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Nevernight 1
Nevernight 1
Jay Kristoff è l’autore delle serie pluripremiate The Illuminae Files, Aurora Cycle e
Nevernight.
Ha vinto due Aurelian Awards e un ABIA, è stato finalista ai premi David
Gemmell Morningstar e Legend ed è attualmente pubblicato in oltre 25 paesi (ma
nella maggior parte di questi non ha mai messo piede). È esterrefatto da tutto ciò,
tanto quanto voi. È alto più di due metri e gli mancano circa 13.030 giorni da vivere.
Dimora a Melbourne con la moglie, agente segreto e assassina esperta di kung fu,
e il Jack Russell più pigro del mondo.
Non crede nel lieto fine.
Jay Kristoff
NEVERNIGHT
Mai dimenticare
MAI DIMENTICARE
La stanza era piccola, spoglia, l’unica cosa che lei si poteva permettere.
Ma aveva disposto le candele di rosagioia e un mazzo di gigli d’acqua su
bianche lenzuola pulite, gli angoli abbassati come per invitarlo a entrare, e
il ragazzo sorrise per tutta quella stucchevole dolcezza.
Avvicinatasi alla finestra, lei fissò l’imponente città vecchia di
Godsgrave. I marmi bianchi, i mattoni color ocra e le guglie aggraziate che
baciavano il cielo riarso dai soli. Verso nord, le Costole si sollevavano per
centinaia di piedi nell’aria vermiglia, con i loro appartamenti intagliati
all’interno di quelle antiche ossa punteggiati di minuscole finestre. I canali
scorrevano fuori dalla Dorsale cava e i loro percorsi intersecavano la pelle
della città come tele di ragni impazziti. Lunghe ombre adornavano i
marciapiedi affollati mentre la luce del secondo sole si affievoliva – il
primo era scomparso già da parecchio – lasciando il loro terzo fratello,
rosso e imbronciato, a montare la guardia sui pericoli della illuminotte.
Oh, se solo fosse stato verobuio.
In quel caso, lui non l’avrebbe vista.
Non era certa di volere che la guardasse, durante tutto questo.
Il ragazzo la seguì a passi felpati, avvolto da sudore fresco e tabacco. Le
fece scivolare le mani attorno alla cintola, le dita che scorrevano come
ghiaccio e fiamma lungo le fossette delle sue anche. Il respiro di lei divenne
più affannoso, formicolando in un punto antico e profondo. Ciglia
svolazzavano come ali di farfalla contro le sue gote mentre le mani del
ragazzo circumnavigavano l’orlo del suo ombelico per poi danzare sulle
sue costole e salire fino ad avvolgersi attorno ai suoi seni. Le si accapponò
la pelle quando lui le respirò tra i capelli. Inarcando la schiena e premendo
a sua volta contro la durezza del suo inguine, impigliò una mano tra le
ciocche scarmigliate del ragazzo. Non riusciva a respirare. A parlare. Non
voleva che tutto questo iniziasse o finisse.
Voltandosi e sospirando per un nuovo incontro fra le loro labbra, lei
armeggiò con i gemelli delle sue maniche pieghettate, un miscuglio di
pollici, sudore e fremiti. Si tolsero le camicie e la ragazza schiacciò le
proprie labbra contro le sue, affondando sul letto. Solo lui e lei, ora. Pelle
contro pelle. Lei non riusciva a capire di chi fossero i gemiti.
Il desiderio era insopportabile e la permeava tutta mentre con mani
tremanti esplorava quei pettorali lisci come cera e la decisa linea di carne
a forma di “v” che conduceva in basso, all’interno delle sue brache. Lei
fece scivolare le dita dentro e sfiorò quel calore pulsante, pesante quanto il
ferro. Terrificante. Da capogiro. Lui gemette, fremendo come un puledro
appena nato, quando la ragazza lo accarezzò, sospirandogli attorno alla
lingua.
Lei non aveva mai avuto così paura.
Mai una volta in tutti i suoi sedici anni.
«Fottimi…» sospirò.
La stanza era lussuosa, di quelle che solo i più ricchi possono permettersi.
Eppure c’erano bottiglie vuote sul cassettone e fiori appassiti sul comodino,
che emanavano l’odore stantio dello squallore. La ragazza trovò sollievo nel
vedere quest’uomo che odiava così benestante e così totalmente solo. Lo
osservò attraverso la finestra mentre appendeva la sua redingote e
appoggiava un tricorno malandato su una brocca vuota. Cercò di
convincersi che poteva farcela. Che era dura e affilata come l’acciaio.
Appollaiata sul tetto opposto, guardò in basso verso la città di
Godsgrave; verso acciottolati macchiati di sangue, cunicoli nascosti e
imponenti cattedrali di osso scintillante. Le Costole pugnalavano il cielo
sopra di lei, canali contorti scorrevano fuori dalla Dorsale storta. Lunghe
ombre adornavano i marciapiedi affollati mentre il secondo sole diventava
più flebile – il primo era scomparso già da parecchio – lasciando il loro
terzo fratello, rosso e imbronciato, a montare la guardia sui pericoli della
illuminotte.
Oh, se solo fosse stato verobuio.
In quel caso, lui non l’avrebbe vista.
Non era certa di volere che la guardasse, durante tutto questo.
Allungando dita abili, tirò a sé le ombre. Tessé e torse quei sottilissimi
fili neri fino a farli scorrere sulle sue spalle come un mantello. Scomparve
dalla vista del mondo, diventando quasi trasparente, come una macchia su
un dipinto del profilo della città. Superò con un balzo il vuoto fino al suo
davanzale e si issò sul ripiano. Aprì rapidamente il vetro e si intrufolò nella
camera dall’altra parte, silenziosa come il gatto fatto d’ombre che la
seguiva. Fece scivolare uno stiletto dalla cintura e il suo respiro divenne più
affannoso, formicolando in un punto antico e profondo. Accucciata non
vista in un angolo, le ciglia svolazzanti come ali di farfalla contro le gote, lo
osservò riempire una coppa con mani tremanti.
Stava respirando troppo rumorosamente, tutte le sue lezioni che si
confondevano dentro la testa. Ma lui era troppo intorpidito per notarla: era
perso da qualche parte nel ricordo dei cigolii di migliaia di colli appesi, di
migliaia di paia di piedi che danzavano alla melodia del boia. Le nocche
della ragazza divennero bianche sull’elsa del pugnale mentre lo osservava
dalla penombra. Non riusciva a respirare. A parlare. Non voleva che tutto
questo iniziasse o finisse.
Lui sospirò e bevve dalla coppa, armeggiando con i gemelli delle sue
maniche pieghettate, un miscuglio di pollici, sudore e fremiti. Si tolse la
camicia, barcollò sopra le assi del pavimento e affondò sul letto. Solo lui e
lei, ora, respiro dopo respiro. Lei non riusciva a capire da chi provenissero.
La pausa era insopportabile, e lei era madida di sudore mentre l’oscurità
rabbrividiva. Ricordò chi era, cosa le aveva portato via quest’uomo, tutto
ciò che si sarebbe dipanato se lei avesse fallito. E facendosi coraggio, gettò
via il suo manto d’ombra e gli andò incontro.
Lui sussultò, fremendo come un puledro appena nato quando la ragazza
si mostrò alla soliluce rossa, il sorriso di una maschera al posto del suo.
Lei non aveva mai visto qualcuno avere così paura.
Mai una volta in tutti i suoi sedici anni.
«Sono fottuto…» sospirò lui.
Soliluce tenue sulla sua pelle. Capelli corvini madidi di sudore che le
pendevano davanti agli occhi. Si tirò su le brache di cuoio, si infilò dalla
testa una camicia grigio malta e si mise stivali di pelle di lupo. Stanca.
Macchiata. Ma in qualche modo lieta per questo. Quasi felice.
«La stanza è pagata per l’illuminotte» gli disse. «Se la vuoi.»
Il deliziante la osservava dall’altro lato del letto, la testa sul gomito.
«E i miei soldi?»
Lei indicò un borsello accanto allo specchio.
«Sei più giovane delle mie solite clienti» le disse. «Non mi capitano
molte vergini.»
Allora lei si guardò nello specchio, la carnagione pallida e gli occhi
scuri. Sembrava più giovane della sua età. E anche se la prova del
contrario si stava seccando sulla sua pelle, per un attimo trovò comunque
difficile pensare a se stessa come qualcosa di più di una ragazza. Qualcosa
di debole e tremante, qualcosa che sedici anni in questa città non erano
riusciti a temprare.
Si rimboccò la camicia nelle brache. Controllò la maschera da
Arlecchino nel mantello. Lo stiletto alla cintura: affilato e luccicante.
Il boia avrebbe lasciato presto la taverna.
«Devo andare» disse.
«Posso chiederti una cosa, Mea Domina?»
«… Chiedi.»
«Perché io? Perché ora?»
«Perché no?»
«Questa non è una risposta.»
«Pensi che avrei dovuto preservarmi, non è così? Che io sia un dono da
elargire? E che adesso sarò per sempre guasta?»
Il ragazzo non disse nulla e la fissò con quegli occhi profondissimi.
Grazioso come un ritratto. La ragazza prese un sigaretto da una custodia
d’argento. Lo accese su una delle candele e inspirò a fondo.
«Volevo solo sapere com’era» disse infine. «Nel caso morissi.»
Scrollò le spalle ed esalò fumo grigio.
«Ora lo so.»
E si avviò nelle ombre.
Soliluce tenue sulla sua pelle. Un mantello grigio malta che le ricadeva
lungo le spalle, rendendola un’ombra nella luce imbronciata. Era in piedi
sotto un arco marmoreo nella piazza del Re Mendicante, il terzo sole
sospeso senza volto nel cielo. Ricordi della fine del boia si seccavano nelle
macchie di sangue sulle mani. Ricordi delle labbra del deliziante si
seccavano con le macchie sulle sue brache. Stanca. Sospirante. Ma in
qualche modo lieta per questo. Ancora quasi felice.
«Non sei morta, vedo.»
Il vecchio Mercurio la osservava dall’altro lato dell’arco, il tricorno
abbassato e un sigaretto tra le labbra. Sembrava più piccolo, in qualche
modo. Più magro. Più vecchio.
«Non perché siano mancate le occasioni» replicò la ragazza.
Allora lo guardò: aveva mani chiazzate e occhi sbiaditi. Più vecchio
della sua età anagrafica. E anche se la prova del contrario si stava
incrostando sulla sua pelle, per un attimo trovò comunque difficile pensare
a se stessa come qualcosa di più di una ragazza. Qualcosa di debole e
tremante, qualcosa che sei anni sotto la sua tutela non erano riusciti a
temprare.
«Non ti vedrò per molto tempo, vero?» chiese lei. «Forse mai più.»
«Lo sapevi» replicò lui. «L’hai scelto tu.»
«Non sono sicura che ci sia mai stata una scelta» ribatté la ragazza.
Aprì il pugno, rivelando un borsello di pelle di pecora nel palmo. Il
vecchio prese l’offerta, contando il contenuto con un dito macchiato
d’inchiostro. Tintinnanti. Macchiati di sangue. Ventisette denti.
«Pare che il boia ne abbia persi alcuni prima che lo eliminassi» spiegò
lei.
«Capiranno.» Mercurio lanciò di nuovo i denti alla ragazza. «Fatti
trovare al molo diciassette per la sesta campana. Un brigantino dweymeri
chiamato Spasimante di Trelene. È una nave libera, non batte i colori di
Itreya. Sarà quella a trasportarti.»
«Dove tu non potrai seguirmi.»
«Ti ho addestrata bene. Ora sta solo a te. Varca la soglia della Chiesa
Rossa prima del primo cambio di Septimus, oppure non la varcherai
affatto.»
«… Capisco.»
Gli occhi umidi di Mercurio scintillarono d’affetto. «Sei l’allieva
migliore che abbia mai mandato al servizio della Madre. Lì spalancherai le
ali e volerai. E mi vedrai di nuovo.»
La ragazza estrasse lo stiletto dalla cintura. Glielo porse sul proprio
avambraccio, il capo chino. La lama era fatta di necrosso, di un bianco
scintillante e dura come acciaio, l’elsa intagliata come un corvo in volo.
Occhi rosso ambra scintillavano nella soliluce.
«Tienila.» Il vecchio tirò su col naso. «L’arma è di nuovo tua. Te la sei
guadagnata. Finalmente.»
Lei esaminò il coltello, da entrambi i lati.
«Dovrei darle un nome?»
«Suppongo che potresti. Vuoi una dritta?»
«Ma questa lo è già.» Passò la mano sulla lama. «Per infilzarli è meglio
di una curva.»
«Ma che brava. Sta’ attenta a non farti male con quel tuo umorismo così
tagliente.»
«Tutte le grandi lame hanno un nome. È così che funziona.»
«Balle.» Mercurio riprese il pugnale e lo tenne sollevato in mezzo a loro.
«Dare un nome alla tua lama è il genere di futilità riservata agli eroi,
ragazza. Uomini su cui si cantano ballate, si intessono storie e da cui
prendono il nome i marmocchi. Tu e io percorriamo la strada dell’ombra. E
se la danzi nel modo giusto, nessuno saprà mai il tuo nome, tanto meno
dell’infilza-porci che hai alla cintura.
«Sarai una diceria. Un sussurro. Il pensiero che fa svegliare i bastardi di
questo mondo madidi di sudore nell’illuminotte. L’ultima cosa che sarai
mai, ragazza, è l’eroe di qualcuno.»
Mercurio le riconsegnò la lama.
«Ma sarai una ragazza che gli eroi temeranno.»
Lei sorrise. Improvvisamente e terribilmente triste. Si attardò per un
momento. Si sporse più vicino e omaggiò guance ruvide con un bacio
gentile.
«Mi mancherai» disse.
E si avviò nelle ombre.
CAPITOLO 2
MUSICA
Qualcosa la seguì da quel posto. Il luogo sopra la musica dove suo padre
era morto. Qualcosa di affamato. Una cieca, larvale consapevolezza,
sognando di spalle incoronate con ali trasparenti. E sarebbe stata lei a
donarle.
La ragazzina si accasciò su un letto principesco nelle camere di sua
madre, le gote umide di lacrime. Suo fratello era steso accanto a lei,
avvolto in fasce, che sbatteva le palpebre sui suoi occhioni neri. Il neonato
non capiva nulla di ciò che gli stava accadendo attorno. Era troppo
giovane per sapere che suo padre era morto, e tutto il mondo con lui.
La ragazzina lo invidiava.
I loro appartamenti si trovavano in alto nella cavità della seconda
Costola, con fregi elaborati intagliati nelle pareti di antico necrosso.
Guardando fuori dalla finestra principale, lei poteva vedere la terza e la
quinta Costola di fronte, che torreggiavano sopra la Dorsale centinaia di
piedi più in basso. I venti dell’illuminotte ululavano attorno alle torri
pietrificate, portando il fresco dalle acque della baia.
C’era un’opulenza tale che si estendeva fino al pavimento: tutto velluto
riccio rosso e opere d’arte dai quattro angoli della Repubblica di Itreya.
Sculture mekana semoventi dal Collegio di Ferro. Arazzi da milioni di punti
intessuti dai profetizzatori ciechi di Vaan. Un candeliere di puro cristallo
dweymeri. Le domestiche mulinavano in un ciclone di abiti morbidi e
lacrime che si asciugavano, e nell’occhio c’era la Domina Corvere, che
ordinava loro di muoversi, muoversi, per l’amore di Aa, muoversi.
La ragazzina era seduta sul letto accanto a suo fratello. Un gatto nero
faceva piano le fusa, premuto contro il suo petto. Ma quando vide un’ombra
più intensa ai piedi della tenda, si gonfiò e soffiò. Conficcò gli artigli nella
mano della ragazza e lei lo gettò sul cammino di una domestica in arrivo,
che cadde con uno strillo. Domina Corvere si voltò verso sua figlia, con
aria regale e furibonda.
«Mia Corvere, tieni quel sudicio animale fuori dai piedi o lo
abbandoneremo qui!»
E così, semplicemente, abbiamo il suo nome.
Mia.
«Capitan Pozzanghere non è sporco» disse Mia, quasi fra sé. a
Un ragazzo sulla quindicina entrò nella stanza, rosso in viso per aver
corso su per le scale. Sul suo farsetto era ricamato lo stemma della Familia
Corvere: un corvo nero in volo contro un cielo rosso, spade incrociate di
sotto.
«Mea Domina, perdonatemi. Il console Scaeva ha richiesto…»
Un pesante rumore di passi mise a freno la sua lingua. Le porte si
spalancarono e la camera si riempì di uomini in armatura nivea e
pennacchi cremisi sugli elmi; erano chiamati Luminatii, come potreste
rammentare. Alla piccola Mia ricordarono suo padre. Li guidava l’uomo
più grosso che avesse mai visto, con una barba curata a incorniciare
fattezze lupesche e un istinto animale che scintillava nello sguardo.
Tra i Luminatii c’era il console attraente con gli occhi neri e le vesti
porpora; era l’uomo che aveva dichiarato “… Morte” e sorriso mentre il
pavimento scompariva sotto i piedi di suo padre. I servitori si dileguarono
sullo sfondo, lasciando la madre di Mia come una figura solitaria in mezzo
a quel mare di neve e sangue. Alta, bellissima e completamente sola.
Mia scese dal letto, scivolò al fianco di sua madre e le prese la mano.
«Domina Corvere.» Il console si coprì il cuore con dita tempestate di
anelli. «Vi offro le condoglianze in questo momento di difficoltà. Che il
Semprevigile vi mantenga sempre nella Luce.»
«La vostra generosità mi confonde, console Scaeva. E che siate
benedetto per la vostra gentilezza.»
«Sono davvero addolorato, Mea Domina. Il vostro Darius ha servito la
Repubblica con distinzione prima di cadere in disgrazia. Un’esecuzione
pubblica è sempre una faccenda vergognosa. Ma cos’altro si può fare con
un generale che marcia contro la sua stessa capitale? O con il tribuno che
avrebbe posato una corona sulla testa di quel generale?»
Il console fece spaziare lo sguardo per la stanza, notando le domestiche,
i bagagli e il trambusto.
«Ci state lasciando?»
«Vado a far seppellire il corpo di mio marito a Crow’s Nest, nella cripta
della sua familia.»
«Avete chiesto il permesso al tribuno Remus?»
«Mi congratulo con il nostro nuovo tribuno per la sua promozione.»
Lanciò un’occhiata al tipo lupesco. «Il mantello di mio marito gli si addice.
Ma perché avrei bisogno che fosse lui a concedermi il passaggio?»
«Non il permesso di lasciare la città, Mea Domina. Quello di seppellire
il vostro Darius. Non sono certo che il tribuno Remus desideri che il
cadavere di un traditore marcisca nel suo scantinato.»
Sul volto della domina spuntò un’ombra di comprensione. «Non
osereste…»
«Io?» Il console alzò un sopracciglio cesellato. «Questa è la volontà del
senato. Il tribuno Remus è stato ricompensato con i possedimenti del vostro
defunto marito per aver scoperto il suo infame complotto contro la
Repubblica. Qualunque leale cittadino lo considererebbe un tributo
adeguato.»
Gli occhi della domina scintillarono con aria omicida. Lanciò
un’occhiata alle domestiche che indugiavano nella stanza.
«Lasciateci.»
Le servitrici si precipitarono fuori dalla camera. Con un’occhiata ai
Luminatii, Domina Corvere puntò uno sguardo tagliente verso il console. A
Mia parve che la sicurezza dell’uomo vacillasse, ma alla fine lui rivolse un
cenno del capo al tizio lupesco.
«Aspettatemi fuori, tribuno.»
L’imponente Luminatii osservò sua madre. Poi abbassò gli occhi sulla
ragazza. Mani tanto grandi da avvolgere la sua intera testa fremettero. La
ragazza ricambiò lo sguardo.
Mai tirarsi indietro. Mai avere paura.
«Luminus Invicta, console.» Remus annuì ai suoi uomini e, tra il
calpestio sincronizzato di stivali pesanti, la stanza si ritrovò completamente
vuota salvo tre persone. b
La voce di Domina Corvere era come un coltello appena affilato in un
frutto troppo maturo.
«Cosa vuoi, Julius?»
«Lo sai benissimo, Alinne. Voglio ciò che è mio.»
«Hai già ciò che è tuo. La tua vittoria vuota. La tua preziosa
Repubblica. Spero che ti tenga al caldo la notte.»
Il console Julius abbassò lo sguardo su Mia, il suo sorriso scuro come
lividi. «Ti piacerebbe sapere cosa mi tiene al caldo la notte, piccolina?»
«Non guardarla. Non parlar…»
Il suo schiaffo le fece balzare la testa da una parte, i capelli scuri che
ondeggiavano come nastri a brandelli. E prima che Mia potesse sbattere le
palpebre, sua madre estrasse una lunga lama di necrosso dalla manica,
l’elsa con la forma di un corvo dagli occhi di ambra rossa. Rapida come un
fulmine, la premette contro la gola del console; ringhiò e l’impronta della
mano sul suo volto si deformò.
«Toccami di nuovo e ti taglierò quella gola fottuta, figlio di puttana.»
Scaeva non sussultò.
«Puoi togliere la ragazza dai bassifondi, ma non i bassifondi dalla
ragazza.» Sorrise con quei denti perfetti e lanciò un’occhiata a Mia. «Ma
conosci il prezzo che i tuoi cari pagherebbero se spingessi più a fondo
quella lama. I tuoi alleati politici ti hanno abbandonato. Romero.
Juliannus. Gracius. Perfino Florenti in persona è fuggito da Godsgrave. Sei
da sola, bellezza mia.»
«Non sono la tua…»
Scaeva colpì lo stiletto con un ceffone, mandandolo a slittare lungo il
pavimento fino all’ombra sotto la tenda. Si avvicinò e strinse gli occhi.
«Dovresti invidiare il tuo caro Darius, Alinne. Gli ho mostrato pietà. A
te non farò dono del boia. Solo una segreta nella Pietra Filosofale e
oscurità per tutta la vita. E quando diventerai cieca al buio, la dolce Madre
Tempo rivendicherà la tua bellezza e la tua volontà, assieme all’esile
convinzione di essere mai stata qualcosa di più di merda liisiana avvolta in
seta itreyana.»
Le loro labbra erano tanto vicine che quasi si toccavano. Gli occhi del
console scrutavano i suoi.
«Ma risparmierò la tua famiglia, Alinne. Se implorerai che lo faccia.»
«Ha dieci anni, Julius. Tu non le faresti…»
«Ah no? Mi conosci così bene, dunque?»
Mia guardò sua madre. Lacrime sgorgavano dai suoi occhi.
«Cosa mi avevi detto, Alinne? “Neh diis lus’a, lus diis’a”?»
«… Madre?» disse Mia.
«Una parola e tua figlia sarà al sicuro. Lo prometto.»
«Madre?»
«Julius…»
«Sì?»
«Io…»
A Vaan esiste una razza di aracnidi nota come ragno sorgivo.
Le femmine sono nere come verobuio e possiedono l’istinto materno più
stupefacente della repubblica animale. Una volta fecondata, la femmina
costruisce una dispensa, la riempie di cadaveri, poi si sigilla all’interno. Se
viene dato fuoco al nido, lei preferisce morire piuttosto che abbandonarlo.
Se viene assalita da un predatore, morirà per difendere la sua covata. Ma il
suo rifiuto di lasciare i suoi piccoli è così feroce che essa, una volta deposte
le uova, non si muove più, nemmeno per cacciare. Ma il vero motivo per cui
la femmina di ragno sorgivo rivendica il titolo di madre più feroce della
Repubblica è questo: una volta divorate tutte le scorte nella dispensa, la
femmina comincia a divorare se stessa.
Una zampa alla volta.
Si stacca gli arti dal torace, mangiando solo quanto basta per sostentare
la propria veglia. Strappa e mastica finché non resta solo una zampa,
aggrappata al tesoro serico che si gonfia sotto di lei. E quando i piccoli
nascono e fuoriescono dai fili dentro i quali lei li ha avvolti con così tanto
amore, allora condividono lì il loro primo pasto.
La madre che li ha generati.
Ora io vi dico, gentili amici, e vi giuro che è vero, che il ragno sorgivo
più feroce di tutta la Repubblica non aveva nulla – ripeto nulla – da
invidiare ad Alinne Corvere.
Lì in quella piccolissima stanza, Mia percepì sua madre stringere i
pugni.
L’orgoglio le fece serrare la mascella.
I suoi occhi scintillarono per la sofferenza.
«Per favore» sibilò infine la domina, come se le parole stesse la
bruciassero. «Risparmiala, Julius.»
Un sorriso di vittoria, luminoso come tutti e tre i soli. L’attraente
console indietreggiò senza che quegli occhi neri lasciassero quelli di sua
madre. Con le vesti che gli ondeggiavano attorno come fumo, raggiunse
una porta e chiamò. E senza una parola, i Luminatii rientrarono nella
stanza. Quello lupesco strappò Mia dalle gonne di sua madre. Capitan
Pozzanghere gnaulò in segno di protesta. Mia strinse forte l’animale, con le
lacrime che le bruciavano gli occhi.
«Smettila! Non toccare mia madre!»
«Domina Corvere, io vi vincolo con libro e catena per crimini di
cospirazione e tradimento contro la Repubblica di Itreya. Ci
accompagnerete alla Pietra Filosofale.»
Dei ceppi furono schiaffati attorno ai polsi della domina, avvitati tanto
stretti da farla sussultare. Il soldato lupesco si voltò verso il console e
lanciò un’occhiata a Mia con espressione interrogativa.
«I bambini?»
Il console guardò il piccolo Jonnen, avvolto in fasce sul letto.
«Il bimbo è ancora un lattante. Può accompagnare sua madre alla
Pietra.»
«E la ragazza?»
«Hai promesso, Julius.» Domina Corvere si dibatté nella stretta dei
Luminatii. «Hai giurato!»
Scaeva si comportò come se la donna non avesse parlato. Guardò Mia,
che singhiozzava ai piedi del letto, con Capitan Pozzanghere avvinghiato al
suo piccolo petto.
«Tua madre ti ha mai insegnato a nuotare, piccolina?»
Una settimana senza alcun segno, alcuna parola, alcun sussurro tranne i
venti dalle regioni aride.
L’equipaggio della Spasimante di Trelene rimase a bordo della nave
mentre faceva rifornimento e gli uomini fruivano sovente dei servizi della
cittadina. Un’illuminotte tipica cominciava con un pasto al Vecchio
Imperiale, una sortita nelle braccia di Domina Amile e delle sue
“danzatrici” nel locale dall’appropriato nome di Sette Sapori, i prima di
tornare all’Imperiale per una sessione di liquori, canzoni e l’occasionale
combattimento amichevole con i coltelli. Solo un dito fu tagliato durante
tutta la loro permanenza. Il suo proprietario lo perse con allegria.
Mia sedeva in un angolo buio con i denti del boia chiusi nel borsello sul
legno davanti a lei. I suoi occhi si spostavano sull’uscio ogni volta che
cigolava. Di tanto in tanto mangiava una ciotola del chili
sorprendentemente piccante (e, doveva ammettere, delizioso) di Daniio il
Grasso che lui chiamava “il crea-vedove”, e il suo cipiglio si accentuava
sempre più man mano che si avvicinava il cambio in cui la Spasimante
sarebbe ripartita.
Mercurio poteva essersi sbagliato? Erano passati anni dall’ultima volta
in cui aveva inviato un apprendista alla Chiesa Rossa. Forse quel posto era
stato inghiottito dal deserto? Forse i Luminatii li avevano finalmente
annientati, come aveva giurato di fare il tribuno Remus dopo il Massacro
del Verobuio?
“E forse tutto questo è una prova. Per vedere se scapperai come una
bambina spaventata…”
All’arrivo di ogni illuminotte curiosava per l’abitato, origliando alle
porte, quasi invisibile sotto il suo manto d’ombra. Giunse a conoscere fin
troppo bene i residenti di Ultima Spes. La veggente che prediceva il futuro
alle donne della cittadina, interpretando segni da un tomo avvizzito scritto
in ashkahi che in realtà non sapeva leggere. Lo schiavetto dei Sette Sapori
che progettava di uccidere la tenutaria e fuggire nel deserto.
I legionari Luminatii di stanza nella torre della guarnigione erano i
soldati più miseri che Mia avesse mai incontrato. Due dozzine di uomini ai
margini della civiltà, solo poche lame di solacciaio tra loro e gli orrori delle
Frusciaride ashkahi. Si diceva che i venti che soffiavano dalle rovine del
vecchio impero facessero impazzire gli uomini, ma Mia era certa che con
quei legionari ci sarebbe riuscita molto prima la noia. Parlavano
costantemente di casa, di donne, dei peccati che avevano commesso per
finire relegati nel buco del culo della Repubblica. j Dopo una settimana, Mia
era stanca morta di tutti loro. E nessuno diceva una parola sulla Chiesa
Rossa.
Sette cambi dopo essere arrivata a Ultima Spes, Mia se ne stava seduta a
guardare l’equipaggio della Spasimante sigillare la stiva, e ad ascoltare le
loro urla sguaiate a causa del grog. Parte di lei avrebbe voluto
semplicemente intrufolarsi a bordo mentre prendevano il largo. Tornare a
casa da Mercurio. Ma la verità era che era arrivata troppo lontano per
arrendersi adesso. Se la Chiesa si aspettava che lei se ne andasse con la
coda tra le gambe al primo ostacolo, be’, non la conoscevano affatto.
Seduta sul tetto del Vecchio Imperiale, con un sigaretto ai chiodi di
garofano tra le labbra, osservò la Spasimante salpare dalla baia. I venti
fruscianti giungevano dalle regioni aride dietro di lei, informi come sogni.
Lanciò un’occhiata al gatto che non era un gatto, seduto nella lunga ombra
che i soli proiettavano per lei. La sua voce era il bacio di velluto sulla pelle
di un neonato.
«… tu hai paura…»
«Questo dovrebbe soddisfarti.»
«… mercurio non ti avrebbe mandato qui invano…»
«Sono anni che i Luminatii tentano di distruggere la Chiesa. Il Massacro
del Verobuio ha cambiato le regole del gioco.»
«… se fosse successo loro qualcosa di male, rimarrebbero delle
tracce…»
«Proponi di andare nelle Frusciaride a dare un’occhiata?»
«… o quello, o aspettare qui, o tornare a casa…»
«Nessuna delle alternative è molto attraente.»
«… sono certo che l’offerta di lavoro di daniio il grasso è ancora
valida…»
Mia rispose con un sorriso appena accennato. Tornò a guardare il mare,
osservando la soliluce scintillare e rifrangersi sulle onde digrignanti. La
ragazza fece una lunga tirata ed esalò pennacchi di fumo grigio.
«… mia…?»
«Sì?»
«… non c’è bisogno di avere paura…»
«Non ce l’ho.»
Una pausa, riempita dal fruscio del vento.
«… non c’è neanche bisogno di mentire…»
a. Come probabilmente sospettate, il gatto era stato chiamato così perché gli piaceva urinare fuori
dalle zone designate, un nome tollerato da sua madre e approvato in modo fragoroso dal suo
defunto padre.
b. Capitan Pozzanghere era nascosto sotto il letto, a leccarsi le zampe impolverate. Il suddetto
qualcosa indugiava ancora sotto le tende.
c. Ormai aveva imparato a riconoscere la musica.
d. Quel dubbio onore apparteneva alla Rosa Solitaria, una casa di piacere della zona portuale di
Godsgrave, frequentata da pazzi sifilitici e galeotti appena rilasciati, gestita da una tenutaria
vaaniana così malata che si riferiva con affetto alle proprie parti basse come “la genera-orfani”.
e. L’unico uomo di Ultima Spes che sapeva come suonarlo – un tombarolo locale soprannominato
Paulo il Blu – era stato trovato appeso alle travi della sua stanza due estati prima. Che la sua morte
fosse dovuta a suicidio o alla protesta di un altro ospite particolarmente avverso alla musica di
clavicembalo fu un argomento molto dibattuto ma poco investigato nelle settimane che seguirono
la sua morte/il suo omicidio.
f. Le monete della Repubblica si dividevano in tre tipi: le meno preziose erano di rame, quelle
mediane di ferro e quelle più preziose erano d’oro. Le monete d’oro erano rare quanto esattori
delle tasse simpatici e molti popolani non posavano mai gli occhi su una di esse in tutta la loro
vita.
Il conio itreyano in origine era chiamato “sovrane”, ma vista la propensione itreyana a uccidere
brutalmente i loro monarchi, il termine era caduto in disuso da decenni. Ora ci si riferiva a volte ai
pezzi di rame come “mendicanti” e a quelli d’argento come “preti” dal momento che quelle erano
le persone che abitualmente li maneggiavano con maggior entusiasmo. Non c’era nessun termine
gergale comunemente accettato per le monete d’oro: chiunque fosse abbastanza ricco da
possederle, probabilmente non era tipo da apprezzare i nomignoli. O da maneggiare il proprio
denaro.
Perciò, per amor di discussione, chiamiamoli coglioni dorati.
g. Non era presente nessun arcobaleno nella stanza al momento.
h. Non la possedeva, anche se Daniio il Grasso doveva al capitano una grossa somma, debito
contratto durante un litigio tra ubriachi sull’aerodinamica dei maiali e la distanza dal Vecchio
Imperiale fino alla stalla dall’altra parte della strada. Il debito, che avrebbe assunto la forma di una
sessione prolungata di… piacere orale per l’equipaggio della Spasimante di Trelene (che a quanto
pareva Daniio avrebbe eseguito stando sulla verticale e con il culo dipinto di blu) doveva ancora
essere incassato, ma quella minaccia aleggiava pesante nell’aria ogni volta che la Spasimante e il
suo equipaggio erano nel porto.
i. Ragazzo, Ragazza, Uomo, Donna, Maiale, Cavallo e, con sufficiente preavviso e denaro a
disposizione, Cadavere.
j. Insubordinazione o comportamento ubriaco e molesto erano i più comuni, anche se un legionario
era stato assegnato ad Ashkah per aver ucciso il cuoco della sua coorte dopo che gli era stato
servito manzo in salamoia come ultimopasto per non meno di 342 illuminotti consecutive.
“Cosa ti costa” aveva ruggito “servire [pugnalata] un po’ di fottuta [pugnalata] insalata?”
k. Oh, guarda, c’è del buono in lei! Via con il crescendo di violiiiiiiini!
l. Oh, molto bene. Alcune nozioni basilari, se me lo permettete.
In tutte le religioni dev’esserci un avversario. Male per il bene. Nero per il bianco. Per la gente
della Repubblica, questo ruolo è rappresentato da Niah, Dea della notte, Nostra Signora
dell’omicidio benedetto, sorellamoglie di Aa, anche nota (come senza dubbio avrete intuito) con il
nome di Mannaia.
All’inizio, il matrimonio di Niah e Aa fu felice. Facevano l’amore all’alba e al crepuscolo, poi
si ritiravano nei rispettivi domini, condividendo in parti uguali il dominio del cielo. Temendo un
potenziale rivale, Aa ordinò a Niah di non partorire alcun figlio e, diligentemente, la Notte diede
alla Luce quattro figlie: Tsana, la Signora del fuoco, Keph, la Signora della terra, e infine le
gemelle Trelene e Nalipse, le Signore di oceani e tempeste, rispettivamente. Comunque, a Niah
mancava suo marito nelle lunghe e fredde ore di oscurità, così, per alleviare la sua solitudine,
scelse di procreare un bambino. La Notte chiamò suo figlio Anais.
Aa, però, fu indignato per la disobbedienza della moglie. Come punizione, Niah fu esiliata dal
cielo. Sentendosi tradita, Niah giurò vendetta contro Aa, e non parla con lui da allora. Aa stesso
porta ancora il broncio per tutta la faccenda.
E cosa ne fu di Anais?, potreste chiedere. Il rivale che Aa giustamente temeva?
Ma questo, gentili amici, vorrebbe dire rovinare la sorpresa.
CAPITOLO 4
GENTILEZZA
a. Quando risiede a Godsgrave, l’aristocrazia della Repubblica abita nelle suddette Costole e conduce
i propri affari nelle viscere cavernose della spina, da cui il termine “midollani”. Il prestigio deriva
dalla vicinanza alla prima Costola, in cui abitano il senato itreyano e i consoli eletti per governarli.
A nord della prima Costola c’è il Foro, costruito nel punto in cui potrebbe esserci stato il Cranio.
Dico “potrebbe”, gentili amici, poiché il Cranio stesso manca.
b. Il motto della Legione dei Luminatii, gentili amici. “La Luce prevarrà sempre.”
c. «Oh, intend la Mannaaaaia.»
d. I preti del Collegio Itreyano di Ferro sono iniziati all’ordine dopo il loro secondo verobuio e la loro
predisposizione viene misurata nell’Ars Machina. Ai ragazzi non viene insegnato né a leggere né a
scrivere. Alla vigilia del loro quinto verobuio, quelli ritenuti degni di servire vengono portati in
una stanza luminosissima nel cuore del Collegio. Qui, tra l’odore di catrame che brucia e la
bellezza mozzafiato del coro del collegio, recitano i loro voti e poi vengono privati delle loro
lingue con un paio di cesoie di ferro incandescenti. I segreti della costruzione e della
manutenzione dei guerrieri ambulanti sono quelli conservati più gelosamente di tutta la
Repubblica – insegnati facendo, senza parlare – e il clero prende molto sul serio il proprio voto di
silenzio.
Per quelli di voi dotati di un cuore più tenero, può confortarvi il fatto che i preti non
contraggono voti di celibato. Sono liberi di partecipare a tutti i piaceri della carne, anche se la
mancanza di lingua può rivelarsi un ostacolo nella ricerca di una moglie.
Benché questo, diciamolo, li renda una compagnia eccellente a cena.
e. Pur essendo tristemente privati dell’oscurità, molti cittadini della Repubblica hanno comunque
bisogno di dormire e, a prescindere dalla stagione, il passaggio dalle ore della veglia è segnato da
un cambio nel clima di Itreya. Quando si avvicina l’illuminotte, i venti si alzano dagli oceani
occidentali e soffiano sulla Repubblica, portando nella loro scia un clemente abbassamento della
temperatura. Dato che è più facile dormire quando il clima è fresco, questo cambio viene inteso da
molti come il segnale per mettere la testa sul cuscino, sul fieno o sul selciato, a seconda del
proprio stato di ebbrezza. I venti scemano lentamente e riprendono circa ventiquattr’ore dopo. Si
dice che siano un dono di Nalipse, la signora delle tempeste, che prova pietà per la terra e le
persone ustionate dalla luce quasi costante di suo padre.
Pertanto, il termine “cambio” viene usato dagli Itreyani per indicare un ciclo di sonno e veglia.
Ci sono sette cambi in una settimana e trecentocinquanta cambi in un anno stagionale. Una
stranezza del linguaggio, certo, ma necessaria in una terra in cui i giorni veri e propri durano due
anni e mezzo alla volta e le feste di compleanno sono un piacere che solo i più ricchi possono
permettersi.
f. Ogni tanto, e spesso con suo disappunto, l’orgoglio da midollana che ancora le restava si insinuava
attraverso la sua facciata attentamente studiata da menefreghista. Puoi togliere la ragazza dai
bassifondi, ma non i bassifondi dalla ragazza. Tristemente, lo stesso vale per i lustrini.
g. Oh, smettetela di ridacchiare e crescete.
CAPITOLO 5
COMPLIMENTI
La ragazzina schizzò per viuzze strette, sopra ponti e sotto scale, le mani
incrostate di rosso. Quel qualcosa la seguiva, addensato nell’oscurità ai
suoi piedi mentre percuotevano con forza il selciato crepato. Non aveva
idea di cosa potesse essere o volere… sapeva solo che l’aveva soccorsa e
che senza quell’aiuto lei sarebbe morta come suo padre.
occhi aperti
gambe scalcianti
gorgoglio
Mia scacciò le lacrime, chiuse le mani a pugno e corse. Riusciva a
sentire lo strangola-cuccioli e il suo amico che la inseguivano, urlando e
imprecando. Ma lei era agile, veloce e disperatamente spaventata: la paura
le metteva le ali ai piedi. Corse per stradine che piegavano a gomito e
sopra canali congestionati fino a quando, finalmente, non strisciò giù lungo
il muro di un vicolo, stringendosi la fitta che sentiva al fianco.
Era al sicuro. Per adesso.
Accasciata con le gambe piegate sotto di sé, cercò di ricacciare indietro
le lacrime come le aveva insegnato sua madre. Ma erano molto più grandi
di lei, e le tenne a bada finché non riuscì più a fermarle. Tremò e
singhiozzò, il volto sporco di moccio tra mani rosse, troppo rosse.
Suo padre era stato impiccato come traditore sotto lo sguardo del Gran
cardinale in persona. Sua madre era in catene. I possedimenti della Familia
Corvere erano stati dati a quell’orrendo tribuno Remus che aveva spezzato
il collo di Capitan Pozzanghere. E Julius Scaeva, console del senato
itreyano, aveva ordinato di affogarla nei canali come un micino
indesiderato.
Il suo intero mondo era andato in pezzi in un solo cambio.
«Le Figlie mi salvino…» mormorò.
Mia vide l’ombra sotto di lei muoversi. Incresparsi, come se fosse acqua,
e come se lei stessa fosse una pietra che vi era stata gettata. Stranamente,
non era spaventata: la paura dentro di lei era defluita attraverso invisibili
fori dalle piante dei piedi. Non avvertiva alcuna sensazione di minaccia,
nessun timore infantile di mostri innominabili sotto il letto a farla
rabbrividire. Ma percepì di nuovo quella presenza – o meglio, una
mancanza di qualunque presenza – raggomitolata nella sua ombra sulla
pietra sotto di lei.
«Salve di nuovo» sussurrò.
Avvertì quella cosa che era nulla. Nella testa. Nel petto. Seppe che le
stava sorridendo, un’espressione amichevole che avrebbe potuto arrivare
fino ai suoi occhi, se solo li avesse avuti. Si insinuò nella sua manica e
trovò lo stiletto insanguinato che le aveva dato.
Il dono che le aveva salvato la vita.
«Cosa sei?» bisbigliò lei all’oscurità ai suoi piedi.
Nessuna risposta.
La cosa fremette.
Aspettando.
Aspet
tando.
«Sei carino» affermò Mia. «Anche il tuo nome dovrebbe essere carino.»
Un altro sorriso. Nero ed entusiasta.
Anche lei sorrise.
E decise.
«Messer Cortese» disse lei.
Stando alla targa sopra la sua stalla, il nome dello stallone era CAVALLERIA ,
ma Mia l’avrebbe conosciuto semplicemente come “Bastardo”.
Dire che lei non nutriva affetto per i cavalli è come dire che i castroni
non hanno affetto per i coltelli. Essendo cresciuta a Godsgrave, non aveva
avuto molto bisogno di quegli animali, e in effetti erano un modo
sgradevole di viaggiare, malgrado quello che possono dire i vostri poeti.
L’odore è simile a un bel gancio destro su un naso già rotto, il tributo sulle
parti sensibili del cavaliere si misura più spesso in vesciche che in lividi, e
inoltre viaggiare su zoccoli non è molto più rapido che viaggiare a piedi. E
tutti questi problemi si accumulano se un cavallo si sente importante. Cosa
che, purtroppo, Cavalleria faceva.
Lo stallone apparteneva al centurione della guarnigione, un membro
midollano della legione dei Luminatii di nome Vincenzo Garibaldi. Era un
purosangue, nero come i polmoni di uno spazzacamino. a Trattato (e nutrito)
meglio di molti uomini di Garibaldi, Cavalleria non tollerava nessuno
tranne la mano del suo padrone. E così, trovandosi di fronte una strana
ragazza nella sua stalla mentre suonava il turno di guardia, nitrì irritato e si
accinse a svuotare la vescica sulla superficie più ampia possibile.
Avendo trascorso anni a vivere vicino al fiume Rosa, il lezzo del piscio
dello stallone non fu una vera sorpresa per Mia, che schiaffò prontamente
un morso nella bocca del cavallo per metterlo a tacere. Per quanto trovasse
odiosi quegli animali, aveva passato un periodo di tre settimane in un
allevamento di cavalli sulla terraferma su “richiesta” di Mercurio, e almeno
ne sapeva quanto bastava per posizionare le briglie sul sedere della bestia. b
Comunque, quando Mia sollevò la coperta da mettere sotto la sella,
Cavalleria iniziò a scalciare nel suo recinto e solo grazie a un frettoloso
balzo sullo stipite della porta la ragazza evitò di diventare decisamente più
magra.
«Per le poppe gonfie di Trelene, fallo stare zitto!» sibilò Tric dalla porta
della stalla.
«… Hai davvero appena bestemmiato sulle “poppe” della dea?»
«Fregatene, e fallo tacere!»
«Ti ho detto che non piaccio ai cavalli! E dire cose blasfeme sulle tette
della signora dell’oceano non aiuterà le cose. In effetti, probabilmente ti
farà finire affogato, brutto pederasta.»
«Sicuramente passerò lunghi anni rinchiuso in una latrina puzzolente che
funge da prigione in questo letamaio per pentirmi dei miei peccati.»
«Tieniti addosso le mutande» sussurrò Mia. «La latrina sarà occupata per
un po’.»
Tric si domandò cosa intendesse la ragazza. Ma mentre lei si intrufolava
nel recinto di Cavalleria per provare ancora a sellarlo, il ragazzo udì pianti
nella torre della guarnigione, suppliche al Semprevigile e una serie di
bestemmie così colorite da poterle lanciare in aria e chiamarle un
arcobaleno. Una puzza si levò nel vento, tanto nauseabonda da fargli
lacrimare gli occhi. E così, mentre Mia sciorinava improperi sussurrati su
Cavalleria, il ragazzo decise di andare a vedere tutto quel clamore.
Messer Cortese era seduto sul tetto della stalla, facendo del suo meglio
per imitare la curiosità dei gatti veri. Osservò il ragazzo dirigersi
silenziosamente verso la torre e scalare il muro. Tric sbirciò attraverso la
finestra consumata dalla sabbia e quello che vide nella stanza fece diventare
la sua faccia verdastra sotto quei tatuaggi grossolani. Senza un suono, si
calò a terra e strisciò fino alla stalla appena in tempo per cogliere Mia
fissare la sella sulla groppa di Cavalleria con l’aiuto di diverse zollette di
zucchero rubate.
Il ragazzo aiutò Mia ad accompagnare lo stallone sbuffante attraverso le
porte della stalla. Lei era bassa e il purosangue era alto venti spanne, così
dovette fare un balzo correndo per arrivare alla sella. Mentre si sforzava di
issarsi su, notò il pallore verdognolo sulla faccia di Tric.
«Qualcosa non va?» chiese lei.
«Cosa ’bisso sta succedendo in quella torre?» mormorò Tric.
«Inghippo» rispose Mia.
«… Cosa?»
«Tre boccioli secchi di mora rossa liisiana, un terzo di tazza di essenza di
melassa e un pizzico di radice di legnospago essiccata.» Scrollò le spalle.
«Inghippo. Potresti conoscerlo come “Rovinatubi”.»
Tric sbatté le palpebre. «Hai avvelenato l’intera guarnigione?»
«Be’, tecnicamente è stato Daniio il Grasso ad avvelenarli. Ha servito lui
l’ultimopasto. Io ho solo aggiunto la spezia.» Mia sorrise. «Non è letale.
Soffrono solo di un tantino di… disturbi intestinali.»
«Un tantino?» Il ragazzo lanciò un’occhiata inquieta verso la torre, agli
orrori sporchi e gementi lì dentro. «Ascolta, prometti di non offenderti se mi
occuperò io di cucinare là fuori, eh?»
«Come ti pare.»
Mia posò lo sguardo sulle regioni aride oltre Ultima Spes e, dopo aver
fatto il gesto di levarsi il cappello verso la torre di guardia, spronò
Cavalleria. Purtroppo, invece di un’elegante galoppata verso l’orizzonte, la
ragazza si ritrovò sbalzata in aria e terminò il suo breve volo accasciata
sulla strada. Rotolò per terra, massaggiandosi il sedere e guardando torvo lo
stallone che si era messo a nitrire.
«Bastardo…» sibilò.
Guardò verso Messer Cortese, seduto sulla strada accanto a lei.
«Non. Una. Cazzo. Di. Parola.»
«… miao…» disse lui.
Con un rumore fragoroso, la porta della torre di guardia si spalancò. Un
insudiciato centurione Vincenzo Garibaldi barcollò in strada, tenendosi con
una mano le brache slacciate.
«Ladri!» mugugnò.
Con un movimento poco convinto, il centurione dei Luminatii estrasse la
spada lunga. L’acciaio avvampò più luminoso dei soli in cielo. A una sua
parola, lingue di fuoco si dispiegarono lungo il filo della lama e l’uomo
avanzò incespicando, il volto distorto da una furia virtuosa.
«Fermi, nel nome della Luce!»
«Dolci prugne di Trelene, andiamo!»
Tric balzò in sella a Cavalleria, trascinando Mia sopra l’arcione come un
sacco di patate imprecanti. E con un altro bel colpo di stivali ai fianchi dello
stallone, i due si allontanarono al galoppo in direzione del loro sicuro
destino. c
Tric tornò mezz’ora dopo, con uno zoppicante Bastardo al seguito. Riuniti,
lui e Mia procedettero a piedi fino al sottile sperone di roccia che avrebbe
funto da posto di vedetta. Erano in allerta costante per sommovimenti sotto
la sabbia e Tric annusava l’aria come un segugio, ma nessun altro orrore
levò i suoi tentacoli (o altre appendici) per ostacolare i loro progressi.
A Bastardo e Fiori fu permesso di brucare l’erba rada che circondava la
guglia: Fiori era lieto per quello spuntino, mentre Bastardo fissava Mia con
lo sguardo fulminante di un animale abituato ad avena fresca a ogni pasto,
rifiutandosi completamente di mangiare. Tentò di mordere Mia un altro paio
di volte quando lo legò, perciò lei fece finta di dare delle pacche a Fiori
(anche se non gli piaceva molto nemmeno lui) e regalò al sauro delle
zollette di zucchero prese dalle bisacce. L’unico dono per lo stallone rubato
era il gesto della mano più volgare che a Mia potesse venire in mente. h
«Perché chiami il tuo cavallo Fiori?» chiese Mia mentre lei e Tric si
preparavano ad arrampicarsi.
«… cosa c’è che non va con Fiori?»
«Be’, molti uomini danno ai loro cavalli nomi un po’ più… virili, tutto
qua.»
«Leggenda, Principe o cose del genere.»
«Una volta ho incontrato un cavallo chiamato Zoccolo di Tuono.» Alzò
una mano. «Giuro sulla Luce.»
«Mi sembra una cosa tanto sciocca» disse il ragazzo in tono altezzoso.
«Elargire quel genere di informazioni gratis.»
«Cosa intendi?»
«Be’, se chiami il tuo cavallo Leggenda, fai sapere alla gente che pensi
di essere l’eroe di un libro di favole. Se chiami il tuo cavallo Zoccolo di
Tuono… Figlie, tanto vale appenderti un cartello al collo che dice “Ho un
pene grande come una nocciolina”.»
Mia sorrise. «Ti credo sulla parola.»
«Mi piacciono questi tizi che chiamano le loro spade “Spaccacrani” o
“Risucchiaanime” o cose del genere.» Tric legò le sue salciocche in una
crocchia ingarbugliata in cima alla testa. «Sono tutti coglioni.»
«Se dovessi dare un nome alla mia lama,» disse Mia pensierosa «la
chiamerei Fuffi.»
Tric sbottò a ridere. «Fuffi?»
«’Bisso, sì» annuì la ragazza. «Pensa al terrore che instilleresti. Essere
sconfitto da un nemico che impugna una spada chiamata Risucchia-
anime… con quello potresti convivere. Immagina la vergogna se ti facessi
rompere il culo da una lama chiamata Fuffi.»
«Be’, proprio quello che intendo. I nomi rivelano tanto su chi li dà
quanto su chi li riceve. Forse non voglio che la gente sappia chi sono. Forse
preferisco essere sottovalutato.»
Il ragazzo scrollò le spalle.
«O forse semplicemente mi piacciono i fiori…»
Mia si ritrovò a sorridere mentre i due scalavano la parete accidentata del
dirupo. Entrambi si arrampicavano senza chiodi da roccia o funi, il tipo di
follia comune tra i giovani che si reputano immortali. Il loro posto di
vedetta torreggiava a cento piedi di altezza, ed entrambi erano senza fiato
quando raggiunsero la sommità. Ma, come Mia aveva previsto, quello
sperone offriva un punto di osservazione magnifico: tutto il deserto si
stendeva davanti a loro. Il bagliore rosso di Saan era spietato e Mia si
domandò quanto sarebbe stato brutale il calore durante la veraluce, quando
tutti e tre i soli facevano ardere il cielo di bianco.
«Ottima vista» concordò Tric. «Se qualcuno starnuta a Ultima Spes, ce
ne accorgeremo di sicuro.»
Mia diede un calcio a un ciottolo e lo fece cadere dal dirupo,
osservandolo ruzzolare nel vuoto. Si sedette su un macigno, puntellando lo
stivale sulla pietra opposta, in una posa che avrebbe provocato un brivido in
Domina Corvere, se l’avesse vista. Prese dalla cintura una sottile scatola
d’argento con incisi il corvo e le spade incrociate della Familia Corvere. Si
mise un sigaretto tra le labbra e offrì la scatola a Tric. Il ragazzo la prese e
si sedette di fronte a lei, arricciando il naso e leggendo a occhi stretti la
scritta sul retro.
«Neh diis lus’a, lus diis’a» borbottò. «Il mio liisiano è pessimo.
Qualcosa sul sangue?»
«Quando tutto è sangue, il sangue è tutto.» Mia accese il proprio
sigaretto con l’acciarino, poi esalò un sospiro soddisfatto. «Motto di
familia.»
«La tua familia?» Tric indicò lo stemma col pollice. «Avrei scommesso
che l’avessi rubato.»
«Non ti sembro la tipica midollana?»
«Non sono sicuro di che tipo mi sembri. Ma una bambina spocchiosa
appiccicata alla Dorsale? Niente affatto.»
«Devi lavorare sui tuoi complimenti, Dominus Tric.»
Il ragazzo pungolò la sua ombra con lo stivale, gli occhi indecifrabili.
Lanciò un’occhiata al non-gatto annidato vicino alla sua spalla. Messer
Cortese lo fissò a sua volta senza emettere un suono. Quando Tric parlò, fu
con evidente trepidazione.
«Ho sentito parlare della tua stirpe. Ma non ne avevo mai incontrato
nessuno prima. Non avrei mai pensato che mi succedesse.»
«La mia stirpe?»
«I tenebris.»
Mia esalò fumo grigio, gli occhi stretti. Allungò una mano verso Messer
Cortese come per accarezzarlo e le sue dita vi passarono attraverso come se
fosse fumo. Per la verità, erano in pochi coloro che la vedevano usare il suo
dono e vivevano per raccontarlo. La gente della Repubblica temeva ciò che
non riusciva a capire e odiava quello che temeva. Eppure questo ragazzo
sembrava più affascinato che impaurito. Squadrandolo dall’alto in basso –
questo tappetto di un Dweymeri con i suoi tatuaggi da isolano e il nome da
continentale – realizzò che era un estraneo come lei. E per un attimo si rese
conto di quanto era lieta di avere compagnia su questa strada bizzarra e
polverosa.
«E cosa sai dei tenebris, Dominus Tric?»
«Leggende. Stronzate. Rubate i bambini dalle culle, deflorate vergini
ovunque andate e altre sciocchezze.» Il ragazzo scrollò le spalle. «Ho
sentito dire che i tenebris attaccarono la Grande Basilica alcuni anni or
sono. Uccisero parecchi legionari Luminatii.»
«Ah.» Mia sorrise in mezzo al fumo. «Il Massacro del Verobuio.»
«Probabilmente sono tutte cazzate che hanno inventato per alzare le tasse
o cose del genere.»
«Probabilmente.» Mia fece un cenno verso la sua ombra. «Tuttavia non
sembra che questo ti disturbi.»
«Ho conosciuto un veggente in grado di capire il futuro frugando tra le
viscere degli animali. Ho incontrato un arkemista capace di creare fuoco
dalla polvere e uccidere un uomo semplicemente soffiandogli addosso.
Gingillarsi con l’oscurità a me sembra solo taumaturgia da imbonitore come
le altre.» Lanciò un’occhiata al cielo terso. «E non riesco a trovarci molta
utilità in un posto dove i soli non tramontano quasi mai.»
«… più brillante è la luce, più cupa è l’ombra…»
Tric guardò il non-gatto, ovviamente sorpreso di sentirlo parlare. Lo
osservò con attenzione per un momento, come se potessero spuntargli altre
teste o se stesse per soffiare fiamme nere. Quando nessun’altra testa
apparve, il ragazzo spostò di nuovo lo sguardo su Mia.
«Dove hai ottenuto il dono?» le chiese. «Da tua madre? Da tuo padre?»
«… Non so dove l’ho avuto. E non ho mai incontrato nessun altro come
me a cui chiederlo. Il mio Shahiid diceva che ero stata toccata dalla Madre.
Qualunque cosa volesse dire. Lui sicuramente non sembrava saperlo.»
Il ragazzo fece spallucce e passò il pollice sulla scatola di sigaretti.
«Se ben ricordo, la Familia Corvere fu coinvolta in alcuni guai qualche
verobuio fa. Qualcosa sull’instaurare un re?»
«Mai tirarsi indietro. Mai avere paura» sospirò Mia. «E mai, mai
dimenticare.»
«Allora. L’enigma comincia ad avere un senso. L’ultima figlia di una
familia caduta in disgrazia. Diretta verso la migliore scuola di assassini in
tutta la Repubblica. Progetti di regolare i conti dopo il diploma?»
«Non starai mica per elargirmi un po’ di saggezza sull’inutilità della
vendetta, vero, Dominus Tric? Perché stavi proprio per cominciare a
piacermi.»
«Oh, no.» Tric sorrise. «Capisco la vendetta. Ma visti i torti a cui hai
intenzione di riparare, immagino che i tuoi bersagli saranno complicati da
colpire.»
«Uno è già stato spuntato dall’elenco.» Diede una pacca al borsello con i
denti. «Ne mancano tre.»
«Questi cadaveri che camminano hanno un nome?»
«Il primo è Francesco Duomo.»
«… Quel Francesco Duomo? Gran cardinale della Chiesa della Luce?»
«Proprio lui.»
«’Bisso e sangue…»
«Il secondo è Marcus Remus. Tribuno della Legione dei Luminatii.»
«… E il terzo?»
La luce di Saan scintillò negli occhi di Mia, ciuffi di lunghi capelli neri
impigliati agli angoli della bocca. Le ombre attorno a lei ondeggiavano
come oceani, increspandosi vicino ai piedi di Tric. Doppiamente scure
rispetto al normale. Nere quasi quanto lo era diventato il suo umore.
«Il console Julius Scaeva.»
«Quattro Figlie» sussurrò Tric. «Ecco perché vuoi addestrarti alla
Chiesa.»
Mia annuì. «Un pugnale affilato potrebbe colpire Duomo o Remus con
un bel po’ di fortuna. Ma non basterà una bambina di strada con un
coltellino a eliminare Scaeva. Non dopo il Massacro. Non si mette a letto se
prima non c’è un drappello di Luminatii a controllare sotto le lenzuola.»
«Tre volte console del senato itreyano» sospirò Tric. «Maestro
arkemista. L’uomo più potente dell’intera Repubblica.» Il ragazzo scosse la
testa. «Sai come renderti le cose complicate, Figlia Pallida.»
«Oh, sì. È pericoloso quanto un sacco di vipere segnonero» annuì Mia.
«È una vera fregna, credi a me.»
Il ragazzo sollevò le sopracciglia, la bocca socchiusa.
Mia incontrò il suo sguardo e si fece seria. «Cosa c’è?»
«… Mia madre diceva che quella è una parola oscena» si imbronciò Tric.
«La più oscena di tutte. Mi raccomandò di non pronunciarla mai. In
particolare di fronte a una domina.»
«Oh, davvero.» La ragazza prese un altro tiro dal suo sigaretto,
stringendo le palpebre. «E perché mai?»
«Non lo so» Tric si ritrovò a borbottare. «È quello che diceva e basta.»
Mia scosse il capo, le ciocche sbilenche ondeggianti davanti ai suoi
occhi.
«Sai, non l’ho mai capito. In che modo essere chiamati come le parti
basse di una donna possa essere più grave di qualunque altro insulto.
Secondo me chiamare qualcuno come le parti private di un uomo è peggio.
Voglio dire, cosa immagini quando senti che qualcuno viene definito un
cazzone?»
Tric scrollò le spalle, confuso per la strana piega della conversazione.
«Ti figuri un bove, vero?» continuò Mia. «Qualcuno così ossessionato
dalle seghe da non lasciare spazio per il cervello. Un bastardo ritardato che
se ne va in giro impettito pieno di sborra e piscio, del tutto inconsapevole di
come appare agli altri.»
Uno sbuffo grigio all’aroma di chiodi di garofano si alzò nell’aria in
mezzo a loro.
«Cazzone è un altro modo per dire “stupido”. Ma se definisci qualcuno
una fregna, be’…» La ragazza sorrise. «Vi sottintendi un senso di malizia.
Uno scopo. Malevolo e consapevole. Non pensare che abbia chiamato il
console Scaeva una fregna per regalargli un insulto. Una fregna ha un
cervello, Dominus Tric. Ha i denti. Se qualcuno ti definisce una fregna,
prendilo come un complimento. Come un segno che la gente ti ritiene uno
da non prendere per il culo.» Una scrollata di spalle. «Credo che la
chiamino ironia.»
Mia tirò su col naso, fissando il deserto che si estendeva sotto di loro.
«La verità è che non esiste alcuna differenza tra le tue parti basse e le
mie. A parte quelle ovvie, naturalmente. Ma nessuna delle due ha più peso
dell’altra. Perché mai quello che ho tra le gambe dovrebbe essere
considerato più intelligente o più stupido, peggiore o migliore? È solo
carne, Dominus Tric. In definitiva, non è altro che cibo per i vermi. Proprio
come lo saranno Duomo, Remus e Scaeva.»
Un’ultima tirata, lunga e profonda, come stesse risucchiando la vita
stessa dal suo fumo.
«Ma preferirei comunque essere definita una fregna e non un cazzone.»
La ragazza espirò l’ennesima nuvoletta grigia, poi schiacciò il sigaretto
con il tacco dello stivale.
Sputò nel vento.
E così, all’improvviso, il giovane Tric si innamorò.
Quando Mia aveva cinque anni, sua madre le aveva dato un rompicapo: un
cubo di legno con le facce che si muovevano e che, una volta allineate
correttamente, avrebbero rivelato il vero dono all’interno. Era il miglior
regalo del Gran Tributo che si ricordava di aver mai ricevuto. a
All’epoca Mia l’aveva ritenuto crudele. Tutti gli altri bambini midollani
giocavano con spade di legno o bambole nuove, mentre lei non aveva altro
che questa squallida scatola che rifiutava di aprirsi. La sbatteva contro il
muro, ma invano. Si lamentò con suo padre che non era giusto e lui si
limitò a sorridere. E quando Mia batté i piedi davanti a Domina Corvere e
pretese di sapere perché non le avesse regalato semplicemente un nastro
grazioso per i capelli o un abito nuovo invece di quell’orrendo aggeggio,
sua madre si inginocchiò e guardò la figlia negli occhi.
«La tua mente ti sarà più utile di qualunque gingillo sotto i soli» disse.
«È un’arma, Mia. E come qualunque arma, devi allenarti per essere capace
di brandirla.»
«Ma madre…»
«No, Mia Corvere. La bellezza è una dote innata, ma l’intelligenza va
coltivata.»
Così Mia si era seduta con la scatola in grembo. L’aveva guardata
storto. L’aveva fissata finché non le era apparsa perfino in sogno. L’aveva
ruotata, rigirata e le aveva imprecato contro con tutti gli improperi che
aveva sentito usare da suo padre. Ma dopo due mesi frustranti, ruotò un
ultimo pezzo e udì un suono meraviglioso.
Clic.
Il coperchio si aprì e all’interno trovò una spilla: un corvo con
minuscoli occhi d’ambra. L’emblema della sua Familia. Il corvo dei
Corvere. Lo indossò al primopasto del cambio successivo. Sua madre
sorrise e non disse una parola. Mia tenne la scatola: di tutti gli enigmi che
ricevette in seguito dai suoi genitori per il Gran Tributo, quello rimase il
suo preferito. Dopo l’esecuzione di suo padre e l’arresto di sua madre, si
era lasciata alle spalle la scatola e qualcosa di quella ragazzina che
l’amava.
Ma aveva portato con sé la spilla, assieme al suo talento per gli enigmi.
Si svegliò sotto una catasta di rifiuti in un vicolo solitario, da qualche
parte nei bassifondi di Godsgrave. Mentre si sfregava via il sonno dagli
occhi, le brontolò lo stomaco. Sapeva che probabilmente gli uomini del
console la stavano ancora braccando: se lui fosse venuto a sapere che non
l’avevano affogata, forse ne avrebbe mandati di più. Non aveva alcun posto
dove stare. Nessun amico. Niente denaro. E niente cibo.
Era dolorante, sola e spaventata. Le mancava sua madre. Il piccolo
Jonnen, il suo fratellino. Il suo letto morbido, i suoi vestiti caldi e il suo
gatto. Se lo ricordò spezzato sul pavimento e gli occhi le si riempirono di
lacrime, mentre il pensiero dell’uomo che l’aveva ucciso le colmò il cuore
d’odio.
«Povero Capitan Pozzanghere…»
«… miao…» disse una voce.
La ragazzina alzò lo sguardo a quel suono, scostando capelli scuri dalle
ciglia umide. E lì, sul selciato, tra le erbacce, il marcio e il sudiciume, vide
un gatto.
Non il suo gatto, certo. Oh, era nero come il verobuio, proprio come lo
era stato il suo buon Capitano. Ma era sottile come carta e trasparente,
come se qualcuno avesse ritagliato una sagoma fatta delle ombre stesse. E
malgrado il fatto che adesso fosse dotato di una forma invece di non averla
affatto, Mia riconobbe comunque il suo amico. Quello che l’aveva aiutata
quando nessun altro al mondo avrebbe potuto farlo.
«Messer Cortese?» domandò.
«… miao…» rispose lui.
Allungò una mano verso la creatura come per accarezzarla, ma quella vi
passò attraverso come se fosse un filo di fumo. Guardando nella sua
oscurità, provò quella stessa sensazione: la sua paura veniva drenata come
veleno da una ferita, lasciandola insensibile e intrepida. E si rese conto
che, anche se non aveva più un fratello, una madre, un padre o una familia,
non era completamente sola.
«D’accordo» annuì.
Prima il cibo. Non aveva soldi, ma aveva il suo stiletto e la spilla
appuntata al vestito (sempre più trasandato). Una lama di necrosso poteva
valere una fortuna, ma detestava privarsi della sua unica arma. Comunque
sapeva che c’era gente che le avrebbe dato soldi per il gioiello. Il denaro
poteva permetterle di comprare cibo e affittare una stanza dove rintanarsi e
poter pensare alla sua prossima mossa. Dieci anni, sua madre in catene,
suo…
«… miao…» disse Messer Cortese.
«Giusto» annuì lei. «Un enigma alla volta.»
Non sapeva nemmeno in che parte di Godsgrave si trovasse. Aveva
trascorso tutta la vita nella Dorsale. Ma nello studio suo padre teneva delle
mappe della città appese al muro, assieme a spade e serti, e Mia si
ricordava abbastanza bene la disposizione della metropoli. Era meglio che
stesse alla larga dal quartiere dei midollani, rimanendo il più rintanata
possibile finché non fosse stata sicura che gli uomini del console avevano
smesso di darle la caccia.
Quando si alzò, Messer Cortese fluì come acqua nell’oscurità attorno ai
suoi piedi e, quando lo fece, l’ombra della ragazza divenne più nera. Anche
se era consapevole che probabilmente quella scena avrebbe dovuto
spaventarla, Mia prese un respiro profondo, si ravviò i capelli e fece un
passo fuori dal vicolo, finendo col piede in una pila melmosa di qualcosa
che sperava fosse fango. b
Imprecando in maniera molto colorita e sfregando le suole sul selciato,
vide persone di tutti i tipi che sgomitavano lungo la strada affollata.
Vaaniani dai capelli chiari, Itreyani con gli occhi azzurri, alti Dweymeri
con tatuaggi di inchiostro di leviatano, dozzine di schiavi con marchi
arkemici impressi a fuoco sulle guance. Ma presto Mia si rese conto che
gran parte della gente era liisiana: carnagione olivastra e capelli scuri. Le
vetrine erano contrassegnate con un emblema che Mia riconobbe grazie
alle lezioni con fratello Crassus e alle messe del verobuio dentro le grandi
cattedrali: tre circoli ardenti, intrecciati. Uno specchio dei tre soli che
vagavano per i cieli. Gli occhi di Aa in persona.
La Trinità. c
Mia si rese conto che doveva trovarsi nel quartiere liisiano: l’aveva
sentito chiamare Piccola Liis. Squallida e sovrappopolata, la povertà
scritta nei fatiscenti muri in pietra. Qui le acque dei canali scorrevano alte,
consumando i piani inferiori degli edifici intorno. Palazzine di mattoni
disadorni, deteriorate fino a un marrone scuro al bordo dell’acqua. Sopra il
lezzo dei canali, riuscì a sentire l’odore di pane speziato e fumo di chiodi di
garofano e udì canzoni in una lingua che quasi riconobbe senza riuscire a
capirla del tutto.
Si inserì nel flusso di persone, urtando e sgomitando. Quella calca
poteva essere spaventosa per una ragazza che era sempre vissuta al riparo
della Dorsale, ma ancora una volta Mia scoprì di non avere paura. Venne
trascinata dalla folla finché la strada non sbucò in un’ampia piazza,
fiancheggiata su tutti i lati da banchetti e negozi. Salendo su una pila di
casse vuote, Mia si rese conto di trovarsi al mercato: l’aria era piena del
viavai e del mormorio di centinaia di persone, illuminate dal bagliore aspro
di due soli ardenti nel cielo, e dell’odore più straordinario in cui si fosse
mai imbattuta in vita sua.
Mia non riusciva a descriverlo come una puzza, anche se quel profumo
unico era composto in parte da fetore. Piccola Liis era situata nella zona
sudovest di Godsgrave, sotto le Anche vicino alla Baia dei Macellai, ed era
fiancheggiata dai mattatoi della città e da vari deflussi fognari. Il lezzo
della baia era stato paragonato a una pancia esplosa ricoperta di sterco di
cavallo e capelli umani bruciati, lasciata a marcire per tre cambi nel calore
della veraluce.
Comunque, a mascherare questa puzza c’era il profumo del mercato
vero e proprio. Il caldo aroma tostato di pane, crostate e biscotti appena
sfornati. Gli odori aleggianti dei giardini pensili. Mia si ritrovò per metà a
sbavare e per metà a provare nausea: una parte di lei voleva ingurgitare
qualunque cosa le capitava sotto gli occhi, l’altra si domandava se avrebbe
mai mangiato di nuovo.
Toccando la spilla che portava sul petto, si guardò in giro in cerca di un
venditore. C’erano banchetti di gingilli in abbondanza, ma molti
sembravano di terz’ordine. Ai margini del mercato, Mia vide un vecchio
edificio, rannicchiato come un mendicante all’angolo di due strade
tortuose. Un’insegna dondolava su un cardine cigolante sopra la sua triste,
piccola porta.
CURIOSITÀ DI MERCURIO – STRANEZZE, RARITÀ E ANTICHITÀ RAFFENATE.
Una placca sull’uscio la informò: PERDITEMPO, GENTAGLIA O RELIGIOSI
NON SONO BEN ACCETTI.
Strinse gli occhi e guardò l’ombra troppo scura attorno ai suoi piedi.
«Ebbene?» chiese.
«… miao…» disse Messer Cortese.
«Lo penso anch’io.»
Mia balzò giù dalle casse e si diresse verso il negozio.
Sangue inondava il pianale del carro, denso e incrostato sulle mani di Mia.
La polvere le aggrediva gli occhi, sollevandosi come una tempesta dagli
zoccoli dei cammelli. Non c’era bisogno che Mia li frustasse: gli animali
stavano correndo veloci di loro spontanea volontà. E così si concentrò sul
placare l’emicrania che le spaccava in due la fronte e a sedare l’istinto
ormai familiare di pugnalare Tric ripetutamente in faccia.
Il ragazzo era seduto sul fondo del carro, a percuotere quello che poteva
sembrare uno xilofono, se quello strumento fosse stato fatto di tubi di ferro
e avesse emesso un rumore come il verso di asini in calore fuori di testa.
Anche il ragazzo era ricoperto di sangue e polvere, i denti di un bianco
perfetto stretti in una maschera di rosso sudicio e orrendi tatuaggi.
«Tric, smettila con quel frastuono!» tuonò Mia.
«Spaventa i kraken!»
«Spaventa i kraken…» gemette Naev da una pozza del suo stesso
sangue.
«Non li spaventa affatto, dannazione!» urlò Mia.
Si guardò alle spalle, nel caso in cui quel fracasso pazzesco avesse
davvero spaventato le mostruosità che li inseguivano, ma ahimè, i quattro
cunicoli di terra rimestata li seguivano ancora da presso.
Bastardo galoppava accanto al carro, legato con le sue redini. Lo stallone
stava guardando torvo Mia, lanciando ogni tanto un nitrito accusatorio nella
sua direzione.
«Oh, sta’ zitto!» urlò lei al cavallo.
«… non gli piaci proprio…» sussurrò Messer Cortese.
«Non sei d’aiuto!»
«… e cosa aiuterebbe?…»
«Spiegami come ci siamo cacciati in questo casino!»
Il gatto che era ombre inclinò la testa, come se stesse pensando. Un
ringhio raggelante proveniente da quelle creature gigantesche fece tremare
il carro sui suoi rivetti, ma i rimbalzi sulle dune non lo spostarono.
Quell’essere guardò scorrere le Frusciaride, l’orizzonte frastagliato
avvicinarsi, la sua padrona sopra di lui. E parlò con la voce di chi sta
svelando un’orrenda ma necessaria verità.
«… praticamente è colpa tua…»
Avevano trascorso due settimane in cima al loro punto di vedetta, e sia Mia
sia Tric avevano cominciato a perdere fiducia nella loro teoria. Il primo
cambio di Septimus si stava avvicinando lentamente: se non avessero
attraversato la soglia della Chiesa prima di allora, non avrebbero avuto
alcuna possibilità di essere accettati nel gregge di quest’anno. Osservavano
a turni, uno che si arrampicava sulla guglia per dare il cambio all’altro,
soffermandosi a chiacchierare un po’ durante il passaggio di consegne. Si
scambiavano trucchi del mestiere o storie del tempo passato come
apprendisti. Mia menzionava di rado la propria familia. Tric mai. Eppure si
tratteneva sempre: anche se non aveva nulla da dire, se ne stava
semplicemente lì seduto a osservarla leggere per un po’.
Finalmente Bastardo aveva cominciato a mangiare l’erba ai piedi della
guglia, anche se lo faceva con sdegno evidente. Mia notava spesso che la
guardava come se fosse lei che voleva mangiare.
Quando stava per arrivare l’illuminotte di quello che probabilmente era il
tredicesimo cambio, lei e Tric erano seduti in cima alla pietra, a fissare il
deserto. A Mia restavano quarantadue sigaretti, e già desiderava averne
portati di più.
«Ho cercato di smettere una volta» disse lei, scrutando la filigrana di
Dorian il Nero d sull’ottima paglia arrotolata a mano. «Sono durata
quattordici cambi.»
«Ti mancava troppo?»
«Astinenza. Mercurio mi costrinse a riprendere. Diceva che comportarmi
come un orso ubriaco tre cambi al mese era già troppo.»
«Tre cambi al… ah.»
«Ah.»
«… Non sei così intrattabile, vero?»
«Potrai dirmelo tra un cambio circa» ridacchiò lei.
«Non ho avuto sorelle.» Tric cominciò a riannodarsi i capelli,
un’abitudine a cui, come Mia aveva notato, si dedicava quando era a
disagio. «Non sono esperto di…» gesticolò in modo vago «… abitudini
femminili.»
«Be’, allora avrai una bella sorpresa.»
Tric si fermò a metà nodo e scoccò a Mia un’occhiata strana. «Sei
diversa da qualunque ragazza abbia mai…»
Poi tacque e scivolò dalla roccia in posizione accucciata. Tirò fuori un
vecchio cannocchiale da capitano, istoriato con gli stessi tre drachimarini
del suo anello, e se lo premette contro l’occhio.
Mia si accovacciò accanto a lui, scrutando in direzione di Ultima Spes.
«Vedi qualcosa?»
«Una carovana.»
«Cacciatori di fortuna?» e
«Non credo.» Tric sputò sulla lente del cannocchiale, poi tolse la
polvere. «Due carri carichi. Quattro uomini. Sono trainati da cammelli,
perciò deve trattarsi di un viaggio lungo.»
«Non ho mai cavalcato un cammello prima d’ora.»
«Nemmeno io. Ho sentito dire che puzzano. E sputano.»
«Sembra comunque un miglioramento rispetto a Bastardo.»
«Lo è anche un dracobianco con una sella.»
Osservarono la carovana procedere lungo la sabbia rosso sangue per
un’ora, meditando cosa li avrebbe attesi se il gruppo proveniva davvero
dalla Chiesa Rossa. E quando la carovana fu quasi un puntino all’orizzonte,
i due scesero dal loro trono e li seguirono in quella desolazione.
Sulle prime si tennero a distanza, facendo procedere Fiori e Bastardo a
un’andatura lenta. Mia era certa di poter udire una strana melodia nel vento.
Non i sussurri esasperanti – a cui non si era ancora abituata – ma qualcosa
di simile a campane stonate, accatastate l’una sull’altra e colpite con un
mazzafrusto di ferro. Non aveva idea di cosa pensare.
I due non erano equipaggiati per un viaggio nelle profondità del deserto
e stabilirono di raggiungere la carovana quando si fosse fermata per
riposare. Non c’era modo di avvicinarsi non visti: gli affioramenti di pietra
e i monumenti spezzati che punteggiavano le regioni aride non erano
sufficienti a nasconderli, e il manto d’ombra di Mia poteva celare solo una
persona. Inoltre, secondo lei, se questi fossero stati davvero servitori della
Signora dell’omicidio benedetto, forse non avrebbero gradito che qualcuno
li cogliesse di sorpresa mentre si fermavano per pisciare.
Purtroppo, i membri della carovana sembravano felici di mantenere la
loro andatura, per così dire. I due stavano guadagnando terreno, ma dopo
due interi cambi in sella, con Bastardo che le mordicchiava le gambe e ogni
tanto cercava di sbalzarla nella polvere, Mia non poté più sopportarlo: fece
fermare lo stallone vicino a un cerchio di statue erose dal tempo, perdendo
la pazienza a un punto tale da scaraventarla lungo la sabbia.
«Fermo, fermo!» sbraitò. «Fottiti. Nel buco dell’orecchio.»
Tric sollevò un sopracciglio. «Cosa c’è?»
«Nei pantaloni ho più parti paonazze che posteriore. Una pausa.»
«Stiamo giocando alle allitterazioni e non me l’hai detto o…»
«Fottiti. Mi serve un po’ di riposo.»
Tric guardò l’orizzonte con aria accigliata. «Potremmo perderli.»
«Sono guidati da una dozzina di cammelli, Tric. Un cane senza naso
potrebbe seguire questa scia di merda nel mezzo del verobuio. Anche se
cominciassero all’improvviso ad andare più veloci di un fumatore da
quaranta a cambio con un mucchio di prostitute ubriache sottobraccio,
credo che riusciremmo a ritrovarli.»
«Cosa c’entrano delle prostitute ubri…»
«Non mi serve un massaggio ai piedi o alla schiena. Voglio solo sedermi
per un’ora su qualcosa che non si muove.» Mia scivolò giù di sella con un
sussulto e agitò il suo stiletto contro Bastardo. «E se mi mordi ancora, giuro
sulla Mannaia che ti faccio diventare un castrone.»
Bastardo sbuffò e Mia si lasciò cadere contro una roccia liscia con un
sospiro. Premette una mano contro le interiora doloranti e si sfregò il
posteriore con l’altra.
«Posso aiutarti, con quello» si offrì Tric. «Se ne hai bisogno.»
Il ragazzo sorrise quando Mia gli fece il gesto delle nocche. Legò i
cavalli e si sedette di fronte a Mia mentre lei tirava fuori un sigaretto dalla
custodia, l’accendeva con la pietra focaia e prendeva una bella tirata.
«Il tuo Shahiid era un uomo saggio» esordì Tric.
«Cosa te lo fa dire?»
«Tre cambi al mese di questo è parecchio.»
La ragazza sbuffò e gli lanciò addosso un po’ di polvere col piede mentre
lui si allontanava ridendo. Mia si abbassò il tricorno sugli occhi e appoggiò
la testa contro la roccia, il sigaretto che le pendeva dalle labbra. Tric la
osservò, cercando in giro qualche segno di Messer Cortese. Invano.
Guardò lì attorno, esaminando le costruzioni in pietra. Le statue erano
tutte simili, figure vagamente umanoidi con teste feline, erose dai venti e
dal tempo. Tric si mise in piedi sull’affioramento e osservò attraverso il
cannocchiale la carovana di cammelli allontanarsi. Mia aveva ragione: si
muovevano a passo lento, e anche se loro due si fossero riposati per alcune
ore sarebbero riusciti a riguadagnare il terreno perduto. Lui non era
inesperto con i cavalli come Mia, ma dopo tre cambi in sella aveva dolori in
alcuni dei posti sbagliati. E così, seduto all’ombra per un po’, cercò di fare
del suo meglio per non guardarla mentre dormiva.
Chiuse gli occhi solo per un secondo.
a. Il Gran Tributo rappresentava il punto intermedio (approssimativo) tra i veribui, ed era una delle
sacre feste di Aa, caratterizzata per tradizione da scambi di regali tra le persone care. Si diceva che
il primo Gran Tributo fosse stato il cambio in cui Aa diede alle sue figlie il dominio sugli
elementi. A Tsana, la sua primogenita, regalò il dominio sul fuoco. A Keph, sulla terra. A Trelene,
sugli oceani. A Nalipse, sulla tempesta. Come contropartita, le figlie diedero al loro padre amore e
obbedienza.
Si dice che Niah non donò nulla alle sue figlie, poiché dentro di sé la Mannaia non ha nulla da
dare. Ma queste sono falsità sbraitate dai ministri della Chiesa di Aa.
A Keph, Niah diede i sogni per tenerle compagnia nel suo sonno eterno. A Trelene, il mistero,
le profonde acque scure oltre la soliluce. A Nalipse, la calma, ovvero la pace nell’occhio del
ciclone. E a Tsana? La sua primogenita che la disprezzava così tanto?
A Tsana, dea del fuoco, Niah diede la fame.
Una fame senza fine.
b. Non era fango. Ahimè.
c. Naturalmente, il numero tre ha un significato importante a Itreya e l’adorazione del Semprevigile è
considerata la religione ufficiale della Repubblica. Comunque è interessante notare che perfino in
altre regioni in cui il culto di Aa non era altrettanto prevalente, il numero tre conserva comunque
un grandissimo valore culturale.
Prendete Liis, per esempio.
Nei cambi prima che il Collegio Itreyano di Ferro facesse marciare i suoi guerrieri ambulanti
per Liis e la conquistasse nel nome del Grande Unificatore, re Francisco I, i Liisiani avevano il
proprio pantheon, una trinità composta da Padre, Madre e Figlio. I bambini nati il terzo cambio
del mese venivano considerati benedetti. I terzogeniti di terzogeniti di terzogeniti venivano iniziati
al clero liisiano, senza alcuna eccezione. Infine, si diceva che ciascuno dei re liisiani possedesse
tre testicoli, un segno del loro diritto divino a governare.
Anche se all’inizio tale affermazione fu contestata dagli altri regnanti, alla fine fu dimostrata da
re Francisco I. Dopo la cattura dell’ultimo re liisiano, Lucius l’Onnipotente, alla Battaglia delle
sabbie scarlatte, il Grande Unificatore rimosse lo scroto del sovrano con il proprio pugnale e trovò
tre palle che lo fissavano tristi dalla loro sacca.
Per quanto grato che fosse stata attribuita veridicità alla leggenda, Lucius l’Onnipotente fu
tutt’altro che lieto per il metodo usato da Francisco per controllare.
Ma solo per breve tempo.
d. Il fornitore del miglior fumo itreyano, di ottimo liquore e della collezione più vasta di litografie
oscene di tutta Godsgrave.
e. Un gruppo si era avventurato nelle Frusciaride circa tre cambi prima, guidando una lunga fila di
cavalli senza carico. Considerate le armi in mostra, Mia li scambiò per tombaroli, ma in effetti si
trattava di pellegrini appartenenti a una fazione che abitava ai margini, noti come Kephiani. Quel
gruppo era stato convinto dal loro capo – un uomo di nome Emiliano Rostas – che il tempo del
risveglio della grande Keph fosse prossimo e che la dea della terra presto si sarebbe destata dal
suo sonno per causare la fine del mondo. Solo coloro che si fossero radunati fedelmente
all’Ombelico della dea (che Emiliano supponeva si trovasse nel deserto ashkahi) sarebbero stati
risparmiati.
Quando gli fecero notare che il viaggio poteva essere più rischioso che starsene seduti ad
aspettare la comparsa di Keph, Emiliano replicò che lui e i suoi seguaci erano i preferiti della dea
e lei non avrebbe permesso che accadesse loro alcun male.
Si può solo presumere che i pulvispettri che divorarono i loro cadaveri non avessero ricevuto il
promemoria della dea.
f. Il Focolare, un fuoco alimentato eternamente dalla dea Tsana all’interno della pancia della dea
della terra dormiente, Keph. Quelle fiamme attirano gli spiriti virtuosi dei morti e diventano più
calde e brillanti per ogni anima che accede all’aldilà. Gli Itreyani credono che il numero dei morti
a un certo cambio sarà così vasto che il fuoco sveglierà Keph e il mondo finirà.
Alle anime malvagie viene negato un posto presso il Focolare e sono costrette a vagare al
freddo per essere consumate da Niah. A volte, queste anime malvagie vengono rimandate nel
mondo dei vivi dalla dea per tormentare i virtuosi e i giusti. Chiamati i “Senzafuoco”, sono figure
comuni nella tradizione popolare e sono in agguato in tombe abbandonate o luoghi di un male
indicibile, per rapire bambini, deflorare vergini e provocare aumenti illogici e ingiustificati alle
tasse.
g. Distillato dal meccanismo di difesa dei leviatani di alto mare, l’inchiostro è un sedativo
allucinogeno. Iniettare la droga provoca sensazioni di benessere e perdita di controllo muscolare
(in natura, i leviatani usano l’inchiostro per sfuggire ai predatori: basta lanciarlo in faccia perché
anche il dracobianco più affamato cessi di preoccuparsi del suo primopasto per un po’). Chi lo usa
a lungo termine, però, soffre di perdita di empatia e, in caso di grave abuso, di completo distacco
dalla realtà.
Francisco XV, ultimo re di Itreya, fu un famigerato inchiostrambo. Sotto l’influsso della sua
dipendenza, perfino durante la rivolta che lo detronizzò, si narra che fosse assolutamente divertito
mentre la sua scorta personale lo dichiarava un traditore del popolo. Si dice che la regina Isabella,
anch’ella dipendente da quella sostanza, rise sguaiatamente quando Francisco venne fatto a pezzi
nella propria sala del trono.
Presumibilmente i suoi spasmi di risate si interruppero quando i repubblicani rivolsero le loro
lame su di lei e sui suoi figli.
CAPITOLO 7
PRESENTAZIONI
a. La “Pietra Filosofale”, com’era nota informalmente, era una sottile lancia di roccia al largo della
costa di Godsgrave, circondata da implacabili barriere coralline e profondità infestate da drachi. In
cima all’isolotto si trovava una fortezza estesa verso il basso, che secondo le dicerie era stata
scavata nella roccia da Niah in persona. In questa fossa, Godsgrave gettava qualunque criminale
non meritasse un’esecuzione immediata. La prigione traboccava di ladri e briganti, e gli
administratii sottopagati sembravano quasi del tutto indifferenti riguardo a provviste e cure
mediche, o al fatto che i galeotti fossero liberati al momento opportuno.
Una sentenza di un anno poteva facilmente arrivare fino a tre o cinque prima che i funzionari
della prigione trovassero il tempo per elaborare le scartoffie richieste. Pertanto, molti prigionieri
passavano gran parte del proprio tempo a riflettere a fondo sul concetto di ingiustizia, sulla natura
della criminalità e su come quel paio di stivali che avevano rubato non valesse davvero i cinque
anni di vita che era costato. Da qui, il nomignolo “Pietra Filosofale.”
A causa del sovraffollamento, il senato itreyano aveva escogitato un metodo ingegnoso e
divertente di controllo della popolazione noto come “la Calata”, che si teneva ogni tre anni,
durante il Carnivalé del verobuio. Comunque, un “incidente” inspiegato durante l’ultima Calata –
noto anche come la notte del Massacro del Verobuio – aveva portato alla distruzione di grandi
porzioni della Pietra Filosofale: la guglia stessa era parzialmente crollata. Da allora era stata
abbandonata: un involucro annesso vuoto, che si riteneva infestato dai fantasmi delle centinaia di
individui assassinati all’interno, gli orrori delle loro morti racchiusi nella pietra per l’eternità.
Bu!
b. Il neracciaio, noto anche come “antiferro”, era un metallo meraviglioso creato dagli stregoni
ashkahi prima della caduta dell’impero. Nero quanto il verobuio, non si arrugginiva né diventava
smussato, ed era possibile affilarlo fino all’inverosimile. Si diceva che i fabbri ashkahi tagliassero
a metà le loro incudini una volta completata una lama di neracciaio per dimostrarne il valore, una
pratica approvata con entusiasmo dalla gilda dei costruttori di incudini ashkahi.
Un famoso racconto narra di un ladro di nome Tariq che rubò una lama di neracciaio di
proprietà di un principe ashkahi. Nella sua fretta di fuggire dalla scena del crimine, il ladro lasciò
cadere la lama, che tranciò il pavimento e precipitò fino alle profondità della terra. La vampata di
fuoco liberata dalla ferita al mondo incendiò l’intera città. Da quel momento in poi, ad Ashkah la
pena per il furto divenne essere bruciati vivi: ogni ladro catturato ad Ashkah doveva essere legato
a un pilastro di pietra, poi gli veniva dato fuoco.
Certe persone rovinano la festa a tutti, non è vero?
CAPITOLO 8
SALVEZZA
Mia osservò una figura incedere dalle ombre, anch’essa vestita di grigio.
Era un omone con i bicipiti grandi quanto le sue cosce. Aveva la testa
rasata, con capelli cortissimi così biondi da essere quasi bianchi, il cuoio
capelluto ricoperto di cicatrici. La barba era acconciata in quattro punte sul
mento. Indossava una cintura portaspada, ma il fodero era vuoto. Quando
prese il suo posto, Mia osservò i suoi occhi e si accorse che era cieco.
«Trentasei» disse lui.
“Trentasei omicidi? Per mano di un cieco?”
«Aalea, Shahiid di Maschere, prega per noi.»
Un’altra donna avanzò nella luce soffusa con un’andatura ondeggiante,
tutta curve e pelle di alabastro. Mia scoprì di avere la bocca aperta: la nuova
arrivata era probabilmente la donna più bella su cui avesse mai posato gli
occhi. Folti capelli neri le ricadevano fino alla vita, occhi scuri truccati con
kajal, labbra dipinte di color rosso sangue. Era disarmata. In apparenza.
«Trentanove» disse, la voce come fumo dolce.
«Reverenda madre Drusilla, prega per noi.»
Una donna scivolò fuori dall’oscurità, silenziosa come una morte in
culla. Era anziana, con i grigi capelli ricci legati in trecce. Attorno al collo
pendeva una chiave di ossidiana su una catenella d’argento. Sembrava una
vecchietta gentile e i suoi occhi scintillarono quando rimirò il gruppo. A
Mia dava l’impressione di una donna che poteva starsene su una sedia a
dondolo presso un allegro focolare, con i nipotini sulle ginocchia e una
tazza di tè vicino al gomito. Non poteva trattarsi della gran sacerdotessa del
gruppo più letale di…
«Ottantatré» disse l’anziana, prendendo il suo posto sul podio.
“Che mi prenda la Mannaia, ottantatré…”
La Reverenda madre esaminò il gruppo con un sorriso gentile sulle
labbra.
«Vi porgo il benvenuto alla Chiesa Rossa, figli» disse. «Avete viaggiato
per miglia e anni per essere qui. E avete altre miglia e anni davanti a voi.
Ma alla fine del viaggio, sarete Lame, brandite per la gloria della dea nel
più santo dei sacramenti.
«Coloro che sopravvivranno, ovviamente.»
La vecchia gesticolò verso le quattro figure che la circondavano.
«Date ascolto alle parole dei vostri Shahiid. Sappiate che tutto ciò che
eravate prima di questo momento è morto. Che una volta votati alla
Mannaia, sarete suoi e suoi soltanto.» Una figura in una veste lunga e con
una ciotola argentea si accostò alla Reverenda madre e fece cenno a Mia.
«Porta il tuo tributo. I resti di un assassino, assassinato a sua volta e offerto
alla Nostra Signora dell’omicidio benedetto in quest’ora del tuo battesimo.»
Mia venne avanti con il borsello in mano. Il suo stomaco stava facendo
le giravolte, ma le mani erano salde come la roccia. Prese posto davanti alla
vecchia con il sorriso gentile e guardò in profondità in quegli occhi azzurro
pallido. Si sentì valutata, e si domandò se fosse stata giudicata carente.
«Il mio tributo» riuscì a dire. «Per la Mannaia.»
«Lo accetto nel suo nome con i suoi ringraziamenti sulle labbra.»
Mia sospirò nell’udire la risposta e per poco non cadde in ginocchio
quando la Reverenda madre l’abbracciò e le baciò una guancia dopo l’altra
con labbra gelide. Strinse forte Mia quando la ragazza respirò a fondo,
trattenendo calde lacrime. Poi, voltandosi verso la ciotola argentea,
l’anziana donna vi intinse una mano esile. Quando la tirò fuori, colava un
liquido rosso.
“Sangue.”
«Pronuncia il tuo nome.»
«Mia Corvere.»
«Giuri di servire la Madre della Notte? Imparerai la morte in tutti i suoi
colori e la porterai ai meritevoli e agli immeritevoli nel suo Nome?
Diventerai un’Accolita di Niah, uno strumento terreno del buio tra le
stelle?»
Mia scoprì di aver problemi a inspirare.
Il respiro profondo prima del tuffo.
«Lo giuro.»
La Reverenda madre premette il palmo contro la guancia di Mia,
macchiandole la pelle col sangue. Era ancora caldo, e l’odore di sale e rame
riempì i polmoni della ragazza. La vecchia le segnò una guancia e poi
l’altra, infine tracciò una lunga scia su labbra e mento di Mia. La ragazza
avvertì la solennità di quel momento nelle ossa, che le trascinava lo
stomaco fino agli stivali. La Madre annuì e Mia indietreggiò, stringendosi
forte e leccandosi il sangue dalle labbra, sul punto di piangere e ridere. Era
più vicina di un passo a vendicare la sua familia. A calpestare la tomba di
Scaeva.
Si rese conto di essere lì.
“Sono qui.”
Il rituale fu ripetuto: uno a uno, ciascun accolito portò il proprio tributo.
Alcuni offrirono denti, altri occhi; il ragazzo alto con le mani come magli
consegnò un cuore in decomposizione, avvolto in velluto nero. Mia si rese
conto che non c’era nemmeno uno di loro che non fosse un assassino. Che
di tutte le stanze della Repubblica, probabilmente non ce n’era nessuna più
pericolosa di quella in cui si trovava proprio in quel momento. f
«I vostri studi cominciano domani» disse la Reverenda madre.
«L’ultimopasto sarà servito all’Altare del Cielo tra mezz’ora.» Indicò la fila
di figure paludate. «Le Mani saranno disponibili se vi occorre assistenza, e
vi suggerisco di servirvene finché non saprete orientarvi. Sulle prime può
essere difficile aggirarsi per la Montagna, e perdersi in queste sale può
avere… conseguenze spiacevoli.» Occhi azzurri scintillarono nel buio.
«Camminate in silenzio. Imparate bene. Che la Nostra Signora possa
trovarvi il più tardi possibile. E quando lo farà, che possa accogliervi con un
bacio.»
L’anziana si inchinò e indietreggiò nell’oscurità. Gli altri membri del
Culto se ne andarono uno a uno. Tric si diresse da Mia e la salutò con un
sorriso, le guance arrossate. Era stato lavato e spazzolato, e perfino le sue
salciocche sembravano meno piene di vita propria.
«Ti sei rasato» lo sfotté lei.
«Non ti ci abituare. Accade due volte all’anno.» Guardò Naev a occhi
stretti, che si sgranarono lentamente quando la riconobbe. «Nel nome della
Signora, come…»
«Ci incontriamo di nuovo.» La donna magra fece un inchino profondo.
«Naev offre ringraziamenti per averla assistita in mezzo al deserto. Il debito
non sarà dimenticato.»
«Come fai a essere ancora in piedi e a respirare?»
«Questo posto cela segreti dentro segreti» disse Mia.
«Corvere?» la chiamò una voce sommessa alle sue spalle.
Mia si voltò. Era la ragazza che aveva notato, quella graziosa col
caschetto rosso frastagliato e occhi verdi da cacciatrice. Stava esaminando
Mia con attenzione, la testa inclinata. L’alto ragazzo itreyano con le mani
come magli torreggiava accanto a lei come un’ombra arrabbiata.
«Durante la cerimonia,» riprese la ragazza «hai detto che il tuo nome era
Corvere?»
«Sì» rispose Mia.
«Per caso sei imparentata con Darius Corvere? L’ex tribuno?»
Mia soppesò la ragazza nella sua mente. In forma. Veloce. Dura come il
legno. Ma chiunque fosse, Mia era certa che Scaeva e i suoi sgherri non
avessero alleati all’interno di queste mura; Remus e i suoi Luminatii
avevano giurato di porre fine alla Chiesa Rossa fin dal Massacro del
Verobuio, dopotutto. Ciò nonostante, Mercurio aveva esortato Mia a
lasciarsi alle spalle il nome quando avesse varcato questa soglia. Era una
delle poche cose su cui avevano litigato. Era stupido, forse. Ma la morte di
suo padre era l’unico motivo per cui aveva intrapreso questo percorso. Il
nome Corvere era stato cancellato dalle cronache da Scaeva e dai suoi
lacchè: lei non l’avrebbe abbandonato nella polvere, qualunque fosse stato
il prezzo.
«Sono la figlia di Darius Corvere» rispose infine Mia. «E tu sei?»
«Jessamine, figlia di Marcinus Gratianus.»
«Le mie scuse. È qualcuno che avrei dovuto sentir nominare?»
«Primo centurione della Legione dei Luminatii» la guardò storto la
ragazza. «Giustiziato per ordine del senato itreyano dopo la Ribellione degli
Incoronatori.»
Il cipiglio di Mia si attenuò. Madre Nera, era la figlia di uno dei
centurioni di suo padre. Una ragazza proprio come lei, resa orfana dal
console Scaeva, dal tribuno Remus e dal resto di quei bastardi. Qualcuno
che conosceva il sapore dell’ingiustizia tanto quanto lei.
Mia le porse la mano. «Piacere di incontrarti, sorella. Mio…»
Jessamine schiaffò via la mano, gli occhi lampeggianti. «Tu non sei mia
sorella, cagna.»
Mia percepì Tric adirarsi accanto a lei e il pelo di Messer Cortese si rizzò
nell’ombra ai suoi piedi. Si massaggiò le nocche schiaffeggiate e parlò con
cautela.
«Sono addolorata per la tua perdita. Davvero. Mio pa…»
«Tuo padre era un fottuto traditore» ringhiò Jessamine. «I suoi uomini
sono morti perché tennero fede ai loro giuramenti verso un tribuno folle, e
ora i loro teschi lastricano i gradini per la Casa del Senato. Per colpa del
potente Darius Corvere.»
«Mio padre era leale al generale Antonius» replicò Mia. «Anche lui
aveva promesse da onorare.»
«Tuo padre era un fottuto leccapiedi» sbraitò Jessamine. «Tutti sanno
perché seguiva Antonius, e non aveva nulla a che fare con l’onore. Mio
padre e mio fratello sono stati crocifissi a causa sua. Mia madre è morta di
dolore nel Manicomio di Godsgrave. E tutti loro non sono stati vendicati.»
La ragazza si avvicinò, gli occhi stretti. «Ma non per molto. Sarà meglio
che ti faccia crescere occhi sulla nuca, Corvere. E che ti abitui ad avere il
sonno leggero.»
Mia sostenne lo sguardo della ragazza senza sbattere le palpebre. Messer
Cortese si ingrossò sotto i suoi piedi. Naev scivolò vicino alla ragazza dai
capelli rossi, sussurrandole all’orecchio.
«Lei si toglierà dai piedi. O sarà tolta di mezzo.»
Jessamine lanciò un’occhiata alla donna, la mascella serrata. Dopo una
gara di sguardi che andò avanti per miglia, la ragazza girò i tacchi e si
allontanò, seguita dal grosso Itreyano. Mia si rese conto che stava
conficcando le unghie nei propri palmi.
«Sai sicuramente come farti degli amici, Figlia Pallida.»
Mia si voltò verso Tric e vide che sorrideva, anche se aveva la mano
infilata nella manica. La ragazza si rilassò un po’ e si concesse di sorridere
a sua volta. Per quanto non fosse brava a farsi degli amici, almeno ne aveva
uno dentro queste mura.
«Andiamo» disse il ragazzo. «Vogliamo mangiare l’ultimopasto o no?»
Mia guardò Jessamine mentre si allontanava, poi si girò a osservare gli
altri accoliti. Ora capiva molto meglio la realtà del luogo in cui si trovava.
Una scuola per assassini. Era circondata da novizi o maestri nell’arte
dell’omicidio. Lei era qui. Era fatta.
“È il momento di mettersi al lavoro.”
«Mi sembra una buona idea» concordò. «Non riesco a pensare a un posto
migliore per iniziare la ricognizione.»
«Che ricognizione?»
«Hai mai sentito il detto secondo cui il modo più rapido per arrivare al
cuore di un uomo è passare per lo stomaco?»
«Mi è sempre sembrato strano» si accigliò Tric. «La cassa toracica mi
sembra una strada molto più rapida.»
«Sì, è vero. Tuttavia, puoi imparare parecchio sugli animali guardandoli
mangiare.»
«… A volte sei un po’ inquietante, Figlia Pallida.»
Lei gli rivolse un sorriso beffardo. «Solo un po’?»
«Be’, le altre volte sei assolutamente spaventosa.»
«Andiamo» disse lei dandogli una pacca sul braccio «Ti offro da bere.»
a. Più palle che cervello, gentili amici. Più palle che cervello.
b. Quella rifiutò, ma purtroppo i due danzarono lo stesso.
c. Il fiume Rosa possiede il nome più fuorviante di tutta la Repubblica itreyana e forse di tutta la
creazione. Il suo lezzo è così tremendo che, quando gli venne offerta la scelta tra essere affogato
nel Rosa o essere castrato e crocifisso, l’eretico niahano Dominus Anton Bosconi disse ai suoi
confessori la frase diventata proverbiale: “Andreste a prendere un coltello, per cortesia, gentili
amici?”.
d. L’aureovino è un liquore itreyano che prende il nome dai vasti campi di cereali nelle regioni
interne in cui viene distillato. Diverse familiae sono note per le loro ricette, in particolare i Valente
e gli Albari.
La rivalità tra le due familiae è degenerata da cattivo sangue a un vero e proprio spargimento di
sangue in più di un’occasione, la più famosa delle quali, la Guerra delle Dodici Botti, durò quattro
veribui e costò la vita a non meno di trentadue persone. Dichiarato una Vendetta ufficiale – ovvero
una faida di sangue autorizzata dalla Santa Chiesa di Aa –, il conflitto venne chiamato così perché,
tra i massacri e gli incendi che lo incarnarono, solo dodici botti di liquore Albari sopravvissero per
essere distribuite nella Repubblica.
Le bottiglie di “Dodici Botti” sono dunque estremamente rare e straordinariamente costose: è
noto come un’unica bottiglia sia stata battuta per oltre quarantamila coglioni d’oro all’asta.
Quando la villa estiva del senatore Ari Giancarli fu data alle fiamme da due servitori maldestri, si
dice che Giancarli si precipitò nella casa che bruciava non meno di tre volte: per salvare sua
moglie, suo figlio e le sue due bottiglie di Dodici Botti.
Le dicerie secondo cui salvò le bottiglie per prime sono, naturalmente, clamorose ingiurie nei
suoi confronti inventate da avversari politici e non hanno alcun fondamento nella realtà.
(Le salvò per seconde.)
e. Una delle prove preferite del vecchio all’inizio dell’apprendistato di Mia era un gioco che
chiamava “Prete di ferro”, in cui lui e la ragazza vedevano chi riusciva a resistere più a lungo
senza parlare. Anche se sulle prime Mia pensava che fosse un gioco per mettere alla prova la sua
pazienza e determinazione, negli anni successivi Mercurio confessò di averlo inventato solo per
avere un po’ di pace e silenzio nel negozio.
La sua prova più famigerata, però, ebbe luogo quando Mia aveva dodici anni. Durante un
freddinverno particolarmente gelido, il vecchio ordinò alla ragazza di aspettare sui tetti di fronte
alla Grande Cappella di Tsana l’arrivo di un messaggero con dei guanti rossi e di seguire il
ragazzo ovunque andasse. Le disse che si trattava di una faccenda di “disperata importanza”.
Il messaggero, naturalmente, era uno dei numerosi agenti di Mercurio in città. Non stava
viaggiando in nessuna località importante – disperata o meno – ma aveva il semplice scopo di
guidare Mia in un inutile inseguimento nel freddo fino ad arrivare al negozio di curiosità.
Comunque, all’insaputa di Mercurio, il ragazzo fu colpito da un cavallo imbizzarrito mentre era
diretto al quartiere del tempio e perciò non arrivò mai.
Mia rimase sui tetti malgrado il freddo tremendo (soltanto un sole si trova nel cielo durante gli
inverni di Godsgrave, e il gelo è lungo e pungente). Quando cominciò a cadere la neve, lei rifiutò
di muoversi per paura di perdere il suo obiettivo. Quando il mattino successivo Mercurio vide che
Mia non era arrivata, si preoccupò e percorse a ritroso il tragitto assegnato al messaggero finché
non arrivò in cima al tetto nel quartiere del tempio. Lì trovò la sua apprendista, quasi in ipotermia,
percorsa da tremiti incontrollabili e gli occhi ancora fissi sulla Cappella di Tsana. Quando il
vecchio chiese perché, nel nome della Madre, Mia fosse rimasta sul tetto quando era in pericolo di
morire congelata, la dodicenne rispose semplicemente: “Hai detto che era importante”.
Come ho detto, non era priva di doti.
f. Sorprendentemente, straordinariamente, incredibilmente inesatto.
CAPITOLO 9
TENEBRA
Il vecchio le raddrizzò il naso meglio che poteva, poi le pulì il sangue dalla
faccia con uno straccio intriso di qualcosa dall’odore pungente e metallico.
La fece sedere a un tavolino sul retro della sua bottega e le preparò il tè.
La stanza era a metà tra una cucina e una biblioteca. Tutto era avvolto
nelle ombre, le imposte tirate per non lasciar entrare la soliluce. a Un’unica
lampada arkemica illuminava pile di stoviglie sporche e altre, più alte e
ondeggianti, di libri. Il dolore di Mia la lasciò mentre sorseggiava l’infuso
di Mercurio: il caos pulsante in mezzo alla sua faccia veniva reso
pietosamente insensibile. Lui le diede la torta di semiele e la guardò
divorarne tre fette, come un ragno osserva una mosca. E quando lei spinse
da parte il piatto, Mercurio finalmente parlò.
«Come sta il naso?»
«Non fa più male.»
«Buono il tè, eh?» Sorrise. «Come si è rotto?»
«Il ragazzo grosso. Spadini. Gli ho puntato il coltello contro le parti
basse e lui mi ha colpito.»
«Chi ti ha detto di puntare alle noci di un ragazzo in una baruffa?»
«Mio padre. Diceva che il modo più rapido di battere un ragazzo è fargli
desiderare di essere una ragazza.»
Mercurio ridacchiò. «Duum’a.»
«Che significa?» Mia sbatté le palpebre.
«… Non parli liisiano?»
«Perché dovrei?»
«Pensavo che te l’avesse insegnato tua madre. Era di quelle parti.»
Mia fu sorpresa. «Ah sì?»
Il vecchio annuì. «È passato molto tempo, ormai. Prima che si sposasse
e diventasse una domina.»
«Lei… non ne ha mai parlato.»
«Non ce n’era motivo, suppongo. Immagino che pensasse di essersi
lasciata alle spalle quelle strade per sempre.» Fece spallucce. «Comunque,
la traduzione più fedele di “duum’a” sarebbe “è saggio”. Lo dici quando
senti parole che condividi. Come potresti replicare “ben detto” o cose del
genere.»
«E “Neh diis…”» Mia si accigliò, impappinandosi con la pronuncia.
«“Neh diis lus’a… lus diis’a”? Cosa significa?»
Mercurio sollevò un sopracciglio. «Dove l’hai sentito?»
«Sono le parole che ha rivolto il console Scaeva a mia madre. Quando le
ha detto di supplicare per la mia vita.»
Mercurio si accarezzò la barbetta. «È un vecchio adagio liisiano.»
«Cosa significa?»
«Quando tutto è sangue, il sangue è tutto.»
Mia annuì: le pareva di aver capito. Sedettero in silenzio per un po’ e il
vecchio accese uno dei suoi sigaretti al sapore di chiodi di garofano,
inalando a fondo. Infine Mia parlò di nuovo.
«Hai detto che mia madre veniva da lì? Da Piccola Liis?»
«Sì. Molto tempo fa.»
«Aveva la sua familia lì? Qualcuno che potrei…»
Mercurio scosse il capo. «Se ne sono andati, bambina. O sono morti.
Probabilmente entrambe le cose.»
«Come mio padre.»
Il vecchio si schiarì la gola e prese una boccata dal sigaretto.
«… È stata una vergogna. Quello che gli hanno fatto.»
«Hanno detto che era un traditore.»
Una scrollata di spalle. «Un traditore è semplicemente un patriota dalla
parte sbagliata rispetto a chi vince.»
Mia scostò la frangia dagli occhi e lo guardò speranzosa. «Era un
patriota, allora?»
«No, piccolo Corvo» disse il vecchio. «Ha perso.»
«E l’hanno ucciso.» L’odio le crebbe nel petto e le appallottolò le mani
in pugni. «Il console. Quel prete grasso. Il nuovo tribuno. Loro l’hanno
ucciso.»
Mercurio esalò un sottile anello grigio e la osservò attentamente. «Lui e
il generale Antonius volevano rovesciare il senato, ragazza. Avevano
radunato un dannato esercito e progettavano di marciare contro la propria
capitale. Pensa quante persone sarebbero morte se non fossero stati
catturati prima che la guerra cominciasse per davvero. Forse dovevano
impiccare tuo padre. Forse se lo meritava.»
Mia sgranò gli occhi e scalciò via la sedia, allungando una mano verso
il suo coltello, che però non era al solito posto. Allora la rabbia riaffiorò,
tutto il dolore e la collera delle ultime ventiquattr’ore le avvamparono
dentro e l’ira che la pervase era tanto copiosa da farle tremare braccia e
gambe.
Anche le ombre nella stanza cominciarono a fremere.
Il buio si contorse, ai suoi piedi e dietro i suoi occhi. Serrò i pugni e
sbraitò a denti stretti: «Mio padre era un brav’uomo. E non meritava di
morire così».
La teiera scivolò dal ripiano con uno schianto. Le ante degli armadietti
sbatacchiarono sui cardini, le tazze danzarono sui rispettivi piattini. Torri
di libri crollarono e si sparsero per il pavimento. L’ombra di Mia si allungò
verso quella del vecchio, artigliando le assi scheggiate, con le unghie che si
staccavano man mano che si avvicinava. Messer Cortese prese forma ai
suoi piedi, sollevando peli trasparenti, sibilando e soffiando. Mercurio
indietreggiò per la stanza più velocemente di quanto lei avrebbe
immaginato potesse fare un vecchio, le mani sollevate in segno di supplica
e il sigaretto che pendeva da labbra secche come osso.
«Pace, pace, piccolo Corvo» implorò. «Una prova, è solo una prova.
Non intendevo offenderti.»
Mentre le stoviglie smettevano di tremare e gli armadietti tacevano, Mia
si afflosciò sulla sedia, le lacrime che lottavano con la rabbia. Tutto le
stava crollando addosso. La vista di suo padre che dondolava, le urla di
sua madre, dormire nei vicoli, essere derubata e picchiata… tutto quanto.
Era troppo.
Troppo.
Messer Cortese le girò attorno ai piedi, facendo le fusa e muovendosi
furtivo proprio come un gatto vero. L’ombra di Mia scivolò indietro lungo il
pavimento, addensandosi nella sua forma normale, solo un po’ più scura.
Mercurio la indicò.
«Da quanto tempo ti ascolta?»
«… Cosa?»
«La tenebra. Da quanto tempo ascolta quando la invochi?»
«Non so cosa intendi.»
Si accovacciò sulla sedia, cercando di tenere tutto dentro. Di
appallottolarlo e spingerlo giù fin dentro le scarpe. Le tremavano le spalle.
Le faceva male la pancia. E cominciò a singhiozzare piano.
Oh, Figlie, quanto odiava se stessa, in quel momento…
Il vecchio frugò nel suo pastrano, tirò fuori un fazzoletto quasi pulito e
glielo diede. La osservò afferrarlo e tamponare meglio che poteva il naso
rotto, lacrime cariche d’odio tra le ciglia. E infine si inginocchiò sulle assi
di fronte a lei e la guardò con occhi azzurri e taglienti come diamanti
grezzi.
«Non so cosa significhi nulla di tutto questo» mormorò lei.
Gli occhi del vecchio scintillarono mentre sorrideva. Con un’occhiata in
direzione del gatto fatto di ombre, Mercurio estrasse lo stiletto di sua madre
dal pastrano e lo conficcò nelle assi tra loro. Il necrosso levigato scintillò
alla luce della lanterna.
«Ti piacerebbe imparare?» le chiese.
Mia fissò il coltello e annuì lentamente. «Sì, signore.»
«Niente “signore” da queste parti, piccolo Corvo. Niente dominus o
domina. Solo tu e io.»
Mia si morse il labbro, tentata di afferrare semplicemente la lama e
darsela a gambe.
Ma dove sarebbe andata? Cos’avrebbe fatto?
«Come dovrei chiamarvi, allora?» chiese infine.
«Dipende.»
«Da cosa?»
«Se vuoi riprendere ciò che è tuo da coloro che te l’hanno portato via.
Se sei il tipo di persona che non dimentica e non perdona. Che vuole capire
perché la Madre ti ha marchiato.»
Mia lo fissò senza sbattere le palpebre. La sua ombra si increspò ai suoi
piedi.
«E se lo fossi?»
«Allora mi chiamerai “Shahiid”. Fino al cambio in cui io ti chiamerò
“Mia”.»
«Cosa significa “Shahiid”?»
«È una vecchia parola ashkahi. Significa “Maestro onorato”.»
«E voi come mi chiamerete nel frattempo?»
Un sottile anello di fumo uscì dalle labbra del vecchio quando parlò.
«Indovina.»
«… Apprendista?»
«Sei più sveglia di quanto sembri, ragazza. Una delle poche cose che mi
piacciono di te.»
Mia fissò l’ombra sotto i suoi piedi, poi alzò lo sguardo al bagliore della
soliluce in attesa appena oltre le imposte. Godsgrave. La città di ponti e
ossa, che si stava riempiendo lentamente delle ossa di coloro che amava.
Là fuori non c’era nessuno che poteva aiutarla, lo sapeva. E se aveva
intenzione di liberare sua madre e il suo fratellino dalla Pietra Filosofale,
se voleva impedire che finissero in una tomba accanto a quella di suo padre
– sempre che l’avessero seppellito –, se aveva intenzione di portare
giustizia a coloro che avevano distrutto la sua familia…
Be’, avrebbe avuto bisogno d’aiuto, giusto?
«D’accordo, allora. Shahiid.»
Mia allungò la mano per prendere il suo coltello. Mercurio lo allontanò
con un gesto rapidissimo e lo tenne sollevato in mezzo a loro. Minuscoli
occhi d’ambra luccicarono su di lei nell’oscurità.
«Non finché non te lo sarai guadagnato» disse.
«Ma è mio» protestò Mia.
«Dimentica la ragazza che aveva tutto. È morta quando suo padre è
stato impiccato.»
«Ma io…»
«Nulla è da dove comincerai. Non possedere nulla. Non sapere nulla.
Non essere nulla.»
«E perché vorrei farlo?»
Il vecchio schiacciò il sigaretto sulle assi tra loro.
Sorrise, e Mia fece lo stesso.
«Perché allora potrai fare qualunque cosa.»
Negli anni a venire, Mia avrebbe ripensato al momento in cui vide per la
prima volta l’Altare del Cielo e avrebbe capito che allora aveva cominciato
a credere nelle divinità. Oh, Mercurio l’aveva indottrinata nella religione
della Madre. La morte come un’offerta. La vita come una vocazione. E
prima di allora era stata allevata come una brava figlia di Aa timorata di
dio. Ma era stato solo quando aveva guardato da quella balconata che aveva
accettato che potesse essere probabile o cominciato a capire davvero
dov’era.
Lei e Tric furono condotti su per un’altra rampa di scale (apparentemente
interminabile) della Chiesa da Naev e altre figure con lunghe vesti. Tutti e
ventotto gli accoliti avevano deciso di cenare; parlavano sommessamente
mentre salivano, e il miscuglio dei loro accenti ricordava a Mia il mercato
di Piccola Liis. Ma tutte le conversazioni si interruppero quando il gruppo
raggiunse il pianerottolo. A Mia si mozzò il fiato e premette una mano
contro il petto. Naev le sussurrò all’orecchio.
«Benvenuta all’Altare del Cielo.»
La piattaforma era intagliata nel fianco della Montagna, senza alcuna
copertura. I tavoli erano disposti a “T” e l’odore di carne arrosto e pane
fresco baciava l’aria. Anche se il suo stomaco brontolò alla presenza di
cibo, i pensieri di Mia si concentrarono sul panorama di fronte a lei.
La piattaforma sporgeva dal fianco della Montagna e un precipizio di
mille piedi attendeva appena oltre il parapetto di legnoferro. Poteva vedere
le Frusciaride sottostanti, minuscole, perfette e immobili. Ma sopra, dove il
cielo avrebbe dovuto ardere per la luce dei soli ostinati, poteva vedere solo
oscurità, nera, integra e perfetta.
Colma di stelle minuscole.
«Nel nome della Luce, cosa…» mormorò.
«Non la Luce» biascicò Naev. «La tenebra.»
«Come può essere? Il verobuio non calerà almeno per un altro anno.»
«È sempre verobuio, qui.»
«Ma è impossibile…»
«Solo se qui è dove lei suppone che sia.» La donna scrollò le spalle. «Ma
non è così.»
Agli accoliti vennero mostrati i loro posti mentre fissavano imbambolati
l’oscurità sopra di loro. Anche se a quest’altitudine avrebbe dovuto ululare,
nemmeno un alito di vento disturbava la scena. Non c’era alcun rumore,
tranne voci sussurrate e il battito frenetico di Mia.
Si ritrovò seduta con Tric alla sua destra e il ragazzo esile con gli occhi
azzurro ghiaccio alla sua sinistra. Di fronte a lei c’era la coppia che Mia
aveva presunto essere fratello e sorella. La ragazza aveva capelli biondi
intrecciati in bellitrecce strette e rasati sui lati. Il suo volto era grazioso, con
fossette e una spolverata di lentiggini. Suo fratello possedeva lo stesso volto
tondo, anche se non sorrideva, perciò niente fossette. I suoi capelli erano
piccole punte basse e aggrovigliate. Entrambi avevano occhi azzurri come
cieli limpidi. Le loro guance erano ancora incrostate del sangue della
cerimonia del battesimo.
Dal suo arrivo, Mia aveva già ricevuto una minaccia di morte. Si
domandò se ogni accolito del gruppo di quell’anno sarebbe stato un
avversario o un nemico vero e proprio.
La ragazza bionda indicò le guance di Mia con il coltello. «Hai qualcosa
sulla faccia.»
«Anche tu» annuì Mia. «Quel colore ti sta bene, però. Fa risaltare i tuoi
occhi.»
La ragazza sbuffò e mostrò un sorriso sghembo.
«Bene» disse Mia. «Vogliamo presentarci o semplicemente guardarci in
cagnesco per tutto il pasto?»
«Io sono Ashlinn Järnheim» replicò la ragazza. «Per gli amici Ash.
Questo è mio fratello Osrik.»
«Mia Corvere. Questo è Tric» disse Mia, indicando col capo il suo
amico.
Da parte sua, Tric stava guardando torvo l’altro Dweymeri seduto al
tavolo. Il ragazzo più grosso aveva mascella squadrata e fronte piatta come
lui, ma era più alto, con le spalle più ampie, e mentre i tatuaggi di Tric
erano grossolani e malfatti, il volto del ragazzo più grosso era decorato con
inchiostri di foggia squisita. Stava osservando Tric come un dracobianco
guarda un cucciolo di foca.
«Salve, Tric» disse Ashlinn offrendogli la mano.
Il ragazzo la strinse senza guardarla. «Piacere.»
Ashlinn, Osrik e Mia guardarono tutti quanti il ragazzo pallido alla
sinistra di Mia. Da parte sua, il giovane stava fissando il cielo buio. Aveva
le labbra increspate come se si stesse succhiando i denti. Mia si rese conto
che era bello – be’, “grazioso” probabilmente era una parola migliore –, con
zigomi alti e gli occhi azzurri più penetranti che lei avesse mai visto. Ma era
magro. Troppo magro.
«Io sono Mia» disse, porgendogli la mano.
Il ragazzo sbatté le palpebre e voltò lo sguardo sulla ragazza. Sollevò
una tavoletta di carbone che aveva in grembo, ci scrisse sopra con un
gessetto e la tenne sollevata perché Mia la vedesse.
ZITTO , diceva.
Mia sbatté le palpebre. «È quello il tuo nome?»
Il ragazzo grazioso annuì e tornò a fissare il cielo in silenzio. Non emise
nemmeno un suono per tutto il pasto.
Ashlinn, Osrik e Mia parlarono quando venne servito il cibo: brodo di
pollo e montone con burro al limone, verdure arrosto e un delizioso rosso
itreyano. Ashlinn quasi monopolizzò la conversazione, mentre Osrik
sembrava più concentrato a controllare la stanza. I fratelli avevano sedici e
diciassette anni (Osrik era il maggiore) ed erano arrivati cinque cambi
prima. Il loro mentore (e padre, a quanto pareva) era stato molto più
esplicito rispetto al vecchio Mercurio su come trovare la Chiesa, così i
fratelli avevano evitato qualunque mostro sulla loro strada per la Montagna
Silente. Ashlinn parve impressionata dalla storia di Mia con i kraken delle
sabbie. Osrik sembrava più colpito da Jessamine. La rossa, con i suoi astuti
occhi da lupo, era seduta a tre sgabelli di distanza e Osrik pareva incapace
di distogliere lo sguardo. Da parte sua, la ragazza sembrava più interessata
all’itreyano grande e grosso seduto accanto a lei, gli sussurrava e ogni tanto
fissava Mia come se volesse ucciderla con lo sguardo.
Mia riuscì a percepire altre occhiate, furtive o prolungate: anche se
alcuni erano più bravi di altri a mascherarlo, quasi ogni accolito stava
studiando i propri compagni. Zitto si limitò a fissare il cielo e sorseggiò il
suo brodo come se fosse un’incombenza, senza toccare altro cibo.
Mia osservò il Culto tra una portata e l’altra, notando il modo in cui
interagivano. Solis, lo Shahiid di Canti cieco, pareva dominare la
conversazione, anche se dagli occasionali scoppi di risate che suscitava,
pareva che Mouser, lo Shahiid di Tasche, fosse dotato dell’arguzia più
spiccata. Ammazzaragni e Aalea, Shahiid di Verità e di Maschere, sedevano
così vicine che quasi si toccavano. Tutti portavano estremo rispetto alla
Reverenda madre Drusilla e le conversazioni si interrompevano quando
l’anziana parlava.
Erano a metà della portata principale quando Mia avvertì un senso di
nausea insinuarsi nelle viscere. Si guardò attorno e percepì Messer Cortese
rigirarsi nella sua ombra. La Reverenda madre si alzò all’improvviso e i
membri del Culto attorno a lei si affrettarono a imitarla, gli sguardi bassi.
Madre Drusilla parlò, gli occhi fissi sugli accoliti.
«Alzatevi tutti quanti, per favore.»
Mia si alzò in piedi, accigliandosi un po’. Ashlinn si voltò verso il
fratello, sussurrando in un tono prossimo al fervore.
«Madre Nera, lui è qui.»
Mia si accorse che c’era un uomo con i capelli neri sulla balconata
dell’Altare del Cielo, che si affacciava sul deserto mutevole lì sotto, anche
se avrebbe giurato di non averlo visto entrare nella stanza. Percepì la
propria ombra tremolare, rimpicciolirsi, e Messer Cortese raggomitolarsi ai
suoi piedi.
«Lord Cassius» disse Drusilla con un inchino. «Voi ci onorate.»
L’uomo si voltò verso la Reverenda madre con un sorriso accennato. Era
alto, muscoloso e vestito con morbido cuoio scuro. Lunghi capelli neri
incorniciavano occhi penetranti e una mascella su cui ti saresti potuto
rompere il pugno. Portava un pesante mantello nero e lame gemelle alla
cintura. Era perfettamente ordinario. Perfettamente letale. Parlò con una
voce che fece pizzicare Mia in tutti i punti sbagliati.
«Pace a voi, Reverenda madre.» Occhi scuri vagarono sui nuovi accoliti,
ancora in piedi come sull’attenti. «Desideravo semplicemente ammirare il
panorama. Posso unirmi a voi?»
«Ma certo, mio signore.»
La Reverenda madre liberò il suo posto a capotavola e gli altri Shahiid
del Culto si spostarono per fare spazio al nuovo arrivato. Ancora
sorridendo, l’uomo si diresse verso la sedia vuota, silenzioso come il
tramonto. Con movimenti fluidi come acqua, spostò da una parte il mantello
quando occupò il posto della Reverenda madre. La nausea nella pancia di
Mia crebbe quando lo strano uomo lanciò un’occhiata proprio verso di lei.
Ma quando si mise seduto e sollevò una coppa di vino, quell’incantesimo di
completa immobilità che sembrava aver lanciato sulla stanza pian piano si
ruppe. Le Mani si precipitarono per apparecchiare un nuovo posto al tavolo
e i membri del Culto si accomodarono lentamente ai loro posti, seguiti dagli
accoliti. Le conversazioni ricominciarono, caute sulle prime, ma
rilassandosi poco a poco fino a riempire la stanza.
Mia si ritrovò a fissare il misterioso nuovo arrivato per tutto il pasto, con
gli occhi che tracciavano la linea della sua mascella, della sua gola. Era
certa che fosse un trucco della luce, ma i suoi lunghi capelli corvini
sembravano quasi muoversi e i suoi occhi scintillare di una certa luce
interiore.
Mia cercò Naev, ma la donna era seduta con altre Mani, troppo lontana.
«Ashlinn» sussurrò infine. «Chi è quello?»
La ragazza guardò Mia stupefatta. Suo fratello Osrik sollevò un
sopracciglio.
«Denti della Mannaia, Corvere, quello è Cassius. Il Principe Nero.
Signore delle Lame. Capo dell’intera congregazione. Il conto dei suoi corpi
è maggiore di una necropoli liisiana.»
«Cosa ci fa qui? È un insegnante?»
«No.» Osrik scosse il capo. «Non avevamo idea che sarebbe stato qui
stasera.»
«Papà ci diceva sempre che Cassius se ne stava alla larga da qui» disse
Ashlinn. «Mantiene segreti i suoi movimenti. Nessun discepolo della
Chiesa sa dove sarà finché non ci arriva. Frequenta la Montagna solo per le
cerimonie di iniziazione, dicono.»
Osrik annuì e lanciò un’occhiata agli studenti attorno a loro. «Alcuni
accoliti posano gli occhi su di lui appena una volta in tutta la vita. La notte
in cui li dichiara Lame a pieno titolo. Se verrai scelta, lui ti consacrerà
proprio come ha fatto la Reverenda madre stanotte al battesimo.» Il ragazzo
indicò il sangue secco sulle gote di Mia. «Ma lo farà col proprio sangue.
Quello del Signore delle Lame. Mano Destra della Madre in persona.»
Mia scoprì che non riusciva a staccare gli occhi da quell’uomo.
Ashlinn le rivolse un sorriso con le sue fossette.
«Per essere il capo di un culto di pluriomicidi, non è così brutto, vero?»
Mia scostò la frangia dalle ciglia, il cuore in gola. Ashlinn non stava…
«Continua a fissarmi, koffi» disse una voce profonda «e ti caverò quegli
occhi graziosi.»
Mia sbatté le palpebre nel silenzio improvviso e tornò a voltarsi verso il
proprio tavolo. Si accorse che il grosso ragazzo dweymeri stava parlando
con Tric, lo sguardo carico di disprezzo.
Tric si alzò, il coltello dell’arrosto stretto in mano.
«Come mi hai chiamato, bastardo?»
«Tu definisci me bastardo?» Il grosso Dweymeri rise. «Io mi chiamo
Chiamapiena, terzogenito di Corripioggia del clan Lanciamarina. Qual è il
tuo clan, koffi? Tuo padre ha almeno detto a tua madre come si chiamava
quando ha finito di togliersi la sua puzza dall’uccello?»
Tric impallidì e serrò la mascella.
«Sei un uomo morto, cazzo» sibilò.
Mia gli mise una mano sul braccio per trattenerlo, ma Tric si lanciò
verso la gola di Chiamapiena. Il ragazzo più grande si alzò in piedi e balzò
sopra il tavolo, sbattendo da una parte piatti, bicchieri, e perfino Mia e Zitto
nella fretta di arrivare a Tric. Mia cadde tra un’imprecazione e uno schianto
di stoviglie; la sua spalla andò a sbattere contro il ragazzo pallido,
levandogli il fiato in uno spruzzo di saliva.
Chiamapiena afferrò Tric in una stretta poderosa mentre finivano sul
pavimento tra piatti e bicchieri che si rompevano. Pesava un centinaio di
libbre più di Tric ed era probabilmente la persona più forte nella stanza. Era
più grosso perfino dello Shahiid di Canti, che voltò gli occhi ciechi verso la
mischia e tuonò: «RAGAZZI, BASTA!».
Ma loro non udirono ragione e continuarono a battersi, vibrare pugni e
sbraitare. Tric mise a segno un buon colpo sulla faccia di Chiamapiena,
schiacciandogli le labbra contro i denti. Ma Mia rimase stupefatta dalla
facilità con cui il grosso Dweymeri sottomise Tric, rigirandolo e vibrando
un colpo dopo l’altro contro le costole del ragazzo più piccolo, poi altri
sulla sua mascella. Gli accoliti si radunarono attorno alla zuffa, ma nessuno
mosse un dito per aiutare. Mia si staccò da Zitto e stava per intervenire
quando vide lo Shahiid Solis allontanare la propria sedia con un calcio e
dirigersi verso la mischia.
Anche se l’uomo sembrava completamente cieco, si mosse con passo
rapido e sicuro. Toccò la spalla di Chiamapiena con una mano, poi mollò un
gancio come un’incudine sulla mandibola del ragazzo, facendolo finire
lungo disteso. Tric cercò di rialzarsi, ma Solis gli conficcò lo stivale in
pancia, togliendogli con un colpo solo il fiato e la voglia di combattere.
Voltandosi verso Chiamapiena, lo Shahiid gli pestò con forza i gioielli e il
ragazzo dweymeri si raggomitolò in una palla urlante.
C’erano voluti solo pochi attimi, ma lo Shahiid aveva messo in riga
entrambi i ragazzi come cuccioli disobbedienti; per tutto il tempo, i pallidi
occhi senza vista erano stati rivolti verso il cielo.
«Vergognoso» ringhiò, afferrando entrambi i giovani gementi per la
collottola. «Se dovete combattere come cani, potete mangiare di fuori col
resto di loro.»
Lo Shahiid di Canti trascinò Tric e Chiamapiena sul balcone. Afferrando
entrambi per la gola, l’omone li spinse contro il parapetto, quel precipizio di
mille piedi spalancato sotto di loro. Tutti e due stavano soffocando e
artigliavano la stretta dello Shahiid. Gli occhi ciechi dell’uomo non
mostravano alcuna pietà: i ragazzi erano solo a un passo dalla morte sulle
rocce sottostanti. Mia aveva la mano sul pugnale quando la Reverenda
madre parlò.
«Basta, Solis.»
L’uomo inclinò la testa e voltò occhi bianco-latte verso il suono della sua
voce.
«Reverenda madre» disse.
Chiamapiena e Tric crollarono a terra ansimando. Mia stessa riusciva a
respirare a malapena. Cercò Cassius e scoprì che se n’era semplicemente
andato, una sedia vuota a indicare il punto dove il Signore delle Lame era
stato solo pochi istanti prima. Ancora una volta, giurò di non averlo
nemmeno visto muoversi. Madre Drusilla si spostò dal suo tavolo e si
diresse verso i due ragazzi che giacevano a terra tossendo e sputacchiando.
«Oh, ricordo cosa si prova a essere giovane. C’è sempre qualcosa da
dimostrare. E poi sono solo ragazzi, dicono.» Si inginocchiò e toccò la
guancia insanguinata di Tric, poi lisciò le salciocche di Chiamapiena. «Ma
voi non siete più ragazzi. Siete servitori della Madre, votati alla sua Chiesa.
Assassino uno, assassini tutti. E mi aspetto che tutti voi vi comportiate
come tali.» Alzò lo sguardo sugli accoliti radunati. «Stasera è stato dato un
pessimo esempio.»
Madre Drusilla aiutò i Dweymeri sanguinanti ad alzarsi in piedi e la sua
facciata matronale scomparve per un attimo quando ognuno dei suoi
ottantatré omicidi trasparì dalla sua voce.
«Dunque. La prossima volta che voi due finirete ad azzuffarvi come
ragazzi in un vicolo, mi assicurerò che rimaniate ragazzi per il resto delle
vostre vite. Sono stata chiara?»
Mia osservò quei due tipi grandi e grossi rimpicciolirsi e guardarsi i
piedi. E quando parlarono all’unisono, come marmocchi davanti a un
genitore che li stava sgridando, tutto ciò che riuscirono a tirar fuori fu uno
squittio.
«Sì, Reverenda madre» dissero.
«Bene.» Quel sorriso materno tornò come se non se ne fosse mai andato,
e Drusilla spostò uno sguardo gentile sugli accoliti. «Credo che la cena sia
terminata per stasera. Andate alle vostre camere, tutti quanti. Domani
cominciano le lezioni.»
Il gruppo si disgregò lentamente, defilandosi giù per le scale. Quando
Mia andò al fianco di Tric ed esaminò il taglio insanguinato sulla fronte,
notò Jessamine che la osservava con le labbra contorte in un sogghigno.
Chiamapiena se ne andò zoppicando, lo sguardo omicida ancora dipinto sul
volto. Ashlinn si congedò da Mia con un cenno del capo e scese per le
scale. Mia si ritrovò a fissare per un’ultima volta il posto dove era stato
seduto Cassius.
“Mano Destra della Madre in persona…”
Rimase in silenzio per tutto il tragitto fino alle camere da letto, sempre
più arrabbiata. Perché Tric era scattato così facilmente? Dov’era sparito il
ragazzo taciturno che aveva sopportato gli scherni nella sala comune del
Vecchio Imperiale? Aveva perso la calma di fronte al signore dell’intera
congregazione. Nel corso della sua prima sera. Il suo accesso d’ira avrebbe
potuto farlo uccidere. Questo non era un luogo che perdonava gli errori.
Alla fine, proprio fuori dalla sua porta, Mia non riuscì più a trattenersi.
«Sei uscito di testa?» sibilò, con la voce più forte che osava. «Cos’è
stato?»
«Come vanno le costole, Tric?» chiese lui. «Non ho potuto fare a meno
di notare che ti hanno preso a calci come si deve. Oh, io sto bene, Figlia
Pallida, grazie per…»
«Che ti aspettavi? È il nostro primo cambio tra queste mura e tu hai già
fatto incazzare lo Shahiid Solis e probabilmente l’assassino più temuto della
Repubblica itreyana. E non dimentichiamoci dell’accolito che ha intenzione
di ucciderti.»
«Mi ha chiamato koffi, Mia. È fortunato che non gli abbia fracassato la
testa.»
«Cos’è un koffi?»
«Lascia stare.» Strattonò via il braccio dalla sua stretta. «Dimenticatelo.»
«Tric…»
«Sono stanco. Ci vediamo domani.»
Il ragazzo si allontanò, lasciando Mia sola con Naev. La donna la
osservò con occhi scuri e attenti, aleggiando come una falena attorno a una
fiamma nera. Mia aveva la fronte corrucciata e fissava l’enigma incompleto
davanti a lei.
«… Non è che per caso parli dweymeri, vero?» chiese.
«No. Anche se Naev è certa che esistano tomi di traduzione
nell’Ateneo.»
Mia si morse il labbro. Immaginò il suo letto, con le montagne di cuscini
e le pellicce morbide.
«È aperto anche così tardi?»
«La biblioteca è sempre aperta, qui. Ma per accedervi senza invito…»
«Potresti portarmici? Per favore?»
Gli occhi scuri della donna scintillarono. «Come lei desidera.»
Scale e arcate. Arcate e scale. Mia e Naev camminarono per quelle che
sembravano miglia faticose, soltanto con la pietra come compagnia. La
ragazza cominciò a pentirsi di non essere andata a letto: il viaggio da
Ultima Spes cominciava a presentarle il conto e lei stava esaurendo
rapidamente le forze. Perse l’orientamento diverse volte: corridoi e scale
sembravano tutti uguali e iniziò a sentirsi disperatamente disorientata.
«Come fai a non perderti qua dentro?» chiese.
La donna tastò i motivi a spirale intagliati nelle pareti. «Naev legge.»
Mia toccò la roccia gelida.
«Queste sono parole?»
«Di più. Sono una poesia. Una canzone.»
«Di cosa parla?»
«Di come trovare la strada al buio.»
«Trovare la biblioteca è più che sufficiente. I miei occhi stanno per
andare a letto senza di me.»
«Allora è una buona cosa: siamo arrivati.»
In fondo al passaggio torreggiavano delle doppie porte. Il legno era
scuro, intagliato con lo stesso motivo a spirale inciso sulle pareti. Mia notò
che non c’erano maniglie, e le ante dovevano pesare una tonnellata l’una.
Eppure Naev le aprì gentilmente con una spinta e i cardini emisero a
malapena un sussurro quando si spalancarono.
Mia entrò e, per la terza volta durante quel cambio, sentì i polmoni dire
addio al suo fiato. Si trovava a un piano ammezzato che si affacciava su un
bosco scuro, una foresta di scaffali elaborati, disposti come un labirinto
vegetale. E ogni ripiano ospitava libri. Pile di libri. Montagne di libri.
Oceani su oceani di libri. Libri di cartapecora macchiata e pergamena
nuova. Libri rilegati in cuoio, legno e foglie, libri chiusi a chiave e libri
impolverati, libri spessi quanto la sua vita e minuscoli quanto il suo pugno.
Gli occhi di Mia si erano illuminati e le sue unghie intaccavano la ringhiera
di legno.
«Naev, non lasciarmi laggiù» mormorò.
«Perché no?»
«Non mi rivedresti più…»
«Parole più vere non sono mai state pronunciate» disse una voce roca.
«A seconda del corridoio scelto.»
Mia si voltò verso chi aveva parlato e vide un Liisiano avvizzito
appoggiato contro la ringhiera opposta. Era vestito con brache e un
panciotto trasandato. Un paio di occhiali estremamente spessi era in
equilibrio su un naso a uncino e due folte masse di capelli bianchi
spuntavano da una testa dalla calvizie incipiente, come se non riuscissero a
decidere quale fosse la migliore via di fuga. La schiena era piegata come un
punto interrogativo. Un sigaretto gli pendeva dalla bocca, e ne aveva un
altro dietro l’orecchio. Sembrava avere settemilaquattrocentocinquantadue
anni.
Era in piedi accanto a un piccolo carrello di legno carico di libri con
scritto sopra RESI .
«È saggio?» disse Mia.
«Cosa?» replicò l’uomo sorpreso.
«Questa è una biblioteca. Non si può fumare in una dannata biblioteca.»
«Oh, merda…»
Il vecchio prese il sigaretto, lo osservò brevemente con aria
meditabonda, poi se lo rimise in bocca.
«E se i libri prendessero fuoco?» chiese Mia.
«Oh, meeeeerda» esclamò il vecchio, esalando una nuvola che le fece
pizzicare la lingua.
«Be’… posso averne uno, allora?»
«Uno di cosa?»
«Un sigaretto.»
«Sei scema?» L’uomo la scrutò attraverso quegli occhiali enormi. «Non
puoi fumare in una dannata libreria. E se i libri prendessero fuoco?»
Mia agganciò i pollici alla cintura e inclinò la testa. «Oh, meeeeerda?»
Il vecchio si tolse il sigaretto dall’orecchio, lo accese col proprio e lo
offrì alla ragazza. Mia sorrise e prese una boccata della paglia dal retrogusto
di fragola, leccandosi le labbra e apprezzando la carta zuccherata. Naev
gesticolò verso il vecchio.
«Naev presenta il Cronista Aelius, custode dell’Ateneo.»
«Tutto bene?» chiese il vecchio.
«Tutto bene» annuì Mia.
«Splendido.»
Naev tossì in mezzo a quella coltre sempre più densa. «Cronista, lei
cerca la traduzione di una parola dweymeri. Desidera un libro
sull’argomento. Lui ne ha uno in sua custodia?»
«Ne ho molti, senza dubbio. Ma se è solo una parola quella che l’accolita
vuole conoscere, probabilmente posso risparmiarmi la ricerca e dirgliela
qui.»
«Parlate dweymeri?» chiese Mia.
«Se esiste una lingua parlata sotto i soli di cui non sono a conoscenza,
puoi cavarmi gli occhi e usarli come biglie, ragazzina.» b
«Be’, per quanto l’idea di vagare per i corridoi sarebbe allettante in
qualunque altro cambio, il mio adorabile letto di pelliccia mi sta chiamando,
buon Cronista.» Mia prese una lunga tirata. «Perciò se poteste darmi un
significato assieme a quest’ottima paglia, sarei doppiamente in debito con
voi.»
«Pronuncia la parola.»
«Koffi.»
«Uff.» L’uomo trasalì. «Chi ti ha chiamato a quel modo?»
«Nessuno.»
«Una buona cosa… Aspetta, non l’avrai detta tu a qualcun altro?»
«Non ancora.»
«Be’, non farlo. È praticamente l’insulto peggiore che tu possa rivolgere
a un Dweymeri.»
«Cosa significa?»
«Una traduzione approssimativa? Figlio dello stupro.» Il vecchio sbuffò
del fumo. «I peggiori pirati dweymeri hanno l’abitudine di… fare i loro
comodi con le persone che catturano. Un koffi è il prodotto di tale
scelleratezza. Un mezza-casta. Il figlio bastardo di una madre nolente.»
«Denti della Mannaia» mormorò Mia. «Non c’è da meravigliarsi che
Tric volesse ucciderlo…»
Aelius spense la sua paglia sulla parete e si infilò in tasca il mozzicone
spento.
«Tutto qui quello che ti serviva? Una parola?»
«Per adesso.»
«Be’, allora me ne vado. Troppi libri. Troppo pochi secoli.»
«I miei ringraziamenti, Cronista Aelius.»
«Buona fortuna con le lezioni di canto domani.»
Mia si accigliò e osservò la sua schiena curva mentre si allontanava.
Spense il proprio sigaretto e guardò verso Naev. «Ora di andare a letto, se
sei così gentile da fare strada.»
«Ma certo.»
La donna guidò Mia nuovamente per quel labirinto tortuoso. Chiazze di
illuminazione arkemica si riversavano da finestre a vetri colorati. Mia
giurava che fossero tornati per una strada diversa rispetto a prima… oppure
le pareti si stavano muovendo. Nella sua mente giravano ingranaggi come
in un mekana.
Era vero quello che aveva detto Chiamapiena? Non era possibile che i
genitori di Tric si fossero amati, anche se ciascuno aveva una carnagione
diversa? Mia non poté fare a meno di ricordare lo sguardo omicida di Tric.
Sarebbe stato offeso a quel modo se non ci fosse stata alcuna verità dietro
l’insulto?
Mia si domandò se parlarne a Tric. Non voleva dover passare le sue
illuminotti a preoccuparsi del coltello che lo attendeva nel buio, ma il
ragazzo era ostinato come una carrettata di muli. Già le bastava doversi
guardare le spalle da Jessamine. Tric non aveva i non-occhi sulla nuca come
Mia, e Chiamapiena aveva già dimostrato di poter facilmente avere la
meglio su di lui in un corpo a corpo.
Se quel ragazzo non fosse stato attento, poteva finire ammazzato.
Allora potete immaginare la sorpresa di Mia quando Chiamapiena fu
scoperto steso nell’ombra della statua di Niah il mattino successivo. Una
pozza di sangue si stava raffreddando tra i nomi sulla pietra incisa attorno a
lui.
La sua gola era stata tagliata da un orecchio all’altro.
a. Come potete immaginare, gentili amici, i metodi con cui i soli possono essere tenuti a bada in una
terra dove quelle sfere bastarde non tramontano quasi mai godono di considerevole importanza.
Le stanze da letto principali nella Repubblica spesso vengono costruite nei seminterrati, mentre gli
ospiti nelle taverne più esclusive pagano un supplemento per alloggiare nelle camere senza
finestre. La somnialgia – un malanno che consegue alla mancanza di sonno profondo – è un
malessere sempre più problematico, e anche se il clero di Aa lo bruciò come eretico, nella Fila dei
Visionari dell’atrio grande del Collegio di Ferro si può trovare ancora una statua di Dominus
Augustine D’Antello, inventore delle imposte a triplo strato.
b. In effetti, esistevano tre lingue parlate sotto i soli di cui il Cronista Aelius non aveva alcuna
conoscenza.
La prima era parlata da un clan di montagna nello Spartiacque orientale che non aveva mai
avuto alcun contatto con i forestieri che non fosse terminato su uno spiedo.
La seconda era un dialetto particolare del liisiano antico, parlato esclusivamente da un culto
dell’apocalisse a Elai noto come gli Aspettatori (la loro congregazione ammontava esattamente a
sei, uno dei quali era un cane di nome Rolf ma a cui i suoi compagni si riferivano come “il
Principe Giallo”).
E, per ultima, la lingua dei gatti. Oh, sì, i gatti parlano, gentili amici, non dubitatene: se ne
possedete più di uno e non riuscite a vederli in questo particolare momento, è probabile che siano
in un angolo da qualche parte a lamentarsi del fatto che il loro padrone passa tutto il suo tempo a
leggere stupidi libri invece che dedicare a loro l’attenzione che si meritano ampiamente.
LIBRO 2
FERRO O VETRO
CAPITOLO 10
CANTO
Tric stava aspettando fuori dalla sua camera da letto quando lei arrivò. Se
ne stava accucciato con la schiena alla parete e si alzò rapidamente quando
vide Mia avvicinarsi, l’espressione sollevata.
«Grazie alla Nostra Signora» mormorò. «Stai bene.»
Mia mosse il braccio con un sussulto. «Un po’ ammaccata, ma tutta d’un
pezzo.»
«Quel bastardo di Solis» sibilò Tric. «Volevo sbudellarlo per quello che
ha fatto. Ci ho provato, ma mi ha gettato col sedere a terra e mi ha preso a
calci fino a farmi perdere i sensi.»
Mia guardò i nuovi lividi sul volto di Tric e scosse il capo. «Mio
coraggioso centurione. Sei arrivato sul tuo destriero per salvare la tua
povera damigella? Reggimi, coraggioso signore: temo che sverrò.»
«Non dire cazzate» si accigliò Tric. «Ti ha fatto del male.»
«La Reverenda madre dice che lo fa sempre. Dà l’esempio nelle sue
classi con il primo saputello tanto stupido da alzare la testa.»
«Entra Mia Corvere, sinistra palco» sogghignò Tric.
Mia fece un inchino profondo. «Suppongo che Solis possa permettersi di
essere brutale, avendo qui la Tessitrice Marielle.»
«Ha davvero sanato la ferita con le sole mani?»
Mia tirò fuori il gomito dalla tracolla e tastò con cautela la manica della
camicia. Tric le rigirò lentamente il braccio da una parte e dall’altra: le sue
mani grandi e callose erano straordinariamente delicate. Mia tirò giù la
manica prima che iniziasse a comparire la pelle d’oca.
«Vedi? Mi restano solo un paio di lividi come prova della mia prima
mutilazione.»
Tric si grattò le salciocche con aria imbarazzata. «Io ero… preoccupato
per te.»
Lei fissò il ragazzo, con quei tatuaggi orrendi e gli occhi color nocciola.
Si domandò quali pensieri si agitassero dietro di essi.
«Non c’è bisogno che ti preoccupi per me, Tric. In questo posto ci sono
abbastanza pericoli per ucciderci entrambi. Se ti agiti per me, non noterai il
coltello puntato su di te.»
«Non mi sto agitando» replicò il ragazzo aggrottando la fronte. «È solo
che… ti guardo le spalle, tutto qua.»
Mia non riuscì a fare a meno di sorridere. Dentro la sua pancia c’era un
calore riconoscente. Ciò che aveva detto era vero: questa montagna non era
un circolo della maglia. I pericoli all’interno di queste sale potevano
rappresentare la fine per tutti e due. Tuttavia era rassicurante sapere che
c’era qualcuno che si prendeva cura di lei, che aveva qualcosa a cui
appoggiare la schiena. E che, per la prima volta nella sua vita, non era fatto
di ombre.
«Be’… i miei ringraziamenti, Dominus Tric.» Gli rivolse una riverenza
sorridendo, e quel silenzio inquieto fu scacciato dalla risata del ragazzo.
«Sei affamata?»
«… Sto morendo di fame» si rese conto lei.
«Forse la Figlia Pallida vuole accompagnarmi alle cucine?»
Tric piegò il gomito e le offrì il braccio. Mia gli diede un pugno tanto
forte da farlo uggiolare. E sorridendo i due si avviarono lungo il corridoio
in cerca di cibo.
a. Un famoso racconto è incentrato sulla cittadina di Blackbridge, nella parte orientale di Itreya.
Ernesto Giancarli, confessore della Chiesa di Aa, fu mandato dal Gran cardinale a indagare su
asserzioni secondo cui diverse figlie dei maggiorenti della cittadina fossero state sedotte da un
tenebris. Ciascuna di tali unioni era risultata in un bambino con i capelli e gli occhi neri, e la
stessa carnagione pallida del presunto padre. Ciascuna delle signore in questione aveva fornito la
stessa versione dei fatti: aveva vagato nei boschi fino a incontrare un attraente sconosciuto e, con
l’innocenza di una fanciulla, si era concessa al suo fascino oscuro. Giancarli indagò a fondo, ma
non fu possibile trovare alcuna traccia di questo tenebris e, anche se a giudicare dall’aspetto
condividevano quasi sicuramente lo stesso padre, i bambini sembravano perfettamente normali. Il
confessore confortò i padri delle ragazze rassicurandoli che era assolutamente possibile che il
responsabile fosse un tenebris, poi tornò a Godsgrave per riferire al cardinale di non aver scoperto
nulla.
Ma Giancarli annotò nel suo rapporto che il giovane conestabile di Blackbridge – un tizio
pallido e con i capelli scuri di nome Delfini, nominato a quella carica circa dodici mesi prima –
era stato molto collaborativo nel corso dell’intera indagine.
CAPITOLO 12
DOMANDE
«… arriva qualcuno…»
Mia si svegliò al buio e sbatté forte le palpebre. Si alzò sul gomito e
sibilò quando un dolore si diffuse per il braccio sinistro. Era come se i suoi
lividi brillassero al buio.
Qualcuno stava scassinando la serratura della porta della sua camera.
Non poteva trattarsi di Naev: lei avrebbe bussato e basta. Allora chi? Un
altro accolito? Quello che aveva ucciso Chiamapiena? Mia estrasse lo
stiletto e rotolò giù dal letto, muovendosi furtiva sul pavimento lastricato
fino a un angolo buio. Sollevò il coltello con la mano destra quando la porta
si aprì e fece capolino un volto lentigginoso incorniciato da trecce bionde.
«Corvere» sibilò una voce. «Ci sei?»
«… Ashlinn?» Mia si alzò dal suo nascondiglio e celò di nuovo la lama
di necrosso nel polso. «Denti della Mannaia, non dovresti avvicinarti di
nascosto alla gente.»
«Te l’ho detto. I miei amici mi chiamano Ash.» La ragazza bionda
scivolò nella stanza con un sorriso che esaltava le sue fossette e le occorse
un momento per individuare Mia al buio. «E se mi fossi avvicinata di
nascosto, non mi avresti udita finché la mia lama non fosse stata premuta
contro la tua gola, Corvere.»
«Ma davvero?» Mia sollevò un sopracciglio, sorridendo a sua volta.
«Puoi scommetterci la vita. Come va l’ala?» Ashlinn diede a Mia una
pacca amichevole sul braccio e la ragazza proruppe in una terribile
imprecazione, tenendosi il gomito.
«Merda, scusa» sussurrò Ashlinn. «Mi ero dimenticata che fossi
mancina.»
«È tutto a posto.» Mia sussultò, massaggiandosi il gomito. «Ho sempre
una mano di riserva. Comunque, perché hai scassinato la mia serratura?
Non puoi esercitarti con la tua?»
«Esercitarmi, pfui. Se qui esiste una serratura che non posso convincere
ad aprirsi, devo ancora incontrarla. Sono solo venuta a chiederti se stavi
abbastanza bene da uscire.»
«Uscire?» Mia sbatté le palpebre. «Dove? Per cosa?»
«Ficcanasare in giro. Andare in cerca di guai. Sai… uscire.»
Mia si accigliò. «La Reverenda madre ha detto che non ci è permesso
lasciare le nostre stanze dopo la nona campana, ricordi?»
Un sorrisetto lentigginoso illuminò il viso della ragazza. «Tu fai sempre
quello che dice la Madre?»
Mia ricordò una cella nel buio. Il lezzo di decomposizione e di morte che
le bruciava gli occhi. Mani tremanti. Un sussurro, freddo e affilato come
acciaio.
“Non guardare.”
«No» rispose.
«Bene, ottimo. A mio fratello non piace combinare guai, e tutte le altre
ragazze di questo posto vogliono fare le toste, le viziate o entrambe le cose.
Perciò pare proprio che siamo tu e io, Corvere.»
«Hai sentito Drusilla. Ci prenderanno a calci nel sedere fino a farci
uscire il sangue dal naso se ci beccano.»
«Be’, allora questo è un ottimo motivo per non farsi beccare, giusto?»
Il sorrisetto della ragazza era contagioso. Era venuta a prendere Mia per
trascinarla con sé nel suo giro. E mentre Messer Cortese mangiava quel
poco che rimaneva della sua paura, Mia si ritrovò ad appendere al collo
l’ala ferita e a sorriderle a sua volta.
«Prima le signore» disse Ash, inchinandosi verso la porta.
«Non vedo nessuna signora da queste parti. E tu?»
«Oh, andremo d’accordissimo, io e te.»
Ancora sorridendo, la ragazza sgattaiolò nel corridoio e Mia la seguì da
presso.
E così via. C’erano dozzine di oggetti elencati sulla pagina, uno più
stravagante dell’altro. Pareva che questa “gara” avrebbe dato inizio a una
guerra di furti senza quartiere tra gli accoliti, il che probabilmente era
l’obiettivo di Mouser. Sarebbero stati all’erta in ogni momento, ora. Sempre
in cerca di un’opportunità. Costantemente vigili.
Costantemente in esercizio.
“Arguto.”
In fondo alla lista, Mia vide l’ultimo oggetto. Il più difficile di tutti.
a. Il porpora è il colore del prestigio nella Repubblica dal tempo della rivoluzione in cui fu deposto
l’ultimo re di Itreya, Francisco XV.
La tintura porpora si ottiene dai petali macinati di un bocciolo che cresce solo al confine
montano fra Itreya e Vaan. Quasi impossibile da coltivare, il fiore fu chiamato Liberis: “Libertà”
in itreyano antico. I repubblicani che uccisero Francisco lo adottarono come simbolo della loro
causa, appuntandosi un bocciolo sul petto ai raduni di corte per indicare la loro lealtà alla
cospirazione.
Se questa sia una semplice invenzione romantica è in discussione, ma rimane il fatto che
adesso solo ai senatori è permesso indossare quel colore in pubblico. Qualunque plebeo venga
scoperto a portare il porpora potrebbe subire lo stesso destino del povero Francisco XV, ovvero
ritrovarsi assassinato brutalmente di fronte alla sua intera famiglia.
Cosa costituisca davvero il colore porpora è in qualche modo aperto all’interpretazione,
naturalmente. Il lilla potrebbe essere perdonabile, per esempio, se il magistrato in seduta fosse di
umore generoso. Per il pervinca, si potrebbe obiettare che è più blu che porpora, e allo stesso
modo il violetto, ma l’ametista richiederebbe un vero sforzo di amicizia.
Il malva, naturalmente, è fuori moda.
CAPITOLO 14
MASCHERE
Non l’aveva notato la prima volta che era stata quaggiù, ma a differenza
dell’aula di Aalea, le pareti delle stanze di Marielle erano coperte di
maschere. Ceramica e cartapesta. Vetro e terracotta. Maschere di Carnivalé
e maschere di morte, maschere da bambini e maschere antiche e distorte
fatte di osso, cuoio e pelle animale. Una stanza di facce, bellissime, orrende
e ogni via di mezzo, ma nessuna terrificante quanto la faccia della Tessitrice
in persona.
E non si vedeva uno specchio da nessuna parte.
Marielle era curva, circondata da un pallido bagliore arkemico. La statua
di una donna flessuosa con la testa da leonessa si trovava sulla scrivania
accanto a lei, una sfera tenuta nei palmi. Marielle stava leggendo da un
tomo impolverato le cui pagine scricchiolavano quando le voltava. Quando
la Shahiid Aalea bussò piano sulla parete per annunciare la loro presenza, la
Tessitrice non alzò lo sguardo.
«Una buona serata a te, Shahiid.» Una striscia di saliva uscì dalle labbra
di Marielle mentre parlava. Lei si accigliò e tamponò la pagina ora
macchiata. A Mia si arricciò la bocca dal disgusto.
«Anche a te, somma Tessitrice.» Aalea si profuse in un inchino e sorrise.
«Confido che tu stia bene.»
«La mia salute è buona, ti ringrazio.»
«Dov’è il tuo bellissimo fratello?»
A quelle parole, Marielle sollevò lo sguardo. Il suo sorriso fu tanto largo
che per poco non le ruppe di nuovo il labbro.
«Si sta nutrendo.»
«Ah.» Aalea mise la mano sulle reni di Mia e la spinse nella stanza.
«Chiedo scusa per l’interruzione, ma questa è la tua prima tela. Vi siete già
incontrate, credo.»
«Brevemente. Puoi porgere i ringraziamenti al gentile Solis per la nostra
presentazione.» Marielle si pulì la saliva dalla bocca e rivolse a Mia un
sorriso distorto. «Buon cambio a te, piccola tenebris.»
Mia si sentì irritata per lo sguardo malizioso sul volto della Tessitrice.
Adesso che la sorpresa del loro primo incontro era scemata, riconosceva
che razza di donna era Marielle. Mia aveva avuto a che fare con i tipi come
lei mille volte. Si rese conto che quella donna stava sorridendo per
provocarla. A Marielle piaceva tormentare. Amava osservare il dolore e
infliggerlo, e amava la compagnia di coloro che lo adoravano quanto lei.
“Una sadica.”
Eppure, la Shahiid Aalea si rivolgeva alla donna quasi con reverenza, gli
occhi bassi in segno di rispetto. Mia supponeva che avesse senso. Se
Marielle era quella che faceva in modo che Aalea mantenesse quell’aspetto,
era logico che la Shahiid di Maschere volesse rimanere nella lista delle
persone benvolute dalla Tessitrice. Perfino se quella lista, come il suo libro,
era macchiata di bava sanguinante.
«Vieni, falla accomodare.»
Marielle si alzò dalla scrivania con un sussulto e fece un gesto verso una
familiare lastra di pietra nera. Cinghie di cuoio e fibbie scintillanti. Mia
sentì l’amaro in bocca ricordandosi quando si era svegliata lì, in preda a
dolore, incertezza e vertigini.
«Dovrai privarti degli indumenti, piccola tenebris» biascicò Marielle.
«A che scopo?»
Aalea le sfiorò gentilmente la guancia. «Fidati di me, amore.»
Mia fissò la Tessitrice. Messer Cortese si raggomitolò nell’ombra sotto
di lei, bevendo la sua paura più velocemente che poteva. Con un sussulto e
senza una parola, Mia liberò il braccio dalla tracolla, prese la camicia e la
sfilò dalla testa. Scalciò via gli stivali, le brache, e si stese nuda sulla lastra.
La roccia era gelida sulla sua pelle, che si accapponò all’istante.
Quando Marielle pronunciò una parola, una manciata di globi arkemici
si accese sopra la testa di Mia. Lei strinse le palpebre, abbagliata da quella
radiosità. Due sagome indistinte torreggiavano sopra di lei, sfocate nella
luce. La voce di Aalea era calda e dolce come acqua zuccherata.
«Dobbiamo legarti, amore.»
Mia strinse i denti e annuì. Ricordò a se stessa che qui le cose si
facevano così, che questo era ciò che aveva accettato. Sentì le cinghie
serrarsi attorno a braccia e gambe, poi trasalì quando il cuoio s’infilò nel
gomito ferito. Le premettero un’imbottitura di cuoio sul collo. Si rese conto
di non riuscire a ruotare la testa.
«Impressioni?» biascicò Marielle. «Belle ossa. Potrei tramutarla in una
rara bellezza.»
«Solo un assaggio, per adesso. Meglio non nuotare troppo in profondità
da subito.»
«Sembra che abbia smarrito il seno.»
«Fa’ quello che riesci, somma Tessitrice. Sono certa che sarà un
capolavoro, come sempre.»
«Come ti compiace.»
Mia udì uno scrocchio di nocche, poi un respiro con uno schiocco di
lingua. Sbatté le palpebre alla luce e le sagome si mossero all’interno. Le
palpitava il cuore: Messer Cortese non era in grado di assorbire del tutto il
suo terrore crescente. Era inerme. Legata. Bloccata come un pezzo di carne
sul blocco di un macellaio.
“Hai combattuto per essere qui” disse a se stessa. “Ogni illuminotte e
ogni cambio per sei anni. Sei fottuti anni. Pensa a Scaeva. A Duomo. A
Remus. Morti ai tuoi piedi. Ogni passo che compi qui ti avvicina a loro.
Ogni goccia di sudore. Ogni stilla di sa…”
Mani delicate le accarezzarono la fronte. Aalea le sussurrò all’orecchio.
«Questo farà male, amore. Ma abbi fede. La Tessitrice conosce il suo
lavoro.»
«Male?» farfugliò Mia. «Non avete mai detto nu…»
Dolore. Delizioso, bruciante dolore. Mani deformi ondeggiavano sopra
di lei, dita si muovevano come se la Tessitrice stesse suonando una sinfonia
e le corde fossero la sua pelle. Percepì la propria faccia incresparsi, la carne
scorrere come cera in fiamme. Strinse i denti e ricacciò indietro un urlo. Le
lacrime la accecavano. Il cuore palpitava. Messer Cortese si gonfiava e
ruotava sotto di lei, le ombre nella stanza fremevano. Dalle pareti caddero
maschere mentre il dolore bruciava più ardente, e da qualche parte, in
quell’oscurità che la ustionava e la artigliava, avvertì qualcuno prenderle la
mano e stringerla forte, promettendo che tutto sarebbe andato bene.
«… aggrappati a me, mia…»
Ma il dolore.
«… reggiti, ti tengo…»
Oh, Figlie, il dolore…
Durò un’eternità. Diminuiva solo per un tempo sufficiente a farle
riprendere fiato, temendo il momento in cui sarebbe ricominciato.
Nemmeno una volta durante quei minuti interminabili Marielle la toccò
davvero, eppure Mia aveva l’impressione che le mani della donna fossero
ovunque. Le separavano la pelle e le torcevano la carne, mentre lacrime
scorrevano lungo guance liquefatte. E quando Marielle spostò le mani più
in basso, sul torace e sulla pancia di Mia, non lo trattenne più. L’urlo le
scivolò dai denti e salì tra l’oscurità ardente sopra la sua testa, trascinandola
giù dentro tenebre pietose dove non sentì nulla. Non seppe nulla. Non fu
nulla.
«… non ti lascerò andare…»
Nulla di nulla.
a. Origliando durante mediopasto alcuni cambi dopo, Mia avrebbe appreso che il ragazzo si chiamava
“Pip” e che quelle conversazioni borbottate non le intratteneva con se stesso, ma con il suo
coltello, un pugnale lungo e minaccioso che, a quanto pareva, aveva soprannominato
“l’Adorabile”.
b. La schiavitù a Itreya è una questione estremamente codificata, con un’intera sezione degli
administratii che si occupa della regolazione del mercato. Gli schiavi sono di tre tipologie,
differenziate per competenze e, di conseguenza, valore monetario.
I primi sono quelli ordinari – operai, servitori domestici e simili –, che sono marchiati
arkemicamente con un unico cerchio sulla guancia destra. I secondi sono quelli addestrati per la
guerra – gladiatii, guardie di casa e legioni di schiavi –, marchiati con due cerchi intrecciati. I terzi
e più preziosi sono quelli in possesso di un certo livello di istruzione o di alcune capacità preziose.
Musicisti, scribi, concubine e così via, che sono marchiati con tre cerchi intrecciati per denotare il
loro maggior valore.
La rimozione di questi marchi arkemici è un procedimento doloroso, dispendioso e segreto,
serbato gelosamente dagli administratii. Per ottenere la libertà, uno schiavo non solo deve
risparmiare denaro sufficiente per ricomprarsi dai suoi padroni, ma anche per pagare la rimozione
del proprio marchio. Dunque non è una sorpresa che nella Repubblica la maggior parte degli
schiavi porti il marchio fin nella tomba.
c. Nota anche come “regicida”, la dalia rossa era considerata il veleno preferito durante il periodo
della monarchia itreyana. A causa della rarità del fiore da cui si ricava, la dalia rossa era difficile
da ottenere e pertanto più costosa di un banchetto nuziale medio per midollani. Il suo utilizzo era
considerato sia un segno di rispetto per la vittima (i suoi effetti hanno un’insorgenza rapida e sono
relativamente indolori) sia una specie perversa di vanteria da parte dell’uccisore (dato che solo le
persone più ricche potevano permettersi di usarla). Al culmine della monarchia itreyana, la tossina
fu usata per assassinare non meno di tre re itreyani e diversi membri di alto rango dell’aristocrazia,
inclusi due Gran cardinali.
Quando suo padre morì per avvelenamento da dalia rossa, l’appena incoronato Francisco VII
dichiarò quel fiore come uno strumento della Mannaia e ordinò che ogni pianta entro i confini del
suo regno fosse bruciata. Questo generò un’inflazione spropositata e la dalia rossa non fu più in
voga se non tra coloro che avevano la lungimiranza di tenere una serra. Purtroppo questo fece sì
che misture meno pietose come il veleno segnonero e la corrosiva “cattiveria” prendessero piede
tra gli assassini che non avevano le conoscenze giuste.
Ci si potrebbe domandare se sul suo letto di morte, urlando mentre una dose letale della
suddetta cattiveria gli dissolveva stomaco e intestini, Francisco VII abbia avuto la presenza di
spirito per apprezzare l’ironia della cosa.
CAPITOLO 16
CAMMINO
Ogni accolita sapeva che sarebbe stata giudicata in base al valore dei segreti
che avrebbe riportato e che la collaborazione non sarebbe stata premiata.
Perciò, anche se Ash era un’ottima compagnia e Mia apprezzava sempre di
più l’umorismo da forca e la prontezza di spirito di Carlotta, le accolite si
separarono non appena possibile. Mia conosceva il quartiere del porto
proprio come un tredicenne conosce la sua mano destra, così sgattaiolò
avanti e indietro per i vicoli a gomito e le stradine più strette finché non fu
sicura che nessun’altra la seguisse.
Era strano essere fuori alla soliluce dopo mesi di oscurità costante. Il
bagliore era doloroso, e anche se l’ombra che lei proiettava era netta, nera e
profonda, percepì l’affinità con essa come indistinta, invece del facile
controllo che aveva sperimentato all’interno della Montagna Silente. Frugò
nel mantello e si infilò un paio di occhiali con la montatura in fildiferro e
lenti di azzurrite che aveva sgraffignato dall’armeria. e
«… dove andiamo…?» chiese un sussurro ai suoi piedi.
«Se sono segreti quelli che Aalea vuole,» sorrise Mia «segreti avrà.»
Si avviò per la città, sopra ponti e sotto scale, e il lezzo della baia si
affievolì. L’illuminotte era stata suonata alla melodia di venti ululanti e le
strade erano quasi vuote. Pattuglie di Luminatii con i loro mantelli rossi si
aggiravano a passi pesanti per le arterie trafficate, e giovani scampanellatori
stavano agli angoli per suonare l’ora più forte delle raffiche, ma gran parte
della cittadinanza era rientrata per la sera. Solo Saan era in cielo e il clima
stava diventando gelido: anche i venti provenienti dalla baia portavano un
freddo pungente. Mia procedette lungo i canali tortuosi, le spalle ingobbite,
finché non arrivò allo squallido lembo di terra dove era nata: i vicoli che
circondavano il mercato di Piccola Liis.
Saan era basso e le ombre lunghe. Mia si avvolse nell’oscurità, passando
non vista oltre mendicanti e monelli di strada che bisticciavano per un
bottino rubato o per le infinite partite a dadi. Un tempietto alla Signora del
fuoco era incassato in una parete, la statua di Tsana circondata da candele
sgocciolanti. La dea dei combattenti e della guerra aveva templi sparsi per
tutta Godsgrave; perfino in tempo di pace, non c’era penuria di futili
lamentele o conflitti in cui a Tsana venisse chiesto di prendere posizione.
Ma questo santuario in particolare era incustodito.
Mia gettò da parte il suo manto d’ombra e si guardò attorno per
controllare che tutto fosse sgombro. Soddisfatta, allungò la mano e girò la
statua perché guardasse a nordest. Intinse le dita nelle ceneri, poi si
inginocchiò alla base del tempietto e scrisse il numero “3” e la parola
“regina” a carboncino tra i piedi della statua. Poi tirò di nuovo le ombre
attorno a sé e schizzò via dal mercato.
Mia procedette per le Anche, superando menestrelli che chiedevano un
obolo per le loro canzoni e bordelli straripanti, annuendo cortesemente alle
pattuglie di Luminatii che incrociava lungo la strada. Attraversò il Ponte
delle Promesse Infrante f mentre un vecchio pagaiava lungo il canale
sottostante in una graziosa gondola, cantando il ritornello di Mei Aami con
voce profonda e luttuosa.
«… dove andiamo ora…?»
«Il Braccio dello Scudo.»
«… odio il Braccio dello Scudo…»
«La tua obiezione è annotata.»
«… ti aspetti di trovare dei segreti lì…?»
«Un amico.»
Il Braccio dello Scudo si trova sul lato superiore est dell’arcipelago di
Godsgrave e comprende cinque isole principali. Come molti settori della
metropoli – Cuore, Bassifondi, Dorsale –, viene chiamato così per un
semplice motivo: se foste dotati di ali, gentili amici, o semplicemente
consultaste la mappa all’inizio di questo tomo, potreste notare che i
contorni della città di ponti e ossa assomigliano straordinariamente a una
figura decapitata stesa sulla schiena.
Il Braccio dello Scudo ospita edifici giudiziari e uno stupefacente
numero di cattedrali, e rappresenta il punto d’ingresso del vasto acquedotto
di Godsgrave. Le isole ospitano anche il quartier generale dei Luminatii – il
Bianco Palazzo – assieme a due dei dieci guerrieri ambulanti di Godsgrave.
I giganti di ferro torreggiavano sugli edifici circostanti, le dita contratte in
pugni titanici.
Mia si diresse fino alla grande spianata nel cuore del Braccio, piazza
d’Vitrium. Con un cortese cenno del capo alle sentinelle lì fuori, superò il
Bianco Palazzo, con le sue colonne di granito scanalate e le magnifiche
arcate, davanti a cui torreggiava una stupenda statua di Aa. Il Semprevigile
era abbigliato per la battaglia, con spada e scudo sollevati. Ricordando ciò
che era successo nell’Aula di Tasche, Mia distolse di riflesso gli occhi dalla
Trinità incisa sul suo pettorale.
La ragazza si avvicinò a una taverna ben curata al margine della piazza.
L’insegna sopra la porta recitava IL LETTO DELLA REGINA . g Dopo una lenta
ricognizione dei vicoli attorno all’edificio, entrò e trovò un tavolo riparato
in un angolo in ombra. Ordinò un liquore quando una cameriera stanca
passò per chiederle cosa desiderasse. Proprio mentre si metteva a sedere,
tutte le cattedrali attorno cominciarono a suonare le dodici.
«… eccoci qua…»
«Shhh.»
«… ti ho detto che odio questo posto…»
A dire la verità, Mia riteneva belli i rintocchi. Le note si intrecciavano e
cozzavano tra loro, facendo schizzare in volo dai campanili i piccioni
addormentati. Osservò il cambio della guardia fuori dal Bianco Palazzo al
suonare dell’ora, pattuglie di Luminatii in armatura bianca e mantelli rossi
che si increspavano dentro e fuori come onde. Ripensò a suo padre,
abbigliato con gli stessi colori, bello e alto come il cielo. Agli uomini che
avevano sorriso mentre lui moriva. Tracannò il suo liquore e ne ordinò un
altro.
E poi si sistemò per aspettare.
Passarono le ore. Le campane suonarono l’una e poi le due. Mia
centellinò la sua bevanda, ascoltando le conversazioni sommesse dei pochi
clienti ancora svegli a quell’ora, e domandandosi dove potessero essere le
altre accolite, ad apprendere chissà quali segreti. E quando le campane
suonarono infine le tre, i campanelli sopra la porta tintinnarono ed entrò una
figura con un tricorno e un lungo pastrano di cuoio. Le si rivoltò lo stomaco
quando lo vide, e un sorriso le arricciò le labbra. Lui si guardò attorno per la
taverna e la individuò nel suo angolo. Ordinò del vino riscaldato e zoppicò
fino al suo tavolo, con il bastone da passeggio che schioccava sulle assi.
«Salve, piccolo Corvo» disse Mercurio.
Apparve la cameriera col vino e Mia si impose di stare seduta immobile
mentre la ragazza era affaccendata lì attorno. Quando furono soli, strinse
forte la mano del vecchio, felicissima di rivederlo.
«Shahiid» sussurrò.
«Il tuo viso sembra… diverso.» Si accigliò. «Migliore.»
«Vorrei poter dire la stessa cosa di te» sorrise lei.
«Sotto quel bel faccino sei sempre la stessa insolente, allora.» Mercurio
tirò su col naso. «Non ti insulterò chiedendoti se sei stata seguita. Anche se
hai scelto un posto elegante per un incontro clandestino.»
Lei accennò al Bianco Palazzo dall’altro lato della piazza. «Sono poche
le possibilità di imbattermi nelle mie compagne accolite in questa parte
della città.»
«Vedo che non ti hanno ancora ucciso.»
«I tentativi non sono mancati.»
Il vecchio sorrise. «Ammazzaragni, eh?»
Mia sbatté le palpebre. «Sapevi che cosa avrebbe tentato di farci? Perché
non mi hai avvisato?»
«Non lo sapevo per certo. Cambiano le prove ogni anno. E poi gli
iniziati sono votati al segreto, e se ti fossi comportata come se avessi saputo
che il pugno stava arrivando, avrebbero cominciato a chiedersi perché.» Il
vecchio scrollò le spalle. «Inoltre, evidentemente ti ho insegnato quello che
ti occorreva sapere. Sei ancora viva, no?»
Mia mosse le labbra per un po’, ma non trovò alcuna replica. Ciò che
l’anziano aveva detto era vero: lui le aveva dato la copia di Verità
arkemiche, dopotutto. Grazie alla Mannaia, lei aveva passato effettivamente
più tempo a leggerlo rispetto a molti altri del suo gruppo…
«… È vero» borbottò infine.
«Allora. Cosa ti riporta qui a ’Grave? Aalea?»
«Già.»
Mercurio annuì. «Sei fortunata. Cambiano la città ogni anno. Non puoi
tirare un sasso senza colpire un pettegolezzo, qui a Godsgrave. Durante il
mio apprendistato, il vecchio Shahiid Thelonius ci mandò alla dannata
Farrow. Immagina rovistare in cerca di notizie tra un gruppo di
pescivendole dweymeri…»
«Non sono mai stata così brava a scovare segreti.»
«Allora non dovresti essere fuori a esercitarti?»
«Pensavo che potessi prestarmene uno e permettermi così di trascorrere
il tempo a bere con te.»
Mercurio sghignazzò e gli occhi azzurri si raggrinzirono quando sorrise.
Essere di nuovo con lui le scaldava il cuore: anche se erano passati a
malapena tre mesi da quando Mia aveva lasciato Godsgrave, doveva
ammettere che quel vecchio scontroso le era mancato. Iniziò a raccontargli
a bassa voce della Chiesa, della Montagna e del suo alterco con Solis.
«Sì, è un maledetto coglione» borbottò Mercurio. «Ma un ottimo
spadaccino. Presta attenzione ai suoi insegnamenti.»
«È difficile che possa imparare qualcosa se non posso frequentare le
lezioni.» Mostrò il braccio: ora il gomito aveva una deliziosa sfumatura di
giallo e grigio. «Ci sta mettendo un’eternità a guarire.»
«Che stronzata» sbraitò Mercurio. «Il livido non si vede quasi più.
Tornerai in quell’aula domani.» Il vecchio alzò la voce per bloccare Mia
che stava iniziando a protestare. «Dunque Solis ti ha dato una bella
strigliata. Impara da quella lezione. A volte la debolezza è un’arma. Se sei
abbastanza intelligente da usarla.»
Mia si morse il labbro e annuì lentamente. Sapeva che Mercurio diceva il
vero e che avrebbe dovuto imparare tutto ciò che poteva da Solis. Adesso
che era tornata a Godsgrave, il motivo che aveva per studiare la Chiesa
bruciava nella sua testa più rovente che mai. Ovunque guardasse, vedeva
cose che glielo ricordavano. Le Costole dove aveva vissuto da bambina. I
Luminatii con le loro splendenti armature bianche che le ricordavano suo
padre.
I bastardi che glielo avevano portato via…
«Qualche notizia su Scaeva da quando sono partita?» domandò.
Mercurio sospirò. «Be’, sta tenendo un quarto mandato come console
unico, ma questo non dovrebbe sorprendere nessuno. Ha metà del senato
alla sua mercé, e l’altra metà è troppo spaventata o troppo avida per
sollevare un trambusto. Pare che il seggio del secondo console rimarrà
vacante per un po’.»
Mia scosse il capo, silenziosamente stupefatta. All’epoca della
fondazione della Repubblica, quando gli Itreyani avevano ucciso il loro
ultimo re, il sistema che avevano costruito sulle rovine della monarchia era
stato pensato per renderne impossibile un’altra. Gli Itreyani eleggevano i
consoli che li avrebbero governati ogni verobuio, ma c’erano due seggi da
console nella Casa del Senato e a nessuno di loro era permesso di ricoprire
due mandati di fila. Quello era lo scopo della Repubblica. Ogni incarico di
potere era condiviso, nonché di breve durata.
Quando il generale Antonius aveva radunato il suo esercito per ribellarsi
contro il senato, Scaeva aveva ripescato alcuni emendamenti anacronistici
nella costituzione itreyana che gli avevano permesso di ricoprire il ruolo di
console unico in un momento di necessità per la Repubblica, ma…
«Continua a fare appello ai poteri d’emergenza?» sospirò Mia. «La
Ribellione degli Incoronatori fu soffocata sei anni fa. Le palle di quel
bastardo…»
«Be’, può darsi che abbia avuto qualche difficoltà a convincere il senato
che c’era ancora una crisi, ma quando un assassino tenta di uccidere il capo
della Repubblica in una cattedrale piena di testimoni, diventa un tantino più
facile perorare la causa. Il Massacro del Verobuio mostrò al senato quanto è
ancora pericolosa questa città. Ora avresti bisogno di un maledetto esercito
per arrivare a Scaeva. Non fa nemmeno una pisciata senza che un manipolo
di Luminatii gli tenga il vaso.»
Mia sorseggiò il suo liquore e tenne gli occhi sul tavolo.
«Il cardinale Duomo è ancora attaccato a Scaeva come un neonato alla
tetta della madre, naturalmente» borbottò Mercurio. «Fa predicare i suoi
ministri dai pulpiti, lodando il nostro “glorioso console” e la sua “età
dell’oro di pace”.» Il vecchio sghignazzò. «Età dell’oro di tirannia,
piuttosto. Siamo più vicini ad avere un altro culo sul trono di quando gli
Incoronatori radunarono il loro esercito. Ma la plebe accetta questa
situazione. La pace significa stabilità e la stabilità significa denaro. Scaeva
è quasi intoccabile ora.»
«Dammi tempo» disse Mia. «Io lo toccherò. E in modo non troppo
gentile.»
«Oh, già, cosa potrebbe mai andare storto?»
«Scaeva deve morire, Mercurio.»
«Tu pensa a seguire le tue lezioni» bofonchiò il vecchio. «Sei ancora
parecchio lontana dall’iniziazione. La Chiesa ti sottoporrà a prove sempre
più difficili, e ci sono molti modi per finire sepolti tra adesso e il traguardo.
Preoccupati di Scaeva quando sarai una Lama e non un istante prima.
Poiché ci vorrà solo una Lama a pieno titolo per arrivare a lui, quando sarà
il momento.»
Mia abbassò gli occhi e annuì. «Lo farò. Lo prometto.»
Mercurio la guardò e quegli occhi nati per gli sguardi severi si
intenerirono ai bordi.
«Come te la cavi là dentro?»
«Piuttosto bene.» Mia scrollò le spalle. «A parte la mutilazione.»
«Presto ti chiederanno di fare cose. Cose oscure. Per dimostrare la tua
devozione.»
«Ho già sangue sulle mie mani.»
«Non sto parlando di uccidere coloro che se lo meritano, piccolo Corvo.
Hai eliminato il boia, vero. Ma lui era l’uomo che impiccò tuo padre.
Sarebbe stato facile perfino per il più tenero di noi.» Il vecchio sospirò. «A
volte mi domando se abbia fatto la cosa giusta a coinvolgerti, a insegnarti
tutto questo.»
«L’hai detto tu stesso» sibilò Mia. «Scaeva è un fottuto tiranno. Deve
morire. Non solo per me, ma per la Repubblica. Per il popolo.»
«Il popolo, eh? Allora è di questo che stiamo parlando?»
Mia allungò una mano sopra il tavolo e strinse quella del vecchio.
«Posso farcela, Mercurio.»
«… Già.» Lui annuì, la sua voce improvvisamente roca. «Lo so,
ragazzina.»
Sembrava più stanco di quanto lei l’avesse mai visto. Il peso di tutto
quanto si accumulava cambio dopo cambio. Aveva la pelle come carta, gli
occhi iniettati di sangue.
“Sembra così vecchio.”
Mercurio si schiarì la gola e tracannò quello che restava del suo vino.
«Uscirò io per primo. Dammi dieci minuti.»
«Va bene.»
Il vecchio assassino sorrise e rimase lì per un attimo, incerto. Mia riuscì
a stento a trattenersi dall’alzarsi per abbracciarlo. Ma rimase immobile
mentre lui raccoglieva il bastone da passeggio e le rivolgeva un breve cenno
col capo. Voltandosi, fece un passo verso la porta ma si fermò di colpo.
«’Bisso e sangue, mi ero quasi dimenticato.»
Infilò la mano nel suo pastrano e tirò fuori una scatoletta di legno,
sigillata con sego. Mia riconobbe il sigillo marchiato a fuoco nel legno e
ricordò la botteguccia dove il vecchio era solito comprare i suoi sigaretti.
Rammentò la prima notte in cui le aveva permesso di fumarne uno, seduta
sui bastioni sopra il foro. Oscurità tutt’attorno. Mani tremanti. Dita
macchiate di sangue. Aveva quattordici anni.
“Non guardare.”
«Dorian il Nero» sorrise.
«Carta. Tabacco. Legno. Potrà passare il Cammino. Ricordo quella volta
in cui tentasti di smettere. Ho pensato che fosse meglio che non rimanessi
senza, là dentro.»
«Meglio di no.» Mia prese la scatola dalla sua mano, gli occhi che le
pizzicavano. «Ti ringrazio.»
«Guardati le spalle. E anche di fronte.» Gesticolò in modo vago. «E
anche tutto il resto.»
«Sempre.»
Il vecchio si calò il tricorno e alzò il bavero. Poi, senza un’altra parola,
uscì dalla taverna zoppicando. Mia lo osservò andar via e contò i minuti
nella testa. Tenne gli occhi sulla schiena dell’uomo mentre zoppicava in
lontananza.
“Presto ti chiederanno di fare cose. Cose oscure. Per dimostrare la tua
devozione.”
Mia posò il mento sulle mani, persa nei suoi pensieri.
Un gruppo chiassoso di uomini stava arrivando lungo la strada, vestiti
con le armature bianche e i mantelli rossi dei Luminatii. La ragazza alzò lo
sguardo al suono delle loro risate e vide volti giovani e sorrisi piacenti.
Essendo assegnati così vicino al Palazzo, probabilmente dovevano essere
tutti figli di midollani che servivano alcuni anni nella regione per portare
avanti i fini politici della loro familia. Se le cose fossero andate in modo
diverso, lei sarebbe stata fidanzata a un ragazzo come quelli, molto
probabilmente. Avrebbe avuto una vita di privilegi, senza fermarsi un
momento a…
«Perdonatemi» disse una voce.
Mia alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre. Uno dei Luminatii
torreggiava sopra di lei. Un sorriso da seduttore con denti da ragazzo ricco.
«Perdonatemi, Mea Domina» si inchinò. «Non ho potuto fare a meno di
notare che eravate seduta da sola e ho pensato che fosse un crimine contro
la Luce stessa. Vorreste concedermi il permesso di unirmi a voi?»
A Mia si rizzarono i peli del collo e le dita fremettero. Ma si ricordò che
il suo aspetto era quello di una ragazza midollana fuori a bere da sola, e
ricordò le numerose e difficili lezioni di Aalea sul fascino, così si lisciò le
penne e gli rivolse il suo sorriso migliore.
«Oh, sembra un’idea adorabile» disse. «Ne sono onorata, signore, ma
temo che mia madre si aspetti che io sia a letto. Forse un’altra volta?»
«Confido che vostra madre possa fare a meno di voi per il tempo di un
bicchiere?» Il ragazzo sollevò un sopracciglio speranzoso. «Non vi ho mai
visto qui prima.»
«Le mie scuse, signore.» Mia si alzò dal tavolo. «Ma devo andare
davvero.»
«Suvvia, fermatevi.» Il ragazzo le bloccava la strada, impedendole di
allontanarsi dal tavolo. I suoi occhi si rabbuiarono.
Mia cercò di placare la rabbia crescente, di mantenere la voce salda e lo
sguardo abbassato.
«Scusatemi, signore, ma mi state intralciando.»
«Sono solo amichevole, ragazza.»
«È così che lo chiamate, signore?» Gli occhi di Mia lampeggiarono
quando la sua collera uscì infine a giocare. «Altri potrebbero dire che vi
state comportando da stronzo.»
La rabbia macchiò la faccia del ragazzo, la furia repentina di un giovane
abituato a fare le cose a modo suo. Allungò una mano avvolta in un guanto
d’arme e afferrò il polso di Mia, tenendolo stretto.
In quel momento lei avrebbe potuto rompergli la mascella o ficcargli un
ginocchio nelle palle, poi sedersi sul suo petto e urlargli in faccia finché non
avesse capito che non tutte le ragazze erano un oggetto del suo
divertimento. Ma così si sarebbe smascherata come una persona che
conosceva il Canto, e dopotutto lui si trovava in una taverna con mezza
dozzina dei suoi compagni. Così si accontentò di torcergli il braccio come
le aveva insegnato Mercurio, facendogli perdere l’equilibrio e liberandosi
dalla sua stretta ricoperta di ferro.
I bottoni del polsino si staccarono e la stoffa si strappò. Il fodero che
aveva al polso si torse e, con un suono di cuoio che si rompeva, lo stiletto di
necrosso di Mia cadde rumorosamente sul pavimento.
Una mano pesante diede un colpetto alla nuca del ragazzo e una voce da
fumatore ringhiò: «Lascia in pace la ragazza, Andio. Siamo qui per bere,
non per dare la caccia alle colombelle».
Mia guardò alle spalle del ragazzo, che si girò a sua volta, e vide un tipo
più anziano con un’armatura da centurione che torreggiava su di lui. Era un
omone con il volto torvo e sfregiato.
«Perdonatemi, centu…»
Con un tonfo fragoroso, il centurione diede all’uomo più giovane un
calcio nel didietro e lo cacciò via, incrociando le braccia e guardando storto
il ragazzo finché non si riunì ai suoi compagni. Era evidente che si trattava
di un veterano, con un occhio coperto da una benda di cuoio scuro.
Soddisfatto, il centurione si toccò l’orlo dell’elmo piumato e rivolse un
cenno di scuse a Mia.
«Chiedo perdono per l’impertinenza del mio sottoposto, domina. Spero
che non vi abbia fatto alcun male.»
«No, signore.» Mia sorrise e il suo cuore rallentò i battiti. «Vi ringrazio,
centurione.»
L’uomo annuì, si chinò e raccolse lo stiletto di Mia da terra. Con un
piccolo inchino, glielo porse sull’avambraccio. Il sorriso della ragazza si
allargò e gli fece una riverenza con gonne invisibili mentre prendeva il
pugnale dalla sua mano. Ma nell’istante in cui lo stava infilando di nuovo
nella guaina, gli occhi dell’uomo seguirono la lama e il corvo intagliato
sull’elsa. Un lento cipiglio sbocciò sulla sua fronte.
Mia impallidì.
“Oh, Figlie…”
Ora lo riconobbe. Erano passati sei anni, ma non l’aveva dimenticato.
Sporto sopra il barile in cui era stata ficcata, con quei graziosi occhi azzurri
e il sorriso di un tizio che strangolava cuccioli per divertimento.
“Denti della Mannaia” mormorò il primo. “Non può avere più di dieci
anni.”
“E non vedrà mai gli undici.” Una scrollata di spalle. “Stai ferma,
ragazzina. Non farà male per molto.”
Il centurione ora non stava sorridendo.
Mia girò rasente al tavolo, sbattendo a terra la sua coppa vuota. Tentò
una nuova, frettolosa riverenza e si avviò rapida verso la porta, ma, come il
soldato prima di lui, adesso fu il centurione a bloccarle la strada. Le sue dita
si spostarono alla benda di cuoio, che copriva l’occhio che lei aveva
trapassato con lo stiletto di necrosso tutti quegli anni prima. Nelle sue
fattezze era incisa incredulità.
«Non può…»
«Scusatemi, signore.»
Mia cercò di passare a forza, ma il centurione l’afferrò per il braccio e lo
strinse forte. Mia tenne a bada la propria collera – a malapena – pensando
che forse poteva ancora uscire da quella situazione con il raggiro. Schizzare
via come un cervo spaventato avrebbe destato l’attenzione. Ma l’uomo le
torse il braccio e guardò ancora una volta lo stiletto nel fodero che aveva al
polso. Il corvo sull’elsa con i suoi minuscoli occhi d’ambra.
«Nome della Luce…» mormorò.
«Centurione Alberius?» lo chiamò il giovane soldato respinto da Mia.
«Va tutto bene?»
Il centurione fissò lo sguardo su Mia, e infine quel sorriso da strangola-
cuccioli uscì fuori di nuovo.
«Va tutto benissimo, oh sì» rispose lui.
Il ginocchio di Mia impattò contro l’inguine dell’uomo, il suo gomito
contro il mento. Il centurione lanciò un urlo e l’elmo gli volò via dalla testa
quando ruzzolò all’indietro, mentre Mia lo superava con un salto diretta
verso la porta. Ai legionari occorse un momento per reagire, mentre
guardavano il loro comandante crollare come un piagnucolante sacco di
patate, ma presto si precipitarono in strada dietro la ragazza in fuga. Mia
sentì alle sue spalle dei fischi, seguiti da urla furiose e dal rumore di piedi in
corsa.
«Con tutte le taverne a Godsgrave…» ansimò. «Quali sono le fottute
probabilità?»
«… hai scelto tu quella proprio accanto al palazzo…»
Mia si gettò il cappuccio sopra la testa, poi lasciò la strada principale,
svoltando lungo un vicoletto tortuoso, schizzando sopra i rifiuti e gli
ubriachi, le deliziatrici e i delizianti. Alle sue spalle giunsero altri passi, altri
fischi, altri uomini. Le pietre del selciato si muovevano sotto i suoi piedi, le
pareti anguste si stringevano attorno a lei. Sbucò in una minuscola piazza, il
lato lungo a malapena dieci piedi, con una vecchia fontana gorgogliante al
centro. In cima c’era la dea Trelene, il suo abito fatto di onde che si
infrangevano, circondata da candele e offerte di sangue. Rannicchiandosi in
un piccolo ingresso, Mia tirò attorno alle spalle il suo manto d’ombra e tutto
il mondo piombò in una cupa oscurità.
Passi in avvicinamento. Stivali pesanti. Attraverso il suo manto, colse
una vaga impressione di una dozzina di Luminatii, le loro lame di solacciaio
estratte e scintillanti, correre dentro la piazza. Non vedendo alcun segno di
lei, si separarono e si allontanarono a passi pesanti in tutte le direzioni. Mia
rimase immobile con Messer Cortese ai suoi piedi, entrambi solo una
macchia nell’ingresso. Attese mentre un altro gruppo di soldati passava di
corsa, urlando e spintonando.
Finalmente silenzio.
Si allontanò lentamente con passo furtivo, procedendo a tentoni lungo il
muro rimanendo sotto il mantello. In un momento come questo, era difficile
biasimare la Madre per averla marchiata, se era effettivamente ciò che
aveva fatto. Ma per quanto riguardava la magika, poter aggirarsi quasi cieca
e pressoché invisibile era tutt’altra cosa rispetto al tipo di stregoneria di
Adonai e Marielle. Tutti pagavano un prezzo, supponeva. Adonai era
assetato di ciò che controllava. Marielle tesseva la carne degli altri e
corrompeva la propria. E Mia poteva rimanere non vista, ma vedere a
malapena mentre lo faceva…
Brancolò per il dedalo di viuzze, ma non conosceva il Braccio dello
Scudo bene quanto Piccola Liis. Perfino con Messer Cortese ad andare in
avanscoperta, a questo ritmo le sarebbero occorse ore per tornare alla
Porcheria. Così alla fine gettò da parte le ombre e si diresse all’arteria più
vicina. Una volta arrivata sulla strada principale, attraversò tre ponti fino al
Cuore, poi scese fino ai Bassifondi, evitando tutti i Luminatii che passavano
entro un isolato. Imbattersi nello strangola-cuccioli l’aveva turbata,
riempiendole la testa di ricordi. Sua madre in catene. Il suo fratellino che
piangeva. Il cambio in cui il suo intero mondo era andato in pezzi. Doveva
tornare alla Montagna, lontano da questi bastardi fanatici dei soli.
Un momento per pensare.
Un momento per respirare.
Se non fosse stata così concentrata a notare gruppi numerosi di uomini in
scintillante armatura bianca che agitavano spade fiammeggianti, avrebbe
potuto notare una figura esile tutta vestita di color grigio malta, che iniziò a
pedinarla quando entrò nel quartiere del porto. Avrebbe potuto notare la
banda di giovani maschi che si diresse lungo la passerella verso di lei,
annuendo alla figura che la tallonava. Avrebbe potuto notare che
indossavano stivali da soldati. Che avevano sotto il mantello dei bozzi
sospetti a forma di manganello.
Avrebbe potuto notare tutto questo prima che fosse troppo tardi.
Ma poi fu troppo tardi.
a. Ammazzaragni cercò di avvelenare la sua classe altre due volte nelle settimane successive: la
prima per il contatto con una tossina nota come “brivido” che gettò una mattina presto nel bagno
pubblico, e la seconda, di concerto con Mouser, quando rimpiazzò la serratura della camera da
letto di ogni accolito con una trappola ad ago liisiana in cui c’era supplicium sufficiente a uccidere
un cavallo.
Due accoliti morirono a causa della trappola con il supplicium: un ragazzo itreyano di nome
Angio, che Mia conosceva a malapena, e una ragazza gentile di nome Larissa, che era stata tra gli
studenti migliori nella classe di Mouser. Si tenne una messa silenziosa per loro nella Sala degli
Elogi, a cui parteciparono i novizi e il Culto. I corpi furono interrati con gli altri servitori della
Madre, ciascuno messo all’interno di una tomba alle pareti, senza alcun nome sulle loro pietre.
Mia osservò Ammazzaragni durante tutta la funzione, cercando qualche cenno di rimorso. La
donna incontrò i suoi occhi solo una volta, proprio mentre veniva cantato il requiem.
E poi scrollò le spalle.
b. Il materiale di cui sono costituite le Costole e la Dorsale a Godsgrave viene denominato
“necrosso”, anche se in verità la sua resistenza alla trazione è superiore a quella dell’acciaio. I
segreti della sua lavorazione sono andati perduti nel tempo, ma si vocifera che due alti arkemisti
del Collegio di Ferro li possiedano ancora.
Anche se furono scavate durante la costruzione di Godsgrave, le Costole e la Dorsale sono
considerate tesori itreyani, e deturparle in qualunque modo è un crimine punibile con la
crocifissione. Gran parte del necrosso acquisito all’alba della città è andato perduto nel corso dei
secoli, e questo materiale è considerato una risorsa quasi inestimabile. Detto ciò, le coorti scelte
della legione dei Luminatii indossano armatura di necrosso, e molte familiae ricche e potenti
possiedono alcuni cimeli di questo materiale, di solito lame e, in rari casi, gioielli. I re di Itreya
portavano una corona di necrosso, anche se ora viene conservata su un piedistallo di marmo nella
casa del senato, con incise le parole Nonquis Itarem.
“Mai più.”
Se osservate attentamente, gentili amici, potete vedere che è ancora macchiata con il sangue
dell’ultimo uomo che la indossò.
c. Devo specificare che in realtà ne esistono pochissimi. I Luminatii sono in gran parte interessati a
crimini che turbano coloro che pagano i loro salari, ovvero il senato di Godsgrave. Fintantoché gli
elementi criminali della città continuano a uccidersi tra loro e a rimanere sotto le Anche, al senato
l’omicidio di un inchiostrambo che ha pestato i piedi alle persone sbagliate o di un pappone che ha
scommesso sul gladiatore sbagliato nell’arena può fregare meno dell’imprecazione di un
calderaio. I Luminatii non sono uno strumento della legge e dell’ordine nella capitale di Itreya,
gentili amici. Sono uno strumento dello status quo.
Tuttavia, gli incidenti accadono. E, se vi dovesse capitare un caso del genere, farete bene a
conoscere qualcuno che lavora alla Porcheria.
d. Anche se sicuramente avete udito storie su porci che mangiavano ruote di carro o gambe di legno e
i possessori a cui erano attaccate, i racconti sull’appetito leggendario dei suini sono, per la
maggior parte, clamorose esagerazioni. Comunque, i maiali inviati alla Porcheria dalla terraferma
vengono lasciati senza mangiare per oltre una settimana quando vengono scaricati, e dopo sette
cambi a non mangiare nulla tranne l’aria, la vista di un Vaaniano fatto a pezzi che doveva un po’
troppi soldi a Tipi Sbagliati sembrerebbe anche a voi un banchetto da cinque portate, gentili amici.
Esiste un famoso racconto tra i marinai itreyani sulla Beatrice, una nave carica di porci diretta a
Godsgrave, finita fuori rotta durante un verobuio tempestoso e naufragata su un’isola nel Mare del
Silenzio. Dodici marinai sopravvissero al disastro, eppure nel corso delle settimane successive, gli
uomini scomparvero misteriosamente, a uno a uno. Un unico marinaio fu salvato quando
finalmente si levarono i soli. Era un mozzo di nome Benio che, quando venne recuperato da un
peschereccio dweymeri di passaggio, giurò che il resto dei suoi compagni era stato mangiato da un
altro sopravvissuto al naufragio: una scrofa feroce che si aggirava durante la notte, divorando gli
sfortunati marinai uno dopo l’altro.
Pareva che gli uomini avessero soprannominato questo spietato suino “Rosina”.
Quando tornò alla civiltà, il povero Benio perse la testa davanti a un primopasto di pancetta e
rotoli di maiale fritti, e passò il resto dei suoi cambi nel Manicomio di Godsgrave. Si dice che
Rosina vaghi ancora per l’isola, banchettando con i marinai che vi fanno naufragio e latrando al
cielo quando cade il verobuio.
Che ci sia qualcosa di vero in tutto ciò, naturalmente, resta nel campo delle ipotesi da ubriachi
formulate su varie navi che trasportano maiali. Ciò che è vero è che dopo aver appreso cosa
succedeva realmente alla Porcheria all’età di tredici anni, una giovane Mia Corvere giurò di non
mangiare più prosciutto per il resto della sua vita.
e. I farmacisti teorizzano che lo squilibrio tra luce e buio a Itreya sia la causa di molti problemi di
salute pubblica, come il numero crescente dei malati di “somnialgia” che affollano il Manicomio
di Godsgrave e il costante aumento dei livelli di assuefazione a sedativi come il Deliquio. Gli
occhiali di azzurrite sono uno dei pochi rimedi accettati. Le lenti, di vetro tinto di blu o verde da
processi arkemici, controbilanciano il bagliore del sole dominante nel cielo e risparmiano ai
cittadini più abbienti la parte peggiore della furia di Aa.
Ci sono stati diversi comitati sovvenzionati dallo Stato per promuovere iniziative per la salute
di portata più ampia, ma dato che è la volontà dell’onnipotente Aa che sua moglie sia bandita dal
cielo per anni di seguito, perfino riconoscere il problema di malattie correlate alla luce può essere
interpretato come eresia. Pertanto, gli sforzi per affrontare il problema sono continuamente
intralciati in senato da lealisti della Chiesa, per non parlare dei lobbisti al servizio della
potentissima gilda dei tendaggisti itreyani.
Ah, la democrazia.
f. Il ponte più alto di Godsgrave, originariamente noto come Ponte delle Torri. Il suo nuovo nome e la
rinnovata popolarità come punto ideale per i suicidi si manifestò nel 39PR, quando l’amante del
Gran cardinale Bartolemew Albari – Francesca Delphi – saltò giù e morì durante il Carnivalé del
verobuio. Era abbigliata con un costume completo da Carnivalé, inclusa una bauta dorata
tempestata di gemme che valeva più di un piccolo possedimento nella Valentia superiore.
Una volta che la notizia del suo suicidio si diffuse, la ricerca del suo corpo e, cosa più
importante, della maschera che indossava, condusse a diversi affogamenti, almeno quattro
accoltellamenti e una piccola rivolta. Secondo le dicerie che circolavano, Albari aveva promesso
di abbandonare la sua posizione all’interno della Chiesa e di sposare la sua spasimante prima del
verobuio del 39. Quando Albari non aveva onorato la sua promessa, la ragazza aveva indossato i
gioielli che lui le aveva donato, aveva scritto un biglietto ai suoi genitori spiegando tutto quel
sordido affare, poi si era buttata giù dal ponte.
Purtroppo per il cardinale Albari, il padre di Francesca, Marcinus Delphi, a quel tempo era uno
dei consoli della Repubblica. Lo scandalo aveva portato alla sospensione a divinis e alla
flagellazione pubblica di Albari, che aveva finito per gettarsi dallo stesso ponte sotto cui era morta
la sua amante. Nel tempo, la storia si tramutò in un racconto tragico: due amanti, separati dalla
società e consumati dalla loro passione proibita. Gli adolescenti che soffrono per amore si gettano
dal ponte da allora, e il controllo delle rive del fiume attorno al Ponte delle Promesse Infrante (e
pertanto il diritto di essere i primi a saccheggiare i loro cadaveri malati d’amore) è stata la causa di
più di una guerra fra le bande di braavi locali.
Per inciso, la maschera e il corpo di Francesca non furono mai ritrovati.
Non da un umano, quantomeno.
g. Una delle taverne più vecchie di Godsgrave, Il Letto della Regina fu costruita e chiamata così da
un gestore particolarmente ardito, un certo Darius Cicerii, durante il regno di Francisco XIII. La
regina di Francisco, Donnatella, era nota per essere una donna di grandi… appetiti, e la plebe si
divertiva molto per le insinuazioni che ne derivavano. La conversazione, inevitabilmente, si
svolgeva più o meno così:
“Vediamoci nella mattinata per una bella rinfrescata al gargarozzo, gentile amico.”
“Una splendida idea. Ma dove ci vediamo?”
“Al Letto della Regina?”
“Ho sentito che è piuttosto popolare, di recente.”
(qui una risata fragorosa)
Come risultato, la taverna fece ottimi affari. Quando Francisco XIII fu informato del nome del
locale nel corso di un banchetto reale dalla moglie indignata, fu… meno sconvolto di quanto la
regina Donnatella avesse sperato. In effetti, si dice che il re sollevò il calice per brindare all’oste e
commentò con i suoi ospiti: “Forse dovrei visitare io stesso il Letto della regina? Solo le Figlie
sanno se è passato parecchio tempo dall’ultima volta che l’ho visto”.
(qui un silenzio imbarazzato)
CAPITOLO 17
ACCIAIO
Un bel ceffone.
Acqua schizzata in faccia.
Un rantolo sputacchiante.
«Sveglia, mio adorabile amore.»
Mia aprì gli occhi e se ne pentì immediatamente. Un dolore accecante le
attraversò la fronte fino alla base del cranio. Ricordi frammentari. Un
gruppo di uomini. Randelli. Colpi reiterati. Imprecazioni. Il suo coltello che
guizzava. Sangue nella bocca.
Poi buio.
Sussultando, si guardò attorno. Pareti di pietra. Una porta metallica con
una finestra sbarrata. Si trovava su una pesante sedia di ferro, con le mani
ammanettate dietro la schiena. Messer Cortese era nascosto nella sua
ombra, bevendo la sua paura. Non era sola.
“Mai sola.”
«Svegliati.»
Un altro schiaffo la colpì in piena faccia, facendole scattare la testa da un
lato. Capelli flosci e gocciolanti si appiccicarono alla sua pelle. Cercò di
scalciare con i piedi ma scoprì che anch’essi erano bloccati.
«Sono sveglia, fottuto figlio di puttana!»
Mia alzò lo sguardo verso l’uomo che l’aveva schiaffeggiata. Era un
colosso tutto muscoli, alto sei piedi e quasi altrettanto largo. Il suo volto era
una cicatrice unica. Dietro di lui c’era un altro tizio, rasato e con un bel
fisico, gli occhi morti e vuoti. Entrambi indossavano vesti bianche. Copie
dei vangeli di Aa erano appese a pesanti catene di ferro attorno al loro collo.
Sui polsini avevano macchioline di sangue.
«Oh, merda» mormorò Mia.
“Confessori…” a
«Proprio così» disse l’uomo con gli occhi morti. «E sei vincolata da libro
e catena a rispondere in modo veritiero alle nostre domande.»
L’uomo sfregiato fece lentamente il giro della stanza fino a mettersi
dietro Mia. Allungando il collo, la ragazza vide un lungo tavolo su cui
erano disposti diversi strumenti. Pinze. Cesoie. Serrapollici. Un braciere
pieno di carboni ardenti. Almeno cinque tipi diversi di martelli.
Non c’era paura nel suo stomaco, nessun fremito nella voce mentre
guardava il secondo uomo negli occhi morti.
«Cosa vorreste sapere, buon Fratello?»
«Tu sei Mia Corvere.»
“Come sanno il mio nome?”
«… Sì.»
«Figlia di Darius Corvere. Impiccato per ordine del senato sei anni or
sono.»
“Quel centurione… Alberius… non può aver già fatto arrivare la notizia
a Scaeva, giusto?”
«… Sì.»
Mani pesanti si posarono su entrambe le spalle di Mia, stringendo forte.
«La marmocchia dell’Incoronatore» giunse la voce dell’uomo sfregiato
dietro di lei. «Che mi rimbalzino le palle sul pontile se questa non è una
delizia, Fratello Micheletto!»
L’uomo con lo sguardo spento sorrise, e i suoi occhi non lasciarono
quelli di Mia neanche per un istante.
«Oh, una rara delizia, Fratello Santino. Ho lo stomaco tutto in subbuglio,
oh sì.»
«Non ho commesso alcun crimine» replicò Mia. «Sono una figlia di Aa
timorata di dio, Fratello.»
Quello di nome Micheletto smise di sorridere. La sua sberla fece uscire
le stelle dall’oscurità dentro il cranio di Mia. La testa le ciondolò sulle
spalle mentre il ringhio di Micheletto attraversava il ronzio che aveva nelle
orecchie.
«Pronuncia ancora il Suo nome, ragazza, e ti taglierò quella lingua
senzadei con un fottuto coltello da burro, poi la bollirò assieme al mio tè.»
Mia prese un respiro profondo e attese che il dolore si placasse. Cercò di
pensare in fretta. Era legata e in inferiorità numerica. Non aveva idea di
dove si trovasse. Non poteva aspettarsi alcun aiuto. Certo, non era la
situazione peggiore in cui si fosse mai trovata. Ma, Figlie, stava
competendo per il secondo posto…
Scrollò via i capelli dagli occhi e guardò il confessore che incombeva
sopra di lei.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera» le intimò. «Prima di essere
arrivata a Godsgrave.»
«Arrivata?» la ragazza scosse il capo. «Fratello, io ho sempre vissuto
qu…»
Mia sibilò di dolore quando Santino l’afferrò per la collottola e strinse.
Avvertì le sue labbra che le sfioravano l’orecchio quando parlò, l’alito
intriso di vino rancido e tabacco.
«Fratello Micheletto ti ha fatto una domanda, mio adorabile amore. E
prima che tu avvolga quella lingua attorno a un’altra bugia, farei meglio a
dirti che sento ancora odore di sangue fra i tuoi capelli…»
A quelle parole il cuore di Mia saltò un battito. Percepì la propria ombra
rabbrividire mentre Messer Cortese masticava forte la sua paura. Era
possibile che sapessero che proveniva dalla Chiesa Rossa? Avevano
qualche sentore del modo in cui i discepoli si muovevano avanti e indietro
dalla Montagna? Il tribuno Remus aveva giurato da tempo di distruggere gli
assassini, perfino prima del Massacro del Verobuio. Aveva senso che avesse
reclutato il Confessionato per stanarli. Ma potevano…
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Non ho lasciato Godsgrave da quando avevo otto a…»
Ciac. L’impronta di una mano rosso brillante rimase impressa sulla sua
faccia.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Da nessuna parte, Fratello. Io…»
La sua sedia fu trascinata all’indietro e il suono orribile del ferro che
grattava sulla pietra le risuonò nelle orecchie. Mia vide un barile pieno di
acqua scura e tiepida in un angolo della stanza. Mani ruvide afferrarono una
manciata dei suoi capelli, poi le immersero la testa e la tennero giù. Lei si
dibatté e sgroppò, ma le manette la bloccavano e la mano la stringeva forte.
Urlò e delle bolle le uscirono dalla bocca in quel buio salmastro. Acqua di
porto, si rese conto. Probabilmente presa direttamente dalla Baia dei
Macellai. Sangue, acqua di sentina e merda.
“E mi ci stanno affogando dentro.”
Macchioline nere si agitarono davanti ai suoi occhi. I polmoni le
bruciavano. La mano la tirò fuori dall’acqua e lei inspirò una boccata d’aria
disperata e sputacchiante.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Vi prego, fer…»
Di nuovo giù nell’acqua. Il dolore e il buio. La sua ombra ribolliva
attorno ai piedi, inerme e disperata. Ma non c’era nessun manto d’oscurità
che potesse nasconderla, qui. Non aveva senso bloccare i piedi dei suoi
aguzzini al pavimento. Prescelta dalla Madre? Le stava tornando proprio
utile. Perché la dea non le aveva concesso la capacità di respirare
sott’acqua?
Quando i suoi polmoni stavano quasi per scoppiare, fu trascinata di
nuovo alla luce. Il petto si gonfiava. Le gambe tremavano. Tossiva.
Rantolava. Ora la paura stava prendendo il sopravvento: Messer Cortese
non era in grado di berla tutta. Nonostante ciò, lei la tenne a bada: le assestò
un calcio nei denti e ci sputò sopra.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Non ero da nessuna parte!» tuonò lei.
Di nuovo giù. E su. La domanda ripetuta, più e più volte. Lei urlò.
Imprecò. Provò a piangere e a supplicare, ma invano. A ogni appello, ogni
lacrima, ogni maledizione seguì la stessa risposta.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
Ma sotto le lacrime e le urla, la mente di Mia stava ancora ragionando
rapida. Se la volevano morta, lo sarebbe già stata. Se avessero saputo da
dove era arrivata, sarebbero già andati alla Porcheria. E se il Confessionato
era in combutta con i Luminatii, ciò voleva dire che ciascuno di questi
bastardi era un tirapiedi di Scaeva e Remus. Gli uomini che avevano
impiccato suo padre. Coloro che l’avevano instradata su questo cammino
tutti quegli anni addietro. La Chiesa Rossa era la sua miglior opportunità di
ottenere vendetta contro di loro. E questi sciocchi si aspettavano che vi
rinunciasse per un po’ di paura di affogare?
Si ritirò nell’oscurità in fondo alla sua testa, osservando la sua tortura
con una specie di fascino semidistaccato. La lavorarono per ore finché non
ebbe la voce rotta, i polmoni che urlavano e ogni respiro era come fuoco.
Affogandola e picchiandola. Sputando e schiaffeggiando. Ore.
E ore.
E poi si fermarono. La lasciarono afflosciata sulla sedia, le mani legate
dietro di lei. I capelli puzzavano di acqua della baia ed erano calati davanti
alla sua faccia come un sudario funebre. Livida. Sanguinante. Quasi
affogata.
Quasi morta.
«Abbiamo tutto il cambio, mio adorabile amore» disse Santino. «E pure
tutta l’illuminotte.»
«E se l’acqua non ti scioglierà la lingua,» aggiunse Micheletto «abbiamo
altri rimedi.»
L’omone sollevò un attizzatoio di ferro dal tavolo degli strumenti, poi lo
ficcò nel braciere ardente e lo lasciò lì a riscaldare. Sputò sui tizzoni e un
sibilo sfrigolante riempì la stanza.
«Quando quel ferro sarà rosso, torneremo. Pensa a lungo e a fondo a chi
va la tua lealtà. Potresti ritenere che valga la pena morire per il tuo prezioso
gregge di eretici. Ma credi a me, ci sono destini di gran lunga peggiori della
morte. E noi li conosciamo tutti.»
I confessori uscirono dalla stanza, sbattendosi alle spalle una pesante
porta di ferro. Mia udì una chiave sbatacchiare e un chiavistello inserito.
Passi che si allontanavano. Urla distanti.
«… mia…»
La ragazza si scrollò via i capelli dagli occhi, cercando di riprendere
fiato. Rabbrividiva. Tossiva. Abbassò finalmente lo sguardo verso l’ombra
che si addensava ai suoi piedi.
«Io sto bene, Messer Cortese.»
«… per essere dei confessori, quei due sembrano tipi adorabili…»
«Nel nome dei soli, come mi hanno individuato?»
«… mercurio…?»
«Stronzate.»
«… il centurione? alberius…?»
«Non aveva alcun indizio che fossi con la Chiesa. Sembra qualcosa di
più grande. Di più profondo.»
Messer Cortese inclinò la testa, silenzioso e meditabondo.
«… a dopo gli enigmi. prima devi uscire da qui…» disse infine.
«Sono lieto che ci sia qui tu a dirmi queste cose.»
Mia si guardò attorno. L’attizzatoio che si riscaldava nel braciere. Gli
strumenti sul tavolo. Le avevano tolto gli stivali e le armi. La scatola di
sigaretti che le aveva dato Mercurio. Le manette erano strette forte. I suoi
piedi erano incatenati alla sedia. Tastando i ceppi, si rese conto che le
polsiere erano chiuse con pesanti bulloni di ferro invece di una vera e
propria serratura.
«Cazzo…» mormorò.
«… devi liberarti…»
«Non ci riesco» sibilò, cercando invano di raggiungere i bulloni.
«Sarebbe un paio di manette di merda se potessi semplicemente liberarti
con le tue stesse mani.»
«… non usare le mani, allora…»
Il non-gatto lanciò un’occhiata nelle ombre che li circondavano.
«Sai che non funziona così.»
«… potrebbe…»
«Non sono abbastanza forte, Messer Cortese.»
«… lo sei stata…»
Mia deglutì. Dei lampi nella sua memoria. Corridoi bui. Pietra senza
luce.
“Non guardare.”
«… ricordi…?»
«No.»
«… ti uccideranno, mia. a meno che non ti spezzino. e allora ti
uccideranno comunque…»
Mia strinse i denti e fissò il non-gatto, che la guardava a sua volta con i
suoi non-occhi.
«… prova…»
«Messer Cortese, io…»
«… prova…»
Lei chiuse gli occhi. Buio e calore dietro le ciglia. Percepiva le ombre in
questa piccola cella umida. Freddo. Vecchio. I soli non arrivavano mai, qui.
L’oscurità era profonda. Fredda e affamata. Poteva percepirle attorno a lei,
come cose vive. Guizzavano giocose nella flebile luce del braciere.
Ruzzolavano una sull’altra e ridevano senza emettere alcun suono. La
conoscevano. Era una specie di cosuccia pallida e debole, che le toccava
come il vento lambisce le montagne. Ma lei si protese chiudendo i pugni e
quelle rimasero immobili.
In attesa.
«… D’accordo» sussurrò.
Le torse e le fece strisciare lungo il pavimento per attorcigliarsi sulla sua
schiena e poi serpeggiare su attorno al ferro che aveva ai polsi. Al suo
ordine, si avvolsero strette attorno ai bulloni di ferro che mantenevano i
ceppi al loro posto. Tirarono.
E i bulloni non si mossero di un pollice.
Erano solo ombre, dopotutto.
Vere come sogni.
Dure come fumo.
«Non serve a nulla» sospirò Mia. «Non posso farlo.»
«… devi…»
«Non posso!»
«… devi. e se non lo rifai, morirai qui, mia…»
Le sue mani tremarono. Lacrime d’odio cercarono di sgorgarle dagli
occhi.
«… non comandare l’oscurità attorno a te…»
Il non-gatto si avvicinò, fissandola con l’intensità propria solo di chi non
ha occhi.
«… comanda l’oscurità dentro te stessa…»
Passi distanti.
Urla ovattate.
«… D’accordo.»
Richiuse gli occhi e stavolta non si protese all’infuori: si allungò dentro
di sé, in posti che i soli non avevano mai toccato. Il nero informe sotto la
sua pelle. Strinse i denti mentre il sudore le scintillava sulla fronte. Le
ombre tremolarono, si incresparono, sospirarono. Diventarono più nere. Più
dure. Più affilate. Afferrando i bulloni, il suo volto si contorse, il cuore
prese a martellare e il respiro accelerò come se stesse scattando. Ma
lentamente, molto lentamente, i bulloni cominciarono a tremare. A girare.
Attimo dopo attimo. Pollice dopo pollice. Le vene risaltarono tese sul suo
collo. Saliva sulle sue labbra. Sibili. Implorazioni. Fino a quando,
finalmente, non udì un debole rumore metallico, poi un altro. I ferri ai suoi
polsi erano caduti sulla pietra.
E lei era libera.
Mia guardò Messer Cortese. E anche se non aveva la bocca, riuscì a
capire che stava sorridendo.
«… ecco fatto…»
Armeggiò con i ceppi alle caviglie e li staccò. Si alzò in piedi, capelli e
abiti ancora zuppi, e si diresse alla porta senza fare rumore. La fessura della
finestrella era chiusa, ma auscultò contro il ferro. Udì deboli urla che
riecheggiavano sulla pietra. Un corridoio lungo, a giudicare dal suono.
Metallo e passi.
“Si avvicinano.”
Prese un martello dal tavolo e tirò le ombre attorno a sé, avvolgendosi
nell’oscurità e accucciandosi nell’angolo. Il chiavistello della porta
sbatacchiò e la serratura scattò. Fratello Santino entrò, vide la sedia vuota e
le manette a terra e sgranò gli occhi. Il martello di Mia impattò contro la sua
faccia, il ginocchio contro il suo inguine. Con un piagnucolio gorgogliante,
l’uomo crollò a terra. Fratello Micheletto era in piedi dietro Santino, il volto
atterrito. Mia cercò di colpirlo, ma era quasi cieca nella sua oscurità e la
martellata andò larga: il confessore indietreggiò e bloccò con il suo
parabraccio. L’uomo strinse gli occhi e vide solo una macchia semovente
ma la caricò comunque, afferrandola in una stretta salda. Lanciò un urlo
quando il martello di Mia gli rimbalzò contro la fronte. Cadde di peso,
trascinandola con sé.
I due rotolarono sulla pietra, prendendosi a pugni e dibattendosi.
Micheletto cercava di afferrare la ragazza che non riusciva a scorgere bene
e Mia tentava di mettere a segno un colpo decente senza essere in grado di
vedere del tutto ciò che stava cercando di percuotere. Alla fine, gettò da
parte il suo manto d’ombra e optò per la semplice ferocia invece dell’inutile
furtività. Il suo gomito spappolò il naso dell’uomo, mentre il suo pugno gli
danzava sulla mascella.
Un gancio violento andò a segno sul lato della sua testa e le fece perdere
i sensi. Giunse un altro colpo che la fece ruzzolare. Si rese conto che
Santino era di nuovo in piedi dietro di lei, pur con il volto devastato e
sanguinante. Mia si sforzò di alzarsi, ma il fratello l’afferrò in una terribile
presa alla testa. Le ombre schioccarono e si contorsero, ma quei colpi
contro il capo l’avevano stordita e non riusciva a controllarle a dovere.
Assestò un calcio selvaggio all’indietro e lo avvertì impattare contro
qualcosa di morbido, udendo un grugnito di dolore. Ma poi fu sbattuta di
nuovo sulla sedia, sputando e imprecando, i capelli aggrovigliati davanti
agli occhi. Santino la tenne giù mentre Micheletto le legava di nuovo i
polsi. Gli strumenti sul tavolo tremolarono mentre le ombre nella stanza
schioccavano come serpenti. Qualcosa di pesante andò a sbattere contro la
sua tempia e lei si afflosciò, sanguinante e ansimante, la testa che
ciondolava sulle spalle.
«Fottuta puttanella» sibilò Micheletto.
Zoppicò fino al braciere, il naso che colava sangue, e prese l’attizzatoio
dalle braci. La punta brillava di un arancione infiammato e luminoso. Mia si
dimenò sulla sedia, ma Santino la tenne giù mentre l’altro confessore
sollevava l’attizzatoio vicino alla sua faccia. Mia rimase immobile.
Avvertiva quel calore rovente solo a un pollice o due dalla sua pelle. Un
ciuffo ribelle di capelli toccò il ferro incandescente e fumò mentre si
carbonizzava.
«Mio adorabile amore» tubò Santino. «Temo che tra un attimo sarai
meno adorabile.»
Mani le premevano contro i lati della testa, tenendola ferma. Il fiato le
sibilava tra i denti. Ora dentro di lei c’era solo rabbia. Se questa doveva
essere la sua fine, non se ne sarebbe andata supplicando.
“Mai tirarsi indietro. Mai avere paura. E mai, mai dimenticare.”
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera» ringhiò Micheletto. «Prima di
arrivare a Godsgrave.»
«Fottiti.»
«Dov’eri prima di arrivare a Godsgrave?» urlò Micheletto.
Il ferro adesso si trovava solo a un alito dalla sua pelle. Stava già
cominciando a bruciare. Provò nausea allo stomaco e il sudore le pizzicò gli
occhi. Mia alzò lo sguardo sul confessore. Le labbra si ritrassero dai denti in
un sussurro feroce.
«Ho detto. Fottiti.»
Il fratello scosse il capo.
Poi, con un sorriso vuoto, sollevò l’attizzatoio all’altezza dell’occhio.
«Basta.»
Il sorriso scomparve dalla faccia del fratello, e così la stretta sulla testa di
Mia. Entrambi i confessori si raddrizzarono, come per mettersi sull’attenti.
Fratello Micheletto si fece da parte per rivelare sulla soglia una figura
coperta da un mantello.
Mia scorse lunghi capelli neri. Occhi neri senza fondo. Lame gemelle
alla cintura.
Perfettamente normale.
Perfettamente letale.
Un malore untuoso crebbe nella sua pancia e Messer Cortese rabbrividì
mentre l’oscurità attorno a loro cresceva bruscamente. E dalle ombre lei udì
un ringhio basso e rimbombante.
“Il ringhio di un lupo.”
«Lasciateci» ordinò Cassius.
«Sì, signore» risposero Micheletto e Santino.
Gli uomini si profusero in un inchino, poi in silenziosi cenni del capo a
Mia, quindi si allontanarono rapidamente dalla stanza. La sua pancia ebbe
un fremito di paura improvvisa quando lord Cassius entrò nella cella e
Messer Cortese si rimpicciolì nel nero ai suoi piedi. Il Signore delle Lame si
erse davanti a Mia con le mani serrate e le lunghe ciocche scure che si
muovevano come per una brezza invisibile. La sua pelle era dell’alabastro
più puro, la sua voce miele e sangue.
«Brava, accolita. I miei complimenti.»
«… Lord Cassius?»
Mia si guardò attorno. Oltre la nausea che sentiva nelle viscere, oltre
l’impennata di terrore ed eccitazione che provava in sua presenza, la
comprensione la inondò come una piena.
Sollievo. Rabbia. Mortificazione.
«Una prova» mormorò.
«Una necessità» replicò Cassius. «Ora che sai del Cammino del Sangue.
Oltre alla tua abilità con acciaio, veleno o carne, esiste una virtù che
dobbiamo assicurarci ogni discepolo della Chiesa Rossa possieda in
abbondanza.»
Mia guardò il Principe Nero negli occhi. Le tremavano le mani.
«La lealtà» sussurrò.
Cassius inclinò la testa. «La Chiesa Rossa si vanta della propria
reputazione. Nessun contratto intrapreso da questa congregazione è rimasto
inadempiuto. Nessun discepolo ha mai rivelato un segreto a coloro che ci
danno la caccia. Ogni anno, portiamo facce nuove nel gregge e vi affiliamo
perché possiate essere taglienti come rasoi. Ma per quanto possano
sembrare affilate, alcune lame sono semplicemente fatte di vetro.»
«Vetro?»
«Un pezzo di vetro può tagliare la gola di un uomo. Perforargli il cuore.
Squarciargli i polsi fino all’osso. Ma premi il vetro nel punto sbagliato e
andrà in frantumi. Il ferro no.»
Un debole sorriso incurvò labbra pallide. La mano di Cassius scivolò a
una lama alla cintura.
«Fin dall’attentato fallito alla vita del console Scaeva, il cardinale
Duomo ha dichiarato la distruzione della Chiesa Rossa un mandato divino.
Il tribuno Remus e i suoi Luminatii ci danno la caccia in ogni angolo della
Repubblica. Abbiamo il potere degli stregoni ashkahi a nostra disposizione.
Cappelle in ogni metropoli. Se uno dei nostri discepoli dovesse cadere nelle
mani dei nostri nemici, dobbiamo essere certi che non andrà in frantumi. E
così…»
Cassius fece un cenno verso le celle attorno a loro, il mantello che
sussurrava mentre si muoveva. La paura di Messer Cortese stava divorando
la pancia di Mia, le ombre si contorcevano sul pavimento. Lei alzò lo
sguardo quando un altro urlo riecheggiò lungo il corridoio. Deglutì forte e
cercò la propria voce.
«Dunque la prova della Shahiid Aalea era solo uno stratagemma?»
«Oh, no. L’accolito che le donerà il segreto migliore primeggerà
comunque in Maschere. E tutti voi verrete inviati più e più volte in questa
città a cercarli, non dubitare. Approfittiamo semplicemente di questa
opportunità per saggiare le acque, per così dire.»
«Le altre accolite che sono venute a Godsgrave? State mettendo alla
prova anche loro?»
«Vi mettiamo alla prova tutti quanti.»
«… Qualcuna ha ceduto?»
«Qualcuno cede sempre.»
L’uomo scrutò negli occhi di Mia. Forse attendeva qualche tipo di
protesta.
Mia rimase muta, incontrando quello sguardo senza fondo e lottando
contro la nausea nelle sue viscere. Quel sapore untuoso di bile aleggiava in
fondo alla sua gola e le sue mani tremavano talmente forte che fu costretta a
stringere la sedia per placarle. Cosa c’era in quest’uomo che la influenzava
così tanto? Forse perché apparteneva alla sua stessa specie? Il buio dentro
di lui chiamava quello dentro di lei?
Udì dei passi morbidi e ovattati alle sue spalle. Quel basso ringhio da
lupo.
“Eclissi…”
«Siete il primo tenebris che abbia mai incontrato» disse infine lei. «Con
cui abbia mai parlato.»
«Forse l’ultimo» replicò Cassius. «Ti mancano molte illuminotti
all’iniziazione. E se pensi che la nostra affinità ti procurerà privilegi nelle
sale della Madre, sei decisamente in errore.»
Gli occhi del Principe Nero erano mortalmente freddi. La sua bellezza
ancora di più. Mia riusciva a percepire il lupo d’ombra dietro di lei, che si
avvicinava. Messer Cortese si gonfiò nella sua ombra e soffiò, e una bassa
risatina risuonò dalle pietre ai suoi piedi. La domanda le artigliò la lingua
finché non le dette voce, un sussurro sottile sospeso nell’aria come fumo.
«Cosa siamo?»
«Tu cosa pensi?»
«Mercurio, Drusilla…» Mia deglutì. «Loro dicono che siamo i prescelti
della Madre.»
Le si rizzarono i peli sulla nuca quando il Signore delle Lame rise.
«È ciò che tu credi di essere, piccola tenebris? Una prescelta?»
«Non so cosa credo» sibilò lei. «Speravo che poteste insegnarmelo voi.»
«Cosa credere?»
«Cosa sono.»
«Non ha importanza cosa tu sia» rispose Cassius. «Solo che tu sia. E se
cerchi una risposta a un qualche grande enigma su te stessa, non cercarla da
me finché non te la sarai guadagnata. Per un aspetto, e uno solo, dovresti
essere lieta. Poiché in questo, se non in altro, siamo uguali.»
Lo stomaco di Mia sussultò quando il Signore delle Lame si sporse più
vicino, estraendo un pugnale dalla manica. Poi si protese verso il basso e
tagliò la corda che le legava i polsi.
«Siamo assassini, tu e io» disse. «Assassino uno, assassini tutti. E ogni
morte che causiamo è una preghiera. Un’Offerta alla Nostra Signora
dell’omicidio benedetto. Morte come misericordia. Morte come
avvertimento. Morte come fine in se stessa. Tutte queste cose sono la nostra
consapevolezza e il nostro dono al mondo. Il lupo non commisera l’agnello.
La tempesta non chiede perdono agli affogati.»
Scrutò di nuovo negli occhi di Mia, e la sua voce riverberò nel petto
della ragazza.
«Ma innanzitutto siamo servitori. Discepoli. Circondati da nemici. Leali
fino alla morte. Non ci pieghiamo e non ci spezziamo. Mai. Questa è la
verità che apprendi in questa cella. Questa è la prima risposta a qualunque
domanda tu possa porti su te stessa. E se non ti sta bene, accolita, se pensi
che forse tu abbia commesso un errore nel venire da noi, il momento di
parlare è adesso.»
Niente risposte, dunque. Solo altri enigmi. Se Cassius era il depositario
di qualche verità superiore sui tenebris, non aveva intenzione di
condividerla con lei. Forse mai. O forse, come aveva detto, non finché non
se la fosse meritata.
E così, con un sussulto, Mia si sollevò lentamente dalla sedia. Le
tremavano le gambe. Aveva la nausea fin dentro le ossa. Aveva freddo, era
bagnata e puzzava d’acqua della baia e di sangue. Guancia gonfia, occhio
pesto, labbro spaccato. Trascinando via dalla guancia i capelli zuppi,
incontrò lo sguardo di Cassius.
Poi protese la mano.
«Posso riavere i miei sigaretti?»
a. Una branca della Chiesa di Aa vecchia quasi quanto la religione stessa, il Confessionato, come
potete sospettare, ha l’incarico di estirpare l’eresia all’interno della Repubblica. Preoccupati
principalmente di coloro che adorano la Madre della Notte, i confessori sono reclutati tra i ministri
di Aa più zelanti o squilibrati. L’attuale capo del Confessionato, Attia Fiorlini, arrivò a
crocifiggere il proprio marito per un sospetto di eresia all’inizio della sua carriera. I suoi superiori
furono decisamente impressionati dalla sua devozione, e così la sua stella crebbe rapidamente.
In verità, Attia inventò le accuse contro il suo uomo dopo aver scoperto che si scopava una
delle servitrici.
Come si suol dire, due piccioni con una fava…
CAPITOLO 18
FLAGELLO
Lunghe ore dopo, qualcuno bussò forte alla porta di Mia, trascinandola via
dalle braccia dei suoi libri. Lei fece scivolare lo stiletto via dal polso e si
gettò una vestaglia attorno alle spalle. Muovendosi lentamente verso la
porta, sussurrò a chiunque fosse in attesa dall’altra parte.
«Ash?»
«Per favore, apri la porta, accolita.»
Mia strinse più forte il coltello, poi girò la chiave e sbirciò fuori, nel
corridoio in penombra. Vide una Mano fuori dalla sua porta, lunghe vesti
nere e il volto nascosto da un cappuccio. Allora pensò a Naev e si domandò
brevemente dove fosse.
«Sei convocata dalla Reverenda madre Drusilla» disse la Mano.
«Ma certo.» Mia si inchinò. «Come lei desidera.»
Guardò lungo il corridoio e vide altre Mani che bussavano alle porte
degli accoliti. Ashlinn uscì alla luce con andatura incerta, le sue bellitrecce
scompigliate dalla pressione contro il cuscino. Al di là della ragazza, Mia
vide suo fratello Osrik, i capelli a punta che gli spuntavano dal cranio ad
angoli improbabili. Pareva che stessero svegliando tutti quanti, il che voleva
dire che non era Mia in persona a essere nei guai.
“Evviva i piccoli miracoli.”
«Cosa sta succedendo?» sussurrò Mia mentre il gruppo procedeva lento
dietro le Mani.
«Ne so tanto quanto te» rispose Ash con uno sbadiglio. «Nulla di buono,
scommetto.»
«Niente scommesse.»
Gli accoliti si trascinarono su per le scale a chiocciola mentre il coro
spettrale cantava da qualche parte nell’oscurità. Arrivati alla Sala degli
Elogi, Mia chinò il capo, poi si toccò fronte, occhi e labbra come fecero gli
altri. Vide che l’intero Culto era riunito: Aalea, perfetta come un ritratto in
un sottile abito borgogna, Ammazzaragni con un’aria più arcigna del solito
e vestita di verde giada, Mouser e Solis che alternavano sorrisi e sguardi
torvi nel loro cuoio scuro. Drusilla si trovava all’ombra di Niah, la bocca
sottile. E accanto a lei, incatenato agli anelli d’acciaio della statua stessa,
Mia vide…
«Zitto…»
Il ragazzo era nudo fino alla cintola, bendato con stoffa nera, la schiena
rivolta alla sala. Gli accoliti si radunarono in un semicerchio attorno alla
base della statua, silenziosi e cauti. Ashlinn annuì tra sé e sussurrò a Mia.
«Flagello di sangue.»
«Cosa?»
«Shhh. Osserva.»
«Grazie per la vostra presenza, accoliti» li accolse Drusilla. «Ci sono
poche regole che governano la vita di una Lama. Se doveste sopravvivere
per servire la Madre, vivrete fuori dai confini della legge, pertanto
all’interno di queste mura vi concediamo quanto più libertà possiamo.
Tuttavia, le poche regole che vi impartiamo non possono essere ignorate.
«Dopo l’omicidio dell’accolito Chiamapiena, ciascuno di voi è stato
avvertito di non lasciare le proprie stanze dopo la nona campana. Ho
promesso che chiunque fosse stato trovato colpevole di aver infranto tale
coprifuoco sarebbe stato punito severamente. Eppure, uno di voi ha provato
a mettere alla prova la mia determinazione.» Indicò Zitto con un cenno
della mano. «Ora assisterete al prezzo della follia.»
La Reverenda madre scese dal podio e si voltò verso le ombre.
«Oratore? Tessitrice?»
Mia vide due figure entrare nella luce dei vetri colorati. L’Oratore
Adonai indossava brache di cuoio e una vestaglia di seta rossa gettata con
noncuranza sopra il torace nudo. Era senza stivali. Sua sorella Marielle era
avvolta dalla testa ai piedi in un ampio tessuto nero fluente. I fratelli presero
posto dietro il ragazzo. Zitto voltò la testa quando Marielle iniziò a farsi
scrocchiare le nocchie: schiocchi umidi e nauseanti riecheggiarono nella
penombra. Perfino bendato, Zitto doveva aver riconosciuto il suono. Mia lo
vide prendere un respiro profondo, poi voltarsi di nuovo verso la pietra.
Madre Drusilla parlò con una voce simile a ferro.
«Cominciate.»
Marielle sollevò la mano, le dita protese. Dal suo punto elevato, Mia
poteva vedere la faccia della donna, quelle labbra orrende spaccate in un
sorriso sanguinante. Marielle borbottò sottovoce, strinse gli occhi e chiuse
le dita in un pugno.
Un suono squarciante ruppe l’aria e la carne della schiena di Zitto si
spaccò come frutta marcia. Il ragazzo gettò la testa all’indietro quando
quattro lacerazioni orribili si aprirono lungo la pelle, come se una specie di
flagello invisibile gli avesse frustato la schiena. Sgorgò sangue e i muscoli
furono fatti a brandelli; Mia sussultò quando vide ossa rosee e scintillanti
comparire tra le ferite.
Ma il ragazzo non emise un suono.
Marielle agitò di nuovo la mano, con noncuranza, come se stesse
scacciando una mosca. Altri quattro squarci si aprirono nella carne di Zitto,
lacerandogli la schiena. Ogni muscolo del suo corpo si contrasse, le vene si
ingrossarono nelle braccia e sul collo, quel volto bellissimo si contorse dal
dolore. Mia non era certa che qualche altro accolito potesse vedere, ma
dall’angolazione a cui si trovava, rimase sconvolta nel notare le labbra del
ragazzo arricciarsi all’indietro in un ringhio, lasciando scoperte gengive
rosa e vuote.
“Madre Nera, non ha i denti…”
Marielle mosse nuovamente la mano. La pelle del ragazzo si lacerò
ancora. Lunghi squarci frastagliati si aprirono sulle gambe, la schiena
macinata come carne per le salsicce. Sulla pietra ai suoi piedi si stava
accumulando del sangue. Fiotti di sangue arterioso, schizzi in volute folli
che scintillavano nell’aria. Anche se doveva essere in preda alla sofferenza,
il ragazzo non emise nemmeno un sussurro. Gli accoliti osservarono
inorriditi mentre Marielle muoveva le mani e altra carne di Zitto continuava
a staccarsi. E per tutto il tempo il ragazzo rimase in silenzio, come se fosse
già morto.
Passarono minuti. Suoni umidi e laceranti. Gocce di pioggia. Zitto era un
relitto sanguinante. La testa gli ciondolava sulle spalle. Il sangue era
raccolto attorno ai suoi piedi come una marea rosso scuro. Non potevano
continuare ancora, no? Mia si voltò verso Ash, parlandole con un sibilo.
«Lo stanno uccidendo!»
Ash scosse il capo. «Osserva.»
Marielle continuò il suo lavoro orribile e quel sorriso sanguinante si
allargò ancora di più. Zitto si dibatté debolmente contro le sue catene, ma
adesso era a malapena cosciente. E quando Mia riuscì effettivamente a
contare le costole sotto la sua pelle, quando sembrò che ancora un solo
colpo invisibile lo avrebbe ucciso, la Reverenda madre alzò la mano.
«Basta.»
Marielle lanciò un’occhiata a Drusilla, il suo sorriso duro a morire. Ma
lentamente la Tessitrice inclinò la testa e abbassò la mano con evidente
riluttanza.
«Amato fratello, fratello mio» biascicò.
Adonai venne avanti, scostandosi bianchi capelli unti dalla faccia.
L’albino sussurrò, un suono sommesso e musicale, come se stesse cantando
sottovoce. Le parole riecheggiarono per la sala, come il canto di un coro
nella Basilica Grande. E mentre Mia guardava affascinata, il sangue
addensato ai piedi di Zitto cominciò a muoversi.
All’inizio era tremolante, increspandosi con qualche vibrazione nascosta.
Ma lentamente, in modo fiacco, quella marea scarlatta si ritirò lungo la
pietra ai piedi del ragazzo mentre si dibatteva e sussultava, scorrendo su per
le gambe e nuovamente nelle ferite che Marielle aveva squarciato. Mia
guardò la faccia dell’Oratore, pallida come un cadavere. Invece del loro
abituale rosa, gli occhi dell’uomo erano rosso sangue. Il suo sorriso era
estatico.
Marielle sollevò le mani accanto a quelle del fratello. Le agitò nell’aria
come una sarta a un telaio di sangue. E mentre Zitto sgroppava e tremava,
con la bocca aperta e il volto lustro di sudore, una a una le ferite si chiusero.
Gli orrendi squarci e lacerazioni. La carne fradicia e sminuzzata. Tutto
quanto si increspò e si richiuse mentre Zitto si dimenava in silenzio, finché
sulla sua pelle non rimase nemmeno un graffio.
Il ragazzo si afflosciò nelle catene, un filo di bava che gli colava dalle
labbra. Era rimasto cosciente per tutto il tempo. Ogni momento. Gli accoliti
lo guardarono con un misto di orrore e meraviglia.
Le Mani gli tolsero le manette e gettarono una vestaglia attorno alle sue
spalle intatte.
«Portatelo nella sua stanza» disse Drusilla. «È esonerato dalle lezioni di
domani.»
Le Mani obbedirono, sollevando Zitto in mezzo a loro e trascinandolo
via dalla sala. La Reverenda madre guardò gli accoliti lì riuniti, fissando
ciascuno con i suoi occhi azzurri. L’aspetto matronale era sparito, l’amore
materno momentaneamente evaporato. Questa era l’assassina svelata. La
stessa donna che non aveva mosso un dito mentre lord Cassius e i suoi
uomini torturavano gli accoliti dentro quella cella buia a Godsgrave. La
stessa donna che aveva mandato otto suoi studenti a morire con un sorriso.
«Confido che non saranno necessarie ulteriori dimostrazioni» disse. «Se
altri accoliti saranno trovati fuori dalle loro camere da letto dopo lo
scoccare della nona campana, dovranno bere dallo stesso calice. Anche se la
prossima volta potrei permettere alla Tessitrice Marielle di fare
completamente a modo suo.»
La Madre fece scivolare le mani all’interno delle maniche, poi si
inchinò.
«Ora andate a dormire, bambini.»
Il sonno era giunto lentamente e Mia si destò prima delle campane del
risveglio, fissando le pareti. Decisa a far tornare la forza nel braccio con cui
usava la spada, si esercitò: flessioni ai piedi del letto, poi contro la porta.
Dopo qualche minuto, il suo gomito urlava di dolore, ma continuò a
sforzarsi finché non le sgorgarono le lacrime dagli occhi. Alla fine crollò
sul pavimento e giacque lì a riprendere fiato, inveendo sottovoce contro
quel bastardo di Solis.
Uscendo dalla sua camera da letto, si diresse verso il bagno pubblico.
Passando accanto alla stanza di un accolito, udì uno schianto e il tintinnio di
vetri rotti all’interno. Si fermò fuori dalla porta; da dentro risuonarono molti
altri tonfi e schianti.
«… quelli che ficcano il naso nelle faccende altrui tendono a
perderlo…»
«Chiamami curiosa.»
«… lo sai cos’ha fatto la curiosità al gatto…»
Mia si sporse più vicino e appoggiò l’orecchio contro il legno.
La porta si spalancò e Mia balzò all’indietro stupefatta. Lì nella
penombra vide Zitto. Occhi arrossati, carnagione pallida. Quel volto
bellissimo striato di lacrime. Era a torso nudo, sudato per lo sforzo. La
stanza alle sue spalle era nel caos, cassetti rovesciati e scagliati contro il
muro, lenzuola rovinate. Mia lo squadrò. Snello e muscoloso. Petto glabro.
A parte alcuni lividi ai polsi, il suo corpo non mostrava nessun segno della
tortura inflittagli da Marielle e Adonai.
Il ragazzo la fissò. Aveva le labbra tirate in una linea e la rabbia negli
occhi.
«Scusami, Zitto» disse Mia. «Ho udito dei rumori.»
Zitto rimase in silenzio. Immobile.
«Va tutto bene?»
Nessuna risposta: solo uno sguardo freddo e macchiato di lacrime.
Ricordò la sua immagine della sera prima, la testa gettata all’indietro e le
labbra arricciate a mostrare gengive senza denti. Era quello il motivo per
cui non parlava mai? Come li aveva persi? Poteva esserseli strappati da solo
come tributo per ottenere l’ingresso alla Chiesa?
Rimasero lì entrambi, nessuno dei due intenzionato a muoversi. Il
silenzio risuonava più fragoroso delle campane dell’illuminotte per
Godsgrave.
«Mi dispiace» azzardò Mia. «Per quello che ti hanno fatto. È stato
crudele.»
Il ragazzo inclinò lievemente la testa e si strinse appena nelle spalle.
«Se mai volessi parlarne…»
Zitto le rivolse un sorrisetto privo di allegria.
«Voglio dire…» Mia mosse un po’ le mani. «Scriverlo. Se vuoi, sono
qui.»
Il ragazzo la fissò negli occhi. Poi, indietreggiando con un guizzo del
polso ammaccato, sbatté la porta in faccia a Mia. Lei si spostò con un
sobbalzo, evitando per poco di rompersi di nuovo il naso. Si infilò i pollici
alla cintura e fece spallucce.
«… be’, è andata a meraviglia…»
«Non puoi biasimare una ragazza per averci provato» disse lei,
avviandosi lungo il corridoio.
«… è una specie di stratagemma…?»
«Che c’è? È così bizzarro che me ne freghi qualcosa?»
«… non bizzarro, semplicemente inutile…»
«Ascolta, solo perché non ho nulla da guadagnarci, non significa che non
dovrebbe importarmi. L’hanno torturato, Messer Cortese. Anche se non gli
è rimasta nemmeno una cicatrice, non significa che non abbia lasciato il
segno. Ed è come ha detto Naev. Dovrei badare alle cose che sono
importanti qui.»
«… importanti? quel ragazzo non è nulla per te…»
«So che dovrei pensare a lui come un concorrente. So che non ci sono
abbastanza posti per tutti noi tra le Lame. Ma questa Chiesa ha lo scopo di
farmi diventare fredda, perciò aggrapparmi alla parte di me in grado di
provare pietà diventa più importante a ogni cambio che passa.»
«… la pietà è una debolezza che può essere usata contro di te. scaeva,
duomo e remus non ne avranno alcuna…»
«Un altro motivo per tenermela stretta, allora, giusto?»
«… umpf…»
«Pfui.»
«… grrrr…»
«Zitto.»
«… cresci…»
Risuonò una risata e le ombre sorrisero.
«Mai.»
La ragazza e il non-gatto scomparvero nell’oscurità.
a. Borbottò al suo coltello un po’ meno mentre la mascella era in via di guarigione. Mia era tentata di
andare a cercare i suoi aguzzini per ringraziarli.
CAPITOLO 19
MASCHERATA
a. Le varie ferite riportate dal gregge durante la prova di lealtà di lord Cassius ormai erano
praticamente guarite e, con disappunto di Mia, i mormorii di Pip con il suo coltello ripresero, più
frequenti di prima.
b. La ritrattistica liisiana è generalmente considerata la migliore di tutta la Repubblica, e i migliori
artisti possono far pagare piccole fortune per le commissioni. Vaiello, un famoso artista vissuto
alla corte di Francisco XIV, raggiunse una ricchezza talmente spaventosa che si diceva potesse
comprare il regno due volte. Purtroppo, dopo un incidente che coinvolse una bottiglia di vino di
troppo, il secondo figlio di Francisco, Donatello, un letto a baldacchino e un frustino, Vaiello si
ritrovò a essere incriminato per tradimento e condannato a morte.
Com’era prevedibile, l’esecuzione di Vaiello portò a un aumento spropositato del valore dei
suoi dipinti, e i midollani che li possedevano si ritrovarono con un piccolo capitale.
Inaspettatamente, però, ciò portò anche a un’improvvisa ondata di omicidi di famosi artisti liisiani,
dato che certi nobili scaltri cercarono di accrescere il valore delle proprie collezioni uccidendo i
poveri bastardi che le avevano dipinte. I pittori cominciarono a cadere come mosche e, nei mesi
successivi alla morte di Vaiello, quello del “ritrattista” divenne il mestiere più pericoloso del
regno.
Questa ondata di pittoricidi portò a una spaventosa impennata del prezzo delle nuove opere,
dato che ora c’erano meno maestri disponibili per dipinti su commissione. Rendendosi conto che
il loro valore era cresciuto, questi maestri cominciarono anche a istruire meno apprendisti, cosa
che condusse a prezzi ancora maggiori. Al culmine della crisi, si diceva che la tariffa corrente per
un normale ritratto consistesse in due possedimenti di medie dimensioni nella Valentia superiore e
in una figlia primogenita. A questo sfacelo si pose fine solo quando intervenne re Francisco,
commissionando l’istituzione di due accademie per istruire artisti liisiani (una a Godsgrave e una
seconda, più rinomata, a Elai) e, simultaneamente, dichiarando che l’omicidio di un artista liisiano
era un crimine punibile con la crocifissione.
Questo incidente, a proposito, viene ancora illustrato al Gran Collegio di Godsgrave come una
perfetta rappresentazione delle leggi di domanda e offerta. In onore di Vaiello, è soprannominato il
“Principio del frustino”.
CAPITOLO 20
FACCE
Solo uno di loro non tornò vivo da Godsgrave, un ragazzo con i capelli
scuri e un sorriso con le fossette di nome Tovo. Fu tenuta una messa
silenziosa per lui nella Sala degli Elogi.
Una pietra senza iscrizioni.
Una tomba vuota.
Mia non udì mai più menzionare il suo nome.
Mentre il coro cantava e la Reverenda madre pronunciava parole di
supplica alla dea di pietra sopra di loro, Mia cercò di trovare dentro di sé un
senso di colpa. Di domandarsi chi fosse questo ragazzo e perché fosse
morto lì. Ma spostando lo sguardo tra gli altri accoliti, con gli occhi freddi e
le labbra tirate, seppe cosa stava pensando ciascuno di loro.
“Meglio lui di me.”
Le settimane passarono, nessuno parlò più del Gran Tributo, niente più
ringraziamenti. Sembrava che la mascherata avesse sottratto l’ultimo alito
di leggerezza da quelle mura. La Tessitrice continuava il suo lavoro,
scolpendo gli altri in opere d’arte, ma non c’erano più sorrisi e occhiolini,
contatti e tentativi di seduzione. Se non l’avevano capito prima, ora
sapevano che questo non era più un gioco.
Il cambio successivo a quando Diamo si era sottoposto alla sua tessitura,
Mia notò che Tric aveva saltato Tasche. Dopo una scrupolosa lezione di
Mouser sull’arte delle trappole a polvere e come evitare le stesse, lei salì
una scala a chiocciola e trovò il ragazzo dweymeri nell’Aula di Canti. Era a
torso nudo, lustro di sudore. Aveva in mano un paio di spade di legno, con
cui si accaniva su un fantoccio da addestramento talmente forte che la
vernice stava praticamente urlando.
«Tric. Hai perso la lezione di Mouser.»
Il ragazzo la ignorò. Ampi colpi spazzanti impattarono contro la figura di
legno, quel crac, crac, crac che riecheggiava nell’aula vuota. Il suo torace
nudo scintillava e le salciocche gli pendevano madide attorno alla faccia.
Mezza dozzina di spade da addestramento rotte giaceva per terra accanto a
lui. Doveva essere lassù da tutto il cambio…
«Tric?»
Mia gli prese il braccio, facendolo fermare. Il ragazzo si girò quasi
ringhiando e strappò il braccio dalla sua stretta. «Non toccarmi.»
La ragazza sbatté le palpebre, colta alla sprovvista dalla rabbia nei suoi
occhi. Li ricordò quando l’avevano guardata mentre danzavano, le dita di
Tric intrecciate alle sue…
«Va tutto bene?»
«… Sì.» Tric si asciugò gli occhi e inspirò a fondo. «Spiacente.
Iniziamo.»
I due si misero in posizione nel cerchio per le esercitazioni sotto la luce
dorata dell’aula. Con le spade di legno in pugno, cominciarono a lavorare
sul Caravaggio di Mia. a Ma dopo solo pochi minuti, divenne evidente che
Tric non era dell’umore adatto per insegnare. Ringhiava come un lupo coi
postumi di una sbornia quando Mia commetteva un errore, urlava quando
faceva un passo sbagliato e finì per colpirle l’avambraccio con la spada così
forte da spaccarle la pelle.
«Madre Nera!» Mia si tenne stretto il polso. «Mi hai fatto male, cazzo!»
«Non dovrebbe certo fare il solletico» replicò Tric. «Abbassa la guardia
così contro Jessamine e lei ti taglierà la gola.»
«Ascolta, se vuoi dirmi il motivo per cui sei incazzato, ti ascolterò. Ma
se stai cercando qualcosa su cui sfogarti, ti lascerò con i fantocci da
addestramento.»
«Non sono incazzato, Mia.»
«Ma davvero.» Sollevò il polso insanguinato.
«Mi hai chiesto di insegnarti: ti sto insegnando.»
Mia sospirò. «Questa stronzata della facciata stoica sta diventando
stancante, Dominus Tric.»
«Fottiti, Mia!» tuonò lui, lanciando via le sue spade. «Ho detto che non
ho nulla!»
Mia si fermò di colpo quando le lame sbatacchiarono nel cerchio di
esercitazione. Scrutò gli occhi di Tric. L’orribile inchiostro scarabocchiato
sulla sua pelle. Le cicatrici al di sotto. Si rese conto che era l’unico accolito
che non era stato ancora sottoposto al tocco della Tessitrice.
«Ascolta» sospirò lei. «Potrò non essere la più sveglia quando si tratta
dei problemi altrui. E non voglio impicciarmi. Ma se vuoi tirare fuori
qualcosa di ciò che ti assilla, io sono qui.»
Tric si accigliò e fissò il vuoto. Mia usò lo stratagemma dell’attesa,
lasciando che fosse il silenzio a porre la domanda per lei. Dopo un’eternità
di broncio taciturno, finalmente Tric parlò.
«Lo porteranno via» disse.
«… Non capisco.»
«Non serve che tu capisca.»
«Potrebbe non servire.» Mia mise da parte la sua spada. «Però mi
piacerebbe comunque.»
Tric sospirò. Mia si sedette a gambe incrociate e diede una pacca alla
pietra accanto a sé. Accigliato e dannatamente prossimo a mettere il muso,
il ragazzo si inginocchiò dov’era e si piantò sul pavimento. Mia si trascinò
più vicina, quanto bastava perché lui sapesse che era lì. Rimasero seduti
senza parlare per lunghi, interminabili minuti. Nel completo silenzio
dell’aula che prendeva il nome dal canto.
Le sembrò stupido. Qui più che in qualunque altro posto. Questa era una
scuola per assassini alle prime armi. Gli accoliti stavano cadendo come
mosche. Entro domani Tric avrebbe potuto essere morto. Eppure eccola qui,
che cercava di indurlo a confidarsi sui suoi sentimenti…
“Madre Nera, è peggio che stupido. È ridicolo.”
Ma forse era proprio quello il punto? Forse era proprio come aveva detto
Naev. Di fronte a tutta questa insensibilità, forse lei doveva aggrapparsi alle
cose importanti? E guardando questo strano ragazzo, con i capelli arruffati
che gli pendevano davanti agli occhi tormentati, Mia si rese conto che lui
era importante.
Era importante per lei.
«Non ho ucciso io Chiamapiena» disse infine Tric.
Mia sbatté le palpebre. A dire la verità, con tutte le morti avvenute da
allora, si era quasi dimenticata dell’omicidio del ragazzo dweymeri la loro
prima sera in quel luogo.
«… Ti credo.»
«Volevo farlo. Ma qualcuno mi ha preceduto.» Le lanciò un’occhiata in
tralice. La voce trasudava rabbia. «Mi ha chiamato koffi, Mia. Sai cosa
significa?»
Per un momento, lei non riuscì a trovare la voce. «Figlio dello…»
«Stupro» sbraitò Tric. «Figlio dello stupro.»
Mia sospirò dentro di sé.
“È vero, allora.”
«Tuo padre era un pirata dweymeri? Tua madre…»
«Mia madre era la figlia di un Bara.»
«… Cosa?»
«Una principessa, se vuoi crederci.» Tric ridacchiò. «Ho sangue reale,
io.»
«Un Bara?» Mia si accigliò. «Tua madre era dweymeri?»
Mia non capiva. Stando a quanto aveva letto, erano i signori dei pirati
dweymeri e i loro equipaggi a stuprare e saccheggiare. Ma se la madre di
Tric era dweym…
«Si chiamava Camminaterra. Terzogenita del nostro Bara, Spezzaspada.»
Tric sputò il suo nome come se sapesse di rancido. «Non era molto più
grande di quanto sei tu ora. Viaggiava a Farrow per l’annuale Festival dei
Cieli. Ci fu una tempesta. Finì per fare naufragio su uno scoglio con
un’ancella e un nostromo. Tre sopravvissuti su cento.
«Fu ritrovata da un peschereccio itreyano. Il capitano li caricò a bordo.
Diede il piccolo in pasto ai drachimarini. Stuprò mia madre e la sua ancella.
E quando scoprirono chi era, mandarono un messaggio a mio nonno
dicendo che l’avrebbe potuta riavere indietro in cambio del suo peso in
oro.»
«Denti della Mannaia.» Mia gli strinse forte la mano. «Mi dispiace così
tanto, Tric.»
Lui sorrise amaramente. «Dirò solo una cosa su mio nonno. Amava le
sue figlie.»
«Pagò?»
Tric scosse il capo. «Scoprì dov’erano rintanati e rase al suolo con il
fuoco l’intero insediamento. Uccise ogni uomo, donna e bambino. Ma
riottenne sua figlia. Nove mesi dopo, ebbe un nipotino. E ogni volta che mi
guardava in faccia, vedeva mio padre.»
Mia fissò gli occhi del ragazzo, provando un dolore al petto.
“Nocciola, non marrone.”
«Non è quello che sei, Tric.»
Il ragazzo la fissò a sua volta, il racconto che gli moriva sulle labbra.
Qualcosa nell’aria cambiò, qualcosa nello sguardo di lui accese una fiamma
nella pancia di Mia. Quegli occhi senza fondo. Quello scarabocchio d’odio
sulla sua pelle. Il cuore le martellava nel petto. I palmi le sudavano nei suoi.
Tremava.
«… mia…»
Tremava, proprio come l’ombra ai suoi piedi.
«… mia, attenta…»
«Bene, bene.»
Mia sbatté le palpebre quando l’incantesimo del silenzio si infranse.
Jessamine era in cima alle scale, Diamo al suo fianco. La rossa era vestita
per esercitarsi: cuoio nero e una tunica senza maniche. L’imponente
tirapiedi della ragazza le torreggiava accanto, con qualcosa di orrendo che
indugiava nello sguardo. b
Jessamine agganciò i pollici alla cintura ed entrò nell’aula.
«Mi chiedevo come passassi le tue illuminotti, Corvere.»
Mia si alzò in piedi e fissò intensamente la ragazza. «Non sapevo che ti
importasse, Jess.»
La rossa si guardò attorno: fantocci da addestramento e spade a pezzi.
«Ti stai esercitando?» la schernì. «Faresti meglio a pregare.»
«Le mie scuse.» Mia si accigliò, osservando il pavimento come se stesse
cercando qualcosa. «Sembra che abbia smarrito il cazzo che me ne frega di
quello che pensi…»
Jessamine si tenne le costole e rise sguaiatamente per mezzo secondo.
Poi il sorriso lasciò il suo volto per infrangersi come vetro sulla pietra.
«Credi di essere divertente, puttana?» chiese Diamo.
«Oh, puttana.» Mia annuì. «Davvero creativo. Il prossimo? Baldracca?
No, troia, giusto?»
Diamo rimase sorpreso. Mia riusciva praticamente a vederlo eliminare
quelle parole dalla sua lista mentale di insulti e rimanere a secco. Tric era in
piedi accanto a lei, squadrando il grosso Itreyano, ma Mia gli mise una
mano sul braccio. Era improbabile che Jessamine tentasse qualcosa qui, e
Mia era sempre felice di duellare con l’arguzia. Avrebbe mandato quei due
a casa zoppicanti.
«Cosa vuoi, Rossa?»
«Il tuo teschio sugli scalini della Casa del Senato accanto a quello di mio
padre» replicò Jess.
Mia sospirò. «Julius Scaeva ha giustiziato mio padre proprio come ha
fatto col tuo. Questo ci rende alleate, non nemiche. Entrambe odiamo la
ste…»
«Non parlarmi di odio» ringhiò la ragazza. «Tu non l’hai mai assaggiato,
Corvere. La mia intera familia è morta per colpa di quel fottuto traditore di
tuo padre.»
«Chiama mio padre traditore ancora una volta,» sibilò Mia «e rivedrai la
tua familia prima di quanto ti piacerebbe.»
«Sai, è divertente» sorrise Jessamine. «La tua amichetta Ashlinn vincerà
di gran lunga nella gara di furto di Mouser. È evidente che ha la capacità di
intrufolarsi in qualunque stanza di questa montagna. Pensavo che le avessi
chiesto di prendersi cura della questione per te. Ma mi sono introdotta
nell’aula di Mouser una settimana fa e che sia dannata se non era ancora
lì…»
Mia roteò gli occhi. «Quattro Figlie, cosa stai blaterando?»
Il sorriso di Jessamine era tagliente come acciaio nuovo. Allungò la
mano nel colletto della sua tunica senza maniche ed estrasse qualcosa che
roteò e scintillò nella luce fioca.
«Oh, nulla di importante.»
Mia avvertì un sussulto nauseante nello stomaco. Uno spasmo di dolore.
Un bagliore accecante. E mentre indietreggiava ondeggiando, con una mano
a schermarsi gli occhi, distinse la forma di tre cerchi, oro rosa, platino e oro
giallo, che scintillavano su una catenella.
“Oh, dea…”
La Trinità di Mouser. Il medaglione sacro, benedetto dalla Mano Destra
di Aa.
Mia barcollò mentre Jessamine veniva avanti, il sorriso sempre più largo.
Il terrore la inondò in fredde ondate e Messer Cortese trasalì nella sua
ombra. E anche se i soli facevano brillare solo una piccola luce dal vetro
colorato sopra di loro, a Mia sembrava abbagliante. Bruciante. Ustionante.
Mentre Jessamine continuava ad avanzare, Mia crollò in ginocchio, la
bocca piena di bile. Tric afferrò la sua spada da addestramento e ringhiò.
«Metti via quel dannato affare, Jess.»
La ragazza fece una smorfia di delusione. «Ci stiamo solo divertendo un
po’, Trucco.»
«Ti ho detto di metterlo via!»
La ragazza fece un altro passo in avanti verso Mia, i soli che
scintillavano. Tric sollevò la spada da addestramento e Diamo avanzò per
fronteggiarlo, le mani come magli che fremevano. I ragazzi passarono alle
maniere forti: Tric vibrò la lama di legno con un sonoro crac contro
l’avambraccio di Diamo, che grugnì di dolore e rispose con un pugno. I due
cominciarono ad azzuffarsi, tra colpi vibrati con le nocche, gomitate e
insulti. Ma nel frattempo Jessamine stava avanzando e Mia ora stava
strisciando all’indietro sulla pietra, con il vomito che le gorgogliava nella
gola.
Era inerme. La paura di Messer Cortese si riversava nella sua,
raddoppiandola. Triplicandola. Andò a sbattere con la schiena contro
qualcosa di duro e si rese conto di essere arrivata alla parete. Chiuse gli
occhi per non vedere quell’orrenda luce bruciante. L’oscurità attorno a lei si
contorse, avvizzendo come fiori rimasti al sole troppo tempo. E mentre
Jessamine era sempre più vicina e Mia avvertiva la luce premere su di lei
come un peso fisico, con il cuore che le martellava così forte da minacciare
di balzarle fuori dal petto, Messer Cortese si strappò via dalla sua ombra.
Si liberò con uno strattone e corse.
«Messer Cortese!»
L’ombra schizzò lungo il pavimento, sibilando mentre fuggiva. Lungo la
pietra. Giù per le scale. Scomparve alla vista mentre Mia urlava e il terrore
la sommergeva con ondate violente. Tentò un debole calcio alle gambe di
Jessamine e la ragazza rise mentre si scostava. Mia riuscì a sentire Tric
urlare. Il battito del cuore le esplodeva nelle orecchie. Dolore. Terrore così
nero che pensava di poter morire. E proprio quando stava diventando
troppo, proprio quando quella luce orrenda minacciava di accecarla…
«Nel nome della Madre, cosa sta succedendo qui?»
Jessamine si voltò e il suo corpo oscurò la luce. Tra la nausea e le
lacrime brucianti, Mia riuscì a vedere lo Shahiid Solis in piedi nel cerchio
di addestramento, le grosse braccia incrociate e gli occhi bianchi fissi sul
nulla. Tric e Diamo si rialzarono dal pavimento, mentre Jessamine faceva
scivolare di nuovo la collana dentro la tunica. Ora che i soli non erano più
visibili, il dolore che squassava il corpo di Mia si placò quasi all’istante. Ma
adesso che Messer Cortese se n’era andato, la paura rimaneva, strisciando
come una marea untuosa nelle sue viscere. Si rialzò in piedi ondeggiando,
le pulsazioni accelerate, guardandosi attorno nella penombra. Non riusciva
a vedere alcun segno del suo amico.
«Ho fatto una domanda, accoliti» ringhiò Solis.
Ignorando lo Shahiid di Canti, Mia costeggiò il muro, lontano da
Jessamine. Occhi ciechi si voltarono verso i suoi passi, ma lei riuscì ad
arrivare fino all’arcata e scattò giù per le scale su gambe tremanti. Udì Solis
tuonare ed esigere una spiegazione. Tric la chiamò, ma lei lo ignorò e
proseguì barcollando nell’oscurità.
«Messer Cortese?»
Nessuna risposta. Nessuna percezione del suo amico. Solo la paura…
quell’ormai dimenticato, opprimente peso della paura. Le tremavano le
mani. Le fremeva il labbro. Si rese conto che l’aveva abbandonata.
“Mi ha abbandonata…”
«Messer Cortese!»
«Mia, fermati!» la chiamò Tric, scendendo a passi pesanti le scale dietro
di lei.
La ragazza lo ignorò e si precipitò per i corridoi contorti e nella
penombra rischiarata dai vetri colorati, urlando il nome dell’umbragatto.
«Fermati!» Tric l’afferrò per il braccio.
«Lasciami andare!»
«Questo posto è un dannato labirinto. Potrebbe essere ovunque.»
«Ecco perché devo trovarlo!» Si voltò e gridò all’oscurità. «Messer
Cortese!»
«Si è solo preso uno spavento, tutto qua. Tornerà quando sarà pronto.»
«Non puoi saperlo! Quei soli, quella puttana… l’hanno ferito.»
«Allora qual è il tuo piano? Vagare al buio in cerca di una creatura che è
fatta di oscurità? Pensa, per un minuto!»
Mia sbatté forte le palpebre. Cercò di riprendere fiato. Di lottare con la
paura. Il peso. Il brivido. Dea, era così tanto… e lei non lo provava da
un’eternità. Fin da quando lo aveva trovato raggomitolato in quel barile e le
aveva dato il coltello che le aveva salvato la vita. Ma ciò che Tric aveva
detto fuori dalla montagna era corretto: si era appoggiata a tal punto
all’umbragatto che aveva dimenticato come affrontare tutto questo da sola.
Le tremavano le gambe. Aveva la pancia piena di ghiaccio oleoso. Chiuse
gli occhi, imponendosi di calmarsi. La paura la respinse con una risata. Era
grande. Era troppa.
Lui l’aveva abbandonata. Per la prima volta da quando riusciva a
ricordare.
“Sono sola…”
«Oh, dea» sussurrò. «Oh, dea, aiutami…»
Era sospesa lì al buio. Incapace di andare avanti. Troppo spaventata per
rimanere ferma. L’immagine di quei maledetti soli fluttuava dietro le sue
palpebre ogni volta che sbatteva gli occhi. Riusciva ancora a percepirlo.
Quell’odio impossibile. I tre occhi del Semprevigile, che la bruciavano
tanto da accecarla. Cosa aveva fatto per meritarselo? Cosa c’era di sbagliato
in lei? E cosa avrebbe fatto se lui non fosse tornato?
E poi percepì qualcosa. Braccia forti che la avviluppavano. Che la
tenevano stretta. Tric la premette contro il suo petto, avvolgendola.
Lisciandole i capelli. Tenendola vicino a sé.
«Va tutto bene» mormorò. «Andrà tutto bene.»
Mia si concentrò sul calore della sua pelle nuda. Sul battito del suo
cuore. Chiuse gli occhi. Respirava e basta. Era calda, al sicuro e non così
sola. La ricacciò indietro. La paura. Lentamente. Ogni pollice era come un
miglio. Ma la spinse via, giù fino in fondo ai piedi, e la calpestò con quanta
forza poteva. Cercò di capire cosa volesse dire tutto questo. Perché quei soli
la ustionassero. Cosa avesse fatto per suscitare l’odio di un dio. Cosa avesse
spaventato a tal punto una creatura che si nutriva della paura stessa.
«Troppe domande» sussurrò. «Non abbastanza risposte.»
«Allora, cos’hai intenzione di fare?»
Mia tirò su col naso e deglutì. Mise entrambe le mani contro il petto di
Tric e, radunando tutta la forza che le rimaneva, si spinse via. Alzò lo
sguardo nei suoi occhi, con il cuore che ancora le martellava nel petto. Le
sue labbra erano solo a pochi pollici da quelle di Tric.
«… Mia?»
La ragazza inspirò a fondo. Abbassò lo sguardo sulla propria ombra sulla
pietra e scoprì che era scura proprio quanto quella del ragazzo accanto a lei.
Non era più buia. E lì, in quel nero, finalmente si aggrappò alla risposta al
suo enigma.
«Credo sia arrivato il momento di reclutare l’uomo più pericoloso tra
queste mura» disse.
Tric spostò di nuovo lo sguardo verso l’Aula di Canti e lo Shahiid da cui
erano appena fuggiti. «Pensavo che fossimo appena scappati da lui.»
Mia provò a sorridere.
Si accontentò di scrollare il capo.
«È evidente che non hai trascorso abbastanza tempo con i bibliotecari,
Dominus Tric.»
a. Antony Caravaggio, uno degli spadaccini più temuti della sua epoca, fu un duellante alla corte di re
Francisco III. Un famigerato libertino con la predilezione per giovani dominae di un certo livello,
Caravaggio si batté in non meno di quarantatré duelli nel corso della sua vita, e si dice che procreò
quattordici bastardi. Caravaggio combatteva con lame gemelle – una per ciascuna mano –, dando
vita all’arte della doppia arma a cui infine fu dato il suo nome.
Ironia della sorte, la sua predilezione per le gemelle si rivelò anche la sua rovina: fu ucciso in
un duello da Dominus Lentilus Varus dopo aver trascorso una notte di ebbra passione con le figlie
gemelle dello stesso Varus, Lucilla e Lucia. Stando ai resoconti, ancora sbronzo e troppo esausto
per sollevare il suo fioretto, fu infilzato dal suo avversario piuttosto facilmente, una fine ingloriosa
per un tale virtuoso della lama.
Si narra che le sue ultime parole furono: “Ne valeva la pena…”.
b. Anche se Marielle fece uno splendido lavoro nel tessere il volto del ragazzo, ogni volta che lo
esaminava Mia si rendeva conto che trovava Diamo ancora un tantino repellente. C’era qualcosa
nello sguardo del ragazzo itreyano, qualcosa di freddo e crudele che lei percepiva come
assolutamente sgradevole.
Se è vero che gli occhi sono una finestra sull’anima, quella di Diamo si apriva su una cella
senza luce e ricoperta di paglia.
CAPITOLO 21
PAROLE
I due fecero una sosta solo il tempo sufficiente per far prendere un’altra
camicia a Tric e controllare nella stanza di Mia se ci fosse qualche segno
dell’umbragatto. Lei aveva cercato nel buio sotto il letto, negli angoli e
negli armadi, ma non avendo trovato nulla si erano precipitati fuori
nell’oscurità delle scale a chiocciola. Suonarono le campane dell’ultimo
pasto, ma Tric e Mia si diressero lontano dall’Altare del Cielo, più in
profondità nelle tenebre, finché non arrivarono all’Ateneo. Le porte
torreggiavano sopra di loro, alte dodici piedi e spesse uno, e si aprirono in
silenzio al tocco di un dito della ragazza.
Un profumo familiare la prese e la riportò a cambi più felici:
raggomitolata nella sua stanza sopra la bottega di Mercurio, circondata da
montagne dei suoi amici più cari. Quelli che la portavano via dal dolore,
dalla luce sgargiante e dal pensiero di sua madre e del suo fratellino
rinchiusi in qualche cella buia.
“Libri.”
Mia abbassò lo sguardo ai suoi piedi e la sua ombra la precedette nella
biblioteca. Era ancora scura quanto quella di Tric. Nessuna differenza. Il
vuoto dentro di lei si impennò e snudò i denti, e per un attimo scoprì di
essere troppo spaventata per fare un altro passo. Ma infine, chiudendo le
mani a pugno, entrò nell’Ateneo e inalò l’odore di inchiostro, polvere,
cuoio e pergamena. Tric era in piedi accanto a lei, a dominare quel mare di
scaffali. Mia inspirò le parole. Centinaia, migliaia, milioni di parole.
«Cronista Aelius?» chiamò.
Nessuna risposta. In quel regno di inchiostro e polvere dominava il
silenzio.
«Cronista?» chiamò di nuovo. «Ehilà?»
Scese le scale in silenzio, fino al piano principale e la foresta di scaffali.
Quella stessa luminosità senza un’origine rischiarava la stanza, ma in
mezzo ai libri quella luce sembrava più fioca, le ombre più scure. Vagando
tra le pile, i due si ritrovarono circondati da tutti i lati. Scaffali neri
arrivavano fino al soffitto, pieni di pergamene elaborate e tomi impolverati,
grossi raccoglitori spessi e codici intagliati. Le voci di scribi e regine. Di
guerrieri e santi. Di eretici e dei. Tutti loro adesso erano immortali.
Si addentrarono più in profondità tra quelle cataste, chiamando il
Cronista e perdendosi tra le ombre. Gli scaffali erano un labirinto che
serpeggiava in ogni direzione. Tric si schiarì la gola e parlò, la voce che
riecheggiava nell’oscurità.
«Dovremmo davvero curiosare qui dentro da soli?»
Gli occhi di Mia vagavano per le cataste mentre il cuore le palpitava nel
petto. «Spaventato, mio coraggioso centurione?»
«Sono consapevole che recitare il ruolo arrogante della principessa dalla
lingua affilata è solo la tua tecnica di difesa naturale che prende il
sopravvento, ma vorrei farti notare che qui sono io ad aiutare te.»
Mia gli scoccò un’occhiata in tralice. «Già. Le mie scuse.»
«Cosa stiamo cercando?»
Mia inspirò a fondo. Scosse il capo.
«Quando Jessamine ha tirato fuori quei soli… è stato come se qualcuno
mi avesse dato fuoco. Come se la luce mi stesse bruciando fino a
incenerirmi. Non ci capisco nulla, e ne sono stanca. Questa è la biblioteca
più vasta che abbia mai visto. Se esiste un tomo sui tenebris da qualche
parte al mondo, dev’essere qui. Mi occorre sapere cosa sono, Tric.»
«Il tuo Shahiid non ti ha insegnato nulla su te stessa?»
«Suppongo che Mercurio sappia ben poco sui tenebris, come chiunque
altro qui. Il Culto dice di me che sono stata toccata dalla Madre, ma
nessuno di loro sembra sapere davvero cosa significhi. E lord Cassius è
stato collaborativo come una pila di mattoni quando gliel’ho chiesto a
Godsgrave.»
«Lord Cassius è un tenebris?»
«Lord Cassius è un bastardo.»
Mia si succhiò il labbro e scrollò le spalle con riluttanza.
«… Begli zigomi, però.»
La ragazza proseguì, continuando a chiamare il Cronista senza ottenere
risposta. Lesse attentamente le costole mentre passava e vide che molti libri
dell’Ateneo erano scritti in idiomi a lei sconosciuti. Alfabeti che non aveva
mai visto. Accigliandosi, si fermò davanti a uno scaffale pieno di tomi
particolarmente impolverati, poi strizzò gli occhi sui loro titoli. Ne esaminò
uno in particolare, un enorme manoscritto rilegato in cuoio nero, con lettere
argentee sulla costola.
«Ma è impossibile» mormorò.
Con uno sforzo, prese il pesante libro dallo scaffale. Si diresse a un
piccolo piedistallo di lettura in mogano e aprì delicatamente le pagine.
«Non può essere…»
Tric guardò sopra la sua spalla. «Sì. È proprio un libro.»
«Questo è Ephaesus. Il libro delle meraviglie.»
«Una lettura piacevole?»
«Non lo so. Ogni copia esistente fu ridotta in cenere nella Luce radiosa.
Questo libro… non dovrebbe esistere.» Lo sguardo di Mia vagò per le
cataste. «Guarda, lì c’è Eresie di Bosconi. E il trattato di Lantimo il vecchio
Su buio e luce.»
«Mia, comincio ad avere la sensazione che non dovremmo essere qua
dentro…»
La paura di Tric riecheggiava la sua, ma Mia vi si oppose più forte che
poteva. «La verità di ciò che sono dev’essere qui dentro da qualche parte.
Non me ne andrò finché non l’avremo trovata.»
«Forse dovremmo cominciare con la lettera S?»
«S?»
«S per snervante. S per stupida. S per strafottente.»
«S per Sta’ zitto.»
«Sì, è questo lo spirito.»
Ridere fu bello. Aiutò a scacciare il gelo dalla sua pancia. Ma Tric
tacque e il sorriso gli morì sulle labbra quando guardò accigliato l’oscurità.
«… L’hai sentito?»
«Sentito cosa?»
Mia inclinò il capo. E mentre se ne stava lì al buio, una debolissima
vibrazione rimbombò attraverso il pavimento, poi su per i suoi stivali, fino
ad arrivare alla base della spina dorsale.
«Questo l’ho sentito» sussurrò.
Sulle prime fu sottile, con i tomi che tremavano dove si trovavano. Ma
presto gli scaffali cominciarono a vibrare, i libri a mormorare, la polvere a
cadere in nuvole delicate. Mia scrutò le ombre mentre i tremiti
peggioravano e il pavimento sotto di loro sussultava. Adesso il suo cuore
batteva forte. Non sapeva quanto fossero in profondità all’interno del
labirinto, ma all’improvviso questo non sembrava il posto più saggio dove
trovarsi. Senza Messer Cortese nella sua ombra, la paura la assalì
rapidamente. La bocca si seccò. Le pulsazioni accelerarono.
«Nel nome della Madre, cos’è quello?»
Mia poteva sentire un suono ruvido. Come se una grossa mole fosse
trascinata sulla pietra. E poi un ruggito tonante riecheggiò da qualche parte
nel buio dell’Ateneo.
«Usciamo di qui, Mia.»
«… Sì» annuì lei. «Andiamo.»
Il suono trascinante crebbe d’intensità mentre i due si precipitavano
verso quella che Mia sperava fosse la direzione da cui erano venuti. Ma la
foresta di scaffali sembrava tutta uguale: si elevavano attorno a loro in file
anonime. I due sussultarono quando un altro ruggito risuonò nell’oscurità.
Tric afferrò la mano di Mia e si lanciò in uno scatto.
«Cos’è?»
«Non voglio nemmeno saperlo. Corri!»
Ora i libri parevano sul punto di cadere. Mentre Mia e Tric svoltavano
un angolo, lei si rese conto che erano incappati in un vicolo cieco. Con
un’imprecazione, tornarono sui loro passi mentre riecheggiava un altro
ruggito, stavolta più vicino. Troppo, per i suoi gusti. Non volendo avere
nulla a che fare con ciò che stava per accadere, Mia afferrò manciate di
ombre e le strappò via, avvolgendosi dentro di esse. E anche se non l’aveva
mai fatto prima, circondata da un’oscurità che non aveva mai conosciuto il
tocco di un sole, prese Tric per le spalle e lo trascinò dentro con sé,
avviluppandoli entrambi.
Mia tenne ben stretto Tric e si rannicchiò contro gli scaffali alle loro
spalle. Così da vicino, poteva sentire il cuore del ragazzo che gli palpitava
contro le costole, e si rese conto che lui era spaventato quanto lei. Quasi
cieco sotto quel sudario, Tric annusò l’aria e aggrottò la fronte.
«Cos’è?» bisbigliò lei.
«Non riesco ad annusarlo.»
«Per niente?»
Tric scosse il capo. «Tutto quello che percepisco sono i libri. E te.»
«Ora di farsi il bagno?»
«… È un invito?»
«Oh, vaffanc…»
Un altro ruggito. Più vicino. Qualunque cosa fosse, da sotto il mantello
loro non potevano vedere abbastanza bene per correre via: se avessero
provato a darsela a gambe, probabilmente sarebbero andati a sbattere con la
faccia contro uno scaffale. Così, Mia avvolse le braccia attorno a Tric e lo
tirò giù, per essere più piccoli possibile. La paura montò dentro di lei,
riempiendo il posto una volta occupato da Messer Cortese. Mia premette
contro la schiena del ragazzo e cercò di non rabbrividire.
Quel suono di trascinamento crebbe, umido e cigolante. Il pavimento
sotto di loro tremò. Oltre il suo velo fatto d’ombre, Mia vide qualcosa di
vasto muoversi lì davanti e strisciare sulla pietra. Colse l’impressione di una
lunga forma serpentina, con dozzine di teste rozze e arrotondate e file di
denti. Si muoveva tra gli scaffali come un bruco colossale, inarcando la
spina dorsale mentre si trascinava in avanti, annusando l’aria. Mia tenne
stretto il pugnale, tremando per la paura. Inveì contro se stessa: era una
smidollata. Una bambina.
Tric allungò una mano all’indietro senza parlare, afferrando la sua e
stringendo.
I minuti si trasformarono in un’eternità, in quel buio intriso di sudore.
Ma qualunque cosa fosse quella creatura, passò senza accorgersi di loro e
strisciò via lentamente tra gli scaffali. Mia e Tric si rannicchiarono assieme,
in ascolto finché non fu fuori portata d’udito, silenziosi come topi.
«Ora possiamo uscire di qui?» sibilò infine Tric.
«Penso… di ssssì.»
Gettando da una parte il manto d’ombra, aiutò Tric a rialzarsi. Mia si
arrampicò su uno scaffale e scrutò il mare di tomi in cerca di un’uscita dal
labirinto. Riuscì a vedere le porte dell’Ateneo in lontananza e sbatté forte le
palpebre per capire se fosse un trucco della luce. Sembravano lontane
miglia.
«Cerchi qualcosa?»
Mia imprecò e per poco non fece un balzo in aria quando la voce parlò
dalle ombre. Tric ruotò sul posto, le salciocche che volavano e la lama in
pugno.
Mia udì il rumore di un acciarino e vide una fiamma riflessa su occhiali
incredibilmente spessi e due masse distinte di capelli bianchi. Un
pennacchio di fumo all’aroma di cannella si levò in aria e il Cronista Aelius
fece un passo alla luce, spingendo un carrello di legno che conteneva pile
pericolosamente alte di libri. Una piccola placca sul davanti diceva RESI .
«Denti della Mannaia, tutti qua dentro camminano in punta di fottuti
piedi?» chiese Tric.
Il vecchio mostrò un sorriso bianco ed esalò fumo grigio. «Sei un tipo
impressionabile, eh?»
«Cosa cazzo vi aspettate? Avete visto quella cosa?»
Aelius sbatté le palpebre. «Eh?»
«Quel mostro. Quella cosa! ’Bisso, cos’era?»
Il vecchio fece spallucce. «Un tarlo dei libri.»
«Un tarlo…»
«… dei libri.» Aelius annuì. «Almeno così li chiamo io.»
«Ce n’è più di uno?» Mia era incredula.
«Oh, sì. Ce ne sono alcuni che vivono qui dentro. Quello era solo uno
piccolo.»
«Uno piccolo?» urlò Tric.
Il vecchio strinse gli occhi nella coltre di fumo. «Oh, sì. Molto
impressionabile.»
«E voi lasciate che qualcosa del genere vaghi per la vostra biblioteca?»
Aelius scrollò le spalle. «Innanzitutto, non è la mia biblioteca.
Appartiene alla Nostra Signora dell’omicidio benedetto. Io sono solo colui
che annota ciò che contiene. E non lascio che i tarli dei libri vaghino in
giro; loro… lo fanno e basta.» Il vecchio fece spallucce. «È proprio un
posto divertente, questo.»
«Divertente…» mormorò Mia.
«Be’, non divertente da ridere, ovvio.»
Aelius prese un altro sigaretto da dietro l’orecchio. Lo accese con quello
che stava fumando, poi lo porse alla ragazza con dita macchiate
d’inchiostro.
«Paglia?»
La paura era ancora raggomitolata nella pancia di Mia, i suoi nervi a
brandelli. Forse un sigaretto l’avrebbe calmata. E così, mentre il vecchio
sorrideva, ciondolò per il corridoio e andò a prendere la paglia con dita
tremanti. Rimasero lì a lungo, attimi silenziosi, con Mia che assaporava la
carta zuccherata sulle labbra mentre le sue pulsazioni finalmente
rallentavano a un ritmo quasi normale. Soffiò dei pennacchi in direzione di
Tric e sogghignò quando lui arricciò il naso e tossì.
«Ottime paglie, queste» disse infine.
«Già.»
«Non riconosco il simbolo del sigaraio, però.»
«È morto.» Aelius si strinse nelle spalle. «Non ne fanno più, così.»
«Come questi libri?»
«Eh?»
Mia gesticolò verso gli scaffali. «Riconosco alcuni titoli. Non
dovrebbero esistere. Ha senso, ora che ci rifletto. Questa è una Chiesa
dedicata alla dea dell’omicidio.»
Tric sbatté le palpebre mentre comprendeva. «Perciò la biblioteca di
Niah è piena di libri che sono morti?»
Aelius guardò i due attraverso il fumo e annuì lentamente.
«Alcuni» disse infine. «Alcuni sono libri che furono bruciati. O
dimenticati secoli fa. Altri non ebbero nemmeno la possibilità di vivere.
Abbandonati o immaginati solo a metà o troppo spaventosi per cominciare a
scriverli. Memoriali di tiranni assassinati. Teoremi di eretici crocifissi.
Capolavori di geni morti prima del tempo.»
Mia guardò gli scaffali e scosse la testa. Quali meraviglie erano nascoste
in queste pagine dimenticate o mai nate? Quali orrori?
«E i… tarli?» esalò.
«Non so da dove vengano con certezza, a essere sincero.» Aelius scrollò
le spalle. «Forse uno dei libri? Le cose in queste pagine non restano sempre
nelle pagine, se capite cosa intendo. Ma escono solo se pensano che le
parole siano in pericolo. Oppure se sono… sapete… affamate.»
«Cosa mangiano?» chiese Tric.
Il vecchio fissò il ragazzo con il suo sguardo. «Tu cosa immagini?»
«Siamo qui da quasi quattro mesi.» Mia prese una lunga boccata del suo
sigaretto. «Non pensate che questo sia il genere di cose che il Culto
dovrebbe menzionare il primo cambio? Tipo: “Oh, a proposito, accoliti, ci
sono questi fottuti vermoni giganti che vivono nella biblioteca, perciò, per
amore della Mannaia, riconsegnate i vostri libri in tempo”?»
«E se altri accoliti si intrufolassero qui dentro da soli?» chiese Tric.
«Nella competizione di Mouser, otteniamo sei punti per ogni libro rubato
dall’Ateneo.»
«Be’, Mouser è un po’ bastardo, non è vero?» disse Aelius.
«Cosa succederebbe se qualcuno irrompesse davvero qui dentro e
cercasse di sgraffignarne uno?»
Il vecchio sorrise. «Tu cosa immagini?»
Tric rimase a bocca aperta. «Follia…»
«Ascolta, i vermi danno fastidio solo alle persone che si immischiano
con le parole. E se sei tanto stupido da gingillarti con libri come questi, è
quello che ti meriti. E a parte questo, io ti avevo avvisato.» Aelius soffiò un
anello di fumo in faccia a Mia. «Te l’ho detto la prima volta che ci siamo
incontrati, che a seconda del corridoio scelto, potrebbero non rivederti mai
più.»
«D’accordo, allora, come raccomandazione futura, quali corridoi
dovremmo evitare?» chiese la ragazza.
«È variabile.» Il vecchio scrollò le spalle. «Questo intero posto muta di
volta in volta. Nuovi libri appaiono al passare dei cambi. Altri si muovono
in posti dove non li avevo messi. A volte scopro intere sezioni di cui non
avevo mai saputo l’esistenza.»
«E tu dovresti registrare tutto questo?»
Aelius annuì. «Un lavoro del cazzo, davvero.»
«Non potresti avere qualche aiuto?» propose Tric.
«Avevo quattro assistenti, una volta. Non andò bene.»
«Perché? Cosa gli è successo?»
Il vecchio guardò il ragazzo in tralice. Tre voci risuonarono nell’oscurità
simultaneamente.
«Tu cosa immagini?»
Mia esalò un pallido sbuffo grigio nel silenzio.
«… Immagino che non ci siano libri sui tenebris qui, giusto?»
Il Cronista lanciò un’occhiata alla sua ombra. Poi la guardò di nuovo
negli occhi. «Perché?»
«È un no?»
«È un “perché”. Qui sta la meraviglia di una biblioteca come questa.
Qualunque libro che sia mai o non sia mai stato scritto, prima o poi sarà qui
dentro. Il problema è trovare quei dannati volumi. Ci vuole uno sforzo
immane per cercare qualcosa di specifico. E a volte questi libri hanno un
pessimo carattere. Quelli bruciati in particolar modo. A volte non vogliono
essere trovati.»
Mia sentì la speranza sprofondarle dentro il petto. Guardò Tric, che fece
spallucce con aria impotente.
«Ma,» riprese il vecchio squadrandola dall’alto in basso «tu hai l’aspetto
di una ragazza che ha confidenza con le pagine. Riesco a capirlo. Hai le
parole nell’anima.»
«Parole nell’anima?» lo schernì Mia. «“Bruciare dopo aver letto”?»
«Ascolta, ragazza» disse Aelius storcendo il naso. «I libri che amiamo, ci
amano a loro volta. E proprio come noi segniamo certi passi sulle pagine,
quelle pagine lasciano il loro segno su di noi. Lo posso vedere in te, come
sicuramente tu lo vedi in me. Tu sei una figlia delle parole. Una ragazza con
una storia da raccontare.»
«Non narrano storie sui discepoli della Chiesa Rossa, Cronista» replicò
Mia. «Non intonano canzoni per noi. Niente ballate o poesie. Qui le persone
vivono e muoiono nelle ombre.»
«Be’, forse questo non è il tuo posto.»
A quelle parole lei alzò bruscamente lo sguardo. Gli occhi si strinsero
nel fumo.
«Comunque.» Il vecchio si staccò dallo scaffale e sospirò. «Terrò gli
occhi aperti. E se troverò un libro sui tenebris che valga la pena leggere, te
lo passerò. D’accordo?»
«… D’accordo.» Mia si inchinò. «I miei ringraziamenti, Cronista.»
«Voi due fareste meglio ad andare. E anch’io. Troppi libri. Troppo pochi
secoli.»
Il vecchio accompagnò Mia e Tric attraverso il labirinto di scaffali,
spingendo il suo carrello dei RESI e lasciandosi alle spalle per tutto il
tragitto fino alle porte una linea sottile di fumo dal profumo dolciastro. E
anche se a Mia la distanza era sembrata lunga miglia, arrivarono all’uscita
nel giro di pochi minuti, abbandonando la foresta di carta e di parole.
«Ciao.»
Con un cenno del capo a entrambi, Aelius sorrise e chiuse le porte senza
produrre alcun suono.
Tric si voltò verso di lei con un sorriso sghembo. «Parole nell’anima,
eh?»
«Oh, fottiti.»
Il ragazzo allargò le braccia, proclamando a gran voce: «Una ragazza
con una storia da raccontare!».
Mia diede un pugno forte proprio contro il bicipite di Tric. Il ragazzo
sussultò mentre Mia imprecava, scuotendo il gomito ferito. Tric sollevò
entrambi i pugni, poi indirizzò un paio di attacchi di prova verso la sua
testa, ma lei li deviò, mirando uno stivale al lato posteriore delle gambe del
ragazzo quando lui si voltò. Poi, assieme, i due si avviarono nell’oscurità.
Mia resistette all’impulso di prendere di nuovo la mano di Tric.
A malapena.
CAPITOLO 22
POTERE
Lei aveva quattordici anni, l’ultima volta che i soli caddero dal cielo.
I più grandi scrittori della Repubblica non hanno mai catturato davvero
la bellezza di un tramonto completo itreyano. La puzza di sangue che si
spande per le strade di Godsgrave quando i sacerdoti di Aa sacrificano
animali a migliaia, implorando il dio della luce di tornare presto. Il
bagliore insanguinato di Saan all’orizzonte, che si scontra con l’azzurro
pallido di Saai, finendo per formare un indaco imbronciato. Ci vogliono tre
cambi perché la luce muoia del tutto. Tre cambi di preghiere, ecatombi e
isteria crescente prima che la Madre della notte reclami per breve tempo il
dominio del cielo.
E allora comincia il Carnivalé del verobuio.
Mia si svegliò al suono di baldoria. Il costante scoppiettio di fuochi
d’artificio dal Collegio di Ferro, che aveva lo scopo di spaventare la
Mannaia e ricacciarla sotto l’orizzonte. La ragazza protese la mano e
osservò il gioco di ombre. Percepiva finalmente sbocciare il potere che era
cresciuto dentro di lei negli ultimi cambi. Con un gesto della mano, un
viticcio d’ombra scagliò un’intera pila di libri in aria, sparpagliando i tomi
per la stanza. A un suo capriccio, altre ombre si protesero, rimettendo
ciascun libro al proprio posto. Aprì la porta della camera da letto con
un’occhiata. Si vestì senza alzare un dito.
«… brava» disse Messer Cortese. «… se solo avessi le mani per
applaudire…»
Mia si diede una pacca sul sedere. «Mi accontento di labbra per baciare
il mio dolce didietro.»
«… prima dovrei trovarlo…»
«Il sedere è come il vino, Messer Cortese. Meglio troppo poco che
troppo.»
«… bella e arguta. placati, mio cuore palpitante…»
Il non-gatto si guardò il petto trasparente.
«… oh, aspetta…»
La ragazza controllò i coltelli che aveva alla cintura, negli stivali,
infilati su per la manica. Era piccola e magra, frangia sghemba e guance
scavate, piena di tutta la fiducia in se stessa generata dai suoi quattordici
anni al mondo. Ascoltò i suoni da basso e udì il familiare mormorio del
vecchio Mercurio che scambiava pettegolezzi con uno dei suoi abituali non-
clienti. L’anziano non era tipo da baldoria. A differenza di ogni altro
abitante di Godsgrave, il suo maestro se ne sarebbe stato lontano dalle
strade, stanotte. Lì fuori aveva occhi già in abbondanza.
«… allora insisti per farlo…?»
La ragazza guardò l’amico. Ogni traccia di scherzo aveva abbandonato
la sua faccia, lasciando una maschera dura e pallida.
«Questa è la mia opportunità migliore. Non mi sono mai sentita così
forte come durante il verobuio. Se mai riuscirò a entrare là dentro, sarà
stanotte.»
«… dovresti dirlo al vecchio…»
«Lui cercherebbe di convincermi a non farlo.»
«… e non ti domandi come mai…?»
«Non ci sono guardie all’interno durante il verobuio, Messer Cortese.»
«… perché presto comincerà la calata. centinaia di prigionieri che si
massacreranno a vicenda per il diritto di lasciare la Pietra Filosofale.
desideri davvero essere lì dentro con loro…?»
«Quattro anni, Messer Cortese. Sono rinchiusi da quattro anni in quel
buco. Mio fratello ha imparato a camminare nella cella di una prigione.
Non so quando sia stata l’ultima volta in cui mia madre ha visto i soli. Per
cosa mi sono addestrata tutti questi anni, se non per questo? Devo tirarli
fuori di lì.»
«… sei una ragazza di quattordici anni, mia…»
«Ed è la parte dei quattordici anni o quella della ragazza che ti turba?»
«… mia…»
«No» sbottò lei. «Tutto questo avrà fine stanotte. Sei dalla mia parte o
vuoi metterti in mezzo?»
Il non-gatto sospirò.
«… sai bene da che parte sto. sempre…»
«Allora smettiamola di parlarne, che ne dici?»
Fuori dalla finestra. Per strada. La calca e la baldoria. Tutti con le loro
maschere di Carnivalé; bellissime bautae, temibili vulti e ridenti pulcinelli.
La ragazza scivolò tra la folla, con una faccia da Arlecchino sulla propria,
il mantello sopra la testa. Superò gli amanti che sospiravano sul Ponte dei
Voti, gli imbonitori sul Ponte della Moneta, fino alla riva frastagliata.
Sollevò il telo dalla sua gondola rubata, allungò le mani e chiuse gli occhi.
L’oscurità strisciò da angoli e anfratti, avvolgendo la ragazza e la barca in
un sudario di oscurità.
Nascosta nel buio, attraversò la Baia dei Macellai, sotto una passerella
del Ponte delle Follie, che si muoveva e beccheggiava con l’alta marea. a
Gettò da parte il suo mantello quando si diresse in mare aperto, le ore che
passavano, diretta verso l’inquietante spuntone di roccia che s’innalzava
dalla superficie dell’oceano. Il buco in cui sua madre e suo fratello
avevano languito per quattro lunghi anni su ordine di Julius Scaeva, inermi
e disperati.
Non più.
Girò alla larga dalle rocce frastagliate e le ombre la portarono al sicuro
nel porticciolo. L’oscurità trascinò la gondola sulla riva, risparmiandole il
bacio seghettato delle rocce che circondavano la Pietra. Mia si umettò le
labbra e inalò aria salina. Ascoltò l’inno distante dei gabbiani. La violenza
che riecheggiava già tra le viscere della Pietra. Messer Cortese beveva la
sua paura, lasciandola feroce e impavida.
Protese le braccia. Desiderò di sollevarsi. Il potere riverberava nelle sue
vene come qualcosa di mai provato prima. Un’affinità oscura, che scorreva
come il buio crescente. Lunghi tentacoli neri la avvolsero e scivolarono
dalle sue dita, conficcandosi nei mattoni alla base della Pietra. Come arti
trasparenti di un ragno enorme, la tirarono verso l’alto. E con un nero
appiglio alla volta, la ragazza cominciò ad arrampicarsi.
Su per quella parete torreggiante, i capelli che si gonfiavano nel vento
sempre più forte. Poi sopra i bastioni e gli intrichi contorti di affilerba in
cima alle pareti. Le ombre la avvolsero come un neonato in fasce e la
trasportarono giù tra la puzza di morte che odorava di rame.
Mia si mosse furtiva per i corridoi di pietra insanguinata, circondata da
un’oscurità così profonda da riuscire a malapena a vedere. Corpi.
Ovunque. Uomini strangolati e pugnalati. Picchiati a morte con le loro
stesse catene e bastonati con i loro stessi arti. Un suono di omicidio
riecheggiava tutt’attorno, la puzza di interiora aleggiava densa nell’aria.
Forme vaghe le corsero davanti, aggrovigliandosi e urlando sul pavimento.
Le urla risuonavano da qualche punto distante, dove il buio non le
permetteva di udire.
Si intrufolò dentro la Pietra Filosofale come un coltello tra le costole.
Questa prigione. Questo mattatoio. Superò le celle aperte, scendendo in
posti più silenziosi dove le porte erano ancora sigillate, dove i prigionieri
che non desideravano tentare la sorte nella Calata erano ancora rinchiusi,
affamati e macilenti. Gettò da parte il manto d’ombra per poter vedere
meglio, scrutando attraverso le sbarre quegli spaventapasseri ossuti, quei
fantasmi dallo sguardo vuoto. Riusciva a capire perché quelle persone
volessero rischiare tutto in quell’orrendo stratagemma del senato. Meglio
morire combattendo che restare qui al buio a crepare di fame. Meglio
alzarsi e cadere che restare in ginocchio e vivere.
A meno che, naturalmente, non avessi un bimbo di quattro anni
rinchiuso con te…
Gli spaventapasseri urlarono quando la videro, pensando che fosse uno
spettro Senzafuoco venuto a tormentarli. Mia percorse tutto quanto il
blocco di celle, gli occhi sgranati. Ora provava disperazione. Paura,
malgrado il gatto nella sua ombra. Dovevano essere qui da qualche parte,
giusto? Di sicuro Domina Corvere non avrebbe trascinato suo figlio nella
carneficina lì sopra per una vaga possibilità di sfuggire a questo incubo…
Giusto?
«Madre!» chiamò Mia, le lacrime agli occhi. «Madre, sono Mia!»
Corridoi interminabili. Buio privo di ogni luce. Sempre più in profondità
nell’ombra.
«Madre?»
«Madre!»
Mia si sollevò brancolando, ciuffi di capelli appiccicati alla pelle dal
sudore. Il cuore le martellava contro le costole, gli occhi erano sgranati, il
petto ansante. Sbattendo le palpebre al buio, in preda al panico, riconobbe
finalmente la sua camera nella Montagna Silente, la luminosità priva di
un’origine che avvolgeva tutto nel suo bagliore soffuso.
«Solo un sogno» mormorò.
Non un sogno. Un incubo. Come non ne aveva da anni. Ogni volta che i
terrori dell’illuminotte erano giunti strisciando al suo letto sopra la bottega
di Mercurio, ogni volta che i fantasmi del suo passato le si erano insinuati
nel cranio mentre dormiva, Messer Cortese era stato lì. A farli a fette. Ma
adesso lei era sola. Alla mercé dei suoi sogni.
Dei suoi ricordi.
“Figlie, dove potrebbe essere?”
Mia si tirò su fino a raddrizzarsi, tremante. Il capo chino. Le braccia
avvolte attorno a se stessa. La paura le pulsava nel petto al ritmo del cuore.
Le ombre si contorsero sulla parete quando serrò il pugno. Le ricordarono il
modo in cui erano affluite al suo comando l’ultima volta che i soli erano
caduti dal cielo. L’ultima volta che lei…
“Non guardare.”
Aveva pensato di poter star bene. Tric l’aveva accompagnata alla sua
camera da letto dopo la visita alla biblioteca e l’aveva rassicurata che
Messer Cortese sarebbe tornato. Quando era suonata la nona campana, lei si
era infilata nel letto, cercando di convincersi che tutto sarebbe andato bene.
Ma senza il suo amico lì a proteggerla, non c’era nulla a fermare i sogni. I
ricordi di quella fossa senza luce e intrisa di sangue. Di quello che aveva
trovato all’interno.
“Non guardare.”
Chiuse forte gli occhi.
“Non guardare.”
La stanza vuota. Il letto vuoto. Solitudine. Paura. Si riversavano su di lei
a ondate. Erano anni che non era davvero sola. Non aveva mai affrontato i
terrori del sonno senza qualcuno al suo fianco. Si spinse le nocche negli
occhi e sospirò.
La nona campana era suonata. Infrangere il coprifuoco della Reverenda
madre sarebbe stata una follia, in particolare dopo quello che avevano fatto
a Zitto. Ma lei era uscita di nascosto con Ashlinn e non erano state beccate.
E il posto dove voleva essere si trovava solo a poche porte di distanza,
dopotutto.
“Il posto dove voglio essere?”
Davanti a sé la prospettiva di interminabili ore senza sonno.
La paura crescente che Messer Cortese potesse non tornare mai più.
La certezza che le sbocciava nel petto.
“Il posto dove voglio essere.”
a. Costruito per ordine del console Julius Scaeva, il Ponte delle Follie è costituito interamente da
imbarcazioni – navi e barche, relitti e traghetti – legati da un’estremità all’altra e tenuti assieme da
pezzi di catena arrugginita. Per ordine della costituzione itreyana, i consoli possono servire solo
per un mandato, lungo quasi tre anni. Quando Scaeva infranse la tradizione durante la Ribellione
degli Incoronatori e si candidò per la rielezione, avocando poteri emergenziali in quel tempo di
crisi per la Repubblica, il suo più diretto avversario politico, il senatore Suetonius Arlani, fu
sentito affermare: “Scaeva ha più possibilità di camminare sulle acque della Baia dei Macellai che
di riuscire nella sua follia”.
Dopo la sua schiacciante vittoria, ottenuta con un’affermazione senza precedenti, Scaeva
comprò ogni natante che fu in grado di trovare e li legò assieme a formare un rozzo ponte, poi
attraversò la baia a piedi nudi. Chiamato Ponte delle Follie per citare il commento di Arlani, quel
passaggio da allora è rimasto uno dei luoghi più caratteristici di Godsgrave, dimora di un gruppo
eterogeneo di vagabondi, derelitti ed emarginati, che scroccano un posto in cui vivere senza
pagare alcun affitto proprio nel monumento al trionfo del console. Scaeva stesso non sembra
essere disturbato dalla cosa.
Per quanto riguarda il senatore Arlani, fu condannato all’ergastolo nella Pietra Filosofale poche
settimane dopo la vittoria elettorale del console. Le motivazioni alla base della sua incarcerazione
non avevano nulla a che vedere con le sue esternazioni pubbliche, ve l’assicuro.
b. I cani delle croste sono carnivori voraci del continente liisiano che assomigliano a grassi cani
senza peli con occhi porcini e denti come rasoi. Combattono con ferocia stupefacente da vicino,
ma difettano della resistenza per inseguire le prede sulle lunghe distanze. Di frequente si cibano di
carogne, ma hanno anche sviluppato un metodo peculiare di “caccia”.
Il cane delle croste si ferisce in modo superficiale, masticandosi le cosce fino a sanguinare.
Allora mostra di essere ferito, zoppicando e perdendo sangue finché non viene notato da un
mangiacarogne come un avvoltoio, uno sciacallo o un altro cane delle croste. Allora l’animale
crolla a terra fingendosi morto. Questo sotterfugio può durare ore, a volte perfino cambi.
Queste bestie sono attori consumati, che arrivano a rimanere immobili anche mentre un altro
carnivoro prende cautamente un morso. Ma quando finalmente il mangiacarogne si accinge a
nutrirsi, il cane delle croste colpisce, facendo a pezzi il suo aspirante predatore e banchettando con
esso a sazietà.
Come risultato delle ferite autoinflitte, queste creature sono spesso ricoperte di croste, da cui il
loro nome.
E in caso ve lo steste chiedendo, gentili amici, no, non sono buoni animali da compagnia.
CAPITOLO 23
SCAMBIO
Due cambi più tardi, poco dopo l’ultimopasto, Mia stava lavorando alla
formula di Ammazzaragni. Ogni sera se ne stava china sui suoi appunti per
cercare di venire a capo del problema. Sembrava impossibile: ogni antidoto
per un componente sembrava aumentare l’efficacia di un altro. Ma risolvere
quell’enigma era la migliore possibilità che Mia aveva per finire prima in
quell’aula, e starsene rintanata nella sua stanza voleva dire meno possibilità
di imbattersi in Jessamine. Stava lanciando una sequela di improperi e
considerando di dar fuoco ai suoi appunti quando udì un grimaldello alla
sua porta.
«Denti della Mannaia, non può semplicemente bussare?»
La ragazza si districò dalla sua pila ingarbugliata di venomologia e si
diresse alla porta, aprendola con una torsione e trovando Ashlinn accucciata
fuori dalla stanza.
«Cos’hai? Non ti funzionano le nocche?» chiese Mia.
Ash le fece il gesto delle nocche con entrambe le mani e gliele agitò
davanti alla faccia.
«Sei dannatamente comica» sorrise Mia. «Che ti serve?»
«Non è quello che serve a me.» Ash si raddrizzò facendo l’occhiolino.
«È quello che posso dare a te.»
«E cosa sarebbe?»
«La Trinità di Jessamine.»
Ash lanciò un urletto quando Mia l’afferrò per il bavero, la trascinò
dentro e chiuse la porta.
«Denti della Mannaia, datti una calmata, Corvere…»
«L’hai rubata?» sibilò Mia.
«Non ancora.» Ash lanciò un’occhiata al mucchio di appunti che
ricoprivano il letto di Mia. «Ma sto per farlo, se preferisci fare qualcosa di
utile con il tuo tempo.»
«Non se la toglie mai, Ash. L’ho vista indossarla perfino quando si fa il
dannato bagno.»
«A questo proposito, non ho potuto fare a meno di notare quei segni di
morsi sul tuo interno coscia qualche cambio fa…»
Mia sollevò un sopracciglio. «Hai spiato il mio interno coscia nel
bagno?»
Ash fece spallucce. «Occhio non paga dazio.»
«Verdetto?»
«Eh. Ho visto di meglio.»
Mia sollevò le nocche davanti alla faccia della sua amica. «Tu guarda,
anche le mie funzionano.»
«Sì, sì, molto bene.» Ash roteò gli occhi. «Il punto è che lei se la toglie.
Deve farlo quando passa per il Cammino del Sangue, perché è fatta di…
aiutami su questo…»
«Metallo» mormorò Mia.
«Urrà! Riesci a imparare!»
«Va’ a farti fottere.»
«Un avvertimento: non sono granché in fatto di morsi…»
«Ash, giuro sulla Madre…»
«A ogni modo,» la interruppe Ash «mi è capitato di sapere che Jessamine
e qualche altro sono appena partiti per un altro giro di “spremi il segreto” a
Godsgrave. Perciò proprio in questo istante tutti i suoi averi si trovano nelle
alcove vicino alla pozza di Adonai.»
«… Vuoi rubare dalle camere dell’Oratore?»
Ashlinn si limitò a sogghignare come risposta.
«Jessamine saprà che è sparita non appena tornerà» fece notare Mia. «E
dovrebbe essere particolarmente idiota per non capire che sono stata io a
prenderla.»
Ashlinn tirò fuori dalle sue brache tre cerchi d’oro appesi a una catena
scintillante.
«Jessamine non saprà un bel niente, Corvere.»
Mia fissò il medaglione, che roteava e brillava nella luce fioca. Un’altra
Trinità. A parte il metallo prezioso di cui era fatta, che poteva valere quanto
una casetta in una delle zone più eleganti di ’Grave, sembrava
perfettamente normale. Mia non si sentiva affatto nauseata in sua presenza:
ovviamente non era mai stata benedetta da uno dei fedeli di Aa. Tuttavia,
quella vista…
«Dove l’hai presa?»
«Dai costumi di Mouser. Nutre una strana passione per gli abiti da prete,
quello. Ho scoperto anche della biancheria intima femminile nella sua
collezione.» Ash scrollò le spalle e si ficcò la Trinità di nuovo nei pantaloni.
«Allora. Vieni a combinare dispetti o hai un appuntamento con Trucco nella
speranza di guadagnare altri segni di morsi?»
Mia aprì bocca per accingersi a negare. Il sopracciglio sollevato di
Ashlinn le disse che non era il caso. Allora, con un sospiro, aprì la porta e
gesticolò verso il corridoio.
«È questo lo spirito» sogghignò Ash.
La puzza di sangue era ancora intensa e l’aria ancora più pesante quando le
ragazze si intrufolarono nelle viscere della Montagna. Messer Cortese
consumava la sua paura come sempre, ma la parte assennata del cervello di
Mia stava ancora urlando che quella era un’idea decisamente pessima.
«Questa è un’idea decisamente pessima, Ash.»
«L’hai già detto. Circa venti volte, ormai.»
«Ricordi cos’ha fatto Marielle a Zitto?»
«Denti della Mannaia, Corvere. Quando mio padre è stato torturato nelle
Torri Spinate di Elai, gli hanno tagliato le palle e le hanno date in pasto ai
cani delle croste. Qual è la tua scusa?»
«Per cosa?»
«Ehm, per la tua completa mancanza di palle?»
Mia indicò il suo seno. «Ehm, queste le vedi, vero?»
«D’accordo, d’accordo» bofonchiò Ash. «Pessima analogia.»
Raggiunsero il piano delle stanze di Adonai. Mia prese la mano di Ash e,
proprio come aveva fatto con Tric nell’Ateneo, allungò un braccio verso il
buio attorno a sé. Un’oscurità che non aveva mai conosciuto il tocco dei
soli. Poteva percepire il potere dentro di essa. Il potere in lei. Intrecciando
le dita nell’oscurità, tirò il suo manto d’ombra attorno a entrambe, che
scomparvero alla vista come fumo al vento.
«Non riesco a vedere un cazzo sotto questa cosa» sibilò Ash.
«Te l’avevo detto: essere una tenebris non è così sensazionale. Restami
vicina e basta.»
Le due procedettero lentamente lungo il corridoio, con punti fiochi di
illuminazione arkemica come uniche guide. Alla fine, attirate dall’intensa
puzza di rame, trovarono la stanza di Adonai. Appostate sulla soglia, Mia e
Ash sbirciarono dentro. Adonai era inginocchiato a un capo della pozza e
stava fissando il sangue, la pelle scribacchiata di glifi scarlatti. Come di
consueto, l’Oratore vegliava finché tutti gli accoliti non erano tornati da
’Grave.
Aalea aveva spiegato che alcune gocce del sangue di Adonai venivano
mischiate nelle vasche della Porcheria e di altre cappelle della Chiesa
Rossa. Tramite quel sangue, l’Oratore poteva percepire quando qualcuno
entrava nella pozza e, se lo desiderava, poteva permettere che effettuasse il
Cammino di ritorno. Era come un ragno al centro di una vasta tela scarlatta,
con la sua stessa essenza a fungere da fili. Mia era ancora stupita da tutto
ciò: a paragone di Adonai, i suoi trucchetti con le ombre sembravano un
tipo di magika davvero debole. Se il console Scaeva e i Luminatii avessero
mai scoperto che la Chiesa Rossa disponeva di questo genere di potere…
«D’accordo» sussurrò Ash. «Ecco il piano. Tu vai dentro e lo distrai. E
mentre lui è abbagliato da te, io mi occupo delle alcove e sgraffigno la
Trinità.»
«Abbagliato da me?» sibilò Mia. «E come ci riesco?»
«Non lo so, sei tu quella sfacciata. Usa le tue astuzie, donna.»
Mia rimase a bocca aperta, avendo perso per un attimo la capacità di
parola.
«… Denti della Mannaia, Ash. “Usare le mie astuzie”? È questo il tuo
piano?»
«Be’, non lo so. Tu hai studiato con Aalea più a lungo rispetto a
chiunque di noi. Usa quell’andatura seducente che ti piace tanto. Tira fuori
le tue ragazze o cose del genere.»
«Tirare fuori le mie…»
Mia mosse le labbra, esterrefatta.
«Usa le tue parole» sospirò Ash.
«Ecco alcune parole» riuscì finalmente a dire Mia. «Perché non distrai tu
Adonai e io – la ragazza che, vorrei far notare, ci sta facendo diventare
fottutamente invisibili proprio in questo istante – vado invece a sgraffignare
la Trinità?»
«E come hai intenzione di toccarla senza zampillare come una fontana, o
somma invisibilità?»
Mia aprì la bocca per replicare. Poi la chiuse di nuovo e sospirò.
«Hai ragione.»
Ash annuì. Poi attese.
«Be’, andiamo, allora.»
Mia roteò gli occhi e gettò via il manto d’ombra. «Bene.»
Mia si alzò, bussò sulla parete ed entrò nella camera di Adonai.
«Oratore?»
Adonai non aprì gli occhi, parlando come un uomo che stesse sognando.
«Buona sera, accolita. Sei diretta alla città? La Shahiid Aalea non mi ha
reso edotto.»
«No. Le mie scuse.» Mia entrò nella camera, cercando disperatamente
un qualche tipo di stratagemma. «Io… volevo parlare con voi.»
«E di cosa vuoi favellarmi, orsù?»
Gli occhi di Mia vagarono per le mappe intagliate alle pareti. Le isole
frammentate di Godsgrave. La fortezza di ossidiana di Carrion Hall. Il porto
di Farrow. Alcuni glifi erano scribacchiati col sangue tra gli intagli, e si
muovevano e diventavano sfocati se lei li guardava troppo a lungo. Da
questa stanza, la Chiesa Rossa poteva toccare qualunque città della
Repubblica.
Il suo sguardo si posò su una mappa che non riconobbe, quasi nascosta
tra le ombre mutevoli. Una grande metropoli molto estesa, più grande di
Godsgrave, con forma e strade diverse da qualunque cosa lei avesse mai
visto.
«Questa dov’è?» chiese. «Non l’ho mai vista prima.»
«Né la vedrai.»
Mia spostò lo sguardo su Adonai, la domanda evidente nel suo sguardo.
Lasciò parlare il silenzio, come le aveva insegnato Aalea. Ma Adonai non
aveva ancora aperto gli occhi e le sue labbra erano increspate in quello
stupendo sorriso indolente. Pareva che anche l’Oratore conoscesse l’arte di
Aalea.
«Potete dirmi perché no?» chiese infine Mia.
«Non esiste più» replicò Adonai.
«Come si chiamava?»
«Ur Shuum.»
«È un nome ashkahi» disse Mia. «Significa Prima città.»
Adonai sospirò, trasudando noia. «Non sei qui per una lezione di
geografia, piccola tenebris. Palesa cosa ti conduce qui e accomiatati prima
che la mia rabbia abbia la meglio sulla mia pazienza.»
Mia deglutì dal disgusto, domandandosi da dove venisse davvero il
sangue che beveva Adonai. Non osava guardarsi alle spalle per vedere se
Ashlinn era già entrata nella stanza. Avvicinandosi all’Oratore, bloccò la
sua linea visiva fino alle alcove, se mai lui si fosse degnato di aprire gli
occhi. Da distanza così ravvicinata, poteva vedere le vene sotto la sua pelle
pallida, che risaltavano di un colore azzurro cielo. I suoi zigomi angolosi,
quelle lunghe ciglia e poi quelle dita così affusolate che si muovevano
nell’aria. Mia si domandò se fosse nato così bello o se sua sorella lo avesse
intessuto così. E lì incappò in un argomento che poteva rivelarsi un
diversivo…
«Voglio parlarvi di Naev.»
Adonai aprì gli occhi. Il bianco era cosparso di una sottile pellicola
scarlatta, le iridi di un rosa intenso. Molto lentamente, l’Oratore voltò la
testa e posò il suo sguardo su Mia. Lei lo avvertì come un peso gravoso. La
bloccò come una mosca nella sua rete scarlatta.
«Naev» ripeté Adonai.
L’aria divenne più pesante, le onde nella pozza di sangue si agitarono un
po’ più forte. Per la prima volta, Mia notò che Adonai non sembrava
sbattere le palpebre.
«Le ho salvato la vita nelle Frusciaride.»
«Ne sono edotto, accolita.»
«Ho visto la sua faccia. Ciò che le ha fatto Marielle. Non è giusto,
Adonai.»
«Proprio tu favelli di giusto e sbagliato, piccola omicida?»
«… Chiedo perdono?»
«Non è mio, il perdono che dovresti implorare» sorrise Adonai. «Non
sono io colui a cui hai mutilato il corpo per acquistare la tua panca a questo
altare, nevvero?»
Mia strinse forte la mascella. «L’uomo che ho ucciso per essere qui
aveva ammazzato a sua volta. Centinaia di persone. Migliaia, forse.
Impiccò mio padre. Se lo meritava. Fino in fondo.»
«E gli altri?»
Mia rimase sorpresa. «Quali altri?»
Adonai si alzò in piedi con movimenti indolenti, languidi. Si avvicinò a
tal punto che Mia poteva avvertire il calore che si irradiava dalla sua pelle.
Si sporse finché la sua frangia color bianco osso non le sfiorò la fronte.
Labbra che supplicavano di essere baciate si trovarono solo a un alito di
distanza dalle sue, umide di sangue. Per un momento frastornato, pensò di
essere sul punto di farlo e scoprì che al solo pensiero i suoi battiti erano
accelerati e che provava un senso di eccitazione nella pancia. Invece lui
inalò, inspirando a fondo e chiudendo le palpebre con uno sfarfallio. E
quando parlò sorrise.
«Riesco a fiutare il loro sangue su di te, piccola tenebris.»
Mia si impose di non trasalire. Di non indietreggiare.
«Avete l’attenzione di vostra sorella» disse la ragazza. «Lei vi ama,
Adonai.»
«E io amo lei. Come la Luce amava l’Oscurità.»
«Ma anche Naev vi ama. Lei non merita di soffrire per questo.»
L’Oratore le mise il pollice sul mento. Le inclinò la testa all’indietro, di
pochissimo. Mia immaginò quelle labbra color rubino che le accarezzavano
la pelle, i suoi denti che le mordicchiavano la gola. Represse un fremito.
Trovava sempre più difficile respirare.
«Non ho mai assaggiato nessuno della tua specie prima d’ora…»
sussurrò lui.
Le labbra di Adonai si contorsero in un altro sorriso dolcissimo. Ma
fissandolo negli occhi, Mia si rese conto che non c’era nulla dietro di essi.
Tutto questo per lui era solo un gioco, e lei una distrazione momentanea.
Quella di Adonai era una bellezza solo di facciata: la sua vanità gli filtrava
attraverso fino alle ossa, e lui era distorto e marcio dentro proprio come sua
sorella lo era fuori. E anche se Naev poteva averlo amato – anche se Mia
riusciva a capire come qualunque donna potesse farlo – lei seppe che, a
parte Marielle, Adonai non provava amore per nessuno tranne se stesso.
Con molta gentilezza, Mia spinse via la sua mano.
«Vi ringrazierò se non mi toccherete, Oratore.»
Il sorriso di Adonai si allargò. «Ma mi ringrazieresti anche se lo
facessi?»
“Lo ringrazierei?”
Le ombre ai piedi di Mia tremolarono mentre il sangue nella pozza
ribolliva sempre più. I suoi occhi si strinsero e digrignò i denti. E proprio
mentre il calore nella stanza diventava insopportabile, proprio mentre lo
sciabordio e gli schizzi della pozza aumentavano, Mia udì la voce di
Ashlinn.
«Denti della Mannaia, eccoti qua.»
Mia si allontanò dall’Oratore e vide Ashlinn sulla soglia.
«Ti ho cercato dappertutto, Corvere. Dovremmo lavorare alla lezione di
Ammazzaragni.» Ash entrò nella stanza e fece un inchino profondo. «Le
mie scuse, Oratore. Potrei riavere la mia stimata collega? Si
dimenticherebbe la sua dannata ombra se non ce l’avesse inchiodata ai
piedi.»
Il sorriso di Adonai scivolò via come foglie in inverno.
«Costei può andare dove le compiace.» Un sospiro. «Non me ne cale
nulla.»
Adonai si rimise in ginocchio, gli occhi di nuovo sulla pozza. Congedò
Mia senza nemmeno una parola. Ash la prese per mano e la portò fuori
dalla stanza. Trascinandola giù per il corridoio, si fermò solo quando fu
fuori vista e portata d’udito dalla camera dell’oratore.
«’Bisso e sangue» mormorò Ash. «Per un attimo ho pensato davvero che
stesse per provare a baciarti.»
«Be’, sei stata tu a dirmi di distrarlo» ribatté Mia. «Ora dimmi che ha
funzionato.»
Ashlinn si mise la mano nelle brache e tirò fuori una catena d’oro. Mia
vide una vampata di luce e sussultò come se fosse stata ustionata,
portandosi la mano agli occhi. «Denti della Mannaia, rimettila nei
pantaloni.»
«Devi sempre servirmela su un piatto d’argento, eh?»
Ash si rinfilò il medaglione nelle brache e diede una pacca sulla spalla a
Mia. La ragazza socchiuse gli occhi esitante, poi si rilassò quando si rese
conto che la Trinità non era più in vista.
«L’hai scambiata con l’altra?»
Ash annuì. «Jess non si accorgerà di nulla. Ovvero, fino alla prossima
volta che non te la tirerà fuori davanti. Quello sarà il tuo segnale per darle
un bel calcio nelle parti ricciolute.» Ash si diede una pacca sulle brache.
«Mi occuperò io di questa cosa. La metterò in un posto dove nessuno potrà
impossessarsene di nuovo.»
«Il delitto perfetto» sorrise Mia.
«Se fosse stato perfetto, alla fine avrei ottenuto una torta.»
«Non è ancora la nona campana.» Mia le porse il braccio. «La cucina è
ancora aperta?»
«Vedi? Lo sapevo che mi piacevi per un motivo, Corvere.»
Sottobraccio, le ragazze si avviarono nel buio.
a. La miglior espressione da cane bastonato di Ashlinn avrebbe potuto far perdere il lavoro a un vero
cane bastonato, costringendolo a fare i bagagli e trasferirsi in qualche posto più tranquillo ad
allevare polli.
CAPITOLO 24
FRIZIONE
I cambi passavano.
Com’era prevedibile, Ashlinn era ancora in testa nella contesa di
Mouser, anche se Zitto stava rimontando dalla seconda posizione. Alla luce
della competizione sempre più intensa, Mia era lieta che la sua amica
avesse dedicato del tempo per aiutarla a rubare qualcosa che non sarebbe
stata conteggiata nel punteggio ufficiale. Gli accoliti stavano diventando più
audaci e ora venivano sgraffignati oggetti più complicati della lista, invece
di semplici gingilli. Tuttavia, se Mia avesse dovuto scommettere, avrebbe
puntato tutta la sua fortuna sul fatto che Ash sarebbe finita al primo posto
nell’Aula di Tasche.
Ma se Mia avesse avuto davvero una fortuna, a quest’ora Ash l’avrebbe
probabilmente rubata, amiche oppure no…
Le lezioni di Mouser stavano diventando eclettiche ed eccentriche
quanto lo Shahiid stesso. Dedicò diverse ore a settimana a insegnare ciò che
lui chiamava Senzalingua, a poi insistette che tutte le conversazioni nell’aula
fossero condotte con quel linguaggio. In un’altra lezione, Mouser fece
portare una cisterna di legno nell’Aula di Tasche. Era piena di acqua sporca,
con una manciata di grimaldelli sparpagliati sul fondo. Quindi legò gli
accoliti mani e piedi con manette di piombo e li spinse dentro a uno a uno.
Bisognava riconoscere allo Shahiid che sembrò piuttosto compiaciuto
che nessuno fosse affogato.
Le lezioni nell’Aula di Maschere erano più sottili e, per la verità, molto
più gradevoli. Gli accoliti continuavano a essere inviati con regolarità a
Godsgrave e Mia passò una dozzina di illuminotti appostata in varie
taverne, esercitando la sua dialettica e riempiendo la gente di alcol e sorrisi
graziosi. Teneva al guinzaglio due membri degli administratii giovani e
piuttosto piacenti, e origliò alcuni pettegolezzi succosi in un bordello al
porto su un violento scontro tra bande di braavi locali. Aalea accettò i nuovi
segreti di Mia con un sorriso e un bacio su ciascuna guancia. E se notò un
cambiamento in lei dopo la sera passata nel letto di Tric, la Shahiid si
astenne educatamente dal fare commenti.
Nei cambi dopo quella notte, Mia aveva resistito all’impulso di sorridere
al ragazzo durante il primopasto o di fissarlo troppo a lungo durante le
lezioni. Con lo scopo di tenerlo a distanza, gli aveva detto di non aver
bisogno di altre lezioni nell’uso della lama. Mia sapeva che sarebbe stato
stupido lasciar crescere altro fra loro e, da parte sua, Tric faceva almeno
finta di capire. Tuttavia, a volte lei lo beccava a fissarla con la coda
dell’occhio. Di notte, da sola nella sua stanza, si faceva scivolare la mano
tra le gambe e cercava di non immaginare il suo volto. Ci riusciva, qualche
volta.
Mentre il tempo passava e l’iniziazione incombeva, le prove diventavano
sempre più dure. Mia aveva la sua vendetta contro Scaeva e i suoi lacchè a
tenerla concentrata sulle lezioni, ma ogni accolito sapeva cosa c’era in
ballo. Un altro di loro era stato ucciso dopo la mascherata del Gran Tributo:
un ragazzo di nome Leonis, a cui era stata sfondata la gola da un colpo
vagante nell’Aula di Canti e che era soffocato prima che potesse arrivare
Marielle.
Dei ventuno accoliti che avevano cominciato l’addestramento, ne
rimanevano solo quindici. E poi giunse l’incidente che da quel momento
avrebbero definito “la Mattina Blu”.
Iniziò come cominciavano di solito le crisi: con il sussurro ora familiare
di Messer Cortese.
«… attenta…»
Aprendo gli occhi, Mia estrasse il suo stiletto, subito sveglia. Riusciva a
sentire un debole rumore sibilante. Alzando lo sguardo, notò che una delle
pietre nel soffitto sopra il suo letto era scivolata via e un vapore rarefatto
stava filtrando nella camera. Danzava nell’aria come fumo di sigaretto,
lento e vagamente blu.
Accucciandosi, Mia si precipitò verso la porta e girò la chiave, solo per
scoprire che la serratura non si apriva. Sempre in guardia contro le trappole
ad aghi grazie alle lezioni precedenti di Mouser e Ammazzaragni, si infilò
un pesante guanto di cuoio e sbatacchiò la maniglia. Rifiutò di muoversi.
«Bene, merda.»
«… mia…»
Si guardò alle spalle e vide altro vapore bluastro riversarsi dentro. Il
flusso era sempre più denso, l’aria sempre più annebbiata. Mia riusciva a
sentire un certo sapore acre in fondo alla lingua. Gli occhi cominciarono a
bruciarle. Almeno conosceva a menadito i sintomi.
«Aspirea…» mormorò.
«… un’altra prova…»
«E io che volevo dormire fino a tardi.»
Afferrò una camicia dal pavimento, la intrise d’acqua dalla bacinella sul
comodino e se l’avvolse attorno alla faccia. L’aspirea provocava paralisi e
morte per lenta asfissia. Era più pesante dell’aria e non infiammabile in
forma gassosa. Mia conosceva bene l’antidoto, anche se non aveva nessuno
degli ingredienti per prepararlo. Ma uno straccio umido sopra la bocca
avrebbe tenuto a bada i vapori almeno per qualche minuto; quanto bastava
per escogitare un modo per fuggire.
I suoi occhi esaminarono la stanza mentre pensava rapidamente.
La chiave non voleva muoversi e sbattere la spalla contro l’uscio le
provocò soltanto un livido. I cardini erano fissati con chiodi di ferro:
avrebbe potuto svellerli, ma avrebbe richiesto tempo, e se fosse stata
esposta più di qualche minuto all’aspirea, il risultato sarebbe stato una
funzione silenziosa nella Sala degli Elogi e una tomba senza nome.
Premendo la guancia contro il pavimento, scrutò sotto la porta. Poteva
sentire persone che tossivano. I suoni di oggetti pesanti che venivano
sbattuti contro il legno. Deboli urla. Aria fresca e pura filtrava attraverso la
fessura, assieme a suoni di panico crescente. Se gli accoliti non fossero
riusciti a uscire dalle loro stanze, sarebbero morti tutti, fino all’ultimo.
«Denti della Mannaia, non stanno più giocando» sibilò lei.
«… la pressione non farà che aumentare, da adesso fino
all’iniziazione…»
Mia trattenne il fiato.
Guardò la fessura sotto la porta. Il foro nel soffitto.
«Pressione» sussurrò.
Afferrò una bottiglia di liquore dal comodino e la versò sulla soffice
pelliccia grigia che copriva il suo letto. Afferrò i suoi sigaretti e usò
l’acciarino, poi lo accostò al letto e indietreggiò. Con un rumore sordo,
l’aureovino si incendiò. Mia si accucciò vicino alla porta osservando il
fuoco attecchire finché il suo letto non si mise a bruciare allegramente.
«… potrebbe esserci una metafora qui da qualche parte…»
La temperatura si alzò, poi aria calda, fumo e vapore di aspirea si
arroventarono tra le fiamme, per essere risucchiati attraverso il foro sul
soffitto. Mia afferrò uno tra le dozzine di coltelli sparpagliati per la stanza e
lo conficcò nel primo chiodo che teneva fermi i cardini della sua porta.
Adesso il letto era una luminosa e crepitante palla di fuoco. Il fumo
veniva attirato su nel soffitto assieme all’aspirea, ma a Mia lacrimavano
ancora gli occhi e bruciava la gola. Uno dopo l’altro, svelse i chiodi,
facendoli cadere sul pavimento con sordi tonfi metallici. Quando ne ebbe
tolti a sufficienza perché l’uscio fosse bloccato a malapena, le bastò qualche
calcio per far saltare i pochi rimasti e sfrecciare nel corridoio.
Mia barcollò fuori, tossendo e scacciando le lacrime dagli occhi.
Ammazzaragni e Mouser erano in piedi alla fine del corridoio. Lo Shahiid
di Tasche stava spuntando nomi in un registro rilegato in cuoio. L’arcigna
Shahiid di Verità concesse a Mia un sorriso.
«Il primopasto sarà servito all’Altare del Cielo tra quindici minuti,
accolita» disse.
Mia riprese fiato e si fece da parte quando due Mani entrarono nella sua
camera per spegnere il letto. Vide che la porta della stanza di Carlotta era
aperta, la serratura in frantumi come vetro. La porta di Osrik era un rudere
carbonizzato. Un lungo tubo di pergamene arrotolate spuntava da sotto
l’uscio di Zitto e si sentiva il suono di un respiro costante che usciva
dall’imboccatura. Mentre osservava, la serratura apparentemente bloccata
sulla porta di Ashlinn in qualche modo si aprì con uno scatto e la ragazza
uscì con aria rilassata nel corridoio, mettendosi in tasca i grimaldelli mentre
le faceva l’occhiolino.
«Buona mattinata, Corvere» sogghignò.
Gli occhi di Mia trovarono la porta di Tric, e fu sollevata nel vederla
socchiusa. Lasciandosi alle spalle il fumo e la puzza di aspirea, lei e Ash
salirono le scale fino all’Altare del Cielo, dove trovarono Tric e Osrik già
seduti al tavolo con Carlotta. Tric stava osservando le scale e si illuminò
visibilmente quando vide Mia. Lotti era china su un quaderno rilegato in
cuoio, scribacchiando appunti e ponendo piano delle domande a Osrik. Il
ragazzo era sporto in avanti, irradiando un fascino naturale, le labbra
incurvate in un bellissimo sorriso.
Dopo essere andate a prendere la colazione, Ash e Mia si sedettero
accanto al terzetto. Un’occhiata fece capire a Mia che Carlotta stava
lavorando su qualche tipo di veleno, anche se stranamente non sembrava
correlato alla formula di Ammazzaragni. I suoi appunti erano scritti in
codice: sembrava una variante della sequenza di Elberti mista a un cifrario
artigianale.
“Ingegnoso, per una ex schiava.”
«Be’, non sono sorpresa di trovare Lotti quassù per prima. Se si tratta di
veleno, lei lo conosce.» Ash lanciò un’occhiata a Tric. «Ma ’bisso, tu come
hai fatto a uscire così rapidamente, Trucco?»
«Oh, donna di poca fede.»
«Lasciami indovinare. Hai sfondato la porta con la testa?»
«Non è stato necessario.» Tric agitò le sopracciglia. «Ho sentito l’odore
dell’aspirea prima che avessero la possibilità di bloccare le serrature. Ho
fatto capolino in corridoio per vedere cosa stava succedendo, quindi Mouser
mi ha lanciato un improperio in Senzalingua e mi ha mandato quassù.»
Ashlinn sorrise. «Hai proprio un bel naso, Trucco.»
Tric scrollò le spalle e lanciò un’occhiata a Mia. «Tu come ci sei
riuscita?»
Mia stava guardando le scale. Altri accoliti stavano arrivando all’Altare
del Cielo. Jessamine, Zitto, Diamo, Marcellus… ma ne mancavano ancora
mezza dozzina. Ash ci stava già scherzando sopra, ma da basso alcuni di
loro probabilmente stavano morendo. Persone che loro conoscevano.
Persone che…
Si rese conto che gli altri la stavano osservando trepidanti, in attesa dei
particolari della sua fuga.
«Differenziale di pressione» spiegò. «Il vapore caldo sale attraverso il
buco nel soffitto. Lo spiffero sotto la porta fa entrare aria fresca. Semplice
convezione, come delineata da Micades nel quattordicesimo…»
La voce di Mia si spense sotto tre sguardi vacui.
«Ha dato fuoco al suo letto» disse infine Carlotta senza alzare lo sguardo
dai suoi appunti.
Ash spostò lo sguardo tra Mia e Tric. Aprì la bocca per parlare, ma Mia
la interruppe.
«Non. Una. Fottuta. Parola.»
Con un sorrisetto d’intesa, Ash tornò al proprio pasto.
Tre cambi dopo, Mia era seduta sul suo letto tutto nuovo, anche se nell’aria
aleggiava ancora vagamente l’odore di bruciato di quello vecchio. Un altro
di loro era morto durante la Mattina Blu, un ragazzo silenzioso di nome
Tanith che sinceramente non era mai stato un grande esperto di Verità.
Un’altra tomba senza nome nella Sala degli Elogi.
Un altro accolito che non avrebbe più rivisto i soli.
Mia era circondata da appunti, a lavorare ancora sulla formula di
Ammazzaragni. Con un sigaretto tra le labbra, esaminava Verità arkemiche
e le dozzine di tomi che la Shahiid aveva dato ai suoi novizi. Mia non
poteva che ammirare la bellezza del dilemma di Ammazzaragni: cercare di
risolverlo era come trovare un’unica pagliuzza di fieno in una catasta di
aghi avvelenati. Eppure si dilettava con quell’enigma. Come quella
ragazzina e il suo rompicapo. La voce di sua madre le risuonò nella testa.
“La bellezza è una dote innata, ma l’intelligenza va coltivata.”
Non guardare.
«… perderai la cena, mia…»
«Sì, padre.»
«… sembra che il tuo stomaco stia borbottando in qualche dialetto
ashkahi dimenticato…»
Alzò lo sguardo dai suoi appunti, con le formule che le danzavano
ancora davanti agli occhi. Si portò una mano alla pancia brontolante. La
risposta era lì, lo sapeva. Ma la stuzzicava, appena oltre la sua portata.
«D’accordo. Questo può aspettare.»
L’Altare del Cielo era pieno di accoliti, e odori da far venire l’acquolina
in bocca si diffondevano dalle cucine, pervase da un’attività frenetica. Gli
Shahiid non erano presenti – sicuramente erano a una qualche riunione
degli insegnanti per discutere i progressi tra i novizi – ma le Mani vestite di
nero si muovevano in giro servendo vino e sparecchiando le stoviglie.
Mia ammonticchiò su un piatto agnello arrosto e verdure al miele, poi si
lasciò cadere accanto ad Ash e Carlotta e iniziò ad abbuffarsi senza
esitazione. Lotti era impegnata a scribacchiare sul suo quaderno. Ash stava
parlando di una rissa da taverna a cui aveva assistito quando le ragazze
erano a Godsgrave a caccia di segreti: alcuni cittadini insoddisfatti avevano
criticato il console Scaeva e i suoi “poteri di emergenza” ed erano stati
aggrediti da una dozzina di braavi che apparentemente trovavano il governo
del console più che soddisfacente. b
«La città sembra arrabbiata» dichiarò Ash masticando un pezzo
d’agnello.
Mia annuì. «Ci sono più Luminatii per le strade di quanti ne abbia mai
visti.»
«E sono più graziosi dei giovani soldati che vedevo io a Carrion Hall.»
«Non pensi ad altro, Järnheim.»
La ragazza sogghignò e agitò le sopracciglia mentre suo fratello la
ignorava deliberatamente. Mia guardò verso Carlotta, ancora impegnata a
scribacchiare appunti.
«Come va?» chiese Mia.
«Lentamente» mormorò la ragazza, esaminando la pagina. «Proprio
quando penso di aver preso la tigre per la coda, quella si gira e mi morde.
Ma sono vicina. Molto vicina, penso.»
Lo stomaco di Mia fece una giravolta. Se Lotti l’avesse preceduta nella
contesa di Ammazzaragni…
«Pensi che sia saggio portare quegli appunti a cena?» chiese Osrik.
«Dovrei lasciarli nella mia stanza per lasciarli sgraffignare a Domina
Ditaleste qui?»
Carlotta alzò un sopracciglio verso Ash. La ragazza aveva totalizzato
dozzine di punti nel gioco di Mouser rubacchiando oggetti e gioielli agli
altri accoliti. Mia sapeva che non era nulla di personale, ma stava bene
attenta a rimanere fuori dalla portata di Ash quando poteva. Perfino Osrik
sedeva a distanza di sicurezza da lei a cena.
Ash cercò di obiettare mentre masticava, ma per poco non si strozzò e
infine si accontentò di sollevare le nocche.
«Come ho detto,» Carlotta si voltò di nuovo verso Mia «è più sicuro
tenerli vici…»
«Attenti!»
Con un’imprecazione e uno schianto, una Mano che passava lì vicino
inciampò e finì addosso a Carlotta e Mia, lasciando cadere il vassoio carico
con un fragore assordante. Una caraffa mezza piena e piatti sporchi
andarono a sbattere contro il tavolo, schizzando gli accoliti di avanzi e vino.
Carlotta afferrò i suoi appunti proprio mentre il liquido li bagnava, facendo
scorrere e sbavare l’inchiostro. Si districò dal servitore sconvolto con le
pagine fradicie spiegazzate nel pugno. Mentre la Mano chiedeva perdono,
lei si alzò, guardando torvo l’alto ragazzo itreyano che aveva fatto cadere il
servitore.
“Diamo.”
«Mi dispiace terribilmente» disse lui, aiutando la Mano a rialzarsi.
«Tutta colpa mia.»
Carlotta scoccò al ragazzo il suo sguardo impassibile, senza nemmeno
sbattere le palpebre.
«L’hai fatto apposta» disse piano.
«Un incidente, Mea Domina, te l’assicuro.»
Mia udì una risata sommessa. Voltandosi, notò Jessamine osservare
l’accaduto con un sorriso velenoso. Anche Carlotta udì il suono e fissò Jess
che sollevava il suo bicchiere in un brindisi. Con i fogli bagnati in mano,
Lotti si diresse con calma dalla rossa e si stagliò davanti a lei.
«I miei appunti sono rovinati» riferì.
«Spero che non fossero importanti» sogghignò Jessamine. «Non sei tanto
sciocca da portare le note sui tuoi veleni a tavola, vero, piccola schiavetta?»
La mano di Carlotta si sollevò alla guancia dove c’era stato il suo
marchio arkemico.
«Non prendo più ordini da nessuno» disse piano.
«Da me le prenderai e basta se non te ne vai, piccolo tarlo dei libri.
Ammazzaragni non è qui per salvarti, ora.» Jess tornò al suo pasto con
un’aria di scherno dipinta sul viso. «Ora prendi i tuoi preziosi appunti a
vattene a piangere in un angolo, prima che ti regali un nuovo buco.»
Un ghigno tronfio sbocciò sul volto di Diamo. Mia e Ashlinn si
scambiarono un’occhiata afflitta. Non era un segreto che Jessamine fosse
tra i preferiti di Solis e una tra gli accoliti più abili nell’Aula di Canti.
Carlotta era intelligente e istruita, ma non poteva competere con Jess se
fossero venute alle mani. La rossa ora le stava facendo sbattere il muro
contro quella consapevolezza, certa che l’altra ragazza fosse troppo sveglia
e pacata per dare inizio a uno scontro che non poteva vincere.
Carlotta guardò gli accoliti attorno a lei.
Poi accartocciò gli appunti nel pugno.
«Ho un’idea migliore su cosa farci» mormorò.
E caricando il pugno, Lotti lo vibrò contro la mascella di Jessamine.
La rossa volò giù dalla sedia, con un’espressione di stupore quasi comica
in faccia. Lotti cadde sopra di lei, dimenandosi e sputacchiando, la sua
abituale facciata stoica andata in mille pezzi. Afferrò Jessamine per la gola,
le sbatté la testa all’indietro contro la pietra, poi passò a provare a far
ingoiare alla ragazza gli appunti bagnati mentre la rossa si dibatteva e
scalciava. Le due ruzzolarono in giro in un turbine di imprecazioni e pagine
fradicie. Jessamine centrò con un gancio la mascella di Carlotta, ma lei
sbatté gli appunti sul naso della rossa e lo scrocchio umido fece trasalire
Mia.
Non era presente nessuno Shahiid: nessuno che potesse fermare quel
parapiglia. Diamo parve arrivare alla stessa conclusione di Mia e Ash,
quindi si intromise nella zuffa e separò Carlotta e Jessamine. Lotti si
dimenava e sgroppava, imprecando con veemenza tale che avrebbe indotto
il marinaio più incallito ad abbandonare il gioco d’azzardo e diventare un
prete di ferro. Ma Jessamine era fuori di sé dalla rabbia, il volto contorto e il
naso zampillante che le cospargeva labbra e mento di sangue. Artigliava
l’aria, scalciando nella stretta di Diamo, gli occhi fissi su Carlotta.
«Sei morta, puttana» sbraitò. «Mi hai sentito? Morta!»
«Lasciala andare!» ruggì Carlotta a Diamo. «Lasciala andare!»
«Ti farò mangiare il tuo fottuto cuore! Ti farò…»
«BASTA!»
Quella voce tonante paralizzò la massa brulicante di accoliti e tutti gli
occhi si voltarono. Mia vide il fratello di Ash, Osrik, in piedi sulla panca, le
guance paonazze di rabbia.
«Nel nome della Mannaia, cos’avete che non va voi due? Siamo
discepoli di Niah, non fottuti braavi. Ci troviamo nella casa di una dea.
Mostrate un po’ di dannato rispetto!»
L’invettiva di Osrik parve placare un po’ Carlotta. Mia e Ash, che si
reggevano l’un l’altra per il braccio, allentarono lentamente la stretta.
Diamo lasciò andare Jessamine, e la ragazza, con un’ultima occhiata
velenosa, si pulì il sangue dal mento e tornò a sedersi al tavolo, riprendendo
a mangiare come se non fosse successo nulla. Fredda e dura come un barile
di ghiaccio.
Mia e Ash aiutarono Carlotta a raccogliere gli appunti sparpagliati. Tutte
e tre erano accovacciate sopra quella devastazione, con Carlotta che cercava
di rimettere le pagine in una specie di ordine. Il suo lavoro era un caos,
bagnato fino a essere illeggibile in diversi punti. Aveva le spalle incurvate,
la sua facciata stoica era a brandelli. Settimane di lavoro rovinate in un
attimo. Mia si ritrovò a provare pena per la ragazza. Lotti aveva una mente
affilata come un rasoio ed era anche un’ottima compagnia. Dopo Ash, la
ragazza era la cosa più vicina a un’amica che lei avesse realmente in quelle
sale.
«Non affliggerti per ciò che ha detto quella puttana» sussurrò Ash,
lanciando un’occhiata alla guancia immacolata di Carlotta. «Non è più
quello che sei.»
«Non è mai stato quello che ero.»
Le mani di Carlotta si fermarono. Il suo sguardo divenne annebbiato.
«È stato solo ciò che mi hanno reso.»
Mia lanciò ad Ash un’occhiata di avvertimento, pensando che fosse
meglio non toccare quel tasto dolente. Raccogliendo altre pagine, le porse a
Lotti assieme a un cambio di argomento.
«Tengo i miei appunti nella mia stanza» disse. «Forse non sono arrivata
al punto in cui eri tu, ma puoi prenderli in prestito, se vuoi.»
Carlotta parve sorpresa. Parve tornare dal ricordo in cui si era persa, e la
sua maschera andò di nuovo al proprio posto. Rivolse un piccolo sorriso a
Mia.
«Non è necessario. Ne avevo memorizzato buona parte. Chiederò ad
Ammazzaragni il permesso di lavorare fino a tardi nell’aula. Dovrei riuscire
a rimettermi in pari con il resto se sacrifico un po’ di sonno. Perciò grazie
per l’offerta, ma ti prenderò comunque a calci nel sedere, Corvere.»
«Stai attenta» la ammonì Ash. «C’è qualcuno che vorrebbe dare ancora
più calci al tuo.»
Carlotta lanciò un’occhiata a Jessamine. La ragazza stava
tranquillamente consumando il suo pasto, comportandosi come se avesse
sempre avuto il naso insanguinato. Non mostrava alcun dolore. Nessuna
debolezza. Jess era una rogna insopportabile, ma Mia doveva ammetterlo:
quella ragazza aveva le palle.
«Che ci provi» disse Carlotta.
Lotti si guardò alle spalle, squadrando Osrik dall’alto in basso. Il ragazzo
aveva ripreso il proprio posto al tavolo dopo la sua invettiva e guardava
accigliato il caos provocato dalla rissa. «Sai, tuo fratello non è così male
quando si mette a urlare, Ashlinn.»
«Oh, Madre Nera, chiudi la bocca prima che mi metta a vomitare.»
Carlotta si alzò e si diresse da Osrik, poi gli parlò piano, con il quaderno
fradicio in mano. Oz le rivolse quel suo sorriso affascinante e toccò con le
punte delle dita quelle di Lotti.
Mia guardò Ash sollevando le sopracciglia. «Sono diventati intimi. Li ho
visti lavorare assieme a una mistura qualche cambio fa. E sembra che
vengano appaiati molto spesso a Verità.»
Ash gonfiò le gote e finse di vomitare sotto il tavolo.
Mia sorrise, ma scoprì che dentro di sé provava una certa inquietudine.
L’iniziazione era sempre più vicina. Le frizioni stavano crescendo. I coltelli
erano sguainati. La consapevolezza che non tutti sarebbero diventati Lame
aleggiava a ogni respiro, l’idea che gli altri accoliti fossero degli avversari
influenzava ogni momento. Sarebbe stato facile pensare a quel modo.
Vedere i loro compagni crollare lungo la strada, a uno a uno. Ogni morte li
faceva diventare un po’ più freddi. Le prove della Chiesa stavano
diventando più pericolose, la considerazione del Culto per le vite degli
accoliti sempre più sprezzante. Mia sapeva che era pura idiozia pensare a
chiunque altro che non fosse lei stessa.
Supponeva che fosse quello il punto. Che cosa aveva detto Naev?
“Questo posto dà tanto. Ma prende molto di più.”
Toglieva l’empatia. La compassione. Pezzo dopo pezzo. Morte dopo
morte.
“E cosa rimarrà alla fine?”
Mia si guardò attorno nell’Altare del Cielo. Le facce. Le macchie di
sangue. Le ombre.
“Lame” si rese conto.
“Lame.”
a. Una lingua parlata completamente con gesti di mani, dita e faccia. Utilizzata da un maestro, una
conversazione in Senzalingua può sembrare poco più di una serie di tic, occhiolini e piccoli cenni
del capo, del tutto irrilevanti per chi non sia addestrato in quest’arte.
Chi inizia a praticarla, spesso, sembra fare facce strane come in preda a una crisi epilettica, ma
dicono che la pratica renda perfetti.
b. I braavi sono un gruppo variegato di bande che gestiscono gran parte delle attività criminali a
Godsgrave: prostituzione, furti e violenza organizzata. Per centinaia d’anni, i braavi sono stati una
spina nel fianco di vari re itreyani, e perfino dopo la formazione della Repubblica rimasero
rintanati nei Bassifondi di Godsgrave come zecche particolarmente ostinate. Le loro ruberie
usuravano il commercio, diminuivano i profitti, e sembrava che nessuna irruzione di Luminatii
potesse estirparli in modo permanente.
Fu un senatore appena eletto, Julius Scaeva, a proporre per primo l’idea di dare alle bande di
braavi più potenti – come quelle che controllavano i moli e il distretto dei magazzini di Godsgrave
– uno stipendio ufficiale dai forzieri della Repubblica. Argomentò che sarebbe costato di meno
pagare i malviventi che organizzare una forza di polizia ufficiale per combatterli, e che le bande
stesse avrebbero tratto beneficio da un periodo di stabilità. Scaeva finanziò il primo pagamento
con la propria ricchezza personale e fu ricompensato praticamente da un cambio all’altro con un
calo straordinario dei tassi di criminalità nei Bassifondi. Ciò vide la sua popolarità schizzare alle
stelle tra i mercanti che esercitavano il commercio ai moli, tra i cittadini che in precedenza erano
rimasti invischiati nelle guerre tra i Luminatii e i braavi, e tra i malviventi stessi, a cui piaceva
essere pagati tanto per essere pagati. Fu dopo questa mossa brillante che Scaeva venne
soprannominato per la prima volta tra la folla il Senatum Populiis: il Senatore del Popolo.
Gli epiteti con cui i suoi avversari lo chiamavano a porte chiuse erano molto meno lusinghieri.
Ma solo quando le porte erano sbarrate.
CAPITOLO 25
PELLE
Mia si svegliò a un certo punto nel buio dell’illuminotte, gli occhi che si
riaprivano lentamente da un riposo senza sogni. Quanto tempo aveva
dormito? Che ora poteva…?
Poi giunse di nuovo. Un suono lieve che svegliò le sue farfalle.
Toc, toc.
Rotolò giù dal letto e si gettò una vestaglia di seta sopra la camicia da
notte. Le martellava il cuore contro il petto. Sotto i piedi nudi aveva pietra
fredda. Raggiunse la porta e le tremarono le mani mentre girava la chiave e
socchiudeva l’uscio. E lo vide lì, solo una sagoma al buio, le salciocche che
incorniciavano i contorni nascosti del suo volto.
Con le labbra asciutte, Mia si fece da parte senza una parola. Lui guardò
su e giù per il corridoio, soffermandosi sulla soglia. Se fosse stato trovato
fuori dalla sua camera dopo le nove, avrebbe subito una tortura per mano
della Tessitrice. Ma sapeva cosa sarebbe successo se fosse entrato. Lo
sapevano entrambi. Un respiro che parve durare un’eternità mentre lei lo
osservava attraverso le ciglia. E infine, silenzioso come il suo sospiro, lui
entrò.
Mia toccò la lampada arkemica sul suo tavolo e attese che il calore della
sua mano accendesse la luce all’interno. Quella tremolò e un caldo bagliore
color seppia sbocciò nel vetro. Tric era dietro di lei: poteva percepirlo.
Sentiva la sua ombra. Avvertiva la sua paura di essere qui. Il suo desiderio.
Trattenendo il fiato, Mia si voltò e guardò la sua faccia.
Un ritratto, proprio come si era aspettata. L’inchiostro non c’era più, le
cicatrici di denti di draco erano scomparse, al loro posto un’abbronzatura
liscia e immacolata. Guance più definite, e le parti infossate attorno agli
occhi colmate. Era il tipo di bellezza per cui una ragazza avrebbe potuto
radunare un esercito, uccidere un dio o un demone. Questa ragazza, almeno.
«La Tessitrice sa il fatto suo» disse Mia.
Tric si guardò i piedi, evitandola. Lei sorrise nel vederlo in imbarazzo.
«Come ti sembra?»
«Non male» rispose lui con una scrollata di spalle. «Voglio dire, mi ha
fatto soffrire come fuoco e ferro, ma dopo non è così male.»
«Ti mancano? I segni?»
«Lei mi ha permesso di tenerli.»
Il ragazzo indicò una fialetta di vetro su una cordicella di cuoio attorno
al collo. Mia vide che era piena di un liquido scuro e scintillante.
«È…?»
Lui annuì. «Tutto quello che resta dell’opera di mio nonno.»
Allungando una mano per toccarla, Mia fece scorrere un dito dal suo
colletto fino alla pelle al di sotto. Vide l’arteria che gli pulsava sul collo
accelerare. Si voltò per nascondere un sorriso.
«Qualcosa da bere?»
Lui annuì senza parlare. Mia si mise al lavoro con le coppe d’argilla e la
bottiglia che aveva sgraffignato durante una delle sue prime incursioni in
cerca dei ninnoli sulla lista di Mouser. Anche se il liquore non valeva
nessun punto nella competizione dello Shahiid, Mercurio le aveva sempre
insegnato di non lasciarsi sfuggire una buona marca, quando la vedeva.
Ne versò due e offrì una coppa a Tric. Lui fece un brindisi con lei e la
tracannò con lo stesso gesto. Mia ne versò ancora. «Vuoi sederti?»
Il ragazzo si guardò attorno, posando gli occhi sullo sgabello infilato
sotto la specchiera.
«C’è solo una sedia» disse.
Voltandosi, Mia si fece scivolare lentamente la vestaglia giù dalle spalle.
La lasciò cadere in un mucchio scomposto sul pavimento mentre strisciava
sul letto, godendo della sensazione degli occhi di Tric sul suo corpo. Mise
la bottiglia sul comodino e si sdraiò tra i cuscini, con le gambe allungate
davanti a sé e il liquore in mano. In attesa.
Lui si diresse verso il letto, senza che i piedi emettessero alcun suono
sulla pietra. Muovendosi come un lupo, abbassò la testa e inspirò il suo
aroma. Mia sapeva che doveva essere in grado di fiutare il suo desiderio. Il
cuore le martellava contro le costole. Aveva la bocca asciutta come il
deserto oltre quelle mura. Sorseggiò di nuovo l’aureovino, assaporando il
bruciore affumicato lungo la gola. Tric si sedette sul bordo del materasso,
incapace di staccare gli occhi da lei. La tensione crepitava tra loro,
increspandole gli angoli delle labbra. Poteva sentirla riverberare nei
polpastrelli. Pulsare sotto la pelle. Desiderio. Di lei per lui. Di lui per lei.
Nulla e nessuno in mezzo.
Lui tracannò il liquore con un sussulto. Mia guardò la luce giocare sulle
sue labbra mentre inghiottiva, le profonde depressioni della gola, la linea
forte e perfetta della mascella.
«Un altro?»
Lui annuì. In silenzio. Mia si tirò su lentamente e sentì la cinghia della
sottoveste caderle da una spalla. Si mise seduta a gambe incrociate, con la
seta arricciata attorno alle gambe. Era colma di un cupo piacere quando
vide gli occhi di Tric scorrere sul suo corpo, fino all’ombra tra le sue
gambe. Si mise carponi e si mosse sulle pellicce, gli occhi fissi nei suoi.
Allungò la mano verso la coppa che lui aveva in mano, le punte delle dita
che girarono attorno all’orlo fino ad arrivare al suo polso. Poi risalirono il
liscio rigonfiamento del suo braccio nudo, osservando la pelle accapponarsi
e sentendo il suo fiato che si mozzava. La faccia di Mia era solo a pochi
pollici dalla sua.
Non era certa di chi fu il primo a muoversi. Se lei o lui. Solo che si
ritrovarono uniti con uno schianto: Mia aveva gli occhi chiusi, ma la sua
bocca trovò quella di Tric come se avesse sempre conosciuto la strada. Pelle
calda e labbra che lo erano ancora di più. Mani forti e muscoli sodi. Le dita
di Tric le si avvolsero tra i capelli. Le dita di Mia gli artigliarono la pelle.
Tric premette la bocca contro la sua, facendole assaggiare l’aureovino sulla
lingua. Lei gli tolse la camicia, poi armeggiò con la cintura. Lui le afferrò la
sottoveste in un pugno e gliela strappò dal corpo come se non le dovesse
servire mai più.
Mia lo spinse sulla schiena e si sollevò a quattro zampe, mettendosi a
cavalcioni sulla sua faccia. Voleva assaggiarlo mentre lui assaggiava lei. La
bocca di Tric le lasciò una scia ardente sull’interno delle cosce, le mani
vagarono per la sua pelle nuda facendola rabbrividire. Con un rantolo, Mia
riuscì a strattonargli giù le brache fino alle ginocchia, e sentì che le separava
i lembi mentre lei lo prendeva in bocca. Gemendo attorno alla sua virilità,
avvertì la lingua di Tric guizzare contro di lei, sussurrando suppliche,
perdute nelle ombre sopra la sua testa. Le sue dita… Oh, Figlie, il suo liscio
calore ardente contro la lingua. La sua bocca contro quel bocciolo
dischiuso, col respiro affannoso mentre lei muoveva il pugno su e giù e
rotolava la lingua contro la sua corona, scendendo fino all’elsa. Voleva di
più. Voleva tutto.
Tirandosi su, ruotò lì dov’era, spingendolo di nuovo sul materasso
mentre Tric scattava verso di lei con gli occhi illuminati di lussuria. Salendo
sopra di lui, lo prese nella mano, quasi ebbra di desiderio. Accarezzandolo
con forza mentre lui gemeva, lo premette contro di sé. Tric balzò verso
l’alto, prendendole il seno in bocca, le mani sulle anche, e tirandola verso il
basso. Ma Mia oppose resistenza per un altro interminabile momento,
paralizzata sopra di lui. I loro sguardi fissi l’uno nell’altro. Alla distanza di
un pollice e di un’eternità dal precipizio.
Alla fine, però, lei si abbassò molto, molto lentamente guardandolo in
profondità negli occhi, dolore e piacere intrecciati, il respiro strozzato nei
polmoni, incapace perfino di rantolare. Dea, lui era così duro. La testa di
Mia si inclinò all’indietro tra uno sfarfallio di ciglia, lunghe ciocche strette
nel pugno mentre Tric spostava la lingua da un seno all’altro e lei
dondolava i fianchi, la schiena arcuata e le unghie che gli artigliavano la
schiena. Ora si muovevano come una cosa sola, i denti di Tric contro la sua
gola. Sibilando. Implorando.
Tric fece scivolare la mano in mezzo a loro, giù tra le gambe. Muovendo
con delicatezza le punte delle dita, le fece girare in cerchio e il calore dentro
Mia divenne sempre più rovente, luminoso e feroce finché non ci fu altro
che fiamma, accecante dietro i suoi occhi. Ogni muscolo si tendeva e lei
lanciava un urlo silenzioso tra i capelli di Tric. Lui sbatteva e bruciava
contro di lei, strabuzzando gli occhi e fremendo di desiderio mentre Mia
dondolava avanti e indietro sopra di lui. La ragazza guardò nei suoi occhi,
sapendo che era proprio sull’orlo e la implorava di lasciarlo cadere. E, nella
frazione di secondo prima del suo orgasmo, Mia si sollevò da lui e terminò
con la mano, rantolando mentre lui le schizzava su pancia e petto,
sussurrando il suo nome.
Spossati e senza fiato, crollarono in un mucchio sudato sul letto.
Il silenzio regnò nel buio tremante. Le ombre nella stanza ondeggiavano
e si agitavano. I libri caduti dagli scaffali erano spalancati, le pagine
spiegazzate sul pavimento. Gli sportelli della cassettiera erano aperti, lo
sgabello rovesciato, la stanza nel caos. Ma Tric la prese tra le braccia e le
baciò la fronte, e solo per un unico, minuscolo momento, Mia si lasciò
andare. Chiuse gli occhi e dimenticò. Ascoltò il cuore contro le costole di
lui, sentendo il bagliore caldo ritirarsi, un sorriso sulle labbra.
Giacque lì per un’eternità. Premuta contro la pelle di Tric, la guancia
contro il suo petto. I capelli erano sparsi su di lui, quasi a intessere una
coperta di tessuto nero e delicato come le ombre tutt’attorno. E lì, nel buio
ora immobile, lei sussurrò.
«Ho pagato troppo quel deliziante.»
Attese la replica. Gli attimi si dilungarono in minuti. Alla fine lei sollevò
la testa e si rese conto che Tric stava dormendo, il respiro delicato che gli
sfuggiva dalle labbra socchiuse.
Mia sorrise e scosse il capo. Sporgendosi, gli diede un bacio lungo e
gentile. Avvolse le braccia attorno a lui e chiuse gli occhi con un sospiro di
contentezza, sprofondando finalmente nel sonno.
E mentre scivolava via, le ombre ricominciarono a muoversi.
Dapprima lentamente.
Increspandosi.
Contorcendosi.
Prendendo infine forma in una sagoma sottile quanto un nastro, ora
appollaiata ai piedi del letto.
Un non-gatto, che fissava la ragazza con i suoi non-occhi. Attendeva
paziente, come faceva sempre. L’arrivo dei sogni. La possibilità di dilaniare
e fare a pezzi i terrori che giungevano a tormentarla ogni illuminotte da
quando aveva sentito il suo richiamo. Ogni illuminotte da allora, appollaiato
accanto a lei mentre dormiva. Sempre più forte a ogni boccone.
La cosa chiamata Messer Cortese attendeva. Una pazienza appresa nel
corso delle ere. Un silenzio tombale. Mancava poco. Da un momento
all’altro, lei avrebbe cominciato a piagnucolare. A chiamarlo con un
sussurro. Cos’avrebbe sognato, stanotte? Quelli che erano venuti per
affogarla? Le gambe di suo padre che scalciavano, il volto violaceo, il
gorgoglio? La Pietra Filosofale e gli orrori che aveva trovato all’interno,
Persa nell’oscurità a soli quattordici anni?
Non aveva importanza.
Avevano tutti lo stesso sapore.
Da un momento all’altro, gli incubi sarebbero arrivati.
Da.
Un.
Momento.
All’altro.
Ma per la prima volta da un’eternità, gli incubi non arrivarono.
La ragazza non era spaventata.
E lì, in quell’oscurità vuota, il non-gatto inclinò la testa.
Strinse i suoi non-occhi.
E non fu contento.
Mia aprì gli occhi. Si mise seduta nel letto. Sorrise nell’accorgersi che Tric
era ancora accanto a lei, nudo e magnifico nel bagliore arkemico, le
salciocche sparse sul cuscino.
Ed eccolo di nuovo. Il suono che l’aveva svegliata.
Toc, toc.
Tric si mosse e si accigliò nel sonno. Mia gli toccò la guancia e lui aprì
gli occhi, rendendosi finalmente conto di dove si trovava e mettendosi
seduto di scatto con un sibilo sommesso.
«Madre Nera, mi sono addormentato?»
«Shhh. C’è qualcuno alla porta.»
Mia strisciò giù dal letto. Cercò la sua vestaglia in mezzo al caos e
sorrise nel sentire gli occhi di Tric sul suo corpo. Infilandosi l’indumento di
seta nera attorno alle spalle, si mosse silenziosa fino alla soglia proprio
mentre bussavano di nuovo.
«Corvere» sibilò una voce.
«Ash?» Mia girò la chiave, socchiuse la porta e sbirciò fuori. Si
domandò perché Ash non avesse semplicemente scassinato la serratura
come faceva di solito. Vide la ragazza che attendeva lì fuori, gli occhi
azzurri sgranati al buio. «Che ora è?»
«Quasi la campana mattutina.» La ragazza spinse da parte Mia ed entrò
nella camera, nuvoloni neri addensati sopra la sua testa. «Una delle Mani
me l’ha appena detto. Fottuta Jessamine, quella piccola…»
Soltanto quando fu all’interno notò il disordine. I vestiti e i libri
disseminati per il pavimento. E, oh sì, il ragazzo dweymeri nudo seduto sul
letto di Mia.
«Ah» disse Ash.
Tric la salutò con la mano.
Ash lanciò un’occhiata a Mia, un po’ imbarazzata. «Spiacente, Corvere.»
Mia chiuse la porta affinché nessuno passando lì per caso potesse vedere
Tric nel suo letto. Se qualcuno avesse detto alla Reverenda madre che era
uscito dopo il coprifuoco…
«Hai intenzione di dirmi perché sei qui?»
Ashlinn non aprì bocca. Aveva le labbra socchiuse, non riuscendo a
trovare le parole.
«Cosa?» Mia scrutò nei suoi occhi. «Cos’è successo?»
«Mia…»
«Cazzo, Ash, cosa c’è?»
La ragazza scosse il capo.
Sospirò piano.
«Lotti è morta.»
CAPITOLO 26
CENTO
L’Aula di Verità aveva un odore diverso rispetto alla mattina. Tra marcio e
fiori freschi, erbe secche e acidi, c’era un nuovo aroma che sapeva di
ruggine e soffocava il profumo familiare.
“Sangue.”
Mia si fece largo tra le Mani radunate, seguita da presso da Ash e Tric. I
servitori cercarono di fermarla, ma lei inveì contro di loro e sgomitò finché
una voce dall’interno non gridò: «Lasciateli passare». Mia si ritrovò
all’interno della luce verde dell’aula, gli occhi sgranati dalla rabbia.
Carlotta era riversa sul tavolo da lavoro, con una penna d’oca stretta in
una mano fredda. Una chiazza di scarlatto coagulato ricopriva il tavolo
davanti a lei e si addensava sotto lo sgabello. Il canto del coro spettrale
aleggiava nell’aria assieme alla puzza ferrata di sangue.
La Reverenda madre e Ammazzaragni si trovavano accanto al corpo, e
parlavano in toni sommessi con Solis. Il sorriso abituale di Madre Drusilla
era completamente svanito dal suo volto e Ammazzaragni sembrava perfino
più cupa del solito. Solis fissò l’aria vuota sopra la spalla di Mia quando lei
entrò, il volto lugubre come il pavimento di un mattatoio.
«Mancano ore all’inizio delle lezioni, accoliti» disse Ammazzaragni.
«Non dovreste essere qui.»
«Quella è la nostra amica» disse Mia, indicando il corpo di Carlotta.
Ammazzaragni scosse il capo. «Non più.»
«Com’è morta?» chiese Tric.
«Non è morta» sbraitò Ash. «È stata ammazzata.»
«Gola tagliata» replicò Ammazzaragni. «Molto rapido. Quasi indolore.»
«Da dietro?»
La Shahiid annuì.
«Jessamine» sibilò Mia. «O Diamo. Forse entrambi.»
«Quei fottuti codardi» sussurrò Ash.
Madre Drusilla sollevò un sopracciglio.
«Sapete qualcosa su questa faccenda, accoliti?»
Mia lanciò un’occhiata ad Ashlinn e Tric, poi annuì lentamente.
«Carlotta e Jessamine hanno litigato all’ultimopasto qualche cambio fa,
Reverenda madre. Lotti era prossima a decifrare la formula di
Ammazzaragni, ma Diamo ha distrutto i suoi appunti. Per poco Lotti non ha
rotto il naso di Jessamine, che ha promesso di ucciderla per questo.
Chiedetelo a chiunque. L’abbiamo sentito tutti.»
«Capisco.»
«Lotti ha detto che avrebbe chiesto alla Shahiid Ammazzaragni il
permesso di lavorare fino a tardi per recuperare il lavoro perduto. Jessamine
e Diamo sapevano che sarebbe stata qui.»
«Da quello che stai descrivendo, chiunque fosse presente a
quell’ultimopasto doveva sapere che si trovava qui.»
«Ma Jessamine ha giurato di ucciderla. Di fronte a tutti noi.»
«E questo cosa dimostra, esattamente?» sbottò Solis. «Ricordo l’accolito
Tric qui minacciare di uccidere un altro novizio all’ultimopasto non molto
tempo fa. E quello stesso novizio è stato trovato morto il cambio
successivo.» Solis si voltò verso Tric. «Hai qualcosa da confessare,
accolito?»
«Non ho avuto nulla a che fare con la morte di Chiamapiena, Shahiid. Lo
giuro.»
L’uomo imponente si voltò verso Mia e ridacchiò. «Le minacce vuote
non fanno un assassino.»
«A voi non importa nemmeno che sia morta, vero?» chiese lei.
«Al contrario, accolita, ci importa eccome» disse Madre Drusilla.
«Motivo per cui stiamo indagando accuratamente invece di saltare a
conclusioni ovvie. Jessamine è una persona crudele, vero. Ma credi che sia
tanto sciocca da uccidere una ragazza che ha minacciato apertamente di
fronte a una stanza piena di persone solo poche sere prima?»
«Forse pensava che a nessuno di voi gliene sarebbe fregato nulla? Non
avete esattamente messo a soqquadro questo posto in cerca di indizi quando
hanno tagliato la gola a Chiamapiena. Più della metà di noi sono morti da
allora e nemmeno una lacrima è stata versata, per nessuno di loro.»
Solis le lanciò un’occhiataccia con le sue pupille cieche. «Ti consiglio di
stare attenta ai toni quando parli di persone migliori di te, ragazza. Il tuo
disprezzo per Jessamine è ben noto. Le sconfitte che ti ha inflitto nell’Aula
di Canti sarebbero motivo sufficiente per indurti a diffondere menzogne su
di lei, ora. E se c’è qualcuno tra questa congregazione che avrebbe
beneficiato dalla morte di Carlotta, quella eri tu.»
Mia era sorpresa. Esterrefatta. «Cosa?»
«Hai detto tu stessa che era vicina a risolvere il dilemma di
Ammazzaragni. Se Carlotta avesse preparato l’antidoto, la tua migliore
opportunità di finire prima dell’aula sarebbe andata perduta, no? Di sicuro
hai la stessa probabilità di un soliraggio nel ’bisso di essere vittoriosa
nell’Aula dei Canti.»
«Miserabile…»
«Mia» la ammonì Tric, mettendole una mano sul braccio.
«… spietato…»
«Corvere» borbottò Ash.
«… fottuto…»
«… mia…»
«COGLIONE! » tuonò Mia. «Lei era mia amica! Chi cazzo ti credi di
essere?»
Solis calò il pugno sul tavolo da lavoro e urlò: «Sono uno Shahiid della
Chiesa Rossa! La Lama della Madre su questa terra, trentasei uccisioni
santificate eseguite nel suo nome! E ti giuro che sarai la trentasettesima se
osi rivolgerti di nuovo a me così!»
Mia fece un passo avanti con il petto che le ardeva di rabbia. Sapeva
meglio di chiunque cosa significava far arrabbiare Solis. Ma era comunque
incurante, perfino impavida, mentre Messer Cortese inghiottiva intera la sua
cautela. Tric e Ash l’afferrarono per le braccia e la tennero sotto controllo.
Ma fu la voce della Reverenda madre che portò infine il silenzio nella
stanza.
«Dov’eri ieri sera, accolita?»
Drusilla inclinò la testa e scrutò il corpo di Carlotta.
«Attorno alla terza campana?»
Saliva sulle labbra di Mia. Occhi stretti. Mascella serrata. «A letto,
naturalmente.»
«Allora non c’è nessuno che possa confermare dove ti trovavi.»
«… No.»
La Reverenda madre la fissò con un freddo sguardo azzurro.
«Interessante.»
«Perché è interessante?»
«Ho fatto prendere aria ad alcune gole, ai miei tempi.» Drusilla accennò
al cadavere di Carlotta. «Dall’aspetto della ferita, ipotizzo che l’assassino
sia mancino.»
Sulla sala calò il silenzio. Ashlinn e Tric si scambiarono occhiate
inquiete e il sudore sulla pelle di Mia cominciò a raffreddarsi. La Madre
stava guardando dritto verso di lei.
«Jessamine è ambidestra» disse Mia. «Combatte egualmente bene con
ciascuna mano.»
«E qual è la tua mano preferita, accolita?»
«… La sinistra, Madre Drusilla.»
L’anziana fece un cenno verso la scrivania. Mia notò un debole contorno
nello schizzo di sangue, come se ci fosse stato un oggetto rettangolare di
fronte a Lotti mentre le veniva tagliata la gola, riparando il tavolo da una
parte dello spruzzo.
«È evidente che Carlotta stava lavorando su qualcosa mentre è stata
assassinata. Pare simile alla forma di un libro. Un diario, forse. Tu non ne
sai nulla, vero, accolita?»
«Carlotta vi teneva i suoi appunti sull’antidoto di Ammazzaragni. Lo
sapevano tutti.»
La Reverenda madre inclinò la testa. «Interessante.»
Mia sostenne lo sguardo dell’anziana senza sbattere le palpebre. La voce
di Ammazzaragni infranse il silenzio.
«Abbiamo del lavoro da fare, accoliti. Voi dovreste andare al vostro
primopasto. Ci vedremo qui per Verità all’ora della lezione.»
Ash prese per mano Mia e la trascinò fuori dall’aula. I tre consumarono
un primopasto silenzioso all’Altare del Cielo, lo sguardo torvo di Mia fisso
su Diamo. Il grosso Itreyano la osservava con occhi freddi e morti,
sfidandola a fare la sua mossa. Jessamine non si vedeva da nessuna parte.
Mia digrignò i denti. Il cibo sapeva di polvere e morte nella sua bocca.
Non udiva i sussurri di Ash. Il sangue le pulsava nelle orecchie. Tric
insisteva per farsi avanti e testimoniare che aveva passato la notte nel letto
di Mia. Che lei non poteva aver ucciso Carlotta. Ma la sessione di Tric con
la Tessitrice era terminata ben oltre la nona campana: aveva avuto una
dispensa solo per tornare nella sua camera, non certamente per andare in
quella di Mia. Perciò alla fine lei lo supplicò di mantenere il silenzio. Non
aveva senso che Tric rischiasse la tortura fin quando lei non si fosse resa
conto di quanto era bollente l’acqua in cui nuotava.
Durante la lezione nell’Aula di Verità, Mia non riuscì a staccare gli occhi
dalla sedia vuota di Carlotta. Dalla sbiadita macchia di sangue che perfino
l’arkemia di Ammazzaragni non era riuscita a cancellare dal tavolo da
lavoro in legnoferro. Immaginò gli ultimi istanti della ragazza. Curva sul
suo quaderno. La testa tirata indietro da una mano rapida. I brevi secondi di
terrore tra il momento in cui aveva sentito la lama e quello in cui l’oscurità
si era impadronita di lei.
Mia fissò Jessamine, che si era unita alla classe solo pochi secondi prima
dell’inizio. Una promessa silenziosa le riecheggiò nella testa.
“Questa sarà la tua fine, puttana…”
«Mia Corvere.»
Mia sbatté le palpebre. Alzò lo sguardo dalla faccia di Jessamine e trovò
la Reverenda madre Drusilla sulla porta dell’aula, circondata da mezza
dozzina di Mani.
«… Sì, Madre Drusilla?»
«Devi venire con noi immediatamente.»
Due Mani vestite di nero presero Mia per le braccia, una ciascuna. La
ragazza protestò mentre la trascinavano via dallo sgabello e la facevano
marciare senza tante cerimonie verso la porta. Udì le rimostranze di Tric,
una zuffa, un ordine urlato dalla Reverenda madre. Allungando il collo,
vide l’anziana procedere dietro di lei, circondata da sinistre figure in nero. Il
suo sguardo era di un freddo azzurro ghiaccio.
«Madre Drusilla, dove mi state portando?»
«Nelle mie stanze.»
«Perché?»
«Un’inquisizione.»
«Per cosa?»
«Per l’omicidio di Carlotta Valdi.»
Ore dopo, qualcuno bussò alla sua porta e Mia si riscosse dalla danza
arkemica nella sua testa, guardando nella luce fioca. Aveva
inconsapevolmente fumato uno dopo l’altro la metà dei sigaretti che le
rimanevano, e la tazza accanto al suo letto era colma di cenere. Si sentiva la
gola infiammata e la testa che ondeggiava. Spense il mozzicone della sua
paglia con una smorfia.
«Denti della Mannaia, devo fumare di meno.»
«… ci sono cose più pericolose attorno a te da metterti in bocca…»
Messer Cortese la scrutò attraverso quella coltre grigia.
«… ragazzi dweymeri, per esempio…»
«Ma bravo. Ci stavi lavorando da un po’, eh?»
«… buona parte di ieri sera…»
«Tempo ben speso, allora.»
«… ci sono modi più pericolosi che potrei…»
«D’accordo, d’accordo. Basta. L’ultima cosa che mi occorre sentire
prima della mia esecuzione sei tu che critichi la mia scelta in fatto di peni.»
«… aggeggi ridicoli, tutti quanti. se fosse mai necessaria una prova
della cattiveria del vostro creatore, basta guardare tra le gambe di un
adolescente medio…»
Toc, toc, toc.
«Accolita. Sei convocata nella Sala degli Elogi.»
Mia si alzò dal letto. Non c’era paura nella sua pancia. Il battito del
cuore era regolare. Aveva nascosto una dozzina di lame sulla sua persona,
determinata a morire combattendo, se si fosse arrivati a quello. Si domandò
cosa l’attendeva sotto lo sguardo della statua.
Sei Mani attendevano fuori dalla porta della sua camera, i cappucci tirati
sopra gli occhi. Lo Shahiid Mouser era in mezzo a loro, con la sua lama di
neracciaio alla cintura. Ma il suo familiare sorriso da argenteria non si
vedeva da nessuna parte.
«Shahiid» annuì Mia.
«Vieni con noi, accolita.»
Mia fu guidata lungo il corridoio verso la Sala degli Elogi. Poteva
percepire Messer Cortese nella sua ombra, che beveva la sua paura con
quanta più velocità possibile. Tuttavia, ora stava cominciando a filtrare.
Sudore sui palmi. Un senso di leggerezza nello stomaco. Non sarebbe morta
in ginocchio come una bambina piagnucolante. Aveva lavorato così
duramente. Era arrivata così lontano. Sarebbe incespicata e caduta
all’undicesima ora su qualcosa del genere?
L’oscurità si gonfiava attorno a lei, premendo da tutti i lati. Reagiva alla
sua rabbia crescente. Alla sua ansia che sbocciava. Era al suo comando, se
l’avesse desiderato. Se solo avesse avuto la volontà di protendersi ad
afferrarla. L’aveva fatto in precedenza. Non molto tempo fa. Quando aveva
quattordici anni. Mura di pietra. Urla nell’aria. Sangue sulle sue mani.
“Non guardare.”
Il Culto era radunato sotto lo sguardo di granito di Niah. Anche gli
accoliti. Uno in meno rispetto all’ultima volta che erano stati riuniti qui.
Tric la stava guardando, e il suo volto tradiva sofferenza. Lei scosse il capo
e chiuse con forza le labbra. Senza parlare, lo avvisò di fare lo stesso.
La luce dai vetri colorati si riversava sul pavimento, rosso sangue e
bianco spettrale, con il coro che cantava in sottofondo. Mia venne
accompagnata fino a un posto vuoto davanti al Culto. Le facce degli
Shahiid lì riuniti erano torve, quella della Reverenda madre la più cupa di
tutte.
«Accolita Mia. Il Culto si è consultato a lungo sulla morte dell’accolita
Carlotta. Pur mancando una prova definitiva della tua colpevolezza, il
sangue trovato nella tua stanza e il fatto che l’assassino fosse mancino non
possono essere ignorati. Inoltre, il tuo movente è irrefutabile. Con la morte
dell’accolita Carlotta, tu hai la migliore possibilità di finire prima nell’aula
di Ammazzaragni. A parte le parole che hai già pronunciato stamattina, hai
qualcosa da aggiungere in tua difesa?»
Mia esaminò le facce degli Shahiid lì riuniti. Lo sguardo cieco di Solis.
La bellissima maschera di Aalea. Avevano preso la loro decisione. E
implorare semplicemente non era da lei.
«No, Reverenda madre» replicò.
«Molto bene. Alla luce delle prove, e senza nessuna testimonianza
convincente del contrario, la tua colpevolezza è confermata. Vista la natura
dei tuoi studi qui e la maestria con cui l’omicidio è stato commesso, ti sarà
risparmiata l’esecuzione. Comunque, eravate stati avvisati espressamente
che uccidere i vostri compagni era proibito, pertanto una punizione
dev’essere inflitta. Subirai la flagellazione del sangue. Cinquanta frustate.»
Mia strinse i denti contro l’improvviso impeto di paura, con Messer
Cortese che si gonfiava nella sua ombra. “Denti della Mannaia, cinquanta
frustate.” Zitto ne aveva ricevute la metà e la cosa l’aveva quasi ucciso.
Lanciò un’occhiata al ragazzo dagli occhi azzurri, all’estremità del
semicerchio degli accoliti. Giurò che le avesse rivolto un lieve cenno del
capo. La voce di sua madre le risuonava nella testa.
“Mai tirarsi indietro. Mai avere paura. E mai, mai dimenticare.”
I suoi occhi incontrarono quelli di Tric e lei scosse di nuovo il capo. Non
aveva senso che lui si facesse avanti per essere punito ora. Malgrado tutte le
loro chiacchiere sulle regole, questa era una scuola per assassini: almeno il
crimine di cui Mia era ritenuta colpevole aveva un certo grado di credibilità.
Ma la violazione palese del coprifuoco della Madre solo per un piccolo,
ansioso bocca a bocca?
“Lo spellerebbero vivo. Letteralmente.”
«Inoltre,» continuò Drusilla «dal momento che la tua motivazione per
questo crimine era il desiderio di ottenere un vantaggio in Verità, sei testé
bandita dalla competizione di Ammazzaragni e non potrai gareggiare per il
piazzamento al primo posto nella sua aula.»
Mia si afflosciò come se la madre le avesse dato un pugno in pancia.
Terminare al primo posto a Verità era la sua migliore probabilità per
l’iniziazione, e tutti lo sapevano. Senza la competizione di Ammazzaragni,
Mia avrebbe potuto non diventare mai una Lama. Cosa le sarebbe successo?
Sarebbe stata relegata a viaggiare fino a Ultima Spes con Naev oppure a
occuparsi di una pozza di sangue in un posto sperduto come Carrion Hall o
Elai? In che modo avrebbe potuto sperare di vendicarsi di Scaeva e degli
altri come una semplice servitrice?
Mia guardò le facce attorno a lei. Solis sorrideva. Jessamine ghignava
come se avesse ricevuto i suoi Gran Tributi tutti assieme. Diamo stava
praticamente sbavando dalla trepidazione. Madre Drusilla annuì alle Mani
ai lati di Mia, che la presero ciascuna per un braccio. Tutto ciò che lei riuscì
a fare fu trattenersi. Il buio tremolò quando lei strinse i denti, lasciandosi
condurre agli anelli di ferro alla base della statua e notando Marielle e
Adonai nelle ombre. Il volto dell’Oratore era inespressivo, ma le labbra
sanguinanti della Tessitrice erano spaccate in un sorriso.
Si stava facendo scrocchiare le nocche.
Le Mani le afferrarono la camicia e Mia si tese quando si prepararono a
strappargliela dalla schiena. Guardò la dea sopra di lei, quegli occhi vuoti
che la seguivano ovunque andasse.
“Dammi la forza…”
«Fermatevi.»
Mia sospirò. Sollievo e rabbia in egual misura.
“Quel maledetto idiota…”
Mia si voltò. Tutti gli occhi erano puntati su Tric. Il ragazzo si era fatto
avanti e fissava gli Shahiid riuniti. «Madre Drusilla, interrompete tutto
questo.»
«Torna in fila, accolito. La sentenza è stata pronunciata. Sarà eseguita.»
«Tric, no» sibilò Mia.
«La sentenza è sbagliata. Mia non avrebbe potuto uccidere Carlotta.»
«Non sono interessata alla tua valutazione del suo carattere, accolito.»
«Non sto parlando del suo dannato carattere» sbottò Tric. «Mia non
avrebbe potuto uccidere Carlotta ieri sera senza che io lo sapessi.»
«E come mai?»
«Tric, fermati!»
Tric ignorò la supplica di Mia e scoccò un’occhiata alla Tessitrice. Aveva
le labbra secche. Ma pur sapendo quale poteva essere la punizione, il
ragazzo parlò comunque.
«Perché ero con lei nella sua stanza.»
I membri del Culto si scambiarono occhiate, tranne Solis che stava
fissando torvo il soffitto. Drusilla spostò lo sguardo su Marielle e suo
fratello, poi di nuovo su Tric.
«Ammetti di essere stato fuori dalle tue stanze dopo la nona campana?»
«Sono stato fuori tutta la notte. Ash può confermarlo. Mi ha visto nel
letto di Mia stamattina.»
Drusilla si voltò verso Ashlinn. «È vero, accolita?»
Ashlinn si morse il labbro, poi annuì con riluttanza. «Sì, Reverenda
madre.»
«Perciò Mia non avrebbe potuto uccidere Lotti» proseguì Tric.
«Malgrado le vostre “prove”. Non potete escluderla dalla competizione di
Ammazzaragni. Sono stato a letto con lei per tutto il tempo.»
«E perché non ci hai informato prima di ciò?»
«Perché gli ho chiesto io di non farlo» disse Mia.
«Non potete estromettere Mia dalla prova di Ammazzaragni» insistette
Tric. «Diventare una Lama significa tutto per lei. Non ha commesso lei
l’omicidio.»
Drusilla guardò verso Mia. Il Culto verso la Madre.
La ragazza trattenne il fiato, minuti che scorrevano come anni. Il coro
spettrale cantava il suo inno nel buio, mentre il sangue pulsava a un ritmo
forsennato nelle vene di Mia. I membri del Culto parlarono tra loro in toni
sommessi, botta e risposta: tutto ciò per cui Mia aveva lavorato era in
bilico. Avrebbe potuto baciare Tric. Avrebbe potuto dargli un pugno. Ma lui
era un avversario. Quella era la prima, l’ultima e la costante realtà. Lei non
lo amava. Lui non amava lei. Non c’era posto per l’amore qui nel buio, ed
entrambi lo sapevano. Perché aveva rischiato così tanto per lei, quando lei
non avrebbe mai fatto lo stesso per lui?
Madre Drusilla infine parlò, placando il tumulto nella mente di Mia.
«Molto bene» disse l’anziana. «Alla luce di questa nuova prova, pare che
la colpevolezza dell’accolita Mia non sia assicurata e la sua punizione
potrebbe essere ingiustificata. E malgrado sia giunta in modo tardivo, il
Culto deve lodare l’accolito Tric per la sua sincerità. Tale coraggio
dev’essere encomiato, se considerato alla luce del suo prezzo.»
Drusilla si voltò verso le Mani accanto a lei.
«Legatelo.»
Le figure ammantate circondarono Tric e lo trascinarono alla base della
statua mentre Drusilla continuava a parlare. «Purtroppo, accolito Tric,
sincerità a parte, pare che la punizione inferta all’accolito Zitto non sia stata
un incentivo sufficiente a dissuadere i novizi dall’infrangere il coprifuoco.
Forse la tua stessa punizione preverrà ulteriori disobbedienze.»
Si voltò verso Marielle.
«Cento frustate.»
Un mormorio si diffuse per la fila di accoliti mentre il volto di Tric
impallidiva. Perfino se Adonai gli avesse impedito di dissanguarsi, perfino
se Marielle non l’avesse fatto morire, il dolore di cento frustate l’avrebbe
sicuramente ucciso. Dopo tutto ciò che aveva passato, tutto quello che
aveva già sofferto, Tric sarebbe finito qui, nelle viscere di questa montagna
nera, urlando in preda alla follia e implorando la morte.
Lui aveva rischiato tutto per lei. Aveva detto la verità, pur sapendo
quanto sarebbe costata.
Sapendo che lei non avrebbe mai fatto lo stesso a parti invertite.
«Reverenda madre» interloquì Mia. «Aspettate.»
Un freddo sguardo azzurro si voltò sulla ragazza. «Accolita?»
Lei prese un respiro profondo. L’ombra si mosse ai suoi piedi.
“… Non l’avrebbe mai fatto?”
«Ho chiesto io a Tric di venire nella mia stanza. La colpa è almeno per
metà mia.» La ragazza si fece forza. «Dovrei subire metà della punizione.»
La sala era silenziosa come una tomba. La Reverenda madre guardò
lungo la fila di Shahiid, domandandolo a ciascuno di loro senza parlare.
Mouser scrollò le spalle. Solis scosse il capo, quasi stesse suggerendo che
guardare Tric che veniva fustigato avrebbe fatto più male a Mia che non
subire lei stessa quella punizione. Ma Aalea annuì, e così fece
Ammazzaragni, gli occhi scuri fissi su Mia. Drusilla premette le dita contro
le labbra, aggrottando la fronte mentre rifletteva.
«Legateli entrambi» disse infine.
Le Mani scortarono Tric alla statua e gli bloccarono i polsi. Mia guardò
torvo Tric per tutto il tempo, scrollando la testa. Il ragazzo la fissò a sua
volta, il viso tirato ed esangue.
«Idiota» sussurrarono simultaneamente.
Mia sentì che la camicia le veniva strappata via. Fu premuta contro la
pietra: la roccia fredda sotto di lei le fece accapponare la pelle nuda.
Guardando dietro di sé, vide Adonai e Marielle in piedi alle sue spalle. La
sua paura stava cominciando a superare l’appetito di Messer Cortese. Le
sue pulsazioni accelerarono.
“Ma come dev’essere per Tric?”
Sembrava che il ragazzo non riuscisse a respirare abbastanza
velocemente, prendendo lunghe boccate tra denti serrati che gli sollevavano
il petto. Gli occhi sgranati erano fissi sulla pietra nera a cui era legato. Mia
si tese contro le manette, finché le punte delle sue dita non trovarono quelle
di Tric e strinsero forte.
«Reggiti a me» sussurrò.
Tric sbatté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi. Annuì. Poi le
Mani si avvicinarono alle loro spalle e legarono delle bende attorno agli
occhi di entrambi gli accoliti, oscurando completamente la luce.
Mia sentì la mano di Tric stringere forte, schiacciandole le dita. Seppe
con esattezza dove si trovava lui. Quattordici anni. Legato all’albero fuori
dalla casa di suo nonno. Al buio, aspettando di essere colpito dal sasso
successivo. Dal prossimo schiaffo. Da un altro sputo.
Bastardo. Figlio di puttana. Koffi.
«Messer Cortese» sussurrò lei.
«… no, mia…»
«Aiutalo.»
«… e se aiuto lui, chi aiuterà te…?»
Mia percepì le Mani controllare le manette ai suoi polsi. Udì passi
allontanarsi. Tric le stava stringendo le dita così forte da farle male.
«Mi hai detto tu che per dominare l’oscurità di fuori, prima devo
affrontare quella dentro…»
«… non qui. non così…»
«Se non qui, allora quando?»
Avvertì la sua ombra rabbrividire. La paura dentro di lei crebbe.
«Posso farcela» sibilò.
La Tessitrice Marielle fece scrocchiare le nocche.
La voce di Madre Drusilla riecheggiò nel buio della benda.
«Comincia.»
Un momento vuoto, interminabile.
«… come ti compiace…»
L’oscurità si increspò attorno ai suoi piedi per un ultimo addio. Poi
Messer Cortese scomparve, scivolando lungo la pietra nera fin dentro
l’ombra di Tric. Mia udì il respiro del ragazzo farsi un po’ più calmo, la
stretta violenta sulle sue dita allentarsi quando il non-gatto si avventò sulla
paura del ragazzo. Lì, premuta contro quella pietra gelida, malgrado il
supplizio ormai prossimo, Mia si ritrovò a sorridere. Il silenzio riecheggiava
nella sala, profondo come i secoli. Il mondo tratteneva il fiato.
E poi la Tessitrice serrò i pugni.
Il colpo fu come fiamma incandescente e rasoi arrugginiti. Limone e sale
strofinati su una ferita appena aperta e sanguinante, squarciata in quattro
strisce seghettate lungo la sua schiena. Il dolore le fece ritrarre le labbra dai
denti in un urlo silenzioso.
Ogni muscolo si tese. La sua schiena si strappò come carta. Mia sgroppò
contro la pietra e la sua stretta sulle dita di Tric si serrò mentre la paura si
riversava nello spazio vuoto lasciato dall’affievolirsi della frustata. Grandi
ondate di gelo si schiantarono sopra la sua testa e la trascinarono in basso.
Ogni secondo si allungava in un’eternità. Ogni momento passato ad
attendere l’arrivo del colpo seguente era esso stesso un’agonia. Si ritrovò a
pregare che giungesse, solo perché quella pausa terminasse. E poi calò,
dilaniandole la schiena in quattro linee di dolore perfetto.
Gettò la testa all’indietro. Con la bocca aperta ma rifiutandosi di urlare.
Non avrebbe dato loro quella soddisfazione. Jessamine e Diamo. Solis.
Poteva percepire i loro sguardi. Avvertire i loro sorrisi. Il sangue le scorreva
caldo e denso lungo la schiena, addensandosi nell’ombra vuota ai suoi
piedi. La Tessitrice colpì di nuovo, il suono di fruste invisibili che
schioccava nell’aria, il dolore incandescente. Tuttavia lei si resse alla mano
di Tric, aggrappata a quell’unico pensiero bruciante; che nonostante quanto
facesse male
(crac)
nonostante quanto lei volesse
(crac)
non avrebbe mai
(crac)
permesso che loro
(crac)
la
(crac)
sentissero
(crac)
urlare.
Ma al decimo colpo aveva perso la stretta sulla mano di Tric. Al
dodicesimo perse quella sul suo terrore e l’urlo le uscì dalle labbra, lungo,
fievole e tremolante. Riusciva a sentire la mano di Tric che cercava la sua a
tentoni, ma Mia chiuse le dita in un pugno. Abbassò il mento e premette la
fronte contro la pietra. Niente stampelle. Niente passeggeri. Nessuno
accanto a lei. Nessuno dentro di lei. Solo lei (crac) e il dolore (crac) e la
paura (crac). Tutte quante una cosa sola.
Adesso aveva le vertigini. Era ancora sveglia ma fluttuava da qualche
parte tra la consapevolezza e l’oblio dagli stregoni e la loro magia. Dopo la
ventesima staffilata si profilò una breve pausa e il calore fluì su per le sue
gambe, rientrando nelle vene spezzate e nelle arterie squarciate, ponendo
fine all’inverno che minacciava di sopraffarla. Udì il sussurro di Tric da un
punto lontano
“Mia, riprendilo”
grattando la fronte contro la pietra, sangue nei suoi occhi
“Mia, per favore…”
Il buio ora incombeva davanti a lei. L’incubo in agguato dietro il muro
del sonno. E quando la Tessitrice colpì ancora, il dolore avvampò di nuovo
e le strappò un urlo privo di parole dalla gola, mentre la parete cominciava a
sgretolarsi. La veglia non poteva tenerli a bada, qui sull’orlo dell’oblio.
Nessun umbragatto appollaiato sopra il letto, a impedire l’arrivo degli
incubi con i suoi non-occhi. Solo lei. La piccola Mia Corvere. Da sola al
buio mentre questo diventava sempre più profondo, la paura che affluiva
rapida, la follia che si insinuava sempre più vicina. E lì, in quell’oscurità
sottilissima, con così poco tra lei e loro e tra loro e lei, vide infine da
sveglia le cose che avevano tormentato il suo sonno per tutti questi anni.
(crac)
Non fantasmi.
(crac)
Non incubi.
(crac)
(crac)
(crac)
Ricordi.
CAPITOLO 27
VEROBUIO
Non guardare.
Mia si mosse furtiva per i corridoi di pietra insanguinata, circondata da
un’oscurità così profonda da riuscire a malapena a vedere. Corpi.
Ovunque. Uomini strangolati e pugnalati. Picchiati a morte con le loro
stesse catene e bastonati con i loro stessi arti. Il suono di omicidio
riecheggiava tutt’attorno, la puzza di interiora aleggiava densa nell’aria.
Forme vaghe le corsero davanti, aggrovigliandosi e urlando sul pavimento.
Le urla risuonavano da qualche punto distante, dove il buio non le
permetteva di udire.
Si intrufolò dentro la Pietra Filosofale come un coltello tra le costole.
Questa prigione. Questo mattatoio. Superò le celle aperte, scendendo in
posti più silenziosi dove le porte erano ancora sigillate, dove i prigionieri
che non desideravano tentare la sorte nella Calata erano ancora rinchiusi,
affamati e macilenti. Gettò da parte il manto d’ombra per poter vedere
meglio, scrutando attraverso le sbarre quegli spaventapasseri ossuti, quei
fantasmi dallo sguardo vuoto. Riusciva a capire perché quelle persone
volessero rischiare tutto in quell’orrendo stratagemma del senato. Meglio
morire combattendo che restare qui al buio a crepare di fame. Meglio
alzarsi e cadere che restare in ginocchio e vivere.
A meno che, naturalmente, non avessi un bimbo di quattro anni
rinchiuso con te…
Gli spaventapasseri urlarono quando la videro, pensando che fosse uno
spettro Senzafuoco venuto a tormentarli. Mia percorse tutto quanto il
blocco di celle, gli occhi sgranati. Ora provava disperazione. Paura,
malgrado il gatto nella sua ombra. Dovevano essere qui da qualche parte,
giusto? Di sicuro Domina Corvere non avrebbe trascinato suo figlio nella
carneficina lì sopra per una vaga possibilità di sfuggire a questo incubo…
Giusto?
«Madre!» chiamò Mia, le lacrime agli occhi. «Madre, sono Mia!»
Corridoi interminabili. Buio privo di ogni luce. Sempre più in profondità
nell’ombra.
«Madre?»
«… cercherò negli altri corridoi. così sarà più rapido…»
«Non allontanarti.»
«… non temere…»
Mia provò un brivido quando Messer Cortese si avviò balzelloni lungo il
corridoio. L’oscurità la accerchiò e lei staccò una torcia tremolante dalla
parete, le ombre che danzavano. Sentì una paura fredda insinuarsi nelle
viscere, ma strinse i denti e la ricacciò indietro. Il suo respiro accelerò. Il
cuore le martellava mentre vagava per un corridoio dopo l’altro,
chiamando con quanto volume osava.
«Madre?»
Sempre più all’interno della Pietra.
«Madre!»
E infine riuscì a trovare la strada per la fossa più profonda. Il buco più
cupo.
Un posto che la luce non aveva mai toccato.
Non guardare.
«Bel fiorellino.»
La ragazza strinse gli occhi al buio. Il cuore si serrò al suono della sua
voce.
«… Madre?»
«Bel fiorellino» giunse il sussurro. «Bella, bella.»
Mia venne avanti nella luce tremolante della torcia e scrutò tra le sbarre
di una cella lurida. Pietra umida. Paglia marcia. Il fetore di mosche, merda
e marcio. E lì, raggomitolata nell’angolo, magra come uno stecco e avvolta
di stracci e ciocche fradicie dei suoi stessi capelli aggrovigliati, la vide.
«Madre!»
Anche se teneva la mano sollevata contro la luce, trasalendo, il sorriso
di Domina Corvere era giallo, instabile e troppo ampio.
«Bellina» sussurrò. «Bellina. Ma non ci sono fiori qui, no. Non cresce
nulla. Cos’è lei?» Occhi sgranati cercarono nell’oscurità, guardando
ovunque tranne la faccia di Mia. «Cos’è lei?»
«Madre?» Mia si avvicinò alle sbarre con passi esitanti.
«Niente fiori, no.»
Domina Corvere dondolava avanti e indietro, chiudendo gli occhi per
non vedere la luce.
«Tutto svanito.»
La ragazza posò la torcia e si inginocchiò accanto alle sbarre. Guardò
lo scheletro tremante all’interno e il suo cuore si frammentò in un milione
di schegge scintillanti. Troppo.
Aveva aspettato troppo.
«Madre, non mi riconosci?»
«Non me» sussurrò lei. «Non lei. No. No.»
La donna artigliò le pareti con dita insanguinate. Mia vide decine di
segni sulla pietra, tracce di scarlatto secco e unghie rotte. Uno schema di
follia, intagliato con le mani nude di Domina Corvere. Un conteggio del
tempo interminabile che aveva trascorso a marcire qui.
Erano passati quattro lunghi anni da quando Mia l’aveva vista, ma non
così tanto da non poter ricordare la bellezza di sua madre. Un’intelligenza
più affilata della lama di un duellante. Un carattere che faceva tremare il
terreno su cui camminava. Dov’era quella donna, adesso? La donna che
aveva tenuto Mia contro le sue gonne perché non potesse distogliere lo
sguardo? Che l’aveva costretta a fissare suo padre che penzolava e ruotava
in fondo alla corda? Mentre il cielo stesso piangeva?
Mia poteva udire la voce di Scaeva nella testa, un’eco del cambio in cui
suo padre era morto.
«E quando diventerai cieca al buio, la dolce Madre Tempo rivendicherà
la tua bellezza e la tua volontà, assieme all’esile convinzione di essere mai
stata qualcosa di più di merda liisiana avvolta in seta itreyana.»
Domina Corvere scosse il capo, masticando ciocche arruffate dei propri
capelli. Un tempo in quella chioma corvina scintillavano gemme e oro, ma
adesso era piena di pulci e punteggiata di paglia marcia. Mia allungò la
mano attraverso le sbarre. La protese quanto più poteva.
«Madre, sono Mia.»
I suoi occhi erano pieni di lacrime. Il labbro inferiore tremolava.
«Per favore, Madre, io vi amo.»
A quelle parole, Domina Corvere sussultò. Sbirciò tra dita insanguinate.
Nelle profondità frammentate delle sue pupille avvampò una luce di
comprensione. Qualche residuo della donna che era stata si fece strada fino
in superficie. La donna che un tempo ogni senatore aveva temuto. I suoi
occhi si riempirono di lacrime.
«Tu sei morta» mormorò. «Io sono morta con te?»
«Madre, no, sono io.»
«Ti hanno affogata. La mia bellissima ragazza. La mia bambina.»
«Madre, per favore» la implorò Mia. «Sono venuta a salvarvi.»
«Oh, sì» sussurrò lei. «Portami al Focolare. Fammi sedere e lasciami
dormire. Solo le Figlie sanno se non mi sono meritata il riposo.»
Mia sospirò. Le si spezzava il cuore. Aveva le lacrime agli occhi. Ma no.
Non c’era un secondo da perdere. Avrebbe avuto tempo a sufficienza per
occuparsi delle ferite di sua madre quando fossero state lontane da qui.
Tempo a sufficienza quando loro…
… loro…
Mia sbatté le palpebre al buio. I suoi occhi perlustrarono la cella.
«Madre, dov’è Jonnen?»
«No» sussurrò lei. «Niente fiori. Nulla cresce qui. Nulla.»
«Dov’è mio fratello?»
La donna articolò parole prive di forma. Le labbra sbatacchiavano. Si
artigliò la pelle e conficcò le mani tra i capelli aggrovigliati. Digrignò i
denti e chiuse gli occhi quando le colarono lacrime lungo le guance.
«Andato» mormorò. «Con suo padre. Andato.»
«No.» Mia scosse il capo e si toccò il petto dolorante. «Oh, no.»
«Oh, Figlie, perdonatemi.»
Ci volle tutto quello che aveva. Ogni oncia di se stessa. Ma Mia spinse
da parte la sofferenza. La schiacciò sotto il tacco dello stivale. Ricacciò
indietro le lacrime brucianti. Cercò di non ricordare le illuminotti in cui
aveva tenuto il fratellino tra le braccia, cantando per zittire i suoi vagiti.
Ignorando i gemiti febbrili di sua madre, esaminò la pesante serratura sulla
porta della cella. Tirò fuori un grimaldello dalla cintura e si mise al lavoro
come le aveva insegnato Mercurio. Si concentrò su quel compito. Sul
conforto di quei movimenti meccanici. L’oscurità attorno a lei tremolò. Le
urla di omicidi distanti divennero più forti. Più vicine?
Non guardare.
La mano di sua madre serpeggiò fuori dalle ombre. Si avvolse attorno al
polso di Mia. La ragazza sussultò, ma Domina Corvere tenne stretta sua
figlia. Sibilò con un alito marcio.
«Come posso toccarti se sei morta?»
«Madre, non sono morta.» Afferrò l’altra mano della donna e se la portò
al volto. «Vedi? Sono viva. Come te. Viva.»
Domina Corvere le strinse il polso così forte da farle male.
«Oh, dio» mormorò. «Oh, mai. Niente fiori…»
«Zitta ora. Dobbiamo farti uscire di qui.»
«Il mio bambino» strillò lei. «Il mio dolce, piccolo Jonnen. Se n’è
andato. Andato.»
Lacrime colarono lungo guance luride. Un sussurro, delicato come la
neve.
«Anche la piccola Mia è morta.»
«No, sono qui.» Mia baciò quelle dita lacere e sanguinanti. «Sono io,
Madre.»
«… mia, il campo è libero, dobbiamo sbrigarci…»
Messer Cortese si materializzò sul pavimento accanto a lei: il suo
sussurro giungeva dall’oscurità. Domina Corvere lanciò uno sguardo
all’umbragatto e sibilò come se fosse stata scottata. Si ritrasse dalle sbarre
nell’angolo più lontano, mostrando i denti in un ringhio.
«Madre, va tutto bene! È mio amico.»
«Occhi neri. Mani bianche. Oh, dio, no…»
«… mia, dobbiamo andare…»
«Lui è dentro di te» sussurrò la domina. «Oh, Figlie, è dentro di te.»
A Mia tremavano le mani. La serratura non voleva cedere. Era
arrugginita e piena di sporcizia. Domina Corvere era nell’angolo, con tre
dita sollevate verso Messer Cortese: il gesto di protezione di Aa contro il
male. Mia poteva udire il caos sopra di loro, le urla dei moribondi, il
sangue denso nell’aria. Allora fu pervasa dalla rabbia nel vedere la
sofferenza a cui sua madre era stata sottoposta, il relitto in cui l’avevano
trasformata. I soli erano ben al di sotto dell’orizzonte, adesso, e il potere
del verobuio lì fuori cresceva nelle sue ossa. Senza pensare, sollevò
entrambe le mani, il volto distorto mentre le ombre tremavano. Oscurità
liquida serpeggiò attorno alle sbarre, tirando con forza. Il ferro gemette
mentre veniva staccato dai suoi alloggiamenti, e la cella si aprì quando le
sbarre si spezzarono come ramoscelli secchi. Mia passò attraverso il buco
che aveva creato e protese la mano.
«Tu sei sua» sibilò sua madre. «Sei sua.»
«… mia, dobbiamo andare…»
«Madre, venite con me.»
Domina Corvere scosse il capo. I suoi occhi erano pieni d’orrore. «Tu
non sei la mia bambina.»
Mia afferrò la mano della madre. La donna urlò, cercando di staccarsi,
ma Mia la tenne stretta. Legandola con nastri d’oscurità, Mia la trascinò in
piedi e fuori dalla cella. Alinne Corvere non sembrava riconoscere più sua
figlia e si contorceva nella stretta di Mia. Ma la ragazza tenne duro,
tirandola lungo i corridoi e su per le scale fino ai bastioni in alto. L’odore
della carneficina era sempre più intenso, il canto dell’omicidio sempre più
forte. E quando cominciarono a farsi strada tra i cadaveri, i gemiti della
domina divennero urla. Gli occhi iniettati di sangue si stringevano nella
luce ardente. La bocca era aperta.
Urlava.
«… deve stare zitta…!»
«Madre, smettetela, ci sentiranno!»
«Lasciami andare! LASCIAMI ANDARE!»
«… mia…!»
Un uomo sbucò dall’oscurità più avanti, un paio di manette
insanguinate strette nel pugno. Avvistandole, ruggì e caricò lungo il
corridoio. Mia si voltò verso di lui con un guizzo del polso. Le ombre si
dispiegarono, afferrando l’uomo e sbalzandolo contro la parete. Quello
crollò in ginocchio, sanguinante e frastornato, mentre altri due galeotti
svoltavano un angolo. Erano poco più che adolescenti, le facce imbrattate
di sangue. L’oscurità si agitò al comando di Mia, sbattendoli via come se
fossero fatti di stracci. Ma, nell’occuparsi dei ragazzi, Mia aveva allentato
la stretta su sua madre e Domina Corvere si liberò, allontanandosi di corsa
lungo il corridoio.
«Madre!»
L’uomo che aveva schiantato contro il muro si alzò su gambe tremolanti
e avanzò barcollando verso di lei. Mia lo scagliò di nuovo contro i mattoni,
più forte di prima, e con un sospiro gorgogliante quello crollò e rimase a
terra. Mia si precipitò dietro la madre, urlandole di fermarsi.
Tutte le ombre nel corridoio si sferzarono avanti, lanciando nastri di
oscurità per ghermirla. Ma ora stavano arrivando altri prigionieri: le urla
di Alinne li stavano attirando come drachi verso acque intrise di sangue.
Mia li sbatté via, incrinando la pietra.
«Madre, fermatevi! Per favore!»
Alinne continuò a correre, su per una rampa di scale in direzione del
cortile. Con una mano si schermava gli occhi dalle torce alle pareti,
accecanti dopo anni nelle tenebre più totali. Guardandosi alle spalle,
gemette quando vide sua figlia che la inseguiva e le ombre che le
schioccavano attorno come cose vive. C’era un demone accanto a lei.
Dentro di lei.
«Madre, fermatevi!»
«Stammi lontana!»
Il ragazzo apparve dall’oscurità poco più avanti: era mingherlino,
mezzo morto di fame, con una scheggia d’acciaio frastagliato in mano.
Molto probabilmente era più spaventato di Alinne. Ma attaccò comunque in
preda a quella paura, a quel panico, e la lama scintillò di rosso. La domina
incespicò. Si tenne il petto. E dietro di lei, sua figlia urlò.
«NO!»
Le ombre si allungarono come per volontà propria, afferrando il ragazzo
con il coltello insanguinato per sbatterlo contro il muro, più e più volte.
Mia si fermò slittando al fianco di sua madre: la donna era accasciata
contro la pietra, il petto umido e rosso.
«Madre, no, no, no!»
La ragazza premette la mano contro la ferita, cercando di arrestare il
flusso. Un liquido scarlatto le pulsava tra le dita, scuro quasi quanto le
ombre che le circondavano. Domina Corvere alzò lo sguardo negli occhi di
sua figlia. Nei suoi, la luce stava morendo.
«Non sei… mia figlia…»
Strizzò la mano di Mia in una stretta rossa e appiccicosa.
La spinse da parte.
«Solo… la sua ombra…»
Il petto di Alinne sbatacchiò mentre la luce nei suoi occhi si spegneva
lentamente. La ragazza si inginocchiò lì sulla pietra, mentre le ombre
attorno a lei si contorcevano e si deformavano. La struttura stessa attorno
a lei stava tremando. Le pareti si incrinavano. Il soffitto brontolava. Sangue
sulle sue mani. La carneficina attorno a lei le riecheggiava nella mente, il
sangue colava nell’oscurità annidata tra ogni pietra del pavimento.
NON GUARDARE.
La ragazza si alzò, i capelli corvini che si sollevavano attorno a lei come
in un vento invisibile. Le mani si contrassero in pugni. Cento ombre
serpeggiarono nell’aria. Le pareti si incrinarono e si spaccarono. Il soffitto
iniziò a incurvarsi, a sgretolarsi. E proprio mentre la roccia veniva fatta a
pezzi, mentre centinaia di tonnellate di muratura crollavano, distruggendo
la tromba delle scale e tutto ciò che c’era all’interno, la ragazza entrò in
uno di quei viticci di oscurità che si contorcevano e uscì da un’ombra
cinque
piani
sopra.
Passo.
Era sul fondo della Pietra, tra le ombre delle rocce frastagliate.
Passo.
Era dall’altro lato della baia, nel buio mutevole della costa.
Passo.
Era sul viale a guardare la folla del Carnivalé nelle loro maschere
sorridenti. Messer Cortese non era più con lei, ma accanto alla ragazza
camminava la rabbia, che consumava il posto in cui la paura cercava di
radicarsi. Passò da un’ombra alla successiva, come un bambino che salta
sulle pietre per attraversare un canale di scolo allagato. La gente
rabbrividiva al suo passaggio. La città attorno a lei era sfocata e indistinta:
solo sagome fioche contro un nero più intenso. Ma i cieli notturni erano
brillanti come la soliluce. Le stelle erano sparse come diamanti su un
sudario funebre. Le ombre le cantavano. La tenevano stretta e le
asciugavano le lacrime. C’era dolore nelle loro pance. Brama sulle loro
lingue.
Lei si rese conto che erano affamate.
La tenebra era affamata.
Mia scrutò il profilo della città e trovò le Costole che spuntavano sopra
tetti distanti. Passo. E passo. E ancora passo. Finché non si ritrovò fuori
dalla Basilica Grande. Sapeva che sarebbero stati lì per la messa del
verobuio. Tutti in fila. Il console Scaeva. Il cardinale Duomo. Il tribuno
Remus. Falsa devozione e vesti sfarzose. Mani macchiate di sangue
premute assieme, occhi rivolti al cielo che pregavano per i soli che non
avrebbero rivisto mai più.
Uscì dalle ombre di un arco di trionfo e ammirò la basilica davanti a lei.
Un vasto cortile circolare, attorniato su tutti i lati da pilastri di marmo.
Una statua dell’onnipotente Aa torreggiava al centro, alta cinquanta piedi,
con la spada sguainata e tre grandi globi arkemici sul palmo. Dietro c’era
la struttura svettante, tutta vetri colorati e superbe cupole ampie. Arcate e
guglie illuminate da mille globi, nel vano tentativo di bandire quella
tenebra affamata.
Il cortile era pieno di persone non abbastanza ricche o nobili da essere
ammesse in notti così nere. Ma presso ciascuna colonna c’erano uomini in
bianche e scintillanti armature di piastre, mantelli cremisi e piume sugli
elmi. Legionari Luminatii, radunati in forze per proteggere senatori e
pretori, proconsoli e cardinali all’interno delle sale consacrate della
basilica. Quella vista le ricordò suo padre nei cambi prima della sua morte.
Che la portava sulle spalle per le strade cittadine. La sua barba non rasata
le pizzicava la guancia quando la baciava.
Il volto violaceo.
Le gambe che scalciavano.
Il gorgoglio.
La ragazza alzò lo sguardo sulla statua di Aa. Sputò odio.
«Ti ho pregato. Ti ho implorato di riportarli a casa. Vedi tutto ma non
hai visto abbastanza per notare le loro sofferenze? Oppure non ti è
importato e basta?»
Il Semprevigile non rispose. Lei allungò la mano verso il Dio della Luce
e i suoi globi, avvolgendoli in nastri neri. E mentre la folla lì attorno urlava
di terrore, la ragazza serrò i pugni. I muscoli si tesero. Le vene del collo si
gonfiarono. Con uno stridore di pietra torturata, la statua ondeggiò sul
piedistallo. I fedeli strillarono di terrore e si sparpagliarono in torme
urlanti quando finalmente crollò in avanti e si schiantò sul selciato con un
boato assordante.
Le ombre si protesero fino al Luminatii più vicino, si avvolsero attorno
alla sua testa e ai suoi fianchi e lo fecero a pezzi. Il sangue schizzò sul
marmo lucidato. La gente gridò. I legionari diedero l’allarme ed estrassero
le lame. Perfino qui, nella notte che si addensava, le loro spade
scintillavano come se ai loro lati danzasse veraluce. Mia entrò nelle ombre
ai suoi piedi e uscì da quella che si trovava immediatamente dietro al
legionario più grosso e forte che riusciva a vedere. L’oscurità si avvolse
attorno al collo dell’uomo come se fosse dotata di volontà propria, e la
spina dorsale del malcapitato si spezzò con un suono di fuochi d’artificio
umidi. Il legionario crollò a terra già morto.
«Demone!» giunse l’urlo. «Tenebris! Assassino!»
L’allarme risuonò per l’ampio cortile. Le persone scappavano dalle
rovine del loro dio in frantumi in un fuggi fuggi di fedeli. I soldati
caricavano da ogni direzione. Ora la tenebra le cantava, riempiendole la
testa. Spingeva i pensieri coscienti in luoghi vuoti e freddi, lasciando solo
la rabbia. La fame. Tentacoli neri sferzavano il buio. Ossa e sangue. La
luce le scottava gli occhi. Così tante spade, adesso. Così tanti uomini.
Guadò in mezzo a loro, saltando da ombra a ombra. Li scagliava via come
giocattoli, le ombre affilate come lame che aprivano l’acciaio bianco
scintillante e mostravano le parti rosse all’interno.
Si mosse da una colonna all’altra. Verso i resti della statua di Aa e i tre
soli spaccati nel suo palmo proteso. Evitò un colpo che le avrebbe spiccato
la testa dalle spalle. Un altro uomo cadde, fatto a pezzi. Adesso era sulle
scale. Le grandi doppie porte, decorate in oro inciso, riflettevano il fuoco
delle cento spade dietro di lei. Mia sollevò le mani e spalancò le porte,
ruggendo il suo nome.
«SCAEVA!»
Degli uomini la attendevano proprio all’interno delle porte, e il suo
ruggito divenne un urlo quando quelli alzarono i loro bastoni. Il cardinale
Duomo e i suoi ministri, abbigliati con i paramenti più eleganti. Gli anni
dall’esecuzione di suo padre avevano cambiato poco il cardinale; sembrava
ancora più simile a un brigante che avesse derubato un prete delle sue vesti
che l’uomo a cui appartenevano davvero. Ma lui venne avanti, circondato
dai suoi ministri. La barba nera ispida, la bocca aperta in un grido.
«Nel nome della Luce, abominio, ti ordino di andartene!»
La Trinità sulla punta del suo bastone avvampò più luminosa di tutti e
tre i soli. Mia strillò e barcollò all’indietro. Quella luce era così feroce, così
calda. Portandosi le mani agli occhi, li strinse tra quel bagliore sgargiante.
E lì, alla fine della navata, circondata da due dozzine di legionari in bianco
lucido e rosso sangue, lo vide. Il bellissimo console con gli occhi neri, le
vesti porpora e un serto dorato sopra la fronte. Colui che aveva sorriso
mentre suo padre moriva. Che aveva consegnato sua madre alla follia. Che
aveva ucciso il suo fratellino.
«SCAEVA!»
«Questa è la sacra casa di Aa!» tuonò Duomo. «Tu non hai alcun potere
qui, demone!»
Mia serrò i pugni, abbagliata dalla luce davanti a lei. Il vento le ruggiva
nelle orecchie. Il calore picchiava su di lei come tutti e tre i soli. Nausea
nello stomaco, vomito in bocca. Nessuna ombra da afferrare davanti a lei.
Era troppo. Troppo luminosa. Vide un uomo enorme in armatura di piastre
bianca, un volto lupesco rosso di rabbia, una guancia sfregiata dagli artigli
di un gatto.
Remus…
«Abbattetela!» tuonò il tribuno. «Luminus Invicta!»
Mia si voltò mentre i Luminatii si precipitavano su per gli scalini verso
di lei. La luce alle sue spalle era così feroce che l’ombra da lei proiettata
sulla pietra era lunga come quella dei soli al tramonto. Qualcosa di affilato
e bruciante impattò con la parte posteriore del cranio e lei barcollò. Ora si
stavano avvicinando dozzine di legionari. Il tribuno Remus caricò, la spada
fiammeggiante. La rabbia ardeva luminosa. La tenebra in lei si agitava.
Tutto ciò che voleva era divorare. Spalancarsi e affogare nel sangue che
avrebbe versato. Mia poteva percepirla. Tutt’attorno a lei. Trapelava
attraverso le fessure di Godsgrave. La sofferenza. La furia. L’odio puro e
accecante annidato nelle ossa di questa città.
Essa ci odia.
Ma, nei luoghi freddi e vuoti, rimaneva una minuscola parte di lei.
Quella parte minuscola non era rabbia, odio o fame. Era solo una
quattordicenne che non voleva morire.
Il tribuno si fece largo tra le file di uomini del clero e vibrò la lama di
solacciaio con tutta la sua forza. La Trinità sul pomolo della spada brillava
più ardente della lama stessa. Mia barcollò all’indietro e la spada le scalfì
il braccio, facendole ribollire il sangue. Remus agitò l’arma ancora e
ancora; adesso lei era circondata da Luminatii, brillanti e accecanti. E con
un urlo sfinito, cadde nell’ombra ai suoi piedi, per uscire dalla stessa
ombra a cento piedi di distanza.
Risuonarono le balestre. Le fiamme si incresparono su acciaio lucidato.
Remus ruggì. La gente urlò. Ma lei era distante. Viaggiò tra le ombre: era
di nuovo la ragazzina che saltava da una pietra all’altra. Aveva sangue
sulla nuca, e la luce del cardinale l’aveva bruciata fin quasi ad accecarla.
E in profondità, sotto il dolore e la rabbia, raggomitolata in quei posti
freddi e vuoti, albergava la sensazione più fioca di tutte.
Fallimento.
Si ritrovò sui bastioni sopra il foro. Sopra il punto dove era morto suo
padre. La piazza illuminata da luce arkemica rossastra. Gente che faceva
baldoria e ubriachi che danzavano sul selciato. Poteva udire le urla che
riecheggiavano per la città. Assassino! Demone! Abominio!
Si accasciò contro il necrosso freddo. Le sue mani tremanti erano
imbrattate di sangue. L’oscurità attorno a lei sussurrava, supplicava,
implorava. Proprio come l’oscurità dentro di lei. Era solo una bambina in
mezzo a tutto ciò. Una ragazzina in un mondo così freddo e vuoto, con le
ombre attorno a lei che non le portavano alcun conforto.
Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta lì, seduta. Il sangue si
seccò fino a incrostarsi sulle sue mani. La città era nel caos. Folle si erano
radunate sulla costa orientale, a guardare la rovina pendente della Pietra
Filosofale, i cui bastioni si erano staccati ed erano ruzzolati in mare.
Pattuglie di Luminatii si aggiravano per le strade, cercando di portare
ordine tra il panico crescente e il caos ubriaco in aumento. Risse e vetri
rotti.
Un fremito nella sua ombra.
«… mia…»
Un debole rumore di passi sulla pietra accanto a lei.
«Ha detto che ti avrei trovato qui.»
Il vecchio Mercurio si inginocchiò accanto a lei, le ossa che
scricchiolavano. Mia non lo guardò, ma tenne gli occhi fissi sul profilo
della città. Le Costole che torreggiavano sopra di loro. I guerrieri
ambulanti che montavano la loro veglia silenziosa. Il bagliore ardente della
Basilica Grande al di là.
«Notte turbolenta, piccolo Corvo?» le chiese.
Le lacrime colarono lungo le guance di Mia. Il singhiozzo le artigliava
la gola, pretendendo che lo facesse uscire. Lei si morse il labbro per non
farlo scappare e aggravare il fallimento. Sentì sapore di sangue.
Mercurio tirò fuori una sottile custodia d’argento dall’interno del suo
pastrano. La ragazza sussultò quando lui usò un acciarino e quella
vampata momentanea le ricordò la luce nelle mani di Duomo, che bruciava
sulla spada di Remus. L’odore di chiodi di garofano che bruciavano
macchiò la notte.
«Ecco» disse Mercurio.
Lei guardò il vecchio. Le stava porgendo il sigaretto.
«Calma i nervi» spiegò lui.
Mia sbatté le palpebre al buio. Allungò mani insanguinate. Si portò la
paglia alle labbra e sentì un sapore zuccherino. Un calore per scacciare il
gelo. Il fumo che inalò soffocò i singhiozzi e placò i suoi tremiti. Tossì.
Sputacchiò fumo grigio. Trasalì.
«Ha un sapore orribile.»
«Domani sarà migliore.»
Mia voltò gli occhi verso le luci scintillanti della città. Il cuore ardente
di Godsgrave si estendeva davanti a lei. Sussultò al ricordo degli uomini
che aveva ucciso, di quelli che aveva affrontato. Così tanti, e lei tutta sola. I
soli bruciavano sulle loro mani. Sul loro acciaio. Nei loro occhi.
«Era così luminoso» sussurrò. «Troppo luminoso.»
«Non temere, piccolo Corvo.»
Il vecchio sorrise. Le diede una pacca sulla mano.
«Più brillante è la luce, più cupa è l’ombra.»
LIBRO 3
NERO SCORRE ROSSO
CAPITOLO 28
VELENO
Ore più tardi, Mia si svegliò al buio. Avvertiva un dolore fantasma lungo la
schiena dove i colpi della Tessitrice erano caduti. Le ossa riecheggiavano
ancora quella sofferenza. Alzò lo sguardo dove si aspettava di trovare un
paio di occhi. Messer Cortese sulla testiera, che vegliava su di lei mentre
dormiva.
«… stai bene…?»
«Abbastanza.»
«… mi hai chiesto di badare al ragazzo. non sono riuscito a tenere
lontano l’incubo…»
«È sempre stato lì.» Lei sospirò. «Sempre.»
Mia si mise a sedere sul letto, i capelli sospesi attorno alla faccia mentre
chinava la testa. Le dolevano i muscoli a causa del tocco della Tessitrice, e
sentiva la bocca asciutta per i ricordi che aveva tenuto segregati. Che si era
rifiutata di guardare. Sua madre. Il potere delle notti, che le fluiva nelle
vene. Era stata lei a distruggere la Pietra Filosofale. Era stata lei a
perpetrare il Massacro del Verobuio. Aveva ucciso dozzine di uomini sui
gradini della Basilica Grande. Altre dozzine nella Pietra stessa. Padri.
Fratelli. Figli.
Aveva tentato di uccidere Scaeva.
“Tentato e fallito.”
Così tanto sangue sulle sue mani. Così tanto potere sulla punta delle sue
dita.
E non c’era arrivata nemmeno vicino.
«Abbiamo del lavoro da fare.»
E così cominciò.
Il tempo passava sotto il cielo dell’illuminotte e l’iniziazione si
avvicinava sempre più. Routine e rituali. Pasti, addestramento estenuante e
sonno.
Aver sopportato cinquanta frustate per mano della Tessitrice non era
un’impresa da poco, e molti degli accoliti trattavano Mia con rinnovato
rispetto dopo la flagellazione. Ma Tric era riuscito a sopportare l’intera
ordalia senza nemmeno piagnucolare, e ora era considerato con una sorta di
meraviglia tra gli altri novizi. Perfino lo Shahiid Solis riservò alcune lodi
per le sue forme sempre migliori nell’Aula di Canti. Nei momenti privati
che riuscivano a prendersi prima della nona campana (nessun accolito osava
più mettere piede fuori dalla propria stanza), Tric sussurrò a Mia che era
ridicolo: era stata lei quella coraggiosa, non lui. Ma Mia era lieta di lasciare
che lui le rubasse la gloria. Meglio essere sottovalutata.
Era più facile nascondersi nel buio che nelle luci della ribalta.
Per quanto riguardava Mia, Solis continuava a mostrare poca pietà. Lei
colpiva ancora debolmente con il braccio ricucito e non riusciva a
mantenere la difesa quando era sotto pressione. Anche se era stato lui a
causarle quella ferita, lo Shahiid mandava Mia a correre su e giù per le scale
alla minima infrazione. Lei tollerava quell’abuso in silenzio e riusciva a
evitare di farsi trapassare il petto quando veniva accoppiata con Jessamine o
Diamo, cosa che sembrava accadere con più frequenza rispetto a quanto
avrebbero dovuto dettare le leggi della probabilità.
Spesso, al termine di Canti, era costretta a doversi presentare dalla
Tessitrice per farsi rammendare le ferite. Da parte sua, Marielle non diceva
nulla sul flagello di sangue e non trattava Mia in maniera diversa. Ma Mia
non dimenticava. Non perdonava. a
Adonai mostrava ancor meno preoccupazione per Mia rispetto a sua
sorella. Sempre distaccato, presiedeva il consueto Cammino del Sangue che
inviava gli accoliti a Godsgrave in cerca di segreti per Aalea. Mia si ritrovò
ad appostarsi nelle taverne, a lusingare giovani soldati per immergersi tra le
dicerie. C’era stata una piccola sollevazione quando il console Scaeva
aveva introdotto suo figlio Lucius, di appena sette anni, nella legione dei
Luminatii. b Lei udì voci secondo cui il tribuno Remus aveva generato un
figlio bastardo con la figlia di un certo senatore. Si diceva che Scaeva stesse
lavorando sotto silenzio per essere nominato imperatore, un titolo che gli
avrebbe dato autorità sul senato fino alla morte. Mia riportò tutte queste
dicerie e altre ancora alla Shahiid Aalea, sperando di ottenere il suo favore.
La donna sorrideva e basta, baciava Mia sulla guancia, ma non le dava
alcuna indicazione sulla sua posizione nella gara.
Era esasperante.
Ma il dilemma di Ammazzaragni lo era ancora di più. Mia passava ogni
momento libero a lavorarci, ma l’antidoto era ancora oltre la sua portata.
Scribacchiava e imprecava. Osservava i simboli arkemici scontrarsi nella
sua mente finché non li vedeva anche durante il sonno.
Lei e Tric orbitavano lentamente l’uno attorno all’altro, scivolando
sempre più vicini a una nuova collisione. Ma la sofferenza che avevano
sopportato per mano della Tessitrice urlava ancora più forte del dolore di
non stare assieme. Non c’era tempo tra le lezioni, nessun posto dopo la
nona campana, nessuna soddisfazione in qualche angolo buio a scopare
come ladri. Lei aveva la sensazione che tutto ciò valesse più di quello. E
così attendevano il momento in cui l’altro sarebbe esploso. Mia lo sognava
da sola nel suo letto, mentre faceva vagare le mani sempre più in basso,
urlando muta il suo nome.
E nei minuti silenziosi, nelle ombre, si incontrava con Naev.
Che sudava altrettanto.
E non urlava affatto.
Ti voglio.
T.
entrò
nell’ombra
ai suoi piedi
a. Mia riuscì a studiare le numerose facce che adornavano la camera della Tessitrice durante quelle
cure, e si ritrovava spesso a far visita a Marielle con poco più di un graffio da rammendare, giusto
per poter dare un’altra sbirciata alla sua collezione. Quelle maschere erano meraviglie raccolte da
tutti gli angoli della Repubblica.
Mia riconobbe le bautae, i vulti e i pulcinelli del Carnivalé itreyano, naturalmente. Le temibili
maschere da guerra delle Isole di Dweym, intagliate in legnoferro con le fattezze di orrori degli
abissi. Il viso immacolato e bianco come osso di un prete della lebbra liisiano e il cappuccio
accecante di un eunuco dall’harem di qualche Re Magus morto da molto tempo. Ma la Tessitrice
sembrava ossessionata dai volti di ogni forma e dimensione, e pareva che ne collezionasse di
stranissime per alimentare quella mania.
Tra la raccolta della Tessitrice, Mia vide meraviglie dorate con le sembianze di teste di leoni,
simili alle statue con teste feline nelle Frusciaride ashkahi e alle figure sulla lama di neracciaio di
Mouser. Spiò un cappuccio putrescente da boia, una benda incrostata con quello che sembrava
sangue secco, le maschere di morte di una dozzina di bambini, alcuni dei quali neonati. Facce di
legno e metallo. Osso e pelle essiccata. Elaborate e banali. Bellissime e orrende. La Tessitrice le
collezionava tutte.
Mia a volte si ritrovava quasi a compatire Marielle. Supponeva che dovesse essere terribile
avere potere sulla carne degli altri ma non sulla propria. Ma poi ricordava di come Marielle avesse
reso orribile la faccia di Naev. E per quanto cercasse di aggrapparsi a quella compassione, per
quanto sapesse che era importante, essa scemava lentamente.
Lasciando soltanto ceneri nella sua scia.
b. Diciott’anni erano l’età minima per un Fulgente, una tradizione che risaliva alla formazione della
legione. La dottrina di fondazione dei Luminatii era sorprendentemente dettagliata e i requisiti per
entrare a farne parte erano estremamente rigidi. Cosa interessante, i codici non proibivano che le
donne si unissero ai loro ranghi, anche se nessuna donna nella storia l’aveva mai fatto.
Non ancora.
c. Mia aveva sentito storie di armi magike, naturalmente. Si diceva che Lucius l’Onnipotente, ultimo
Re Magus di Liis, avesse una lama che cantava quando uccideva i suoi nemici. L’eroe leggendario
Maximian brandiva una spada nota come “Terminus”, che si narrava sapesse come sarebbe morto
ogni uomo sotto i soli, incluso il suo padrone. Le leggende itreyane abbondano di racconti di lame
in grado di pensare.
Naturalmente, Mia sospettava che il coltello di Pip non fosse capace di parlare più di quanto gli
asini potessero far girare le ruote di un carro. Tuttavia, ogni volta che salutava il ragazzo, si
ricordava sempre di rivolgere un saluto anche “all’Adorabile”.
Ecco la verità, gentili amici: nel dubbio, è meglio essere educati quando avete a che fare con
dei pazzi.
CAPITOLO 29
DIVISIONE
Gli altri accoliti erano già radunati nell’Aula di Canti, riposati e nutriti.
Quattro Mani dalle vesti nere si trovavano al centro del cerchio, una con in
mano quello che sembrava un teschio umano con la calotta segata via. Lo
Shahiid Solis torreggiava accanto a loro, gli occhi ciechi rivolti all’insù.
Mia fu una degli ultimi ad arrivare, il suo ritardo superato da Ashlinn, che si
precipitò nell’aula quando mancavano solo pochi istanti. Lo Shahiid di
Canti voltò il suo sguardo pallido sulla ragazza, arricciando le labbra.
«È bello da parte tua unirti a noi, accolita» disse.
«È bello… essere qui…» ansimò Ash.
«Non per molto, temo.»
Voltandosi verso gli altri accoliti, Solis parlò.
«La Prova di Canti ha inizio. Vi spiegherò le regole solo una volta.
Ascoltate attentamente.
«La prova comincia con le eliminatorie. Ciascuno di voi combatterà
cinque incontri, contro cinque avversari casuali. Ogni incontro terminerà
con la resa o con un colpo mortale. L’Oratore Adonai e la Tessitrice
Marielle hanno cortesemente acconsentito a essere a disposizione per i
festeggiamenti.» Solis gesticolò verso le due figure in piedi accanto alle
rastrelliere per le spade. «Guariranno qualunque ferita vi metta fuori
combattimento più rapidamente che potranno. Potrete richiedere il loro
aiuto in ogni momento nel corso di un incontro, ma questo risulterà in un
abbandono. Perderete anche se lasciate – o siete costretti a lasciare – il
cerchio durante un incontro.
«Al termine delle eliminatorie, i quattro accoliti che avranno accumulato
il maggior numero di vittorie verranno ammessi alle finali. Ogni sconfitta
nelle finali comporta l’eliminazione. Chiunque vinca l’ultimo incontro si
classificherà primo in quest’aula.»
Lo sguardo vuoto di Solis vagò sugli accoliti lì radunati.
«Domande?»
«Siamo in tredici, Shahiid» disse Marcellus. «Come gestirete il numero
dispari?»
«Solo dodici di voi competeranno. L’accolito Diamo ha scelto di non
partecipare alla prova.»
Mia guardò Diamo dall’altro lato del cerchio, le braccia incrociate e un
sorriso rivolto proprio verso di lei. Ashlinn, che sembrava aver dormito
poco quanto Mia, sussurrò a suo fratello accanto a lei.
«Sono in netto vantaggio in Tasche, eppure gareggio comunque in Canti.
Diamo non è abile con le lame quanto Jessamine, ma una possibilità è
meglio di nulla, no?»
Osrik scosse il capo. «Forse se non stessi a Godsgrave tutto il tempo,
avresti un sentore di quello che succede in queste aule.»
«Denti della Mannaia, Oz, hai intenzione di sputare il rospo o vuoi farmi
giocare agli indovinelli?»
«Si vocifera che Diamo abbia risolto la formula di Ammazzaragni
stamattina.»
Mia sentì lo stomaco sussultare.
«Diamo?» sibilò Ash. «È abile nei veleni quanto un blocco di legno…»
Osrik scrollò le spalle. «Riferisco solo quello che ho sentito. Ha fatto
visita ad Ammazzaragni prima del primopasto. Aveva in mano un quaderno
di appunti. La Shahiid ha sigillato l’aula, ma Diamo ne è uscito poco dopo,
con un sorriso da un orecchio all’altro. È andato dritto da Solis e si è ritirato
dalla sua competizione.»
Ash guardò Mia.
«Potevano essere gli appunti di Lotti?»
Mia scosse il capo. «Non penso che Carlotta abbia mai risolto l’enigma.»
«Allora dove hai nascosto i tuoi appunti, Corvere?»
Mia deglutì. Guardò verso Tric. Poi verso Ammazzaragni, seduta
accanto alla Reverenda madre. Le due erano immerse in una conversazione
e lanciavano ogni tanto uno sguardo a Diamo. E a Mia.
«… Nella mia stanza» disse lei.
«Oh, allora sì che erano al sicuro.»
Tric scoccò un’occhiata a Mia. «A meno che tu non abbia lasciato la tua
camera la notte scorsa…»
Ashlinn spostò lo sguardo tra i due. «Oh, dimmi che non l’hai fatto…»
Mia rimase in silenzio, osservando Diamo. Notò con la coda dell’occhio
Jessamine che sorrideva come per dire fottiti. Il bagliore in quel verde
vipera. Lo sguardo scintillante di Ammazzaragni.
«Denti della Mannaia, Corvere» sussurrò Ash. «Hai lasciato incustoditi i
tuoi appunti per andarti a fare una scopata? Il piccolo Trucco non può essere
così bravo…»
Tric parve ferito e aprì la bocca per…
«’Bisso e sangue, prestate attenzione» bisbigliò Osrik. «Stanno per
cominciare.»
Ash si voltò verso Solis e i suoi assistenti, sigillando le labbra. La Mano
che reggeva il teschio umano lo porse a una seconda, in piedi accanto a lei.
Una pietra nera e liscia con un nome inciso sopra era stata estratta dal
teschio vuoto, di fronte agli accoliti riuniti.
«Marcellus Domitian.»
L’attraente ragazzo itreyano alzò lo sguardo quando udì menzionare il
suo nome. «Sì.»
«Vieni avanti, accolito» ordinò Solis.
Marco – come veniva chiamato dai compagni – annuì e andò a mettersi
al centro del cerchio. Il ragazzo inclinò la testa fino a far scrocchiare il
collo, allungò le braccia e si toccò le punte dei piedi. La Mano prese
un’altra pietra, la tirò fuori e lesse il nome.
«Mia Corvere.»
Mia vide Marcellus sorridere tra sé, Diamo e Jessamine scambiarsi un
ghigno tronfio. Marco era un abile spadaccino e aveva ottime possibilità di
piazzarsi tra i primi quattro. Il ragazzo aveva stracciato per bene Mia in
ogni esercitazione in cui avevano combattuto, e tutti nell’aula lo sapevano.
Mia girò attorno al bordo del cerchio. Solis sollevò lentamente un
sopracciglio.
«Accolita?»
Mia prese un respiro profondo ed entrò nel cerchio, silenziosa come un
gatto. Il suo passo era calmo. Il respiro regolare. Prese posto al centro del
cerchio, con Solis tra lei e il suo avversario. Gli accoliti si fissarono e
Marco increspò le labbra.
«Non temere, Mea Domina» disse. «Ci andrò piano con te.»
Mia gli scoccò un’occhiata fulminante. Marco sogghignò. Una delle
Mani tenne un prete d’argento sul palmo aperto e mostrò entrambe le facce
della moneta per assicurare che non ci fosse alcun imbroglio. Su un lato,
c’era la trinità dei tre soli intrecciati. Sull’altro, un’immagine sbalzata della
Casa del Senato a Godsgrave, con le Costole che si innalzavano in cielo
dietro di essa.
«Accolita Mia, cosa scegli?»
«Trinità.»
La Mano lanciò la moneta. Con un movimento fulmineo, il braccio di
Solis guizzò e la ghermì in volo. Lo sguardo cieco dello Shahiid perforò gli
occhi di Mia.
«Sono certo che non hai dimenticato la tua prima lezione per mano mia,
accolita» disse. «Ma voglio ricordarti ancora una volta che questa è l’Aula
di Canti, non delle ombre. Se sospetterò che tu stia combattendo con
qualcosa di diverso dalle lame durante questi incontri, non sarà solo il
braccio quello che rimuoverò dal tuo corpo. Sono stato chiaro?»
Mia alzò lo sguardo in quegli occhi vuoti. La sua voce fu un sussurro.
«Chiarissimo, Shahiid.»
L’uomo lasciò cadere la moneta dalla sua mano. Scintillò alla luce dei
vetri colorati mentre precipitava e tintinnò quando colpì la pietra.
«Senato» riferì la Mano.
«Scegli le tue armi, accolita Mia» disse Solis.
Mia si diresse alle rastrelliere, camminando lungo file e file di acciaio
affilato. Lanciando un’occhiata a Jessamine, scelse un fioretto e uno stiletto.
La rossa la sbeffeggiò. Tric sembrava decisamente preoccupato quando un
mormorio si diffuse attorno al cerchio. Mia non aveva mai dato grande
prova di abilità con il tradizionale stile a doppia arma di Caravaggio o
Delphini. Nelle lezioni di Solis, era stata regolarmente rimproverata perché
il suo braccio era troppo debole, e non se l’era cavata molto meglio quando
Tric aveva provato a insegnarle le sottigliezze di quello stile. Riusciva
praticamente a vedere la domanda negli occhi del ragazzo.
“A che gioco stai giocando?”
Malgrado tutti i suoi dubbi, Tric chiuse una mano a pugno e le rivolse un
cenno di assenso per darle fiducia. Ma dietro di lui, nascosta nelle ombre tra
le altre Mani, Mia vide Naev. La Mano era avvolta nel suo mantello, le
ciocche biondo ramato che le incorniciavano il volto nascosto. E fu alla
donna, non al ragazzo, che lei annuì a sua volta.
Marcellus optò per una pesante spada lunga e un brocchiere per
controbattere alle scelte di Mia, facendo affidamento sulla sua forza
superiore per vincere rapidamente l’incontro. Mia osservò il ragazzo
attraverso la frangia mentre assumevano le loro posizioni. Ogni traccia di
un sorriso sul volto grazioso di Marco era scomparsa. Tutti sapevano cosa
c’era in ballo, qui. Il primo posto nell’aula. Solo a un passo dal diventare
una Lama a pieno titolo. Marcellus annuì a Mia, freddo e fiducioso. Come
chiunque altro nell’aula, sapeva che sarebbe stata una batosta.
Risuonò un gong nell’oscurità. Marco venne avanti, vibrando colpi ampi
e brutali nell’aria, aspettandosi che Mia indietreggiasse e schivasse. Non
immaginava che la ragazza avesse altri piani. Piani formulati con Naev
nelle ore che precedevano ogni primopasto. Le loro lame fischiavano al
buio mentre si esercitavano, avanti e indietro. I dolori e le fitte. Le
settimane e i mesi passati a simulare debolezza alle lezioni di Solis,
lasciandosi tagliare, pugnalare, umiliare di continuo da Jessamine, Diamo,
Pip, Petrus, tutti quanti. L’aveva fatto per creare l’illusione di debolezza.
Una vipera che si spacciava per un opossum. Un cane delle croste che
sanguinava nella polvere.
Era proprio come aveva detto Mercurio.
“A volte la debolezza è un’arma.
“Se sei abbastanza intelligente da usarla.”
Mia intercettò il terzo affondo di Marco con il suo stiletto, deviandolo
con una torsione e facendo perdere l’equilibrio al ragazzo. Marcellus
sollevò il brocchiere per parare, pronto a respingere il contrattacco di Mia
come aveva fatto cento volte in scontri precedenti. Ma con una velocità
sviluppata in quelle ore innumerevoli con Naev, con una forza che aveva
mantenuto nascosta nel corso di infinite sconfitte sotto gli occhi spietati di
Solis, lei fece saettare per l’aria il fioretto, aprendo uno squarcio profondo
sulla spalla di Marco.
Il ragazzo barcollò, confuso e sbilanciato. Mia indietreggiò, saltellando
sulle punte dei piedi e fendendo l’aria con la lama insanguinata.
«Hai ancora intenzione di andarci piano con me, Marco?» sorrise lei.
Il ragazzo la guardò accigliato e lanciò un secondo attacco: i suoi colpi
falciarono l’aria sopra la testa di Mia quando lei si abbassò per evitarli. La
ragazza svaniva, ruotava, si muoveva come una ballerina, e lo scontro
terminò con un altro taglio profondo, stavolta sul braccio di Marco che
reggeva la spada. Sangue schizzò sulla pietra. E mentre Marcellus si
rendeva finalmente conto di quanto fosse profondo l’abisso in cui stava
nuotando, Mia si lanciò in avanti, colpo, colpo, finta, colpo, sbattendogli via
di mano la spada lunga e posando la lama sul cuore martellante di Marco.
«Arrenditi» gli ordinò.
Il ragazzo la guardò in faccia. Poi spostò gli occhi sulla sua lama. Il petto
ansimante. La pelle madida di sudore.
«… Mi arrendo» disse infine.
«Punto!» urlò Solis, mentre qualcuno suonava il gong.
Mia si abbassò in una riverenza sollevando i lembi di una gonna
immaginaria, poi tornò al proprio posto nel circolo.
Gli altri accoliti mormorarono tra loro, stupefatti.
Il velo di Naev nascondeva il suo sorriso.
Jessamine non sorrideva affatto.
Mia guardò il ragazzo dweymeri negli occhi. Non vide nessun guizzo di
delicatezza. Nulla di prossimo a ciò che mostrava nel suo letto, tenendola
vicina e accarezzandole i capelli all’indietro. Non rimaneva nemmeno
alcuna traccia di dolore. Se l’era lasciato alle spalle all’Altare del Cielo.
No, ciò che Mia vide era rabbia.
Gli accoliti e il Culto erano radunati attorno al cerchio. Solis e le sue
Mani in attesa, con una moneta d’argento nel palmo. Mia e Tric si
fronteggiavano a una distanza di dieci piedi di granito lucidato. Le macchie
della morte di Diamo non si vedevano da nessuna parte.
«Accolita Mia, che faccia scegli?»
«Senato.»
Un tintinnio argentino risuonò quando la moneta colpì la pietra.
«È senato.»
Tric si diresse alle rastrelliere, prese una scimitarra dall’aspetto
particolarmente minaccioso e fendette l’aria. Si legò un piccolo brocchiere
all’altra mano e tornò nell’anello. Gli occhi freddi. La mascella serrata.
“È furioso. Gli ho fatto davvero male.”
Mia andò alle rastrelliere e scelse stiletto e fioretto.
“Bene.”
Il gong suonò. I due si incontrarono, acciaio contro acciaio, velocità e
agilità contro forza e ferocia. Ogni accolito ormai sapeva che Tric e Mia
condividevano il letto. Lei supponeva che ciascuno di loro si aspettasse che
uno o l’altro ci sarebbe andato piano. Che avrebbe lasciato vincere l’altro.
Quella sarebbe stata la cosa romantica da fare, giusto?
Non erano passati dieci secondi dal suono del gong, e quel pensiero
giaceva morto sul cerchio nel pavimento. Tric voleva sangue. Aveva il volto
contorto. I denti serrati. Le sue salciocche gli sferzavano attorno mentre
vibrava colpi al petto e alla testa di Mia. La ragazza era rapida, ma il grosso
Dweymeri si muoveva con passi eccellenti, costringendo Mia ai margini del
cerchio dove la sua velocità contava di meno. La sorpresa non era più dalla
sua parte: tutti sapevano che il suo braccio non era debole quanto voleva far
sembrare, né che lei era la novellina che fingeva di essere. E così Tric era
cauto, la guardia alta, mai allungandosi troppo per non lasciare aperture al
fioretto di lei.
La scimitarra del ragazzo fischiò nell’aria, facendo riecheggiare note
argentine quando i loro colpi si incrociarono. Mia gli bloccò la spada, le
lame intrecciate, poi si sporse più vicina quando Tric premette su di lei con
tutta la sua forza. Sudava. Era rosso in viso. Sogghignava.
«Sembri arrabbiato, Dominus Tric.»
«Che tu sia fottuta, Mia.»
«Più tardi, amante.»
La ragazza attaccò con il ginocchio e diversi accoliti urlarono quando
impattò contro l’inguine di Tric. Il ragazzo si piegò in due mentre Mia
scivolava di lato, ruotando all’indietro nel centro dell’anello. Tric riprese il
suo appoggio e piroettò per fronteggiarla, le salciocche che volavano. Una
mano era ancora premuta sui suoi gioielli doloranti.
«Posso darci un bacetto, se vuoi» gli gridò Mia.
Tric mugghiò dalla rabbia e caricò attraverso il cerchio. Adesso era pura
furia. La sensazione di lei tra le sue braccia dimenticata. Mia danzò
all’indietro e scalfì l’avambraccio del ragazzo. Un altro colpo gli perforò la
tunica, aprendogli uno squarcio sanguinante nella pancia. Mia sogghignò
per tutto il tempo, osservando Tric infuriarsi sempre più. Gli accoliti attorno
a loro gioivano di quello spettacolo. La Reverenda madre Drusilla
osservava con attenzione; la Tessitrice e perfino l’Oratore erano seduti sul
bordo delle loro sedie. La testa di Solis era inclinata in ascolto. La mascella
contratta. I pugni serrati.
Mia sbatté via la scimitarra di Tric con un rapido colpo di rovescio e la
mandò a roteare sul pavimento. Si abbassò quando Tric effettuò un affondo
col suo brocchiere e fece un passo di lato quando lui colpì di nuovo. Poi,
abbassandosi con una spaccata ai suoi piedi, Mia gli affondò il fioretto nella
pancia.
Gli accoliti rimasero senza fiato. Ash esultò di piacere.
Mia alzò lo sguardo negli occhi pieni di dolore di Tric.
I loro sguardi si incrociarono.
Lei sorrise.
«Koffi» gli sussurrò.
Il volto di Tric impallidì. Strinse i denti e assottigliò quel grazioso
sguardo color nocciola. Allungò la mano verso quella di Mia e l’afferrò con
forza, schiacciandole le dita contro l’elsa del fioretto. E con le nocche
sbiancate, il volto contorto e il sangue che gli colava dalla bocca, il giovane
dweymeri si tirò ancora di più sulla sua lama. Trascinò Mia su dal
pavimento finché la guardia della spada non fu premuta contro la sua pancia
sanguinante.
Poi Tric tirò indietro il brocchiere e lo sbatté contro la faccia di Mia. La
ragazza indietreggiò sbandando, il sangue che le colava dalle labbra
spaccate. Riprese l’equilibrio e attaccò, seppellendo lo stiletto nel petto di
Tric. Ma il ragazzo non sussultò, e percosse di nuovo la faccia di Mia: lei
vide le stelle quando lo scudo impattò contro la sua guancia e la testa le
ciondolò sul collo mentre l’oscurità si addensava dietro i suoi occhi. Un
colpo al petto la fece finire a terra, ad artigliare la pietra con le unghie nel
tentativo di rialzarsi. Uno stivale calò sulle sue costole. Poi un altro. E un
altro ancora. La ragazza alzò lo sguardo tra una foschia rossa mentre Tric si
faceva scivolare il fioretto fuori dalla pancia, sollevando la lama in una
stretta a due mani e preparandosi a conficcargliela nel petto.
«Mi arrendo» mormorò Mia.
Il mondo rimase immobile.
«Io mi arrendo» ripeté, accasciandosi di nuovo sulla pietra.
Il petto di Tric si stava gonfiando. La sua stretta vacillava. Gli occhi
erano fissi in quelli di Mia.
La ragazza sorrise con labbra insanguinate.
E ammiccò.
«Punto!» tuonò Solis. «L’incontro va all’accolito Tric!»
Il ragazzo rimase lì immobile per un altro momento. In
quell’affascinante sguardo nocciola ardeva ancora la rabbia. Mia si
domandò quanta parte di lui la volesse morta in quel momento. Ma alla fine
lui abbassò l’acciaio. Lo gettò da una parte e crollò in ginocchio, tossendo
sangue, la mano premuta sui nuovi buchi che lei gli aveva donato. Gli
accoliti erano in piedi esultanti, gli occhi che brillavano per la sete di
sangue.
La Tessitrice e l’Oratore entrarono nel cerchio e si misero a guarire le
ferite che Mia e Tric si erano inflitti a vicenda con il loro acciaio.
Ma cosa potevano fare per le loro parole?
Guardando negli occhi Tric, la ragazza si rese conto di non conoscere la
risposta.
Agli accoliti fu dato il resto del cambio libero. Una volta che le ferite
furono ricucite dalla Tessitrice, ma con la mandibola ancora dolorante, Mia
si ritrovò nella sua camera da letto con le mani sui fianchi.
Diamo e Jessamine avevano fatto un buon lavoro nel coprire le loro
tracce: c’erano solo pochi segni che qualcuno fosse stato lì. Ma, come
aveva sospettato, i suoi appunti erano scomparsi dal nascondiglio sotto la
scrivania, senza dubbio rubati nel primo mattino, mentre lei era nel letto di
Tric. Aveva calcolato più o meno cinque ore dal momento in cui Diamo
aveva assunto il veleno di Ammazzaragni fino al momento della sua morte.
Il suo sudore era stato il vero segnale, tuttavia il tempismo era stato quasi
perfetto.
«… ti senti compiaciuta di te stessa…?»
Messer Cortese la scrutò dalla cima dell’armadio.
«Lo sono abbastanza, sì.»
«… ora jessamine tenterà quasi sicuramente di ucciderti…»
«La parola chiave è “tenterà”.»
«… e nonostante la tua messinscena all’altare del cielo, non hai ancora
risolto l’enigma di ammazzaragni…»
«Ci sono quasi.»
«… diamo ha rubato i tuoi appunti…»
«Me ne ricordo la maggior parte. Sono vicina, Messer Cortese.»
«… la competizione di ammazzaragni termina tra sei cambi, mia…»
«Sono lieta che ci sia tu qui a dirmi queste cose.»
«… avresti dovuto semplicemente vincere la gara di solis e farla
finita…»
«Allora Tric non sarebbe diventato una Lama.»
«… meglio lui di te…?»
Mia si accasciò sul letto, gli occhi rivolti al soffitto. Non disse nulla. I
pensieri si susseguivano nella sua testa. Tutto ciò che Messer Cortese
diceva era vero. Qui c’era molto di più in ballo di lei e Tric. Scaeva.
Duomo. Remus. Tutto ciò per cui lei aveva lavorato. Solo un assassino
addestrato della Chiesa Rossa avrebbe eliminato quei bastardi: il suo
attacco dell’ultimo verobuio era una prova sufficiente. Se non fosse finita
prima dell’aula, chi sapeva se sarebbe mai diventata una Lama? Perché nel
nome delle Figlie non aveva semplicemente…
«… stai lasciando che i tuoi sentimenti per il ragazzo annebbino il tuo
giudizio…»
«Non nutro alcun sentimento per il ragazzo.»
«… ma davvero…?»
«Sì, davvero.»
«… allora perché passare mesi a esercitarti in segreto con naev solo
per…»
Qualcuno bussò alla sua porta. Mia si alzò dal letto e attraversò la stanza.
Dall’altro lato c’era Tric, le salciocche che gli pendevano attorno alla
faccia. Il cuore di Mia batté un po’ più veloce quando lo vide. Quelle
dannate farfalle erano tornate nel suo stomaco. Strinse i denti, le afferrò con
le dita e staccò loro le ali. Le uccise una a una.
«Buon cambio a te, Dominus Tric.»
«Anche a te, Figlia Pallida.»
Lei abbassò lo sguardo sulla camicia del ragazzo. Indossava una
semplice spilla sul petto: una chiave musicale intagliata da legnoferro
lucidato. Gli era stata data alla fine del torneo da Solis in persona come
prova che era arrivato primo nell’aula dello Shahiid.
«Congratulazioni» disse Mia.
Il ragazzo annuì. Si morse il labbro. «Posso entrare?»
Mia guardò su e giù per il corridoio. Non vedendo altri accoliti, si fece
da parte. Per essere insetti senza ali, pareva che quelle farfalle continuassero
a fare un fracasso tremendo.
«Vuoi qualcosa da bere?» gli chiese lei, voltandosi verso il suo
aureovino rubato.
«No. Non mi tratterrò a lungo.»
Mia udì una strana nota nella sua voce. Si voltò per fissarlo, quegli occhi
nocciola duri come la pietra. Aveva le spalle incassate, come un uomo che
si preparasse per una carica.
«Mi hai lasciato vincere» disse lui.
«No.» Mia scosse il capo. «Ho combattuto con quanta foga potevo.»
«Ma mi hai indotto a combattere con maggior impeto.»
Lei fece spallucce. «Sapevo che altrimenti non ti saresti impegnato
abbastanza.»
«Mi conosci così bene, eh?»
«So cosa provi per me.»
«Ah, davvero. E cosa provo?»
Mia abbassò lo sguardo e si passò una mano tra i capelli. Scrutò le
ombre ai suoi piedi. La verità era lì in piena vista. Alzò gli occhi in quelli di
Tric, incapace di dirlo. Sperando che lui lo sentisse comunque.
Il ragazzo scosse il capo. Il suo sguardo era duro. La voce ancora di più.
«Sapevi che effetto mi avrebbe fatto sentire quella parola. Sai cosa
significa.»
«Mi dispiace» sospirò lei. «Mi conosci abbastanza bene da sapere che
non lo intendevo davvero. Ma dovevo farti arrabbiare. Sapevo che
altrimenti mi avresti lasciato vincere. Posso finire ancora prima in Verità.
Non avevo bisogno di esserlo a Canti.»
«Non mi serve la tua fottuta pietà, Mia.»
«Denti della Mannaia, non si tratta di pietà! C’è abbastanza spazio per
tutti e due tra le Lame. Tu sei finito primo dell’aula, ed è praticamente
sicuro che diventerai una Lama. Sarai un passo più vicino a calpestare la
tomba di tuo nonno. Abbiamo promesso che ci saremmo aiutati a vicenda a
ottenere la nostra vendetta, ricordi? Io voglio quello che è meglio per te,
non lo capisci?»
«E così fai di me il tuo strumento, eh? Come una lira? Mi attorcigli le
budella e mi accechi dalla rabbia.» Tric scosse il capo. «Te l’ha insegnato
Aalea, vero? Piccola Mia Corvere. Un lupo nelle penne di un corvo. Ci hai
ingannati tutti quanti. Me, Diamo, Jessamine. Chi altro sta danzando alla
tua melodia senza nemmeno saperlo? Chi altro ucciderai per ottenere quello
che vuoi?»
«Quattro Figlie, Tric, questo non è un dannato…»
«Un dannato asilo! Lo so! Me l’hai detto mille fottute volte, Mia.»
«E quante volte devo dirtelo prima che tu lo comprenda?»
«Mai più.»
Quelle parole la colpirono come un brocchiere sulla mascella. Anche se
in seguito l’avrebbe negato a se stessa, trasalì davvero quando le udì.
«Siamo stati degli sciocchi a farlo arrivare fino a questo punto. Mi hai
sentito, Mia?» Tric indicò lei. Poi se stesso. «Tu e io? Mai. Più.»
«Tric, io…»
Lui uscì sbattendo la porta.
Mia fissò i suoi palmi vuoti. Le accuse di Tric le riecheggiavano nel
cranio.
Le tornò alla mente la faccia di Diamo. La sofferenza nei suoi occhi
mentre implorava per la propria vita. Ma se l’era meritato, giusto? Per
Lotti?
Le sue urla le rimbombavano dentro la testa, intrecciate con quelle degli
uomini che aveva massacrato sui gradini della Basilica Grande. Sparsi come
stracci laceri e zuppi nel ventre della Pietra Filosofale. Un’orchestra di urla,
e lei era il maestro scarlatto. Mani insanguinate che si agitavano nell’aria.
I passi di Tric scemarono nel corridoio.
Mia rimase lì al buio.
Le spalle curve.
Il capo chino.
Sola.
«… è per il meglio, mia…»
E mai sola.
«… è per il meglio…»
CAPITOLO 30
FAVORI
Cinque cambi prima che fosse troppo tardi per risolvere l’enigma di
Ammazzaragni.
Prima che la sua migliore possibilità per l’iniziazione si dissolvesse
come fumo.
Prima che tutto ciò per cui aveva lavorato si sbriciolasse in polvere.
Solo.
Cinque.
Cambi.
Dalla prova finale di Canti, Mia aveva dormito e mangiato a malapena.
Aveva sepolto il naso in un tomo dopo l’altro, con l’impressione che la
risposta fosse tanto vicina da poterla toccare, solo per guardarla scivolare
via come sabbia quando le chiudeva attorno le dita.
Era scoppiata una guerra di furti senza quartiere, con gli accoliti che si
affannavano per spodestare Ash dalla cima della classifica di Mouser. Il
conto dei punti ora veniva tenuto nell’Altare del Cielo invece che nell’Aula
di Tasche, affinché tutti potessero conoscere il punteggio.
Zitto era al secondo posto, ancora a ottanta punti buoni dalla vetta.
Jessamine era altri venti punti più indietro. Il primato di Ash sembrava
praticamente inattaccabile, un fatto che la ragazza ricordava platealmente a
tutti quanti durante i pasti, nel caso in cui si fossero dati delle arie. Le
camere da letto venivano violate, le tasche depredate e ogni collisione
apparentemente innocua nei corridoi risultava nel passaggio di proprietà di
quattro o cinque oggetti diversi. Il Cronista Aelius presentò un reclamo
formale presso la Reverenda madre dopo che Ashlinn gli rubò gli occhiali
dalla testa mentre stava sonnecchiando alla sua scrivania, a e l’oggetto
numero 5 della lista dello Shahiid Mouser:
Un libro dall’Ateneo (rubato, non preso in prestito, furbacchione) – 6
punti
fu rimosso dalla lista dallo Shahiid in persona per la protesta. A quanto
pareva, Pip aveva orchestrato una razzia all’Ateneo di mattina presto per
sgraffignare alcuni tomi dal carrello dei RESI e si era fatto divorare da uno
dei tarli dei libri più scorbutici. b
«E adesso tutti gli altri sono incazzati per non averne mangiato un
pezzo!» aveva urlato Aelius. «Quello che voglio sapere è chi pulirà il
dannato casino!»
Essendo terminate le lezioni ufficiali, agli accoliti era permesso
viaggiare a Godsgrave ogni volta che volevano. L’oratore Adonai era seduto
presso la pozza per inviare gli assassini in erba nella città di ponti e ossa,
mattina e illuminotte. La Shahiid Aalea teneva il riserbo su chi fosse in testa
nella sua competizione, ma con la quantità di segreti che arrivavano da
’Grave, Mia supponeva che la donna ormai ne sapesse di più dei principes
dei dannati obfuscatii. c
Da sola nella sua stanza o incurvata sopra una scrivania nell’Aula di
Verità (sempre rivolta verso la porta), Mia lavorava alla formula di
Ammazzaragni. Aveva abbandonato l’idea di tornare a ’Grave in cerca di
sussurri. La competizione di Aalea era troppo simile a un azzardo per i suoi
gusti. Meglio lavorare su qualcosa che poteva realmente vedere. Toccare.
Assaggiare.
Aveva montato una serie di equipaggiamenti in vetro; ampolle e ciotole,
cilindri e fiasche, e alambicchi con spirali interminabili. Le soluzioni
gorgogliavano, si dissolvevano o si solidificavano all’interno di quelle
strutture elaborate, e più di cento ratti neri abbandonarono le loro spoglie
terrene mentre Mia continuava la ricerca. Ammazzaragni le faceva visita
spesso, lavorando al proprio banco per esperimenti personali, ma Mia
sapeva di non dover sperare che le offrisse un indizio. Se voleva finire
prima in Verità, se lo sarebbe dovuto guadagnare. In effetti, la Shahiid non
parlava quasi per niente, tranne una volta, il cambio appena dopo la
competizione di Solis.
«Un peccato, per Diamo…»
Mia aveva alzato gli occhi dal suo lavoro. Ammazzaragni aveva
camminato lentamente fino all’ultima scultura di alambicchi di Mia,
facendo scorrere un’unghia lunga per il vetro. Le sue mani erano macchiate
di nero per le tossine. Anche le labbra erano dipinte di nero. Ma il suo
sguardo era il più nero di tutti.
«Un peccato che non abbia provato il suo antidoto prima di usarlo,
intendete?» aveva chiesto la ragazza.
«Ah, ma è proprio quello il problema, vedi» aveva detto Ammazzaragni.
«Anche se non ha annullato del tutto la mia tossina, la soluzione di Diamo
ha rallentato i suoi effetti. Perciò qualunque ratto su cui l’avesse provato la
sera prima doveva essere ancora vivo quando mi ha portato la soluzione la
mattina dopo.»
«Hmmm» aveva detto Mia, tornando al suo lavoro. «Questo è davvero
un peccato.»
La Shahiid aveva dato una pacca sulla spalla a Mia e aveva lasciato
l’aula senza aggiungere un’altra parola. Diamo era stato tumulato in una
tomba senza nome nella Sala degli Elogi quel pomeriggio. Ammazzaragni
non l’aveva più menzionato.
Le innumerevoli ore a lavorare al dilemma le rendevano più facile
evitare Tric, almeno. Mia restava concentrata sul suo compito, riservandogli
meno pensieri possibile. Mangiava a ore strane per evitarlo. E se i suoi
sogni erano visitati dal ragazzo nelle poche ore in cui dormiva realmente,
Messer Cortese li divorava prima che potessero infastidirla.
Quando mancavano due cambi al termine della competizione, Mia era
china sopra una fiasca in ebollizione nell’Aula di Verità. Erano scoccate le
nove, ma lei aveva ricevuto di nuovo la dispensa da Ammazzaragni per
restare fuori dopo il coprifuoco. Un sentore di zucchero bruciato e ratto
morto aleggiava nell’aria. Si intrecciava nei suoi capelli. Le offuscava lo
sguardo.
Mia udì le porte aprirsi.
Alzò lo sguardo aspettandosi di vedere Ammazzaragni, ma al suo posto
Mia vide brillanti occhi azzurri. Carnagione pallida e zigomi spigolosi. Un
ragazzo più grazioso che bello.
Le ampie doppie porte si chiusero silenziosamente alle sue spalle.
La mano di Mia andò allo stiletto che aveva nella manica.
«Salve, Zitto» disse.
Il ragazzo, naturalmente, non replicò. Attraversò l’aula in silenzio per
andare a mettersi di fronte a Mia. La osservò attraverso l’equipaggiamento
di vetro, le labbra premute assieme.
Teneva le mani dietro la schiena.
Mia era tesa come una molla mekana. Questa era la stanza in cui era
stata uccisa Lotti, dopotutto. Messer Cortese l’aveva avvisata che Jessamine
e Diamo potevano non essere i colpevoli. Zitto era stato colto a
vagabondare dopo le nove, ma nessuno aveva mai spiegato cosa stesse
facendo quando era stato scoperto, e ora eccolo qua, fuori dalle sue camere
dopo la nona campana, di nuovo. E nessuno aveva mai scoperto cos’era
successo a Chiamapiena…
Il silenzio del ragazzo era totale: non solo le sue labbra, ma la sua intera
persona. Non emetteva alcun suono quando camminava. Quando respirava.
Quando si muoveva, perfino il tessuto dei suoi vestiti era muto. E le sue
dannate mani erano ancora dietro la schiena.
«Non dovresti essere fuori dopo il coprifuoco» disse Mia.
Zitto si limitò a sorridere.
«… Posso aiutarti con qualcosa?»
Il ragazzo scosse lentamente il capo.
Messer Cortese prese forma dietro Zitto, osservando. Ogni muscolo del
corpo di Mia era teso. Le ombre attorno a lei si incresparono e le sue dita si
contrassero. La sua stessa ombra cominciò a piegarsi, serpeggiando per il
pavimento, più lunga e scura di quanto sarebbe dovuta essere. E Zitto tirò
fuori le mani da dietro la schiena e mostrò che erano vuote.
Mia sospirò. Lasciò andare il coltello. Zitto cominciò a parlare in
Senzalingua: le sue dita si muovevano così rapidamente che Mia aveva
difficoltà a seguirle.
aiutarti
Mia rispose con i segni a sua volta, un po’ più impacciata del ragazzo.
aiutarmi con cosa?
Il ragazzo indicò le misture gorgoglianti, le fiale, i condensatori e i
barattoli. Mia ricordò quando lo aveva visto durante la flagellazione. Quelle
gengive senza denti allo scoperto mentre urlava senza emettere un suono.
Le mani della ragazza si mossero rapide, gli occhi non lasciarono mai quelli
del giovane.
perché?
Zitto esitò a quella domanda. Un cipiglio accennato guastò quella fronte
perfetta.
ho osservato
questo non è il tuo posto
Adesso fu il turno di Mia di aggrottare le ciglia. Era confusa. Insultata.
cosa significa?
Le mani del ragazzo oscillarono e dita agili crearono parole dal silenzio.
dopo la flagellazione
tu sei stata l’unica
a chiedere se stavo bene
a nessun altro importava
Zitto scosse il capo.
questo non è il tuo posto
Mia lo guardò torvo.
e invece è il tuo?
Il ragazzo annuì.
orrendo come il resto di loro
Mia era confusa. Girò attorno alle spire di vetro gorgogliante, l’odore
dolciastro della morte. Si mise davanti al ragazzo e gli prese le mani,
sussurrando.
«Zitto, di cosa stai parlando? Tu non sei affatto orrendo.»
Il ragazzo si mise realmente a ridere a quelle parole. Le sue corde vocali
erano atrofizzate per il disuso e la risata uscì come poco più di uno squittio.
Si portò le mani alla bocca mentre sghignazzava, ma lei intravide
comunque le gengive senza denti dietro quelle labbra ad arco. Le crepe
dietro i suoi occhi.
«Cosa ti è successo?» mormorò.
Lo sguardo del ragazzo era intenso. Gli occhi erano come un cielo riarso
dai soli.
schiavizzato
«Ma non hai alcun marchio da schiavo.»
Il ragazzo scosse il capo.
ci mantengono graziosi
«… Chi?»
casa di piacere
Mia sentì freddo allo stomaco quando osservò i suoi gesti formare le
parole. Seppe immediatamente cosa intendeva il ragazzo. Da dove era
venuto. Chi l’aveva posseduto prima di tutto questo e perché gli aveva tolto
tutti i denti, fino all’ultimo.
«Oh, dea» mormorò. «Mi dispiace così tanto, Zitto.»
lo vedi?
Le labbra del ragazzo si incresparono in quello che poteva essere un
sorriso.
questo non è il tuo posto
Si guardò attorno per la stanza, verso il liquido che bolliva e i ratti morti,
marcio e ruggine nell’aria.
ma la gentilezza dovrebbe raccogliere gentilezza
perfino in un campo come questo
Il ragazzo si infilò un braccio nelle brache e per un attimo,
istintivamente, la mano di Mia vagò di nuovo alla manica. L’oscurità
attorno a loro tremolò. Ma invece di un coltello nascosto, il ragazzo tirò
fuori un quaderno rilegato in cuoio nero. Lo aprì a una pagina a caso. Mia
vide degli appunti in codice, una variante della sequenza Elberti mista a un
cifrario artigianale. Riconobbe la calligrafia. Il cifrario stesso.
«È il quaderno di Carlotta» mormorò.
Il ragazzo annuì.
«Dove l’hai preso?»
Zitto inclinò la testa.
te l’ho detto
ho osservato
Il cuore di Mia prese a battere più veloce. Sfogliò le pagine e vide che su
non poche c’erano schizzi di sangue secco. Una pagina verso il fondo era
stata strappata via completamente. Una lenta rabbia ribolliva sotto la sua
pelle, ma per istinto lei la tenne a bada. Non aveva senso infuriarsi senza
motivo. Zitto si stava offrendo di aiutarla. Poteva aver ottenuto gli appunti
di Carlotta senza averla uccisa: se n’era andato in giro di soppiatto per la
Chiesa fin dal suo arrivo. Tuttavia, spesso la risposta più semplice era anche
quella giusta…
«Zitto» sussurrò lei in tono lento e accorto. «… Hai ucciso tu Lotti?»
Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla sua ombra. Poi lo alzò nei suoi occhi.
che importa?
Mia chiuse le mani a pugno. Rosso nei suoi occhi.
«Importa perché lei era mia amica.»
Il ragazzo scosse il capo. Sembrò quasi triste.
tu hai un solo amico dentro queste mura
non carlotta
non tric o ashlinn
e non me
Zitto la fissò senza sbattere le palpebre. Mia si rese conto che non era
suo alleato. Questo non era un segno di rispetto o un simbolo di riottosa
amicizia da parte di questo stranissimo ragazzo. Un debito ripagato, tutto
qua. Gentilezza per gentilezza. Perfino in un campo come questo. E anche
se le dita di Zitto non si mossero affatto, le parole si agitavano con evidenza
nei suoi occhi.
“Prendilo o lascialo.”
Mia sollevò il libro dalle mani del ragazzo. Zitto inclinò la testa in un
inchino appena accennato, la frangia che gli cadeva sopra i tormentati occhi
azzurri. Poi girò i tacchi e si allontanò dall’aula, silenzioso come un
soliraggio. Raggiunse le doppie porte e le aprì con una spinta della mano,
ma la voce di Mia lo fece fermare di colpo.
«Zitto.»
Il ragazzo si girò. Attese.
«Perché non usi tu stesso gli appunti? Non vuoi essere primo dell’aula?»
Zitto inclinò il capo. Le rivolse un sorriso d’intesa.
E senza un sussurro se ne andò.
Ci vollero ore per decifrare il codice di Carlotta. Altre ancora per rimettere
assieme i frammenti di quella scrittura fitta, con il coro spettrale come sua
unica compagnia. La pagina mancante era un mistero, ma in definitiva non
aveva importanza. Le venne in mente che forse Zitto stava usando con lei lo
stesso stratagemma che Mia aveva usato con Diamo. Ma la verità era che
Mia era già stata abbastanza vicina alla soluzione da saggiarne il sapore:
forse le mancavano solo poche ore per risolvere l’enigma da sola. Dubitava
che Zitto sarebbe stato tanto stupido da imbrogliarla al suo stesso gioco. E
lì, tra i pensieri di Carlotta scritti in modo ordinato, trovò l’unico pezzo
mancante: la chiave finale per aprire la serratura che ancora le sfuggiva.
Ne era certa.
Mia distillò la sua soluzione in tre fiale. Ne usò due su un paio di ratti e
tenne la terza per sé. I suoi compagni pelosi stavano sonnecchiando nelle
loro gabbie due ore dopo quando Ammazzaragni aprì le porte e trovò Mia
seduta in mezzo a palazzi di vetro scintillante.
«Sei qui presto, accolita» disse lo Shahiid. «O forse è tardi?»
Come unica risposta, la ragazza tenne sollevata una fiala di vetro, piena
di un liquido torbido. Ammazzaragni attraversò l’aula tra il fruscio delle sue
vesti verde giada. Scostando le salciocche dalla spalla, lanciò un’occhiata
alla fiala che Mia aveva in mano. Labbra dipinte di nero si incurvarono in
un sorriso curioso.
«E cos’è che hai?»
«Una risposta all’impossibile.»
«Ne sei certa?»
Mia si guardò i piedi e seppe senz’ombra di dubbio che, perfino se
Messer Cortese non fosse stato con lei, in quel momento lei non avrebbe
avuto paura.
Guardò Ammazzaragni e sorrise.
«C’è un solo modo per esserne certa, Shahiid.»
a. Il suo ultimo paio. Il buon Cronista aveva rotto quelli di riserva durante un incontro di lotta con
una copia di Al servizio di sua maestà, l’autobiografia di Angelica Trobbiani, cortigiana durante il
regno di Francisco VI. Tutte le copie di questa “oscenità sovversiva” erano state rintracciate e
bruciate su ordine della regina di Francisco, Aria, dopo la morte del marito. La copia nell’Ateneo
della Chiesa Rossa è l’ultima esistente.
Il libro, avendo ereditato parte del famigerato temperamento della sua autrice, è
comprensibilmente turbato per questo fatto.
b. Nessuno sa cosa ne fu dell’amato coltello del ragazzo.
c. La terza branca della burocrazia della Repubblica (la prima e la seconda sono rispettivamente i
Luminatii e gli administratii). Molto meno numerosi delle altre due organizzazioni simili, gli
obfuscatii sono gli intermediari di informazioni e i venditori di dicerie del senato. Preoccupati
principalmente delle minacce interne alla sicurezza di Itreya, l’organizzazione risale alla nascita
della Repubblica stessa. Il suo fondatore, Tiberius il vecchio, era noto per essere stato tra i
rivoltosi che rovesciarono l’ultimo re di Itreya, Francisco XV.
Secondo alcune dicerie, fu dello stesso Tiberius la mano che impugnava la lama che uccise il
povero Francisco.
CAPITOLO 31
DIVENTARE
Quella sera, Mia dormì il sonno dei morti giusti. Fu svegliata da un lieve
bussare prima del mediopasto e udì la voce bassa di una Mano dall’altro
lato della porta.
«Fatti trovare nella Sala degli Elogi tra un’ora, accolita.»
Mia si vestì lentamente e si diresse verso l’Altare del Cielo. Panche e
sedie erano deserti, la Montagna Silente più tranquilla di come se la fosse
mai ricordata. Il pensiero dell’iniziazione riempiva la sua mente. Era finita
prima in Verità, ma la Reverenda madre aveva lasciato intendere che la
attendevano altre prove. Non aveva alcun indizio su cosa avrebbe potuto
affrontare nella Sala degli Elogi, o quali ostacoli finali avrebbe dovuto
superare.
Si fermò presso l’Ateneo mentre si dirigeva alla sala. Il Cronista Aelius
stava oziando sulla soglia come sempre, scartabellando il carrello dei RESI .
Senza dire una parola, si tolse l’onnipresente sigaretto di riserva da dietro
l’orecchio e lo offrì a Mia. I due si appoggiarono contro la parete a
osservare il mare di scaffali lì sotto. Quante vite avrebbe potuto passare
laggiù se fosse stata libera di farlo? Con quanta facilità si sarebbe potuta
perdere in quelle pagine infinite e lasciarsi alle spalle questa strada di
ombre e sangue?
«Presto sarai iniziata, eh?» chiese Aelius.
Mia annuì e soffiò un perfetto anello di fumo grigio all’aroma di fragola.
«Be’…» Aelius scrollò le spalle. «Tutte le cose belle…»
Mia si leccò il sapore dolce dalle labbra. «Non hai mai trovato il libro
che avevo chiesto?»
Il Cronista scosse il capo. «Però ieri ho scoperto una nuova ala là fuori.
Migliaia di libri. Milioni di parole. Forse c’è qualcosa sui tenebris.»
Mia fece spaziare lo sguardo sulle parole lì sotto. Sospirò.
«Che posto bellissimo. Parte di me vorrebbe poter restare qui per
sempre.»
«Attenta a ciò che desideri, ragazzina.»
«Lo so» disse Mia. «L’erba è sempre più verde. Comunque ti invidio,
Aelius.»
«I vivi non invidiano i morti.»
Mia guardò il vecchio. Un lento cipiglio si formò sulla sua fronte quando
si rese conto che non lo aveva mai visto lasciare l’Ateneo. Non l’aveva mai
visto consumare un pasto all’Altare del Cielo o attraversare nemmeno una
volta questa soglia ed entrare nella Chiesa vera e propria. La ragazza fissò il
suo sigaretto. Il simbolo del sigaraio che non aveva mai visto prima.
“Non ne fanno più così.”
La biblioteca della Nostra Signora dell’omicidio benedetto.
“Una biblioteca dei morti.”
«Tu…»
«La Madre tiene solo ciò che le serve» disse il vecchio.
Mia si limitò a fissarlo con un senso di gelo nella pancia. Orrore e
tristezza nel suo cuore.
«Ricordi cos’ho detto quel cambio in cui avete incontrato il tarlo dei
libri?» chiese Aelius.
«Hai detto che forse questo non era il mio posto.»
Aelius prese una lunga boccata dal sigaretto. Soffiò una serie di anelli di
fumo che si inseguirono tra loro nel buio silenzioso. «Darò un’occhiata in
quella nuova ala. Se troverò qualcosa sui tenebris, lo farò lasciare nelle tue
camere. O da qualche altra parte. Se è dove vuoi essere.»
Mia si accigliò attraverso una nube di grigio mutevole.
«Buona fortuna nella Sala degli Elogi, ragazzina» disse Aelius. «Sono
certo che andrà tutto bene.»
«… I miei ringraziamenti, Cronista.»
Aelius spense la sua paglia contro il muro e si mise in tasca i resti.
«Sarà meglio che vada. Troppi libri.»
«Troppo pochi secoli.»
Allora lui la guardò. C’era qualcosa di vuoto e orribile in quello sguardo
azzurro latteo. Ma con una scrollata di spalle, l’uomo zoppicò giù per le
scale, tra gli scaffali interminabili.
L’oscurità lo inghiottì.
Tre accoliti erano all’ombra della dea.
La Madre della Notte torreggiava sopra di loro, fissandoli con occhi di
pietra.
Tric e Zitto erano già lì in attesa quando Mia arrivò, con diverse Mani
che aleggiavano ai margini della luce dei vetri colorati. Mentre il coro
spettrale cantava nel buio, una figura in una lunga veste scortò Mia sul
podio. Lanciando un’occhiata di lato, lei scorse dei riccioli biondo ramato.
«Amica Naev» sussurrò Mia.
La donna le strinse la mano. «Buona fortuna. Forza.»
Mia prese il suo posto accanto a Tric. Notò che il ragazzo la stava
ignorando di proposito. Udì la voce di un’ombra che le riecheggiava nella
testa.
«… è per il meglio, mia…»
Tre accoliti radunati. I vincitori in Verità, Canti e Tasche. Mia si
domandò chi avesse vinto infine nell’aula di Aalea e quale genere di segreto
dovesse aver carpito per ottenere il favore della Shahiid. Udì passi morbidi
dietro di lei. Si ritrovò a pregare di non girarsi e vedere Jessamine.
Prendendo un respiro profondo, Mia si guardò alle spalle. E lì, in piedi al
margine della luce, vide Ashlinn. I capelli erano acconciati in bellitrecce
nuove, gli occhi scintillavano al buio. Una spilletta di legnoferro era
appuntata alla sua camicia. Una maschera da Arlecchino sorridente.
«Spiacente di aver fatto tardi» sogghignò la ragazza.
Ammiccando a Mia, Ash salì sul podio e prese posto al fianco di Zitto.
Mia era sbalordita. Che razza di segreto aveva ripescato la ragazza? Cosa
doveva…
«Accoliti.»
Mia si mise dritta, gli occhi davanti a sé. Le doppie porte per
l’anticamera si erano aperte senza emettere un suono. Una Mano avvolta in
lunghe vesti nere attendeva sulla soglia, una pergamena spiegata davanti a
lei. Al suo fianco c’era la Reverenda madre Drusilla.
«Le mie congratulazioni a voi tutti» disse l’anziana. «Ciascuno di voi ha
dimostrato maestria in una delle quattro aule di questa Chiesa e competenza
considerevole in altri ambiti di studio. Di tutti gli accoliti del gregge di
quest’anno, siete i più vicini a essere iniziati come Lame. Ma prima che
lord Cassius possa introdurvi appieno ai segreti di questa cerchia, resta una
prova finale.»
L’anziana si voltò, scomparendo tra le doppie porte in un turbinio di
stoffa nera. La Mano che portava la pergamena venne avanti, consultando il
foglio.
«Accolito Tric?»
Tric prese un respiro profondo e venne avanti. «Sì.»
«Cammina con me.»
Mia osservò il ragazzo avanzare, con Naev al suo fianco. Si domandò
cosa lo attendesse. Cercò di mettere da parte il ricordo del loro ultimo
commiato. Il senso di colpa per averlo ferito, la rabbia negli occhi del
ragazzo… Se c’era la morte dietro quella porta, Mia voleva che le cose tra
loro fossero a posto. Ma lui era già andato, varcando la soglia senza
nemmeno guardarsi indietro, e le porte si erano chiuse silenziosamente alle
sue spalle. Mia poteva avvertire Messer Cortese nella sua ombra, che
gravitava verso la paura crescente attorno a lei. Lanciò un’occhiata a Zitto.
Poi ad Ashlinn. Si domandò se il padre della ragazza le avesse detto cosa
aspettarsi oltre quelle porte.
Il terzetto attese in silenzio all’ombra della statua. Passarono i minuti.
Lunghi come anni. Quel perpetuo coro spettrale era l’unico suono. Infine le
porte si aprirono, e ne uscì Tric. Aveva la mascella serrata. Era lievemente
pallido. Apparentemente illeso. Trovò gli occhi di Mia e lei vide
un’espressione tormentata attraversargli il volto. Per un attimo, pensò che
stesse per parlare. Ma senza dire nulla agli altri, Tric fu scortato su per le
scale a chiocciola e scomparve.
Ash aveva lo sguardo dritto davanti a sé. Parlò in un sussurro, le labbra
quasi immobili.
«Sii sicura, Corvere.»
«Accolita Mia.»
La Mano presso le doppie porte la stava guardando con trepidazione.
Messer Cortese fece le fusa nella sua ombra. Mia venne avanti, le mani
strette a pugno.
«Sì.»
«Cammina con me.»
Mia scese dal podio. Naev fu di nuovo al suo fianco, accompagnandola
come aveva fatto con Tric. Quando raggiunsero la soglia, la donna le toccò
la mano e annuì.
«Tienilo con te, Mia Corvere. Tienilo stretto.»
Mia incontrò gli occhi della donna, ma non ci fu possibilità di chiederle
cosa intendesse. La ragazza si voltò e seguì la Mano per un lungo passaggio
di pietra scura. L’unico suono era quello dei loro passi delicati, il coro muto
quando le doppie porte si chiusero dietro di loro. Più avanti li attendeva una
grande stanza a cupola, adornata su tutti i lati da ampie finestre ad arco di
vetro colorato. Motivi astratti erano raffigurati sui pannelli, spirali rosso
sangue, che ruotavano e si contorcevano, dodici dita di luce che si
sovrapponevano sul pavimento.
In piedi al centro della luce, Mia vide la Reverenda madre Drusilla. Le
sue mani erano ripiegate all’interno della veste e sul volto aveva quel
paziente sorriso materno. La chiave di ossidiana attorno al suo collo
scintillava al movimento indolente del petto. Mia si avvicinò con cautela,
scrutando tra le ombre, lieta per i non-occhi che aveva dietro la testa.
Non poté fare a meno di notare che il pavimento di fronte a Drusilla era
umido.
Era stato ripulito da poco.
«Salute, accolita.»
Mia deglutì. «Reverenda madre.»
«Questa è la tua ultima prova prima dell’iniziazione. Sei pronta?»
«Suppongo che dipenda da cosa si tratta.»
«Una cosa semplice. Un momento ed è fatta. Ti abbiamo affilata a un
punto tale che potresti tagliare la soliluce in sei parti. Ma prima di iniziarti
ai misteri più profondi, dobbiamo vedere cosa batte nel tuo cuore.»
Mia ripensò alla cella delle torture a Godsgrave. Ai “confessori” che
l’avevano picchiata, bruciata, quasi affogata per la prova di lealtà di lord
Cassius. Allora non l’avevano distrutta. Non l’avrebbero distrutta ora.
«Ferro o vetro» disse Mia.
«Precisamente.»
«Non abbiamo già risposto a quella domanda?»
«Hai dimostrato la tua lealtà, vero. Ma se servirai come Lama della
Madre, affronterai la morte in tutti i suoi colori. La tua stessa morte è solo
uno di essi. Questo è un altro.»
Mia udì un fruscio di passi nelle ombre. Vide due Mani avvolte di nero
che trascinavano tra loro una figura che si dibatteva. Un ragazzo. A
malapena adolescente. Gli occhi sgranati. Le guance macchiate di lacrime.
Legato e imbavagliato. Le Mani lo trascinarono al centro della luce e lo
costrinsero a mettersi in ginocchio di fronte a Mia.
La ragazza guardò la Reverenda madre. Quel dolce sorriso matronale.
Quegli occhi vecchi e gentili, corrugati agli angoli.
«Uccidi questo ragazzo» disse l’anziana.
Tre parole. Pesavano una tonnellata ciascuna.
Tutto il mondo rimase immobile. Il buio la opprimeva. Quel peso si posò
sulle sue spalle, schiacciandola. Era difficile respirare. Era difficile vedere.
«Cosa?» riuscì a dire.
«Potrebbe giungere il momento in cui ti verrà chiesto di uccidere un
innocente come servizio a questa congregazione» replicò Drusilla. «Un
bambino. Una moglie. Un uomo che abbia vissuto in modo retto. Non sta a
te mettere in discussione il perché. O chi. O cosa. Tu devi solo servire.»
Mia guardò il ragazzo negli occhi. Erano sgranati dal terrore.
«Ogni morte che portiamo è una preghiera» continuò Drusilla. «Ogni
uccisione è un’Offerta a Colei che è tutto e nulla. La Nostra Signora
dell’omicidio benedetto. Madre, Fanciulla e Matriarca. Lei ha posto il Suo
marchio su di te, Mia Corvere. Tu sei la Sua servitrice. La Sua discepola.
Forse perfino la Sua prescelta.»
L’anziana donna le porse un pugnale nella mano aperta. Fissò Mia
intensamente.
«E se tagli la gola di questo ragazzo, tu sarai la Sua Lama.»
Durò un’eternità. Durò un momento. La ragazza rimase lì immobile in
quella luce rosso sangue. La mente correva. Il cuore martellava. Domande
mai pronunciate le turbinavano nella testa.
Conosceva già le risposte.
“Chi è lui?”
“Nessuno.”
“Cos’ha fatto?”
“Niente.”
“Perché dovrei ucciderlo?”
“Perché te lo diciamo noi.”
“Ma…”
“Ferro o vetro, Mia Corvere?”
Prese il pugnale dalla mano di Drusilla. Saggiò il filo. Pensò che potesse
essere a molla, che potesse trattarsi di un altro inganno, che tutto ciò che le
occorreva fare fosse mostrare la volontà e tutto sarebbe andato bene. Ma il
coltello era tanto affilato da stillare sangue sul suo polpastrello. La lama
solida quanto qualunque altra avesse impugnato.
Se l’avesse conficcato nel petto di questo ragazzo, senza esitazioni,
l’avrebbe fatto finire nella fossa.
«Il lupo non commisera l’agnello» disse Drusilla. «La tempesta non
chiede perdono agli affogati.»
La ragazza guardò la pietra umida ai suoi piedi. Seppe con esattezza
cos’era stato lavato via negli attimi prima che entrasse nella stanza. Seppe
che Tric non aveva esitato. Non si era sfaldato.
«Assassino uno» sussurrò Mia. «Assassini tutti.»
Era il momento. Tutti gli anni. Tutte le miglia. Tutte le illuminotti
insonni e i cambi interminabili. Questo era il sentiero che aveva intrapreso.
Avevano impiccato suo padre. L’avevano strappata dalle braccia di sua
madre, avevano ucciso il suo fratellino. La sua casa, la sua famiglia, il suo
mondo… tutto distrutto.
Ma era un motivo sufficiente per ammazzare questo ragazzo senza
nome?
Uccidendolo si sarebbe assicurata il suo posto qui. Sarebbe diventata la
Lama che avrebbe trafitto il cuore di Duomo, si sarebbe insinuata nelle
viscere di Remus, avrebbe tagliato la gola di Scaeva da un orecchio
all’altro. Figlie, meritavano di morire. Mille e mille volte. Urlando.
Implorando. Piangendo.
Ma anche il ragazzo stava piangendo. Fili di muco gli rigavano il labbro.
Mia lo guardò e lui gemette dietro il bavaglio. Scosse il capo. Lei poteva
vedere le parole nei suoi occhi.
“Ti prego.
“Ti prego, no.”
Lanciò un’occhiata a Madre Drusilla. Sorriso gentile. Occhi tranquilli.
Pietra umida ai suoi piedi. E poi cercò dentro se stessa un motivo per
uccidere questo ragazzo. Il fratello di qualcuno. Il figlio di qualcuno. Era a
malapena più grande di lei. Scavò a fondo, tra il fango e il sangue. Tra i
brandelli della moralità che aveva messo da parte quando aveva intrapreso
questa strada, lastricata delle migliori intenzioni. Le urla di Diamo mentre
moriva le riecheggiavano nella testa. Gli innumerevoli uomini e donne che
aveva sterminato all’interno della Pietra Filosofale. I Luminatii che aveva
massacrato sugli scalini della Basilica Grande.
“Io sono acciaio” disse a se stessa.
Tutto questo accadde in un secondo. Un attimo sotto lo sguardo freddo
della Reverenda madre. E l’istante successivo, Mia si inginocchiò davanti al
ragazzo. Gli posò la lama sulla gola. Il cuore le martellava contro le costole.
Pronunciò le parole come una credente.
“Io sono acciaio.”
«Ascoltami, Niah» mormorò. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo
banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio dono
per te. Tienilo stretto.»
La vecchia sorrise.
Il ragazzo piagnucolò.
Mia prese un profondo respiro tremante. L’avvertimento di Naev le
riecheggiava nella testa. E, con orrore, infine comprese. Infine udì. Proprio
come l’aveva udita dai bastioni sopra il foro dov’era stato impiccato suo
padre.
“Musica.”
Il lamento funebre del coro spettrale. Il tuono delle sue stesse pulsazioni.
Il singhiozzo sommesso di questo povero ragazzo si insinuò assieme al
ricordo dell’applauso di un sacro brigante e un attraente console, e del
mondo marcio andato in malora. E allora lei seppe. Come aveva sempre
saputo. Nonostante tutte le miglia, tutti gli anni, tutti i tomi polverosi, le
mani sanguinanti e la malefica oscurità. Ferro, vetro o acciaio, quello di cui
era composta ora non faceva differenza. Era ciò che sarebbe diventata una
volta ucciso questo ragazzo che avrebbe avuto davvero importanza.
Scaeva meritava di morire. Duomo. Remus. Diamo. Quei Luminatii alla
Basilica Grande erano gli strumenti della macchina da guerra del senato.
Perfino gli uomini e le donne nella Pietra erano criminali incalliti. Nel buio
della sua camera da letto, lei poteva convincersi che le loro morti fossero
giustificate, se si sforzava di provarci. Poteva ritrovarsi a credere che tutti
coloro che aveva ucciso fino a questo punto, le innumerevoli morti che
aveva donato, l’orchestra di urla e lei, il maestro scarlatto… che tutti quanti
lo meritassero.
Ma questo ragazzo?
Questo bambino senza nome, senza colpa?
Se l’avesse ucciso, la verità era che anche lei se lo sarebbe meritato. E
malgrado tutte le miglia e tutti gli anni, la vendetta non era un motivo
sufficiente per diventare il mostro a cui dava la caccia.
Mia allontanò il coltello dalla gola del ragazzo.
Si rimise lentamente in piedi.
«Non per questo» disse.
Drusilla scrutò il suo volto, e lo sguardo dell’anziana divenne duro come
il ferro.
«Ti abbiamo avvisato, Mia Corvere. Marchiata dalla Madre oppure no.
Se fallisci in questo, fallirai completamente. Tutto il lavoro di Mercurio,
tutti i cambi che hai studiato ai suoi piedi, dentro queste mura. Il sangue, la
morte, tutto quanto sarà stato per nulla.»
Mia abbassò lo sguardo negli occhi del ragazzo. Il fratello di qualcuno. Il
figlio di qualcuno.
Le tremavano le mani. Aveva le lacrime agli occhi. Ceneri sulla lingua.
Eppure…
«Non per nulla» disse.
E riconsegnò la lama.
Giaceva sul suo letto al buio. Accanto a lei, un’ombra che non diceva una
parola.
In mano aveva il suo ultimo sigaretto. Un lungo dito di cenere
tratteggiato pendeva dalla punta fumante. La frangia sugli occhi. Oscurità
nella sua testa.
Cos’avrebbero fatto con lei? L’avrebbero relegata al ruolo di Mano?
L’avrebbero flagellata?
Uccisa?
A ogni modo, non aveva importanza. Ora non sarebbe mai diventata una
Lama. Non avrebbe mai appreso i misteri più profondi della Chiesa, o i
misteri di chi e cosa era. Non sarebbe mai diventata affilata quanto le
serviva per avere una possibilità di uccidere Scaeva. Adesso per lei era
intoccabile, proprio come Mercurio aveva…
“Mercurio…”
Cos’avrebbe fatto lui?
Cos’avrebbe detto?
Un rumore di chiavi alla porta. Non si preoccupò nemmeno di prendere
il suo stiletto. Chiunque fosse, non le importava. Mettendosi il sigaretto alle
labbra, fissò il soffitto, guardando le ombre contorcersi.
Passi delicati. Il clic clac di un bastone da passeggio su pietra fredda.
Una figura curva e stanca in piedi in fondo al letto.
«Andiamo a casa, piccolo Corvo.»
Lei guardò il vecchio con le lacrime agli occhi.
Oh, Figlie, quanto si odiava, in quel momento…
«Sì, Shahiid» disse lei.
Partì solo con una manciata di oggetti. Il suo pugnale di necrosso. La spilla
di legnoferro per cui aveva lavorato così sodo. Una tela cerata legata stretta
con i suoi libri, gli appunti macchiati di sangue di Lotti. Nient’altro sarebbe
potuto passare per il Cammino del Sangue. Non c’era altro che potesse
portare.
Naev accompagnò Mia e il vecchio giù per il percorso a spirale verso le
camere dell’Oratore. Ma la donna si rifiutò di entrare nel dominio di
Adonai.
«Lei deve pensarci per un cambio o due» disse Naev dalla soglia. «Le
ferite guariscono con il tempo. Naev sarà lieta di rivederla qui. Naev può
parlare con Madre Drusilla a suo nome mentre lei è via. Può accompagnare
Naev nei suoi viaggi a Ultima Spes. È un bel posto. Una buona vita. Forse
non quella che lei voleva…» guardò verso la camera e l’Oratore lì dentro
«… ma di rado la vita lo è.»
Mia annuì. Strinse forte la mano della donna. «Grazie, Naev.»
Entrarono nelle stanze di Adonai. L’aria era intrisa dell’odore di sangue.
L’Oratore era inginocchiato al vertice della pozza, macchiato di sangue.
Rivolse addirittura un inchino a Mercurio, gli occhi verso terra.
Il vecchio sembrava più stanco di quanto Mia l’avesse mai visto.
Scendere per le scale era stato lento e straziante, il suo bastone che batteva
forte a ogni passo. Mia supponeva che lui non si sarebbe mai immaginato di
percorrere di nuovo questa strada. Non avrebbe mai pensato di dover
tornare qui a prenderla – la sua migliore allieva, il suo fallimento – per
trascinarla di nuovo a Godsgrave in disgrazia. Ma pareva che la Reverenda
madre avesse consigliato a Mercurio che sarebbe stato meglio se Mia non
fosse stata presente all’iniziazione. Ammazzaragni era furibonda che avesse
dilapidato il suo favore. Lord Cassius non aveva tempo per la debolezza, né
per i deboli, e presto sarebbe arrivato alla Montagna per consacrare gli altri
con il suo sangue. Mia doveva tornare a ’Grave con il suo Shahiid, a
pensare a lungo e duramente al proprio futuro. Poteva tornare alla
Montagna e servire per tutta la vita come una Mano. Oppure poteva
decidere che vivere nel fallimento era inaccettabile e occuparsi di quella
faccenda per conto suo.
Drusilla aveva messo in chiaro qual era l’alternativa che preferiva per
Mia.
E lei non aveva nemmeno avuto la possibilità di dire addio a Tric…
«Andiamo, piccolo Corvo» sospirò Mercurio. «Non ho mai potuto
sopportare queste fottute pozze. Prima entriamo, prima usciamo.»
«Un momento!» giunse una voce.
Mia si voltò con il cuore in gola, pensando che forse lui era venuto a
vederla partire. Invece vide Ashlinn che correva verso di lei lungo il
corridoio. Delusione e gioia si mischiarono nel petto di Mia. Ash le gettò le
braccia attorno alle spalle e strinse forte. Mia restituì l’abbraccio con quanta
forza aveva in corpo.
«Avevi intenzione di andartene senza un addio?» domandò Ash.
«Tornerò» disse Mia. «Tra qualche cambio.»
Ash scoccò un’occhiata consapevole allo zaino di Mia e a ciò che
conteneva. Non disse nulla.
«Hai un’aria familiare» disse Mercurio. «Come ti chiami, ragazzina?»
«Ashlinn» rispose lei. «Ashlinn Järnheim.»
«Sei la figlia di Torvar? Come sta il vecchio bastardo?»
«Com’è stato per anni. Mezzo cieco. Storpio. Mutilato.»
«Tu l’hai reso orgoglioso, Ash» disse Mia. «Sei riuscita dove altri hanno
fallito.»
«Tu non hai fallito, Corvere» replicò Ash. «Non pensarlo mai.»
Mia sorrise tristemente. «Sono sicura.»
«Dico sul serio.» Ash le strinse forte la mano. «Questo non è mai stato il
tuo posto, Mia. Ti meriti di meglio.»
Il sorriso di Mia si spense. Confusione nei suoi occhi. Mercurio borbottò
impaziente.
«Su, basta con queste stronzate degli abbracci. Andiamo.»
Ash guardò torvo il vecchio. Poi spostò lo sguardo su Mia, incerta. Prese
un respiro profondo, come se stesse per immergersi in acque oscure. E poi
si sporse lentamente in avanti, prese il volto di Mia tra le mani e la baciò
delicatamente sulle guance.
Durò un momento di troppo. Forse non abbastanza? Era caldo e delicato
come miele. Prima che Mia potesse decidere, era già finito. Ash interruppe
il bacio e strinse la mano di Mia. Un milione di parole non dette le
brillavano negli occhi. Un altro milione sulla lingua di Mia.
«… Dirai addio a Tric per me?» chiese infine.
L’espressione di Ash si attenuò. Sospirò e annuì lentamente.
«Lo farò. Prometto.»
Mia lasciò andare la mano della sua amica. Guardò le pareti attorno a lei.
I glifi e il sangue. Si domandò se questa sarebbe stata l’ultima volta in cui
avrebbe visto tutto ciò. Guardò Adonai, Mercurio, Ash. Poi, con un respiro
profondo, entrò nella pozza.
Il rosso si sollevò attorno a lei.
Mia chiuse gli occhi.
E cadde.
Avevano lavato via il sangue nei bagni della Porcheria, ma Mia riusciva
ancora a sentirne l’odore sulla sua pelle.
Arrancò per le strade di Godsgrave, con Mercurio che zoppicava accanto
a lei. Nessuno dei due parlava. Trovava un certo conforto nel fatto che il
vecchio fosse venuto a prenderla, che avesse parlato a Drusilla in suo
favore. Qualche cambio lontano dalla Chiesa le avrebbe schiarito la testa,
aveva detto Mercurio. Le avrebbe fatto bene. Le avrebbe permesso di
pensare alla scelta che le si prospettava.
La vita come una Mano. La vita di una servitrice.
Si fissò su quel pensiero, rabbuiandosi. Non c’era vergogna in quello.
Naev era una mano e teneva la testa alta. Forse non sarebbe stato così male.
Viaggiare per le Frusciaride, giù per l’Ashkah meridionale. Trovare bellezza
in parti del mondo che non aveva mai visto. a
Ma Scaeva? Duomo? Remus?
Poteva trascorrere la sua intera vita sapendo che la sua familia non
avrebbe ottenuto vendetta?
Venti sferzanti ruggivano dalla baia, gelidi e urlanti. L’inverno era giunto
a ’Grave con forza e le tempeste si addensavano costantemente
all’orizzonte, avvolgendo la luce di Saan e smorzando il bagliore azzurro di
Saai mentre sorgeva di nuovo dal limitare del mondo. Tuttavia… lì fuori era
così luminoso. Quasi accecante dopo mesi di buio pressoché costante. Il
canto del coro era stato sostituito dal viavai e dal trambusto delle strade
cittadine, dalle urla degli imbonitori, dai rintocchi delle campane della
cattedrale. Tutto questo non le pareva giusto.
“Non mi sembra più di essere a casa.”
La ragazza e il vecchio tornarono al negozio di curiosità, la campanella
che tintinnava sopra la porta. Mia si ricordò della prima volta che era
entrata lì dentro. Il cambio dopo che suo padre era morto penzolando.
Mercurio che l’aveva accolta sotto la sua ala. L’ultima apprendista che
avrebbe addestrato, molto probabilmente. Le aveva dato sei anni. E lei cosa
gli aveva dato in cambio?
“Fallimento.”
Il vecchio stava zoppicando verso la cucina, gli schiocchi del bastone
sulle assi.
«Mi dispiace, Mercurio.»
L’uomo si voltò verso di lei e vide le lacrime che le sgorgavano dagli
occhi.
«Ti ho deluso» continuò lei. «Ho deluso entrambi. Sono così spiacente.»
Il vecchio scosse il capo. Ma non le disse che si sbagliava.
«Vuoi del tè?» propose infine. «Te lo porterò nella tua stanza.»
«No. Grazie.»
Lui si tolse il pastrano. Si accese una paglia e si diresse in cucina.
Di sopra, nella sua stanza, Mia riusciva ancora a sentirlo zoppicare in
giro. La rabbia del vecchio riecheggiava nella melodia di barattoli che
sbattevano, di padelle che sferragliavano. Mia gettò il pacchetto di tela
cerata sul suo vecchio letto e poi ci si lasciò cadere sopra. Non l’aveva mai
notato prima, ma era un tantino piccolo per lei, ora. Come questa stanza.
Come questa vita.
«… cosa facciamo adesso…?»
Mia guardò la striscia di oscurità appollaiata in cima a una pila sghemba
di cronache.
“Se potessi vedere i suoi occhi, leggerei disappunto anche in essi?”
«Dormiamo» sospirò lei. «Dormiamo per cent’anni.»
Sciolse i lacci della borsa di tela cerata e tirò fuori la sua vecchia copia
malconcia di Teorie della Mannaia. Fece scorrere una mano amorevole
sulla copertina di Verità arkemiche. Poi si sdraiò con il quaderno di Lotti.
Pensò a Zitto, domandandosi come se la passasse. Ad Ash. A Tric.
Supponeva che in quel momento si stessero preparando per la cerimonia di
iniziazione. Ultimopasto all’Altare del Cielo, poi giù nella Sala degli Elogi,
per essere consacrati con il sangue di Cassius e introdotti nei ranghi delle
Lame.
Ipotizzò che quello fosse un motivo per unirsi alle Mani. Almeno,
all’interno della Montagna, avrebbe avuto accesso all’Ateneo. Forse perfino
a Cassius in persona, ogni tanto. Ancora non aveva alcuna reale risposta sui
tenebris, né una qualche idea più chiara su cosa fosse lei…
Mia sfogliò le pagine del quaderno di Lotti. Sorrise al pensiero
dell’arguzia impassibile e dello sguardo privo di emozioni della sua amica.
Ma quel sorriso scomparve quando raggiunse le pagine a cui Carlotta stava
lavorando quando era stata assassinata. C’era uno schizzo di sangue secco
sugli appunti, che era filtrato a quelle successive.
Sangue.
Che filtrava…
“Spiegare cosa, Reverenda madre?”
“Questo.”
Drusilla raccolse il lenzuolo e lo tenne davanti alla faccia di Mia. Lì,
intrisa nel tessuto, la ragazza vide una minuscola macchia, secca e
scarlatta.
Mia guardò sorpresa la macchia di sangue sulla pagina.
«Non hai modo di dimostrare dov’eri ieri sera e il sangue della vittima è
stato trovato sulle tue lenzuola, un fatto che tu stessa non riesci a spiegare.
Carlotta ha mai fatto visita alla tua camera?»
«No, ma…»
No, ma qualcun altro le aveva fatto visita quella mattina…
«Non può essere» mormorò.
«… non può essere cosa…?»
Mia guardò il non-gatto. Aveva difficoltà con le parole. Con il pensiero
che sottendevano. Alzandosi dal letto, Mia sfogliò il quaderno di Lotti fino
alla parte finale. Alle pagine che mancavano. Frugando sulla sua scrivania,
trovò un carboncino e lo sfregò lievemente sulla pagina vuota che seguiva
la sezione mancante. Lì, in quella spolverata di nero, riuscì a vedere le
tracce, debolissime. La calligrafia di Lotti, il suo cifrario artigianale,
simboli arkemici.
«… cosa stai…»
«Zitto. Dammi un momento.»
Guardò accigliata le pagine, stringendo gli occhi per distinguere quella
calligrafia sfocata. I segni erano a malapena leggibili. Non poteva esserne
certa, ma…
«Sembra una ricetta modificata per il Deliquio…»
«… il sedativo…?»
Lei annuì. «Ma queste misurazioni sono sufficienti almeno per una
dozzina di persone. Perché mai Lotti avrebbe…»
Carlotta si alzò e si diresse da Osrik, poi gli parlò piano, con il
quaderno fradicio in mano. Oz le rivolse quel suo sorriso affascinante e
toccò con le punte delle dita quelle di Lotti.
Mia guardò Ash sollevando le sopracciglia. “Sono diventati intimi. Li ho
visti lavorare assieme a una mistura qualche cambio fa. E sembra che
vengano appaiati molto spesso a Verità.”
«Questo non ha senso» sussurrò.
«… una sensazione con cui ho sempre più familiarità…»
Mia si alzò dal suo sgabello, il quaderno di Lotti in mano. Stava per
scendere al piano di sotto da Mercurio, ma udì un trambusto in cucina.
Un’imprecazione più turpe di quelle che gli aveva mai sentito usare. Non
sembrava un buon momento per infastidirlo con teorie folli. Probabilmente
le avrebbe staccato la testa a morsi.
Legò di nuovo il quaderno nella tela cerata. Aveva la fronte così
aggrottata che le faceva male la testa.
Ma se aveva ragione…
“Non è possibile che abbia ragione.”
«Devo tornare alla Chiesa.»
«… così presto…?»
«Ho bisogno di parlare con la Reverenda madre.»
«… sicuramente sarà impegnata con la cerimonia di iniziazione, no…?»
Mia era già appollaiata sul davanzale, il vento che ululava attraverso la
finestra aperta.
«Sei dalla mia parte o vuoi metterti in mezzo?»
Il non-gatto sospirò.
«… come ti compiace…»
Mia si precipitò attraverso il mercato di Piccola Liis, le strade brulicanti
dei Bassifondi, spintonando e sgomitando fino alla Baia dei Macellai. Ora
la tempesta era quasi sopra Godsgrave, tuoni e fulmini che si inseguivano
nel cielo. La puzza di interiora e acque fognarie giungeva assieme al sale
dell’oceano profondo. Mia incurvò le spalle e un groviglio nero si agitò
attorno alla sua faccia quando alzò il cappuccio per tenere a bada il freddo.
Il porto era movimentato.
Più indaffarato del normale, col tempo così fosco.
Mentre Mia si avvicinava alla Porcheria, notò gruppi di uomini grandi e
grossi appostati vicino all’ingresso. Non scherzavano né ciarlavano come
avrebbero fatto marinai o mercanti. La guardarono torvo mentre si
avvicinava, ma lei sorrise amabilmente e passò dritto davanti a loro. Li
esaminava con la coda dell’occhio.
Erano enormi, tutti quanti. Vestiti come popolani, ma tutti quanti con un
fisico robusto. E, gli occhi bassi, lei vide che ciascuno indossava stivali da
soldato.
“Cosa ’bisso sta succedendo qui?”
Svoltò l’angolo, i pensieri che si agitavano nella sua mente. Trascinò il
manto d’ombra attorno alle spalle, si aggrappò al tubo di una grondaia e si
arrampicò per il lato della Porcheria, agile come una scimmia. Sul tetto, si
mise al lavoro sulle tegole, conficcando il suo stiletto di necrosso tra un
paio di esse per poi staccarle. Si lasciò cadere nello spazio vuoto e strisciò
sulle travi, togliendosi di dosso il manto d’ombra per poter vedere il
mattatoio lì sotto.
Non c’era segno di Pancetta o dei suoi figli. Nemmeno dei soliti macellai
che tagliavano il maiale. Ma c’erano altri di quegli omoni a ogni uscita, così
come sul piano ammezzato che portava alla pozza di sangue.
Il suo cuore si fermò e le si mozzò il fiato quando, in mezzo a loro, lo
vide.
Erano passati due anni da quando lo aveva affrontato sui gradini della
Basilica Grande. Sei anni da quando l’aveva visto davvero da vicino, il
cambio in cui aveva preso il titolo di suo padre, in cui aveva rubato le terre
della sua familia. Eppure l’avrebbe riconosciuto ovunque. L’uomo più
grosso che lei avesse mai visto. Una barba curata che incorniciava fattezze
lupesche, un istinto animale che gli scintillava nello sguardo. La cicatrice di
quelli che potevano essere stati solo artigli di gatto lungo la guancia. Era
vestito da plebeo come il resto di loro. Niente armatura bianca, mantello
rosso o lama di solacciaio in vista. Ma lei lo riconobbe. L’odio gocciolò
dalla sua lingua quando disse il suo nome con un sussurro.
«Tribuno Marcus Remus…»
Si guardò attorno per la Porcheria. Osservò gli uomini con quelle mani
fatte per impugnare spade e gli stivali da soldato. E li riconobbe con
esattezza per quello che erano.
«… luminatii…»
«Sono qui per la pozza di sangue.» Mia inspirò a fondo, non riuscendo
quasi a credere ai propri occhi. «Si stanno preparando per invadere la
Chiesa.»
«… adonai non li farebbe mai passare…»
«A meno che non fosse in combutta con loro?» mormorò Mia. «O se
qualcuno lo costringesse?»
«… entrare spensierati nel covo degli assassini più letali della
Repubblica? e proprio questa sera? quando sarà presente lord cassius in
persona…»
«… Forse è proprio quella, l’idea.»
Il tribuno Remus parlò con uno dei suoi centurioni, guardando le sue
truppe a occhi stretti.
«È tutto pronto?»
«Sì, tribuno.» L’uomo alto e duro gli rivolse il saluto, il pugno sul petto.
«Il mattatoio è stato occupato senza incidenti. Gli eretici che alloggiavano lì
sotto sono stati presi prigionieri o uccisi.»
Il tribuno annuì e si voltò verso un altro uomo accanto a lui. Era un
veterano dall’aspetto brizzolato che Mia riconobbe dalla benda di cuoio
sopra un occhio.
«Centurione Alberius, la seconda centuria entrerà nel portale per prima e
metterà al sicuro l’area di allestimento. Prepara immediatamente i tuoi
uomini. L’attacco inizierà tra cinque minuti.»
Lo strangola-cuccioli si batté il petto. «Luminus Invicta, tribuno.»
L’uomo si voltò verso i suoi uomini e strillò.
«Seconda centuria, in formazione!»
Cento Luminatii si schierarono con precisione militare, i volti torvi e
silenziosi. Portavano randelli di legno e scudi, assieme ad alcune lame di
necrosso. Mia almeno era lieta che nessuno di loro avrebbe potuto portare
con sé il solacciaio: nessun metallo poteva attraversare il Cammino del
Sangue, e affrontare qualche centinaio di Luminatii armati di lame ardenti
era un po’ più spaventoso che combattere contro gli stessi uomini armati di
grossi bastoni.
“Ma solo un poco.”
Remus si voltò verso il suo secondo, parlando in toni misurati.
«Centurione Maxxis. La terza centuria manterrà la posizione qui finché
non saremo tornati con gli eretici e il loro maestro in catene. La prima
centuria marcerà con me all’Altare del Cielo.»
A Mia si rivoltò lo stomaco alla menzione dell’Altare. Remus conosceva
la Montagna. Ciò voleva dire che era al corrente della sua disposizione, di
come funzionava. In che altro modo i Luminatii potevano sapere tutto
questo, a meno che non ci fosse un traditore tra i membri della Chiesa?
Ma Drusilla li aveva messi tutti alla prova! Ogni accolito del gregge
aveva scelto di morire piuttosto che rivelare la posizione della Porcheria.
Chi avrebbe subito la tortura per mano dei confessori di lord Cassius solo
per tradire la Chiesa e consegnarla ai Luminatii dopo?
“Qualcuno che sapeva che i confessori di Cassius erano solo una
prova…”
La comprensione danzò una giga nauseante nella pancia di Mia.
Ashlinn scrollò le spalle e divorò un altro boccone. “Aoa scei otunata a
ee me.”
“… Cosa?”
La ragazza inghiottì e si leccò le labbra. “Ho detto, allora sei fortunata
ad avere me. Mio padre ha raccontato a me e a mio fratello tutto quanto, su
questo posto. Tutto quello che sapeva, comunque.”
«Il padre di Ash e Oz…»
«… cos’ha fatto…?»
«Ash mi disse che aveva allevato i suoi figli per sostituirlo.»
Guardò verso l’ombra annidata accanto a lei.
«E se invece li avesse allevati per vendicarlo?»
«… attaccare il tenebris a capo dei migliori assassini al mondo in un
luogo di oscurità perpetua? con qualche centinaio di uomini? buona
fortuna, caro tribuno…»
«Non avrà bisogno di fortuna» sussurrò Mia. «Il Deliquio, non capisci?
Le misurazioni negli appunti di Carlotta erano sufficienti per mettere a
dormire dozzine di persone. Se Ashlinn oppure Oz lo infilano nel banchetto
dell’iniziazione, Cassius sverrà come chiunque altro, tenebris o no.»
«… ma tric sarà al banchetto. sicuramente lui fiuterà il veleno, no…?»
A Mia balzò il cuore in gola. Sentì freddo allo stomaco.
«’Bisso e sangue…»
Scese dalle travi prima che Messer Cortese potesse pronunciare un altro
bisbiglio. Lasciandosi cadere sul piano ammezzato, si avvolse ancora una
volta nel suo manto d’ombra: era solo una macchia scura contro le pareti
della Porcheria. La seconda centuria stava salendo sul mezzanino, seguita
da Remus e dal suo primo ufficiale. Gli uomini scesero le scale fino alla
pozza di sangue, in fila per due.
Mia si mosse furtiva dietro di loro, nascosta sotto il suo manto d’ombra,
il mondo attorno a lei fosco e nero. Lampade arkemiche punteggiavano le
scale e lei seguì la loro luce fin nel ventre della Porcheria, il viscido odore
di sangue che aleggiava nell’aria. Udì sciabordare, rimestare, gorgogliare.
Si mosse silenziosa, avanzando piano piano rasente il muro, accanto alle
file di soldati in attesa di entrare nella pozza di sangue. I glifi sulla pietra
stavano ronzando debolmente e il potere cantava nell’aria mentre il
centurione Alberius sbraitava i suoi ordini. Nemmeno uno di loro doveva
aver visto venefici del sangue ashkahi prima di allora, ma bisognava
riconoscere che i Luminatii entravano nella pozza di Adonai come ordinato.
Chiudevano gli occhi mormorando le loro preghiere, poi con un’ondata di
magika ashkahi scomparivano uno a uno.
Tutti gli occhi erano puntati sul vortice turbinante. I glifi erano
scarabocchiati col sangue per tutte le pareti. Mia meditò di aspettare finché
tutti i componenti della seconda centuria non fossero passati; sicuramente ci
sarebbe stata una possibilità di eliminare Remus in tutto questo. Ma poi
pensò a Tric. Al veleno. Al banchetto. Se Ashlinn e Osrik avevano tradito la
Chiesa, avevano ogni motivo per ucciderlo, e quel pensiero la riempì di una
paura che perfino Messer Cortese non riuscì a divorare del tutto.
“Madre Nera, sono stata così cieca…”
Il sangue mulinava e si gonfiava. I soldati venivano trascinati nel flusso.
Malgrado la sua arroganza, Mia non riusciva a immaginare che Adonai
potesse essersi rivoltato contro la Chiesa: doveva essere stato costretto. A
ogni modo, le occorreva sapere cosa stava succedendo. La vendetta poteva
aspettare.
Le persone a cui teneva erano più importanti.
Non poteva fare a meno di ammirare l’ironia. Se fosse diventata il
mostro che voleva la Chiesa, se avesse ucciso quel ragazzo senza nome e
fosse stata accettata per l’iniziazione, non sarebbe mai venuta al corrente
del complotto di Ashlinn e Osrik. In questo momento si sarebbe ritrovata
seduta al banchetto, a essere avvelenata assieme agli accoliti e al resto del
Culto.
Invece era l’unica in grado di salvarli.
Mia si mosse furtiva lungo la parete della camera del sangue e scivolò
nella pozza, immersa fino alla vita in quel calore nauseante. Non sapeva se
due persone potessero effettuare il Cammino simultaneamente. Ma sapeva
che il sangue di Adonai era mischiato dentro questa pozza e che l’Oratore
sarebbe stato in grado di percepirla assieme al soldato che ora guadava
accanto a lei.
L’Oratore l’avrebbe riconosciuta come un’amica? Sarebbe stato in grado
di…
Il rosso si impennò. Il pavimento scomparve sotto i piedi di Mia. Si
ritrovò a essere inghiottita giù con il flusso, ruotando e torcendosi, il sangue
nella sua bocca. Quell’orrendo risucchio minacciava di trascinarla giù per
sempre. Nuotò verso l’alto, in direzione della luce. Il petto le stava
scoppiando. Il cuore palpitava. Fino a quando, finalmente…
Sentì pietra sotto i piedi. Si spinse su lentamente, la testa che affiorava
dalla superficie e il sangue che le colava negli occhi. Un legionario
Luminatii spuntò dal flusso accanto a lei, sputacchiando e tossendo. I suoi
compagni lo trascinarono su e lo aiutarono a mettersi in piedi. Gli uomini
nella camera erano dipinti dalla testa ai piedi di scarlatto, un orrore
silenzioso su ogni volto. La camera intrisa dai sangue di Adonai poteva
soltanto essere la conferma di qualunque storia raccapricciante avessero mai
udito sugli adoratori di Niah. Era facile capire come potessero pensare che
la Chiesa fosse un’eresia. Come Scaeva e Duomo potessero spacciarli per
un nemico.
“Dall’esterno, penserei lo stesso di noi.”
Mia sbatté le palpebre e si pulì il sangue dagli occhi.
“… Noi.”
Con il manto d’ombra ancora avvolto attorno alle spalle, si mantenne
sotto la superficie, sollevando la testa solo quanto bastava per respirare.
Come sempre, Adonai era inginocchiato al vertice della pozza. Accanto a
lui c’erano una dozzina di Luminatii sporchi di sangue, i randelli di
legnoferro in mano. Il cuore di Mia accelerò i battiti quando lei percepì
un’ombra familiare alle spalle dell’Oratore.
“Osrik…”
Il ragazzo era accovacciato sulla pietra, con una lunga lama seghettata in
mano. Ai suoi piedi, Mia vide un’altra figura, spoglia delle sue tradizionali
vesti nere. Distorta e patetica, la pelle spaccata e marcia, avvinta nelle corde
come un suino pronto per il macello. Aveva le mani legate, tutte le dita
rotte, gli occhi rosa chiusi. Ma il petto della sua ombra che si alzava e
abbassava in modo costante rivelò a Mia che la Tessitrice non era morta…
ed era la minaccia della lama di Osrik sulla gola di Marielle che stava
costringendo Adonai a questa follia.
“L’Oratore è dalla nostra parte. Questo è già qualcosa, almeno…”
La mente della ragazza era in subbuglio, nel tentativo di sbrogliare
l’enigma.
Anche se in seguito il senso di colpa l’avrebbe perseguitata, sapeva che
sarebbe stato stupido precipitarsi di sopra: qualunque cosa stesse
succedendo all’Altare del Cielo, era già accaduta. Almeno il veleno che Ash
e Osrik stavano usando era solo Deliquio: nessuno sarebbe stato ucciso
subito. Era evidente che i Luminatii volevano prigionieri. Tortura.
Interrogatori. Crocifissione pubblica. Questo era ciò che attendeva la
gerarchia della Chiesa Rossa. Ma in questo momento, lord Cassius e il
Culto erano tutt’altro che morti. Questo voleva dire che anche Tric poteva
non esserlo…
Guardò Adonai, che cantava sopra la pozza ribollente. Si rese conto che
avrebbe potuto ucciderlo. Le sarebbe bastato recidergli la gola lì e avrebbe
fermato l’afflusso di truppe nella montagna, tagliando fuori le altre. Ma ciò
avrebbe eliminato la risorsa più preziosa che la Chiesa Rossa aveva nel
proprio arsenale. Senza il Cammino del Sangue, la Chiesa sarebbe stata
sventrata, le sue Cappelle isolate.
Tuttavia, la cosa avrebbe dovuto importarle?
Salvare Tric e Naev non valeva quella perdita?
Sotto il sangue, allungò la mano nella manica ed estrasse il pugnale di
necrosso. Osservò quando Adonai si irrigidì, lanciando un’occhiata nella
sua direzione.
“Sa che sono qui.”
Continuando con la sua canzone per trasferire altri di quei Luminatii
sputacchianti e terrorizzati, Adonai riportò gli occhi sulla pozza. Ma Mia
giurò di averlo visto scuotere il capo. E con un piccolo gesto della mano che
lei riconobbe come Senzalingua, l’Oratore mise in chiaro i suoi pensieri.
“Non provarci” le segnalò.
Questo chiudeva la questione. Mia non aveva la possibilità di ucciderlo
in modo furtivo, e se Adonai era intenzionato a combattere, poteva tradirla
nell’attimo stesso in cui avesse agito contro di lui. Fedele a se stesso,
l’Oratore reputava la propria pelle più importante di quella di chiunque altro
all’interno della Montagna.
“D’accordo, allora. Non è un’alternativa.”
Mia si accovacciò nel sangue, osservando altre dozzine di legionari
attraversare il Cammino. Quando il gruppo fu riunito, cento uomini in
totale, il centurione Alberius ordinò loro di sparpagliarsi per il piano.
Mettere in sicurezza scale, porte, passaggi. Con i suoi uomini in
movimento, il centurione si rivolse a una delle sue reclute più giovani.
«Riferisci al tribuno che tutto è sicuro.»
Sotto lo scarlatto che si seccava, Mia vide il ragazzo sbiancare al
pensiero di tornare in quella pozza orrenda. Ma si immerse di nuovo nel
rosso e scomparve nel flusso. Mia lo osservò andar via e tornò a volgere lo
sguardo verso Adonai. Questa era la sua ultima possibilità di tagliare la
testa di ponte. Se l’Oratore fosse morto prima dell’attraversamento della
prima centuria…
Il sangue si sollevò attorno a lei, con un risucchio che le aspirava i
talloni. Annaspò, afferrandosi al bordo della pozza, il marmo reso scivoloso
dal sangue. Adonai scosse di nuovo il capo, appena appena, muovendo
rapidamente le mani.
“Non pensarci nemmanco.”
Mia strinse i denti. Osservò la prima centuria iniziare a effettuare il
Cammino. Un uomo dopo l’altro, un minuto dopo l’altro, trascinati fuori dal
sangue dai loro compagni. E infine, sollevandosi dal rosso, Mia vide
l’uomo che aveva sognato di uccidere per sei lunghi anni. Cacciando via i
soldati che cercarono di aiutarlo, l’uomo uscì dalla pozza colando grossi
rivoli di sangue sulla pietra. Il liquido scuro si raggrumava sulla sua barba e
gli scorreva copioso lungo la schiena. Spalle ampie quanto la Montagna
stessa.
Il tribuno delle legioni dei Luminatii torreggiava sopra l’Oratore Adonai,
la bocca arricciata dal disgusto.
«Empietà» ringhiò lui. «Empietà ed eresia.»
Adonai non disse nulla, incontrando lo sguardo del tribuno senza
trasalire. Un sorriso debole increspò le sue labbra graziose. Remus si
asciugò il sangue dalla faccia, poi si girò verso il suo secondo quando un
aiutante iniziò a fissargli addosso un bellissimo completo di armatura di
necrosso.
«Centurione, rapporto.»
«Il piano è nostro, tribuno. La prima e la seconda centuria sono
arrivate.»
«Eccellente.» Fece un cenno verso Adonai. «Legate per bene questo
bastardo apostata.»
I soldati vennero avanti, stringendo tra le mani lunghi rotoli di corda
intrisa di sangue. Spintonarono a terra Adonai e gli legarono mani e piedi
dietro la schiena come un vitello in attesa di essere macellato. Gli ficcarono
uno straccio in bocca e gliene legarono un altro attorno agli occhi. Uno dei
soldati gli premette addosso uno stivale tanto per essere sicuro, ma Remus
lo fermò sollevando una mano.
Il tribuno guardò verso Osrik e parlò con tono conciso.
«Il Culto?»
«Ashlinn conosceva bene il suo compito» rispose Osrik. «Saranno legati
come maiali per il Gran Tributo quando arriverete all’Altare del Cielo. Non
temete.»
«Aspetta qui finché non saremo tornati con il decantato Signore delle
Lame e il suo gregge di senzadio.» Fece un cenno verso Adonai. «Se questo
eretico dovesse muovere un muscolo in un modo che non ti piace, comincia
a tagliare pezzi di sua sorella finché non si comporta bene.»
Osrik annuì. Adonai si tese a quella minaccia, ma per il resto rimase
immobile.
Ora completamente rivestito dell’armatura, Remus si guardò attorno in
direzione dei suoi uomini, il viso coperto di sangue e l’espressione torva. Si
portò una mano alla cintura ed estrasse una bellissima spada lunga di
necrosso finemente intagliata, con dei corvi in volo lungo pomello ed elsa.
Mia strinse gli occhi quando la riconobbe: era stata appesa alle pareti dello
studio di suo padre accanto alla collezione di mappe.
“Quanto altro può portarmi via quest’uomo?”
«Fratelli virtuosi» esordì Remus. «Stasera sferriamo un colpo contro una
blasfemia che ha macchiato per decenni la nostra gloriosa Repubblica. I
ministri di questa empia Chiesa devono essere riportati vivi a Godsgrave
per essere interrogati. Ma qualunque altro bastardo adoratore della notte
incrociate tra queste mura non merita alcuna pietà. Siamo la mano destra di
Aa, e stasera metteremo in ginocchio questa dimora di eretici.»
Il tribuno si portò la lama rubata alla fronte e abbassò il capo. I legionari
attorno alla stanza lo imitarono, le labbra che si muovevano all’unisono.
«Ascoltami, Aa. Ascoltami, Padre. La tua fiamma, il mio cuore. La tua
luce, la mia anima. Per il tuo nome, la tua gloria e la tua giustizia, io
marcio. Splendi su di me.»
Remus alzò la testa. Annuì ai suoi uomini.
«Luminus Invicta.»
a. Anche se buona parte del suo entroterra adesso è più simile a un deserto, le regioni costiere di
Ashkah sono ancora tra le più belle al mondo. Lasciando da parte il naturale splendore di siti come
le Mille Torri, le Cascate di Polvere di Nuuvash o il Grande Sale, c’è ancora qualcosa di
semplicemente mozzafiato nel guardare i soli sorgere sopra un paesaggio infernale inquinato dalla
magika.
Naturalmente, kraken delle sabbie, pulvispettri e altre mostruosità delle Frusciaride tendono a
far rimanere senza fiato in altri sensi, vista la mancanza di una vera e propria industria del turismo
ad Ashkah.
CAPITOLO 33
PASSI
Mia attendeva.
Anche se nella sua mente si susseguivano immagini di ciò che forse
stava accadendo in cima a quelle scale, anche se le ribolliva il sangue al
pensiero del tradimento di Ashlinn, anche se la sua vendetta contro Remus
era alla sua portata eppure non poteva assaggiarla, attendeva. Se i Luminatii
avevano Cassius e la Reverenda madre nelle loro grinfie, ogni discepolo
della Chiesa Rossa era in pericolo. I suoi amici. Anche Mercurio. Il suo
primo passo doveva essere impedire la fuga di Remus. Cassius e Drusilla
non potevano cadere nelle mani del Confessionato.
E così restava in agguato nel sangue. Si malediceva per essere stata una
sciocca. Adesso lo sapeva per certo. Ash aveva ucciso Lotti. Poi aveva
cercato di incastrare lei per l’omicidio. Ogni momento, ogni parola che
aveva pronunciato era stata una menzogna. Anche Zitto l’aveva avvisata,
quella sera nell’Aula di Verità.
tu hai un solo amico dentro queste mura
non carlotta
non tric o ashlinn
e non me
Quell’amico era appostato nelle ombre della stanza, e la guardava con i
suoi non-occhi. Remus e le sue truppe erano usciti. Ma rimanevano una
dozzina di Luminatii nella camera dell’Oratore, ora vestiti con cuoio
elaborato su cui era sbalzato il simbolo di Aa. L’armatura era spessa, le
fibbie fatte di legno, niente rivetti né viti da nessuna parte: senza dubbio
erano state foggiate appositamente per l’assalto. Mezza dozzina di uomini
montavano la guardia su Adonai e Marielle. Ce n’erano altri sei sulla soglia,
a controllare il corridoio. La Tessitrice era ancora svenuta, con Osrik
accovacciato accanto a lei, la lama posata sulla sua gola.
“Comincia dall’inizio…”
Mia non riusciva comunque a vedere molto sotto il suo manto, così
chiuse gli occhi. Allungò la mano verso le ombre nella stanza. Proprio
come aveva fatto con i fantocci impagliati nell’Aula di Canti, poteva
percepire quelle ombre nello stesso modo in cui poteva percepire se stessa.
Si ricordò com’era stato quando aveva avuto quattordici anni.
Quando aveva fatto a pezzi la statua di Aa fuori dalla Basilica Grande.
Quando era passata tra le ombre come uno spettro. Ma soprattutto, si
ricordò dell’uomo che aveva dato inizio a tutto ciò, che aveva fatto
impiccare suo padre, aveva messo in catene sua madre, aveva causato la
morte del suo fratellino prima ancora che sapesse camminare.
Allargò le braccia sotto il sangue. Stese le dita. Si protese attraverso la
penombra tremolante, fino alle ombre ai piedi di ciascun legionario. Le
incurvò in uncini, conficcandole nelle suole degli stivali dei soldati, tutti
quanti. E, più silenziosa che poteva, si sollevò dalla pozza di Adonai.
Si rese conto subito del suo errore: anche se era ancora nascosta sotto il
manto d’ombra, il sangue di cui era inzuppata no. Mentre si issava sul
bordo, il liquido scarlatto schizzò sulla pietra e impronte insanguinate
apparvero sotto i suoi palmi. I legionari lì presenti si voltarono a quel suono
e Osrik aggrottò la fronte.
Confusione. Esitazione.
Era sufficiente.
Mia entrò nell’ombra sotto di lei
uscì
dall’ombra
sulla parete
dietro Osrik.
fece
un passo
nel buio
nell’ombra
ai suoi piedi
e continuò a correre.
I Luminatii slittarono fino a fermarsi e il soldato più arretrato la guardò
scomparire su per le scale. Alberius urlò e l’inseguimento ebbe inizio, lungo
i corridoi più ampi e dentro la Montagna vera e propria. Mia vide altri
quattro Luminatii più avanti, che scattavano verso di lei. Aumentò
l’andatura, le lame che scintillavano. E proprio quando l’ebbero raggiunta,
mostrando i denti e alzando i randelli, di nuovo lei saltò
attraverso le ombre
Mia si introdusse nell’Aula di Verità e la trovò vuota, una debole luce che
scintillava su pareti di vetro verde. Ma dopo aver cautamente scassinato la
serratura e aver frugato nella scrivania di Ammazzaragni, li trovò: i tre
sacchetti di mutavitrum. Gran parte dei globi di onice erano stati usati, ma i
borselli che contenevano il mutavitrum di perla e rubino erano quasi pieni.
Due involti colmi di Deliquio e del fuoco arkemico di Ammazzaragni.
“Basterà.”
Poi si diresse all’Aula di Canti, fermandosi solo per uccidere
silenziosamente altri due Luminatii che trovò nella Sala degli Elogi.
Schizzò oltre le tombe senza nome, cercando di non immaginare Tric steso
in una di quelle. Trasformò in rabbia la tristezza che aveva nel petto. A
metà delle scale, trovò i corpi di Mani uccise, a pugni e a randellate. Vicino
alla cima, trovò un’altra dozzina di cadaveri, tra cui Marcellus e Petrus, gli
occhi spalancati che non vedevano più nulla.
Non c’era tempo di pregare.
Non c’era tempo di curarsene.
Scattò dentro l’aula di Solis e si gettò un pesante farsetto di cuoio da
addestramento sulla camicia intrisa di sangue. Passò in rassegna le
rastrelliere e si riempì gli stivali di pugnali, poi si assicurò un ottimo gladio
affilato alla cintura e si infilò una bandoliera di coltelli da lancio attorno al
petto e una balestra con faretra sulla schiena.
«Denti della Mannaia…»
Si girò a quel sussurro sollevando la balestra, le ombre attorno a lei che
si allargavano. Lì, in cima alle scale, scorse delle figure abbigliate di nero,
appena una mezza dozzina in totale. Tra loro intravide capelli a caschetto
rossi, un viso grazioso e occhi verdi da cacciatrice.
«… Jessamine?»
«Corvere» sibilò la ragazza. «Nel nome della Madre, cosa ci fai qui?»
Una figura velata si fece largo tra il gruppo, un sorriso negli occhi.
«Naev è lieta di vederla» disse.
«Dea, stai bene!»
Mia attraversò di corsa la stanza e gettò le braccia attorno alla donna. Ma
Naev sussultò e la spinse via con un gemito. Guardandosi attorno, Mia notò
che molti del gruppo erano feriti: Jessamine sanguinava copiosamente da
una lacerazione sopra l’occhio e aveva il braccio immobilizzato in una
tracolla improvvisata, mentre altri si tenevano costole o polsi rotti. Ora
Naev stava respirando a fatica, stringendosi il fianco.
«Cos’è successo? State bene?»
«Quei bastardi ci sono arrivati addosso come una piena.» Jessamine
trasalì, pulendosi il sangue dagli occhi. «Nessun preavviso. Hanno
ammazzato ogni Mano e accolito che riuscivano a trovare. Come ’bisso
sono riusciti a entrare? Dov’è il Culto?»
«Probabilmente in catene, a quest’ora» disse Mia. «Ashlinn e Osrik ci
hanno traditi. Hanno avvelenato il banchetto dell’iniziazione. Hanno ucciso
Tr…»
Mia si rimangiò le parole. Scosse il capo.
«Ashlinn?» mormorò Jessamine. «Osrik? Ma sono discepoli di sangue.»
«Per vendicare loro padre.» Mia scosse il capo. «Non ha importanza. Il
tribuno Remus è qui con due centurie di uomini. Hanno catturato lord
Cassius e il Culto. Intendono riportarli a ’Grave per torturarli e giustiziarli.»
«Allora sono degli sciocchi a sfidare i discepoli di Niah nella sua casa.»
Naev si voltò verso le altre Mani. «Radunate le armi. Lame e archi.»
«Vuoi che combatta al suo fianco?» Jessamine guardò torvo Mia. «Dopo
che ha ucciso Diamo? Non ci sperare.»
«Dobbiamo stare uniti, in questo.»
«Io non devo stare da nessuna parte vicino a questa puttana.»
«Non abbiamo tempo per le nostre stronzate, Jess» disse Mia. «Qui
stiamo parlando del tribuno Marcus Remus. Ha contribuito a porre fine alla
Ribellione degli Incoronatori. Probabilmente ha calpestato il cranio di tuo
padre ogni cambio per sei anni entrando nella Casa del Senato. Tutta la
merda che mi hai tirato addosso? Tutto l’odio? Questo è l’uomo che se li
merita davvero.»
La ragazza scrutò Mia negli occhi; nei suoi, era evidente il ricordo di
Diamo. Secondi che non avevano scorsero nella clessidra. L’odio per Mia
lottava con l’odio per coloro che avevano distrutto la sua familia. Ma la
verità era che lei e Jess in realtà erano fatte della stessa pasta. Entrambe
orfane della Ribellione degli Incoronatori. Entrambe derubate della loro
familia. Tenute assieme dal genere di legame che solo l’odio può forgiare.
In definitiva, la scelta era una sola.
«Allora cos’hai intenzione di fare?»
«Adonai se n’è andato.» Mia vide Naev irrigidirsi a quelle parole e mise
una mano rassicurante sul braccio della sua amica. «Ha preso Marielle.
Sono al sicuro. Ma senza accesso al Cammino del Sangue, Remus è tagliato
fuori. Ha un solo modo per tornare a Godsgrave.»
«Le Frusciaride» disse Naev.
Mia annuì. «Oramai devono sapere che il Cammino del Sangue non è
più praticabile. Ma Ashlinn è con loro. Può portarli alle stalle. Saranno
diretti lì, per condurre uno dei nostri convogli di cammelli fino a Ultima
Spes.»
«Allora li colpiremo nelle stalle» disse Jessamine. «Li fermeremo lì.»
«Lo spazio è ristretto» concordò Naev. «La loro superiorità numerica
conterà di meno.»
«Siete feriti» disse Mia. «Tutti quanti. Lì dentro sarà un mattatoio e non
voglio…»
«Ricordami quando ha cominciato a fregarmene un cazzo di quello che
vuoi, Corvere» sbottò Jessamine. «Tu puoi credere di essere il regalo della
Madre al mondo, ma non sei la metà della spadaccina che ti ritieni. Se vuoi
una possibilità di eliminare questi bastardi, avrai bisogno del nostro aiuto.»
Mia guardò verso Naev, ma trovò occhi duri e freddi.
«Lei dice il vero.»
«D’accordo» sospirò Mia. «Hai ragione.»
Le Mani si armarono fino ai denti, si coprirono le vesti con farsetti di
cuoio e impugnarono balestre, spade e coltelli. Mia distribuì il mutavitrum
fra tutti loro, tenendo una bella manciata di quello rubino e perla per sé.
Non aveva idea di come avrebbero portato a termine questa missione. Non
sapeva se qualcuno di loro sarebbe sopravvissuto per vedere l’indomani.
Non c’era tempo.
Nessuna possibilità.
Nessuna paura.
Guardò i discepoli attorno a lei. Annuì una volta.
«Andiamo.»
Pareva che il tribuno Remus non fosse tipo da essere ingannato due volte.
Aveva lasciato la schiena scoperta mentre assaliva la Montagna e la sua
presunzione era stata ripagata con il massacro della sua retroguardia e la
perdita dell’Oratore. Ora che la sua via di fuga era stata compromessa, il
tribuno si era diretto verso le stalle, proprio come previsto da Mia. Ma
bisognava riconoscergli che sembrava aver imparato dagli errori passati.
Purtroppo per lui, il tribuno non aveva messo in conto Messer Cortese.
Il non-gatto scese le scale precedendo Mia e i suoi compagni, scivolando
nella Sala degli Elogi e percependo immediatamente il tremito della paura
nell’aria. Notò le figure nascoste, appostate in nicchie o in agguato nelle
anticamere. Sulle loro labbra c’erano preghiere sussurrate al Semprevigile.
Corse di nuovo su per le scale e prese forma sulla spalla di Mia,
bisbigliandole all’orecchio.
«Ci sono legionari nella Sala degli Elogi» ripeté Mia. «Quasi quaranta.»
«Quaranta» sussurrò Naev, guardando la loro misera mezza dozzina.
Mia tirò fuori una manciata di mutavitrum bianco dal borsello alla
cintura e sorrise.
«Credo di poter pareggiare i conti. Non appena sentite il trambusto,
venite di corsa.»
La ragazza si avvolse nel suo manto d’ombra e si accorse che Jessamine
e le altre Mani sobbalzarono per lo stupore quando scomparve alla vista. Il
mondo piombò in un’oscurità quasi completa sotto il velo e lei dovette
procedere lungo la scale a tentoni. Ma presto toccò un’arcata e percepì
l’ampio spazio della sala che si trovava oltre. I nomi dei morti sul
pavimento. Le tombe senza alcun segno alle pareti. Riusciva a vedere la
sagoma vaga della statua di Niah che torreggiava, stagliata contro la luce
sfocata dei vetri colorati.
Procedendo lentamente, quasi cieca, si accovacciò dietro un pilastro lì
vicino. Gettò via il suo manto per un tempo sufficiente a dare una bella
occhiata intorno a sé, poi entrò nelle ombre ai suoi piedi e riapparve a
quaranta piedi da terra, rannicchiata nelle ombre profonde del cappuccio
ripiegato di Niah.
Uno dei Luminatii vide del movimento in alto e urlò un avvertimento.
Ma ormai Mia stava già facendo piovere mutavitrum dalla sua posizione, e
dense nubi di Deliquio esplosero per la sala. Almeno una dozzina di uomini
crollò dopo averlo inalato, mentre altri fuggirono dai loro anfratti per
cercare un riparo migliore.
Mentre i Luminatii uscivano dalla copertura, Naev, Jessamine e le altre
Mani corsero nella stanza, nere, rapide e mortalmente silenziose. I soldati
non si accorsero nemmeno che stavano affrontando più di un aggressore
finché altri cinque di loro non furono morti. I discepoli si gettarono sugli
invasori con una furia che li lasciò impressionati: le lame di Jessamine
erano un turbine, Naev combatteva come un demone malgrado le sue
costole rotte. Forse era la rabbia per la violazione della loro casa. Forse era
la presenza della dea, spada e bilancia sospese sopra di loro, quei freddi
occhi di pietra che seguivano il massacro. Ma entro pochi istanti
l’imboscata dei Luminatii si era trasformata in una carneficina, e il nero si
tinse di rosso per il sangue dei fedeli di Aa.
Mia si mise in piedi sul suo trespolo, balestra in mano, centrando quelli
che fuggivano ed eliminando chiunque provasse a colpire un discepolo alle
spalle. Dieci quadrelli più tardi, estrasse le sue lame e uscì dall’ombra della
statua quaranta piedi più in basso, conficcando un pugnale nella schiena di
un povero sciocco e abbattendone un altro con una manciata di coltelli da
lancio. Combattendo schiena contro schiena con Naev, crearono un muro di
acciaio letale: il canto delle loro lame riempiva lo spazio vuoto lasciato dal
coro della Madre e le urla degli uccisi riecheggiarono nel buio anche dopo
che l’ultimo uomo era caduto.
Naev barcollò, tenendosi le costole e ansimando. Jessamine era ricoperta
di sangue e senza fiato. Altre due Mani – un ragazzo di nome Pietro, non
molto più grande di Mia, e un uomo più vecchio chiamato Neraius – erano
caduti sotto i colpi dei Luminatii.
«… mia…»
La ragazza era in piedi sopra il corpo di Pietro, il capo chino.
Fissava i suoi occhi privi di vista.
«… mia, sono alle stalle…»
Lei rimase ferma lì, nella penombra silenziosa. Cercando di non
ricordare.
Provando e fallendo.
«Era solo un ragazzo, Messer Cortese.»
Scosse il capo.
«Solo un ragazzo.»
«… non è questo il momento di piangere, mia. questo ragazzo o
chiunque altro…»
La ragazza allora lo guardò, la sofferenza che scintillava nei suoi occhi.
«… vendicali invece…»
Mia annuì lentamente.
Pulì il sangue sulle sue lame.
E si rimise a correre.
a. Mi viene in mente che non esiste una parola per descrivere il verso emesso da un cammello. I cani
abbaiano, i leoni ruggiscono, gli ubriaconi borbottano.
Cosa ’bisso fanno i cammelli?
CAPITOLO 35
KARMA
Colpetto.
Mia gemette, non osando aprire gli occhi.
Si sentiva rintronata, le dolevano le costole, ogni respiro era una
battaglia.
Non aveva idea di quanto tempo fosse stata stesa lì.
Minuti?
Ore?
Poteva percepire i soli sopra di lei, che ardevano appena oltre le sue
palpebre.
Sapeva cosa la attendeva se avesse osato aprire gli occhi.
Fallimento.
Il suo carro un rottame. I suoi cammelli uccisi. La Montagna Silente si
trovava a un cambio di distanza a est, ma ferita com’era, sarebbe stata
fortunata ad arrivarci in due, sempre presumendo che nel frattempo non la
mangiassero i kraken o i pulvispettri. Arrivare a Ultima Spes a piedi da qui
era impossibile, ma comu…
Colpetto.
Qualcosa di morbido, umido e peloso. Le stava macchiando le labbra
con una sostanza calda e densa. Una minuscola parte del suo cervello urlava
fortissimo che quel Qualcosa era piuttosto grosso ed evidentemente molto
vivo, e ora la stava annusando, probabilmente come preludio per poi
mangiarla.
Aprì gli occhi sfarfallando, il dolore che la attendeva appena oltre. Sibilò
e si ritrovò davanti un paio di grosse froge, che le diedero un nuovo colpetto
e le inumidirono le labbra con – oh, gioia delle gioie – altro moccio.
Un’enorme lingua rosa colpì enormi denti gialli e Mia si svegliò del tutto,
indietreggiando in una nube di impalpabile polvere rossa finché non si rese
conto con esattezza di cosa stava cercando di mangiarla.
Era un cavallo.
Nero, lucido e alto venti spanne.
Un cavallo di cui era stata lieta di vedere il posteriore mesi addietro, a
dire la verità.
Tuttavia, non poté fare a meno di sorridere. Trascinandosi in piedi e
barcollando fino ad accostarsi all’animale, gli passò la mano lungo il fianco
mentre lui emetteva un suono che assomigliava in modo sospetto a una
risata.
Gli mise le braccia attorno al collo.
Lo baciò sulla guancia.
«Salve, Bastardo» disse.
CAPITOLO 36
TRAMONTO
L’aureovino nelle cantine di Daniio non era quello che si poteva definire
un’ottima annata. Per la verità, era più simile a diluente per vernice che a
liquore. All’insaputa di tutti i suoi clienti, Daniio lo usava per pulire le
pentole una volta all’anno, e ne uscivano sempre scintillanti. Ma c’è una
cosa meravigliosa sugli spiriti, per quanto di produzione scadente o dal
sapore tremendo.
Bruciano magnificamente.
Il fumo si stava già levando dal tetto del Vecchio Imperiale quando Mia
raggiunse la torre della guarnigione, intrufolandosi dietro dalle stalle e
salendo su per la parete posteriore. La torre si innalzava per trenta piedi e
non c’erano finestre ai piani superiori; era quasi certa che il Culto e lord
Cassius dovessero essere lì. Supponeva che fossero nelle stesse condizioni
in cui erano stati tenuti nel viaggio dalla Montagna, imbavagliati e
incatenati stretti, ma doveva accertarsene con i propri occhi. Era in
tremenda inferiorità numerica e non conosceva la configurazione di
quell’ambiente. Bruciare vive molte delle truppe di Remus per creare un
diversivo le era sembrato un ottimo modo per prendere due piccioni con
una fava.
O meglio, sessanta piccioni.
Per la verità, non era nemmeno certa che il Deliquio si sarebbe dissolto
nel brodo di Daniio, ma provarci sembrava un’idea migliore rispetto a
marciare dentro l’Imperiale e tirare in giro manciate di mutavitrum. La
puzza di carne bruciata aleggiava pesante sui venti e il fumo si innalzava in
una colonna contorta nel cielo bruciato dai soli, ma se provò qualche senso
di colpevolezza sul destino che aveva inflitto ai Luminatii, fu annullato
rapidamente al pensiero di Tric e degli altri che erano morti nel ventre della
Montagna.
Era a metà della scalata lungo la parete della torre quando il legionario in
cima suonò l’allarme, percuotendo una pesante campana di bronzo e
urlando: «Al fuoco! Al fuoco!». Gli abitanti di Ultima Spes uscirono dalle
loro porte, il centurione Garibaldi si precipitò in strada e imprecò, mentre
Mia scivolò oltre i bastioni e tagliò la gola della vedetta, una striscia di
sangue da un orecchio all’altro.
Gettandosi addosso le ombre, aprì la botola sul pavimento prima che il
corpo dell’uomo toccasse terra. Si lasciò cadere al piano inferiore, dove
trovò cuccette, armadi e un unico legionario intontito che si alzò dal
materasso per vedere cosa fosse quel trambusto. Il suo gladio lo rimise a
letto e Mia gli coprì la faccia con coperte insanguinate, mormorando una
preghiera a Niah. Scivolando giù per le scale fino al piano inferiore,
sussurrò un’imprecazione sommessa nel trovarlo vuoto, così come la sala
comune più in basso. Scrutando tra le finestre del pianterreno, riuscì a
vedere quattro legionari appostati fuori dalla porta principale: Remus,
Garibaldi e gli altri sembravano essere andati all’Imperiale. Con un unico
posto rimasto dove cercare, Mia aprì la porta della cantina e scese di
soppiatto nell’oscurità.
Due globi arkemici lanciavano un fioco bagliore su barili di vino e
scaffali, pilastri di legno e figure rannicchiate. Tre Luminatii erano seduti
attorno a una cassa rovesciata, mugugnando sopra un mazzo di carte. Tutti e
tre alzarono lo sguardo quando lei entrò. Lì sotto c’era troppo buio per
permetterle di vedere qualcosa sotto il suo manto d’ombra, così lo gettò da
parte e lanciò uno dei suoi pochi globi rimasti di mutavitrum d’onice. Fumo
nero esplose al centro del tavolo di carte, facendo volare birra e mendicanti.
Mia si lasciò cadere dalle scale con le spade sguainate, attaccando l’uomo
più vicino senza un sussurro.
Anche se la luce era fioca, poteva comunque percepire le loro ombre,
che si allungarono e fissarono i loro stivali al pavimento, uno a uno. Il
primo soldato combatté con foga malgrado la sorpresa, maledicendola come
eretica e promettendole che presto avrebbe incontrato la sua madre oscura.
Ma nonostante tutte le sue smargiassate, cadde con la spada di Mia in
pancia, afferrandosi la cotta di maglia perforata e chiamando la propria, di
madre, il suo sangue rosso sulla pietra. Mia lanciò una manciata di coltelli
al secondo uomo: due delle lame centrarono il bersaglio e lo fecero finire al
tappeto. Il terzo provò a fuggire, strattonando gli stivali e armeggiando con
le fibbie quando lei si sollevò alle sue spalle e gli conficcò la spada tra le
costole: la lama gli ruppe la cotta di maglia e gli spuntò dal petto. Cadde
senza un suono, gli occhi aperti e accusatori.
Mia glieli chiuse con un’altra preghiera sussurrata.
In mezzo al fumo turbinante e alla puzza di sangue, le vide. Sette figure
legate per bene in un angolo. La Shahiid Aalea, stretta nelle corde e
imbavagliata. Ammazzaragni, ammaccata e priva di sensi. Solis, quasi
malmenato a morte, la sua faccia una massa di segni violacei. Zitto, Mouser
e Drusilla, tutti svegli, le bocche serrate da un drappo di stoffa. E per ultimo
Cassius, gli occhi scuri infuriati, colmi di dolore. Il Principe Nero. Il
Signore delle Lame. Guardandolo, Mia provò la stessa sensazione di nausea
che aveva avvertito quando si erano incontrati in passato. Vertigini. Paura.
Un dolore quasi fisico. Una sagoma scura prese forma accanto a lui,
mostrando zanne nere in un ringhio.
“Eclissi.”
L’umbralupo avanzò verso Mia, il pelo ritto. Messer Cortese comparve
nella sua ombra, ululando e soffiando. Le creature si fissarono a vicenda
quando Mia sibilò.
«Rimettetelo nei pantaloni, tutti e due.»
«… SCIOCCA FANCIULLA, IO NON PORTO PANTALONI …»
«… oh, allora tu saresti l’intelligente dei due…»
«Messer Cortese, basta.»
Il non-gatto si chiuse in un silenzio imbronciato e un’occhiata da parte di
lord Cassius fu sufficiente a imporre lo stesso a Eclissi. Accucciandosi
accanto al Culto, Mia tagliò il bavaglio di Drusilla e lo tolse dalla bocca
della donna.
«Accolita Mia» sussurrò. «Una… sorpresa davvero piacevole.»
Mia si mise a tagliare i bavagli di Mouser e Aalea e, per ultimo, quello di
lord Cassius. Sembrava che quell’uomo fosse stato usato come un fantoccio
da addestramento: aveva le labbra gonfie, gli occhi neri, la guancia ferita.
Ma perfino quando gli tolse il bavaglio, il Signore delle Lame non disse
nulla.
Mia cercò di ignorare il senso di nausea crescente in presenza dell’uomo,
il martellare del suo cuore contro le costole. Controllò le manette e le corde
che legavano ciascuno di loro, poi cominciò a segare i legacci di Cassius
con la sua lama di necrosso.
«Devo farvi uscire di qui» sussurrò Mia. «Li ho distratti, ma non per
molto. Potete camminare? Meglio ancora, correre?»
«È evidente che i Luminatii volevano catturarci vivi» ansimò Drusilla.
«Ma Solis è in pessime condizioni, e dopo che ieri Mouser è sfuggito ai
suoi legacci, il buon tribuno si è assicurato che non fosse in grado di correre
da nessuna parte per un bel po’.»
Mia esaminò lo Shahiid di Tasche e notò l’angolo strano dei suoi stinchi.
«Madre Nera» mormorò. «Vi ha rotto le gambe.»
«E le dita.» Mouser trasalì. «Piuttosto… antisportivo, ritengo.»
Mia tagliò le loro corde, ma le manette della guarnigione erano un
discorso più complicato. Erano di ferro pesante, chiuse con una chiave che
nessuno dei tre soldati che aveva testé eliminato pareva possedere. Ognuno
dei membri del Culto era incatenato a polsi e caviglie: se non fosse riuscita
a liberarli, sarebbero stati costretti a camminare trascinando i piedi.
«Merda» mormorò lei. «Non ho grimaldelli con me.»
«Nei miei stivali» sussurrò Mouser con l’accenno di un sorriso. «Tacco
sinistro.»
Mia ruppe il tacco dello stivale di Mouser come lui le aveva detto e
bisbigliò delle scuse quando gli mosse lo stinco e lui sibilò di dolore.
Dentro trovò alcuni grimaldelli e una piccola barra di torsione, quindi si
mise al lavoro sui ferri di Cassius. Pur malconcio com’era, il Signore delle
Lame sarebbe riuscito comunque a trasportare Solis, e Aalea,
Ammazzaragni e Zitto potevano fare lo stesso con Mouser. La domanda
era: dovevano mettere la coda tra le gambe e fuggire oppure rimanere e
combattere? Solis e Mouser non erano in condizioni di cavalcare, e lei non
aveva alcuna possibilità di sellare il convoglio di cammelli senza che i
Luminatii lo notassero. Ma un corpo a corpo contro una dozzina di uomini
armati di solacciaio? Da un momento all’altro uno di loro poteva tornare
qui per controllare…
«’Bisso e sangue…»
Mia si guardò alle spalle a quel sussurro e vide una figura in cima alle
scale della cantina. Stivali polverosi. Pugnali alla cintura. Bellitrecce
bionde. Grandi occhi azzurri.
«Ashlinn…»
Mia allungò il braccio, provando ad afferrare l’ombra ai piedi della
ragazza. Ma senza una parola, la giovane si girò e scattò su per le scale,
fuori vista, i suoi stivali che saltellavano leggeri sulle assi sopra le loro teste
mentre schizzava verso la porta della torre.
«Merda, li avvertirà…»
Mia lanciò i grimaldelli in grembo a Cassius, scattò in piedi e corse
dietro Ashlinn. Salendo le scale tre gradini alla volta, sbucò alla soliluce
appena in tempo per vedere i quattro Luminatii posizionati alla porta della
casa della guarnigione fare irruzione, mentre Ashlinn lasciava una scia di
polvere lungo la strada che portava al Vecchio Imperiale, urlando mentre
correva.
I Luminatii erano ragazzi del luogo e, a differenza dei rifugiati della
scorreria, tutti armati con il loro solacciaio. Anche se erano ricoperti di
polvere dal deserto, indossavano anche un’armatura di piastre, e i pennacchi
sui loro elmi erano di un rosso sporco. Estrassero le loro lame con un urlo e
l’acciaio si infiammò mentre si precipitavano nella stanza. Spazio ristretto.
Avversari pesantemente armati e corazzati. Niente elemento sorpresa e
spade che l’avrebbero tranciata come burro grazioso.
A Mia non piacevano le carte in tavola.
Lanciò il suo ultimo mutavitrum di onice sul pavimento, si voltò e scattò
su per le scale. Tossendo e sputacchiando in quella foschia densa, i
Luminatii la inseguirono, intimandole di fermarsi. Mia scagliò una manciata
di mutavitrum di rubino quando schizzò al secondo piano e i globi
scoppiarono sul petto del primo Luminatii, sparpagliando i suoi pezzi per la
stanza. Bruciacchiati e schizzati di sangue, i tre soldati rimasti procedettero
con maggiore cautela, rannicchiati dietro gli scudi mentre raggiungevano il
secondo piano. L’ultimo globo di mutavitrum di Mia fuse quegli scudi in
metallo inservibile, l’ultimo coltello da lancio centrò l’uomo più avanti alla
gola e lo fece finire in ginocchio a tenersi la giugulare trapassata. Mia
lanciò un’occhiata alla scala di corda che portava al tetto, domandandosi se
potesse farcela prima che i due soldati rimasti la abbattessero. Alla fine,
però, decise di protendersi verso le ombre degli uomini che strisciavano
lungo il pavimento…
Il Luminatii di retroguardia cadde con un’espressione stupefatta, e
quattro piedi di solacciaio spento gli spaccarono quasi la testa in due.
Cervella e sangue schizzarono sulle pareti quando il corpo ruzzolò in avanti
e versò tutto ciò che rimaneva sul pavimento. Lord Cassius comparve dietro
di lui, il volto gonfio e ammaccato, gli occhi scuri stretti in una furia fredda.
E mentre Mia osservava stupefatta, Cassius piegò le dita della mano sinistra
e le ombre della stanza presero vita, contorcendosi come serpenti davanti
all’incantatore. Con un cenno, il Signore delle Lame strappò l’arma
dell’ultimo legionario dalla sua stretta e, senza un suono, vibrò con forza la
stessa spada lunga di solacciaio contro il collo del soldato.
Malgrado ciò che possano raccontare i vostri poeti, gentili amici, serve
un fendente poderoso e un braccio ancora più forte per decapitare di netto
un uomo. E ovviamente il Signore delle Lame non era nelle condizioni
migliori. Tuttavia, c’era solo una striscia sfilacciata di carne e poche
schegge di osso frantumato a tenere attaccata la testa del Luminatii al collo
quando cadde a terra, il corpo percorso da spasmi sul pavimento finché non
si rese conto della triste verità della sua morte.
Mia lanciò un’occhiata alle ombre, che ondeggiavano secondo il volere
di Cassius. Avvertiva ancora quella nausea viscida e dolorosa nella pancia,
mentre Messer Cortese tremava ai suoi piedi.
«Bel trucchetto» disse lei.
«Trucchetto?» Il Signore delle Lame inarcò un sopracciglio. «È così che
lo chiami?»
«Quando vi ho incontrato a Godsgrave… quando siete vicino a me…»
Mia scosse il capo. «Vi sentite come mi sento io quando siamo vicini?
Nauseato? Spaventato?»
Cassius attese un lungo momento prima di rispondere.
«Mi sento affamato.»
Mia annuì. Aveva la bocca secca. «Sapete perché?»
Il Signore delle Lame guardò esplicitamente i cadaveri sul pavimento.
Le pareti attorno a loro. «Forse questo non è il luogo migliore per parlarne.»
«Mi dovete delle risposte» affermò Mia. «Credo di essermele
guadagnate, ormai.»
Come se fosse stato evocato, Eclissi si materializzò vicino ai piedi di
Cassius. Messer Cortese sibilò piano quando l’umbralupo parlò: la sua voce
sembrava giungere da sotto il pavimento.
«… ARRIVANO, CASSIUS. IL PORTATORE DI LUCE E I SUOI SGHERRI …»
Il Signore delle Lame guardò Mia. Fece cenno verso i piani inferiori.
«Andiamo» disse Cassius. «Sbarazziamoci di questi cani. Ti donerò le
risposte che possiedo dopo l’iniziazione.»
«Iniziazione?» Mia si accigliò. «Ma ho fallito la prova finale.»
Un sorriso accennato incurvò le labbra di Cassius. «La tua prova finale ti
aspetta da basso, sorellina.»
«… Sorellina?»
Cassius era già scomparso giù per le scale, senza un suono. Mia si
precipitò dietro di lui, sentendosi come un ubriacone barcollante malgrado
tutto il suo addestramento. Perfino picchiato a sangue, torturato e lasciato
senza mangiare, Cassius si muoveva come un’ombra. I suoi stivali non
emettevano il minimo suono sulla pietra. Ogni suo movimento era preciso,
nulla andava sprecato, nessun guizzo o gesto plateale. I capelli si agitavano
dietro di lui come se soffiasse una brezza, la spada rubata gli scintillava
nella mano quando aprì la porta principale e uscì in strada.
Una dozzina di Luminatii erano in attesa. Il centurione Garibaldi, che
guardò Mia a occhi stretti: forse gli sembrava di riconoscerla. Un drappello
di legionari pesantemente armati con solacciaio che ardeva nelle loro mani.
Il tribuno Remus, un uomo sfregiato e imponente come una montagna nella
sua armatura di necrosso, che fissava Cassius con occhi stretti da lupo. E,
dietro, Remus, a osservare Mia con qualcosa a metà tra odio e
ammirazione…
«Ashlinn» sussurrò Mia.
Remus venne avanti, la spada alzata e increspata di fiamme. Era stato un
gigante l’ultima volta che Mia l’aveva visto nella soliluce: allora aveva
avuto solo dieci anni ed era aggrappata alle gonne di sua madre. Ora lui
sembrava solo un po’ più vecchio. Un po’ più piccolo.
Ma solo un po’.
«Non ho alcun desiderio di ucciderti, miscredente» ringhiò il tribuno.
«Parla per te» sbraitò Mia.
Remus sollevò un sopracciglio, come sorpreso di scoprire che la ragazza
aveva una lingua. Cassius lanciò un’occhiata in tralice a Mia e parlò con
l’angolo della bocca.
«Credo che stesse parlando con me.»
«E io credo che non me ne frega un cazzo.» Mia si voltò verso Remus,
passando la sua lama avanti e indietro da una mano all’altra. «È bello
rivederti, tribuno. La puttana traditrice al tuo fianco ti ha detto chi sono?»
Remus lanciò un’occhiata ad Ashlinn, poi squadrò Mia dall’alto in basso
con un sogghigno. «So chi sei, ragazza. E non sono minimamente sorpreso
di vedere una come te accompagnarsi a un covo di eretici e omicidi. La
mela non cade mai lontano dall’albero.»
Mia strinse gli occhi e i capelli soffiarono attorno al suo volto quando il
vento cominciò ad alzarsi. I Luminatii si guardarono i piedi, tremando un
po’ nel rendersi conto che le loro ombre si muovevano e pulsavano,
allungandosi verso la ragazza come se bramassero toccarla.
«Tu hai impiccato mio padre come divertimento per una fottuta folla»
sbraitò lei. «Hai gettato mia madre in un buco senza soliluce e l’hai lasciata
divorare dalla pazzia. Mio fratello era solo un bambino e l’hai lasciato
morire al buio. E tu parli a me di omicidio?»
Dagli occhi di Mia sgorgavano lacrime. Il suo volto era distorto dalla
rabbia.
«Ogni illuminotte da quando ho dieci anni sogno di ucciderti. Te, Scaeva
e Duomo. Ho rinunciato a tutto. A qualunque possibilità avessi di essere
felice. Ogni cambio, mi immaginavo la tua faccia e tutto ciò che ti avrei
detto per farti sapere quanto ti odio. È tutto ciò che sono, ormai. È tutto ciò
che resta dentro di me. Tu mi hai ucciso, Remus. Proprio come hai ucciso la
mia familia.»
Mia alzò la spada e la puntò verso la testa di Remus.
«E ora, io ucciderò te.»
Remus ringhiò agli uomini accanto a lui. «Uccidete la ragazza. Portatemi
Cassius vivo.»
Bisognava riconoscerlo a quegli uomini: l’ordine di catturare vivo
l’uomo più letale della Repubblica itreyana non li sbalordì molto. Forse
farlo precedere dal comando di uccidere una sedicenne lo rendeva più facile
da digerire. Ashlinn rimase indietro, ma i legionari – una dozzina in tutto –
vennero avanti, il centurione Garibaldi in testa. Con preghiere ad Aa e
suppliche alla Luce che tutto vede di dar loro la forza, alzarono gli scudi e
caricarono. E, senza un suono, il Signore delle Lame andò loro incontro.
Mia aveva visto alcuni combattenti muoversi come ballerini, flessuosi e
aggraziati. Altri si muovevano come tori, tutti forza bruta e spacconate. Ma
Cassius si muoveva come un coltello. Semplice. Diretto. Letale. Non c’era
alcun guizzo nel suo stile. Nessuna eleganza. Tagliava semplicemente fino
all’osso. Le ombre si sollevavano al suo richiamo e, con un gesto della
mano, disarmò il primo legionario che gli arrivò addosso, seppellendogli la
lama nel petto. Il secondo cadde lungo disteso sulla pancia, la sua carica
interrotta quando un intrico di ombre lo fece inciampare. Cassius si
sbarazzò di lui con un rapido colpo alla nuca, quasi come un ripensamento.
Mia era stupefatta dalla facilità con cui l’uomo maneggiava le tenebre.
Qua fuori, perfino alla luce di un unico sole, con un secondo che stava quasi
sorgendo, lei era in difficoltà a trattenere pochi di quei legionari in corsa.
Tuttavia, riuscì a fissare gli stivali dei due tipi più grossi a terra e lanciò il
suo ultimo mutavitrum di rubino contro la faccia di un altro, facendogli
esplodere la testa dalle spalle. Una spada ardente fendette l’aria, sibilando.
Mia si chinò all’indietro e avvertì il calore sul mento. Rotolò accucciata,
facendo un salto mortale tra la polvere e scagliando il suo ultimo coltello da
lancio in risposta. Quello si conficcò tremando nel collo del Luminatii,
lasciandolo a terra a soffocare e zampillare sangue.
Mia si alzò dalla polvere. Posò gli occhi su Ashlinn. Le due si
fronteggiarono sulle sabbie mutevoli, i fantasmi di due ragazzi uccisi che
aleggiavano nell’aria fra loro. Tric. Osrik. Entrambi senza risposta. Ma per
qualche motivo Ashlinn rimase indietro, ciondolando ai margini della
mischia mentre altri Luminatii caricavano Mia, le spade sollevate.
«Hai paura di me, Ash?»
Parata. Finta. Affondo.
«Non volevo che andasse così, Mia» urlò la ragazza. «Ti avevo detto che
questo non era il tuo posto.»
«Non avevo mai immaginato che fossi una codarda. Tuo fratello mi ha
dato più filo da torcere.»
«Cerchi di provocarmi a un piccolo corpo a corpo?» Ash scosse il capo
tristemente. «Credi che sia così che finisce, amore? Io che mi lascio
trascinare in uno scontro che non posso vincere?»
«Che male c’è a sognare?»
«Continua a farlo, allora. Anch’io ho studiato con Aalea.»
Mia parò un colpo diretto alla sua gola, poi gettò della polvere negli
occhi del suo aggressore con un calcio. L’uomo la percosse con lo scudo,
mandandola lunga e distesa nella polvere. Lei scivolò di lato quando la
spada ardente del soldato andò a impattare nella sabbia accanto alla sua
testa e scalciò ferocemente contro il ginocchio dell’uomo. Udì un impatto
molle e un urlo strozzato. Si rimise in piedi mentre tutte le lezioni di Naev
le cantavano nella testa. Acciaio fiammeggiante fendeva l’aria, la polvere si
incrostava sulla sua lingua.
Arrischiando un’occhiata, vide che Cassius era davvero lo spadaccino
che la sua reputazione lasciava intendere. Il terreno attorno a lui era
disseminato di mezza dozzina di cadaveri e altri due uomini giacevano feriti
e gementi al suolo. Come molti generali, Remus era rimasto indietro per
lasciare che fosse la sua fanteria a combattere, ma con i suoi uomini che
cadevano come foglie, l’uomo sputò nella polvere e si gettò nella mischia.
Il Signore delle Lame indietreggiò, effettuando una serie di finte con le sue
ombre, l’oscurità che guizzava davanti alla lama ardente di Remus.
Ora che tutti erano concentrati su Cassius, a Mia restava un solo
avversario da affrontare: il centurione Garibaldi. L’uomo era implacabile,
agitava lo scudo e assestava un colpo dopo l’altro contro la guardia di Mia.
La ragazza era veloce, ma l’uomo era ricoperto da un’armatura pesante e i
pochi colpi che lei riusciva a portare a segno erano deviati dalla piastra di
lui. Garibaldi le sbatté lo scudo contro il petto, lanciandola in aria. Lei
rotolò appena in tempo per non ritrovarsi con la testa fracassata, si rialzò in
posizione accucciata e scagliò il suo ultimo globo di onice contro lo scudo
dell’uomo. Il vetro arkemico scoppiò, sollevando una nube turbinante di
fumo nero. Il centurione barcollò e tossì, e Mia raccolse quello che
rimaneva delle sue forze, serrò i pugni e afferrò l’ombra ai piedi di
Garibaldi, intralciando i suoi stivali quando lui caricò di nuovo. L’uomo
vacillò e roteò le braccia, sforzandosi di rimanere in equilibrio, ma invano.
Garibaldi cadde in avanti, i talloni ancora incollati alla strada e gli stinchi
che si spezzarono quando il peso fece crollare a terra il resto del suo corpo.
L’uomo urlò, tenendosi le gambe mentre Mia lo liquidava e si toglieva la
polvere dagli occhi. Cassius stava ancora combattendo contro i Luminatii, i
loro corpi un groviglio di bianco e nero, fiamma e ombra. La partecipazione
di Remus alla mischia aveva riequilibrato le sorti: il Signore delle Lame
adesso era sulla difensiva, la sua spada una forma indistinta, l’oscurità che
cantava.
Mia guardò il tribuno, la cui faccia era distorta dalla furia. L’uomo che
aveva contribuito a uccidere la sua familia. Che aveva distrutto la sua
vecchia vita. Ma poi si voltò verso Ashlinn. La ragazza che aveva preso la
sua nuova vita e l’aveva strappata in tanti pezzetti sanguinanti. Ashlinn la
fissò a sua volta, la spada in mano, gli occhi azzurri assottigliati. Voltare le
spalle alla ragazza non sembrava la mossa più intelligente. Così Mia inclinò
il collo finché non schioccò e fece un passo verso di lei.
«Non farlo, Mia» la ammonì Ash.
Mia la ignorò, sollevando la mano e avvolgendo la tenebra attorno ai
piedi della ragazza.
«Non farà male» disse Mia. «Non molto.»
Ash prese un respiro profondo. Sospirò. Poi infilò una mano nelle brache
e tirò fuori una manciata di fiamme ardenti, che roteavano al termine di una
catena dorata.
“La Trinità.”
La luce avvampò, più brillante di tutti e tre i soli. La vista del
medaglione fu come una randellata alla nuca per Mia, che la fece finire in
ginocchio. Con la coda dell’occhio, vide Cassius barcollare e alzare
l’avambraccio per schermarsi gli occhi. Remus stava menando un fendente
quando il Signore delle Lame abbassò la guardia. Volendo disperatamente
mantenere in vita il suo trofeo, il tribuno girò la lama e colpì Cassius con la
parte piatta ardente. Ma il legionario accanto a lui – fuori di sé dal terrore
per la morte dei suoi compagni, la caduta del suo centurione, il silenzio
mortale di questo demone vestito di nero che evocava le ombre dall’Abisso
per fare a pezzi i suoi commilitoni – non mostrò lo stesso controllo.
Mentre Remus urlava un avvertimento, il legionario colpì Cassius, già
barcollante per la luce della Trinità e il colpo di piatto del tribuno. Una
spada fiammeggiante penetrò tra le costole dell’uomo, conficcata fino
all’elsa. Il legionario strappò via l’arma e il Signore delle Lame lanciò un
urlo di dolore, tenendosi il petto trafitto. Cadendo in ginocchio, tossì rosso e
si raggomitolò in posizione fetale, un braccio ancora alzato per proteggersi
da quella terribile luce ardente.
«Dannato idiota!» tuonò Remus, girandosi verso l’uomo e assestandogli
un gancio devastante alla mascella. La testa del legionario fu sferzata da
una parte e gli saltarono i denti mentre si afflosciava come carta. «Lo
volevo vivo!»
Mia era carponi, il capo chino, gli occhi chiusi per tenere a bada l’odio
fiammeggiante del Semprevigile nella mano di Ashlinn. La ragazza
attraversò la distanza che la separava da Mia, tenendo in alto la Trinità. Mia
rotolò sulla schiena, indietreggiando con i talloni che scalciavano contro la
strada. Agonia. Terrore. Messer Cortese si raggomitolò nella sua ombra e si
contorse, inerme quanto lei.
«Mi dispiace, Mia» sospirò Ash.
Remus stava guardando torvo Ashlinn, incredulo. «Ce l’hai avuta
addosso per tutto il tempo? Avresti potuto mettere fine a tutto questo in
qualunque momento? Infida, piccola…»
«Oh, fottiti, fanatico religioso» ringhiò Ashlinn. «Non sono coinvolta in
questa storia per la tua gloriosa Repubblica e non me ne frega un cazzo di te
e dei tuoi uomini. Se volevo tenermi un asso nella manica, sono affari miei.
E nel caso ti sia sfuggito, ho appena salvato la tua miserabile vita. Perciò,
invece di blaterare, forse dovresti ammazzare la ragazza che ha appena
cercato di ucciderti, poi andare ad assicurarti che il resto del Culto sia
ancora sotto chiave. A meno che tu e la tua allegra banda di idioti non
vogliate sbudellare accidentalmente anche loro?»
Benché fosse alta forse un piede meno di Remus, Ashlinn costrinse il
tribuno ad abbassare lo sguardo. Con un ringhio, Remus sollevò la sua lama
e si diresse verso Mia, le fiamme che si increspavano lungo il bordo.
Mia strisciò all’indietro nella polvere. Dilaniata dal dolore, incapace
perfino di mettersi in piedi. Adesso il terrore le correva nelle vene, le
ruggiva nelle tempie, facendole temere che sarebbe finita così. Tutte le
miglia e tutti gli anni, solo perché terminasse qui? Stesa nella polvere di un
buco dimenticato, incapace perfino di sollevare la sua spada?
“Così?”
Digrignò i denti. Gli occhi si riempirono di lacrime cariche d’odio.
“Proprio così?”
La luce era accecante; ovunque guardasse, era come fissare i soli.
Riusciva a vedere solo sagome vaghe. Ashlinn in piedi di fronte a lei, la
Luce che si irradiava ardente nella sua mano. Remus, che torreggiava dietro
la ragazza, una luce più fioca che bruciava nel suo pugno. Luminatii feriti,
che gemevano nella polvere. Lord Cassius, il cui terrore si protese verso il
suo.
“Mai tirarsi indietro. Mai avere paura.”
Scosse il capo. Fissò la sagoma di Remus. Era decisa a guardarlo negli
occhi. Voleva mostrare che, malgrado tutto il dolore, malgrado il suo cuore
la definisse bugiarda…
«Io non ho paura di te» sibilò.
Udì una debole risatina. La luce più fioca che si sollevava.
«Luminus Invicta, eretica» disse Remus. «Porterò a tuo fratello i tuoi
saluti.»
Quelle parole colpirono Mia con forza maggiore della luce della Trinità.
Le tramutarono il sangue in acqua. Cosa stava dicendo? Jonnen era morto.
Lo aveva detto la madre di Mia. Quel verobuio in cui aveva fatto a pezzi la
Pietra Filosofale, poi aveva combattuto sui gradini della Basilica Grande ed
era caduta davanti a questo stesso bastardo, davanti a questa stessa
maledetta luce. Quindi era andata sui bastioni a piangere, sopra il luogo in
cui suo padre era morto. Con Mercurio al suo fianco mentre lei sussurrava.
“Era così luminoso” sussurrò. “Troppo luminoso.”
Il vecchio sorrise. Le diede una pacca sulla mano.
“Più brillante è la luce, più cupa è l’ombra.”
Ashlinn era in piedi di fronte a lei, la Trinità che risplendeva nella sua
mano. Remus incombeva alle sue spalle, la spada alzata. Dietro entrambi,
che si estendeva lungo la sabbia e in quella del tribuno, c’era l’ombra di
Mia. Nera. Che si contorceva. Ma di fronte a quella luce tremenda, era più
cupa di quanto non fosse mai stata.
Si protese verso di essa. Strinse i denti. Chiuse gli occhi. Percepì le
tenebre fuori e quelle dentro. E, serrando i pugni, con il pugnale stretto in
mano
si calò
Spezzaspada era nella sua sala a osservare la pioggia giungere nella Baia di
Farrow.
Era scoccata l’illuminotte e la sua città era quasi completamente
silenziosa, il suo popolo rannicchiato presso i focolari mentre all’esterno
infuriavano Trelene e Nalipse. Le signore degli oceani e delle tempeste
avevano litigato parecchio, di recente. L’inverno era stato rigido, le gemelle
continuamente l’una alla gola dell’altra. C’era da sperare che questa sarebbe
stata l’ultima grossa tempesta prima di terzalba: Spezzaspada riusciva a
vedere il bagliore giallo di Shiih spuntare all’orizzonte oltre le nuvole, e
l’arrivo del terzo sole annunciava il lento avanzare verso l’estate.
A dire la verità, non vedeva l’ora. Gli inverni erano più pungenti qui a
Dweym che in qualunque altro posto della Repubblica, e il gelo sempre più
doloroso per le sue vecchie ossa ogni anno che passava. Stava
invecchiando. Avrebbe dovuto già farsi da parte come Bara dei Tredrachi,
ma le sue figlie avevano sposato un paio di idioti, entrambi più muscoli che
cervello. Spezzaspada detestava il pensiero di dare la corona di corallo a
uno di quei due promessi-figli. Se Camminaterra fosse stata ancora qui…
Ma no. Non aveva senso ripensare alla sua figlia più giovane.
Quel tempo era passato, e lei con esso.
Spezzaspada voltò le spalle alla baia e procedette zoppicando per i
lunghi corridoi di pietra della sua fortezza. I servitori si inchinavano al suo
passaggio, gli occhi bassi. Il tuono rimbombava fra le travi sopra la sua
testa. Arrivato nella sua camera, si chiuse la porta alle spalle e guardò il
letto vuoto. Si interrogò sulla crudeltà della vita: sul fatto che un marito
sopravvivesse alla moglie, e a maggior ragione a una figlia. Si tolse la
corona di corallo dalla fronte e la mise da parte, arricciando le labbra.
«Ultimamente è diventata pesante» borbottò. «Fin troppo.»
Sollevando una caraffa di cristallo canterino dweymeri, riempì un
bicchierino con mani tremanti. Se lo portò alle labbra con un sospiro. Fissò
fuori dalla finestra mentre le piogge bersagliavano il vetro, poi si diresse al
focolare ruggente e sospirò quando il calore gli lambì le ossa. La sua ombra
danzava alle sue spalle, tremolando sulle pietre del pavimento e sulle
pellicce.
Si accigliò. Socchiuse le labbra.
Si rese conto che la sua ombra si stava muovendo. Arricciandosi e
contorcendosi. Serpeggiando lungo la pietra, ritirandosi su se stessa e poi –
somma Trelene, ci avrebbe giurato – allungandosi verso la luce del fuoco.
«Nel nome della Signora, cosa…»
La paura fece sbiancare Spezzaspada in volto quando le mani della sua
ombra si mossero per volontà propria. Si protesero verso la gola dell’ombra
stessa, come per strozzarsi da sola. Il vecchio Bara guardò le proprie mani,
l’aureovino nel suo bicchiere, e un brivido lo percorse malgrado il calore
del fuoco.
E allora cominciò il dolore.
Sulle prime fu solo un debole bruciore nello stomaco. Una fitta, come
per un ultimopasto troppo speziato. Ma presto sbocciò, diventando più
forte, più calda, e il vecchio trasalì portandosi una mano all’addome. Attese
che il dolore passasse. Attese che…
«Dea» rantolò, crollando in ginocchio.
Adesso il dolore era come fuoco. Caldo e incandescente. Si piegò in due
e la coppa di cristallo gli scivolò di mano, slittando lungo la pietra,
l’aureovino versato che scintillava al bagliore del fuoco. Ora la sua ombra
era percorsa da spasmi, come dotata di volontà propria. La faccia del
vecchio si contorse mentre una lenta agonia gli artigliava le viscere. Aprì la
bocca per chiamare i servitori, i suoi uomini di fiducia. C’era qualcosa di
sbagliato.
“Qualcosa di sbagliato…”
Una mano scivolò sulle sue labbra, smorzando il suo urlo. Strabuzzò gli
occhi quando udì un sussurro freddo all’orecchio. Fiutò odore di chiodi di
garofano bruciati.
«Salve, Spezzaspada.»
Le parole del vecchio erano ovattate dalla mano. Il suo intestino era in
fiamme.
«Non vedevo l’ora di avere una possibilità di trovarti da solo» disse la
voce. «Per parlare.»
Una donna, si rese conto. Una ragazza. L’uomo sgroppò, cercando di
liberarsi dalla stretta, ma lei tenne duro, forte come necrosso. L’ombra
dell’uomo continuava a deformarsi, a piegarsi, come se lui fosse sdraiato ad
artigliare il cielo. E mentre l’intensità del dolore raddoppiava, scoprì che era
esattamente ciò che stava facendo, girato a pancia in su a fissare la figura
che lo sovrastava tra le lacrime di agonia nei suoi occhi.
Una ragazza, proprio come aveva pensato. Tutta pelle bianco latte, curve
snelle e labbra arcuate. Vide una sagoma prendere forma dall’oscurità ai
piedi della giovane. Piatta come carta e semitrasparente, nera come la
morte. La sagoma avvolse la coda attorno alla sua caviglia, con fare quasi
possessivo. E anche se non aveva occhi, seppe che lo stava osservando, con
lo stesso rapimento di un bambino davanti a uno spettacolo di burattini.
«Ora toglierò la mano. A meno che tu non abbia intenzione di urlare…»
Il vecchio gemette mentre il fuoco gli bruciava nella pancia. Ma fissò la
ragazza con occhi pieni d’odio. Urlare? Lui era il Bara del clan Tredrachi.
Che fosse dannato se avrebbe dato a questa stronzetta furtiva la
soddisfazione…
Spezzaspada scosse il capo. La ragazza ritirò la mano. Poi si inginocchiò
accanto a lui.
«C…» provò a dire. «C…»
«Chi sono?» chiese la ragazza.
Il vecchio annuì, trattenendo un altro gemito di dolore.
«Temo che non saprai mai il mio nome» disse lei. «Ho intrapreso la
strada dell’ombra. Sono una diceria. Un sussurro. Il pensiero che fa
svegliare sudati nell’illuminotte i bastardi di questo mondo. E tu sei un
bastardo, Spezzaspada del clan Tredrachi. Un bastardo su cui ho fatto una
promessa a una persona a cui tenevo, non molto tempo fa.»
Il volto del vecchio si contorse mentre le dita artigliavano il petto. I suoi
intestini erano in ebollizione, bruciavano, tutti acido e vetri rotti. Scosse il
capo e cercò di sputare, ma gli uscì solo un lamento. La ragazza guardò la
coppa di aureovino rovesciata. Il fuoco scintillava nei suoi occhi neri.
«È Cattiveria» disse lei, indicando il bicchiere. «Una dose pura. Ha già
fatto un buco corrodendo il tuo stomaco. Nei prossimi minuti si mangerà i
tuoi intestini. E nel corso dei prossimi cambi, la tua pancia sanguinerà, si
gonfierà e si infetterà. E alla fine morirai, Spezzaspada del clan Tredrachi.
Morirai come ho promesso.»
Sorrise.
«Morirai urlando.»
Un’altra sagoma prese forma accanto alla ragazza. Un’altra ombra, che
fissò Spezzaspada con i suoi non-occhi. Si rese conto che era un lupo.
Ringhiò con una voce che sembrava arrivare da sottoterra.
«… ARRIVANO DEI SERVITORI. DOVREMMO ANDARCENE …»
La ragazza annuì. Si alzò in piedi. Le due ombre osservavano lui. La vita
nei suoi occhi. Tutte le cose giuste e le cose sbagliate che aveva fatto. Tutti i
fallimenti, i trionfi e ciò che c’era in mezzo.
«Se dovessi vederlo nei tuoi vagabondaggi per il Focolare, salutami
Tric.»
Spezzaspada sgranò gli occhi.
La voce della ragazza era delicata come le ombre.
«Digli che mi manca.»
L’oscurità si increspò e il vecchio si ritrovò da solo.
Con le sue urla come unica compagnia.
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Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
NEVERNIGHT. MAI DIMENTICARE
CAVEAT EMPTOR
LIBRO 1. QUANDO TUTTO È SANGUE
CAPITOLO 1. PRIMI
CAPITOLO 2. MUSICA
CAPITOLO 3. DISPERATA
CAPITOLO 4. GENTILEZZA
CAPITOLO 5. COMPLIMENTI
CAPITOLO 6. POLVERE
CAPITOLO 7. PRESENTAZIONI
CAPITOLO 8. SALVEZZA
CAPITOLO 9. TENEBRA
LIBRO 2. FERRO O VETRO
CAPITOLO 10. CANTO
CAPITOLO 11. RICREATA
CAPITOLO 12. DOMANDE
CAPITOLO 13. LEZIONE
CAPITOLO 14. MASCHERE
CAPITOLO 15. VERITÀ
CAPITOLO 16. CAMMINO
CAPITOLO 17. ACCIAIO
CAPITOLO 18. FLAGELLO
CAPITOLO 19. MASCHERATA
CAPITOLO 20. FACCE
CAPITOLO 21. PAROLE
CAPITOLO 22. POTERE
CAPITOLO 23. SCAMBIO
CAPITOLO 24. FRIZIONE
CAPITOLO 25. PELLE
CAPITOLO 26. CENTO
CAPITOLO 27. VEROBUIO
LIBRO 3. NERO SCORRE ROSSO
CAPITOLO 28. VELENO
CAPITOLO 29. DIVISIONE
CAPITOLO 30. FAVORI
CAPITOLO 31. DIVENTARE
CAPITOLO 32. SANGUE
CAPITOLO 33. PASSI
CAPITOLO 34. INSEGUIMENTO
CAPITOLO 35. KARMA
CAPITOLO 36. TRAMONTO
EPILOGO
DICTA ULTIMA
RINGRAZIAMENTI
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