, sia pure per quei tem­
pi. I telegrafi rilanciarono la storia, che venne pubbli­
cata sui giornali di tutto il mondo, persino a Tientsin,
in Cina.
Ma a Londra non funzionò altrettanto bene. Henry
Bradley, che a quel punto era subentrato a Murray come
direttore editoriale di quello che ormai era ufficialmente
conosciuto come l’Oxford English Dictionary, si risentì per
l’artìcolo pubblicato da « Strand » e scrisse una lettera
furibonda al « Daily Telegraph », in cui lamentava « pa­
recchie affermazioni inesatte rispetto alla realtà dei fat­
ti » e concludeva che « la storia del primo colloquio del
professor Murray con il dottor Minor è, per quanto ri­
guarda i suoi risvolti più romantici, pura invenzione ».
188
Hayden Church scrisse in tutta fretta un’animata ri­
sposta a Bradley, che il «Telegraph», sperando ovvia­
mente in uno scontro, pubblicò prontamente. Il testo
contiene vaghe confutazioni, ma cita soltanto « un con­
gruo numero di corrispondenti, alcuni dei quali molto
autorevoli » (nessuno dei quali viene però nominato)
che avevano confermato gli aspetti salienti della storia,
e protesta, seppur debolmente, di avere « fondate ragio­
ni per ritenere che il resoconto dell’incontro tra Minor
e Murray sia esatto ».
La parte più strana della replica di Church, comun­
que, è il suo enigmatico post scriptum. « Ho da poco avu­
to contatti con uno dei più illustri letterati inglesi, che...
ha evidenziato l’assenza, nel mio articolo, di quello che egli
personalmente considera l’avvenimento più sensazionale nella
storia dell ’americano ».1
Rigorosamente vero o meno, il resoconto che Hayden
Church aveva fornito di quel primo incontro risultò
semplicemente troppo bello per essere ignorato. Affa­
scinava tutta l’Inghilterra, diceva la gente. Distoglieva la
mente dalla prima guerra mondiale: il 1915, dopotutto,
era l’anno di Ypres, di Gallipoli, dell’affondamento del
Lusitania, e la gente era senza dubbio contenta di avere
una saga del genere come diversivo dalle lugubri realtà
dei combattimenti. « Nessuna storia d’amore o d’avven­
tura » diceva la « Pall Mall Gazette » « è pari a questa sto­
ria meravigliosa, una storia di somma cultura in una cel­
la dalle pareti imbottite ».
Di fatto, ogni successivo riferimento alla saga della
creazione del dizionario di Oxford riprende la storia di
Church più o meno alla lettera. Nella sua biografia del
nonno (1977), giustamente celebrata, K.M. Elisabeth
Murray ripete la versione presentata da Church senza
quasi metterla in discussione, come fa anche Jonathon
Green in un libro di carattere più generale sulla storia
della lessicografia pubblicato nel 1996. Solo Elizabeth

1. Corsivo dell’Autore \_N.d.T.].

189
Knowles, curatrice alla Oxford University Press, che si è
lasciata affascinare dalla storia all’inizio degli anni No­
vanta, ha un approccio più freddo e distaccato; tuttavia
è chiaramente perplessa per il fatto che non si riesca a
trovare un resoconto definitivo del primo incontro. La
patina prodotta da decenni di buon uso ha reso la leg­
genda piacevolmente credibile.
La verità, tuttavia, si rivela solo marginalmente meno
romantica. Affiora da una lettera che Murray scrisse nel
1902 a un illustre amico, il dottor Francis Brown di Bo­
ston, e che è stata rinvenuta in una cassa di legno nella
soffitta di uno dei pochissimi parenti di William Minor
ancora in vita, un uomo d’affari in pensione che vive a
Riverside, Connecticut. La lettera sembra essere l’origi­
nale integrale e completo, nonostante fosse logorante
abitudine di molti corrispondenti di allora preparare
una bella copia di tutta la posta in partenza e, nel farlo,
emendare ed elidere alcuni passi.

Il suo primo contatto con Minor, scrive Murray, av­


venne poco dopo l’inizio del suo lavoro al dizionario:
probabilmente nel 1880 o forse nel 1881. « Dimostrò di
essere un ottimo lettore, e scriveva spesso ». Come è già
stato detto, Murray pensava che fosse un medico in pen­
sione con molto tempo a disposizione:
Casualmente la mia attenzione venne richiamata dal
fatto che il suo indirizzo, « Broadmoor, Crowthome, Berk­
shire», fosse quello di un grande manicomio. Supposi
che (forse) egli fosse il responsabile medico di quell’isti­
tuto.
Ma la nostra corrispondenza era naturalmente limita­
ta al solo Dizionario e ai suoi materiali, e l’unico senti­
mento che provavo nei suoi confronti era di gratitudine
per il suo immenso aiuto, misto a un po’ di sorpresa per
i libri antichi, rari e costosi, ai quali evidentemente ave­
va accesso.
190
Tutto ciò continuò per anni, finché un giorno, tra il
1887 e il 1890, il defunto signor Justin Winsor, bibliote­
cario di Harvard, seduto a chiacchierare nel mio Scrip­
torium, tra le altre cose osservò: «Voi avete dato una
grande gioia agli americani parlando, nella vostra prefa­
zione, del povero dottor Minor. Il suo è un caso molto
triste ».
« Davvero? » dissi con stupore. « In che senso? ».
Il signor W. fu altrettanto stupito nello scoprire che in
tutti gli anni in cui avevo corrisposto con il dottor Minor
non avevo mai saputo né sospettato nulla sul suo conto; e
poi mi fece tremare d’emozione con la sua storia.
Il grande bibliotecario (poiché Justin Winsor rimane
una delle figure più alte di tutta la biblioteconomia a-
mericana dell’ottocento ed è, per di più, uno storico
straordinario) raccontò allora la storia che Murray poi
ripetè al suo amico di Boston. Alcuni dei fatti sono sba­
gliati, come spesso succede quando vengono riportati a
distanza di anni: Murray dice che Minor aveva studiato a
Harvard (mentre aveva studiato a Yale) e ripete la sto­
ria, probabilmente apocrifa, secondo cui era impazzito
per essere stato costretto ad assistere all’esecuzione di
due uomini condannati dalla Corte marziale. Prosegue
dicendo che la sparatoria avvenne sullo Strand (allora, a
differenza di oggi, una delle strade più alla moda di Lon­
dra) e non, invece, nei lugubri sobborghi del lungofiume
di Lambeth. Ma la vicenda è riferita essenzialmente in
modo corretto, dopodiché Murray riprende il proprio
racconto.
Fui naturalmente molto colpito dalla storia; ma poi­
ché il dottor Minor non aveva mai accennato minima­
mente a se stesso o alla sua situazione, tutto ciò che po­
tevo fare era scrivergli in modo ancora più gentile e ri­
spettoso di prima, così da non dare rilievo a questa mia
scoperta, che temevo avrebbe potuto apportare dei cam­
biamenti al nostro rapporto.
Qualche anno fa un cittadino americano che era pas-
191
sato da me mi disse che era stato in visita dal dottor Mi­
nor e aggiunse che lo aveva trovato piuttosto abbattuto
e depresso, esortandomi a fargli visita. Risposi che ero
riluttante, perché non avevo ragione di supporre che il
dottor Minor pensasse che io sapessi qualcosa di lui.
L’americano replicò: « E invece sì. Égli dà per sconta­
to che voi sappiate tutto di lui, e sarebbe un’immensa
gentilezza da parte vostra se andaste a trovarlo ».
Allora scrissi al dottor Minor per dirgli questo, e ag­
giunsi che il signor (non ricordo il nome), che recente­
mente era venuto a trovarmi, mi aveva detto che una vi­
sita da parte mia sarebbe stata gradita. Scrissi anche al
dottor Nicholson, l’allora direttore, che fu tanto cordia­
le da invitarmi e che, al mio arrivo, mi venne a prendere
alla stazione e mi portò a pranzo a casa sua insieme an­
che al dottor Minor, che, scoprii, era il beniamino dei
suoi figli.
Rimasi con il dottor Minor nella sua stanza o cella per
molte ore, prima e dopo pranzo, e lo trovai, per quanto
riuscii a capire, sano di mente tanto quanto me, un uo­
mo molto colto ed erudito, con notevoli propensioni
artistiche, e di fine formazione cristiana, del tutto rasse­
gnato al suo triste destino, addolorato solo per le limita­
zioni che esso imponeva alla sua possibilità di rendersi
utile.
Ho saputo (dal direttore, credo) che devolve sempre
una larga quota della sua rendita al sostentamento della
vedova dell’uomo la cui morte egli aveva tanto triste­
mente causato, e che ella gli fa visita regolarmente.
Il dottor Nicholson aveva un’alta opinione di lui, gli
concedeva molti privilegi e regolarmente accompagna­
va ospiti illustri nella sua stanza o cella, per vedere lui e i
suoi libri. Ma il suo successore, l’attuale direttore, si è
mostrato molto meno comprensivo.
L’incontro ebbe luogo nel gennaio del 1891: sei anni
prima della data preferita dai romantici che ripetono la
storia della cena in onore del dizionario. Murray aveva
192
scritto a Nicholson chiedendo l’autorizzazione, e nella
sua lettera possiamo quasi sentire l’infantile pregusta­
zione dell’incontro che gli faceva tremare le ginocchia:
Mi darà una grande soddisfazione fare la conoscenza
del dottor Minor, al quale il Dizionario deve così tanto,
come pure la vostra, che siete stato tanto gentile con lui.
Arriverò probabilmente con il treno che indicate voi
(quello delle 12 da Reading) ma non ho avuto il tempo
di controllare l’orario, o meglio di chiedere a mia mo­
glie di farlo; perché per tali faccende mi affido automa­
ticamente alle sue mani, e lei mi dice: « Il tuo treno par­
te a quell’ora, e tu prenderai quel treno, e io verrò allo
Scriptorium a dirti di prepararti cinque minuti prima ».
Ubbidisco con gratitudine e faccio il mio lavoro finché
non arrivano i « cinque minuti prima ».
E ora ampiamente palese che i due uomini si conob­
bero di persona e si incontrarono regolarmente per
quasi vent’anni da quella data. Quel primo pranzo die­
de inizio a un’amicizia lunga e salda, basata su un cauto
rispetto reciproco e, più in particolare, sull’amore ap­
passionato e vivamente condiviso per le parole.
Per entrambi, vedersi per la prima volta dovette esse­
re molto singolare, perché erano incredibilmente simili
d’aspetto. Entrambi erano alti, magri e calvi. Entrambi
avevano gli occhi azzurri, con le palpebre appesantite, e
nessuno dei due portava gli occhiali (sebbene Minor
fosse molto miope). Il naso del dottor Minor era un po’
adunco, quello di Murray più sottile e aquilino. Minor
aveva un’aria di paterna benevolenza; Murray pure, ma
con una traccia della severità che può ben distinguere
uno scozzese dei bassipiani da uno yankee del Connecti­
cut.
Ma il tratto che più di tutti accomunava i due uomini
era la barba: in entrambi i casi bianca, lunga e a due
punte, con folti baffi e basette. Entrambi assomigliava­
no alle illustrazioni popolari di Padre Tempo; i ragazzi­
193
ni a Oxford vedevano Murray passare sul suo triciclo e
lo chiamavano a gran voce: « Babbo Natale! ».
E vero, la barba del dottor Minor aveva un aspetto più
trascurato e arruffato, indubbiamente perché le possibi­
lità di radersi e lavarsi all’intemo di Broadmoor erano
meno sofisticate di quelle del mondo esterno. La barba
di Murray, invece, era bella, ben pettinata e insaponata,
e sembrava che mai una particella di cibo vi si fosse sof­
fermata per un solo momento. Quella di Minor era più
alla buona, quella di Murray più un dettame della mo­
da. Ma erano entrambe colture magnificamente fecon­
de. Quando anche la barba si sommò all’insieme delle
caratteristiche che ciascuno osservava nell’altro, entram­
bi avranno creduto per un momento di avvicinarsi a se
stessi riflessi in uno specchio, più che di incontrare un
estraneo.
I due uomini si videro per dozzine di volte nei molti
anni che seguirono. A detta di tutti si piacevano: una
simpatia soggetta solamente agli umori del dottor Mi­
nor, per i quali Murray sviluppò negli anni un fiuto per­
fetto. Spesso era tanto previdente da telegrafare a Nich­
olson per chiedere come stava il paziente; se era depres­
so e adirato, rimaneva a Oxford; se era depresso, ma forse
poteva essere risollevato, saliva sul treno.
Quando c’era brutto tempo i due uomini sedevano
insieme nella stanza di Minor, una piccola cella arreda­
ta funzionalmente, non troppo diversa dalla tipica stan­
za di uno studente di Oxford e del tutto simile all’allog­
gio che sarebbe stato assegnato a Murray al Balliol, una
volta nominato suo membro onorario. Era tappezzata
di librerie, tutte a giorno tranne una con le ante di ve­
tro, che conteneva le opere più rare del Cinquecento e
del Seicento, grazie alle quali si stava facendo molto del
lavoro per l’OED. Il fuoco scoppiettava allegramente.
Tè e fette di torta venivano serviti da un altro paziente
che Minor pagava perché lavorasse per lui: uno dei mol­
ti privilegi che Nicholson, come Orange prima di lui,
concedeva all’illustre internato.
194
Oltre a questa, Minor godeva di una quantità di altre
prerogative. Poteva ordinare libri a volontà da svariati
antiquari di Londra, New York e Boston. Poteva scrivere
lettere a chiunque volesse, senza censura. Poteva riceve­
re visite più o meno a piacere, e disse a Murray con un
certo orgoglio che Eliza Merrett, la vedova dell’uomo
che aveva ucciso, andava a trovarlo piuttosto spesso. Era
una donna non priva di fascino, disse, anche se si pensa­
va che, per consolarsi, bevesse troppo.
Era abbonato a varie riviste che lui e Murray si legge­
vano a vicenda: tra le sue preferite c’erano lo « Specta­
tor » e « Outlook », che gli veniva spedito dai suoi paren­
ti in Connecticut. Riceveva 1’« Athenaeum », come pure
«Notes & Queries», la raffinata ed ermetica pubblica­
zione oxfordiana che ancora oggi propone alla comuni­
tà letteraria mondiale enigmatici interrogativi riguardo
ai misteri insoluti del mondo dei libri. L’OED era solito
proporre qui i propri desiderata lessicali e, prima che
Murray iniziasse a frequentare Crowthorne, era questo
il mezzo principale di Minor per sapere con precisione
su quale parola stava lavorando la redazione.
Pur parlando soprattutto di parole (più spesso di una
parola specifica, ma talvolta di problemi lessicali più ge­
nerali riguardo al dialetto e alle sfumature nella pro­
nuncia), i due uomini, è certo, discussero in termini
generici anche della natura della malattia del dottore.
Murray non potè non notare, per esempio, che il pavi­
mento della cella era stato coperto con un foglio di zin­
co (« per impedire che chiunque possa entrare di notte
attraverso le tavole di legno ») e che Minor teneva sem­
pre una ciotola d’acqua accanto alla porta della stanza
in cui si trovava (« perché gli spiriti maligni non oseran­
no attraversare l’acqua per arrivare sino a me »).
Murray era anche a conoscenza della paura del medi­
co di essere trasportato fuori dalla stanza durante la not­
te e costretto a compiere « atti della più sfrenata enor­
mità» in «covi d’infamia», prima di essere ricondotto
alla sua cella verso l’alba. Quando inventarono gli aero-
195
plani (e Minor, essendo americano, si tenne appassio­
natamente aggiornato su tutto ciò che accadde negli
anni successivi al primo volo dei fratelli Wright a Kitty
Hawk), incluse anche quelli nelle sue fissazioni. E allora
degli uomini irrompevano nelle sue stanze, lo metteva­
no su una macchina volante e lo portavano nei bordelli
di Costantinopoli, dove veniva costretto a compiere atti
di terribile oscenità con donne di facili costumi e ragaz­
zine. Murray trasaliva sentendo questi racconti, ma si
mordeva la lingua. Non stava a lui considerare quell’uo­
mo anziano con un sentimento che non fosse di affetto
sconsolato, tanto più che il suo lavoro per il dizionario
continuava a passo spedito.
Quando c’era bel tempo i due uomini camminavano
insieme per il Terrace, l’ampio sentiero di ghiaia lungo
la cinta muraria meridionale del manicomio, ombreg­
giato da alti e vecchi abeti e da araucarie, gli alberi delle
scimmie. I prati erano verdi, il boschetto pieno di giun­
chiglie e tulipani, e ogni tanto altri pazienti facevano
capolino dai blocchi per giocare a pallone, o cammina­
re, o stare seduti a guardare nel vuoto su una delle pan­
chine di legno. Gli ausiliari si celavano nell’ombra, con­
trollando che non insorgessero problemi.
Murray e Minor, le mani dietro la schiena, cammina­
vano lentamente di pari passo, avanti e indietro lungo i
trecento metri del Terrace, sempre ombreggiato da u-
no dei desolati edifici rossi o dal muro alto più di cinque
metri. Sembravano costantemente animati, immersi nel­
la conversazione; esibivano carte, talvolta libri. Non par­
lavano con gli altri e davano l’impressione di abitare un
mondo tutto loro.
Talvolta il dottor Nicholson invitava i due a prendere
il tè; e in una o due occasioni anche Ada Murray andò
a Broadmoor e rimase con Nicholson e la sua famiglia
nella casa confortevole del sovrintendente, mentre i due
uomini meditavano sui loro libri nella cella o sul vialet­
to di ghiaia. C’era sempre molta tristezza quando per
Murray arrivava l’ora di andarsene: le chiavi giravano, i
196
portoni si richiudevano con fragore, e Minor si ritrova­
va solo, intrappolato in un mondo che lui stesso si era
creato, redento soltanto quando, dopo forse un giorno
di lutto silenzioso, prendeva un altro volume dagli scaf­
fali, selezionava la parola ricercata e il contesto più ele­
gante, prendeva la penna, e la intingeva nell’inchiostro
per scrivere ancora una volta: «Al professor Murray, Ox­
ford».

L’ufficio postale di Oxford conosceva bene quell’in­


dirizzo: era quanto bastava per comunicare per via epi­
stolare con il più grande lessicografo del paese ed esse­
re sicuri che le informazioni gli arrivassero allo Scrip­
torium.
Ben poche delle lettere che i due si scambiarono esi­
stono ancora. Ce n’è una piuttosto lunga del 1888, in cui
Minor scrive a proposito delle occorrenze della parola
chaloner, un termine obsoleto per indicare chi fabbricava
un particolare tessuto leggero di lana per fodere. E inte­
ressato, secondo un appunto successivo, alla parola gon­
dola, e trova una citazione da Spenser del 1590.
Murray parlava spesso del suo nuovo amico e gli pia­
ceva nominarlo (a dire il vero, anche con qualche vela­
to riferimento alla sua condizione) nei discorsi che era
spesso costretto a tenere. Ci restano, per esempio, al­
cuni suoi appunti del 1897 per un intervento nel corso
di una serata dedicata al dizionario alla Philological
Society: « Circa 15 o 16.000 schede suppl. ricev. l’anno
passato. Metà fornita dal dott. W.C. Minor, al cui nome
e alla cui penosa vicenda ho spesso alluso prima d’ora.
Il dott. M. ha in lettura 50 o 60 libri, per lo più rari, del
1500 e 1600. E sua abitudine tenersi sempre un passo
più avanti rispetto all’effettiva lavorazione del Dizio­
nario».
Due anni dopo Murray si sentiva ancor più prodigo di
elogi:

197
La posizione suprema ... è sicuramente occupata dal
dottor W.C. Minor di Broadmoor, che negli ultimi due
anni ha inviato non meno di 12.000 citazioni, quasi tut­
te riferite alle parole delle quali io e Bradley ci stavamo
occupando al momento, in quanto al dottor Minor pia­
ce sapere su quali parole lavoreremo presumibilmente
nel corso del mese, per dedicare tutte le sue forze alla
raccolta di citazioni di quelle stesse parole, e quindi sen­
tirsi partecipe della creazione del Dizionario.
Tanto enorme è stato il contributo del dottor Minor negli
scorsi diciassette o diciotto anni, che potremmo facilmente illu­
strare gli ultimi quattro secoli usando soltanto le sue citazioni.'
Ma questa profusione di energie nel lavoro stava ini­
ziando a dimostrarsi gravosa sia per il corpo sia per la
mente di Minor. Il suo benevolo amico, il dottor Nichol­
son, lasciò l’incarico nel 1895, ancora sofferente per l’ag­
gressione subita sei anni prima da parte di un paziente
che lo aveva colpito in testa con un mattone nascosto in
una calza. Venne sostituito dal dottor Brayn, un uomo
scelto (non solo per il nome, si spera)12 da un ministro
dell’interno che sentiva la necessità di instaurare un re­
gime più rigido nel manicomio.
Brayn era un vero caporale, un carceriere della vec­
chia scuola che si sarebbe trovato bene in una colonia
penale agricola in Tasmania o sull’isola di Norfolk. Ma
fece ciò che richiedeva il governo: durante la sua per­
manenza in carica non ci fu nessuna evasione (ce n’era-
no state diverse in passato, che avevano messo tutti in
allarme), e nel corso del primo anno vennero registrate
duecentomila ore di isolamento per gli internati più ri­
belli. Era temuto e odiato da tutti, anche dal professor
Murray, convinto che trattasse il dottor Minor senza un
briciolo di cuore.
E Minor continuava a lagnarsi: si lamentava per un

1. Corsivo dell’Autore [N.d. T.].


2. Brayn è molto simile per ortografia e pronuncia a brain, cervello
[N.d.T.].

198
buco nel tallone della calza, indubbiamente causato dal­
la scarpa di uno sconosciuto nella quale, di notte, era sta­
to costretto a infilare il piede (novembre 1896). E sospet­
tava che i suoi vini e i suoi liquori venissero adulterati (di­
cembre 1896).

Più tardi in quello stesso anno arrivò dagli Stati Uniti


una strana comunicazione: si informava in modo piut­
tosto laconico che due membri della famiglia di Minor
si erano da poco suicidati; la lettera proseguiva avver­
tendo il personale di Broadmoor di fare molta attenzio­
ne, nel caso in cui la follia che aveva colto il loro pazien­
te risultasse avere carattere ereditario. Ma sebbene il
personale lo ritenesse un potenziale suicida, Minor non
venne sottoposto, in seguito alla comunicazione dall’A­
merica, a nessuna restrizione.
Anni addietro aveva chiesto un temperino con cui ta­
gliare le pagine intonse di alcune prime edizioni dei li­
bri che ordinava: non risulta che gli venisse chiesto di
restituirlo, nemmeno sotto la direzione del severo dot­
tor Brayn. A nessun altro paziente era consentito tenere
un coltello ma, con le due celle, le bottiglie, i libri e il ca­
meriere a mezzo servizio, a Broadmoor William Minor
sembrava appartenere a una categoria a sé.
Stando ai documenti, negli anni successivi alla sco­
perta della morte dei suoi parenti Minor aveva comin­
ciato a fare delle passeggiate sul Terrace con qualsiasi
tempo, e si era adirato con chi aveva cercato di persua­
derlo a rientrare durante una bufera di neve particolar­
mente violenta, ribadendo con i suoi modi imperiosi
che se desiderava prendere freddo era affar suo. Aveva
più libertà di scelta e di movimento di qualunque altro
paziente.
Non che questo migliorasse di molto il suo carattere.
Nel 1899 alcuni suoi ex commilitoni americani capitaro­
no a Londra, e chiesero tutti di poter passare da Broad­
moor. Ma il vecchio ufficiale rifiutò di vederli, dicendo
199
che non si ricordava di loro e che comunque non voleva
essere disturbato. Presentò un’istanza formale per po­
ter uscire in libertà vigilata «nelle aree viciniori»: l’e­
spressione da lui usata era piuttosto rara e significava
essenzialmente « nelle vicinanze ».
L’eleganza del suo linguaggio non convinse nessuno,
però, e la petizione venne seccamente respinta. « È tutto­
ra malato di mente, e non mi reputo nella condizione di
proporre che la sua richiesta venga accolta» scrisse il so­
vrintendente al ministro dell’interno. (O meglio, si do­
vrebbe dire che gli dattiloscrisse: questo è il primo docu­
mento del fascicolo di Minor redatto con una macchina
per scrivere, segno che, mentre il paziente rimaneva in
una misera condizione di immobilità, il mondo esterno
intorno a lui cambiava sin troppo rapidamente). Il mini­
stro dell’Intemo respinse diligentemente la supplica; sul
modulo c’è un tetro appunto siglato dallo spietato dottor
Brayn: «Paziente informato, 12.12.99. RB».
Il foglio relativo alla sua dieta rivela che mangiava in
modo irregolare: molto porridge, budino di sagù, cre­
ma pasticcera ogni martedì, ma pancetta affumicata e
altra carne solo saltuariamente. A quanto pare diventa­
va sempre più infelice, turbato, svogliato. « Sembra in­
quieto » è uno dei temi costanti nei rapporti degli ausi­
liari. Una visita di Murray nell’estate del 1901 lo ralle­
grò, ma ben presto il personale che lavorava al diziona­
rio iniziò a notare un cambiamento sconfortante nel
loro volontario più resistente e appassionato.
« Noto che non ha mandato alcuna citazione sulla let­
tera Q» scriveva Murray a un amico.
Ma è molto negligente ormai da mesi, e non ricevo
quasi più sue notizie. In estate è solitamente meno di­
sponibile perché trascorre molto più tempo all’aperto,
in giardino o nel parco. Quest’anno però è peggio del
solito, e già da qualche tempo sento che dovrò prender­
mi un giorno per andare ancora a fargli visita e cercare
di riaccendere il suo interesse.
200
Nella sua condizione triste e solitaria egli ha bisogno
di molte cure, incoraggiamenti e lusinghe, e di quando
in quando devo andare a trovarlo.
Un mese dopo le cose non erano affatto migliorate.
Murray scrisse ancora di lui: a questo punto si diceva già
che Minor « si inalberava » e « rifiutava » di fare il lavoro
richiesto. Aveva scritto qualcosa sull’origine della paro­
la hump, gobba, ma a parte questo, e in coincidenza con
la morte della regina Vittoria, era caduto in un cupo si­
lenzio.
Un altro vecchio amico dell’esercito, che scriveva da
Northwich, nel Cheshire, nel marzo del 1902, chiese al
sovrintendente Brayn se gli era consentito far visita a
Minor, raccontandogli con un po’ di preoccupazione
che Minor stesso gli aveva scritto di non farlo, dal mo­
mento che le cose erano molto cambiate, e lui avrebbe
potuto trovarle sgradevoli. «Vi prego di darmi il vostro
consiglio » aggiunse lo scrivente. « Non desidero espor­
re mia moglie ad alcunché di spiacevole ».
Brayn confermò: « Non credo che sia opportuno per
voi fargli visita ... non ci sono indizi di pericolo imme­
diato, ma gli anni si stanno facendo sentire ... la sua vita
è precaria».
Fu all’incirca in questo periodo che cominciò a farsi
strada l’idea che sarebbe stato meglio concedere al dot­
tor Minor il permesso di tornare negli Stati Uniti per
trascorrere gli anni del declino (perché veramente sem­
brava in declino) vicino alla sua famiglia.

Minor era a Broadmoor ormai da trent’anni: la sua


era sicuramente la degenza più lunga. Il suo unico con­
forto erano i libri. La tristezza lo aveva pervaso. Gli man­
cava il comprensivo dottor Nicholson ed era perplesso
di fronte al regime più brutale del dottor Brayn. Il suo
unico compagno sul piano intellettuale tra i pazienti del
blocco 2, lo strano artista Richard Dadd, mandato al ma­
201
nicomio per aver ucciso il padre a coltellate, era morto
ormai da molto tempo. La matrigna, Judith, che Minor
aveva visto brevemente nel 1884 durante il suo viaggio
di ritorno da Ceylon, era morta a New Haven nel 1900.
L’età stava rapidamente falciando tutti coloro che era­
no più vicini al povero vecchio pazzo.
Persino il vecchio Fitzedward Hall era morto, nel
1901, un avvenimento che aveva spinto Minor a spedire
prontamente a Murray una lettera di profondo ed eter­
no cordoglio. Unitamente alle condoglianze, una ri­
chiesta: poteva il direttore accludere altre schede per la
lettera K e per la O? La notizia della dipartita del suo
connazionale sembrava aver riacceso un poco l’interes­
se di Minor per il lavoro. Ma solo un poco. Ormai era
completamente solo, di salute sempre più cagionevole,
innocuo a tutti tranne che a se stesso. Aveva sessantotto
anni, e li dimostrava tutti. La realtà dei fatti stava comin­
ciando a gravare su di lui.
Il dottor Francis Brown, l’illustre medico di Boston al
quale Murray aveva scritto un resoconto completo su
Minor e sul loro primo incontro, pensò che forse poteva
intervenire. Dopo aver sentito Murray aveva scritto al
ministero della Difesa a Washington, all’ambasciata a-
mericana a Londra e infine, in marzo, al dottor Brayn,
suggerendo di richiedere ufficialmente al ministero del-
l’Intemo, all’insaputa di Minor, che egli venisse affidato
alla custodia della sua famiglia e rimandato negli Stati
Uniti. « I familiari sarebbero felici se potesse trascorrere
i suoi ultimi giorni nella sua terra e più vicino a loro ».
Ma lo spietato Brayn non inoltrò la proposta al mini­
stero dell’interno, e né l’ambasciata né l’esercito degli
Stati Uniti si vollero immischiare. Il vecchio doveva re­
stare dov’era, incoraggiato solo dalla saltuaria corri­
spondenza con Oxford, ma sempre più abbattuto, iroso
e triste.
Era chiaro che la situazione stava per precipitare, e
infatti precipitò. L’avvenimento che nelle parole altiso-
202
nanti di Hayden Church era il « più sensazionale nella
storia dell’americano » si verificò all’improvviso, senza
che nessuno badasse ai campanelli d’allarme, una fred­
da mattina all’inizio di dicembre del 1902.

203
10
IL TAGLIO PIÙ CRUDELE

Masturbate (mæstoibe't), v. [f. L. masturbât-,


ppi. stem of masturbari, of obscure origin: accord­
ing to Brugmann for *mastiturbârï f. *mazdo-
(cf. Gr. pé&a pl.) virile member + turba distur­
bance. An old conjecture regarded the word as f.
manu-s hand + stuprare to defile; hence the
etymologizing forms Manustupration, Mas­
turbate, -ATiON, used by some Eng. writers.]
intr. and refl. To practise self-abuse.

«Alle 10.55 il dottor Minor si è presentato alla porta


del piano di sotto, che era chiusa a chiave, e ha gridato:
“Fareste bene a chiamare subito il responsabile medico!
Mi sono ferito! ” ».
Queste parole formano le prime righe di un breve ap­
punto a matita mescolato anonimamente tra le dozzine
di altre carte che definiscono i particolari insignificanti
della vita del paziente numero 742 di Broadmoor. I rap­
porti sugli aspetti più banali dell’esistenza ormai quasi
completamente solitaria di William Minor (la dieta, il nu­
mero delle visite in costante diminuzione, la crescente
fragilità, i momenti di scontrosità, le folli elucubrazioni)
sono solitamente scritti a penna, con calligrafìa ferma e
sicura. Ma quest’unica pagina, datata 3 dicembre 1902, è
tutta diversa. Il fatto che sia scritta con un grosso tratto a
matita la distingue dalle altre, ma la distingue anche la
grafia: sembra scarabocchiata in fretta, di corsa, da un
uomo senza fiato, in preda al panico, sotto shock.
L’autore era l’ausiliario capo del blocco 2, un certo
Coleman. Aveva un’ottima ragione per essere sgomento:
Ho mandato l’ausiliario Harfield a chiamare il respon­
sabile medico e sono andato a vedere se potevo aiutare il
205
dottor Minor. Allora lui mi ha detto che si era tagliato il
pene. Ha detto che lo aveva stretto con una cordicella,
per fermare il sangue. Ho visto quello che aveva fatto.
Poi l’hanno visto il dottor Baker e il dottor Noott e
l’hanno fatto trasferire neH’infermeria B-3 alle 11.30.
Aveva fatto la sua passeggiata prima di colazione come
al solito. Poi aveva fatto colazione. Gli avevo parlato alle
9.50 nel reparto 3, e sembrava assolutamente normale.
In realtà non era affatto «assolutamente normale»,
per quel che può significare un’espressione simile nel
quadro della sua avanzata paranoia. A meno che la sua
automutilazione non fosse la reazione straordinaria a un
avvenimento altrettanto straordinario, il che è plausibile
sebbene non ci siano prove, sembra davvero che William
Minor la stesse preparando da diversi giorni, se non da
mesi. Tagliarsi il pene era, a suo giudizio, un atto necessa­
rio e di redenzione: era successo probabilmente in conse­
guenza di un profondo risveglio religioso che i suoi medi­
ci ritenevano fosse iniziato due anni prima, ossia alla fine
del secolo, trent’anni dopo la sua condanna.
Minor era figlio di missionari ed era stato educato,
almeno in teoria, nella fede cristiana congregazionali-
sta. Ma a Yale si era allontanato molto dalla religione e,
quando era entrato nell’esercito dell’Unione, forse di­
silluso dalle esperienze sul campo di battaglia o sempli­
cemente disinteressato alla religione codificata, a quan­
to pare aveva abbandonato del tutto ogni credo, e accet­
tava di definirsi, senza vergogna, ateo.
Per un certo periodo fu assiduo lettore di T.H. Huxley,
il grande biologo e filosofo vittoriano che coniò il termi­
ne « agnostico ». I suoi sentimenti erano ancora più nega­
tivi: dìd momento che le leggi della natura potevano spie­
gare in modo del tutto esauriente ogni fenomeno natura­
le, scriveva, non riusciva a vedere la necessità logica del­
l’esistenza di un dio.
Tuttavia, negli anni trascorsi al manicomio questi
sentimenti di ostilità iniziarono lentamente a placarsi.
206
Intorno al 1898 la sua assoluta certezza riguardo alla
non esistenza di Dio aveva già iniziato a vacillare, forse
in parte a causa delle forti convinzioni cristiane del suo
assiduo visitatore, James Murray, oggetto di un’ammira­
zione intensa e duratura da parte di Minor. Murray pro­
babilmente discusse con Minor dell’eventuale conforto
che avrebbe potuto ricevere riconoscendo e accettando
una divinità superiore: involontariamente potrebbe a-
ver acceso la miccia di quello che si sarebbe rivelato un
fervore religioso sempre più intenso.
Entro la fine del secolo Minor era cambiato: iniziò a
dire a chi andava a fargli visita, e ne informò formal­
mente il sovrintendente di Broadmoor, che ora si consi­
derava un deista, accettava cioè l’esistenza di un dio ma
non si riconosceva in nessuna religione in particolare.
Fu un passo importante e tuttavia, a suo modo, tragico.
Perché, parallelamente alle sue nuove convinzioni, Mi­
nor cominciò a giudicare se stesso in base ai severi para­
metri di quella che riteneva una divinità onnipotente,
onniveggente ed eternamente vendicativa. All’improwi-
so smise di pensare alla sua malattia mentale come a una
forma curabile di tristezza e cominciò invece a ritenerla
(almeno per alcuni aspetti) un’afflizione intollerabile,
una condizione di peccato che richiedeva espiazione e
penitenza costanti. Iniziò a considerare se stesso non co­
me una creatura sofferente, ma come un individuo indi­
cibilmente abietto, segnato da abitudini e tendenze or­
rende. Si masturbava in modo incontrollabile e ossessivo,
e Dio l’avrebbe punito senza indugio in modo spavento­
so, se non fosse riuscito a bloccare questa sua assoluta di­
pendenza dalla masturbazione.
Cominciò a provare ripugnanza per i propri prodi­
giosi appetiti sessuali, e a essere perseguitato dai ricordi
(o da fantasie e ricordi immaginari) delle sue trascorse
conquiste. Iniziò ad aborrire il modo in cui il suo corpo
reagiva, il modo in cui Dio lo aveva tanto inopportuna­
mente e ingiustamente dotato. Come riferisce la sua
cartella clinica:

207
Era convinto che tutto il suo essere fosse stato com­
pletamente saturato dalla lascivia di oltre vent’anni, du­
rante i quali, notte dopo notte, aveva avuto rapporti con
migliaia di donne nude. Le sue dissipazioni notturne
non avevano avuto conseguenze percettibili sulla sua
forza fisica, ma il suo organo era aumentato di dimen­
sioni per effetto dell’uso costante, il costante priapismo
lo aveva fatto sviluppare enormemente. Ricordava una
francese che al vederlo aveva esclamato: « Bien fait!»’,
un’altra donna lo aveva chiamato «apostolo del piace­
re »; niente al mondo gli dava piacere quanto le avventu­
re e le fantasie sessuali.
Ma quando è tornato alla fede cristiana ha capito di
doversi distaccare dalla vita lasciva che aveva condotto
sino ad allora, e ha deciso che l’amputazione del pene
avrebbe risolto il problema.
L’asportazione chirurgica del pene è nel migliore dei
casi un’operazione pericolosa, raramente eseguita anche
dai medici: l’attacco del famoso pesciolino brasiliano co­
nosciuto con il nome di candirù, che ama risalire il rivolo
dell’urina dell’uomo e fermarsi nell’uretra, ed è dotato
di un anello di spine retrorse che ne impediscono la ri­
mozione, è una delle rarissime circostanze in cui un me­
dico esegue questa operazione, definibile come penecto-
mia. Deve essere coraggioso, temerario e disperato l’uo­
mo che vorrà eseguire un’autopenectomia asportando il
proprio organo, tanto più se l’operazione viene fatta in
ambiente non sterile e con un temperino.
Tra i suoi molti privilegi, come abbiamo visto, il dot­
tor Minor, diversamente da ogni altro paziente di Broad­
moor, aveva avuto dal sovrintendente il permesso di te­
nere un temperino. Da molto tempo ormai aveva cessa­
to di essergli utile: poche erano le occasioni in cui dove­
va tagliare le pagine intonse di una prima edizione, che
era il motivo per cui inizialmente lo aveva richiesto. Ora
lo teneva in tasca, come farebbe una qualsiasi persona
normale nel mondo esterno. Tranne il fatto che Minor
208
non era in alcun modo normale; e in quel momento il
bisogno di avere un coltello nasceva per lui da un moti­
vo insolito e impellente.
Era disperatamente sicuro che fosse il suo pene ad a-
verlo indotto a compiere tutti gli atti disgustosi che ave­
vano dominato la sua vita. I suoi continui appetiti sessua­
li, se non avevano origine nel pene, ne venivano quanto­
meno appagati. Nel mondo delle sue fissazioni sentiva
di non avere alternativa se non asportarlo. Era un medi­
co, naturalmente, e quindi più o meno sapeva quello
che stava facendo.
E così, quel mercoledì mattina affilò il coltello su una
pietra abrasiva. Strinse una sottile cordicella alla base
del membro, in modo che facesse da legatura e chiudes­
se i vasi sanguigni; aspettò per una decina di minuti che
il lume delle vene e delle arterie si rimarginasse bene e
poi, con un unico gesto fulmineo che molti preferireb­
bero non immaginare, tagliò di netto il pene a qualche
centimetro dalla base.
Gettò nel fuoco l’oggetto del peccato. Allentò la cor­
dicella e vide che, come aveva previsto, non c’era quasi
traccia di sangue. Restò per qualche tempo sdraiato,
per assicurarsi che non ci fossero emorragie; poi, quasi
come se niente fosse, scese al piano terra del blocco 2 e
dalla porta chiamò l’ausiliario. La sua esperienza gli in­
segnava che a questo punto sarebbe probabilmente so­
praggiunto lo shock, e riteneva di dover essere ricovera­
to nell’infermeria del manicomio, come infatti ordina­
rono gli sbalorditi medici di Broadmoor.
Vi rimase per quasi un mese; ma nel giro di pochi
giorni già esibiva il suo vecchio carattere litigioso e si la­
mentava per il rumore che facevano gli operai, anche se
il giorno che aveva scelto per lamentarsi era una dome­
nica, quando gli operai erano tutti a casa.
Il pene guarì gradualmente, lasciando un piccolo
moncone che permetteva a Minor di urinare, ma che,
con sua probabile soddisfazione, risultò essere del tutto
inutile come organo sessuale. Il problema era risolto: la
209
divinità sarebbe stata soddisfatta, non ci sarebbero più
stati sollazzi di quella natura. Nel suo rapporto, il medi­
co si professò sbigottito all’idea che qualcuno avesse a-
vuto tanto sangue freddo da operare su se stesso una
mutilazione così straordinaria.

Rimane un’altra possibile ragione per cui Minor a-


vrebbe potuto compiere un gesto tanto inusitato: una
ragione che alcuni stenteranno a comprendere. Potreb­
be essersi amputato il pene per il senso di colpa e il di­
sgusto verso se stesso causati dall’aver avuto qualche ti­
po di rapporto o di pensiero lascivo nei confronti della
vedova dell’uomo che aveva ucciso.
All’inizio degli anni Ottanta Eliza Merrett, si ricor­
derà, andava a trovare Minor in manicomio a intervalli
regolari. Era solita portargli libri e di tanto in tanto
qualche regalo; lui e la sua matrigna le avevano dato
del denaro come risarcimento per la perdita del mari­
to; lei aveva affermato, pubblicamente, di avergli per­
donato l’omicidio; era disposta a credere, in uno slan­
cio di comprensione, che avesse commesso il crimine
in un momento in cui non era in grado di distinguere
il bene dal male. Non è forse possibile che, in un mo­
mento di reciproca consolazione, fosse successo qual­
cosa tra queste due persone quasi coetanee e, per mol­
ti versi, entrambe in condizioni di ristrettezza? E non
può essere che un giorno il ricordo dell’accaduto ab­
bia infine precipitato il sensibile e riflessivo dottor Mi­
nor in una depressione profonda e pervasa dai sensi di
colpa?
Nessun indizio fa pensare che gli incontri tra Minor
ed Eliza Merrett fossero meno che decorosi, formali e
casti; e così furono sempre, è probabile, e ogni residuo
senso di colpa può aver avuto origine dal genere di fan­
tasie di cui, secondo le cartelle cliniche, Minor era pre­
da. Ma si deve ammettere che resta una possibilità (non
una probabilità, sicuramente) che sia stato il senso di
210
colpa per un atto specifico, più che un tardivo fervore
religioso, a provocare quel gesto orrendo.

Fu esattamente un anno dopo che si riaprì la questio­


ne del trasferimento del dottor Minor negli Stati Uniti.
Questa volta fu suo fratello Alfred, che gestiva ancora
Temporio di ceramiche a New Haven, a suggerirlo al
sovrintendente in una lettera privata che Minor non
vide mai. E questa volta, e fu la prima, il dottor Brayn,
solitamente scostante, diede adito alle speranze: « Se si
prenderanno provvedimenti affinché possa essere cura­
to e seguito in modo adeguato, e se il governo america­
no acconsentirà al suo trasferimento, ritengo del tutto
plausibile che la proposta possa essere considerata con
favore».
Passò un altro anno e gli fece visita James Murray, di
ritorno da Londra, dove studiava sua figlia. Disse a
Brayn che Minor era suo amico e aggiunse che era an­
gosciato per la fragilità del suo aspetto, e perché la luce
e l’energia che l’avevano contraddistinto nei giorni in
cui era preso dal lavoro al dizionario, nei dieci anni pas­
sati, sembravano ora averlo abbandonato. Murray era
sempre più convinto che al vecchio gentiluomo dovesse
essere concesso di andare a morire a casa sua. In Inghil­
terra non aveva nessuno e niente da fare, nessuna ragio­
ne per vivere. La sua esistenza era solo una lunga trage­
dia, un lento morire che andava in scena davanti agli
occhi di tutti.
William Minor ricambiò il piacere della visita in una
maniera insolitamente personale: con una piccola som­
ma di denaro. James Murray stava partendo per la Colo­
nia del Capo (nell’attuale Sudafrica) dove avrebbe te­
nuto una conferenza, e Minor era venuto a sapere che
questo viaggio avrebbe dato fondo alle sue finanze (no­
nostante i Delegati della Oxford University Press, solita­
mente parsimoniosi, gli avessero dato cento sterline).
Quindi Minor decise di fare anche lui la sua parte e fe­
211
ce emettere un vaglia postale di qualche sterlina, che
spedì con una breve lettera stranamente affettuosa, co­
me quella che un vecchio potrebbe scrivere a un altro:
Vi prego di perdonarmi per la libertà che mi prendo
nell’accludere un vaglia a voi intestato, che penso possa
contribuire in piccola parte a far fronte a pressioni inat­
tese sui vostri mezzi.
Persino un milionario può sentirsi soddisfatto, pur es­
sendo repubblicano, alla scoperta di possedere una so­
vrana in più di quanto pensasse e anche noi, uomini me­
no fortunati, abbiamo diritto a una simile soddisfazione,
quando se ne presenta l’occasione.
Costruire una casa e fare un viaggio sono cose molto
simili tra loro, perché costano sempre più di quanto si
era previsto; e in ogni caso sono sicuro che ne farete
buon uso.
Ora Seduto entrambi, con i migliori auguri di prospe­
rità, e senza ristrettezze, per di più.
Dio sia con voi,
W.C. Minor
E nelle settimane e nei mesi seguenti, l’uomo infer­
mo di mente diventò gradualmente un uomo malfermo
di salute. Cadde nella vasca da bagno; si fece male a una
gamba; inciampò e si stirò i tendini ormai coriacei e i
muscoli appesantiti; restò vittima dei rigori invernali e si
prese un’infreddatura. Tutti i disturbi accidentali dell’e­
tà si sommavano alla sua follia, ciascuno un Pelio so­
vrapposto all’Ossa, finché William Minor fu soltanto un
povero vecchio, non temuto da nessuno, compatito da
tutti.
Poi si ebbe un esempio patetico di una sua follia se­
condaria. Pur non essendo più un gran lessicografo né
un gran flautista, il dottor Minor restava ancora un
buon pittore e passava molte ore in camera sua lavoran­
do al cavalletto. Un giorno, per capriccio, decise di
mandare una delle sue opere migliori alla principessa
del Galles (Mary di Teck, la futura regina Maria), la gio­
212
vane sposa dell’uomo che sarebbe presto diventato re
Giorgio V.
Ma il dottor Brayn disse di no. Applicando crudel­
mente e prevedibilmente la regola secondo la quale
nessuno degli internati a Broadmoor poteva comunica­
re con i membri della famiglia reale (regola stabilita per
il fatto che molti squilibrati credevano di essere membri
della famiglia reale), disse a Minor che non poteva man­
dare il quadro. Il dottore, furioso e querulo, allora si
appellò formalmente, costringendo Brayn a inviare il
dipinto e la richiesta al ministero dell’Intemo, il cui mi­
nistro aveva l’ultima parola. Il ministero, com’era logico
aspettarsi, appoggiò Brayn, e Brayn scrisse di nuovo a
Minor respingendo la richiesta.
Minor andò in collera e scrisse una lettera furiosa e a
malapena leggibile all’ambasciatore americano, chie­
dendogli di sfruttare il suo peso diplomatico per inol­
trare il pacco a Buckingham Palace. Il pacco non venne
mai spedito: Brayn ribadì che non l’avrebbe permesso.
E così Minor mandò un’altra lettera al capo di Stato
Maggiore dell’esercito americano a Washington, la­
mentando il fatto che proprio a lui, un ufficiale di quel­
l’esercito, veniva impedito con la forza di comunicare
con la sua ambasciata.
Per un lungo mese estivo, la saga tenne impegnata una
schiera di funzionari e viceconsoli e capi del protocollo e
assistenti, fino ai livelli gerarchici superiori, con tutti che
bisticciavano e si chiedevano se l’acquerello indubbia­
mente delizioso di quel vecchio inoffensivo sarebbe mai
arrivato nelle mani della principessa del Galles.
Ma non ci arrivò mai. Venne negato il permesso a de­
stra e a manca, e l’episodio ebbe un triste epilogo: quan­
do il dottor Minor si ritirò sconsolato nel suo blocco e
chiese piagnucolando che gli fosse restituito il dipinto,
venne informato con fredda alterigia che era andato
perduto. La lettera in cui chiedeva la restituzione del
quadro è scritta con mano malferma e tremante, la ma­
no di un uomo anziano, in parte malato di mente, in
213
parte affetto da demenza senile, e fu del tutto inutile. Il
dipinto non fu mai recuperato.
E ci furono altri sviluppi scoraggianti. All’inizio di
marzo del 1910 Brayn, che la storia non giudicherà con
indulgenza nel caso specifico del dottor Minor, ordinò
che venissero eliminati tutti i privilegi del vecchio. Mi­
nor ebbe solo un giorno di preavviso per lasciare la cella
di due stanze che occupava da quasi trentotto anni, per
separarsi dai suoi libri, per mettere da parte la scrivania,
gli album per gli schizzi e i flauti, e trasferirsi nell’infer-
meria del manicomio. Fu un oltraggio crudele compiu­
to da un uomo vendicativo, molto probabilmente gelo­
so della fama dell’uomo affidato alle sue cure, e su di lui
piovvero lettere furibonde dai pochi amici rimasti che
avevano saputo la notizia.
Persino Ada Murray (ora Lady Murray, dal momen­
to che James era stato nominato cavaliere nel 1908, su
proposta del riconoscente primo ministro Herbert As­
quith) protestò aspramente a nome del marito per il
trattamento crudele e sbrigativo che a quanto le risulta­
va veniva usato a quell’uomo di settantasei anni. Brayn
replicò debolmente: « Non avrei eliminato alcuno dei
suoi privilegi se non fossi stato convinto che lasciare le
cose come stavano comportava il rischio di gravi inci­
denti».
Ma né Sir James né Lady Murray si placarono: era as­
solutamente indispensabile, dissero, che al loro amico e
genio di somma cultura venisse concesso di tornare a
casa in America, lontano dalle grinfie del mostruoso
dottor Brayn e lontano da un ospedale che non sembra­
va più il benevolo rifugio di un inoffensivo erudito, ma
che invece assomigliava troppo al tetro manicomio del
quale aveva preso il posto.
Il fratello di Minor, Alfred, arrivò a Londra alla fine di
marzo con l’intenzione di risolvere la questione una vol­
ta per tutte. Aveva parlato con i generali dell’esercito a
Washington; per loro, a condizione che il ministero
dell’interno britannico fosse d’accordo, era possibile
214
trasferire il dottor Minor nel luogo in cui era già stato ri­
coverato molti anni prima: l’ospedale federale St. Eliz­
abeths, nella capitale americana. Se Alfred era disposto
a tenere in custodia il fratello durante la traversata del-
l’Adantico, allora c’erano buone probabilità di persua­
dere il ministro dell’Intemo a rilasciare il permesso ne­
cessario.
Il destino doveva mostrarsi misericordioso. Per loro
grande fortuna il ministro dell’interno di allora era
Winston Churchill, un uomo che, sebbene meno cono­
sciuto di quanto sarebbe ben presto diventato, aveva u-
na propensione istintivamente favorevole verso gli ame­
ricani, dal momento che anche sua madre lo era. Ordi­
nò ai suoi funzionari di mandargli in ufficio un riepilo­
go del caso: il riepilogo esiste ancora e costituisce un e-
sempio conciso e interessante di come i governi gesti­
scano i loro affari.
Vengono esposti i vari elementi a favore e contro la
libertà vigilata del dottor Minor; la decisione sembra di­
pendere in definitiva solo dal fatto che, se Minor è anco­
ra giudicato pericoloso per gli altri, suo fratello Alfred
sia davvero in grado di tenerlo lontano dalle anni da fuo­
co durante l’eventuale trasferimento. I burocrati che la­
vorano al caso arrivano poi, lentamente ma inesorabil­
mente, a due conclusioni parallele: da un lato, che Minor
non è pericoloso, e dall’altro che suo fratello è da rite­
nersi nella fattispecie affidabile. Quindi la sintesi pre­
sentata a Churchill, basata su questo ridondante proces­
so di esposizione e analisi, conferma che l’uomo può
senz’altro essere rilasciato in libertà vigilata e autorizza­
to a partire per la sua terra natale.
E così, mercoledì 6 aprile 1910, Winston S. Churchill
firmò debitamente, in inchiostro blu, un mandato di
scarcerazione condizionale, soggetto all’unica condizio­
ne che Minor « al momento della scarcerazione lasci il
Regno Unito e non vi faccia più ritorno ».
Il giorno dopo Sir James Murray scrisse chiedendo se
era possibile salutare il suo vecchio amico e se poteva
215
portare anche Lady Murray. « Senza la minima obiezio­
ne, » disse il dottor Brayn, mellifluo « ed egli è in condi­
zioni di salute decisamente migliori e sarà lieto di veder­
vi». Si riesce quasi a sentire come il morale del vecchio
si risollevi al pensiero che, dopo trentotto lunghi anni,
sta finalmente per tornare a casa.
Dato che l’occasione era di grande importanza, sia
per Minor sia per l’Inghilterra, per più aspetti di quanti
se ne potessero comprendere al momento, Murray ave­
va invitato un artista dello studio Messrs. Russell & Co.,
fotografi di Sua Maestà il re, per fare un ritratto ufficiale
al dottor Minor prima della partenza, nel giardino del
manicomio di Broadmoor. Il dottor Brayn disse che
non aveva obiezioni; la foto offre il piacevole ritratto di
un uomo con l’aria da intellettuale, benevolo e, a giudi­
care dall’espressione del volto, non insoddisfatto, sedu­
to all’ombra di una siepe all’inglese dopo il tè delle cin­
que, senza costrizioni, senza problemi, senza preoccu­
pazioni di sorta.
All’alba di sabato 16 aprile 1910 l’ausiliario capo
Spanholtz (molti degli ausiliari a Broadmoor erano, co­
me lui, ex prigionieri di guerra boeri) ricevette l’ordine
di scortare « in abiti civili » William Minor fino a Londra.
A dirgli addio, nel pallido sole primaverile, c’erano Sir
James e Lady Murray: ci furono formali strette di mano
e, si dice, il luccichio di qualche lacrima.
Ma quelli erano tempi più solenni dei nostri e i due
uomini che tanto avevano significato l’uno per l’altro, e
per così tanto tempo, e la cui creazione, frutto delle loro
culture congiunte, era ormai completa quasi per metà
(i sei volumi dell’OED già pubblicati erano al sicuro nel­
la valigia di Minor), si salutarono in un’atmosfera di ri­
gida formalità. Il dottor Brayn disse qualche secca paro­
la di commiato e il landò si allontanò sobbalzando lun­
go i sentieri, scomparendo ben presto alla vista nella
foschia primaverile. Due ore più tardi era alla stazione
di Bracknell, sulla linea ferroviaria sudorientale diretta
a Londra.
216
Un’ora dopo Spanholtz e Minor erano sotto le volte
della poderosa cattedrale della stazione di Waterloo,
molto più grande del tempo in cui, ad appena qualche
centinaio di metri, era stato commesso l’omicidio che
aveva dato inizio a questa storia, quel sabato notte del
1872.1 due non indugiarono, per ovvi motivi, ma si fece­
ro portare subito da una vettura pubblica alla stazione di
St. Paneras e di lì presero il treno per il porto di Tilbury,
che arrivava in coincidenza con la partenza della nave.
Poi si diressero a piedi al molo dove era attraccato, per il
rifornimento di viveri e carbone, il piroscafo a due eliche
Minnetonka, una nave passeggeri della Atlantic Transport
Line, che salpava per New York nel pomeriggio.
Fu soltanto alla banchina del porto che l’ausiliario di
Broadmoor lasciò finalmente la custodia dell’uomo che
gli era stato affidato, consegnandolo ad Alfred Minor,
in attesa vicino alla passerella della nave. Una ricevuta
venne debitamente esibita e firmata, poco prima di mez­
zogiorno, come se il paziente non fosse che una cassa
voluminosa o un quarto di bue. « Con la presente si cer­
tifica che William Chester Minor è stato in data odierna
consegnato dal manicomio criminale di Broadmoor al­
le mie cure » diceva, ed era firmata «Alfred W. Minor,
tutore».
Spanholtz allora salutò allegramente con la mano e
corse a prendere il treno. Alle due in punto anche la
nave si congedò con un poderoso fischio della sirena a
vapore e, tra i fischi più deboli dei rimorchiatori, si mos­
se lentamente verso l’estuario del Tamigi. A metà po­
meriggio aveva superato il faro di North Foreland, sulla
costa del Kent, e aveva virato tutto a dritta; all’imbrunire
era nella Manica; all’alba della fresca mattina successi­
va, a sud delle isole Scilly, e all’ora di pranzo tutta l’In­
ghilterra e l’incubo in essa racchiuso si erano finalmen­
te allontanati, spariti oltre l’umida ringhiera di corona­
mento. Il mare era grigio e immenso e vuoto, e laggiù,
davanti a Minor, c’erano gli Stati Uniti. C’era casa sua.
217
Due settimane dopo il dottor Brayn ricevette una bre­
ve lettera da New Haven:
Sono lieto di comunicarvi che mio fratello ha com­
piuto il viaggio in tutta sicurezza e che ora è comoda­
mente sistemato al manicomio St. Elizabeths di Wash­
ington. Ha trovato il viaggio molto piacevole e non ha
avuto alcun problema di mal di mare. Credo che nell’ul­
tima parte del viaggio abbia camminato troppo. Non mi
ha dato alcun problema di notte, e tuttavia ho provato
un grande sollievo al nostro arrivo al porto di New York
... Spero di avere il piacere di incontrarvi ancora in futu­
ro. I miei omaggi a voi e alla vostra famiglia, e i miei mi­
gliori auguri a tutto il personale di Broadmoor e agli
ausiliari.

219
11
POI, SOLO I MONUMENTI

Diagnosis (daÌBgnóu'sis). PI. -oses. [a. L. dia­


gnosis, Gr. ôiàyvaxjiç, n. of action f. òiayiyvcbcnceiv
to distinguish, discern, f. òia- through, thoroughly,
asunder + yiyvdjoKSiv to learn to know, perceive.
In E diagnose in Molière: cf. prec.]
1. Med. Determination of the nature of a dis­
eased condition; identification of a disease by care­
ful investigation of its symptoms and history;
also, the opinion (formally stated) resulting from
such investigation.

Il vecchio Frederick Furnivall fu il primo dei grandi


del dizionario ad andarsene. Morì appena qualche setti­
mana dopo la partenza da Londra del Minnetonka.
Furnivall sapeva che stava morendo sin dall’inizio di
quell’anno fatale, il 1910. Restò allegro ed energico si­
no alla fine, vogando con la sua piccola imbarcazione a
Hammersmith, corteggiando le cameriere all’ABC e
mandando i suoi pacchetti giornalieri di parole e ritagli
di giornale al direttore di un progetto al quale era stato
legato intimamente per ben mezzo secolo.
Una delle sue ultime lettere a Murray dà prova di un
tipico, eccentrico disprezzo per la malattia che sapeva
l’avrebbe ucciso di lì a poco. Dapprima esprime interes­
se per un’espressione, tallow catch, che Murray aveva tro­
vato in Shakespeare e che aveva recentemente definito
e mandato a Hammersmith per avere la sua approvazio­
ne. Furnivall si congratula per la definizione che dice
tra l’altro: « Un uomo molto grasso... un barile di sego ».
Solo in un secondo momento accenna in modo ellittico
all’infausta prognosi che gli aveva fatto il suo medico
(aveva un cancro intestinale), osservando: « Sì, gli uomi­
ni del nostro Diz. pian piano se ne vanno, e io scompari­
221
rò nel giro di sei mesi... È un vero peccato, perché vole­
vo vedere il Diz. finito prima di morire. Ma non sarà co­
sì. Comunque il completamento dell’opera è certo. E
quindi va tutto bene ».
Morì, come aveva previsto, in luglio; ma non abban­
donò il lavoro se non dopo aver esaminato, dietro ri­
chiesta di Murray, una voce eccezionalmente lunga che
doveva essere inclusa nel volume XI. « Vi potrebbe dare
soddisfazione » gli aveva chiesto Murray « vedere finito il
gigantesco TAKE? Prima che sia troppo tardi? ».
Murray stesso, con l’età che continuava ad avanzare,
sospettava che, dopo la morte di Fumivall, anche la sua
fine non poteva essere lontana. E nel momento in cui of­
friva a Fumivall take, prendere, era chiaro che era soltan­
to all’inizio del lavoro monumentale su tutta la lettera T.
Per completare quella singola lettera gli sarebbero serviti
cinque lunghi anni: dal 1908 al 1913. Quando l’ebbe fini­
ta ne fu così sollevato da dar voce a una previsione incau­
tamente ottimistica: « Sono arrivato al punto di poter fare
una stima della fine. Con ogni ragionevole probabilità
V Oxford English Dictionary sarà concluso per il mio ottan­
tesimo compleanno, a quattro anni da oggi ».
Ma si sbagliava. L’OED non sarebbe stato completato
in quattro anni e Sir James non sarebbe mai diventato
un ottuagenario. La grandiosa congiuntura nella quale
aveva sperato (le sue nozze d’oro, il dizionario conclu­
so) non si realizzò mai. Il regio professore dì medicina
di Oxford una volta disse scherzando che l’università
sembrava pagargli uno stipendio « solo per tenere in vi­
ta quell’uomo » in modo che potesse completare la sua
opera. Evidentemente non pagava abbastanza.
Murray si ammalò alla prostata nella primavera del
1915 e l’esposizione ai raggi X, con cui allora si curava­
no i problemi di questo tipo, lo provò duramente. Man­
tenne il suo ritmo di lavoro, completando all’inizio
dell’estate il fascicolo Trink-Tumdown, nel quale aveva
incluso molte parole difficili che, come disse un curato­
re, « erano trattate con la sagacia e la ricchezza di risorse
222
che gli erano proprie ». Venne fotografato per l’ultima
volta allo Scriptorium il 10 luglio, con i collaboratori e
le figlie tutt’intorno e, sullo sfondo, gli scaffali di libri
rilegati che avevano rimpiazzato le caselle con le loro
migliaia di schede, il fondale a tutti familiare nei primi
tempi del dizionario. Ancora con il tocco in testa, Sir
James ha un aspetto smagrito e affaticato; l’espressione
è di calma rassegnazione, quella delle persone accanto
a lui è consapevole e tragica.
Morì il 26 luglio 1915 per una pleurite e venne sepol­
to, come desiderava, accanto a un grande amico di Ox­
ford che era stato professore di cinese.

William Minor, al suo quinto anno nell’ospedale fe­


derale per i malati di mente di Washington (che fino al
1916 sarebbe stato conosciuto solo a livello informale
con il nome che in seguito divenne permanente, St.
Elizabeths), avrebbe saputo a tempo debito della morte
dell’uomo che gli aveva dato tanto sollievo e tanto con­
forto intellettuale. Ma il giorno stesso della morte di
Murray egli ebbe un’altra delle sue brutte giornate, che
ormai diventavano sempre più frequenti. Qualcuno po­
trebbe dire che quel giorno a Washington Minor era
inconsciamente in sintonia con i tristi eventi che stava­
no accadendo a Oxford, a cinquemila chilometri di di­
stanza, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico.
« Ha colpito un altro paziente » dice la cartella per
quello stesso lunedì sera, il 26 luglio. « Per caso si era
fermato a guardare nella sua stanza. Si dimostra colleri­
co e cerca di colpire con violenza, ma ha troppo poca
forza per far male ». (Aveva iniziato a picchiare la gente
il mese prima. Era andato a passeggio un pomeriggio di
giugno con un ausiliario e i due avevano incontrato un
poliziotto. Quando l’agente si mise a fare delle doman­
de, Minor cominciò a colpire l’ausiliario sul petto; poi
però disse che gli dispiaceva e spiegò che stava diventan­
do « un po’ troppo irascibile »).
223
Molto probabilmente non era mai stato in grado di
fare del male a nessuno, da quando l’avevano iscritto
per la prima volta nei registri dell’ospedale. Sarà stato
pazzo, ma era penosamente gracile; aveva la spina dor­
sale curva; trascinava i piedi quando camminava; aveva
perso denti e capelli. Gli fecero delle foto, di fronte e di
profilo, come se fosse un criminale qualsiasi: aveva la
barba lunga e bianca, la testa calva, altera e arrotondata,
lo sguardo folle. La sua pazzia si definiva come semplice
paranoia, dissero i medici; egli ammetteva di pensare
ancora incessantemente alle ragazzine e di sognare gli
atti terribili che era stato costretto a compiere durante
le sue forzate escursioni notturne.
Ma non era considerato pericoloso: i medici gli accor­
darono il privilegio di passeggiare nella campagna cir­
costante, anche se soltanto in compagnia di un ausilia­
rio. Il moncone del pene era la drammatica conferma
del fatto che non poteva avere accesso a coltelli o a for­
bici. Ma al di là di questo era ritenuto inoffensivo: era
solo un vecchio di ottantun anni, magro, sdentato, ru­
goso, un po’ sordo, e tuttavia « molto attivo, considerata
la sua età».
Durante gli anni al St. Elizabeths le sue fissazioni con­
tinuarono ad aggravarsi. Denunciava che degli uccelli
gli beccavano sistematicamente gli occhi, che delle per­
sone gli introducevano in bocca del cibo a viva forza con
un imbuto di metallo e poi gli davano martellate sulle
unghie, che dozzine di pigmei si nascondevano tra le
assi del pavimento della sua stanza ed erano emissari del
mondo degli inferi. Occasionalmente era irritabile, ma
più spesso era tranquillo e cortese, e passava molto tem­
po a leggere e scrivere nella sua camera. Aveva un’aria
un po’ arrogante, disse un medico: non gli importava
granché della compagnia degli altri pazienti e nel modo
più assoluto non permetteva a nessuno di loro di entra­
re nella sua stanza privata.
Fu al St. Elizabeths che della sua malattia, fino ad allo­
ra misteriosa, venne data quella che si potrebbe consi­
224
derare la prima definizione moderna, tuttora ammissi­
bile. L’8 novembre 1918 lo psichiatra che lo seguiva, un
certo dottor Davidian, dichiarò formalmente che Wil­
liam Minor, paziente federale numero 18.487, soffriva di
quella che doveva definirsi « dementia praecox, del tipo pa-
ranoide ». Non si doveva più usare il termine vago « mo­
nomania », né bastava un generico « paranoia ». Minor e
la sua anamnesi erano stati finalmente allontanati dai
dubbi ormeggi dei confusi ma rigorosi sistemi vittoriani
di « cura morale » della pazzia (l’espressione era stata co­
niata dal francese Philippe Pinel dell’ospedale Salpêtriè­
re di Parigi) e finalmente stavano per essere accolti nel
mondo della psichiatria moderna.
La nuova espressione, dementia praecox, era molto pre­
cisa. All’epoca in cui Davidian la utilizzò nella sua dia­
gnosi era in uso già da vent’anni. Letteralmente signifi­
cava « precoce decadimento delle facoltà mentali » e ve­
niva usata per definire la patologia per cui una persona
inizia a perdere il contatto con la realtà, come aveva fat­
to Minor, molto presto nella vita, a dieci, venti o tren-
t’anni. In questo senso la malattia era notevolmente di­
versa dalla demenza senile, un termine un tempo usato
per descrivere la decrepitezza che accompagna in mo­
do specifico la vecchiaia, e che annovera tra le sue for­
me il morbo di Alzheimer.
Questa terminologia venne pubblicata a Heidelberg
nel 1899 dallo psichiatra tedesco Emil Kraepelin, che al
tempo era il massimo classificatore delle malattie men­
tali conosciute. La sua definizione della patologia aveva
lo scopo non tanto di distinguerla dalla malattia di una
persona anziana, quanto quello di sottolinearne la gran­
de diversità dalla psicosi maniaco-depressiva, una malat­
tia con cui aveva sufficienti analogie da confondere i
primi alienisti.
L’idea di Kraepelin, all’epoca rivoluzionaria, era que­
sta: mentre le psicosi maniaco-depressive avevano cause
fisiche individuabili (come un livello basso di litio, un
metallo alcalino, nel sangue e nel cervello) e dunque era­
225
no curabili (per esempio con l’uso di pillole di litio, per
compensarne la carenza nel depresso), la dementia prae­
cox era una cosiddetta malattia endogena, assolutamen­
te priva di una causa esterna identificabile. Per questo
aspetto poteva essere considerata simile ad altre patolo­
gie sistemiche dell’organismo, come l’ipertensione es­
senziale, che provoca nel paziente un’alta pressione ar­
teriosa (con i suoi molti effetti collaterali, scompensi e
problemi) senza nessuna palese ragione.
Kraepelin poi definiva tre diversi tipi di dementia prae­
cox. C’era quella catatonica, in cui le funzioni motorie
del corpo sono eccessive oppure inesistenti; quella ebe-
frenica, in cui comportamenti grottescamente anorma­
li iniziano a presentarsi durante la pubertà, da cui l’ori­
gine del nome dal greco f)0T|, giovinezza; e quella para-
noide, in cui la vittima soffre di manie, spesso di perse­
cuzione. Era di questo tipo di dementia, secondo la classi­
ficazione di Kraepelin, che soffriva il dottor Minor.
La cura tradizionalmente prevista per lui e per quelli
come lui era ancora semplice, basilare e, per gli stan­
dard attuali, di un’incompetenza costernante. Coloro
che soffrivano di demenza paranoide venivano conside­
rati affetti da una patologia incurabile, allontanati dalla
società per ordine del tribunale e sistemati (con tene­
rezza e affetto, il più delle volte, grazie al potente influs­
so di Pinel) in celle dietro alte mura, per non arrecare
disturbo a coloro che vivevano nel mondo normale, là
fuori. Alcuni venivano incarcerati solo per qualche an­
no, altri per dieci o venti. Nel caso di Minor l’esilio invo­
lontario dalla società doveva durare per quasi tutta la
vita. Aveva trascorso la maggior parte dei suoi primi tren­
totto anni all’esterno, finché non aveva ucciso George
Merrett. Poi, quarantasette dei quarantotto anni che gli
rimanevano li aveva trascorsi rinchiuso in manicomi sta­
tali, di fatto non curato perché, nell’ottica dei medici di
allora, era di fatto non curabile.
Dai tempi di Minor e di Davidian la malattia ora è
considerata in modo molto più aperto. Il nome, tanto
226
per cominciare, è cambiato: nel 1912 ha fatto la sua pri­
ma comparsa quella che allora era una parola molto
meno spaventosa, «schizofrenia» (dal greco, mente di­
visa) . (Potrebbe cambiare di nuovo: per liberare il di­
sturbo dalla sua patina di spiacevoli associazioni d’idee,
ci sono attualmente dei tentativi, forse non del tutto
prudenti, di chiamarla « sindrome di Kraepelin »).
Le prime cure, che si stavano introducendo proprio
ai tempi del declino finale di Minor, comprendevano
l’uso massiccio di sedativi, come l’idrato di cloralio, l’a-
mobarbital e la paraldeide. Oggi sono disponibili interi
scaffali di farmaci antipsicotici per curare e controllare
almeno i sintomi più sconcertanti della schizofrenia. Ma
finora, e nonostante le fortune investite, ci sono stati ben
pochi progressi nel tentativo di bloccare i misteriosi mec­
canismi che evidentemente scatenano la malattia e le
sue demoniache manifestazioni.
E si continua a discutere molto su quali possano esse­
re questi meccanismi. Si potrà mai affermare che una
malattia psichica importante come la schizofrenia, con
il relativo grave squilibrio della chimica, della morfolo­
gia e delle funzioni cerebrali, abbia veramente una cau­
sai Nel caso di William Minor, le scene terribili della bat­
taglia di Wilderness potrebbero davvero aver innescato
in lui delle reazioni tanto eclatanti?
L’aver marchiato un irlandese può aver precipitato le
cose, conducendo direttamente, o contribuendo anche
indirettamente, al crimine che Minor commise otto an­
ni dopo e che fu la causa dell’esilio da lui subito per il
resto della vita? Ci fu mai un fatto chiaramente identifi­
cabile? Egli fu davvero esposto all’equivalente, per la
psiche, dell’aggressione di un virus? O la schizofrenia è
veramente senza cause specifiche e parte della natura
stessa di alcuni sfortunati individui? E ancora, che cos’è
questa malattia? E il semplice sviluppo di una personali­
tà che va ben oltre la mera eccentricità, entrando in
un’area che la società non si sente in grado di tollerare
o di approvare?
227
Nessuno lo sa per certo. Nel 1984 è stata presentata
una relazione in cui si descrive un uomo fermamente
convinto di avere due teste, che, trovando una delle due
irritante oltre ogni limite di sopportazione, le sparò con
un revolver, ferendosi in modo orribile. La diagnosi lo
definì schizofrenico, e la comunità psichiatrica si trovò
d’accordo, poiché era palese che l’uomo aveva una testa
sola e che era oppresso da una fissazione assurda. Ma poi
c’è anche il famoso «Mad Lucas» dello Hertfordshire
vittoriano, che visse per tre mesi con il cadavere della
madre e poi per venticinque anni da solo, in biblico iso­
lamento e selvaggio abbandono, mentre vetture cariche
di gitanti arrivavano da Londra per vederlo. Anche lui
venne giudicato schizofrenico. Lo era davvero? Non po­
teva essere semplicemente un caso borderline, un eccen­
trico che aveva comportamenti al di fuori delle norme
comunemente accettate? Era pazzo come il fissato pos­
sessore della testa fantasma? Era pericoloso come lui e
meritava allo stesso modo la reclusione? E dove si colloca
un caso come quello di William Minor all’interno dello
spettro di questa malattia? Era meno pazzo del primo, e
più del secondo? Come si può quantificare? Come si può
curare? Come si può giudicare?
Gli psichiatri oggi sono cauti riguardo a tutti questi
interrogativi, e perplessi e polemici sulla possibilità che
la malattia venga scatenata da qualcosa di preciso, che
abbia una causa definibile. La maggior parte degli psi­
chiatri del mondo accademico preferisce non sbilanciar­
si, evita i dogmatismi, si limita a dire che crede nell’effet­
to cumulativo di una serie di fattori.

Un paziente può avere una semplice predisposizione


genetica alla malattia. Oppure determinate caratteristi­
che della personalità intrinseca di un individuo posso­
no accrescere le probabilità che « reagisca male » o in
modo eclatante a una situazione esterna di stress: per
esempio alla vista dei campi di battaglia o allo shock della
228
tortura. Del resto, forse certe scene e certi shock sono
troppo forti, o troppo improvvisi, perché sia possibile
resistervi senza alcuna conseguenza sulla salute mentale.
C’è una patologia recentemente riconosciuta, detta
« disturbo da stress post-traumatico », che sembra colpi­
re un numero altissimo di persone che hanno vissuto
situazioni terribili. L’unica differenza, nel caso dei re­
duci della guerra del Golfo (quando la patologia è stata
identificata per la prima volta su vasta scala) o delle vitti­
me di un rapimento o di un incidente automobilistico,
è che per la maggior parte dei pazienti i sintomi dopo
un certo periodo di tempo scompaiono. Ma per William
Chester Minor non fu così. Il tormento per lui durò tut­
ta la vita. Per quanto possa essere comodo dire che lo
stress post-traumatico rovinò la sua vita e quella della
sua vittima, il persistere dei sintomi lascia intendere di­
versamente. C’era qualcosa di mostruosamente sbaglia­
to nella sua mente, e quello che accadde in Virginia pro­
babilmente fece affiorare in superficie le sue manifesta­
zioni più rovinose.
Forse fu il suo particolare patrimonio genetico a pre­
disporlo alla malattia (dopotutto, due dei suoi parenti si
suicidarono, anche se non conosciamo esattamente le
circostanze). Forse fu la sua indole delicata (era un pit­
tore, un flautista, un collezionista di libri antichi) a ren­
derlo insolitamente vulnerabile a ciò che vide e provò
nei campi insanguinati del Sud. Forse la sua successiva
incarcerazione a Broadmoor non gli arrecò il minimo
beneficio, mentre un atteggiamento più sensibile e illu­
minato avrebbe potuto mitigare i suoi sentimenti più cu­
pi, avrebbe potuto aiutarlo a riprendersi. Oggi una perso­
na su cento soffre di schizofrenia: quasi tutti, se curati
con sensibilità e farmaci adeguati, riescono in qualche
modo a condurre una vita dignitosa, del genere che in­
vece venne negato, per gran parte della sua esistenza, al
dottor Minor.
Certo, Minor aveva il dizionario. E c’è un’ironia crude­
le in tutto questo: se fosse stato curato, forse non avrebbe
229
mai sentito l’urgenza di lavorarci tanto. Se gli avessero
somministrato dei sedativi in grado di influire sull’umo­
re, come avrebbero fatto ai primi del Novecento, o se lo
avessero trattato come farebbero oggi con farmaci anti­
psicotici come la quetiapina o il risperidone, molti sinto­
mi della sua follia sarebbero spariti, ma forse lui non se la
sarebbe più sentita di svolgere il suo lavoro per il profes­
sor Murray, o non ne sarebbe stato capace.
In un certo senso, proprio quelle schede per il dizio­
nario furono la sua medicina: divennero per così dire la
sua terapia. La routine dello stimolo intellettuale nella
tranquillità della sua cella, un mese dopo l’altro, un an­
no dopo l’altro, sembra avergli dato almeno un vago sol­
lievo dalla sua paranoia. La sua triste situazione peggio­
rò solo quando quello stimolo venne meno: quando la
grande opera cessò di agire da calamita, quando l’unico
punto fisso sul quale la sua mente straordinaria ma tor­
turata si sapeva concentrare venne meno, solo allora ini­
ziò la sua parabola discendente, e per la sua vita iniziò il
declino.
Si deve provare un senso di strana gratitudine, allo­
ra, per il fatto che le cure non furono mai abbastanza
efficaci da distoglierlo dal lavoro. I tormenti che deve
aver sofferto in quelle notti terribili al manicomio han­
no assicurato a noi tutti un grande beneficio, che dure­
rà per sempre. Era pazzo, e della sua pazzia noi abbiamo
motivo di rallegrarci. Un’ironia crudele, sulla quale è
inquietante soffermarsi.

Nel novembre del 1915, quattro mesi dopo la morte


di Sir James, il dottor Minor scrisse a Lady Murray a Ox­
ford, offrendole in dono tutti i libri che erano stati man­
dati da Broadmoor allo Scriptorium e che erano ancora
tra le cose di SirJames quando questi morì. Sperava che
potessero approdare alla Bodleian Library. « Sono lieto
... di sapere che state bene, come posso presumere dalla
230
vostra lettera e dai vostri impegni. Di certo avete ancora
una gran quantità di lavoro da fare o da assegnare per i
materiali del Diz... ». Minor scrive usando l’ortografia
inglese: evidentemente gli anni a Broadmoor gli aveva­
no lasciato un segno anche per aspetti diversi da quello
puramente detentivo.
E i suoi libri in effetti si trovano ancora oggi nella
grande biblioteca: sono registrati come donazione « del
dottor Minor tramite Lady Murray ».
Ma ormai il dottor Minor diventava sempre più debo­
le. Un vecchio collega dei tempi della Guerra di Seces­
sione scrisse da West Chester, Pennsylvania, per chiede­
re come stava il suo amico, e il sovrintendente dell’ospe­
dale gli rispose che, considerati gli anni, il capitano Mi­
nor era in buona salute e che si trovava « in un reparto
allegro e luminoso, dove sembra soddisfatto della pro­
pria sistemazione ».
Ma le cartelle cliniche raccontano una storia diversa,
presentando una litania di sintomi delle continue ag­
gressioni della senilità e della demenza. Con frequenza
crescente gli ausiliari scrivono che Minor inciampa, si fa
male, si perde, va in collera, si aggira senza meta, ha le
vertigini, si stanca facilmente e, cosa peggiore di tutte,
inizia a dimenticare, e sa che sta dimenticando. La sua
mente, per quanto torturata, era sempre stata partico­
larmente lucida: nel 1918, alla fine della prima guerra
mondiale, sembrava sapere che le sue facoltà mentali si
stavano offuscando, che la mente si stava infine indebo­
lendo quanto il corpo, e che la clessidra ormai era qua­
si vuota. Restava a letto anche per quattro giorni di fila,
dicendo che aveva bisogno di «un buon riposo »: barri­
cava la porta con le sedie, ancora convinto di essere per­
seguitato. Erano passati più di quarantacinque anni dal­
l’omicidio, mezzo secolo da quando i primi segni di fol­
lia erano stati notati al forte militare in Florida. E ancora
adesso i sintomi restavano gli stessi: persistenti, non cura­
ti, non curabili.
231
Arrivava ancora l’occasionale appunto querulo, co­
me questo, scritto nell’estate del 1917:
Al dottor White
Egregio signore,
c’era un tempo in cui la carne (manzo e prosciutto)
era molto dura e secca. Ciò, in una certa misura, è cam­
biato in meglio proprio grazie al vostro interessamento,
dunque non avrei da lamentarmi; mentre il riso sembra
essere l’unica verdura di contorno.
Non è una gran cosa della quale lamentarsi; e tuttavia
queste inezie valgono molto in questa nostra vita.
Vi ringrazio per quanto vorrete fare.
Sinceramente vostro,
W.C. Minor
Un anno più tardi (anche se lui, con la memoria e la
vista che lo tradiscono, data la lettera 1819 anziché
1918), mostra un altro sprazzo di benevolenza, simile al
contributo all’avventura di Murray alla Colonia del Ca­
po. Questa volta manda venticinque dollari a un fondo
in favore dei belgi vittime dell’occupazione tedesca du­
rante la guerra, e altri venticinque all’università di Yale,
la sua alma mater, come donazione per il fondo del servi­
zio militare. Il rettore di Yale scrive al sovrintendente da
Woodbridge Hall: « So molto della storia del dottor Mi­
nor, e sono stato perciò doppiamente commosso nel ri­
cevere questo dono ».
Nel 1919 suo nipote Edward Minor presentò istanza
all’esercito, chiedendo che fosse rilasciato dal St. Eliza­
beths e portato in una casa di cura per anziani malati di
mente chiamata The Retreat, a Hartford, nel Connecti­
cut. L’esercito accettò: « Penso che, se The Retreat rie­
sce a capire bene il caso, dovremmo lasciarlo andare »
disse un certo dottor Duval in una riunione tenuta in
ottobre per discutere il problema. « Sta diventando così
vecchio che probabilmente non farà del male a nessu­
no ». Accettò anche la commissione ospedaliera e in no­
vembre, durante una bufera di neve, il vecchio e fragile
232
gentiluomo lasciò per sempre Washington e lo strano
mondo degli ospedali psichiatrici, un mondo in cui vi­
veva dal 1872.

Gli piaceva la sua nuova casa, un edificio costruito tra


ettari di boschi e giardini sulle rive del fiume Connecti­
cut. Suo nipote scriveva, all’inizio del 1920, quanto il
cambiamento sembrasse avergli fatto bene; e tuttavia, al­
lo stesso tempo, quanto il dottor Minor fosse incapace di
badare a se stesso. Come se non bastasse, stava rapida­
mente diventando cieco e da alcuni mesi non era più in
grado di leggere. Ora che anche questa sua somma fon­
te di gioia gli veniva negata, avrà pensato che gli rima­
nevano ben poche ragioni pervivere. Nessuno si sorpre­
se quando, dopo una passeggiata in una giornata piena
di vento, all’inizio della primavera di quello stesso an­
no, prese un’infreddatura che degenerò in broncopol­
monite e morì serenamente nel sonno. Era venerdì 26
marzo 1920. Aveva vissuto per ottantacinque anni e no­
ve mesi. Sarà stato matto, ma, come l’elefante del dizio­
nario del dottor Johnson, aveva avuto « una vita estre­
mamente lunga ».
Non ci furono necrologi: solo due righe nella colon­
na degli annunci funebri del «New Haven Register».
Nel pomeriggio del lunedì successivo venne portato
nella sua vecchia città natale e sepolto nel cimitero Ever­
green, nel lotto di terra acquistato per la sua famiglia
dal padre missionario, Eastman Strong Minor. La lapi­
de è piccola e anonima, di arenaria rossastra, e reca solo
il suo nome, William Chester Minor. Un angelo, gli oc­
chi levati al cielo, si erge su un piedistallo lì accanto, con
un motto inciso: « La mia fede si volge a Te ».
Tutt’intorno, un’alta rete metallica separa il cimitero
da una parte molto turbolenta di New Haven, ben lonta­
na dall’austera eleganza di Yale. La semplice esistenza
della rete sottolinea una triste e ironica realtà: il dottor
William Minor, che fu tra i principali collaboratori del
233
S
più grande dizionario di tutta la lingua inglese, morì di­
menticato e nella più completa oscurità, ed è sepolto vici­
no ai bassifondi della città.

Per finire l’Oxford English Dictionary ci vollero altri ot­


to anni: l’annuncio del suo completamento venne dato
neH’ultìmo giorno dell’anno 1927. Il «New York Times»
mise la notizia in prima pagina la mattina dopo, una
domenica: con l’inserimento di una parola dell’antico
dialetto del Kent, zyxt (la seconda persona del presente
indicativo del verbo vedere), l’opera era compiuta, l’al­
fabeto era esaurito, e il testo completo era adesso intera­
mente nelle mani dei tipografi. La creazione del grande
dizionario, dichiarava il giornale con generosa solenni­
tà, era stata « uno dei più bei romanzi d’amore e d’av­
ventura della letteratura inglese ».
Agli americani la storia della sua creazione piacque
immensamente. H.L. Mencken, egli stesso un lessico-
grafo non da poco, scrisse che si aspettava né più né me­
no che Oxford celebrasse l’apogeo di questo progetto
durato ben settant’anni con « esercizi militari, incontri
di pugilato tra i professori, orazioni in latino, greco, in­
glese e dialetto di Oxford, gare di urlatori dei vari colle­
ge e una serie di grandi bevute medioevali». Conside­
rando che l’ultimo direttore editoriale del dizionario si
divideva tra una cattedra a Oxford e una a Chicago, gli
americani avevano ragioni più che sufficienti per inte­
ressarsi appassionatamente a una creazione che, alme­
no in parte, era anche opera loro.
Le fatiche indefesse e solitarie della lessicografia, la
destrezza con la quale uomini come Murray e Minor a-
vevano lottato e resistito contro i terribili marosi di pa­
role ora ricevevano finalmente la loro grande ricompen­
sa. Dodici ponderosi volumi; 414.825 parole definite;
1.827.306 citazioni esemplificative utilizzate, decine di
migliaia delle quali offerte dal solo William Minor.
Messi l’uno accanto all’altro, i caratteri (tutti compo­
235
sti a mano, in quanto i libri erano fatti con le macchine
da stampa tipografica, come si può ancora percepire
sfiorando la carta inchiostrata delicatamente impressa)
coprono 286 chilometri, ovvero la distanza che separa
Londra dalla periferia di Manchester. Scartando tutti i
segni di interpunzione e tutti gli spazi (che, come ben sa
ogni tipografo, in fase di composizione portano via lo
stesso tempo dei caratteri), ci sono ben 227.779.589 tra
lettere e numeri.
Per realizzare altri dizionari, in altre lingue, ci volle
ancora più tempo; ma nessuno di essi è più grande, più
imponente, più autorevole di questo. La più colossale im­
presa dall’invenzione della stampa. La più lunga e sen­
sazionale storia a puntate che sia mai stata scritta.
In effetti c’è una parola, e solo una, che andò perdu­
ta: bondmaid, giovane schiava, presente nel dizionario
di Johnson, venne messa chissà dove da Murray, e ritrova­
ta, randagia e senza tetto, quando il fascicolo Battenttie-
Bozzom era già stato pubblicato da un bel po’ di tempo.
La parola, e le decine di migliaia di altre che si erano e-
volute o erano comparse durante i quarantaquattro anni
passati a comporre i fascicoli e i loro volumi d’origine,
venne inserita in un supplemento che uscì nel 1933. Al­
tri quattro supplementi vennero pubblicati tra il 1972 e
il 1986. Nel 1989, sfruttando le nuove risorse del com­
puter, la Oxford University Press pubblicò la seconda
edizione completamente integrata, che incorporava tut­
ti i cambiamenti e le aggiunte dei supplementi in venti
volumi un po’ più snelli. Per promuovere le vendite, al­
la fine degli anni Settanta uscì un’edizione in due volumi
composta in caratteri minuscoli, con una potente lente
d’ingrandimento contenuta in ogni cofanetto. Poi arrivò
il cd-rom, e non molto più tardi l’opera grandiosa fu ulte­
riormente adattata per essere consultata on-line. Una ter­
za edizione, con un budget molto alto, è in cantiere.
Secondo occasionali e cavillose osservazioni l’opera
rispecchierebbe un tipico atteggiamento britannico e
vittoriano, elitario e maschilista. Tuttavia, anche am­
236
mettendo che, come molte delle conquiste dell’epoca,
rispecchi veramente una serie di convinzioni non del
tutto in armonia con quelle prevalenti alla fine del No­
vecento, nessuno potrà dire che un altro dizionario si
sia mai avvicinato, o si avvicinerà mai, a risultati simili ai
suoi. Fu l’eroica creazione di uno stuolo appassionato
ed entusiasta di uomini e donne di ampia cultura gene­
rale e di vasti interessi; e vive ancora oggi, come vive la
lingua di cui giustamente sostiene di essere il ritratto.

237
POST SCRIPTUM

Memorial (mfmò®’riàl), a. an&sb. [a. OF. memorial


(mod.F. mémorial) = Sp., Pg. memorial, It. memoriale,
ad. L. memorialis adj. (neut. memoriale, used in late
Latin as sb.), f. memoria Memory.] A. adj.
1. Preserving the memory of a person or thing;
3. Something by which the memory of a person,
thing, or event is preserved, as a monumental erection.

Questa è la storia di un ufficiale americano il cui coinvolgi­


mento nella creazione del dizionario più grande del mondo
fu singolare, stupefacente, memorabile e lodevole, e al tem­
po stesso terribilmente triste. E, raccontandola, è forte la ten­
tazione di dimenticare che le circostanze che misero William
Chester Minor nelle condizioni di dedicare tutto il suo tem­
po e la sua energia alla creazione dell’OED ebbero inizio con
l’orrendo e imperdonabile omicidio da lui commesso.
George Merrett, la vittima, era un innocente operaio figlio
di contadini del Wiltshire: era arrivato a Londra per guada­
gnarsi il pane, ma fu ucciso, e lasciò la moglie incinta, Eliza, e
sette bambini. La famiglia viveva già nella miseria più nera,
cercando di conservare qualche sembianza della dignità con­
tadina nello squallore di una delle zone più dure e implacabi­
li della città vittoriana. Con l’omicidio di Merrett le cose vol­
sero drasticamente al peggio.
Tutta Londra fu sconvolta e inorridita dall’assassinio; si
stanziarono fondi e si raccolsero offerte per aiutare la vedova
e la sua prole. Agli americani in particolare, sbalorditi dal cri­
mine commesso da uno di loro, il console generale chiese di
versare un contributo in un fondo diplomatico; i parroci di
Lambeth si coalizzarono per organizzare, con spirito ecume­
nico, delle collette; una serie di spettacoli amatoriali (com­
preso uno « di carattere insolitamente elevato », con letture
di Longfellow e una selezione di brani dell’ Otello, tenutosi al­
lo Hercules Club) venne allestita in tutta la città per raccoglie­
re fondi; e il funerale fu splendido, di grande effetto, come
quello di un uomo importante.
George Merrett era membro dell’Ancient Order of For-
239
esters, FAntico ordine dei guardaboschi, una delle cosiddette
società di mutuo soccorso un tempo numerose e popolari in
tutta la Gran Bretagna che, in mancanza di programmi assi­
stenziali finanziati dal governo o privati, fornivano alle classi
operaie pensioni cooperative e altri aiuti finanziari. La notte
in cui morì, Merrett stava andando a dare il cambio a un ope­
raio, anch’egli affiliato ai Foresters: questo piccolo atto di be­
nevolenza obbligava doppiamente l’ordine a onorare il suo
membro defunto con un addio adeguato.
Il corteo era lungo un chilometro: lo apriva la banda dei
Foresters suonando la marcia funebre del Saul, poi venivano
decine di membri, tutti con l’emblema dell’ordine, quindi il
carro funebre tirato da un cavallo e quattro carrozze nere para­
te a lutto che ospitavano i parenti del defunto. Eliza Merrett si
trovava nella prima e, singhiozzando, stringeva tra le braccia
l’ultimo nato. Seguivano centinaia di operai del birrificio e poi
migliaia di persone comuni, tutti con il nastro nero al braccio
o sul cappello.
La processione continuò per tutto il pomeriggio: da Lam­
beth, passando davanti al luogo dove era avvenuta la tragedia,
in Belvedere Road, e al manicomio di St. Mary of Bethlehem,
giunse fino all’ampio cimitero di Tooting, dove George Mer­
rett venne infine sepolto.
La sua tomba forse una volta era riconoscibile, ma ora non
c’è nessuna lapide, e nel punto in cui secondo i registri do­
vrebbe riposare George Merrett non c’è che un fazzoletto di
erba scolorita, un minuscolo fazzoletto di terra affossato in
una marea di monumenti più nobili e più nuovi.
Come abbiamo visto, nei suoi momenti di lucidità William
Minor era contrito, sgomento per le conseguenze di un istan­
te di follia maniacale. Dalle sue celle a Broadmoor provvide a
far inviare del denaro alla famiglia per aiutarla nella sua affli­
zione. La matrigna di Minor, Judith, aveva già provveduto
con doni ai bambini. Circa sette anni dopo la tragedia, quan­
do Minor le scrisse per esprimerle il suo rimorso, Eliza Mer­
rett disse che lo perdonava, e prese una decisione che oggi
sembra straordinaria, quella di andare a trovarlo a Broad­
moor; e in effetti per qualche mese si recò a Crowthome piut­
tosto spesso, portandogli dei pacchi con i libri che tanto ama­
va. Ma non si riprese mai veramente dal trauma per quello
240
che era successo: nel giro di poco tempo si diede al bere e
morì per insufficienza epatica.
Lavita di due dei suoi figli, poi, ebbe sviluppi molto strani:
George, il secondo dei maschi, con il denaro avuto in dono
da Judith andò nel Principato di Monaco, vinse una somma
considerevole e vi si stabilì, facendosi chiamare « il re di Mon­
tecarlo». Morì, povero e dimenticato, nel Sud della Francia.
Il fratello minore, Frederick, si tolse la vita a Londra con un
colpo di pistola, per ragioni che non sono mai state comple­
tamente spiegate. Il fatto che anche due dei fratelli di Minor
siano morti di propria mano infonde in tutta la vicenda una
tristezza quasi insopportabile.
Ma la figura più tragica in questa strana storia è l’uomo
meno ricordato: l’uomo che fu ucciso a colpi di pistola sui
ciottoli umidi e freddi di Lambeth quel sabato notte nel feb­
braio del 1872.
Gli unici monumenti pubblici mai innalzati ai due prota­
gonisti di questa saga, uniti tra loro nel modo più tragico, so­
no cose misere e da poco. William Minor ha solo una piccola,
semplice lapide in un cimitero di New Haven, circondato da
detriti e catapecchie. George Merrett da anni non ha assolu­
tamente più nulla, solo un fazzoletto d’erba grigiastra in uno
sterminato cimitero a sud di Londra. Minor, però, ha dalla
sua il grande dizionario, che, potrebbero dire alcuni, è il suo
ricordo più duraturo. Ma nient’altro rimane a suggerire che
l’uomo da lui ucciso meritasse in qualche modo di essere ri­
cordato. George Merrett è ormai una figura assolutamente
oscura.
Ed è perciò che ora sembra giusto, a oltre un secolo di di­
stanza, che questo modesto resoconto inizi proprio con la
dedica che ha. E che questo libro sia offerto come un piccolo
riconoscimento al defunto George Merrett del Wiltshire e di
Lambeth, senza la cui morte prematura questi avvenimenti
non sarebbero mai accaduti, e questa storia non sarebbe mai
stata raccontata.

241
NOTA DELL’AUTORE

I Coda (kôda, kôudà). Mus. [Ital.L. cauda tail.] A


passage of more or less independent character intro­
duced after the completion of the essential parts of a
movement, so as to form a more definite and satisfac­
tory conclusion.

La prima volta che subii il fascino della figura centrale di


questa storia, cioè del dizionario, fu all’inizio degli anni Ot­
tanta, quando vivevo a Oxford. Un giorno d’estate un amico
che lavorava alla Oxford University Press mi invitò in un ma­
gazzino per mostrarmi un tesoro dimenticato. Era un muc­
chio di matrici di metallo buttate alla rinfusa, ciascuna di ven­
ti centimetri per venticinque o poco più e, come scoprii pren­
dendone in mano una, pesantissime.
Erano le matrici per la stampa tipografica, ormai in disuso,
con cui l’Oxford English Dictionary era stato stampato: proprio le
matrici originali, con la superficie in piombo e la base in accia­
io e antimonio, fuse nell’ottocento e all’inizio del Novecento,
con cui erano state eseguite tutte le infinite stampe dell’OED,
dai singoli fascicoli pubblicati durante la preparazione dei vo­
lumi, fino al capolavoro finale del 1928, in dodici tomi.
La casa editrice, mi spiegò il mio amico, aveva recentemen­
te adottato sistemi più moderni: composizione computeriz­
zata, fotolitografia, e cose del genere. Gli strumenti degli an­
tichi tipografi (le interlinee di piombo e i compositoi, i qua­
dratoni, i fregi e i corsivi, i fogli di maestra e le spazzole della
platina), e i loro segreti del mestiere, come l’arcana capacità
di leggere facilmente le parole al contrario e i caratteri a rove­
scio, erano stati infine abbandonati. Le matrici e tutti i casset-
tini pieni di caratteri per la composizione manuale ora veni­
vano buttati via, fusi, regalati.
Non volevo per caso prendermi un paio di quelle matrici,
mi chiese, da tenere così, come souvenir di qualcosa che un
tempo era stato a dir poco meraviglioso?
Ne scelsi tre, leggendo i caratteri al contrario come meglio
potevo nella luce fioca e polverosa. Due, in seguito, li diedi ad
altri. Ma me ne tenni uno: era la pagina 452, completa, del
volume V del grande dizionario: comprendeva le parole da
243
humoral a humour, era stata preparata intorno al 1901, i tipi
composti nel 1902.
Per anni portai con me questa strana matrice, dalFaria vec­
chia e sporca. Era una specie di talismano. Le trovavo sempre
un posto in qualche armadio, in ogni appartamento delle va­
rie città e dei vari paesi dove andavo avivere. Ne ero piuttosto
fiero, in un modo persino noioso, direi, e ogni tanto, quando
la ritrovavo, nascosta tra altre cose più importanti, la tiravo
fuori, soffiavo via la polvere e la esibivo agli amici, un piccolo,
affascinante particolare della storia lessicografica.
Sono convinto che all’inizio pensassero tutti che fossi un
po’ matto, anche se in verità hanno cominciato ben presto a
capire il mio strano affetto per quella piccola cosa annerita e
tanto pesante. Li guardavo mentre con le dita sfioravano il
piombo in rilievo e annuivano in silenziosa intesa: la matrice
sembrava offrire loro una specie di piacere tattile, accanto a
un più semplice interesse intellettuale.
Quando venni a vivere negli Stati Uniti, a metà degli anni
Novanta, incontrai nel Massachusetts occidentale una tipo­
grafa che lavorava con le vecchie macchine da stampa. Le
raccontai della matrice, e lei ne rimase elettrizzata. Era un’en­
tusiasta cultrice della storia dell’ Oxford English Dictionary, mi
disse, e aveva anche una fortissima passione per la sua grafica:
per l’accostamento elegante e intelligente di diversi corpi e
caratteri che i vecchi e austeri editori vittoriani avevano im­
piegato. Mi chiese se poteva vedere la matrice e, quando glie­
la portai, mi chiese se la poteva prendere a prestito per un
po’ di tempo.
Quel po’ di tempo si trasformò in due anni, durante i quali
accettò altri lavori, quanti ne può avere ai giorni nostri chi
stampa artigianalmente. Si occupò di una serie di edizioni di
pregio per John Updike, stampò dei libretti di poesie per un
paio di poeti del New England, pubblicò una raccolta o due
di racconti e opere teatrali, il tutto stampato su carta fatta a
mano. Era un’artigiana vera: tutti i suoi lavori erano metico­
losi, lenti, perfetti. E per tutto quel tempo tenne la mia matri­
ce sul davanzale di una finestra, chiedendosi quale fosse la co­
sa migliore da farsi.
Finalmente decise. Sapeva che avevo una grande passione
per la Cina e che avevo vissuto lì per molti anni; e sapeva an­
che che Oxford mi piaceva più di ogni altra città inglese. Così
244
prese la matrice, la lavò accuratamente in una serie di solven­
ti per ripulirla da polvere, grasso e inchiostro che vi si erano
accumulati, la montò sul suo tirabozze Vandercook e stampò
con la massima cura, sulla più preziosa carta fatta a mano,
due copie della pagina: una in inchiostro blu Oxford, l’altra
in rosso Cina.
Poi dispose i tre elementi l’uno accanto all’altro (la matri­
ce in metallo al centro, la pagina rossa a sinistra, la pagina blu
a destra) e li montò in una sottile cornice dorata dietro a un
vetro antiriflesso. Lasciò il quadro così completato, con tanto
di filo e di ganci per appenderlo al muro, in un piccolo caffè
della sua città, poi mi scrisse una cartolina dicendomi di pas­
sare a prenderlo quando potevo e con l’occasione di ricordar­
mi di assaggiare la torta di fragole al rabarbaro e il cappucci­
no della proprietaria del caffè. Non c’era conto da pagare, e
da allora non l’ho più rivista.
Ma la matrice e le due bozze sono ancora appese a casa
mia, sopra una piccola lampada che illumina un volume del
grande dizionario, aperto su un tavolino. E il volume V, e lo
tengo aperto alla stessa pagina che un tempo veniva stampata
proprio con quella lastra metallica appesa poco più in alto. E
quella che i vittoriani avrebbero chiamato una grandiosa
congiuntura, ed è un piccolo reliquiario dei piaceri del crea­
re e stampare libri, e della gioia che è nelle parole.
Una volta mia madre notò che la voce principale della ma­
trice e dei fogli e del volume sottostante era la parola humorist.
Le fece ricordare una coincidenza simpatica e buffa, un’altra
congiuntura, anche se molto meno grandiosa. Humorist era
il nome di una cavalla che aveva corso nel derby del 1° giugno
1921, il giorno in cui era nata mia madre. Suo padre, conten­
to per la nascita della bambina, aveva scommesso dieci ghi­
nee sulla puledra, nonostante fosse data perdente. Invece
Humorist vinse, e quel nonno che non ho mai conosciuto si
intascò mille ghinee, tutto per una parola che per un attimo
aveva colpito la sua fantasia.

245
RINGRAZIAMENTI

Acknowledgment (æknp lédjmënt); also acknowl­


edgement (a spelling more in accordance with Eng.
values of letters), [f. Acknowledge v. + -ment. An
early instance of -ment added to an orig. Eng. vb.]
1. The act of acknowledging, confessing, admitting,
or owning; confession, avowal.
5. The owning of a gift or benefit received, or of a
message; grateful, courteous, or due recognition.
6. Hence, the sensible sign, whereby anything re­
ceived is acknowledged; something given or done in
return for a favour or message, or a formal communica­
tion that we have received it.
1739 T. Sheridan Persius Ded. 3,1 dedicate to you
this Edition and Translation of Persius, as an Acknowl­
edgment for the great Pleasure you gave me. 1802
Mar. Edgeworth Moral T (1816) I. xvi. 133 To of­
fer him some acknowledgment for his obliging con­
duct. 1881 Daily Tel. Dec. 27 The painter had to appear
and bow his acknowledgments. Mod. Take this as a
small acknowledgement of my gratitude.

Quando mi imbattei per la prima volta in questa storia,


citata brevemente e solo per inciso in un libro piuttosto se­
rio sull’arte della creazione dei dizionari, mi colpì subito
come una vicenda su cui probabilmente valeva la pena inve­
stigare e che forse valeva la pena raccontare per intero. Ma
per diversi mesi fui il solo a pensarla così. Avevo in cantiere
un progetto assai imponente su un argomento del tutto di­
verso, e il consiglio che ricevevo in pratica da ogni parte era
di continuare con quello e di lasciar perdere questa diverten­
te piccola saga.
Ma quattro persone, invece, la trovarono molto affascinan­
te, proprio come me, e videro anche la possibilità, nel raccon­
tare il tormentato caso umano del dottor Minor, di creare
forse una specie di prisma attraverso il quale osservare la sto­
ria più grande e ancor più affascinante della lessicografia in­
glese. Queste quattro persone sono Bill Hamilton, amico di
vecchia data e mio agente a Londra; Anya Waddington, mia
247
editor alla Viking, sempre a Londra; Larry Ashmead, capore­
dattore della HarperCollins di New York; e Marisa Milanese,
allora redattrice negli uffici della rivista « Condé Nast Travel­
er », sempre a New York. La loro fede in questo progetto altri­
menti ignorato fu totale e incessante, e per questo li ringrazio
di tutto cuore.
Marisa, che ritengo un modello di entusiasmo inarrestabi­
le, di iniziativa tenace e di zelo instancabile, ha poi collabora­
to alla parte americana delle ricerche: insieme ajuliet Walker
di Londra, mia cara amica da un quarto di secolo, mi ha aiu­
tato a elaborare la mia idea di base in una rete complessa di
fatti e personaggi che poi ho cercato in qualche modo di or­
ganizzare secondo un ordine coerente. Non posso ancora
valutare in che misura sia riuscito o meno nell’intento, ma
vorrei dire qui che queste due donne mi hanno donato una
fonte inesauribile di informazioni, e se io poi le ho capite
male, le ho lette male, le ho sentite male, o le ho scritte male,
la responsabilità degli errori è mia, e soltanto mia. I miei rin­
graziamenti vanno anche a Sue Llewellyn, che, oltre a curare
questo libro per la stampa con costanza e molto buonumore,
dieci anni fa aveva già lavorato, come mi ha ricordato, al mio
libro sulla Corea.
L’accesso all’ospedale specializzato di Broadmoor e ai vo­
luminosi fascicoli su ciascun paziente che da tanto tempo vi si
conservano era chiaramente la chiave di volta per sbrogliare
questa storia; e ci sono volute settimane prima che io e Juliet
Walker fossimo ammessi. Lo dobbiamo al trionfo di due im­
piegati di Broadmoor, Paul Robertson e Alison Webster, che
hanno perorato con convinzione la nostra causa davanti a
un’amministrazione ospedaliera forse comprensibilmente
riluttante. Senza l’aiuto di queste due persone straordinarie
e gentili, questo libro non sarebbe mai riuscito a essere nien­
te di più che una serie di congetture: i fascicoli di Broadmoor
erano necessari per fornire i fatti, e Paul e Alison ci hanno
fornito i fascicoli.
Dall’altra parte dell’Atlantico le cose procedevano in mo­
do del tutto diverso, nonostante gli sforzi della splendida Ma-
risa. L’ospedale St. Elizabeths di Washington non è più un’i­
stituzione federale, ma è gestito dal governo del District of
Columbia, un governo che negli ultimi anni ha passato ben
noti guai. E sin dall’inizio, forse proprio per questo, l’ospeda­
248
le ha rifiutato categoricamente di esibire alcun fascicolo, ed è
arrivato a suggerirmi, con la massima serietà, di prendere un
avvocato e intentare una causa, se li volevo ottenere.
Comunque, qualche tempo dopo, una frettolosa ricerca
tra le pagine web dei National Archives mi ha indotto a pen­
sare che i documenti relativi al dottor Minor (che era stato
ricoverato al St. Elizabeths tra il 1910 e il 1919, quando l’isti­
tuzione era innegabilmente sotto la giurisdizione federale)
in realtà potevano essere ancora in custodia federale, e non
nelle grinfie kafkiane del District of Columbia. E in effetti, ho
scoperto, era proprio così. Un paio di richieste via Internet,
una felice conversazione con un archivista estremamente di­
sponibile, Bill Breach, e aH’improwiso mi sono arrivate in un
pacco della FedEx più di settecento pagine di osservazioni sul
caso e un’ulteriore affascinante miscellanea. Ho trovato mol­
to più che gratificante poter telefonare il giorno dopo al St.
Elizabeths per raccontare a quei funzionari poco disponibili
quale fascicolo avevo davanti a me sulla scrivania. Non ne so­
no stati affatto contenti.
La Oxford University Press, al contrario, è stata straordina­
riamente disponibile; e mentre sono ben felice di ringraziare
i funzionari della casa editrice che tanto gentilmente mi han­
no autorizzato a visitare Walton Street, desidero riconoscere
prima di tutto il debito considerevole che ho nei confronti di
Elizabeth Knowles, ora al dipartimento testi di consultazione
della Oxford, che alcuni anni prima aveva fatto uno studio su
Minor ed è stata felice di condividere con me le sue cono­
scenze e le sue fonti. Con molto piacere ringrazio inoltre Jen­
ny McMorris degli archivi della casa editrice, un’incontenibi­
le entusiasta che conosce Minor e il suo lascito straordinario
meglio di chiunque altro in qualsiasi parte del mondo. Jenny,
insieme al suo ex collega Peter Foden, si è dimostrata un vero
pilastro durante le mie visite e per molto tempo dopo: le au­
guro soltanto di trovare uno sbocco per la sua passione per il
grande Henry Fowler, che giustamente considera, accanto a
James Murray, uno dei veri eroi della lingua inglese.

Diversi amici, come pure un certo numero di specialisti


con un interesse professionale collegato ad alcune parti della
storia, sono stati tanto gentili da leggere le prime bozze del
249
manoscritto e hanno dato molti suggerimenti per migliorar­
lo. Ho accettato quasi sempre le loro proposte con gratitudi­
ne, ma se occasionalmente, per trascuratezza o testardaggi­
ne, non ho badato ai loro avvertimenti o alle loro richieste,
allora vale la stessa avvertenza di prima, e cioè che la respon­
sabilità di tutti gli errori relativi a fatti, giudizi, apprezzamen­
ti, rimane esclusivamente mia: loro hanno fatto del loro me-
glio.
Tra gli amici che desidero ringraziare ci sono Graham
Boynton, Pepper Evans, Rob Howard, Jesse Sheidlower, Nan­
cy Stump, Paula Szuchman e Gully Wells. E alFanonimo An­
thony S., che si è lamentato con me perché una mattina d’e­
state la fidanzata gli ha negato i suoi romantici favori essendo
occupata a finire il mio capitolo 9, porgo le mie scuse, i miei
imbarazzati ringraziamenti per la pazienza e i migliori auguri
per le future gioie coniugali.
James W. Campbell della Historical Society di New Haven
mi ha molto aiutato nel rintracciare la famiglia Minor nella
sua vecchia città natale; i bibliotecari e il personale della Divin­
ity Library di Yale mi hanno dato molte informazioni sulla vi­
ta del giovane William Minor a Ceylon. Pat Higgins, una si­
gnora inglese che vive nello Stato di Washington con cui ho
corrisposto soltanto via e-mail, era affascinata anche dai rami
di Ceylon e di Seattle della famiglia Minor e mi ha dato molti
spunti interessanti.
Michael Musick degli U.S. National Archives ha poi rin­
tracciato la maggior parte dei documenti militari di Minor, e
Michael Rhode dell’ospedale militare Walter Reed è risalito
ai suoi referti autoptici manoscritti. Il National Park Service
mi è stato di grande aiuto consentendomi l’accesso alle basi
militari di New York e della Florida dove Minor era stato asse­
gnato; l’index Project di Arlington, Virginia, mi ha aiutato
trovando altri documenti relativi alla sua carriera militare du­
rante la guerra.
Susan Pakies del servizio turistico della contea di Orange
in Virginia, insieme all’informatissimo Frank Walker, mi ha
accompagnato in tutti i luoghi più importanti dove si è com­
battuta la battaglia di Wilderness, e poi, per tirarci un po’ su,
in varie vecchie e deliziose locande nascoste in questo angoli­
no spettacolare degli Stati Uniti. Jonathan O’Neal mi ha spie­
gato pazientemente le cure mediche che si praticavano al
250
tempo della Guerra di Secessione nel vecchio albergo-ospe­
dale Exchange, che ora è un museo, a Gordonsville, Virginia.
Nancy Whitmore del National Museum of Civil War Medi­
cine, a Frederick, Maryland, è stata un’entusiasta sostenitrice
del progetto e diligentemente ha riportato alla luce un’enor­
me quantità di arcani molto pertinenti. Il professor Lawrence
Kohl dell’università deH’Alabama è stato tanto gentile da tro­
vare il tempo di parlare con me dei meccanismi della mar­
chiatura durante la Guerra di Secessione e anche di riflettere
(in modo straordinariamente competente) sui potenziali ef­
fetti di tale punizione sugli irlandesi che combattevano
nell’esercito dell’Unione (quest’ultimo argomento è la sua
specialità di storico del periodo). Mitchell Redman di New
York City ha contribuito con alcuni dettagli della vita privata
di Minor dopo la guerra, argomento sul quale aveva scritto
una breve opera teatrale finora mai rappresentata.
Gordon Claridge del Magdalen College di Oxford mi ha
insegnato molte cose utili sull’origine delle malattie mentali;
mi ha aiutato anche Jonathan Andrews, uno storico di Broad­
moor; e Isa Samad, un’apprezzata psichiatra di Fort Lauder­
dale, Florida, mi ha raccontato molte cose sulla storia delle
terapie per la schizofrenia paranoide.
Dale Fiore, sovrintendente del cimitero Evergreen a New
Haven, ha aggiunto affascinanti postille alla fine della vita di
William Minor: la lunghezza della bara, la profondità alla
quale venne seppellito, il nome di coloro che sono sepolti
accanto a lui.
La vita è diventata molto più facile quando sono riuscito a
rintracciare uno dei pochi parenti di Minor ancora in vita: il
signorJohn Minor di Riverside, Connecticut. E stato la genti­
lezza in persona, fornendomi un’enorme quantità di infor­
mazioni utili sul pro-prozio che non aveva mai conosciuto e
dandomi accesso a un vero e proprio tesoro di dipinti e carte
che erano stati sepolti per anni, indisturbati, in una cassa di
legno in soffitta. Lui e la moglie danese, Birgit, sono stati affa­
scinati dalla storia quanto me, e li ringrazio per le piacevoli
cene in riva al fiume e per il tempo trascorso a parlare dell’in­
dole del loro parente più originale.
David Merritt della Merritt International Family History
Society (sic) di Londra mi ha dato un valido aiuto nello scova­
re dei particolari utili per individuare il luogo dove potevano
251
vivere i discendenti di George Merrett: alla fine ne ho trovato
uno, il signor Dean Blanchard del Sussex, a sua volta interes­
sato alle vicende della sua lontana famiglia e pronto a condi­
videre con me molte informazioni preziose.
Sono debitore anche verso il mio agente americano, Peter
Matson, verso la sua collega Jennifer Hengen, e verso Agnes
Krup che, entusiasmatasi per la strana natura della storia, ne
è diventata uno dei sostenitori più accaniti e durante una lun­
ga e calda estate americana mi ha spronato ad andare avanti,
a impegnarmi a scrivere. Mia moglie, Catherine, ha provve­
duto a tenere lontana ogni seccatura, e mi ha offerto genero­
samente la serenità e il rifugio tranquillo di cui la stesura di u-
na storia lunga e complessa come questa ha assoluto bisogno.

252
LETTURE CONSIGLIATE

Il libro che per primo mi ha stimolato a investigare su que­


sta storia è Chasing the Sun di Jonathon Green, Jonathan Cape,
London e Henry Holt, New York, 1996, che dedica una pagi­
na e mezzo alla vicenda, e che mi ha portato, tramite la biblio­
grafia, a un’opera alquanto più acclamata sulla creazione
dell’OED, Caught in the Web of Words, Oxford University Press,
Oxford e Yale University Press, New Haven, 1977, scritta dalla
nipote del grande direttore editoriale, KM. Elisabeth Murray.
In entrambi i casi il racconto del primo incontro tra Murray e
Minor riprende il mito ben noto, e solo quando Elizabeth
Knowles ha pubblicato un resoconto più accurato sulla rivista
trimestrale « Dictionaries » è emersa una parte della verità.
Gli appassionati apprezzeranno entrambi i libri; la rivista ten­
de a essere accademica, ma dal momento che francamente
(almeno a un livello superficiale) le discipline della lessicogra­
fia non sono troppo pesanti, molti potranno trarre profitto
anche da questa lettura.
Per chi è interessato ai princìpi fondamentali su cui si basa
la redazione dei libri sul lessico, l’autorevole Dictionaries. The
Art and Craft ofLexicography di Sidney Landau, Charles Scrib­
ner’s Sons, New York, 1984, è una lettura essenziale. Per gli i-
conoclasti che desiderino scoprire le pecche dell’OED, John
Willinsky spiega molte cose nel suo libro dai toni alquanto
253
biliosi, Empire of Words, The Reign of the OED, Princeton Uni­
versity Press, Princeton, 1994, che offre un’analisi revisionista
e politicamente corretta della creazione di James Murray, seb­
bene da una posizione piuttosto ammirata. Vale la pena leg­
gerlo, anche solo per farsi ribollire il sangue.
In genere si trovano ancora abbastanza facilmente delle
copie del Dictionary del dottor Johnson; copie anastatiche
dell’edizione in due volumi di grande formato sono state
stampate da tipografie in posti tanto improbabili come la cit­
tà di Beirut, dove ne ho recentemente acquistato una copia
per duecentocinquanta dollari. E difficile trovare una buona
prima edizione a meno di quindicimila dollari. Esiste tuttavia
un distillato, brillante e utile, con una selezione di voci a ope­
ra di E.L. McAdam e George Milne, Pantheon, New York,
1963; ristampa in edizione economica Cassell, London, 1995.
La Oxford University Press merita una storia a sé, e in effet­
ti ce ne sono diverse: raccomando quella di Peter Sutcliffe,
The Oxford University Press. An Informal History, Oxford Univer­
sity Press, Oxford, 1978, che tratta la saga della creazione
dell’OED in modo molto accurato e con ragionevole impar­
zialità.
La Guerra di Secessione è stata naturalmente trattata in mo­
do del tutto esauriente. Il miglior libro relativo alla battaglia
in cui il dottor Minor ebbe una piccola parte, per lui cruciale,
è The Battle of the Wilderness di Gordon C. Rhea, Louisiana
State University Press, Baton Rouge, 1994, che ho apprezzato
enormemente. Il classico The Irish Brigade and its Campaigns di
D.P. Conyngham, del 1867, è stato recentemente ripubblica­
to dalla Fordham University Press, New York, 1994, con un’in­
troduzione di Lawrence F. Kohl, che ringrazio altrove per il
suo contributo a questo mio libro. Tra i molti testi sulla me­
dicina ai tempi della Guerra di Secessione ho apprezzato Doc­
tors in Blue di George Worthington Adams, Louisiana State
University Press, Baton Rouge, 1980 (la ediz. H. Schuman,
New York, 1952) e In Hospital and Campài Harold Elk Straub­
ing, Stackpole Books, Harrisburg, Pa., 1993. Mi sono anche
preso il tempo per leggere i capitoli sull’argomento in quel
libro elegante e gigantesco che è The American Heritage New
History of the Civil War, di Bruce Catton e James M. McPher­
son, Viking, New York, 1996, che praticamente risponde a
254
qualsiasi immaginabile quesito sui minimi dettagli di quei
quattro anni di sanguinosi combattimenti.
Le cause delle possibili sofferenze mentali che afflissero il
dottor Minor, e che potrebbero essersi scatenate in seguito
alle sue esperienze di guerra, vengono esaurientemente spie­
gate da Gordon Claridge in Origins ofMental Illness, ISHK Mal­
or Books, Cambridge, Mass., 1995 (la ediz. Basil Blackwell,
Oxford e New York, 1985). Lo splendido Masters ofBedlam di
Andrew Scull, Princeton University Press, Princeton, 1996,
propone una storia affascinante dell’attività medica nei con­
fronti dei malati di mente prima del periodo dell’illuminismo
psichiatrico.
Ho consultato Roy Porter (anch’egli esperto di pazzia e
delle relative cure) per la sua storia sociale, giustamente ac­
clamata, della città dove Minor commise l’omicidio: London.
A Social History, Harvard University Press, Cambridge, Mass.,
1994, descrive mirabilmente l’ambiente e rimane uno dei li­
bri migliori sulla straordinaria capitale dell’Inghilterra.

Ma il libro che più di tutti dovrebbe essere letto unitamen­


te a questo volumetto è una delle maggiori e più imponenti
opere di cultura che esistano: i dodici volumi della prima edi­
zione, il supplemento del 1933, i quattro volumi supplemen­
tari di Robert Burchfield, oppure la seconda edizione che li
integra totalmente in venti volumi, dell’ Oxford English Dictio­
nary.
Si tratta di una serie di libri voluminosi e costosi (ed è per
questo che oggi si preferisce il cd-rom) ma, fatto particolarmen­
te importante per i suoi ammiratori, riconosce formalmente
l’esistenza e i contributi del dottor Minor. E trovo che in qual­
che modo la semplice scoperta del suo nome, sepolto com’è
tra quelli dei collaboratori che hanno contribuito a fare del-
l’OED il grande totem che è ancora oggi, sia sempre un mo­
mento intensamente toccante.
Pur non essendo di per sé una buona ragione per possedere
il grande libro, trovare il nome di Minor rappresenta forse un
supremo esempio dei momenti di serendipità per cui l’OED è
giustamente famoso. E pochi potrebbero negare che la seren­
dipità, nei dizionari, sia invero splendida cosa.

255
TRADUZIONE DEI TESTI IN ESERGO

PREFAZIONE

Mysterious
1. Colmo o carico di mistero; avvolto nel mistero; celato
alla conoscenza o alla comprensione umana; impossibile o
difficile da spiegare, risolvere, o scoprire; di origine, natura,
o scopo oscuri.

CAPITOLO i

Murder
1. La specie più atroce di assassinio criminale; anche, un
esempio dello stesso. Nella legge inglese (anche scozz. e a-
mer.), definito come l’uccisione, deliberata e contraria alla
legge, di un essere umano; spesso più esplicitamente omiàdio
premeditato.
In ingl. ant. la parola poteva essere applicata a qualunque
assassinio fortemente biasimato (aveva anche il significato di
« grande malvagità », « ferite mortali », « tormento »). Più stret­
tamente, tuttavia, denotava l’omicidio segreto, che nell’antichi­
tà germanica era il solo a essere considerato (nel senso mo­
derno) un crimine, essendo l’omicidio pubblico ritenuto un
torto privato che reclamava una vendetta di sangue o una ri­
257
parazione. Ancora durante il regno di Edoardo I, Britton
spiega l’anglo-fr. murdre esclusivamente come l’omicidio fel­
lonesco in cui il perpetratore e la vittima sono entrambi non
identificati. La « premeditazione » che entra nella definizione
legale di omicidio non ammette (nell’esegesi moderna) una
definizione sommaria. Una persona può rendersi colpevole
di « omicidio premeditato » anche senza aver inteso la morte
della vittima, come nel caso in cui la morte sia conseguenza
di un atto contrario alla legge, se chi lo ha compiuto sapeva di
poter causare la morte altrui, o sia il frutto di traumi inflitti
per facilitare il compimento di certi reati. Per 1’« omicidio » è
essenziale che il perpetratore sia sano di mente, e (in Inghil­
terra, ma non in Scozia) che la morte subentri entro un anno
e un giorno dall’atto che si presume l’abbia causata. La legge
inglese non riconosce dei gradi di colpa nell’omicidio; negli
Stati Uniti la legge distingue tra « omicidio di primo grado »
(dove non sussistono circostanze attenuanti) e « omicidio di
secondo grado ».

CAPITOLO 2

Polymath
Una persona di ampio e variegato sapere; una persona e-
dotta su vari argomenti di studio.
Philology
1. Amore per il sapere e la letteratura; lo studio della lette­
ratura, in senso ampio, comprendente la grammatica, la criti­
ca letteraria e l’interpretazione, il rapporto della letteratura e
dei documenti scritti con la storia, ecc.; cultura letteraria o
classica; studi raffinati.

capitolo 3

Lunatic
1. In origine, affetto dalla malattia mentale che si riteneva
ricorrere periodicamente in relazione alle fasi lunari. Nell’u­
so mod., sinonimo di malato di mente; comune nel linguag-
258
gio popolare e legale, ma oggi non utilizzato dagli specialisti
come termine tecnico.

capitolo 4

Sesquipedalian
A. agg. 1. Di parole ed espressioni (da sesquipedalia verba,
«parole lunghe un piede e mezzo», in Orazio, Ars poetica,
97) : di molte sillabe.
B. s. 1. Cosa o persona alta o lunga un piede e mezzo.
2. Parola di molte sillabe.

capitolo 5

Elephant
1. Enorme quadrupede dell’ordine dei pachidermi, con
lunghe zanne ricurve in avorio, e un organo prensile o pro­
boscide. Delle molte specie un tempo diffuse in tutto il mon­
do, Gran Bretagna compresa, oggi solo due sopravvivono,
quella indiana e quella africana; gli appartenenti alla prima
(i più grandi animali terrestri esistenti) sono spesso utilizzati
come bestie da carico, e in guerra.

capitolo 6

Bedlam
Riferito all’ospedale di St. Mary of Bethlehem a Londra,
fondato come monastero nel 1247, con lo scopo specifico di
ricevere e intrattenere il vescovo, i canonici, ecc. di Santa Ma­
ria di Betlemme, la chiesa madre, ogni volta che venivano in
Inghilterra. Nel 1330 viene citato come « un ospedale », e nel
1402 come un ospedale per pazzi (Timbs); nel 1346 venne
messo sotto la protezione della città di Londra e, con la sop­
pressione dei monasteri, ceduto al sindaco e ai cittadini, e nel
1547 venne legalmente costituito come regia fondazione per
259
l’accoglienza dei pazzi. Di qui l’uso moderno, di cui compa­
iono degli esempi all’inizio del Cinquecento.
2. L’ospedale di St. Mary of Bethlehem, utilizzato come
struttura per l’accoglienza e la cura di persone mentalmente
squilibrate; in origine situato a Bishopsgate, nel 1676 venne
ricostruito nelle vicinanze delle antiche mura di Londra, e
nel 1815 trasferito a Lambe th. Jacko Tomo'Bedlam: un pazzo.
3. Per estensione: ospedale psichiatrico, manicomio.

capitolo 7

Catchword
1. Tipogr. La prima parola della pagina seguente inserita
nell’angolo inferiore destro di ogni pagina di un libro, al di
sotto dell’ultima riga. (Ormai usato raramente).
2. Una parola posizionata in modo da colpire l’occhio o
attirare l’attenzione; in partie, a. la parola posta all’inizio di
ciascuna voce nei dizionari o simili.

capitolo 8

Poor
1.1. Che ha pochi beni materiali, o non ne ha affatto; privo
dei mezzi che forniscono le comodità, o le necessità della vita;
bisognoso, indigente, misero; in partie, (spec, nell’uso legale)
tanto misero da dipendere da donazioni di beni o denaro per
sopravvivere. Nell’uso comune esprime vari gradi, dall’indi­
genza assoluta a una condizione di ristrettezze o di disponibili­
tà limitata di mezzi rispetto al proprio rango, come « un genti­
luomo povero», «un professionista, un ecclesiastico, un intel­
lettuale, un politico povero», ecc. Il contrario di ricco, o bene­
stante. Ipoveri*, la gente povera come classe sociale: spesso con
connotazione di ceto o classe sociale umile.
6. Tale, o in circostanze tali, da suscitare compassione o
pietà; sfortunato, sventurato. Ora principalmente colloq.
In molte zone dell’Inghilterra abitualmente detto dei co­
noscenti morti = fu, defunto.
260
CAPITOLO 9

Dénouement
Scioglimento; in partie, lo scioglimento finale degli intrecci
della trama di un’opera teatrale, di un romanzo ecc.; la cata­
strofe; in senso traslato, la soluzione finale o l’esito di una si­
tuazione complicata, di una difficoltà, o di un mistero.

capitolo io

Masturbate
Una vecchia tesi considerava la parola un composto di ma­
nus, mano, e stuprare, stuprare; di qui le forme etimologiz­
zanti MANUSTUPRATION, MASTUPRATE, -ATION, Usate da alcu­
ni scrittori ingl. Intr. e rifl. Praticare la masturbazione.

CAPITOLO 11

Diagnosis
1. Med. Determinazione dell’origine di una condizione di
malattia; identificazione di una malattia attraverso l’analisi
accurata dei sintomi e dell’anamnesi; anche l’opinione (e-
spressa formalmente) derivante da tale analisi.

POST SCRIPTUM

Memorial
1. Che conserva la memoria di una persona o di una cosa.
3. Ciò che permette di conservare la memoria di una per­
sona, di una cosa, o di un evento, come un monumento.

261
NOTA DELL’AUTORE

Coda
Un passaggio di carattere più o meno indipendente intro­
dotto dopo l’esecuzione delle parti essenziali di un movimen­
to, in modo da formare una conclusione più definita e soddi­
sfacente.

RINGRAZIAMENTI

A cknowledgment
1. L’atto di riconoscere, confessare, ammettere o concede­
re; confessione, ammissione.
5. Espressione di gratitudine per un dono o un beneficio
ricevuti, o per un messaggio; riconoscenza grata, cortese o
debita.
6. Per estensione, il segno tangibile con cui viene accettata
una cosa ricevuta; qualcosa che viene dato o fatto in cambio
di un favore o di un messaggio, oppure la comunicazione for­
male dell’awenuto ricevimento.

262
LA COLLANA DEI CASI

VOLUMI pubblicati:

1. Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi


2. Nell Kimball, Memorie di una maîtresse americana
3. Gitta Sereny, In quelle tenebre
4. Michael Confino, Il catechismo del rivoluzionario
5. Wanda von Sacher-Masoch, Le mie confessioni
6. Lillian Hellman, Pentimento - Il tempo dei furfanti
7. Alee Nisbett, La vita di Konrad Lorenz
8. Il diario di Nijinsky
9. Hugh Trevor-Roper, L'eremita di Pechino
10. Kirill Chenkin, Il cacciatore capovolto
11. Benedetta Craveri, Madame du Deffand
12. Carlo Emilio Gadda, Lettere a una gentile signora
13. Boris Souvarine, Stalin
14. Ivan Morris, Il mondo del Principe Splendente
15. Emilio Cecchi - Mario Praz, Carteggio
16. Etty Hillesum, Diario 1941-1943
17. Margarete Buber-Neumann, Milena
18. Guido Morselli, Diario
19. Marjorie Wallace, Le gemelle che non parlavano
20. Elisabetta d'Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos
21. Etty Hillesum, Lettere 1942-1943
22. Lidija Cukovskaja, Incontri con Anna Achmatova
23. Thorkild Bj0rnvig, Il patto
24. Paolo Milano, Note in margine a una vita assente
25. Gershom Scholem, Walter Benjamin
26. Nina Berberova, Storia della baronessa Budberg
27. Norman Lewis, Napoli '44
28. Kenneth}. Hsu, La grande moria dei dinosauri
29. Simone Pétrement, La vita di Simone Weil
30. Robert Hughes, La cultura del piagnisteo
31. fung parla
32. Helga Schneider, 7Z rogo di Berlino
33. John McPhee, H controllo della natura
34. Charles Sprawson, L'ombra del Massaggiatore Nero
35. Theodor Lessing, Haarmann
36. Henri-Pierre Roché, Taccuini
37. Siegfried Unseld, Goethe e i suoi editori
38. Gypsy Rose Lee, Gypsy
39. Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale
e Gianfranco Contini
40. Susannah Clapp, Con Chatwin
41. Triangolo di lettere. Carteggio di Friedrich Nietzsche,
Lou von Salomé e Paul Rèe
42. Thekla Clark, «Mio due, mio doppio»
43. Lawrence Weschler, II gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson
44. Vaslav Nijinsky, Diari
45. Norman Lewis, Niente da dichiarare
46. L "onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi
e Gianfranco Contini
47. Helga Schneider, Lasciami andare, madre
48. Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione
49. V.S. Naipaul, Fedeli a oltranza
50. Cristina De Stefano, Belinda e il mostro
51. Mordecai Richler, Il mio biliardo
52. Alfred Brendel, Il velo dell"ordine
53. Mordecai Richler, Quest"anno a Gerusalemme
54. Georges Simenon, Memorie intime
55. William Langewiesche, American Ground
56. Clara Olink Kelly, L"albero dai fiori rossi
§7. Helga Schneider, L "usignolo dei Linke
58. Azar Nafìsi, Leggere Lolita a Teheran
59. Patrick Leigh Fermor, Mani
60. William Langewiesche, Terrore dal mare
61. David Quammen, Alla ricerca del predatore alfa
62. Anna Politkovskaja, La Russia di Putin
63. Benedetta Craveri, Amanti e regine
64. Masha Rolnikaite, Devo raccontare
65. Rachel Cohen, Un incontro casuale
66. Sergio Gonzalez Rodriguez, Ossa nel deserto
67. Lawrence Osborne, H turista nudo
68. Richard P. Feynman, Deviazioni perfettamente ragionevoli
dalle vie battute
69. Tempie Grandin, La macchina degli abbracci
70. Anna Politkovskaja, Diario russo 2003-2005
71. William Langewiesche, Il bazar atomico
72. Cristina De Stefano, Americane avventurose
73. Igor’ Stravinskij-Robert Craft, Bicordi e commenti
74. Robin Maugham, Conversazioni con zio Willie
75. Marella Caracciolo Chia, Una parentesi luminosa
76. Michael Pollan, Il dilemma dell'onnivoro
77. Oliver August, H fuggiasco di Xiamen
78. Edward O. Wilson, La Creazione
79. Michael Pollan, In difesa del cibo
80. Olivier Philipponnat-Patrick Lienhardt, La vita di Irène
Nemirovsky
81. Lawrence Osborne, Bangkok
82. Anna Politkovskaja, Per questo
83. Azar Nafisi, Le cose che non ho detto
84. Leslie T. Chang, Operaie
85. Ettore Sottsass, Scritto di notte
86. V.S. Naipaul, La maschera dell"Africa
87. Simon Winchester, L'uomo che amava la Cina
88. William Dalrymple, Nove vite
89. Rebecca Skloot, La vita immortale di Henrietta Lacks
90. William Blacker, Lungo la via incantata
91. Vladimir Pozner, Il barone sanguinario
92. Etty Hillesum, Diario
93. Morton Feldman, Pensieri verticali
94. Jan Karski, La mia testimonianza davanti al mondo
95. Alice Albinia, Imperi dell'indo
96. Bruce Chatwin, L'alternativa nomade
97. Etty Hillesum, Lettere
98. Simon Winchester, Atlantico
99. Guido Ceronetti-Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare
l'abisso
100. Temple Grandin, Il cervello autistico
101. Michael Pollan, Cotto
102. Rachel Polonsky, La lanterna magica di Molotov
103. David Quammen, Spillover
104. Norman Lewis, Un viaggio in sambuco
105. Anna Bikont-Joanna Szczçsna, Cianfrusaglie del passato
106. Tatti Sanguined, Il cervello di Alberto Sordi
107. A pranzo con Orson. Conversazioni tra HenryJaglom e Orson Welles
108. Suzanne Corkin, Prigioniero del presente
109. Azar Nafisi, La Repubblica delVimmaginazione
110. Iosif Brodskij, Conversazioni
111. Lawrence Wright, La prigione della fede
112. Benedetta Craveri, Gli ultimi libertini
113. Michael Pollan, Una seconda natura
114. Gerard Russell, Regni dimenticati
115. Reiner Stach, Questo è Kafka?
116. Daniele Rielli, Storie dal mondo nuovo
117. Le battute memorabili di Feynman
118. Emmanuel Carrère, Propizio è avere ove recarsi
119. Heda Margolius Kovaly, Sotto una stella crudele
120. Rachel Cohen, Bernard Berenson
121. Lawrence Wright, Gli anni del terrore
122. Andrew O’Hagan, La vita segreta
123. V.S. Naipaul, Lo scrittore e il mondo
124. Samuel Beckett, Lettere 1929-1940
125. W. Stanley Moss, Brutti incontri al chiaro di luna
126. Simon Winchester, Il professore e il pazzo
127. Curzio Malaparte, H buonuomo Lenin
STAMPATO DA STUDIO DUE S.A.S. - MILANO
«Buon pomeriggio a voi, signore. Sono il
professor James Murray della Philological
Society di Londra, direttore editoriale del-
l’Oxford English Dictionary. E un vero onore
e un vero piacere fare finalmente la vostra
conoscenza, perché voi siete senza dubbio
il mio più assiduo collaboratore, il dottor
W.C. Minor, vero? ».
Ci fu una breve pausa, un’aria di momenta­
neo e reciproco imbarazzo. Un orologio tic­
chettava rumorosamente. Si udirono passi
attutiti nell’ingresso. Un lontano sbattere
di chiavi. E poi l’uomo dietro la scrivania si
schiarì la voce e parlò:
«Me ne rincresce, signore, ma non sono io.
Non è affatto come pensate. In realtà io so­
no il direttore del manicomio criminale di
Broadmoor. Il dottor Minor è qui, senza dub­
bio. Ma è un detenuto. E ricoverato da più
di vent’anni. E il nostro paziente di più anti­
ca data».

In copertina: James Murray su una spiaggia del


Galles del Nord.

J°o

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