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Intervento di Massimo Shidō nell’ambito di Torino Spiritualità 2013.

IL KESA DI ARLECCHINO

Prima di tutto… grazie a voi per l’attenzione che vorrete dedicarci… e grazie, naturalmente, a Elena per
averci aperto le porte del vostro seminario sulla cucitura del Kesa.

Questa mia breve conversazione, che, poi, più di una conversazione vuol essere un momento di comunione
tra praticanti, vuol dir qualcosa su come lo Zen vede il Nuidō e che punti di contatto vi sono con la pratica
della cucitura del kesa.

Si articolerà in tre punti:


- il primo, due parole su cos’è l’arte del ricamo, quali sono le sue origini, i suoi temi, le sue forme,
i centri di ricerca;
- il secondo, e qui siamo subito contigui alla pratica della cucitura del Kesa, perché aggiungiamo,
alla parola “arte” l’aggettivo “spirituale” e che cosa distingue una forma d’arte, diciamo, tanto
per intenderci, tradizionale, da una forma d’arte spirituale;
- nel terzo e ultimo punto, cercherò di portare alla luce alcune idee fondamentali che sono,
secondo me, alla base di queste due Vie, proponendo di analizzare due immagini, l’una a mio
avviso speculare all’altra, il Kesa del monaco e l’abito (il Kesa) di Arlecchino.

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Allora… che cos’è questo Nuidō, questa Via del Filo?

Possiamo dire che il Nuidō è una metamorfosi in chiave spirituale del Nihon no Shishu, cioè del Ricamo
Tradizionale giapponese.

Come molte grandi Vie, orientali e non, basta pensare a Pitagora e Platone, la trasmissione della
“conoscenza”, la trasmissione della “ saggezza” del Ricamo Tradizionale, è avvenuta da Maestro ad
Allievo, solo oralmente.

Il ricamo tradizionale, come forma d’arte a se stante, nasce sicuramente in Cina ma si perde nella notte
dei tempi, probabilmente come evoluzione delle normali tecniche di cucitura degli abiti di vita
quotidiana.

In Giappone arriva nell’intorno del sesto secolo DC, cioè proprio quando si ha l’introduzione del
Buddhismo.

L’affermazione si ha durante il periodo Heian (800-1100), che fu culturalmente molto ricco, e rappresenta
il periodo nel quale si ha la massima assimilazione della cultura cinese e del buddhismo da parte delle arti
in genere, della letteratura e del teatro, e che contribuirà allo sviluppo di una raffinatissima cultura
aristocratica.

Il ricamo tradizionale spazia dagli abiti dei signori feudali, dei nobili delle corti imperiali, a quelli dei
ricchi mercanti, al mondo delle geishe, al teatro NO.

La sensibilità estetica si concentrò sulla bellezza del colore, in particolare nell’uso nella scelta e nella
loro combinazione per le vesti indossate dalle dame di corte.

Tanto per dare un’idea: i colori normalmente utilizzati erano oltre 170! e tanto per rendersi conto della
finezza estetica che fu raggiunta….il colore Kobai, “rosa-prugna” era un colore indipendente, e quello che
era detto “strato-di-rosa-prugna”, era, in sé, un colore, prodotto da due strati di colore, di cui l’esteriore
era rosa o bianco e l’interiore era il rosso scuro del legno di sappan; inoltre, il “fragrante-strato-di rosa-
prugna” era ancora un altro colore prodotto da uno strato esterno di “rosa-prugna” scuro e da uno strato
interno molto leggero.

Tutt’oggi, il ricamo tradizionale ha mantenuto una buona presenza nella società giapponese perché orna i
kimono e gli Obi da cerimonia.
L’universo tematico del Ricamo Tradizionale, come anche poi del Nuidō, è quello tipico del Sol Levante: il
mondo vegetale, il mondo animale, l’acqua, le montagne, la luna, la neve, gli oggetti della vita
quotidiana .

La rappresentazione è sempre su seta, semplice o decorata, o anche tessuta con filo d’oro e d’argento.

Ma il Ricamo Tradizionale non è il Nuidō, che è appunto una forma d’arte con risvolti spirituali: la
metamorfosi avviene in tempi lentissimi e non vi sono testi e documenti che ne attestino la fondazione.

Comunque, il motore del mutamento è sicuramente stato il buddhismo Zen, che con la sua visione
dell’uomo e dell’universo, con la sua coscienza estetica ha, a poco a poco, trasformato l’arte di
rappresentazione/di decorazione di oggetti del mondo esterno, in una pratica più profonda che può
trasformare l’artista/il ricamatore in un ricercatore.

Riguardo i centri: i luoghi ove oggi si insegna il Nuidō, bisogna dire ancora prevalentemente dal punto di
vista tecnico, sono il centro di Kurenakai in Giappone e, ancor più, il Jec, il Japanese Embrodery Center di
Atlanta.

I pilastri sui quali i Maestri giapponesi, in particolare quelli residenti negli Stati Uniti, poggiano il Nuidō
sono tre:
• razionalità: cioè la perfetta conoscenza delle 46 tecniche di ricamo, e di cui poi Stefania, se
vorrete, risponderà alle vostre domande;
• sensibilità artistica: cioè lo sviluppo dell’occhio artistico del ricercatore/ricamatore, un occhio
fatto crescere attraverso approfonditi confronti con il maestro sui colori, con tono di fondo
dell’opera, sulle sue vibrazioni più squisitamente emozionali;
• spiritualità: cioè il raggiungimento di uno stato di consapevolezza spirituale, di pace, di calma, di
armonia che può aprire la finestra all’altro versante della vita, come direbbe Nishida, al “luogo
assoluto”.

Insegnanti/Maestri certificati e iscritti in un apposito Albo Internazionale sono ormai presenti in molti
paesi sia d’occidente sia d’oriente.

Fine della storia!

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Ora… il ricamo tradizionale è, abbiamo detto, una forma d’arte; il Nuidō, una forma d’arte con valenze
spirituali, per certi versi una Via non diversa da altre più note, dall’Ikebana alla cerimonia del the, dalla
calligrafia alla cerimonia dell’incenso.

Strumento della ricerca, mezzo per, è il filo, ma non è certo quello che il filo crea… l’obiettivo… di questa
ricerca, se mi passate il termine “obiettivo” che per certi aspetti più sbagliato non ci potrebbe essere.

Perché al cuore di ogni arte spirituale, e questo è di estrema importanza, vi è la consapevolezza che
l’oggetto/l’azione che si realizza, che sia:

- i fiori recisi, e come vengono composti, come nell’Ikebana;


- i sassi, come ambientati nel Suiseki;
- la freccia scagliata dall’arciere, come nel tiro con l’arco, e dove questa va a finire;
- la tazza preparata nella cerimonia del the;
- il bastoncino bruciato nella cerimonia dell’incenso…

queste azioni/oggetti possono essere anche altro, possono cioè essere dei veicoli, veicoli di un viaggio
immobile che porta all’interno di noi stessi; e vista così, la serie di atti/azioni si configura come rito.

Come dice splendidamente il Maestro Awa a Herrigel:

“… se anche poi ogni suo tiro colpisce il bersaglio, Lei non sarebbe altro che un
virtuoso dell’arco, che può esibirsi. Per l’ambizioso, che conta quante volte fa
centro, il bersaglio non è altro che un povero pezzo di carta che egli fa a pezzi. La
“Grande Dottrina” del tiro con l’arco considera questo come pura stregoneria. Essa
non sa nulla di un bersaglio che è piantato a una certa distanza dall’arciere.
Conosce solo la meta, che non si raggiunge in alcun modo tecnicamente, e chiama
questa meta, se pur la nomina, Buddha”.

Perché, in ultima analisi, in una lettura Zen, quello che davvero si compone, si ambienta, si lancia, si
cuce, si brucia, è il nostro Essere, e qui, in queste forme più squisitamente artistiche, si può dire che si
tende anche, senza alcuna intenzione, senza alcun sforzo, a sviluppare una particolare coscienza estetica,
un’arte di vivere che ci consenta, per dirla con il Maestro Rikyu,

“di adorare il bello tra le realtà meschine dell’esistenza quotidiana”.

La mia formazione Zen mi porta a ritenere che il Nuidō, nel suo profilo, nella sua anima spirituale, possa
essere quindi uno strumento per scoprire lo strato più profondo della bellezza, attraverso l’uso dei colori;
specularmente, la cucitura del Kesa, con il suo profondo nero, cerca, io penso così, la sintesi di tutti i
colori.

Là, nel Nuidō, la rappresentazione “colorata” di ogni emozione, come in quest’opera delle foglie
d’autunno, nella quale, per riprendere le parole di Blyth,

“… ogni foglia che cade ha in sé tutto l’autunno, ogni autunno, l’autunno eterno di
ogni cosa e di tutte le cose”.

Qua, nel Kesa del monaco, il compimento finale di tutti i colori o ancor più la sublimazione e purificazione
di tutte le emozioni, realizzata da chi è penetrato nell’abisso insondabile dell’esistenza umana.

Lo Zen, a mio avviso, è la “struttura ossea” di queste forme d’arte nel loro profilo spirituale; il mondo a
cui fondamentalmente si guarda, che si osserva, qui che si cuce, è quello senza forma e senza colore della
Realtà eterna, al di là delle forme e dei colori fenomenici.

E se il Kesa del monaco è cucito con materiali poverissimi, con pezze irregolari, di diversa provenienza,
ciò è perché non solo si rifiuta ogni inutile abbellimento, ma, ancor più, perché si vuol esprimere una
povertà in senso assolutamente spirituale, una povertà materiale espressione della consapevolezza
metafisica del Vuoto Eterno o Vacuità.

Nel Nuidō spesso i materiali non sono poveri, anzi direi, quasi mai, ma quello che deve essere colto è ciò
che è oltre lo splendore esteriore del colore che viene esibito sulla tela – oltre, potremmo dire, il teatro:
perché quello che viene evocato davanti agli occhi dell’osservatore è appunto l’Eterno colorato.

In questo senso, allora, l’ago e il filo sono ben più di uno strumento tecnico, sono una sonda fisica e
metafisica, con la quale si può indagare il mondo interno e la realtà esterna, gli oggetti della mente e gli
oggetti che ci circondano, è una cometa, sì, il vostro ago e filo, che solca l’intero universo per atterrare,
infine, proprio nel punto da cui il viaggio è partito, cioè da voi stessi, dal vostro cuore, che aprendosi,
apre tutti i cuori del mondo, come quel fiore che quando si apre, come ha detto il grande maestro Zen
Yamada Mumon, porta la primavera in tutto il mondo, come quella pioggia che, quando cade, bagna tutto
il cosmo.

Quando l’ago tocca la stoffa con la quale si cuce il Kesa o si ricama un’opera Nuidō, che sia seta d’oro o la
materia meno di valore di questo mondo è assolutamente irrilevante, in quell’istante si ha un evento che
deve essere attentamente analizzato, perché vi può accadere una rivelazione, l’aprirsi di un'altra realtà,
nella quale ago, filo, seta, Kesa, voi stessi, si rivelano come Uno e allora in quell’istante il mondo
scompare e semplicemente si È, o, più propriamente, È.

Il movimento di avvicinamento dell’ago al tessuto, l’istante in cui i due si toccano, che è pensabile come
l’istante in cui la tela del ragno ferma il volo della mosca, il momento successivo in cui si allontanano,
ebbene, questi tre stadi possono essere immaginati come un cerchio, e indagati con l’intero corpo-mente,
possono essere sezionati millimetricamente, fino all’atomo e poi oltre, fino cioè a realizzare l’eterno
Vuoto che fa da fondale al Tutto.
In questo senso, io credo che un’opera di Nuidō e il Kesa da voi cucito, siano, paradossalmente, davvero
due gemelli, due manifestazioni dell’Essere eterno.

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E partendo da questa conclusione, per chiudere, voglio sviluppare un piccolo parallelismo tra due diverse
forme di Kesa.

Vi dico subito che l’immagine che mi è subito venuta in mente iniziando a pensare ad oggi, è quella di
Arlecchino, la maschera veneziana di Goldoni, e in particolare al suo vestito, potremmo dire al suo Kesa,
fatto con mille poveri pezzi di stoffa colorati.

Perché l’abito di Arlecchino, con la sua fantasmagoria di colori, può essere visto come l’immagine
speculare dell’abito del monaco zen, del monaco itinerante, con il suo profondo color nero.

L’Assoluto nero e il Relativo colorato; per dirla con una terminologia che ci è affine, nirvana e samsara, di
cui sappiamo bene l’eterna compenetrazione ontologica.

Nella pratica zen, la cucitura dell’abito è una Via di Trasmissione strettamente unita alle altre attività
potremmo dire fondamentali della pratica, e cioè lo zazen, il kinhin, il canto dei sutra, il samu (lavoro
manuale).

Il Nuidō è invece esclusivamente imperniato sulla pratica della cucitura, alla quale però il
ricercatore/artista deve porsi con un atteggiamento di assoluta concentrazione non diverso da quello del
praticante zen.

Perché cucitura del Kesa e Nuidō, abito del monaco e abito di Arlecchino, sono a loro volta, imbastiti da
un altro filo d’oro, che li avvicina e li tiene strettamente insieme, e questo filo… è il filo dello Zen.

Con l’abito del monaco, con il suo non colore, si entra nell’assoluto, nell’unicità, nella forma senza forma,
là dov’è solo vuoto, che non è assenza ma Realtà fondamentale.

Con l’abito di Arlecchino ci si immerge nella molteplicità, si può dire che si fa kinhin, là dove prima si fa
zazen.

E quando i due mondi sono stati ben esplorati con l’occhio della Mente, sappiamo bene che siamo solo a
metà dell’opera, perché ci attende la prova suprema, la capacità di vedere la dinamica nella statica, lo
zazen nel kinhin, l’Assoluto nel Relativo e viceversa.

Dobbiamo cioè realizzare la presenza del Kesa del monaco nel Kesa di Arlecchino, e il Kesa di Arlecchino in
quello del monaco.

E quando abbiamo questa profonda intuizione, sarà ben chiaro che Nuidō e cucitura del Kesa, possono
essere visti come ruote del carro dello Zen, come il carro rappresentato nell’ultima prova del training di
formazione tecnica del Nuidō, quello che è qui mostrato; un carro, quello Zen, che, immobile, conduce
alla realizzazione della natura di Buddha, un carro che trasmette il Dharma.

Chiudo davvero, e sperando di farvi cosa gradita e farvi un po’ sorridere, vi leggo l’indimenticabile
filastrocca di Rodari su Arlecchino:

Per fare un vestito ad Arlecchino


ci mise una toppa Meneghino,
ne mise un’altra Pulcinella,
una Gianduia, una Brighella.
Pantalone, vecchio pidocchio,
ci mise uno strappo sul ginocchio,
e Stenterello, largo di mano
qualche macchia di vino toscano.
Colombina che lo cucì
fece un vestito stretto così.
Arlecchino lo mise lo stesso
ma ci stava un tantino perplesso.
Disse allora Balanzone,
bolognese dottorone:
“Ti assicuro e te lo giuro
che ti andrà bene li mese venturo
se osserverai la mia ricetta:
un giorno digiuno e l’altro bolletta!”.

Grazie ancora dell’attenzione, gassho!

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