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Il libro

D all’osannato autore australiano Jay Kristoff, la trilogia fantasy più


innovativa del decennio.
Destinata a distruggere imperi, Mia Corvere ha solo dieci anni quando
riceve la sua prima lezione sulla morte.
Sei anni dopo, la bambina cresciuta tra le ombre si avvia a mantenere la promessa
che ha fatto il giorno in cui ha perso tutto.
Ma le possibilità di sconfiggere nemici così potenti sono davvero esili, e Mia è
costretta a trasformarsi in un’arma implacabile.Deve mettersi alla prova tra i nemici
– e gli amici – più letali, e sopravvivere alla protezione di assassini, mentitori e
demoni, nel cuore stesso di una setta dedita all’omicidio.
La Chiesa Rossa non è una scuola come le altre, ma neanche Mia è una
studentessa come le altre. Le ombre la amano. Si nutrono della sua paura.
L’autore

Jay Kristoff è l’autore delle serie pluripremiate The Illuminae Files, Aurora Cycle e
Nevernight.
Ha vinto due Aurelian Awards e un ABIA, è stato finalista ai premi David
Gemmell Morningstar e Legend ed è attualmente pubblicato in oltre 25 paesi (ma
nella maggior parte di questi non ha mai messo piede). È esterrefatto da tutto ciò,
tanto quanto voi. È alto più di due metri e gli mancano circa 13.030 giorni da vivere.
Dimora a Melbourne con la moglie, agente segreto e assassina esperta di kung fu,
e il Jack Russell più pigro del mondo.
Non crede nel lieto fine.
Jay Kristoff

Libro primo degli accadimenti di lluminotte

NEVERNIGHT
Mai dimenticare

Traduzione di Gabriele Giorgi


per le mie sorelle
luce e buio e tutto ciò che c’è di stupendo nel mezzo
NEVERNIGHT

MAI DIMENTICARE

Non c’è ombra senza luce,


Sempre giorno segue notte,
a metà tra nero e bianco
c’è il grigio.

ANTICO PROVERBIO ASHKAHI


CAVEAT EMPTOR

Spesso le persone si cagano addosso quando muoiono.


I muscoli si rilassano, l’anima svolazza via e tutto il resto… viene
evacuato. Malgrado l’amore che il loro pubblico nutre per la morte, i
commediografi di rado ne fanno cenno. Quando l’eroe spira tra le braccia
dell’eroina, non richiamano l’attenzione sulla macchia che gocciola lungo
le cosce o sul fatto che la puzza le fa venire le lacrime agli occhi mentre si
china per dargli il bacio d’addio.
Lo dico come avvertimento, o miei gentili amici, ché il vostro narratore
non condivide tale freno. E se le sgradevoli realtà di uno spargimento di
sangue liquefanno le vostre interiora, sappiate che le pagine che avete tra
le mani parlano di una ragazza che stava all’omicidio come i maestri alla
musica. Che riservava al lieto fine lo stesso trattamento di un seghetto
all’epidermide.
Lei stessa è morta, ora: parole che susciterebbero un ampio sorriso, che
a sentirle fossero i giusti o i malvagi. Si è lasciata alle spalle una
repubblica in cenere. Per mano sua, una città di ponti e ossa giace sul
fondo del mare. Eppure sono certo che troverebbe comunque un modo per
uccidermi, se sapesse che sto mettendo per iscritto queste parole. Mi
dilanierebbe e mi lascerebbe lì a saziare la tenebra affamata. Ma ritengo
che qualcuno dovrebbe almeno provare a separarla dalle menzogne narrate
su di lei. Attraverso di lei. Da lei.
Qualcuno che l’abbia conosciuta per davvero.
Una ragazza chiamata da alcuni la Figlia Pallida. L’Incoronatrice. Il
Corvo. Ma molto spesso non la chiamavano affatto. Assassina di assassini,
di cui solo io e la dea conosciamo davvero il conto degli omicidi. E, alla
fine, ciò la rese famosa o famigerata? Tutta questa morte? Confesso di non
essere mai riuscito a capire la differenza. D’altro canto, non ho mai visto le
cose a modo vostro.
Non ho mai vissuto davvero nel mondo che definite vostro.
E nemmeno lei, in effetti.
Forse è questo il motivo per cui l’amavo.
LIBRO 1
QUANDO TUTTO È SANGUE
CAPITOLO 1
PRIMI

Era un ragazzo bellissimo.


Pelle liscia color caramello, un sorriso dolce come melata. Riccioli neri
scarmigliati, ma nel modo giusto. Mani forti e muscoli sodi, e gli occhi…
oh, Figlie, i suoi occhi. Profondi cinquemila pertiche. Che ti trascinavano
dentro di essi con una risata mentre lui ti affogava.
Le labbra del ragazzo sfiorarono le sue, calde e morbidamente
incurvate. Erano intrecciati lì sul Ponte dei Sussurri, una macchia viola
premuta contro le curve del cielo. Le mani del giovane vagavano lungo la
schiena della ragazza e in quel momento le facevano formicolare la pelle.
La lingua di lui sfiorava la sua, lieve come una piuma, provocandole un
brivido, accelerandole i battiti e facendole dolere le viscere di desiderio.
Si allontanarono come ballerini prima che la musica si fermasse, la
vibrazione che riverberava ancora lungo le loro corde. Lei aprì gli occhi e
lo trovò che la fissava nella luce nebbiosa. Un canale mormorava sotto di
loro e il suo flusso indolente si svuotava nell’oceano. Proprio come lei
voleva. Come doveva. Pregando di non affogare.
La sua ultima illuminotte in questa città. Una parte di lei non voleva
dirle addio. Ma prima di partire, voleva sapere. Almeno quello lo doveva a
se stessa.
«Sei sicura?» le chiese.
Allora lei alzò lo sguardo nei suoi occhi.
Lo prese per mano.
«Sono sicura» sussurrò.

Era un uomo ripugnante.


Pelle sclerotica, un mento sfuggente perso in pieghe di grasso ricoperto
di peluria. Una patina di saliva sulla bocca, il bacio del liquore
scarabocchiato su gote e naso, e i suoi occhi… oh, Figlie, i suoi occhi.
Azzurri come il cielo riarso dai soli. Che scintillavano come stelle
nell’immobilità del verobuio.
Le sue labbra erano posate sul boccale, a tracannare i sedimenti mentre
musica e risate crescevano attorno a lui. Ondeggiò ancora per un momento
nel cuore della taverna, poi lanciò una moneta sul bancone di legno duro e
uscì barcollando nella soliluce. I suoi occhi vagarono per l’acciottolato
davanti a lui, intorpiditi dall’alcol. Le vie stavano diventando affollate e lui
si fece strada tra la calca, mirando solo a casa e a un sonno senza sogni.
Non alzò lo sguardo. Non notò la figura accovacciata in cima a una gargolla
di pietra su un tetto del lato opposto, abbigliata di bianco gesso e grigio
malta.
La ragazza lo osservò barcollare via lungo il Ponte dei Fratelli. Sollevò
la maschera da Arlecchino per fare un tiro del suo sigaretto: fumo che
odorava di chiodi di garofano si sollevò in aria. La vista di quel sorriso da
carogna e di mani scorticate dalle corde le provocò un brivido,
accelerandole i battiti e facendole dolere le viscere di desiderio.
La sua ultima illuminotte in questa città. Una parte di lei non voleva dirle
addio. Ma prima di partire, voleva che lui sapesse. Almeno quello glielo
doveva.
Un’ombra che indossava la forma di un gatto sedeva sul tetto accanto a
lei. Era piatta come carta e semitrasparente, nera come la morte. La sua
coda le si arricciò attorno alla caviglia, un gesto quasi possessivo. Acque
fredde passavano per le vene della città e fuoriuscivano nell’oceano.
Proprio come lei voleva. Come doveva. Ancora pregando di non affogare.
«… sei sicura…?» le chiese il gatto che era ombre.
La ragazza guardò il suo obiettivo sgattaiolare verso il proprio letto.
Annuì lentamente.
«Sono sicura» sussurrò.

La stanza era piccola, spoglia, l’unica cosa che lei si poteva permettere.
Ma aveva disposto le candele di rosagioia e un mazzo di gigli d’acqua su
bianche lenzuola pulite, gli angoli abbassati come per invitarlo a entrare, e
il ragazzo sorrise per tutta quella stucchevole dolcezza.
Avvicinatasi alla finestra, lei fissò l’imponente città vecchia di
Godsgrave. I marmi bianchi, i mattoni color ocra e le guglie aggraziate che
baciavano il cielo riarso dai soli. Verso nord, le Costole si sollevavano per
centinaia di piedi nell’aria vermiglia, con i loro appartamenti intagliati
all’interno di quelle antiche ossa punteggiati di minuscole finestre. I canali
scorrevano fuori dalla Dorsale cava e i loro percorsi intersecavano la pelle
della città come tele di ragni impazziti. Lunghe ombre adornavano i
marciapiedi affollati mentre la luce del secondo sole si affievoliva – il
primo era scomparso già da parecchio – lasciando il loro terzo fratello,
rosso e imbronciato, a montare la guardia sui pericoli della illuminotte.
Oh, se solo fosse stato verobuio.
In quel caso, lui non l’avrebbe vista.
Non era certa di volere che la guardasse, durante tutto questo.
Il ragazzo la seguì a passi felpati, avvolto da sudore fresco e tabacco. Le
fece scivolare le mani attorno alla cintola, le dita che scorrevano come
ghiaccio e fiamma lungo le fossette delle sue anche. Il respiro di lei divenne
più affannoso, formicolando in un punto antico e profondo. Ciglia
svolazzavano come ali di farfalla contro le sue gote mentre le mani del
ragazzo circumnavigavano l’orlo del suo ombelico per poi danzare sulle
sue costole e salire fino ad avvolgersi attorno ai suoi seni. Le si accapponò
la pelle quando lui le respirò tra i capelli. Inarcando la schiena e premendo
a sua volta contro la durezza del suo inguine, impigliò una mano tra le
ciocche scarmigliate del ragazzo. Non riusciva a respirare. A parlare. Non
voleva che tutto questo iniziasse o finisse.
Voltandosi e sospirando per un nuovo incontro fra le loro labbra, lei
armeggiò con i gemelli delle sue maniche pieghettate, un miscuglio di
pollici, sudore e fremiti. Si tolsero le camicie e la ragazza schiacciò le
proprie labbra contro le sue, affondando sul letto. Solo lui e lei, ora. Pelle
contro pelle. Lei non riusciva a capire di chi fossero i gemiti.
Il desiderio era insopportabile e la permeava tutta mentre con mani
tremanti esplorava quei pettorali lisci come cera e la decisa linea di carne
a forma di “v” che conduceva in basso, all’interno delle sue brache. Lei
fece scivolare le dita dentro e sfiorò quel calore pulsante, pesante quanto il
ferro. Terrificante. Da capogiro. Lui gemette, fremendo come un puledro
appena nato, quando la ragazza lo accarezzò, sospirandogli attorno alla
lingua.
Lei non aveva mai avuto così paura.
Mai una volta in tutti i suoi sedici anni.
«Fottimi…» sospirò.

La stanza era lussuosa, di quelle che solo i più ricchi possono permettersi.
Eppure c’erano bottiglie vuote sul cassettone e fiori appassiti sul comodino,
che emanavano l’odore stantio dello squallore. La ragazza trovò sollievo nel
vedere quest’uomo che odiava così benestante e così totalmente solo. Lo
osservò attraverso la finestra mentre appendeva la sua redingote e
appoggiava un tricorno malandato su una brocca vuota. Cercò di
convincersi che poteva farcela. Che era dura e affilata come l’acciaio.
Appollaiata sul tetto opposto, guardò in basso verso la città di
Godsgrave; verso acciottolati macchiati di sangue, cunicoli nascosti e
imponenti cattedrali di osso scintillante. Le Costole pugnalavano il cielo
sopra di lei, canali contorti scorrevano fuori dalla Dorsale storta. Lunghe
ombre adornavano i marciapiedi affollati mentre il secondo sole diventava
più flebile – il primo era scomparso già da parecchio – lasciando il loro
terzo fratello, rosso e imbronciato, a montare la guardia sui pericoli della
illuminotte.
Oh, se solo fosse stato verobuio.
In quel caso, lui non l’avrebbe vista.
Non era certa di volere che la guardasse, durante tutto questo.
Allungando dita abili, tirò a sé le ombre. Tessé e torse quei sottilissimi
fili neri fino a farli scorrere sulle sue spalle come un mantello. Scomparve
dalla vista del mondo, diventando quasi trasparente, come una macchia su
un dipinto del profilo della città. Superò con un balzo il vuoto fino al suo
davanzale e si issò sul ripiano. Aprì rapidamente il vetro e si intrufolò nella
camera dall’altra parte, silenziosa come il gatto fatto d’ombre che la
seguiva. Fece scivolare uno stiletto dalla cintura e il suo respiro divenne più
affannoso, formicolando in un punto antico e profondo. Accucciata non
vista in un angolo, le ciglia svolazzanti come ali di farfalla contro le gote, lo
osservò riempire una coppa con mani tremanti.
Stava respirando troppo rumorosamente, tutte le sue lezioni che si
confondevano dentro la testa. Ma lui era troppo intorpidito per notarla: era
perso da qualche parte nel ricordo dei cigolii di migliaia di colli appesi, di
migliaia di paia di piedi che danzavano alla melodia del boia. Le nocche
della ragazza divennero bianche sull’elsa del pugnale mentre lo osservava
dalla penombra. Non riusciva a respirare. A parlare. Non voleva che tutto
questo iniziasse o finisse.
Lui sospirò e bevve dalla coppa, armeggiando con i gemelli delle sue
maniche pieghettate, un miscuglio di pollici, sudore e fremiti. Si tolse la
camicia, barcollò sopra le assi del pavimento e affondò sul letto. Solo lui e
lei, ora, respiro dopo respiro. Lei non riusciva a capire da chi provenissero.
La pausa era insopportabile, e lei era madida di sudore mentre l’oscurità
rabbrividiva. Ricordò chi era, cosa le aveva portato via quest’uomo, tutto
ciò che si sarebbe dipanato se lei avesse fallito. E facendosi coraggio, gettò
via il suo manto d’ombra e gli andò incontro.
Lui sussultò, fremendo come un puledro appena nato quando la ragazza
si mostrò alla soliluce rossa, il sorriso di una maschera al posto del suo.
Lei non aveva mai visto qualcuno avere così paura.
Mai una volta in tutti i suoi sedici anni.
«Sono fottuto…» sospirò lui.

Il ragazzo le montò sopra, le brache attorno alle caviglie. Le premette le


labbra sul collo e il cuore le balzò in gola. Passò un’eternità, da qualche
parte tra desiderio e paura, amore e odio, poi lei lo avvertì, caldo e così
meravigliosamente duro, che premeva contro la femminilità tra le sue
gambe. Lei prese un respiro, forse per parlare (ma cosa avrebbe detto?) e
poi ci fu dolore, dolore… Oh, Figlie, quanto faceva male. Lui era dentro di
lei – l’arnese era dentro di lei – così duro e reale che non riuscì a trattenere
un urlo e si morse il labbro per smorzare quella piena.
Lui era impulsivo e incurante, e non si fece riguardi mentre premeva col
proprio peso su di lei e lo affondava più e più volte. Non era affatto come le
immagini soavi che lei aveva associato a questo momento. Aveva le gambe
divaricate e un nodo allo stomaco, scalciava contro il materasso e voleva
che lui si fermasse. Che aspettasse.
Era questa la sensazione che si provava?
Era così che doveva essere?
Se tutto fosse andato storto più tardi, questa sarebbe stata la sua ultima
illuminotte in questo mondo. E sapeva che la prima volta di solito era la
peggiore. Aveva pensato di essere pronta; abbastanza morbida, abbastanza
umida, abbastanza vogliosa. Che tutto ciò che le altre ragazze di strada
avevano detto tra risatine e strizzatine d’occhio per lei non sarebbe stato
vero.
«Chiudi gli occhi» le avevano consigliato. «Presto sarà tutto finito.»
Ma lui era così pesante, e lei stava cercando di non piangere,
desiderando che non fosse questo il modo in cui doveva andare. L’aveva
sognato, aveva sperato che fosse qualcosa di speciale. Ma adesso che era
lì, le sembrava una faccenda goffa e complicata. Niente magika, fuochi
d’artificio o estasi a palate. Solo la pressione di lui sul suo petto, il dolore
delle sue spinte, gli occhi chiusi mentre ansimava, sussultava e attendeva
che avesse finito.
Lui premette le labbra sulle sue, avvolgendole le dita attorno alla
guancia. E in quel momento ci fu un guizzo, una dolcezza che fece ripartire
il suo formicolio, malgrado la goffaggine, l’affanno e il dolore di tutta
quella situazione. Ricambiò il suo bacio e dentro di lei ci fu un calore che si
diffuse e la riempì mentre ogni muscolo del ragazzo si irrigidiva. E lui
premette la faccia tra i suoi capelli e fu percorso da un tremito durante la
sua piccola morte, crollando finalmente sopra di lei, molle, sudato e
floscio.
Lei rimase stesa lì, respirando a fondo. Leccò via il sudore del ragazzo
dalle proprie labbra. Sospirò.
Lui rotolò via, accartocciato sulle lenzuola accanto a lei. Allungando la
mano tra le gambe, la ragazza trovò umidità e dolore. Qualcosa le
macchiava polpastrelli e cosce, e le bianche lenzuola pulite, con gli angoli
abbassati come per invitarlo a entrare.
Sangue.
«Perché non mi hai detto che era la tua prima volta?» le chiese lui.
Lei non rispose. Rimase a fissare il rosso che scintillava sui polpastrelli.
«Mi dispiace» sussurrò il ragazzo.
Allora lei lo guardò.
E, altrettanto rapidamente, distolse gli occhi.
«Non hai nulla di cui dispiacerti.»
Lei gli montò sopra, bloccandolo con le ginocchia. L’uomo le mise una
mano sul polso e lei gli premette lo stiletto contro la gola. Passò un’eternità,
tra scontri e sibili, morsi e suppliche, e finalmente la lama affondò, affilata e
così meravigliosamente dura, trapassandogli il collo e raschiando la spina
dorsale. Lui prese un respiro affannoso, forse per parlare (ma cosa poteva
dire?) e lei riusciva a vederlo negli occhi: dolore… Oh, Figlie, quanto
faceva male. L’arnese era dentro di lui – lei era dentro di lui –, colpendo
forte mente l’uomo cercava di urlare, con la mano della ragazza sulla bocca
a smorzare quella piena.
Lui era in preda al panico, disperato, e provò ad artigliarle la maschera
mentre lei torceva la lama. Non era affatto come le immagini terrificanti che
lei aveva associato a questo momento. L’uomo aveva le gambe divaricate e
un fiotto di sangue che gli usciva dal collo, scalciava contro il materasso e
voleva che lei si fermasse. Che aspettasse.
Era questa la sensazione che si provava?
Era così che doveva essere?
Se tutto fosse andato storto, questa sarebbe stata la sua ultima illuminotte
in questo mondo. E sapeva che la prima volta di solito era la peggiore.
Aveva pensato di non essere pronta; non abbastanza forte, non abbastanza
fredda, che le rassicurazioni del vecchio Mercurio per lei non sarebbero
state vere.
“Ricordati di respirare” le aveva consigliato. “Presto sarà tutto finito.”
Ma lui si dibatteva mentre lo stava tenendo fermo, e ogni parte di lei si
domandava se sarebbe stato sempre così. Aveva immaginato che questo
momento potesse sembrarle qualcosa di malvagio. Un tributo da pagare,
non un attimo da assaporare. Ma adesso che era lì, le sembrava una
faccenda magnifica e armoniosa. La spina dorsale dell’uomo che si inarcava
sotto di lei. La paura nei suoi occhi mentre le strappava la maschera. Il
bagliore della lama che aveva conficcato, la sua mano sopra la bocca
mentre annuiva e lo zittiva con la voce di una madre, attendendo la fine.
Lui le artigliò la guancia e il lezzo pestilenziale del suo alito e della sua
merda riempirono la stanza. E in quel momento ci fu un guizzo, un orrore
che generava pietà, malgrado il fatto che lui si meritasse quella fine e altre
cento ancora. Ritrasse la lama e gliela conficcò nel petto: ci fu calore sulle
sue mani, che si diffuse e defluì mentre ogni muscolo dell’uomo si
irrigidiva. E lui le afferrò le nocche e sospirò mentre moriva, sgonfiandosi
sotto di lei, molle, sudato e floscio.
Seduta su di lui, respirò a fondo. Sentì sapore di sale e scarlatto. Sospirò.
Rotolò via, le lenzuola accartocciate attorno a lei. Toccandosi la faccia,
trovò umidità, calore. Qualcosa le macchiava mani e labbra.
Sangue.
«Ascoltami, Niah» mormorò. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo
banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio dono
per te. Tienilo stretto.»
Il gatto che era ombre se ne stava appollaiato sulla testiera a osservare.
La guardò nel modo in cui solo i senzaocchi sanno fare. Non disse una
parola.
Non ce n’era bisogno.

Soliluce tenue sulla sua pelle. Capelli corvini madidi di sudore che le
pendevano davanti agli occhi. Si tirò su le brache di cuoio, si infilò dalla
testa una camicia grigio malta e si mise stivali di pelle di lupo. Stanca.
Macchiata. Ma in qualche modo lieta per questo. Quasi felice.
«La stanza è pagata per l’illuminotte» gli disse. «Se la vuoi.»
Il deliziante la osservava dall’altro lato del letto, la testa sul gomito.
«E i miei soldi?»
Lei indicò un borsello accanto allo specchio.
«Sei più giovane delle mie solite clienti» le disse. «Non mi capitano
molte vergini.»
Allora lei si guardò nello specchio, la carnagione pallida e gli occhi
scuri. Sembrava più giovane della sua età. E anche se la prova del
contrario si stava seccando sulla sua pelle, per un attimo trovò comunque
difficile pensare a se stessa come qualcosa di più di una ragazza. Qualcosa
di debole e tremante, qualcosa che sedici anni in questa città non erano
riusciti a temprare.
Si rimboccò la camicia nelle brache. Controllò la maschera da
Arlecchino nel mantello. Lo stiletto alla cintura: affilato e luccicante.
Il boia avrebbe lasciato presto la taverna.
«Devo andare» disse.
«Posso chiederti una cosa, Mea Domina?»
«… Chiedi.»
«Perché io? Perché ora?»
«Perché no?»
«Questa non è una risposta.»
«Pensi che avrei dovuto preservarmi, non è così? Che io sia un dono da
elargire? E che adesso sarò per sempre guasta?»
Il ragazzo non disse nulla e la fissò con quegli occhi profondissimi.
Grazioso come un ritratto. La ragazza prese un sigaretto da una custodia
d’argento. Lo accese su una delle candele e inspirò a fondo.
«Volevo solo sapere com’era» disse infine. «Nel caso morissi.»
Scrollò le spalle ed esalò fumo grigio.
«Ora lo so.»
E si avviò nelle ombre.

Soliluce tenue sulla sua pelle. Un mantello grigio malta che le ricadeva
lungo le spalle, rendendola un’ombra nella luce imbronciata. Era in piedi
sotto un arco marmoreo nella piazza del Re Mendicante, il terzo sole
sospeso senza volto nel cielo. Ricordi della fine del boia si seccavano nelle
macchie di sangue sulle mani. Ricordi delle labbra del deliziante si
seccavano con le macchie sulle sue brache. Stanca. Sospirante. Ma in
qualche modo lieta per questo. Ancora quasi felice.
«Non sei morta, vedo.»
Il vecchio Mercurio la osservava dall’altro lato dell’arco, il tricorno
abbassato e un sigaretto tra le labbra. Sembrava più piccolo, in qualche
modo. Più magro. Più vecchio.
«Non perché siano mancate le occasioni» replicò la ragazza.
Allora lo guardò: aveva mani chiazzate e occhi sbiaditi. Più vecchio
della sua età anagrafica. E anche se la prova del contrario si stava
incrostando sulla sua pelle, per un attimo trovò comunque difficile pensare
a se stessa come qualcosa di più di una ragazza. Qualcosa di debole e
tremante, qualcosa che sei anni sotto la sua tutela non erano riusciti a
temprare.
«Non ti vedrò per molto tempo, vero?» chiese lei. «Forse mai più.»
«Lo sapevi» replicò lui. «L’hai scelto tu.»
«Non sono sicura che ci sia mai stata una scelta» ribatté la ragazza.
Aprì il pugno, rivelando un borsello di pelle di pecora nel palmo. Il
vecchio prese l’offerta, contando il contenuto con un dito macchiato
d’inchiostro. Tintinnanti. Macchiati di sangue. Ventisette denti.
«Pare che il boia ne abbia persi alcuni prima che lo eliminassi» spiegò
lei.
«Capiranno.» Mercurio lanciò di nuovo i denti alla ragazza. «Fatti
trovare al molo diciassette per la sesta campana. Un brigantino dweymeri
chiamato Spasimante di Trelene. È una nave libera, non batte i colori di
Itreya. Sarà quella a trasportarti.»
«Dove tu non potrai seguirmi.»
«Ti ho addestrata bene. Ora sta solo a te. Varca la soglia della Chiesa
Rossa prima del primo cambio di Septimus, oppure non la varcherai
affatto.»
«… Capisco.»
Gli occhi umidi di Mercurio scintillarono d’affetto. «Sei l’allieva
migliore che abbia mai mandato al servizio della Madre. Lì spalancherai le
ali e volerai. E mi vedrai di nuovo.»
La ragazza estrasse lo stiletto dalla cintura. Glielo porse sul proprio
avambraccio, il capo chino. La lama era fatta di necrosso, di un bianco
scintillante e dura come acciaio, l’elsa intagliata come un corvo in volo.
Occhi rosso ambra scintillavano nella soliluce.
«Tienila.» Il vecchio tirò su col naso. «L’arma è di nuovo tua. Te la sei
guadagnata. Finalmente.»
Lei esaminò il coltello, da entrambi i lati.
«Dovrei darle un nome?»
«Suppongo che potresti. Vuoi una dritta?»
«Ma questa lo è già.» Passò la mano sulla lama. «Per infilzarli è meglio
di una curva.»
«Ma che brava. Sta’ attenta a non farti male con quel tuo umorismo così
tagliente.»
«Tutte le grandi lame hanno un nome. È così che funziona.»
«Balle.» Mercurio riprese il pugnale e lo tenne sollevato in mezzo a loro.
«Dare un nome alla tua lama è il genere di futilità riservata agli eroi,
ragazza. Uomini su cui si cantano ballate, si intessono storie e da cui
prendono il nome i marmocchi. Tu e io percorriamo la strada dell’ombra. E
se la danzi nel modo giusto, nessuno saprà mai il tuo nome, tanto meno
dell’infilza-porci che hai alla cintura.
«Sarai una diceria. Un sussurro. Il pensiero che fa svegliare i bastardi di
questo mondo madidi di sudore nell’illuminotte. L’ultima cosa che sarai
mai, ragazza, è l’eroe di qualcuno.»
Mercurio le riconsegnò la lama.
«Ma sarai una ragazza che gli eroi temeranno.»
Lei sorrise. Improvvisamente e terribilmente triste. Si attardò per un
momento. Si sporse più vicino e omaggiò guance ruvide con un bacio
gentile.
«Mi mancherai» disse.
E si avviò nelle ombre.
CAPITOLO 2
MUSICA

Il cielo stava piangendo.


O così le sembrava. La ragazzina sapeva che l’acqua che precipitava
dalla macchia color carbone lì sopra era chiamata pioggia: aveva a
malapena dieci anni, ma era abbastanza grande da saperlo. Eppure
immaginava comunque lacrime che cadevano da quella faccia di zucchero
filato grigio. Erano così fredde, paragonate alle sue. In esse non c’era sale
né pizzicore. Ma sì, il cielo stava sicuramente piangendo.
Cos’altro avrebbe potuto fare in un momento del genere?
Era in piedi sulla Dorsale sopra il foro, necrosso scintillante ai suoi
piedi, vento freddo tra i capelli. Nella piazza sottostante era radunata una
folla, le bocche aperte e i pugni chiusi. Le persone indirizzavano la rabbia
verso il patibolo al centro del foro; se l’avessero rovesciato, si chiese la
ragazza, ai prigionieri sarebbe stato concesso di tornare a casa?
Oh, non sarebbe stato magnifico?
Non aveva mai visto così tanta gente. Uomini e donne di diverse forme e
dimensioni, bambini non molto più grandi di lei. Indossavano vestiti
orrendi e le loro urla la spaventavano, così allungò una mano e prese
quella di sua madre, stringendola forte.
Sua madre non parve accorgersene. Teneva gli occhi fissi sul patibolo,
proprio come gli altri. Ma sua madre non sputava sugli uomini in piedi
davanti ai cappi, non gettava cibo marcio o sibilava “traditore” a denti
stretti. Domina Corvere se ne stava lì, l’abito nero zuppo delle lacrime del
cielo, come una statua sopra una tomba ancora vuota.
Ancora. Ma per poco.
La ragazza voleva chiedere a sua madre perché non piangesse. Non
sapeva cosa volesse dire “traditore” e voleva domandarle anche quello.
Eppure, in qualche modo sapeva che questo era un posto dove le parole
erano fuori luogo. E così rimase in silenzio.
Guardò, invece.
Sei uomini erano in piedi sul patibolo lì sotto. Uno aveva un cappuccio
da boia, nero come il verobuio. Un altro la tunica di un prete, bianca come
le piume di una colomba. Altri quattro avevano corde ai polsi e ribellione
negli occhi. Ma mentre l’incappucciato infilava un cappio attorno al collo
di ciascuno, la ragazza vide quella sfida abbandonare le loro guance
assieme al colorito. Negli anni a seguire, le avrebbero raccontato più volte
quanto era stato coraggioso suo padre. Ma guardandolo lì, in quel
momento, al termine di quella fila di quattro, seppe che lui era spaventato.
Aveva solo dieci anni, eppure conosceva già il colore della paura.
Il prete venne avanti, percuotendo le assi con il suo bastone. Aveva la
barba come una siepe e spalle come un bove; il suo aspetto, più che quello
di un sant’uomo, faceva pensare a un brigante che ne avesse ammazzato
uno e gli avesse rubato i vestiti. I tre soli appesi a una catena intorno alla
sua gola tentarono di scintillare, ma le nuvole nel cielo piangente glielo
impedirono.
La voce dell’uomo era densa come caramello, dolce e scura. Ma parlava
di crimini contro la Repubblica di Itreya. Di slealtà e tradimento. Il sacro
brigante si appellò alla Luce per fargli da testimone (lei si domandò se
Essa potesse scegliere), nominando un uomo per volta.
«Senatore Claudius Valente.»
«Senatore Marconius Albari.»
«Generale Gaius Maxinius Antonius.»
«Tribuno Darius Corvere.»
Il nome di suo padre, come l’ultima nota della canzone più triste che
avesse mai udito. Lacrime le sgorgarono dagli occhi e il mondo assunse
una forma indistinta. Quanto le sembrava piccolo e pallido laggiù, in quel
mare urlante. Quanto le sembrava solo. Se lo ricordava com’era stato, non
molto tempo prima: alto e orgoglioso… e oh, quant’era forte. La sua
armatura di necrosso, bianca come freddinverno, il mantello che si
spandeva come fiumi cremisi sulle sue spalle. Quegli occhi, azzurri e
luminosi, che si corrugavano agli angoli quando sorrideva.
Adesso armatura e mantello erano scomparsi, sostituiti da stracci di iuta
e lividi simili a grosse bacche violacee su tutta la faccia. L’occhio destro
era chiuso e gonfio, l’altro fisso sui suoi piedi. Lei voleva così tanto che la
guardasse. Che tornasse a casa.
«Traditore!» urlò la folla. «Fallo danzare!»
La ragazza non capiva cosa intendessero dire. Lei non udiva nessuna
musica. a
Il sacro brigante guardò verso i bastioni, in direzione dei midollani e dei
politici radunati lassù. Sembrava che l’intero senato si fosse presentato per
lo spettacolo, quasi cento uomini riuniti nelle loro vesti decorate di
porpora, a fissare il patibolo con occhi spietati.
Alla destra del senato c’era un capannello di uomini in armatura
bianca. Mantelli rosso sangue. Spade avvolte da lingue di fiamma,
sguainate. Erano chiamati Luminatii, come la ragazza sapeva bene. Erano
stati i fratelli in armi di suo padre prima della traditura… era così che si
chiamava quello che facevano i traditori, giusto?
Tutto era così rumoroso.
In mezzo ai senatori c’era un uomo bellissimo dai capelli corvini e con
occhi di un nero penetrante. Indossava vesti eleganti tinte di un porpora
molto intenso: l’abbigliamento di un console. E la ragazza, pur sapendo
così poco, era almeno consapevole che quello fosse un uomo di alto rango.
Molto più importante di preti o soldati, o della folla che urlava di danzare
quando non c’era musica. Se l’avesse detto lui, quella massa avrebbe
lasciato andare suo padre. Se fosse stato lui a pronunciare le parole, la
Dorsale sarebbe andata in pezzi e le Costole si sarebbero scheggiate fino a
diventare polvere, e Aa, il dio della Luce in persona, avrebbe chiuso i suoi
tre occhi e fatto calare un buio benedetto su tutta quella orrenda parata.
Il console venne avanti. La folla sottostante tacque. E, quando
quell’uomo bellissimo parlò, la ragazza strinse forte la mano di sua madre
con il tipo di speranza che solo i bambini conoscono.
«Qui nella città di Godsgrave, nella Luce di Aa che tutto vede e per
consenso unanime del senato di Itreya, io, console Julius Scaeva, proclamo
questi accusati colpevoli di insurrezione contro la nostra gloriosa
Repubblica. Può esserci solo una sentenza per coloro che tradiscono la
cittadinanza di Itreya. Una sola sentenza per coloro che vorrebbero far
finire di nuovo questa grande nazione sotto il giogo dei re.»
La ragazza aveva smesso di respirare.
Il suo cuore palpitava.
«… Morte.»
Un ruggito. Le precipitò addosso come la pioggia. E lei spostò gli occhi
sgranati dall’attraente console, al sacro brigante, a sua madre – carissima
madre, fermali – ma gli occhi della donna erano fissi sull’uomo lì sotto.
Solo il tremito del suo labbro inferiore ne tradiva la sofferenza. E la
ragazzina non riuscì a sopportarlo più: l’urlo si gonfiò dentro di lei e le
fuoriuscì dalle labbra
nonono
e tutte le ombre del foro rabbrividirono davanti alla sua furia. Il nero ai
piedi di ogni uomo, donna e bambino, l’oscurità proiettata dalla luce dei
soli coperti, per quanto pallida e flebile… credetemi, o miei gentili amici,
quelle ombre tremarono.
Ma nessuno se ne accorse. A nessuno importò. b
Gli occhi di Domina Corvere non lasciarono suo marito mentre
afferrava la ragazzina e la teneva stretta a sé. Un braccio sul suo petto.
Una mano sul suo collo. Così forte che la piccola non poteva muoversi. Né
voltarsi. Né respirare.
Raffiguratevela: una madre con il viso della figlia premuto contro le
gonne. La lupa con il pelo ritto, che protegge il suo cucciolo dall’assassinio
che ha luogo lì sotto. Sareste scusati se la immaginaste così. Scusati ma in
errore. Poiché la domina tenne sua figlia bloccata per guardare la scena.
Per poterne sentire tutto il sapore. Ogni morso di questo pasto amaro. Ogni
briciola.
La ragazza guardò mentre il boia controllava ogni cappio, uno a uno.
Zoppicò fino a una leva al bordo del patibolo e si sollevò il cappuccio per
sputare. La ragazza colse un’occhiata della sua faccia: denti gialli,
barbetta grigia, labbro leporino. Qualcosa che aveva dentro urlò: “Non
guardare, non guardare” e lei chiuse gli occhi. Ma la stretta di sua madre si
fece più forte, il suo sussurro affilato come un rasoio.
«Mai tirarsi indietro» mormorò. «Mai avere paura.»
La ragazza avvertì quelle parole nel proprio petto. Nel posto più buio e
profondo, dove la speranza che i bambini respirano e gli adulti
rimpiangono avvizzì e si staccò, fluttuando come ceneri nel vento.
E lei aprì gli occhi.
In quel momento lui alzò lo sguardo. Suo padre. Solo un’occhiata
attraverso la pioggia. Spesso, nelle illuminotti a venire, si sarebbe
domandata a cosa stava pensando in quel momento. Ma non ci furono
parole ad attraversare quel velo sibilante. Solo lacrime. Solo il cielo che
piangeva. E il boia tirò la leva, facendo scomparire il pavimento. E, con
orrore, finalmente lei capì. Finalmente la udì.
La musica.
Il lamento funebre della folla che esultava. Lo schiocco di frusta della
corda tesa. Il gorgogliare di uomini soffocati, inframmezzato dall’applauso
del sacro brigante e dell’attraente console, e del mondo marcio andato in
malora. E al crescere inesorabile di quell’orrenda melodia, tra gambe che
scalciavano e facce che diventavano violacee, suo padre cominciò a
ballare.
“Papà…”
«Mai tirarsi indietro.» Un sussurro freddo nel suo orecchio. «Mai avere
paura. E mai, mai dimenticare.»
La ragazza annuì lentamente.
Esalò la speranza che aveva dentro.
E guardò suo padre morire.

Si trovava sulla tolda della Spasimante di Trelene, a osservare la città di


Godsgrave che diventava sempre più piccola. I ponti e le cattedrali della
capitale scomparvero fino a lasciare solo le Costole: sedici archi d’osso che
si protendevano verso l’alto per centinaia di piedi. Ma mentre guardava, i
minuti che lasciavano spazio alle ore, perfino quelle guglie colossali
affondarono sotto la linea dell’orizzonte e scomparvero nella foschia. c
Teneva le mani premute sul parapetto sbiancato dall’acqua salmastra,
sangue secco incrostato sotto le unghie. Uno stiletto di necrosso alla cintura,
i denti di un boia nel borsello. Occhi scuri che riflettevano l’umorale sole
rosso nel cielo, l’eco di suo fratello più piccolo e azzurro che ancora
riverberava a ovest.
Il gatto che era ombre si trovava lì con lei. Quando non era richiesto, si
liquefaceva nell’oscurità ai suoi piedi. Lì era più fresco, no? Un tipo sveglio
avrebbe potuto notare che l’ombra della ragazza era un po’ più scura delle
altre. Anzi, che era scura abbastanza per due.
Per fortuna, c’erano pochi tipi svegli a bordo della Spasimante.
La ragazza non era una bellezza. Oh, i racconti che avete udito
sull’assassina che distrusse la Repubblica di Itreya senza dubbio
descrivevano la sua come un’avvenenza ultraterrena: pelle bianco latte,
curve snelle e labbra arcuate. Ed era vero che possedeva quelle qualità, ma
il complesso sembrava… un po’ sbagliato. “Bianco latte” è solo un modo
gentile per dire “slavata”, dopotutto. E “snelle” è una maniera poetica per
intendere “mingherline”.
Aveva la carnagione pallida e le guance smunte, cosa che le dava un
aspetto sciupato e macilento. I capelli corvini le arrivavano fino alle costole,
tranne per una frangia sbilenca che si era fatta da sé. Le labbra e la carne
sotto gli occhi sembravano eternamente livide e il suo naso era stato rotto
almeno una volta.
Se il suo volto fosse stato un rompicapo, molti l’avrebbero rimesso nella
scatola, incompiuto.
Inoltre era bassa. Magra come uno stecco. Il suo sedere riusciva a
malapena a dare alle brache qualcosa a cui aggrapparsi. Non era una
bellezza per cui amanti sarebbero morti, eserciti avrebbero marciato o eroi
avrebbero ucciso un dio o un demone. Sono certo che tutto ciò contrasta
con quanto vi è stato raccontato dai nostri poeti. Ma non era priva di doti,
miei gentili amici. E tutti i vostri poeti sono pieni di stronzate.
La Spasimante di Trelene era un brigantino a due alberi il cui equipaggio
era composto da marinai delle isole di Dweym, che portavano collane di
denti di draco in omaggio alla loro dea, Trelene. d Conquistati dalla
Repubblica di Itreya un secolo prima, i Dweymeri erano scuri di pelle e
sovrastavano con testa e spalle l’Itreyano medio. Secondo la leggenda,
discendevano dalle figlie dei giganti che avevano giaciuto con uomini dalla
parlantina facile, ma la logistica di tale diceria non regge ad alcun vero
esame. e Detto in modo semplice, come popolo erano grossi come tori e duri
come chiodi di un feretro, e avevano la tendenza a adornare le proprie facce
con tatuaggi di inchiostro di leviatano che non aiutavano le prime
impressioni.
Lasciando da parte l’aspetto pauroso, però, i Dweymeri trattavano i loro
passeggeri non tanto come ospiti quanto come protetti sacri. E così,
malgrado la presenza a bordo di una sedicenne – che viaggiava sola e
armata soltanto di un pezzetto di necrosso affilato – crearle dei problemi era
qualcosa che non passava nemmeno per la testa della maggior parte dei
marinai. Purtroppo, sulla Spasimante c’erano diversi novellini che non
erano nati a Dweym. E, per uno di essi, questa ragazza solitaria sembrava
perfetta per spassarsela.
È proprio vero che in tutto tranne che nella solitudine – e in certi tristi
casi perfino allora – si può sempre contare sulla compagnia degli sciocchi.
Era un tipo dissoluto. Un maschio itreyano dal petto liscio, con un
sorriso abbastanza piacente da avergli fruttato qualche tacca sulla testiera
del letto, il suo cappello di feltro adornato con una penna di pavone.
Sarebbero passate sette settimane prima che la Spasimante facesse scalo ad
Ashkah, e per alcuni sette settimane costituiscono una lunga attesa avendo
solo una mano come compagnia. E così si sporse contro il parapetto accanto
a lei e le rivolse un sorriso sornione.
«Sei proprio carina» disse. f
Lei lo guardò quanto bastava per valutarlo, poi tornò a voltare quegli
occhi neri come il carbone verso il mare.
«Non ho nulla a che spartire con voi, signore.»
«Oh, andiamo, non fare così, carina. Mi sto solo comportando da
amico.»
«Ho amici a sufficienza, grazie, signore. Vi prego di lasciarmi in pace.»
«A me sembri a corto di amici, ragazzina.»
Lui allungò una mano troppo gentile e le scostò un capello dalla guancia.
Lei si voltò e si avvicinò con il sorriso che, in verità, era la sua parte più
graziosa. E mentre parlava, estrasse lo stiletto e lo premette contro la fonte
dei guai di molti uomini. Il sorriso della ragazza si allargò così come gli
occhi del bellimbusto.
«Mettetemi di nuovo una mano addosso, signore, e darò in pasto i vostri
gioielli ai fottuti drachi.»
Il pavone squittì quando lei premette con più forza contro il cuore dei
suoi problemi… senza dubbio più piccolo di quanto era stato solo un attimo
prima. Impallidendo, fece un passo indietro prima che qualcuno dei suoi
compagni notasse la sua indiscrezione. E, rivolgendole il suo inchino
migliore, sgattaiolò via per convincersi che, dopotutto, la sua mano poteva
essere una compagnia più gradita.
La ragazza tornò a guardare il mare e infilò il pugnale di nuovo alla
cintura.
Come dicevo, non era priva di doti.
Non cercando altre attenzioni, si tenne perlopiù sulle sue, spuntando solo
all’ora dei pasti o per prendere una boccata d’aria nella quiete
dell’illuminotte. Era soddisfatta di starsene sull’amaca nella sua cabina, a
studiare i tomi che il vecchio Mercurio le aveva dato. I suoi occhi si
sforzavano sulla scrittura ashkahi, ma il gatto che era ombre la aiutava con i
passaggi più difficili, acciambellato tra le pieghe dei suoi capelli e
osservando sopra la sua spalla mentre lei studiava Verità arkemiche di
Hypaciah e una noiosissima copia delle Teorie della Mannaia g di Plienes.
Adesso era piegata sulle Teorie, la fronte liscia contratta in un cipiglio.
«… prova ancora…» sussurrò il gatto.
La ragazza si sfregò le tempie, facendo una smorfia. «Mi sta facendo
venire il mal di testa.»
«… oh, poverina, ora ti ci do un bacino…»
«Queste sono nozioni da bambini. Sono cose che si insegnano a
qualunque marmocchio.»
«… non è stato scritto avendo in mente un pubblico itreyano…»
La ragazza tornò a rivolgere l’attenzione a quella scrittura filiforme.
Schiarendosi la gola, lesse ad alta voce:
«I cieli sopra la Repubblica di Itreya sono illuminati da tre soli,
comunemente ritenuti gli occhi di Aa, il dio della luce. Non è una
coincidenza che Aa sia spesso denominato dal volgo il Semprevigile.»
Lei sollevò un sopracciglio e lanciò un’occhiata all’umbragatto. «Io non
sono una persona volgare.»
«… plienes era un elitario…»
«Intendi un coglione.»
«… continua…»
Un sospiro. «Il sole più grande dei tre è un furioso globo rosso chiamato
Saan. Il Veggente. Passando per i cieli come un fuorilegge che non abbia
nulla di meglio da fare, Saan è sospeso nei cieli per quasi cento settimane
alla volta. Il secondo sole è chiamato Saai. Il Sapiente. Un tipo più piccolo
dalla faccia azzurra, che sorge e tramonta più velocemente di suo
fratello…»
«… del suo omologo…», la corresse il gatto. «… l’ashkahi antico non
usa sostantivi con connotazione di genere…»
«… più velocemente del suo omologo. Ogni sua visita dura forse
quattordici settimane, passando quasi il doppio di quel tempo oltre
l’orizzonte. Il terzo sole è Shiih. Il Sorvegliante. Un gigante di un giallo
fioco, Shiih trascorre un tempo lungo quasi quanto Saan nei suoi
vagabondaggi per il cielo.»
«… molto bene…»
«Tra i viaggi arrancanti dei tre soli, i cittadini itreyani conoscono una
reale notte – che chiamano verobuio – solo per un breve intervallo ogni due
anni e mezzo. Per tutte le altre sere – tutte le sere, i cittadini itreyani
agognano un momento di oscurità in cui bere con i loro sodali, fare l’amore
con i loro spasimanti…»
La ragazza fece una pausa.
«Cosa significa oshk? Mercurio non mi ha mai insegnato quella parola.»
«… prevedibile…»
«Ha a che fare col sesso, allora.»
Il gatto si spostò sull’altra spalla senza disturbare nemmeno una ciocca
dei suoi capelli.
«… significa “fare l’amore dove non c’è amore”…»
«Capito.» La ragazza annuì. «… fare l’amore con i loro spasimanti,
fottere le loro puttane o qualunque altra combinazione dei suddetti – devono
sopportare la luce costante della cosiddetta illuminotte, rischiarata da uno o
più degli occhi di Aa nei cieli.
«Quasi tre anni di fila, a volte, senza una goccia di vera oscurità.»
La ragazza chiuse il libro di botto.
«… eccellente…»
«Mi si spacca la testa.»
«… la scrittura ashkahi non è pensata per le menti deboli…»
«Be’, grazie mille.»
«… non è quello che intendevo…»
«Senza dubbio.» La ragazza si alzò e si stiracchiò, poi si stropicciò gli
occhi. «Prendiamo una boccata d’aria.»
«… sai che non respiro…»
«Io sì. Tu guarda e basta.»
«… come ti compiace…»
I due salirono silenziosi sul ponte. I passi della ragazza erano più lievi di
sussurri, quelli del gatto privi di suono. Sopra di loro infuriavano venti che
designavano il cambio dell’illuminotte; il ricordo azzurro di Saai sbiadiva
lento all’orizzonte, lasciando solo Saan a proiettare il suo bagliore rosso
imbronciato.
La tolda della Spasimante era quasi vuota. C’era un enorme timoniere
dal volto storto alla barra, due vedette nella coffa e un mozzo (giovane ma
comunque alto quasi un piede più di lei) che sonnecchiava sul manico del
suo spazzolone, sognando le braccia della sua bella. La nave si trovava da
quindici cambi nel Mare delle Spade, la costa frastagliata di Liis a sud. La
ragazza poteva vedere un’altra nave in lontananza, sfumata nella luce di
Saan. Una corazzata pesante, che sventolava i triplici soli della marina
itreyana, tagliava le onde come un pugnale di necrosso attraverso la gola di
un vecchio boia.
La fine sanguinosa che aveva donato al carnefice le pesava sul petto. Più
del ricordo della liscia virilità del deliziante, il sudore che aveva lasciato a
seccarsi sulla sua pelle. Anche se questo ramoscello sarebbe sbocciato fino
a diventare un sicario giustamente temuto dagli altri assassini, adesso era
una fanciulla appena deflorata, e i ricordi dell’espressione del boia mentre
lei gli tagliava la gola la lasciavano… combattuta. Una cosa era osservare
una persona che scivolava dal potenziale della vita alla definitività della
morte. Ma era del tutto diverso essere chi la spingeva. E nonostante tutti gli
insegnamenti di Mercurio, lei era ancora una sedicenne che aveva appena
commesso il suo primo omicidio.
Il suo primo atto premeditato, a ogni modo.
«Ciao, carina.»
La voce la distolse dalle sue fantasticherie e lei si maledisse per aver
commesso un errore da novellina. Cosa le aveva insegnato Mercurio? Mai
dare le spalle alla stanza. E anche se avrebbe potuto obiettare che i suoi
recenti spargimenti di sangue costituivano una valida distrazione o che il
ponte di una nave non era esattamente una stanza, poteva quasi udire lo
scudiscio di salice che il vecchio assassino avrebbe sollevato in risposta.
“Due rampe di scale!” avrebbe sbraitato. “Su e giù!”
Si voltò e vide il giovane marinaio con il cappello ornato da una penna di
pavone e il suo sorriso da donnaiolo. Accanto a lui c’era un altro uomo,
largo quanto un ponte, con i muscoli che gli tiravano le maniche della
camicia come noci stipate dentro sacchi della misura sbagliata. Anche lui
aveva l’aspetto di un Itreyano, abbronzato e con gli occhi azzurri, il tenue
bagliore delle strade di Godsgrave inciso nel suo sguardo.
«Speravo proprio di rivederti» disse Pavone.
«Questa nave non è abbastanza grande per consentirmi di sperare
altrimenti, signore.»
«Signore, eh? L’ultima volta che abbiamo parlato, hai minacciato di
rimuovere le mie parti più preziose per darle in pasto ai pesci.»
Lei guardò il ragazzo, poi osservò quel sacco pieno zeppo di noci da
sotto le ciglia.
«Nessuna minaccia, signore.»
«Solo sbruffonaggine, allora? Parole vuote per cui sono dovute delle
scuse, scommetterei.»
«E accettereste delle scuse, signore?»
«Sotto coperta, senza dubbio.»
L’ombra della ragazza si increspò, come l’acqua di una gora quando la
pioggia ne bacia la superficie. Ma il Pavone era determinato nella sua
indegnità, e il bruto delle noci nelle piacevoli sevizie che poteva infliggerle
se gli fossero stati concessi alcuni minuti con lei in una cabina senza
finestre.
«Vi rendete conto che mi basta urlare» disse lei.
«E quanta voce potresti tirar fuori» sorrise Pavone «prima che gettiamo
il tuo culo secco fuori bordo?»
La ragazza lanciò un’occhiata al ponte di pilotaggio. Alle coffe. Una
caduta nell’oceano sarebbe stata una sentenza di morte: perfino se la
Spasimante avesse invertito la rotta, lei sapeva nuotare solo un tantino
meglio della sua àncora, e il Mare delle Spade brulicava di drachi come un
deliziante del porto era pieno di piattole.
«Non sarebbe un granché come urlo» convenne.
«… perdonatemi, gentili amici…»
I due mascalzoni trasalirono a quella voce: non avevano udito nessuno
avvicinarsi. Si voltarono entrambi, con Pavone che si atteggiava e lanciava
occhiate arcigne per nascondere la sua paura improvvisa. E lì, sulla tolda
alle loro spalle, videro il gatto fatto di ombre, che si leccava le zampe.
Era sottile come pergamena vecchia. Una sagoma intagliata da un nastro
di oscurità, non abbastanza solida da impedire che vedessero il ponte dietro
di essa. La sua voce era il mormorio di lenzuola di seta su pelle fredda.
«… temo che abbiate scelto la ragazza sbagliata con cui danzare…»
disse.
Un brivido si insinuò dentro di loro, lieve come un sussurro e raggelante.
Un movimento attirò gli occhi di Pavone sulla tolda e lui si rese conto, in
preda a un terrore crescente, che l’ombra della ragazza era molto più grande
del normale o di come avrebbe potuto essere. Ancora peggio, si stava
muovendo.
Pavone aprì la bocca mentre lei presentava uno stivale all’inguine del
suo compare, assestandogli un calcio tanto forte da menomare i suoi figli
non ancora nati. Afferrò il braccio del malintenzionato delle noci mentre
quello si piegava in due, poi lo capovolse oltre il parapetto, gettandolo in
mare. Pavone imprecò mentre lei si spostava alle sue spalle, ma scoprì di
non poter spostare i piedi per reagire… come se i suoi stivali fossero
incollati all’ombra della ragazza sulla tolda. Lei gli diede un calcio con
forza sul posteriore, facendolo cadere di faccia contro il parapetto e
allargandogli il naso sulle guance come marmellata di bacche color sangue.
La ragazza lo fece ruotare e gli puntò il coltello alla gola, spingendolo
contro il parapetto con la spina dorsale piegata in modo crudele.
«Chiedo perdono, signorina» ansimò lui. «Non intendevo offendervi, lo
giuro su Aa.»
«Come vi chiamate, signore?»
«Maxinius» sussurrò lui. «Maxinius, se vi compiace.»
«Sai cosa sono, Maxinius-Se-Vi-Compiace?»
«… T-te…»
Gli tremava la voce. Il suo sguardo guizzò verso le ombre che si
muovevano ai piedi della ragazza.
«Tenebris.»
Con il respiro successivo, Pavone vide la sua breve vita accatastata
davanti ai suoi occhi. Tutte le buone e le cattive azioni. Tutti i fallimenti, i
trionfi e quello che c’era in mezzo. La ragazza avvertì una forma familiare
sulla sua spalla, un barlume di tristezza. Il gatto che non era un gatto, ora
appollaiato sulla sua clavicola, proprio come si era posato sulla testiera del
letto del boia mentre lei lo consegnava alla Mannaia. E anche se non aveva
occhi, lei riusciva a capire che osservava la vita scorrere nelle pupille di
Pavone, rapito come un bimbo davanti a uno spettacolo di marionette.
Ora capite: lei avrebbe potuto risparmiare questo ragazzo. E il vostro
narratore potrebbe con altrettanta facilità mentirvi a questo snodo, lo
stratagemma di un ciarlatano per gettare una luce favorevole sulla nostra
ragazza. h Ma la verità è, gentili amici, che non lo risparmiò. Tuttavia, forse
troverete sollievo nel fatto che almeno esitò. Non per gongolare. Non per
assaporare la sensazione.
Per pregare.
«Ascoltami, Niah» mormorò. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo
banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio dono
per te. Tienilo stretto.»
Una spinta delicata lo fece finire tra le onde digrignanti. Mentre la piuma
di pavone affondava sotto la superficie, lei cominciò a gridare sopra il
ruggito dei venti, forte come i diavoli della Mannaia. «Uomo in mare!» urlò
«Uomo in mare!» e presto tutti i campanelli si misero a suonare. Ma per
quando la Spasimante ebbe invertito la rotta, non c’era alcun segno di
Pavone o del sacco di noci tra le onde.
E così, semplicemente, la conta di uccisioni della nostra ragazza era
triplicata.
Ciottoli che diventano valanghe.
Il capitano della Spasimante era un Dweymeri di nome Mangialupi, alto
sette piedi con salciocche scure. Il buon capitano era comprensibilmente
contrariato dallo sbarco anticipato dei membri del suo equipaggio, e
desiderava sapere come e perché. Ma quando la interrogò nella sua cabina,
la ragazzina pallida che aveva suonato l’allarme borbottò solo di una zuffa
tra gli Itreyani, terminata in un parapiglia di cazzotti e improperi che aveva
fatto finire entrambi fuoribordo nelle loro tombe da marinai. Le probabilità
che i due lupi di mare – perfino se erano stupidi Itreyani – si fossero
azzuffati fino a finire in acqua erano scarse. Ma lo erano ancora di più
quelle che questa ragazzina li avesse regalati entrambi a Trelene facendo
tutto da sola.
Il capitano torreggiava sopra di lei, un fuscello di ragazza vestita di
bianco e grigio, avvolta dall’odore di chiodi di garofano bruciati. Non
sapeva chi fosse né perché stesse viaggiando ad Ashkah. Ma mentre si
portava una pipa di dracosso alle labbra e usava un acciarino per accendere
il catrame, si ritrovò a lanciare un’occhiata alla tolda. E poi all’ombra
raggomitolata ai piedi della strana ragazza.
«Meglio startene da sola fino al termine di questo viaggio, ragazzina.»
Esalò il fumo nella penombra in mezzo a loro. «Ti farò mandare i pasti
nella tua cabina.»
La ragazza lo squadrò, gli occhi neri come la Mannaia. Poi abbassò lo
sguardo sulla propria ombra, abbastanza scura per due. E concordò con la
valutazione di Mangialupi, rivolgendogli un sorriso dolce come melata.
Di solito i capitani sono tipi svegli, dopotutto.

a. Non sapeva ancora come ascoltare. Voi lo fate di rado.


b. Qualcosa se ne accorse. A qualcosa importò.
c. Le Costole sono forse l’attrazione più spettacolare della capitale di Itreya: sedici grandi torri
ossificate che scintillano nel cuore della città di ponti e ossa. Si dice che le Costole fossero
appartenute all’ultimo titano, spodestato dal dio della Luce Aa nella guerra per il dominio del
cielo di Itreya. Aa ordinò ai suoi fedeli di costruire un tempio nel punto in cui il titano era caduto
sulla terra, per commemorare la sua vittoria. Così furono piantati i semi della grande città nella
tomba dell’ultimo nemico della Luce.
È strano, gentili amici, che in nessuna scrittura o libro sacro sia menzionato il nome di questo
titano…
d. Signora degli oceani, terzogenita della Luce e della Mannaia, Colei che berrà il mondo.
e. Quanto dev’essere ubriaco un uomo per considerare sensata la possibilità di corteggiare una
gigantessa, per esempio? Inoltre, in un tale stato di ebbrezza, in che modo un tizio potrebbe
adoperare in modo sicuro la propria attrezzatura, per non parlare della necessaria scala
pieghevole?
f. Un vero poeta, date retta a me.
g. Una delle uniche sei copie ancora esistenti. Pliene e tutte le copie conosciute di quest’opera furono
date alle fiamme nel 27PR, in un rogo brevemente noto come “la Luce più radiosa”.
Organizzata dal Gran cardinale Crassus Alvaro, la pira distrusse oltre quattromila opere
“incendiarie” e fu considerata un clamoroso successo dal clero itreyano, almeno finché il figlio di
Crasso, il cardinale Leo Alvaro, non fece notare che in tutta la creazione non esisteva luce più
radiosa di quella del Dio della Luce in persona, e che dare un appellativo che contrastava con
questo a un semplice falò creato dall’uomo era, in effetti, eresia.
Dopo la crocifissione del fu Gran cardinale, il Gran cardinale Alvaro II decretò che la pira
dovesse essere denominata “la Luce radiosa” nei testi successivi.
h. Può anche darsi che sia stata il sicario più temuto di Itreya, assassina di legioni, Signora delle
Lame, distruttrice della Repubblica, ma guardate, c’era anche del buono in lei. Pietà, perfino per
stupratori e mascalzoni. Oh, via con il crescendo di violiiiiiiini!
CAPITOLO 3
DISPERATA

Qualcosa la seguì da quel posto. Il luogo sopra la musica dove suo padre
era morto. Qualcosa di affamato. Una cieca, larvale consapevolezza,
sognando di spalle incoronate con ali trasparenti. E sarebbe stata lei a
donarle.
La ragazzina si accasciò su un letto principesco nelle camere di sua
madre, le gote umide di lacrime. Suo fratello era steso accanto a lei,
avvolto in fasce, che sbatteva le palpebre sui suoi occhioni neri. Il neonato
non capiva nulla di ciò che gli stava accadendo attorno. Era troppo
giovane per sapere che suo padre era morto, e tutto il mondo con lui.
La ragazzina lo invidiava.
I loro appartamenti si trovavano in alto nella cavità della seconda
Costola, con fregi elaborati intagliati nelle pareti di antico necrosso.
Guardando fuori dalla finestra principale, lei poteva vedere la terza e la
quinta Costola di fronte, che torreggiavano sopra la Dorsale centinaia di
piedi più in basso. I venti dell’illuminotte ululavano attorno alle torri
pietrificate, portando il fresco dalle acque della baia.
C’era un’opulenza tale che si estendeva fino al pavimento: tutto velluto
riccio rosso e opere d’arte dai quattro angoli della Repubblica di Itreya.
Sculture mekana semoventi dal Collegio di Ferro. Arazzi da milioni di punti
intessuti dai profetizzatori ciechi di Vaan. Un candeliere di puro cristallo
dweymeri. Le domestiche mulinavano in un ciclone di abiti morbidi e
lacrime che si asciugavano, e nell’occhio c’era la Domina Corvere, che
ordinava loro di muoversi, muoversi, per l’amore di Aa, muoversi.
La ragazzina era seduta sul letto accanto a suo fratello. Un gatto nero
faceva piano le fusa, premuto contro il suo petto. Ma quando vide un’ombra
più intensa ai piedi della tenda, si gonfiò e soffiò. Conficcò gli artigli nella
mano della ragazza e lei lo gettò sul cammino di una domestica in arrivo,
che cadde con uno strillo. Domina Corvere si voltò verso sua figlia, con
aria regale e furibonda.
«Mia Corvere, tieni quel sudicio animale fuori dai piedi o lo
abbandoneremo qui!»
E così, semplicemente, abbiamo il suo nome.
Mia.
«Capitan Pozzanghere non è sporco» disse Mia, quasi fra sé. a
Un ragazzo sulla quindicina entrò nella stanza, rosso in viso per aver
corso su per le scale. Sul suo farsetto era ricamato lo stemma della Familia
Corvere: un corvo nero in volo contro un cielo rosso, spade incrociate di
sotto.
«Mea Domina, perdonatemi. Il console Scaeva ha richiesto…»
Un pesante rumore di passi mise a freno la sua lingua. Le porte si
spalancarono e la camera si riempì di uomini in armatura nivea e
pennacchi cremisi sugli elmi; erano chiamati Luminatii, come potreste
rammentare. Alla piccola Mia ricordarono suo padre. Li guidava l’uomo
più grosso che avesse mai visto, con una barba curata a incorniciare
fattezze lupesche e un istinto animale che scintillava nello sguardo.
Tra i Luminatii c’era il console attraente con gli occhi neri e le vesti
porpora; era l’uomo che aveva dichiarato “… Morte” e sorriso mentre il
pavimento scompariva sotto i piedi di suo padre. I servitori si dileguarono
sullo sfondo, lasciando la madre di Mia come una figura solitaria in mezzo
a quel mare di neve e sangue. Alta, bellissima e completamente sola.
Mia scese dal letto, scivolò al fianco di sua madre e le prese la mano.
«Domina Corvere.» Il console si coprì il cuore con dita tempestate di
anelli. «Vi offro le condoglianze in questo momento di difficoltà. Che il
Semprevigile vi mantenga sempre nella Luce.»
«La vostra generosità mi confonde, console Scaeva. E che siate
benedetto per la vostra gentilezza.»
«Sono davvero addolorato, Mea Domina. Il vostro Darius ha servito la
Repubblica con distinzione prima di cadere in disgrazia. Un’esecuzione
pubblica è sempre una faccenda vergognosa. Ma cos’altro si può fare con
un generale che marcia contro la sua stessa capitale? O con il tribuno che
avrebbe posato una corona sulla testa di quel generale?»
Il console fece spaziare lo sguardo per la stanza, notando le domestiche,
i bagagli e il trambusto.
«Ci state lasciando?»
«Vado a far seppellire il corpo di mio marito a Crow’s Nest, nella cripta
della sua familia.»
«Avete chiesto il permesso al tribuno Remus?»
«Mi congratulo con il nostro nuovo tribuno per la sua promozione.»
Lanciò un’occhiata al tipo lupesco. «Il mantello di mio marito gli si addice.
Ma perché avrei bisogno che fosse lui a concedermi il passaggio?»
«Non il permesso di lasciare la città, Mea Domina. Quello di seppellire
il vostro Darius. Non sono certo che il tribuno Remus desideri che il
cadavere di un traditore marcisca nel suo scantinato.»
Sul volto della domina spuntò un’ombra di comprensione. «Non
osereste…»
«Io?» Il console alzò un sopracciglio cesellato. «Questa è la volontà del
senato. Il tribuno Remus è stato ricompensato con i possedimenti del vostro
defunto marito per aver scoperto il suo infame complotto contro la
Repubblica. Qualunque leale cittadino lo considererebbe un tributo
adeguato.»
Gli occhi della domina scintillarono con aria omicida. Lanciò
un’occhiata alle domestiche che indugiavano nella stanza.
«Lasciateci.»
Le servitrici si precipitarono fuori dalla camera. Con un’occhiata ai
Luminatii, Domina Corvere puntò uno sguardo tagliente verso il console. A
Mia parve che la sicurezza dell’uomo vacillasse, ma alla fine lui rivolse un
cenno del capo al tizio lupesco.
«Aspettatemi fuori, tribuno.»
L’imponente Luminatii osservò sua madre. Poi abbassò gli occhi sulla
ragazza. Mani tanto grandi da avvolgere la sua intera testa fremettero. La
ragazza ricambiò lo sguardo.
Mai tirarsi indietro. Mai avere paura.
«Luminus Invicta, console.» Remus annuì ai suoi uomini e, tra il
calpestio sincronizzato di stivali pesanti, la stanza si ritrovò completamente
vuota salvo tre persone. b
La voce di Domina Corvere era come un coltello appena affilato in un
frutto troppo maturo.
«Cosa vuoi, Julius?»
«Lo sai benissimo, Alinne. Voglio ciò che è mio.»
«Hai già ciò che è tuo. La tua vittoria vuota. La tua preziosa
Repubblica. Spero che ti tenga al caldo la notte.»
Il console Julius abbassò lo sguardo su Mia, il suo sorriso scuro come
lividi. «Ti piacerebbe sapere cosa mi tiene al caldo la notte, piccolina?»
«Non guardarla. Non parlar…»
Il suo schiaffo le fece balzare la testa da una parte, i capelli scuri che
ondeggiavano come nastri a brandelli. E prima che Mia potesse sbattere le
palpebre, sua madre estrasse una lunga lama di necrosso dalla manica,
l’elsa con la forma di un corvo dagli occhi di ambra rossa. Rapida come un
fulmine, la premette contro la gola del console; ringhiò e l’impronta della
mano sul suo volto si deformò.
«Toccami di nuovo e ti taglierò quella gola fottuta, figlio di puttana.»
Scaeva non sussultò.
«Puoi togliere la ragazza dai bassifondi, ma non i bassifondi dalla
ragazza.» Sorrise con quei denti perfetti e lanciò un’occhiata a Mia. «Ma
conosci il prezzo che i tuoi cari pagherebbero se spingessi più a fondo
quella lama. I tuoi alleati politici ti hanno abbandonato. Romero.
Juliannus. Gracius. Perfino Florenti in persona è fuggito da Godsgrave. Sei
da sola, bellezza mia.»
«Non sono la tua…»
Scaeva colpì lo stiletto con un ceffone, mandandolo a slittare lungo il
pavimento fino all’ombra sotto la tenda. Si avvicinò e strinse gli occhi.
«Dovresti invidiare il tuo caro Darius, Alinne. Gli ho mostrato pietà. A
te non farò dono del boia. Solo una segreta nella Pietra Filosofale e
oscurità per tutta la vita. E quando diventerai cieca al buio, la dolce Madre
Tempo rivendicherà la tua bellezza e la tua volontà, assieme all’esile
convinzione di essere mai stata qualcosa di più di merda liisiana avvolta in
seta itreyana.»
Le loro labbra erano tanto vicine che quasi si toccavano. Gli occhi del
console scrutavano i suoi.
«Ma risparmierò la tua famiglia, Alinne. Se implorerai che lo faccia.»
«Ha dieci anni, Julius. Tu non le faresti…»
«Ah no? Mi conosci così bene, dunque?»
Mia guardò sua madre. Lacrime sgorgavano dai suoi occhi.
«Cosa mi avevi detto, Alinne? “Neh diis lus’a, lus diis’a”?»
«… Madre?» disse Mia.
«Una parola e tua figlia sarà al sicuro. Lo prometto.»
«Madre?»
«Julius…»
«Sì?»
«Io…»
A Vaan esiste una razza di aracnidi nota come ragno sorgivo.
Le femmine sono nere come verobuio e possiedono l’istinto materno più
stupefacente della repubblica animale. Una volta fecondata, la femmina
costruisce una dispensa, la riempie di cadaveri, poi si sigilla all’interno. Se
viene dato fuoco al nido, lei preferisce morire piuttosto che abbandonarlo.
Se viene assalita da un predatore, morirà per difendere la sua covata. Ma il
suo rifiuto di lasciare i suoi piccoli è così feroce che essa, una volta deposte
le uova, non si muove più, nemmeno per cacciare. Ma il vero motivo per cui
la femmina di ragno sorgivo rivendica il titolo di madre più feroce della
Repubblica è questo: una volta divorate tutte le scorte nella dispensa, la
femmina comincia a divorare se stessa.
Una zampa alla volta.
Si stacca gli arti dal torace, mangiando solo quanto basta per sostentare
la propria veglia. Strappa e mastica finché non resta solo una zampa,
aggrappata al tesoro serico che si gonfia sotto di lei. E quando i piccoli
nascono e fuoriescono dai fili dentro i quali lei li ha avvolti con così tanto
amore, allora condividono lì il loro primo pasto.
La madre che li ha generati.
Ora io vi dico, gentili amici, e vi giuro che è vero, che il ragno sorgivo
più feroce di tutta la Repubblica non aveva nulla – ripeto nulla – da
invidiare ad Alinne Corvere.
Lì in quella piccolissima stanza, Mia percepì sua madre stringere i
pugni.
L’orgoglio le fece serrare la mascella.
I suoi occhi scintillarono per la sofferenza.
«Per favore» sibilò infine la domina, come se le parole stesse la
bruciassero. «Risparmiala, Julius.»
Un sorriso di vittoria, luminoso come tutti e tre i soli. L’attraente
console indietreggiò senza che quegli occhi neri lasciassero quelli di sua
madre. Con le vesti che gli ondeggiavano attorno come fumo, raggiunse
una porta e chiamò. E senza una parola, i Luminatii rientrarono nella
stanza. Quello lupesco strappò Mia dalle gonne di sua madre. Capitan
Pozzanghere gnaulò in segno di protesta. Mia strinse forte l’animale, con le
lacrime che le bruciavano gli occhi.
«Smettila! Non toccare mia madre!»
«Domina Corvere, io vi vincolo con libro e catena per crimini di
cospirazione e tradimento contro la Repubblica di Itreya. Ci
accompagnerete alla Pietra Filosofale.»
Dei ceppi furono schiaffati attorno ai polsi della domina, avvitati tanto
stretti da farla sussultare. Il soldato lupesco si voltò verso il console e
lanciò un’occhiata a Mia con espressione interrogativa.
«I bambini?»
Il console guardò il piccolo Jonnen, avvolto in fasce sul letto.
«Il bimbo è ancora un lattante. Può accompagnare sua madre alla
Pietra.»
«E la ragazza?»
«Hai promesso, Julius.» Domina Corvere si dibatté nella stretta dei
Luminatii. «Hai giurato!»
Scaeva si comportò come se la donna non avesse parlato. Guardò Mia,
che singhiozzava ai piedi del letto, con Capitan Pozzanghere avvinghiato al
suo piccolo petto.
«Tua madre ti ha mai insegnato a nuotare, piccolina?»

La Spasimante di Trelene scaricò Mia su un molo miserabile, che spuntava


dai bassifondi di un porto in rovina noto come Ultima Spes. Gli edifici
erano disseminati al margine dell’oceano come i denti di un pugile, con una
torre di guarnigione in pietra e le fattorie periferiche a completare quel
dipinto a olio. La popolazione era composta da pescatori, contadini, una
specie particolare di cacciatori di fortuna che tiravano a campare razziando
le vecchie rovine ashkahi, nonché una variante poco più intelligente che si
guadagnava da vivere saccheggiando i cadaveri dei loro colleghi.
Quando mise piede sulla banchina, Mia vide tre pescatori chini, appostati
attorno a una canna da pesca e una bottiglia di vino allo zenzero verde. Gli
uomini la guardarono come avrebbero fatto dei vermi con un pezzo di carne
marcia. La ragazza fissò ciascuno di loro a turno, aspettando per vedere se
uno di loro le avrebbe offerto di ballare. c
Mangialupi attraversò la passerella a passi pesanti, seguito da diversi
uomini dell’equipaggio. Il capitano notò quegli sguardi affamati fissi sulla
ragazza: era una sedicenne, sola, armata unicamente di un infilza-porci.
Puntellando uno stivale su uno dei pali del molo, il grosso Dweymeri accese
la pipa e si asciugò il sudore dalle guance tatuate.
«È il ragno più piccolo ad avere il veleno più letale, ragazzi» ammonì i
pescatori.
Le parole di Mangialupi parvero avere un certo peso tra quei furfanti,
dato che tornarono a voltarsi verso l’acqua, bevendo e gorgogliando contro i
supporti del molo.
Un po’ delusa, la ragazza porse la mano al capitano.
«Grazie per la vostra ospitalità, signore.»
Mangialupi fissò quelle dita tese ed espirò uno sbuffo di fumo grigio
pallido.
«Ci sono poche ragioni per cui la gente viene nella vecchia Ashkah,
ragazzina. E ancora meno per cui una come te affronterebbe luoghi così
cupi. E non intendo offenderti. Ma non toccherò la tua mano.»
«E perché mai, signore?»
«Perché conosco il nome di quelli che l’hanno toccata per primi.» Lanciò
un’occhiata alla sua ombra, tastando la collana di denti di draco che aveva
attorno alla gola. «Sempre che tali cose abbiano nomi. So dannatamente per
certo che hanno ricordi, e non voglio che loro ricordino il mio, di nome.»
La ragazza accennò un sorriso e rimise la mano alla cintura.
«Trelene vegli su di voi, allora, capitano.»
«Azzurro sotto e azzurro sopra di te, ragazza.»
Lei si voltò e percorse il molo, il bagliore di un unico sole nei suoi occhi,
in cerca dell’edificio che Mercurio le aveva nominato. Con il cuore in gola,
lo trovò rapidamente: era un piccolo locale malmesso al bordo dell’acqua.
Un’insegna cigolante sopra la porta lo identificava come il Vecchio
Imperiale. Un cartello su una delle finestre sudicie informò Mia che
“Cercas” – proprio così – “Aiuto”.
Era una piccola bettola fuori posto, e non fatevi illusioni. Non era
l’edificio più misero di tutto il creato. d Ma se la locanda fosse stata un
uomo e voi vi foste imbattuti in lui presso un bancone, sareste stati
perdonati se aveste ipotizzato che lui – dopo aver acconsentito con
entusiasmo alla richiesta della sua consorte di portare un’altra donna nel
loro talamo – avesse scoperto che sua moglie gli stava preparando un
giaciglio nella stanza degli ospiti.
La ragazza si diresse al bancone, tenendo la schiena quanto più vicino
possibile alla parete. Una dozzina di persone era sfuggita alla calura del
cambio all’interno: qualche abitante del luogo e una manciata di razziatori
di tombe ben armati. Tutti gli avventori si fermarono per fissarla quando
entrò; se ci fosse stato qualcuno a suonare il vecchio clavicembalo
nell’angolo, sicuramente avrebbe premuto un tasto sbagliato per dare un
effetto drammatico, ma ahimè, quell’aggeggio non emetteva uno squittio da
anni. e
Il proprietario dell’Imperiale sembrava un tizio innocuo, quasi fuori
posto in questa cittadina sull’orlo dell’Abisso. I suoi occhi erano un po’
troppo ravvicinati e puzzava di pesce marcio, ma considerando le storie che
Mia aveva udito sulle Frusciaride ashkahi, era lieta che quel tipo non avesse
i tentacoli. Era appoggiato dietro il bancone con indosso un grembiule
lercio (macchie di sangue?) e puliva un boccale sporco con uno straccio
ancora più sudicio. Mia notò che uno dei suoi occhi si muoveva appena
prima dell’altro, come un bambino che tenesse per mano un cugino tardo.
«Buon cambio a voi, signore» disse mantenendo la voce ferma. «Aa vi
benedica e vi preservi.»
«Arrivat con la marmagl di Mangialup, eh?»
«Avete fatto centro, signore.»
«La pag è quattro mendicant a settiman, ma il vitto è compres. f Il venti
percent di quell che tiri su dandola vi va dritt a me. E prim di assumerti
dovrò provar la mercanzi. Andat?»
Il sorriso di Mia trascinò quello del locandiere dietro il bancone e lo
strangolò in silenzio.
Quello fece poco rumore mentre moriva.
L’uomo tirò su col naso. «Perché stai qua allor?»
Lei posò il borsello di pelle di pecora sul bancone. Il tesoro all’interno
tintinnò una melodia completamente diversa dall’oro. Chi fosse stato
pratico di dentisti, avrebbe potuto riconoscere che la minuscola orchestra lì
dentro era fatta interamente di denti umani.
Alla ragazza occorse un momento per parlare. Per trovare le parole su
cui si era esercitata fino a sognarle.
«Il mio tributo per la Mannaia.»
L’uomo la guardò con espressione indecifrabile. Mia cercò di trattenere i
tremiti dal suo respiro, dalle sue mani. Le erano occorsi sei anni per arrivare
a questo punto. Sei anni di tetti, vicoli e illuminotti insonni. Di tomi
polverosi, dita sanguinanti e malefica oscurità. Ma finalmente si trovava
sulla soglia e solo un piccolo cenno del capo la separava dalle decantate
sale della Chiesa Ro…
«Che c’entr la mia mammà con quest?» disse il proprietario con aria
stupefatta.
Mia mantenne la voce impassibile, malgrado le si stessero contorcendo
le viscere. Lanciò un’occhiata alla stanza. I tombaroli erano chini sulla loro
mappa. Una manciata di mattacchioni locali stava giocando a “sculaccio”
con un mazzo di vecchie carte. Una donna con vesti color deserto e un velo
stava disegnando motivi a spirale su un tavolo con quello che sembrava
sangue.
«La Mannaia» ripeté Mia. «Questo è il mio tributo.»
«La mammà è morta» si accigliò l’oste.
«… Cosa?»
«Sono quasi quattr veribui.»
«La Mannaia» lo guardò storto lei. «Morta. Siete pazzo?»
«Sei tu quell che port regal alla mia vecchia mammà mort, ragazzin.»
E allora lei comprese, come se quell’idea le picchiettasse sulla spalla per
poi danzare un’allegra giga.
Ta-da.
«Non sto parlando di tua madre, brutto…»
Mia prese la propria irascibilità per la collottola e le diede uno scossone
bello forte. Schiarendosi la gola, scostò la frangia sbilenca dagli occhi.
«Non mi riferisco a vostra madre, signore. Intendo la Mannaia. Niah. La
Dea della notte. La Nostra Signora dell’omicidio benedetto. Sorellamoglie
di Aa e madre del buio famelico dentro noi tutti.»
«Oh, intend la Mannaia.»
«Sì.» Quella parola fu come un sasso scagliato proprio tra gli occhi del
locandiere. «La Mannaia.»
«Scus» disse l’uomo con imbarazzo. «È colpa dell’accent, sai.»
Mia gli scoccò un’occhiataccia.
Il locandiere si schiarì la gola. «Non ci son chiese dell Mannaia da chist
part, ragazzin. È proibit adorarla, perfin ai margin. In chist tipo di affar non
abbiam nient a che far con madri dell nott e tutt chist cose. Nuoccion al
cib.»
«Siete Daniio il Grasso, proprietario del Vecchio Imperiale?»
«Non son grass…»
Mia diede una manata sul bancone. Diversi giocatori di sculaccio si
voltarono a fissarla.
«Ma vi chiamate Daniio?» sibilò lei.
Una pausa. La fronte aggrottata per pensare. Lo sguardo dell’occhio che
era il cugino tardo di Daniio parve vagare in giro, come distratto da fiori
graziosi o forse da un arcobaleno. g
«Sì» rispose infine Daniio.
«Mi è stato detto – specificamente detto, badate bene – di venire al
Vecchio Imperiale sulla costa di Ashkah e dare il mio tributo a Daniio il
Grasso.» Mia spinse il borsello lungo il bancone. «Perciò prendetelo.»
«Che c’è dentr?»
«Il trofeo di un uccisore, ucciso a sua volta.»
«Eh?»
«I denti di Augustus Scipio, alto boia del senato itreyano.»
«Dev venir qua a prenderl?»
Mia si morse il labbro e chiuse gli occhi.
«… No.»
«’Biss, com ha pers i…»
«Non li ha persi.» Mia si sporse ancora più avanti, e alla malora la
puzza. «Glieli ho strappati dal cranio dopo aver tagliato la sua miserabile
gola.»
Daniio il Grasso tacque. Un’espressione quasi pensierosa gli attraversò
la faccia. Si sporse più avanti, avvolto nel lezzo di pesce marcio che fece
spuntare lacrime involontarie negli occhi di Mia.
«Allora scusam, ragazzin. Ma cos dovrei far con i dent di un coglion
mort?»
La porta si aprì con un cigolio e Mangialupi si abbassò per entrare,
procedendo a grandi passi nel Vecchio Imperiale come se parte della
locanda fosse sua. h Dopo di lui fu la volta di una dozzina dei membri
dell’equipaggio, alcuni dei quali si stiparono su panche e tavoli sudici
mentre altri si appoggiavano al bancone cigolante. Con una scrollata di
spalle in segno di scuse, Daniio il Grasso si mise a servire i marinai
dweymeri. Mia lo afferrò per la manica mentre era diretto verso i tavoli.
«Avete delle stanze qui, signore?»
«Sì, le abbiam. Un mendicant a settiman, primopast a part.»
Mia spinse una moneta di ferro nella manaccia di Daniio il Grasso.
«Vi prego di farmi sapere quando quello sarà esaurito.»

Una settimana senza alcun segno, alcuna parola, alcun sussurro tranne i
venti dalle regioni aride.
L’equipaggio della Spasimante di Trelene rimase a bordo della nave
mentre faceva rifornimento e gli uomini fruivano sovente dei servizi della
cittadina. Un’illuminotte tipica cominciava con un pasto al Vecchio
Imperiale, una sortita nelle braccia di Domina Amile e delle sue
“danzatrici” nel locale dall’appropriato nome di Sette Sapori, i prima di
tornare all’Imperiale per una sessione di liquori, canzoni e l’occasionale
combattimento amichevole con i coltelli. Solo un dito fu tagliato durante
tutta la loro permanenza. Il suo proprietario lo perse con allegria.
Mia sedeva in un angolo buio con i denti del boia chiusi nel borsello sul
legno davanti a lei. I suoi occhi si spostavano sull’uscio ogni volta che
cigolava. Di tanto in tanto mangiava una ciotola del chili
sorprendentemente piccante (e, doveva ammettere, delizioso) di Daniio il
Grasso che lui chiamava “il crea-vedove”, e il suo cipiglio si accentuava
sempre più man mano che si avvicinava il cambio in cui la Spasimante
sarebbe ripartita.
Mercurio poteva essersi sbagliato? Erano passati anni dall’ultima volta
in cui aveva inviato un apprendista alla Chiesa Rossa. Forse quel posto era
stato inghiottito dal deserto? Forse i Luminatii li avevano finalmente
annientati, come aveva giurato di fare il tribuno Remus dopo il Massacro
del Verobuio?
“E forse tutto questo è una prova. Per vedere se scapperai come una
bambina spaventata…”
All’arrivo di ogni illuminotte curiosava per l’abitato, origliando alle
porte, quasi invisibile sotto il suo manto d’ombra. Giunse a conoscere fin
troppo bene i residenti di Ultima Spes. La veggente che prediceva il futuro
alle donne della cittadina, interpretando segni da un tomo avvizzito scritto
in ashkahi che in realtà non sapeva leggere. Lo schiavetto dei Sette Sapori
che progettava di uccidere la tenutaria e fuggire nel deserto.
I legionari Luminatii di stanza nella torre della guarnigione erano i
soldati più miseri che Mia avesse mai incontrato. Due dozzine di uomini ai
margini della civiltà, solo poche lame di solacciaio tra loro e gli orrori delle
Frusciaride ashkahi. Si diceva che i venti che soffiavano dalle rovine del
vecchio impero facessero impazzire gli uomini, ma Mia era certa che con
quei legionari ci sarebbe riuscita molto prima la noia. Parlavano
costantemente di casa, di donne, dei peccati che avevano commesso per
finire relegati nel buco del culo della Repubblica. j Dopo una settimana, Mia
era stanca morta di tutti loro. E nessuno diceva una parola sulla Chiesa
Rossa.
Sette cambi dopo essere arrivata a Ultima Spes, Mia se ne stava seduta a
guardare l’equipaggio della Spasimante sigillare la stiva, e ad ascoltare le
loro urla sguaiate a causa del grog. Parte di lei avrebbe voluto
semplicemente intrufolarsi a bordo mentre prendevano il largo. Tornare a
casa da Mercurio. Ma la verità era che era arrivata troppo lontano per
arrendersi adesso. Se la Chiesa si aspettava che lei se ne andasse con la
coda tra le gambe al primo ostacolo, be’, non la conoscevano affatto.
Seduta sul tetto del Vecchio Imperiale, con un sigaretto ai chiodi di
garofano tra le labbra, osservò la Spasimante salpare dalla baia. I venti
fruscianti giungevano dalle regioni aride dietro di lei, informi come sogni.
Lanciò un’occhiata al gatto che non era un gatto, seduto nella lunga ombra
che i soli proiettavano per lei. La sua voce era il bacio di velluto sulla pelle
di un neonato.
«… tu hai paura…»
«Questo dovrebbe soddisfarti.»
«… mercurio non ti avrebbe mandato qui invano…»
«Sono anni che i Luminatii tentano di distruggere la Chiesa. Il Massacro
del Verobuio ha cambiato le regole del gioco.»
«… se fosse successo loro qualcosa di male, rimarrebbero delle
tracce…»
«Proponi di andare nelle Frusciaride a dare un’occhiata?»
«… o quello, o aspettare qui, o tornare a casa…»
«Nessuna delle alternative è molto attraente.»
«… sono certo che l’offerta di lavoro di daniio il grasso è ancora
valida…»
Mia rispose con un sorriso appena accennato. Tornò a guardare il mare,
osservando la soliluce scintillare e rifrangersi sulle onde digrignanti. La
ragazza fece una lunga tirata ed esalò pennacchi di fumo grigio.
«… mia…?»
«Sì?»
«… non c’è bisogno di avere paura…»
«Non ce l’ho.»
Una pausa, riempita dal fruscio del vento.
«… non c’è neanche bisogno di mentire…»

Mia finì per rubare gran parte delle sue provviste.


Otri, razioni e una tenda dall’Emporio e Bare di Ultima Spes. Coperte,
liquore e candele dal Vecchio Imperiale. Aveva già individuato lo stallone
migliore da rubare nella stalla della guarnigione, malgrado in sella fosse a
suo agio quanto una suora in un bordello.
Disse a se stessa che il furto l’avrebbe mantenuta scaltra e che
intrufolarsi poi di nuovo negli esercizi che aveva derubato per depositare
sul bancone un risarcimento le sembrava un perfetto esempio di buona
condotta. k Seduta presso il focolare dell’Imperiale, si godette un’ultima
scodella di chili crea-vedove e attese che si levassero i venti
dell’illuminotte, portando una benedetta frescura dopo un cambio di caldo
intenso.
Mia alzò lo sguardo quando la porta si aprì con un cigolio, lasciando
filtrare dita arricciate di polvere.
Il ragazzo che entrò sembrava dweymeri: viso tatuato con inchiostro di
leviatano (anche se i disegni erano tremendi), salciocche legate in nodi
aggrovigliati. Ma la sua pelle era più olivastra che bruna, ed era troppo
basso per essere un isolano; a dire la verità, era alto meno di una testa più di
Mia. Vestito in abiti di cuoio scuro, portava una scimitarra in un fodero
malconcio e puzzava di cavallo e di un lungo viaggio. Quando mise piede
nella sala, controllò ogni angolo con occhi color nocciola. Mentre il suo
sguardo vagava per le rientranze, Mia tirò le ombre attorno a se stessa e
scomparve come filigrana nell’oscurità.
Il ragazzo si rivolse a Daniio il Grasso, che continuava a lucidare la
stessa coppa lercia con il medesimo panno sudicio. Il giovane squadrò
l’uomo, poi parlò con una voce morbida come il velluto.
«Che siate benedetto, signore.»
«Va ben» ribatté Daniio il Grasso. «Che ti serv?»
«Ho questo.»
Il ragazzo tirò fuori una scatoletta di legno. Gli occhi di Mia si strinsero
quando quella sbatacchiò sul bancone. Il ragazzo si guardò di nuovo attorno
per la stanza, poi parlò in un sussurro teso.
«Il mio tributo. Per la Mannaia.» l

a. Come probabilmente sospettate, il gatto era stato chiamato così perché gli piaceva urinare fuori
dalle zone designate, un nome tollerato da sua madre e approvato in modo fragoroso dal suo
defunto padre.
b. Capitan Pozzanghere era nascosto sotto il letto, a leccarsi le zampe impolverate. Il suddetto
qualcosa indugiava ancora sotto le tende.
c. Ormai aveva imparato a riconoscere la musica.
d. Quel dubbio onore apparteneva alla Rosa Solitaria, una casa di piacere della zona portuale di
Godsgrave, frequentata da pazzi sifilitici e galeotti appena rilasciati, gestita da una tenutaria
vaaniana così malata che si riferiva con affetto alle proprie parti basse come “la genera-orfani”.
e. L’unico uomo di Ultima Spes che sapeva come suonarlo – un tombarolo locale soprannominato
Paulo il Blu – era stato trovato appeso alle travi della sua stanza due estati prima. Che la sua morte
fosse dovuta a suicidio o alla protesta di un altro ospite particolarmente avverso alla musica di
clavicembalo fu un argomento molto dibattuto ma poco investigato nelle settimane che seguirono
la sua morte/il suo omicidio.
f. Le monete della Repubblica si dividevano in tre tipi: le meno preziose erano di rame, quelle
mediane di ferro e quelle più preziose erano d’oro. Le monete d’oro erano rare quanto esattori
delle tasse simpatici e molti popolani non posavano mai gli occhi su una di esse in tutta la loro
vita.
Il conio itreyano in origine era chiamato “sovrane”, ma vista la propensione itreyana a uccidere
brutalmente i loro monarchi, il termine era caduto in disuso da decenni. Ora ci si riferiva a volte ai
pezzi di rame come “mendicanti” e a quelli d’argento come “preti” dal momento che quelle erano
le persone che abitualmente li maneggiavano con maggior entusiasmo. Non c’era nessun termine
gergale comunemente accettato per le monete d’oro: chiunque fosse abbastanza ricco da
possederle, probabilmente non era tipo da apprezzare i nomignoli. O da maneggiare il proprio
denaro.
Perciò, per amor di discussione, chiamiamoli coglioni dorati.
g. Non era presente nessun arcobaleno nella stanza al momento.
h. Non la possedeva, anche se Daniio il Grasso doveva al capitano una grossa somma, debito
contratto durante un litigio tra ubriachi sull’aerodinamica dei maiali e la distanza dal Vecchio
Imperiale fino alla stalla dall’altra parte della strada. Il debito, che avrebbe assunto la forma di una
sessione prolungata di… piacere orale per l’equipaggio della Spasimante di Trelene (che a quanto
pareva Daniio avrebbe eseguito stando sulla verticale e con il culo dipinto di blu) doveva ancora
essere incassato, ma quella minaccia aleggiava pesante nell’aria ogni volta che la Spasimante e il
suo equipaggio erano nel porto.
i. Ragazzo, Ragazza, Uomo, Donna, Maiale, Cavallo e, con sufficiente preavviso e denaro a
disposizione, Cadavere.
j. Insubordinazione o comportamento ubriaco e molesto erano i più comuni, anche se un legionario
era stato assegnato ad Ashkah per aver ucciso il cuoco della sua coorte dopo che gli era stato
servito manzo in salamoia come ultimopasto per non meno di 342 illuminotti consecutive.
“Cosa ti costa” aveva ruggito “servire [pugnalata] un po’ di fottuta [pugnalata] insalata?”
k. Oh, guarda, c’è del buono in lei! Via con il crescendo di violiiiiiiini!
l. Oh, molto bene. Alcune nozioni basilari, se me lo permettete.
In tutte le religioni dev’esserci un avversario. Male per il bene. Nero per il bianco. Per la gente
della Repubblica, questo ruolo è rappresentato da Niah, Dea della notte, Nostra Signora
dell’omicidio benedetto, sorellamoglie di Aa, anche nota (come senza dubbio avrete intuito) con il
nome di Mannaia.
All’inizio, il matrimonio di Niah e Aa fu felice. Facevano l’amore all’alba e al crepuscolo, poi
si ritiravano nei rispettivi domini, condividendo in parti uguali il dominio del cielo. Temendo un
potenziale rivale, Aa ordinò a Niah di non partorire alcun figlio e, diligentemente, la Notte diede
alla Luce quattro figlie: Tsana, la Signora del fuoco, Keph, la Signora della terra, e infine le
gemelle Trelene e Nalipse, le Signore di oceani e tempeste, rispettivamente. Comunque, a Niah
mancava suo marito nelle lunghe e fredde ore di oscurità, così, per alleviare la sua solitudine,
scelse di procreare un bambino. La Notte chiamò suo figlio Anais.
Aa, però, fu indignato per la disobbedienza della moglie. Come punizione, Niah fu esiliata dal
cielo. Sentendosi tradita, Niah giurò vendetta contro Aa, e non parla con lui da allora. Aa stesso
porta ancora il broncio per tutta la faccenda.
E cosa ne fu di Anais?, potreste chiedere. Il rivale che Aa giustamente temeva?
Ma questo, gentili amici, vorrebbe dire rovinare la sorpresa.
CAPITOLO 4
GENTILEZZA

Capitan Pozzanghere amava la sua Mia.


La conosceva da quando era un micino, dopotutto. Prima che
dimenticasse la calda pressione dei suoi fratellini che lo circondavano, lei
lo aveva cullato tra le sue braccia e l’aveva baciato sul musetto rosa, e lui
aveva saputo che quella ragazza sarebbe sempre stata il centro del suo
mondo.
E così, quando il tribuno Remus si chinò per afferrare il polso della
ragazza su ordine del console, Capitan Pozzanghere soffiò tra i denti gialli
e allungò una zampa con gli artigli estratti, squarciando la faccia del
tribuno dall’orbita al labbro. Con un ruggito, l’omone afferrò la testa di
quel capitano coraggioso con una mano, le spalle con l’altra, e con facilità
quasi allenata, torse.
Il suono fu molto simile a quello di bastoncini bagnati che si spezzavano,
troppo forte per essere sovrastato dall’urlo di Mia. Al termine di quegli
orribili schiocchi umidi, una sagoma nera pendeva floscia dalla mano del
tribuno; una forma calda, morbida e vibrante accanto a cui Mia si era
addormentata ogni illuminotte, e che ora non avrebbe più fatto le fusa.
Allora lei perse il senno. Iniziò a strillare, artigliare, graffiare. Si
accorse solo vagamente che un altro Luminatii l’aveva afferrata e se l’era
caricata in spalla. Il tribuno si strinse il volto sanguinante ed estrasse la
spada; un fuoco si srotolò per tutta la lunghezza della lama e l’acciaio
brillò di una luce dolorosa e abbagliante.
«Non qui, Remus» disse Scaeva. «Le tue mani devono restare pulite.»
Il tribuno sbraitò un ordine ai propri uomini mentre sua madre urlava e
scalciava. Mia la chiamò, ma ricevette un colpo secco alla testa e poté solo
non cadere nell’oscurità sotto i suoi piedi mentre le grida di Domina
Corvere si affievolivano fino a scomparire.
Le scale dei servitori, che scendevano a chiocciola. Un passaggio
attraverso la Dorsale, non i meravigliosi corridoi di necrosso bianco
lucidato, candelieri di cristallo e midollani a in tutta la loro eleganza. Uno
stretto cunicolo, buio e claustrofobico, che portava ai terreni più lontani.
Mia guardò verso l’alto – le Costole si inarcavano in cieli vessati dalla
tempesta, i grandi palazzi consiliari, le biblioteche, gli osservatòri – prima
che gli uomini la gettassero dentro un barile vuoto, chiudessero il coperchio
e lo lanciassero su un carro trainato da cavalli.
Percepì un colpo di frusta e il carretto che si metteva in movimento,
l’avanzare delle ruote sui ciottoli. C’erano uomini sul pianale accanto a lei,
ma non riusciva a distinguere le loro parole, ancora scossa dal ricordo di
Capitan Pozzanghere accartocciato a terra e di sua madre in catene. Non
capiva cosa stesse succedendo. Il barile le raschiava contro la pelle e il
vestito si impigliava nelle schegge. Capì che stavano attraversando un
ponte dopo l’altro: l’annebbiamento di quello stato semicosciente adesso
era tanto sottile che cominciò a piangere, singhiozzare e sussultare. Un
pugno percosse con forza il lato del barile.
«Zitta, stronzetta, o ti darò io qualcosa per cui piangere.»
“Mi uccideranno” pensò.
Un brivido si insinuò dentro di lei. Non al pensiero di morire, badate
bene; in verità, qualunque bambino si reputa praticamente immortale. Quel
gelo era una sensazione fisica, che fuoriusciva dall’oscurità dentro il
barile, addensandosi ai suoi piedi, freddo come acqua ghiacciata. Avvertì
una presenza… o meglio, la mancanza di una presenza. Come il senso di
vuoto alla fine di un abbraccio. E seppe con assoluta certezza che c’era
qualcosa con lei in quel barile.
Che la osservava.
Che aspettava.
«Salve?» sussurrò.
Un’increspatura nel buio. Un silenzioso terremoto come una macchia
d’inchiostro. E dove prima non c’era stato nulla, qualcosa scintillò ai suoi
piedi, intercettato dai minuscoli raggi di soliluce che filtravano attraverso
il coperchio del barile. Qualcosa di lungo ed estremamente affilato come
solo il necrosso può essere, l’elsa foggiata per assomigliare a un corvo in
volo. L’ultima volta l’aveva visto scivolare sotto le tende quando il console
Scaeva aveva colpito la mano di sua madre per poi parlare di suppliche e
promesse.
Lo stiletto di necrosso di Domina Corvere.
Mia allungò la mano verso di esso. Per un brevissimo istante, giurò di
riuscire a vedere luci ai suoi piedi, che scintillavano come diamanti in un
oceano di nulla. Avvertì un vuoto così vasto che credette di cadere, sempre
più in basso, in una tenebra affamata. E poi le sue dita si chiusero sull’elsa
del pugnale e lo strinse forte, così freddo da arrivare quasi a bruciarla.
Percepì qualcosa nel buio attorno a lei.
L’odore ramato del sangue.
L’afflusso pulsante di rabbia.
Il carretto sobbalzava lungo la strada e il suo stomaco si contrasse fino
al momento in cui si fermarono. Sentì il barile che veniva sollevato,
lanciato e sbattuto al suolo con un fragore tale che per poco non si staccò
la lingua con un morso. Udì di nuovo le voci, tanto forti da comprendere le
parole.
«Tutta questa storia mi dà la nausea, Alberius.»
«Gli ordini sono ordini. Luminus Invicta, eh?» b
«Fottiti.»
«Vuoi scherzare con Remus? Con Scaeva? I salvatori della maledetta
Repubblica?»
«Salvatori un corno. Ti sei mai chiesto come ci siano riusciti? Come
abbiano catturato Corvere e Antonius nel bel mezzo di un campo militare?»
«No, non ho sentito un cazzo. Aggiornami.»
«Ho sentito che è stata magika. Arkemia nera. Scaeva è in combutta…»
«Dacci un taglio, dannata donnicciola. A chi importa come ci sono
riusciti? Corvere era un fottuto traditore, e questo è ciò che si merita.»
Il coperchio del barile fu strappato via. Mia sbatté gli occhi e guardò i
due uomini, mantelli scuri che coprivano le loro armature bianche. Il primo
aveva braccia come tronchi e mani come vassoi. Il secondo aveva graziosi
occhi azzurri e il sorriso di un tizio che strangolava cuccioli per
divertimento.
«Denti della Mannaia» mormorò il primo. «Non può avere più di dieci
anni.»
«E non vedrà mai gli undici.» Una scrollata di spalle. «Stai ferma,
ragazzina. Non farà male per molto.»
Lo strangola-cuccioli ghermì Mia per la gola ed estrasse dalla cintura
un coltello lungo e affilato. E lì, nel riflesso di quell’acciaio lucidato, la
ragazzina vide la propria morte. Allora sarebbe stato facile chiudere gli
occhi e attendere. Aveva solo dieci anni, dopotutto. Era sola, inerme e
spaventata. Ma ecco la verità, gentili amici, qualunque sia il numero dei
soli nel vostro cielo. Il succo è che due tipi di persone vivono in questo
mondo o in qualunque altro: quelli che scappano e quelli che combattono.
La vostra gente ha molti termini per questi ultimi. Furia omicida. Istinto
assassino. Più palle che cervello.
E non dovrebbe sorprendervi, sapendo quel poco che già conoscete, che
di fronte a questo mascalzone e alla sua lama, gravata dal ricordo
dell’esecuzione di suo padre
mai tirarsi indietro
mai avere paura
invece di piangere o restare paralizzata come avrebbe fatto un’altra
bambina di dieci anni, la giovane Mia afferrò lo stiletto che aveva raccolto
dall’oscurità e lo infilò dritto su per l’occhio dello strangola-cuccioli.
L’uomo urlò e cadde all’indietro, il sangue che gli zampillava tra le dita.
Mia rotolò fuori dal barile, la soliluce estremamente luminosa dopo il buio
all’interno. Percepì quel qualcosa venire con lei, raggomitolato nella sua
ombra, spingendole contro i talloni. Vide che l’avevano portata a un ponte
ibrido, una specie di canaletto ostruito dal sudiciume, le finestre delle case
intorno chiuse con assi di legno.
L’uomo dalle mani come vassoi sgranò gli occhi quando il suo amico
crollò a terra urlando. Estrasse una spada di solacciaio e avanzò verso la
ragazza, la fiamma che scorreva lungo il filo. Ma un movimento ai suoi
piedi ne attirò lo sguardo verso la pietra e, abbassando gli occhi, vide
l’ombra della ragazza cominciare a muoversi. Artigliare e contorcersi
quasi fosse viva, avanzando verso di lui come mani affamate.
«La luce mi preservi» mormorò l’uomo.
La lama vacillò nella stretta del mascalzone. Mia indietreggiò sul ponte,
il coltello insanguinato in una mano tremante, quel qualcosa che premeva
ancora contro i talloni. E mentre lo strangola-cuccioli si tirava in piedi con
la faccia dipinta di sangue, la ragazzina fece ciò che avrebbe fatto
chiunque nella sua posizione, e che fosse dannata la proporzione tra palle e
cervello.
«… scappa…!» disse una voce minuscola.
E lei scappò.

Il giovane dweymeri fu sottoposto a uno scambio molto simile a quello che


Daniio il Grasso aveva intrattenuto con Mia, c anche se lo subì con
silenziosa dignità.
Il locandiere lo informò che una ragazza aveva posto le stesse domande e
fece un gesto verso il suo tavolo… o almeno verso il tavolo a cui era stata
seduta. Mia a quel punto era sgattaiolata su per le scale e ascoltava
nascosta, silenziosa come un prete di ferro itreyano. d
Dopo aver borbottato un ringraziamento, il giovane dweymeri chiese se
ci fossero stanze disponibili, tirando fuori delle monete da un borsello
malnutrito. Era diretto su per le scale quando uno dei locali giocatori di
carte, un gentiluomo di nome Scupps, parlò.
«Fai part della cricc di Mangialup?»
Il ragazzo replicò con voce morbida e profonda. «Non conosco nessun
Mangialupi.»
«Non è un marinaio della Spasimant.» Mia riconobbe la seconda voce
come quella del fratello di Scupps, Lem. «Guard quant’è bass. Arriv appen
alle palle di Mangialup.»
Una risata.
«Fors è propri per quell?»
Un’altra risata.
Il ragazzo dweymeri attese per assicurarsi che non ci fossero altri
tentativi di ilarità, poi continuò a salire le scale. Mia era sgattaiolata nella
sua stanza e osservò dal buco della serratura il giovane dirigersi verso la
propria porta. I suoi passi causavano a malapena un fruscio, anche se Mia
sapeva che le assi del pavimento cigolavano come una famiglia di topi
assassinati. Il ragazzo lanciò un’occhiata alle spalle verso il suo uscio, tirò
su col naso, poi entrò nella propria camera.
La ragazza rimase seduta lì, a riflettere se avvicinarlo o semplicemente
andarsene da Ultima Spes alla fine del cambio come aveva programmato. e
Era evidente che lui stava cercando quello che cercava lei, ma
probabilmente era uno spietato psicopatico. Dubitava che molti novizi che
cercavano la Chiesa Rossa avessero motivazioni altruistiche come le sue.
Non appena le campane della cittadina segnalarono l’illuminotte, lei udì
il ragazzo dirigersi da basso, il passo morbido come velluto. Avvertì la
propria ombra risvegliarsi e stiracchiarsi, artigli immateriali che incidevano
le assi del pavimento.
«… se non ritorno per domani, dite a mia madre che le voglio bene…»
La ragazza sbuffò quando il non-gatto scivolò sotto la sua porta. Attese
ore, leggendo alla luce delle candele piuttosto che aprire le imposte al sole.
Se aveva intenzione di partire a questo cambio, avrebbe dovuto farlo alle
dodici campane, quando ci sarebbe stato il passaggio di consegne tra le
guardie. Allora sarebbe stato più facile rubare lo stallone. La
consapevolezza che avrebbe potuto semplicemente comprare un vecchio
ronzino alzò la mano sul fondo dell’aula e fu zittita dal pensiero che non si
sarebbe dovuta dirigere nel deserto se non sulla cavalcatura migliore che
questa cittadina aveva da offrire. f
Provò un brivido squassante, un senso di perdita, e il gatto che era ombre
balzò sul letto accanto a lei. Sbatté occhi che non erano lì. Cercò di fare le
fusa, ma invano.
«Ebbene?»
«… ha consumato un pasto frugale, osservato gli altri che lo insultavano
tra un boccone e l’altro e li ha seguiti a casa quando se ne sono andati…»
«Li ha uccisi?»
«… ha pisciato nel loro barile dell’acqua…»
«Allora non è così sanguinario. E poi?»
«… si è arrampicato sul tetto della stalla. da allora è rimasto a
osservare la tua finestra…»
Lei annuì. «Mi era parso che mi avesse notata non appena entrato.»
«… un tipo sveglio…»
«Vediamo quanto.»
Mia mise via le sue cose, i libri legati in una borsa incerata che portava
sulla schiena. Aveva sperato di poter sgusciare via senza che nessuno la
notasse, ma ora che questo ragazzo dweymeri la osservava, non si trattava
più di decidere se occuparsi di lui. Solo come.
Sgattaiolò fuori dalla sua stanza sulle assi cigolanti, non producendo
nemmeno un cigolio. Scivolando fino a una camera vuota di fronte, tirò
fuori un paio di grimaldelli da un borsello sottile, quindi si mise al lavoro e
dopo pochi minuti udì un piccolo scatto. Uscì dalla finestra e schizzò per il
tetto, sentendo la soliluce che bruciava il cielo spazzato dal vento e
l’adrenalina che le faceva formicolare i polpastrelli. Era bello muoversi di
nuovo. Mettersi alla prova.
Scattò lungo il vicolo tra l’Imperiale e il forno accanto, gli stivali sulla
strada nient’altro che un sussurro. Il non-gatto procedeva davanti a lei,
osservando con i suoi non-occhi.
Proprio come aveva fatto fuori dalla finestra di Augustus, Mia allungò
una mano e afferrò le ombre attorno a lei. Filo dopo filo, intrecciò l’oscurità
con dita abili, come una sarta che filava un mantello… un mantello su cui
occhi sprovveduti avrebbero potuto smarrire la strada.
Un manto di ombre.
Chiamatela come volete, gentili amici. Taumaturgia. Arkemia. Venefici.
Magika. Come ogni potere, richiede un tributo. Mentre Mia tirava le ombre
attorno a sé, nei suoi occhi la luce si affievoliva. Come sempre, per lei
diventava più difficile vedere oltre il suo velo di oscurità, proprio come era
più difficile vedere lei attraverso di esso. Il mondo al di là era indistinto,
torbido, avvolto di nero. Doveva camminare lentamente per non inciampare
o fare un passo falso. Ma avvolta dentro le sue ombre, si muoveva furtiva
attraverso il bagliore dell’illuminotte, una semplice traccia di acquerello
sulla tela del mondo.
Risalì il lato della stalla, arrampicandosi su per la grondaia al tatto.
Strisciò sul tetto e strinse gli occhi nella propria oscurità, notando il
Dweymeri all’ombra del camino che osservava la finestra della sua camera
da letto. Mia avanzò lungo le tegole, immaginando di essere di nuovo nel
magazzino del vecchio Mercurio; foglie morte sparpagliate sul pavimento,
una sete di tre cambi che le bruciava la gola, quattro cani selvatici
addormentati attorno a una caraffa di acqua cristallina.
La parola d’ordine del vecchio era sempre stata motivazione, poco ma
sicuro.
Adesso era più vicino. Mia era ancora incerta se parlare o agire, se dare
inizio a qualcosa o porvi termine. A circa venti passi di distanza, vide il
ragazzo diventare agitato e ruotare la testa. E poi Mia schivò rotolando la
manciata di coltelli che lui le lanciò, tre in rapida successione, che
scintillavano alla luce di quel sole maledetto. Se fosse stato verobuio, il
ragazzo sarebbe stato in sua balìa. Se fosse stato verobuio…
“Non guardare.”
Scattò in piedi ed estrasse lo stiletto, la sua ombra che si contorceva
lungo le tegole diretta verso di lui. Il giovane dweymeri aveva estratto la
scimitarra e aveva altri due coltelli da lancio pronti nell’altra mano.
Salciocche scure di capelli trasandati gli oscillavano davanti agli occhi. I
tatuaggi sul suo volto erano i più brutti che Mia avesse mai visto:
sembravano scarabocchiati da un cieco nel mezzo di una crisi epilettica.
Eppure la faccia al di sotto…
I due rimasero lì a guardarsi, immobili come statue, i momenti che
scorrevano come ore mentre un forte vento ululava attorno a loro.
«Hai ottime orecchie, signore» disse lei infine.
«I tuoi piedi sono meglio, Figlia Pallida. Non ho sentito nulla.»
«Allora come hai fatto?»
Il ragazzo le rivolse un sorriso che fece risaltare le sue fossette. «Puzzi di
fumo di sigaretto. Chiodi di garofano, mi pare.»
«È impossibile. Ti sono sottovento.»
Il ragazzo scoccò un’occhiata alle ombre che si muovevano come
serpenti attorno ai suoi piedi.
«Sembra che piova praticamente sempre da queste parti.»
Lei lo fissò. Era duro e affilato, snello e rapido. Un fioretto in un mondo
di spadoni. Mercurio era più bravo di chiunque lei avesse mai conosciuto a
capire le persone, e le aveva insegnato a interpretarle in un batter d’occhio.
Chiunque fosse questo ragazzo, qualunque fossero i suoi motivi per cercare
la Chiesa, non era uno psicopatico, uno che uccideva per il piacere di farlo.
“Interessante.”
«Cerchi la Chiesa Rossa» disse lei.
«Il ciccione non ha voluto accettare il mio tributo.»
«Nemmeno il mio. Credo che ci stiano mettendo alla prova.»
«Lo penso anch’io.»
«È possibile che non siano più qui. Ero diretta nel deserto per cercarli.»
«Se è la morte che cerchi, ci sono modi più facili per trovarla.» Il
ragazzo fece un gesto oltre le mura di Ultima Spes. «Dove cominceresti?»
«Avevo in programma di seguire il mio naso» sorrise Mia. «Ma qualcosa
mi dice che farei meglio a seguire il tuo.»
Il ragazzo la fissò a lungo e con uno sguardo duro. Occhi color nocciola
vagarono per il suo corpo, freddi e stretti. La lama che lei aveva in mano.
Le ombre ai propri piedi. Le aride lande fruscianti dietro di lui.
«Mi chiamo Tric» disse, rinfoderando la scimitarra sulla schiena.
«… Tric? Sei sicuro?»
«Sicuro del mio stesso nome? Certo che lo sono.»
«Non intendo essere irrispettosa, signore» disse Mia. «Ma se dobbiamo
viaggiare assieme per le Frusciaride, dovremmo almeno essere tanto sinceri
da usare i nostri veri nomi. E il tuo non può essere Tric.»
«… Mi hai chiamato bugiardo, ragazza?»
«Non ti ho chiamato in alcun modo, signore. E ti ringrazierò se non mi
chiamerai più “ragazza” come se quella parola fosse simile a qualcosa che
hai trovato sulla suola del tuo stivale.»
«… Hai uno strano modo di farti degli amici, Figlia Pallida.»
Mia sospirò. Prese la sua irritazione per il lobo dell’orecchio e la riportò
sotto controllo.
«Ho letto che i Dweymeri si attengono a riti precisi, per i nomi. Seguono
uno schema predefinito. Verbo poi nome. I Dweymeri hanno nomi come
“Spezzaschiena”. “Mangialupi”. “Trastullaporci”.»
«… Trastullaporci?»
Mia sbatté le palpebre. «Trastullaporci fu uno dei pirati dweymeri più
ignobili mai esistiti. Devi aver sentito parlare di lui.»
«Non sono mai stato bravo in storia. Per cosa era famigerato?»
«Per trastullarsi con i porci. g Terrorizzò i contadini da Stormwatch a
Dawnspear per quasi dieci anni. Alla fine, la taglia su di lui ammontava a
trecento pezzi di ferro. Nessun suino era al sicuro.»
«… Cosa gli accadde?»
«I Luminatii. Le loro spade fecero alla sua faccia ciò che lui faceva ai
porci.»
«Ah.»
«Dunque. Il tuo nome non può essere Tric.»
Il ragazzo la squadrò dall’alto in basso, l’espressione confusa. Ma
quando parlò, c’era ferro nella sua voce. Sdegno. Una rabbia covata da una
vita.
«Il mio nome» insistette lui «è Tric.»
Lei lo osservò a sua volta, stringendo gli occhi scuri. Questo ragazzo era
un enigma. E, poco ma sicuro, la nostra ragazza aveva un debole per gli
enigmi.
«Mia» disse infine.
Il ragazzo camminò in modo lento e controllato sulle tegole, non
prestando attenzione all’oscurità sotto di lui. Protese una mano. Dita
callose, un anello d’argento – le lunghe forme serpentine di tre drachimarini
intrecciati – all’indice. Mia esaminò il ragazzo, le cicatrici e gli orrendi
tatuaggi che aveva in faccia, la carnagione olivastra, la corporatura snella e
le spalle larghe. Si umettò le labbra sentendo il sapore del proprio sudore.
Le ombre si incresparono ai suoi piedi.
«Piacere di incontrarti, Domina Mia» disse lui.
«Piacere mio, Dominus Tric.»
E, con un sorriso, gli strinse la mano.

a. Quando risiede a Godsgrave, l’aristocrazia della Repubblica abita nelle suddette Costole e conduce
i propri affari nelle viscere cavernose della spina, da cui il termine “midollani”. Il prestigio deriva
dalla vicinanza alla prima Costola, in cui abitano il senato itreyano e i consoli eletti per governarli.
A nord della prima Costola c’è il Foro, costruito nel punto in cui potrebbe esserci stato il Cranio.
Dico “potrebbe”, gentili amici, poiché il Cranio stesso manca.
b. Il motto della Legione dei Luminatii, gentili amici. “La Luce prevarrà sempre.”
c. «Oh, intend la Mannaaaaia.»
d. I preti del Collegio Itreyano di Ferro sono iniziati all’ordine dopo il loro secondo verobuio e la loro
predisposizione viene misurata nell’Ars Machina. Ai ragazzi non viene insegnato né a leggere né a
scrivere. Alla vigilia del loro quinto verobuio, quelli ritenuti degni di servire vengono portati in
una stanza luminosissima nel cuore del Collegio. Qui, tra l’odore di catrame che brucia e la
bellezza mozzafiato del coro del collegio, recitano i loro voti e poi vengono privati delle loro
lingue con un paio di cesoie di ferro incandescenti. I segreti della costruzione e della
manutenzione dei guerrieri ambulanti sono quelli conservati più gelosamente di tutta la
Repubblica – insegnati facendo, senza parlare – e il clero prende molto sul serio il proprio voto di
silenzio.
Per quelli di voi dotati di un cuore più tenero, può confortarvi il fatto che i preti non
contraggono voti di celibato. Sono liberi di partecipare a tutti i piaceri della carne, anche se la
mancanza di lingua può rivelarsi un ostacolo nella ricerca di una moglie.
Benché questo, diciamolo, li renda una compagnia eccellente a cena.
e. Pur essendo tristemente privati dell’oscurità, molti cittadini della Repubblica hanno comunque
bisogno di dormire e, a prescindere dalla stagione, il passaggio dalle ore della veglia è segnato da
un cambio nel clima di Itreya. Quando si avvicina l’illuminotte, i venti si alzano dagli oceani
occidentali e soffiano sulla Repubblica, portando nella loro scia un clemente abbassamento della
temperatura. Dato che è più facile dormire quando il clima è fresco, questo cambio viene inteso da
molti come il segnale per mettere la testa sul cuscino, sul fieno o sul selciato, a seconda del
proprio stato di ebbrezza. I venti scemano lentamente e riprendono circa ventiquattr’ore dopo. Si
dice che siano un dono di Nalipse, la signora delle tempeste, che prova pietà per la terra e le
persone ustionate dalla luce quasi costante di suo padre.
Pertanto, il termine “cambio” viene usato dagli Itreyani per indicare un ciclo di sonno e veglia.
Ci sono sette cambi in una settimana e trecentocinquanta cambi in un anno stagionale. Una
stranezza del linguaggio, certo, ma necessaria in una terra in cui i giorni veri e propri durano due
anni e mezzo alla volta e le feste di compleanno sono un piacere che solo i più ricchi possono
permettersi.
f. Ogni tanto, e spesso con suo disappunto, l’orgoglio da midollana che ancora le restava si insinuava
attraverso la sua facciata attentamente studiata da menefreghista. Puoi togliere la ragazza dai
bassifondi, ma non i bassifondi dalla ragazza. Tristemente, lo stesso vale per i lustrini.
g. Oh, smettetela di ridacchiare e crescete.
CAPITOLO 5
COMPLIMENTI

La ragazzina schizzò per viuzze strette, sopra ponti e sotto scale, le mani
incrostate di rosso. Quel qualcosa la seguiva, addensato nell’oscurità ai
suoi piedi mentre percuotevano con forza il selciato crepato. Non aveva
idea di cosa potesse essere o volere… sapeva solo che l’aveva soccorsa e
che senza quell’aiuto lei sarebbe morta come suo padre.
occhi aperti
gambe scalcianti
gorgoglio
Mia scacciò le lacrime, chiuse le mani a pugno e corse. Riusciva a
sentire lo strangola-cuccioli e il suo amico che la inseguivano, urlando e
imprecando. Ma lei era agile, veloce e disperatamente spaventata: la paura
le metteva le ali ai piedi. Corse per stradine che piegavano a gomito e
sopra canali congestionati fino a quando, finalmente, non strisciò giù lungo
il muro di un vicolo, stringendosi la fitta che sentiva al fianco.
Era al sicuro. Per adesso.
Accasciata con le gambe piegate sotto di sé, cercò di ricacciare indietro
le lacrime come le aveva insegnato sua madre. Ma erano molto più grandi
di lei, e le tenne a bada finché non riuscì più a fermarle. Tremò e
singhiozzò, il volto sporco di moccio tra mani rosse, troppo rosse.
Suo padre era stato impiccato come traditore sotto lo sguardo del Gran
cardinale in persona. Sua madre era in catene. I possedimenti della Familia
Corvere erano stati dati a quell’orrendo tribuno Remus che aveva spezzato
il collo di Capitan Pozzanghere. E Julius Scaeva, console del senato
itreyano, aveva ordinato di affogarla nei canali come un micino
indesiderato.
Il suo intero mondo era andato in pezzi in un solo cambio.
«Le Figlie mi salvino…» mormorò.
Mia vide l’ombra sotto di lei muoversi. Incresparsi, come se fosse acqua,
e come se lei stessa fosse una pietra che vi era stata gettata. Stranamente,
non era spaventata: la paura dentro di lei era defluita attraverso invisibili
fori dalle piante dei piedi. Non avvertiva alcuna sensazione di minaccia,
nessun timore infantile di mostri innominabili sotto il letto a farla
rabbrividire. Ma percepì di nuovo quella presenza – o meglio, una
mancanza di qualunque presenza – raggomitolata nella sua ombra sulla
pietra sotto di lei.
«Salve di nuovo» sussurrò.
Avvertì quella cosa che era nulla. Nella testa. Nel petto. Seppe che le
stava sorridendo, un’espressione amichevole che avrebbe potuto arrivare
fino ai suoi occhi, se solo li avesse avuti. Si insinuò nella sua manica e
trovò lo stiletto insanguinato che le aveva dato.
Il dono che le aveva salvato la vita.
«Cosa sei?» bisbigliò lei all’oscurità ai suoi piedi.
Nessuna risposta.
La cosa fremette.
Aspettando.
Aspet
tando.
«Sei carino» affermò Mia. «Anche il tuo nome dovrebbe essere carino.»
Un altro sorriso. Nero ed entusiasta.
Anche lei sorrise.
E decise.
«Messer Cortese» disse lei.

Stando alla targa sopra la sua stalla, il nome dello stallone era CAVALLERIA ,
ma Mia l’avrebbe conosciuto semplicemente come “Bastardo”.
Dire che lei non nutriva affetto per i cavalli è come dire che i castroni
non hanno affetto per i coltelli. Essendo cresciuta a Godsgrave, non aveva
avuto molto bisogno di quegli animali, e in effetti erano un modo
sgradevole di viaggiare, malgrado quello che possono dire i vostri poeti.
L’odore è simile a un bel gancio destro su un naso già rotto, il tributo sulle
parti sensibili del cavaliere si misura più spesso in vesciche che in lividi, e
inoltre viaggiare su zoccoli non è molto più rapido che viaggiare a piedi. E
tutti questi problemi si accumulano se un cavallo si sente importante. Cosa
che, purtroppo, Cavalleria faceva.
Lo stallone apparteneva al centurione della guarnigione, un membro
midollano della legione dei Luminatii di nome Vincenzo Garibaldi. Era un
purosangue, nero come i polmoni di uno spazzacamino. a Trattato (e nutrito)
meglio di molti uomini di Garibaldi, Cavalleria non tollerava nessuno
tranne la mano del suo padrone. E così, trovandosi di fronte una strana
ragazza nella sua stalla mentre suonava il turno di guardia, nitrì irritato e si
accinse a svuotare la vescica sulla superficie più ampia possibile.
Avendo trascorso anni a vivere vicino al fiume Rosa, il lezzo del piscio
dello stallone non fu una vera sorpresa per Mia, che schiaffò prontamente
un morso nella bocca del cavallo per metterlo a tacere. Per quanto trovasse
odiosi quegli animali, aveva passato un periodo di tre settimane in un
allevamento di cavalli sulla terraferma su “richiesta” di Mercurio, e almeno
ne sapeva quanto bastava per posizionare le briglie sul sedere della bestia. b
Comunque, quando Mia sollevò la coperta da mettere sotto la sella,
Cavalleria iniziò a scalciare nel suo recinto e solo grazie a un frettoloso
balzo sullo stipite della porta la ragazza evitò di diventare decisamente più
magra.
«Per le poppe gonfie di Trelene, fallo stare zitto!» sibilò Tric dalla porta
della stalla.
«… Hai davvero appena bestemmiato sulle “poppe” della dea?»
«Fregatene, e fallo tacere!»
«Ti ho detto che non piaccio ai cavalli! E dire cose blasfeme sulle tette
della signora dell’oceano non aiuterà le cose. In effetti, probabilmente ti
farà finire affogato, brutto pederasta.»
«Sicuramente passerò lunghi anni rinchiuso in una latrina puzzolente che
funge da prigione in questo letamaio per pentirmi dei miei peccati.»
«Tieniti addosso le mutande» sussurrò Mia. «La latrina sarà occupata per
un po’.»
Tric si domandò cosa intendesse la ragazza. Ma mentre lei si intrufolava
nel recinto di Cavalleria per provare ancora a sellarlo, il ragazzo udì pianti
nella torre della guarnigione, suppliche al Semprevigile e una serie di
bestemmie così colorite da poterle lanciare in aria e chiamarle un
arcobaleno. Una puzza si levò nel vento, tanto nauseabonda da fargli
lacrimare gli occhi. E così, mentre Mia sciorinava improperi sussurrati su
Cavalleria, il ragazzo decise di andare a vedere tutto quel clamore.
Messer Cortese era seduto sul tetto della stalla, facendo del suo meglio
per imitare la curiosità dei gatti veri. Osservò il ragazzo dirigersi
silenziosamente verso la torre e scalare il muro. Tric sbirciò attraverso la
finestra consumata dalla sabbia e quello che vide nella stanza fece diventare
la sua faccia verdastra sotto quei tatuaggi grossolani. Senza un suono, si
calò a terra e strisciò fino alla stalla appena in tempo per cogliere Mia
fissare la sella sulla groppa di Cavalleria con l’aiuto di diverse zollette di
zucchero rubate.
Il ragazzo aiutò Mia ad accompagnare lo stallone sbuffante attraverso le
porte della stalla. Lei era bassa e il purosangue era alto venti spanne, così
dovette fare un balzo correndo per arrivare alla sella. Mentre si sforzava di
issarsi su, notò il pallore verdognolo sulla faccia di Tric.
«Qualcosa non va?» chiese lei.
«Cosa ’bisso sta succedendo in quella torre?» mormorò Tric.
«Inghippo» rispose Mia.
«… Cosa?»
«Tre boccioli secchi di mora rossa liisiana, un terzo di tazza di essenza di
melassa e un pizzico di radice di legnospago essiccata.» Scrollò le spalle.
«Inghippo. Potresti conoscerlo come “Rovinatubi”.»
Tric sbatté le palpebre. «Hai avvelenato l’intera guarnigione?»
«Be’, tecnicamente è stato Daniio il Grasso ad avvelenarli. Ha servito lui
l’ultimopasto. Io ho solo aggiunto la spezia.» Mia sorrise. «Non è letale.
Soffrono solo di un tantino di… disturbi intestinali.»
«Un tantino?» Il ragazzo lanciò un’occhiata inquieta verso la torre, agli
orrori sporchi e gementi lì dentro. «Ascolta, prometti di non offenderti se mi
occuperò io di cucinare là fuori, eh?»
«Come ti pare.»
Mia posò lo sguardo sulle regioni aride oltre Ultima Spes e, dopo aver
fatto il gesto di levarsi il cappello verso la torre di guardia, spronò
Cavalleria. Purtroppo, invece di un’elegante galoppata verso l’orizzonte, la
ragazza si ritrovò sbalzata in aria e terminò il suo breve volo accasciata
sulla strada. Rotolò per terra, massaggiandosi il sedere e guardando torvo lo
stallone che si era messo a nitrire.
«Bastardo…» sibilò.
Guardò verso Messer Cortese, seduto sulla strada accanto a lei.
«Non. Una. Cazzo. Di. Parola.»
«… miao…» disse lui.
Con un rumore fragoroso, la porta della torre di guardia si spalancò. Un
insudiciato centurione Vincenzo Garibaldi barcollò in strada, tenendosi con
una mano le brache slacciate.
«Ladri!» mugugnò.
Con un movimento poco convinto, il centurione dei Luminatii estrasse la
spada lunga. L’acciaio avvampò più luminoso dei soli in cielo. A una sua
parola, lingue di fuoco si dispiegarono lungo il filo della lama e l’uomo
avanzò incespicando, il volto distorto da una furia virtuosa.
«Fermi, nel nome della Luce!»
«Dolci prugne di Trelene, andiamo!»
Tric balzò in sella a Cavalleria, trascinando Mia sopra l’arcione come un
sacco di patate imprecanti. E con un altro bel colpo di stivali ai fianchi dello
stallone, i due si allontanarono al galoppo in direzione del loro sicuro
destino. c

La coppia si fermò quanto bastava per recuperare lo stallone di Tric – un


sauro imponente dall’inspiegabile nome di “Fiori” – prima di fuggire nelle
regioni aride. Il Rovinatubi aveva svolto il suo compito, però, e la caccia da
parte della guarnigione di Ultima Spes fu breve e decisamente disgustosa.
Mia e Tric presto poterono rallentare al piccolo galoppo, nessun inseguitore
in vista.
Le Frusciaride, come venivano chiamate, erano una desolazione più
triste di qualunque altro deserto Mia avesse visto. L’orizzonte era incrostato
come le labbra di un mendicante, attraversato da venti carichi di voci
appena oltre la soglia d’udito. Il secondo sole che baciava l’orizzonte
solitamente era un segnale dell’inizio di inverni brutali per Itreya, ma qui
fuori il calore era ancora rovente. Messer Cortese era raggomitolato
nell’ombra di Mia, miserevole quanto lei. Mettendosi in testa un tricorno
(che aveva rubato e pagato), Mia esaminò l’orizzonte.
«Suppongo che gli uomini di chiesa si annidino in alto» azzardò Tric.
«Propongo di cominciare con quelle montagne a nord, poi deviare a est.
Dopodiché probabilmente la nostra vita sarà stata prosciugata dai
pulvispettri o saremo stati mangiati dai kraken delle sabbie, perciò alle
nostre ossa non importerà dove verranno cagate fuori.»
Mia imprecò quando Bastardo diede una piccola sgroppata. Le facevano
male le cosce per la sella e il suo sedere si stava preparando a sventolare
bandiera bianca. Indicò un dito solitario di pietra spezzata a dieci miglia di
distanza.
«Laggiù.»
«Con tutto il rispetto, Figlia Pallida, dubito che il più grande enclave di
assassini nel mondo conosciuto piazzerebbe il proprio quartier generale a
distanza di odore dagli allevamenti di maiali di Ultima Spes.»
«Sono d’accordo. Ma lì è dove penso che dovremmo accamparci.
Sembra esserci una sorgente. E da lassù avremo una buona visuale di
Ultima Spes e di tutte le regioni aride attorno, scommetto.»
«… Pensavo che stessimo seguendo il mio naso…»
«L’ho solo proposto per farlo sentire a chiunque potesse ascoltarci.»
«Ascoltarci?»
«Siamo d’accordo che questa è una prova, giusto? Che la Chiesa Rossa
ci sta sottoponendo a un esame?»
«Sì» annuì lentamente il ragazzo. «Ma questo non dovrebbe
rappresentare una sorpresa. Di sicuro il tuo Shahiid ti ha fatto esercitare per
prepararti alle prove che affronteremo.»
Mia strattonò le redini quando Bastardo cercò di tornare indietro per la
quinta volta in altrettanti minuti.
«Il vecchio Mercurio amava le sue prove» annuì lei. «Non c’era
momento che non potesse essere in realtà un esame mascherato. d Ma non
me ne ha mai assegnato uno che non sia riuscita a superare. E la Chiesa non
dovrebbe essere nulla di diverso. Allora, qual è l’unico indizio che ci è stato
fornito? L’unico pezzo dell’enigma che abbiamo in comune?»
«… Ultima Spes.»
«Esattamente. Credo che la Chiesa non possa sostentarsi da sola. Anche
se coltivano il proprio cibo, avranno bisogno di altre provviste. Ho
curiosato per la stiva della Spasimante e ho visto merci di cui gli abitanti di
Ultima Spes non avrebbero bisogno. Ipotizzo che la Chiesa abbia un
discepolo lì. Forse per controllare i novizi, ma, cosa più importante, per far
arrivare quelle merci alla loro roccaforte. Perciò tutto quello che dobbiamo
fare è individuare una carovana diretta nelle regioni aride. E seguirla.»
Tric squadrò la ragazza con un sorrisetto. «Saggezza, Figlia Pallida.»
«Non temere, Dominus Tric. Non lascerò…»
Il ragazzo alzò una mano e fece fermare improvvisamente Fiori. Strinse
gli occhi per esaminare le lande brulle attorno a loro e arricciò il naso,
annusando l’aria sussurrante del deserto.
«Cosa c’è?» La mano di Mia andò al suo pugnale di necrosso.
Tric scosse il capo e chiuse gli occhi mentre inspirava.
«Non c’è mai stato questo odore prima. Mi ricorda… cuoio vecchio e…»
Bastardo sbuffò e si impennò. Mia si resse alla sella, imprecando mentre
la sabbia rossa esplodeva attorno a loro e una dozzina di tentacoli spuntava
da sottoterra. Lunghi venti piedi, punteggiati di uncini seghettati e prensili,
sembravano asciutti quanto l’interno dell’ago di un inchiostrambo.
Bastardo nitrì dal terrore quando una delle appendici coriacee si avvolse
attorno alla sua zampa mentre un’altra gli stringeva la gola come un cappio.
Lo stallone si dibatté, smocciolando e sgroppando come imbizzarrito. Mia
si ritrovò di nuovo in volo, rimbalzò sopra la testa di Bastardo e precipitò
verso il proprietario dei tentacoli, che ora si stava trascinando fuori dalla
terra aprendo un orrendo orifizio a becco. Nell’aria risuonò un
hisssssssssssssssssss gutturale e cinguettante.
«Un kraken delle sabbie!» tuonò Tric, anche se non ce n’era bisogno. e
Mia estrasse il pugnale di necrosso, attaccando un tentacolo che sferzava
nella sua direzione. Quello sprizzò sangue oleoso e un ruggito raggelante
fece tremare la terra mentre Mia ruzzolava in mezzo ad altri due arti
spaventosi, schivando un terzo e rialzandosi ansimando in posizione
accucciata. Messer Cortese si srotolò dalla sua ombra, scrutando quel
mostro e non-esalando un piccolo sospiro delicato.
«… grazioso…»
Tric sfoderò la scimitarra, balzò giù dalla groppa del suo stallone e
aggredì il tentacolo avvinghiato alla zampa di Bastardo. Con lo schiocco di
una fune salata, l’appendice si staccò e un altro ruggito fuoriuscì dalla
bestia, gli occhi grandi come piatti da portata e le branchie polverose che si
gonfiavano. L’arto tranciato si dibatté, schizzando Tric di icore puzzolente.
Bastardo nitrì di nuovo dal terrore: del sangue sprizzava dal collo nel punto
in cui il tentacolo era avvolto e stava stringendo.
«Lascialo andare!» urlò Mia, pugnalando un altro tentacolo.
«Tirati indietro!» le gridò Tric.
«Tirarmi indietro? Sei pazzo?»
«Sei tu la pazza» Tric indicò il suo pugnale. «Pensi di uccidere un
kraken delle sabbie con quel dannato stuzzicadenti? Lasciagli prendere lo
stallone!»
«’Bisso! Ho rubato quel fottuto cavallo!»
Abbassandosi per effettuare una finta, Mia vibrò un colpo a un altro arto
uncinato, facendo uscire un nuovo zampillo di sangue. Una sferzata di
ritorno fece finire Tric lungo disteso tra la polvere, a imprecare. Mia curvò
le dita, avvolgendo frettolosamente una manciata di ombre attorno a sé per
evitare un colpo simile. Quegli uncini sembravano abbastanza brutali da
sbudellare un guerriero ambulante. f
Anche se era seccato da quei piccoli sacchi di carne e dai loro bastoncini
appuntiti, il kraken sembrava intenzionato soprattutto a trascinare sotto le
sabbie il purosangue – che senza dubbio ora detestava più che mai essere
stato rubato – per mangiarselo. Ma mentre Mia tirava a sé l’oscurità, il
mostro lanciò un ruggito raggelante e proruppe fuori dalla terra agitando i
tentacoli. Come se fosse arrabbiato con lei.
Tric sputò sabbia rossa dalla bocca e gridò un avvertimento mentre
attaccava un altro arto. Il manto d’ombra non pareva essere di nessuna
utilità a Mia: era quasi cieca sotto di esso e la bestia sembrava in grado di
vederla a prescindere. E così se lo lasciò cadere dalle spalle e si tuffò verso
il cavallo urlante, rotolando tra la polvere. Si mosse tra quella foresta di
flagelli e uncini, sentendo la brezza dei colpi che le mancavano di poco
faccia e gola, il sibilo fischiante dei tentacoli nell’aria. Non provava vera
paura in mezzo a quella tempesta. Ondeggiava e scartava, scivolava e
rotolava. C’era solo quello: la danza che le era stata insegnata da Mercurio.
Quella con cui aveva convissuto quasi a ogni cambio da quando suo padre
aveva fatto quel lungo tuffo da una fune corta.
Una ruzzolata tra la polvere, una giravolta all’indietro, piccoli balzi tra i
tentacoli come un bambino che salta in mezzo a una dozzina di corde.
Lanciò un’occhiata verso il becco aperto della bestia, quella massa che
raschiava mentre si trascinava ancora più fuori dalla sabbia, schioccando e
ringhiando al punto da coprire i nitriti di Bastardo. L’odore di morte umida
e di cuoio salato, la polvere che le graffiava i polmoni. Le comparve un
sorriso sulle labbra quando le venne in mente un’idea: con un breve scatto,
Mia balzò contro uno, poi due, poi tre di quei tentacoli sferzanti,
lanciandosi in groppa a Bastardo.
«Denti della Mannaia, è davvero pazza…» mormorò Tric.
Il cavallo sgroppò di nuovo, ma Mia si resse con le cosce, le unghie e
pura ostinazione. Allungò una mano nelle bisacce e tirò fuori un pesante
barattolo di polvere rosso brillante. E con un sospiro lo scagliò nella bocca
del kraken.
Il barattolo si frantumò sul becco della creatura: vetri rotti e impalpabile
polvere rossa finirono nel gargarozzo di quell’orrore. Mia rotolò giù dalla
groppa di Bastardo per evitare un altro colpo, allontanandosi a fatica tra la
polvere mentre un urlo agonizzante fendeva l’aria. Il kraken lasciò andare
lo stallone, raspando e grattandosi la bocca con i tentacoli. Tric le diede un
altro colpo poco convinto, ma la bestia aveva dimenticato completamente la
sua preda, e quei grandi occhi ruotarono mentre si rigirava su se stessa,
trascinando la sua massa sotto la sabbia e ululando come un cane che fosse
appena tornato a casa dopo un duro cambio di lavoro solo per trovare un
altro segugio nella sua cuccia, che fumava i suoi sigaretti ed era a letto con
sua moglie.
Mia si rimise in piedi a fatica mentre la sabbia ribolliva per il movimento
del kraken in fuga. Scostando dagli occhi la frangia madida di sudore,
sorrise come una matta. Tric era a bocca aperta, la scimitarra insanguinata
che gli pendeva dalla mano, la faccia incrostata di polvere.
«Quello cos’era?» mormorò.
«Be’, tecnicamente non sono cefalopodi…»
«Intendo, cosa gli hai tirato in bocca?»
Mia scrollò le spalle. «Un barattolo del crea-vedove di Daniio il
Grasso.»
Tric sbatté le palpebre. Diverse volte.
«… Hai appena sconfitto un orrore delle Frusciaride con un barattolo di
peperoncino in polvere?»
Mia annuì. «Un peccato, davvero. È roba buona. Ne avevo rubato solo
uno.»
Un momento di silenzio incredulo risuonò per il deserto, riempito dal
canto stonato di venti impazziti. E poi il ragazzo cominciò a ridere, un
sorriso bianchissimo che scintillava in un volto lurido, in mezzo alle
fossette. Asciugandosi gli occhi, pulì un bel po’ di sangue scuro dalla sua
lama e si allontanò per andare a recuperare Fiori. Mia si voltò verso il suo
stallone rubato, che si stava rialzando dalle sabbie, sangue sulla gola e sulle
zampe anteriori. Parlò in toni tranquillizzanti, la lingua incrostata di
polvere, sperando di calmarlo.
«Sei tutto intero, ragazzo?»
Mia si avvicinò lentamente, la mano tesa. L’animale era scosso, ma con
qualche cambio di riposo presso il punto di vedetta si sarebbe ripreso, e
magari sarebbe stato più ben disposto verso di lei ora che gli aveva salvato
la vita. Mia gli accarezzò i fianchi con mani ferme, poi frugò nelle bisacce
in cerca del suo…
«Ahia, cazzo!»
Mia strillò quando lo stallone le morse il braccio, tanto forte da lasciare
un livido sanguinante. Il cavallo gettò indietro la testa con quella che
assomigliava parecchio a una risata. g Poi, agitando la criniera, iniziò a
zoppicare al piccolo galoppo verso Ultima Spes, lasciandosi alle spalle
orme di zoccoli insanguinate.
«Aspetta!» urlò Mia. «Aspetta!»
«Gli stai davvero antipatica» disse Tric.
«I miei ringraziamenti, Dominus Tric. Quando avrai finito di cantare la
tua Ode all’Ovvio, forse mi farai l’onore di inseguire il cavallo che sta
scappando con tutta la mia dannata roba sulla schiena?»
Tric sogghignò, volteggiò in sella a Fiori e galoppò all’inseguimento.
Mia si tenne il braccio contuso, ascoltando la flebile risata di un gatto che
non era un gatto riecheggiare nel vento.
Sputò nella polvere, lo sguardo fisso sullo stallone in fuga.
«Bastardo…» sibilò.

Tric tornò mezz’ora dopo, con uno zoppicante Bastardo al seguito. Riuniti,
lui e Mia procedettero a piedi fino al sottile sperone di roccia che avrebbe
funto da posto di vedetta. Erano in allerta costante per sommovimenti sotto
la sabbia e Tric annusava l’aria come un segugio, ma nessun altro orrore
levò i suoi tentacoli (o altre appendici) per ostacolare i loro progressi.
A Bastardo e Fiori fu permesso di brucare l’erba rada che circondava la
guglia: Fiori era lieto per quello spuntino, mentre Bastardo fissava Mia con
lo sguardo fulminante di un animale abituato ad avena fresca a ogni pasto,
rifiutandosi completamente di mangiare. Tentò di mordere Mia un altro paio
di volte quando lo legò, perciò lei fece finta di dare delle pacche a Fiori
(anche se non gli piaceva molto nemmeno lui) e regalò al sauro delle
zollette di zucchero prese dalle bisacce. L’unico dono per lo stallone rubato
era il gesto della mano più volgare che a Mia potesse venire in mente. h
«Perché chiami il tuo cavallo Fiori?» chiese Mia mentre lei e Tric si
preparavano ad arrampicarsi.
«… cosa c’è che non va con Fiori?»
«Be’, molti uomini danno ai loro cavalli nomi un po’ più… virili, tutto
qua.»
«Leggenda, Principe o cose del genere.»
«Una volta ho incontrato un cavallo chiamato Zoccolo di Tuono.» Alzò
una mano. «Giuro sulla Luce.»
«Mi sembra una cosa tanto sciocca» disse il ragazzo in tono altezzoso.
«Elargire quel genere di informazioni gratis.»
«Cosa intendi?»
«Be’, se chiami il tuo cavallo Leggenda, fai sapere alla gente che pensi
di essere l’eroe di un libro di favole. Se chiami il tuo cavallo Zoccolo di
Tuono… Figlie, tanto vale appenderti un cartello al collo che dice “Ho un
pene grande come una nocciolina”.»
Mia sorrise. «Ti credo sulla parola.»
«Mi piacciono questi tizi che chiamano le loro spade “Spaccacrani” o
“Risucchiaanime” o cose del genere.» Tric legò le sue salciocche in una
crocchia ingarbugliata in cima alla testa. «Sono tutti coglioni.»
«Se dovessi dare un nome alla mia lama,» disse Mia pensierosa «la
chiamerei Fuffi.»
Tric sbottò a ridere. «Fuffi?»
«’Bisso, sì» annuì la ragazza. «Pensa al terrore che instilleresti. Essere
sconfitto da un nemico che impugna una spada chiamata Risucchia-
anime… con quello potresti convivere. Immagina la vergogna se ti facessi
rompere il culo da una lama chiamata Fuffi.»
«Be’, proprio quello che intendo. I nomi rivelano tanto su chi li dà
quanto su chi li riceve. Forse non voglio che la gente sappia chi sono. Forse
preferisco essere sottovalutato.»
Il ragazzo scrollò le spalle.
«O forse semplicemente mi piacciono i fiori…»
Mia si ritrovò a sorridere mentre i due scalavano la parete accidentata del
dirupo. Entrambi si arrampicavano senza chiodi da roccia o funi, il tipo di
follia comune tra i giovani che si reputano immortali. Il loro posto di
vedetta torreggiava a cento piedi di altezza, ed entrambi erano senza fiato
quando raggiunsero la sommità. Ma, come Mia aveva previsto, quello
sperone offriva un punto di osservazione magnifico: tutto il deserto si
stendeva davanti a loro. Il bagliore rosso di Saan era spietato e Mia si
domandò quanto sarebbe stato brutale il calore durante la veraluce, quando
tutti e tre i soli facevano ardere il cielo di bianco.
«Ottima vista» concordò Tric. «Se qualcuno starnuta a Ultima Spes, ce
ne accorgeremo di sicuro.»
Mia diede un calcio a un ciottolo e lo fece cadere dal dirupo,
osservandolo ruzzolare nel vuoto. Si sedette su un macigno, puntellando lo
stivale sulla pietra opposta, in una posa che avrebbe provocato un brivido in
Domina Corvere, se l’avesse vista. Prese dalla cintura una sottile scatola
d’argento con incisi il corvo e le spade incrociate della Familia Corvere. Si
mise un sigaretto tra le labbra e offrì la scatola a Tric. Il ragazzo la prese e
si sedette di fronte a lei, arricciando il naso e leggendo a occhi stretti la
scritta sul retro.
«Neh diis lus’a, lus diis’a» borbottò. «Il mio liisiano è pessimo.
Qualcosa sul sangue?»
«Quando tutto è sangue, il sangue è tutto.» Mia accese il proprio
sigaretto con l’acciarino, poi esalò un sospiro soddisfatto. «Motto di
familia.»
«La tua familia?» Tric indicò lo stemma col pollice. «Avrei scommesso
che l’avessi rubato.»
«Non ti sembro la tipica midollana?»
«Non sono sicuro di che tipo mi sembri. Ma una bambina spocchiosa
appiccicata alla Dorsale? Niente affatto.»
«Devi lavorare sui tuoi complimenti, Dominus Tric.»
Il ragazzo pungolò la sua ombra con lo stivale, gli occhi indecifrabili.
Lanciò un’occhiata al non-gatto annidato vicino alla sua spalla. Messer
Cortese lo fissò a sua volta senza emettere un suono. Quando Tric parlò, fu
con evidente trepidazione.
«Ho sentito parlare della tua stirpe. Ma non ne avevo mai incontrato
nessuno prima. Non avrei mai pensato che mi succedesse.»
«La mia stirpe?»
«I tenebris.»
Mia esalò fumo grigio, gli occhi stretti. Allungò una mano verso Messer
Cortese come per accarezzarlo e le sue dita vi passarono attraverso come se
fosse fumo. Per la verità, erano in pochi coloro che la vedevano usare il suo
dono e vivevano per raccontarlo. La gente della Repubblica temeva ciò che
non riusciva a capire e odiava quello che temeva. Eppure questo ragazzo
sembrava più affascinato che impaurito. Squadrandolo dall’alto in basso –
questo tappetto di un Dweymeri con i suoi tatuaggi da isolano e il nome da
continentale – realizzò che era un estraneo come lei. E per un attimo si rese
conto di quanto era lieta di avere compagnia su questa strada bizzarra e
polverosa.
«E cosa sai dei tenebris, Dominus Tric?»
«Leggende. Stronzate. Rubate i bambini dalle culle, deflorate vergini
ovunque andate e altre sciocchezze.» Il ragazzo scrollò le spalle. «Ho
sentito dire che i tenebris attaccarono la Grande Basilica alcuni anni or
sono. Uccisero parecchi legionari Luminatii.»
«Ah.» Mia sorrise in mezzo al fumo. «Il Massacro del Verobuio.»
«Probabilmente sono tutte cazzate che hanno inventato per alzare le tasse
o cose del genere.»
«Probabilmente.» Mia fece un cenno verso la sua ombra. «Tuttavia non
sembra che questo ti disturbi.»
«Ho conosciuto un veggente in grado di capire il futuro frugando tra le
viscere degli animali. Ho incontrato un arkemista capace di creare fuoco
dalla polvere e uccidere un uomo semplicemente soffiandogli addosso.
Gingillarsi con l’oscurità a me sembra solo taumaturgia da imbonitore come
le altre.» Lanciò un’occhiata al cielo terso. «E non riesco a trovarci molta
utilità in un posto dove i soli non tramontano quasi mai.»
«… più brillante è la luce, più cupa è l’ombra…»
Tric guardò il non-gatto, ovviamente sorpreso di sentirlo parlare. Lo
osservò con attenzione per un momento, come se potessero spuntargli altre
teste o se stesse per soffiare fiamme nere. Quando nessun’altra testa
apparve, il ragazzo spostò di nuovo lo sguardo su Mia.
«Dove hai ottenuto il dono?» le chiese. «Da tua madre? Da tuo padre?»
«… Non so dove l’ho avuto. E non ho mai incontrato nessun altro come
me a cui chiederlo. Il mio Shahiid diceva che ero stata toccata dalla Madre.
Qualunque cosa volesse dire. Lui sicuramente non sembrava saperlo.»
Il ragazzo fece spallucce e passò il pollice sulla scatola di sigaretti.
«Se ben ricordo, la Familia Corvere fu coinvolta in alcuni guai qualche
verobuio fa. Qualcosa sull’instaurare un re?»
«Mai tirarsi indietro. Mai avere paura» sospirò Mia. «E mai, mai
dimenticare.»
«Allora. L’enigma comincia ad avere un senso. L’ultima figlia di una
familia caduta in disgrazia. Diretta verso la migliore scuola di assassini in
tutta la Repubblica. Progetti di regolare i conti dopo il diploma?»
«Non starai mica per elargirmi un po’ di saggezza sull’inutilità della
vendetta, vero, Dominus Tric? Perché stavi proprio per cominciare a
piacermi.»
«Oh, no.» Tric sorrise. «Capisco la vendetta. Ma visti i torti a cui hai
intenzione di riparare, immagino che i tuoi bersagli saranno complicati da
colpire.»
«Uno è già stato spuntato dall’elenco.» Diede una pacca al borsello con i
denti. «Ne mancano tre.»
«Questi cadaveri che camminano hanno un nome?»
«Il primo è Francesco Duomo.»
«… Quel Francesco Duomo? Gran cardinale della Chiesa della Luce?»
«Proprio lui.»
«’Bisso e sangue…»
«Il secondo è Marcus Remus. Tribuno della Legione dei Luminatii.»
«… E il terzo?»
La luce di Saan scintillò negli occhi di Mia, ciuffi di lunghi capelli neri
impigliati agli angoli della bocca. Le ombre attorno a lei ondeggiavano
come oceani, increspandosi vicino ai piedi di Tric. Doppiamente scure
rispetto al normale. Nere quasi quanto lo era diventato il suo umore.
«Il console Julius Scaeva.»
«Quattro Figlie» sussurrò Tric. «Ecco perché vuoi addestrarti alla
Chiesa.»
Mia annuì. «Un pugnale affilato potrebbe colpire Duomo o Remus con
un bel po’ di fortuna. Ma non basterà una bambina di strada con un
coltellino a eliminare Scaeva. Non dopo il Massacro. Non si mette a letto se
prima non c’è un drappello di Luminatii a controllare sotto le lenzuola.»
«Tre volte console del senato itreyano» sospirò Tric. «Maestro
arkemista. L’uomo più potente dell’intera Repubblica.» Il ragazzo scosse la
testa. «Sai come renderti le cose complicate, Figlia Pallida.»
«Oh, sì. È pericoloso quanto un sacco di vipere segnonero» annuì Mia.
«È una vera fregna, credi a me.»
Il ragazzo sollevò le sopracciglia, la bocca socchiusa.
Mia incontrò il suo sguardo e si fece seria. «Cosa c’è?»
«… Mia madre diceva che quella è una parola oscena» si imbronciò Tric.
«La più oscena di tutte. Mi raccomandò di non pronunciarla mai. In
particolare di fronte a una domina.»
«Oh, davvero.» La ragazza prese un altro tiro dal suo sigaretto,
stringendo le palpebre. «E perché mai?»
«Non lo so» Tric si ritrovò a borbottare. «È quello che diceva e basta.»
Mia scosse il capo, le ciocche sbilenche ondeggianti davanti ai suoi
occhi.
«Sai, non l’ho mai capito. In che modo essere chiamati come le parti
basse di una donna possa essere più grave di qualunque altro insulto.
Secondo me chiamare qualcuno come le parti private di un uomo è peggio.
Voglio dire, cosa immagini quando senti che qualcuno viene definito un
cazzone?»
Tric scrollò le spalle, confuso per la strana piega della conversazione.
«Ti figuri un bove, vero?» continuò Mia. «Qualcuno così ossessionato
dalle seghe da non lasciare spazio per il cervello. Un bastardo ritardato che
se ne va in giro impettito pieno di sborra e piscio, del tutto inconsapevole di
come appare agli altri.»
Uno sbuffo grigio all’aroma di chiodi di garofano si alzò nell’aria in
mezzo a loro.
«Cazzone è un altro modo per dire “stupido”. Ma se definisci qualcuno
una fregna, be’…» La ragazza sorrise. «Vi sottintendi un senso di malizia.
Uno scopo. Malevolo e consapevole. Non pensare che abbia chiamato il
console Scaeva una fregna per regalargli un insulto. Una fregna ha un
cervello, Dominus Tric. Ha i denti. Se qualcuno ti definisce una fregna,
prendilo come un complimento. Come un segno che la gente ti ritiene uno
da non prendere per il culo.» Una scrollata di spalle. «Credo che la
chiamino ironia.»
Mia tirò su col naso, fissando il deserto che si estendeva sotto di loro.
«La verità è che non esiste alcuna differenza tra le tue parti basse e le
mie. A parte quelle ovvie, naturalmente. Ma nessuna delle due ha più peso
dell’altra. Perché mai quello che ho tra le gambe dovrebbe essere
considerato più intelligente o più stupido, peggiore o migliore? È solo
carne, Dominus Tric. In definitiva, non è altro che cibo per i vermi. Proprio
come lo saranno Duomo, Remus e Scaeva.»
Un’ultima tirata, lunga e profonda, come stesse risucchiando la vita
stessa dal suo fumo.
«Ma preferirei comunque essere definita una fregna e non un cazzone.»
La ragazza espirò l’ennesima nuvoletta grigia, poi schiacciò il sigaretto
con il tacco dello stivale.
Sputò nel vento.
E così, all’improvviso, il giovane Tric si innamorò.

a. Il cavallo, non il capitano.


b. Era stata morsa da tre cavalli diversi nel corso della sua permanenza all’allevamento, sgroppata
sette volte (due delle quali nel letame) e calpestata una. Era stata anche pizzicata sul didietro da
uno stalliere particolarmente audace di nome Romero (tristemente, nello stesso cambio cui era
stata sbalzata nello strame la prima volta), che era stato male informato da un menestrello
itinerante sul fatto che alle donne di città “piace quel genere di cose”.
Il naso del giovane non guarì mai del tutto, anche se riuscì a ritrovare tre dei suoi denti. Stando
alle ultime notizie, era stato condannato a quattro anni nella Pietra Filosofale per un’aggressione
brutale (e secondo molti ingiustificata) a un menestrello itinerante.
c. L’impero di Ashkah dominò il mondo conosciuto per circa sette secoli, un periodo considerato
dagli eruditi come un’epoca impareggiabile nei campi della scienza e delle arti arcane. Ashkah era
una società di stregoni, i cui audaci esperimenti nei reami della magika – o veneficio, o il termine
che preferite – non solo sminuirono i rituali taumaturgici più deboli dei Re Magi liisiani che li
seguirono, ma cambiarono anche la forma della realtà stessa.
Purtroppo, come succede spesso quando un mortale curiosa nelle trame ordite dagli dèi,
qualcuno o qualcosa prima o poi finisce per staccargli il naso. Nessuno studioso mortale conosce
con certezza i veri motivi della caduta di Ashkah. Molti dicono che il loro impero fu cancellato dal
mondo da Aa in persona. Altri affermano che i venefici degli stregoni di Ashkah attirarono
l’attenzione di esseri più antichi degli dèi: mostruosità innominabili oltre i margini dell’universo e
della sanità mentale, che trangugiarono l’impero come un inchiostrambo in preda a una sbornia da
tre cambi.
E poi, ci sono altri che affermano che qualcuno tra gli stregoni fece semplicemente un casino.
Un grosso, GROSSISSIMO casino.
d. Mercurio chiamava quelle prove “cacce al tesoro” e, anche se variavano per difficoltà e livello di
rischio per arti e vita, iniziavano quasi sempre con Mia che si svegliava con una lieve emicrania
da sonnolerba in un ambiente sconosciuto. Una volta, dopo una lezione sui princìpi del
magnetismo, si era risvegliata nel buio pesto delle fogne di Godsgrave, soltanto con una forcina di
ferro e un pezzo di gesso per aiutarla a trovare la via d’uscita. Dopo cinque mesi di lezioni nella
lingua della Vecchia Ashkah, si era svegliata cinque miglia in profondità nella necropoli di
Godsgrave con mezzo otre d’acqua e le indicazioni per l’uscita scritte in lingua ashkahi.
Ovviamente, anche se Mercurio le chiamava “cacce al tesoro”, l’unico “tesoro” che si trovava
alla fine di quegli esercizi era “vita prolungata”. Tuttavia, erano utili a renderla una studentessa
particolarmente scrupolosa.
e. Anche se i pochi eruditi tanto folli da studiarli li chiamano “kraken delle sabbie”, i predatori al
vertice della catena alimentare nelle regioni aride ashkahi non sono realmente dei cefalopodi.
Nuotano nella sabbia con la stessa facilità con cui i loro “cugini” di mare nuotano nell’acqua,
filtrando ossigeno dalla terra attraverso branchie specializzate. Mangiano qualunque cosa non
possieda una velocità di corsa superiore alla media e sono noti per un temperamento che molti
descriverebbero come “poco collaborativo”.
L’esperto indiscusso su di essi, l’erudito Carlo Ribisi, teorizzò che si trattasse di una specie di
verme del deserto, mutato da agenti inquinanti magiki provenienti dalle rovine dell’impero
ashkahi. Ribisi postulò che quelle bestie possedessero un’intelligenza simile a quella dei cani e,
per provare il suo teorema, catturò un piccolo di kraken delle sabbie, lo riportò al Gran Collegio di
Godsgrave e provò a insegnargli semplici compiti.
Ribisi costruì labirinti di pietra, li riempì di terra e sguinzagliò quella bestia (che aveva
chiamato “Alfi”, come un animaletto molto amato della sua familia) lì dentro. Alfi veniva
ricompensato con del cibo quando riusciva a uscire dal labirinto. Ribisi introdusse schemi più
complessi man mano che Alfi cresceva di dimensioni (era lungo sei piedi alla sua ultima
misurazione registrata), incorporando anche congegni semplici come chiavistelli e porte per
dimostrare l’intelligenza crescente della creatura. Purtroppo, Alfi utilizzò questa conoscenza
un’illuminotte per sfuggire alla sua prigione, uccidendo gran parte della facoltà di zoologia,
incluso un amareggiato Ribisi, prima di essere eliminato da un drappello di confusi Luminatii.
Dopo questo incidente, le ordinanze sul mantenimento della fauna all’interno dei terreni del
collegio furono notevolmente rafforzate.
f. Anche se se ne può trovare un gruppo di dieci a Godsgrave, i giganti mekana del Collegio di Ferro
vengono mantenuti senza carburante né pilota, e vengono attivati solo in casi di assoluta crisi. A
causa della potenza militare itreyana e delle difficoltà di attaccare Godsgrave se non per mare, la
presenza di quelle macchine nella città è perlopiù cerimoniale. Negli ultimi quaranta veribui, i
guerrieri ambulanti di Godsgrave sono stati attivati esattamente due volte.
La prima, durante la deposizione di re Francisco XV: legionari leali alla monarchia tentarono di
fare irruzione nel palazzo e di salvare il re dai suoi assalitori quando si diffuse la notizia della
rivolta. I piloti lealisti (una posizione puramente cerimoniale in quella fase della monarchia) si
arresero quando scoprirono che Francisco e tutta la sua famiglia erano già morti.
Il secondo incidente cominciò con tre bottiglie di aureovino di media qualità e una vanteria da
ubriaco a una possibile spasimante, seguita da uno schianto barcollante contro la sesta Costola
(che si spezzò alla base e crollò nel mare), terminando in un rapido processo e una crocifissione
ancora più veloce per il giovanotto coinvolto.
E la ragazza non era nemmeno così infatuata di lui…
g. Se esisteva un cavallo sotto gli occhi di Aa davvero capace di una risata sbeffeggiante, quello era
Bastardo.
h. Noto come “le nocche”, il gesto comprende sollevare un pugno con indice e mignolo stesi fino alla
prima nocca.
Il gesto trae origine dalla Battaglia delle sabbie scarlatte, dove re Francisco I di Itreya, anche
noto come “Il Grande Unificatore”, sconfisse l’ultimo Re Magus liisiano, Lucius l’Onnipotente.
Dopo quella sconfitta, si presumeva che la resistenza liisiana al dominio itreyano sarebbe
vacillata. L’occupazione itreyana delle terre conquistate era tanto ingegnosa quanto insidiosa: un
piccolo gruppo di administratii midollani si stabiliva nel vuoto di potere creato dalla distruzione
della classe dirigente e stabiliva una nuova aristocrazia locale con legami con Itreya tramite
coercizione e corruzione. I figli della nobiltà locale venivano inviati a Godsgrave per essere
istruiti, le figlie itreyane sposavano uomini del luogo, la ricchezza scorreva in tutte le tasche giuste
e, nel giro di una generazione, i conquistati si sarebbero domandati perché mai avevano opposto
resistenza.
Non accadde così a Liis, gentili amici.
Dopo la morte di Lucius, una guarnigione di Luminatii fu dislocata nella capitale di Liis, Elai,
per sovrintendere “all’assimilazione”. Le cose andarono bene finché un manipolo di truppe scelte
ancora leali alla memoria di Lucius non fece irruzione a un banchetto nell’ex palazzo del Re
Magus. I membri dell’aristocrazia itreyana e i soldati della guarnigione di Luminatii furono
catturati, messi in fila accanto ai lealisti e poi castrati uno a uno con una lama incandescente.
Poi i prigionieri furono liberati e le forze scelte si barricarono nel palazzo, aspettando
l’inevitabile rappresaglia. Protrattosi per più di sei mesi, l’Assedio di Elai divenne leggenda. Si
dice che i lealisti si aggirassero per i bastioni del palazzo, tenendo in alto i pugni con indice e
mignolo stesi fino alla prima nocca, un gesto di scherno per indicare agli assalitori che i ribelli
possedevano ancora il loro… equipaggiamento, mentre i gioielli degli Itreyani erano stati dati in
pasto ai cani dei ribelli. Anche se i lealisti furono infine sconfitti, “le nocche” sono diventate di
uso comune per molti cittadini della Repubblica: un gesto derisorio che si prefigge lo scopo di
sfoggiare superiorità su un avversario evirato.
CAPITOLO 6
POLVERE

Quando Mia aveva cinque anni, sua madre le aveva dato un rompicapo: un
cubo di legno con le facce che si muovevano e che, una volta allineate
correttamente, avrebbero rivelato il vero dono all’interno. Era il miglior
regalo del Gran Tributo che si ricordava di aver mai ricevuto. a
All’epoca Mia l’aveva ritenuto crudele. Tutti gli altri bambini midollani
giocavano con spade di legno o bambole nuove, mentre lei non aveva altro
che questa squallida scatola che rifiutava di aprirsi. La sbatteva contro il
muro, ma invano. Si lamentò con suo padre che non era giusto e lui si
limitò a sorridere. E quando Mia batté i piedi davanti a Domina Corvere e
pretese di sapere perché non le avesse regalato semplicemente un nastro
grazioso per i capelli o un abito nuovo invece di quell’orrendo aggeggio,
sua madre si inginocchiò e guardò la figlia negli occhi.
«La tua mente ti sarà più utile di qualunque gingillo sotto i soli» disse.
«È un’arma, Mia. E come qualunque arma, devi allenarti per essere capace
di brandirla.»
«Ma madre…»
«No, Mia Corvere. La bellezza è una dote innata, ma l’intelligenza va
coltivata.»
Così Mia si era seduta con la scatola in grembo. L’aveva guardata
storto. L’aveva fissata finché non le era apparsa perfino in sogno. L’aveva
ruotata, rigirata e le aveva imprecato contro con tutti gli improperi che
aveva sentito usare da suo padre. Ma dopo due mesi frustranti, ruotò un
ultimo pezzo e udì un suono meraviglioso.
Clic.
Il coperchio si aprì e all’interno trovò una spilla: un corvo con
minuscoli occhi d’ambra. L’emblema della sua Familia. Il corvo dei
Corvere. Lo indossò al primopasto del cambio successivo. Sua madre
sorrise e non disse una parola. Mia tenne la scatola: di tutti gli enigmi che
ricevette in seguito dai suoi genitori per il Gran Tributo, quello rimase il
suo preferito. Dopo l’esecuzione di suo padre e l’arresto di sua madre, si
era lasciata alle spalle la scatola e qualcosa di quella ragazzina che
l’amava.
Ma aveva portato con sé la spilla, assieme al suo talento per gli enigmi.
Si svegliò sotto una catasta di rifiuti in un vicolo solitario, da qualche
parte nei bassifondi di Godsgrave. Mentre si sfregava via il sonno dagli
occhi, le brontolò lo stomaco. Sapeva che probabilmente gli uomini del
console la stavano ancora braccando: se lui fosse venuto a sapere che non
l’avevano affogata, forse ne avrebbe mandati di più. Non aveva alcun posto
dove stare. Nessun amico. Niente denaro. E niente cibo.
Era dolorante, sola e spaventata. Le mancava sua madre. Il piccolo
Jonnen, il suo fratellino. Il suo letto morbido, i suoi vestiti caldi e il suo
gatto. Se lo ricordò spezzato sul pavimento e gli occhi le si riempirono di
lacrime, mentre il pensiero dell’uomo che l’aveva ucciso le colmò il cuore
d’odio.
«Povero Capitan Pozzanghere…»
«… miao…» disse una voce.
La ragazzina alzò lo sguardo a quel suono, scostando capelli scuri dalle
ciglia umide. E lì, sul selciato, tra le erbacce, il marcio e il sudiciume, vide
un gatto.
Non il suo gatto, certo. Oh, era nero come il verobuio, proprio come lo
era stato il suo buon Capitano. Ma era sottile come carta e trasparente,
come se qualcuno avesse ritagliato una sagoma fatta delle ombre stesse. E
malgrado il fatto che adesso fosse dotato di una forma invece di non averla
affatto, Mia riconobbe comunque il suo amico. Quello che l’aveva aiutata
quando nessun altro al mondo avrebbe potuto farlo.
«Messer Cortese?» domandò.
«… miao…» rispose lui.
Allungò una mano verso la creatura come per accarezzarla, ma quella vi
passò attraverso come se fosse un filo di fumo. Guardando nella sua
oscurità, provò quella stessa sensazione: la sua paura veniva drenata come
veleno da una ferita, lasciandola insensibile e intrepida. E si rese conto
che, anche se non aveva più un fratello, una madre, un padre o una familia,
non era completamente sola.
«D’accordo» annuì.
Prima il cibo. Non aveva soldi, ma aveva il suo stiletto e la spilla
appuntata al vestito (sempre più trasandato). Una lama di necrosso poteva
valere una fortuna, ma detestava privarsi della sua unica arma. Comunque
sapeva che c’era gente che le avrebbe dato soldi per il gioiello. Il denaro
poteva permetterle di comprare cibo e affittare una stanza dove rintanarsi e
poter pensare alla sua prossima mossa. Dieci anni, sua madre in catene,
suo…
«… miao…» disse Messer Cortese.
«Giusto» annuì lei. «Un enigma alla volta.»
Non sapeva nemmeno in che parte di Godsgrave si trovasse. Aveva
trascorso tutta la vita nella Dorsale. Ma nello studio suo padre teneva delle
mappe della città appese al muro, assieme a spade e serti, e Mia si
ricordava abbastanza bene la disposizione della metropoli. Era meglio che
stesse alla larga dal quartiere dei midollani, rimanendo il più rintanata
possibile finché non fosse stata sicura che gli uomini del console avevano
smesso di darle la caccia.
Quando si alzò, Messer Cortese fluì come acqua nell’oscurità attorno ai
suoi piedi e, quando lo fece, l’ombra della ragazza divenne più nera. Anche
se era consapevole che probabilmente quella scena avrebbe dovuto
spaventarla, Mia prese un respiro profondo, si ravviò i capelli e fece un
passo fuori dal vicolo, finendo col piede in una pila melmosa di qualcosa
che sperava fosse fango. b
Imprecando in maniera molto colorita e sfregando le suole sul selciato,
vide persone di tutti i tipi che sgomitavano lungo la strada affollata.
Vaaniani dai capelli chiari, Itreyani con gli occhi azzurri, alti Dweymeri
con tatuaggi di inchiostro di leviatano, dozzine di schiavi con marchi
arkemici impressi a fuoco sulle guance. Ma presto Mia si rese conto che
gran parte della gente era liisiana: carnagione olivastra e capelli scuri. Le
vetrine erano contrassegnate con un emblema che Mia riconobbe grazie
alle lezioni con fratello Crassus e alle messe del verobuio dentro le grandi
cattedrali: tre circoli ardenti, intrecciati. Uno specchio dei tre soli che
vagavano per i cieli. Gli occhi di Aa in persona.
La Trinità. c
Mia si rese conto che doveva trovarsi nel quartiere liisiano: l’aveva
sentito chiamare Piccola Liis. Squallida e sovrappopolata, la povertà
scritta nei fatiscenti muri in pietra. Qui le acque dei canali scorrevano alte,
consumando i piani inferiori degli edifici intorno. Palazzine di mattoni
disadorni, deteriorate fino a un marrone scuro al bordo dell’acqua. Sopra il
lezzo dei canali, riuscì a sentire l’odore di pane speziato e fumo di chiodi di
garofano e udì canzoni in una lingua che quasi riconobbe senza riuscire a
capirla del tutto.
Si inserì nel flusso di persone, urtando e sgomitando. Quella calca
poteva essere spaventosa per una ragazza che era sempre vissuta al riparo
della Dorsale, ma ancora una volta Mia scoprì di non avere paura. Venne
trascinata dalla folla finché la strada non sbucò in un’ampia piazza,
fiancheggiata su tutti i lati da banchetti e negozi. Salendo su una pila di
casse vuote, Mia si rese conto di trovarsi al mercato: l’aria era piena del
viavai e del mormorio di centinaia di persone, illuminate dal bagliore aspro
di due soli ardenti nel cielo, e dell’odore più straordinario in cui si fosse
mai imbattuta in vita sua.
Mia non riusciva a descriverlo come una puzza, anche se quel profumo
unico era composto in parte da fetore. Piccola Liis era situata nella zona
sudovest di Godsgrave, sotto le Anche vicino alla Baia dei Macellai, ed era
fiancheggiata dai mattatoi della città e da vari deflussi fognari. Il lezzo
della baia era stato paragonato a una pancia esplosa ricoperta di sterco di
cavallo e capelli umani bruciati, lasciata a marcire per tre cambi nel calore
della veraluce.
Comunque, a mascherare questa puzza c’era il profumo del mercato
vero e proprio. Il caldo aroma tostato di pane, crostate e biscotti appena
sfornati. Gli odori aleggianti dei giardini pensili. Mia si ritrovò per metà a
sbavare e per metà a provare nausea: una parte di lei voleva ingurgitare
qualunque cosa le capitava sotto gli occhi, l’altra si domandava se avrebbe
mai mangiato di nuovo.
Toccando la spilla che portava sul petto, si guardò in giro in cerca di un
venditore. C’erano banchetti di gingilli in abbondanza, ma molti
sembravano di terz’ordine. Ai margini del mercato, Mia vide un vecchio
edificio, rannicchiato come un mendicante all’angolo di due strade
tortuose. Un’insegna dondolava su un cardine cigolante sopra la sua triste,
piccola porta.
CURIOSITÀ DI MERCURIO – STRANEZZE, RARITÀ E ANTICHITÀ RAFFENATE.
Una placca sull’uscio la informò: PERDITEMPO, GENTAGLIA O RELIGIOSI
NON SONO BEN ACCETTI.
Strinse gli occhi e guardò l’ombra troppo scura attorno ai suoi piedi.
«Ebbene?» chiese.
«… miao…» disse Messer Cortese.
«Lo penso anch’io.»
Mia balzò giù dalle casse e si diresse verso il negozio.

Sangue inondava il pianale del carro, denso e incrostato sulle mani di Mia.
La polvere le aggrediva gli occhi, sollevandosi come una tempesta dagli
zoccoli dei cammelli. Non c’era bisogno che Mia li frustasse: gli animali
stavano correndo veloci di loro spontanea volontà. E così si concentrò sul
placare l’emicrania che le spaccava in due la fronte e a sedare l’istinto
ormai familiare di pugnalare Tric ripetutamente in faccia.
Il ragazzo era seduto sul fondo del carro, a percuotere quello che poteva
sembrare uno xilofono, se quello strumento fosse stato fatto di tubi di ferro
e avesse emesso un rumore come il verso di asini in calore fuori di testa.
Anche il ragazzo era ricoperto di sangue e polvere, i denti di un bianco
perfetto stretti in una maschera di rosso sudicio e orrendi tatuaggi.
«Tric, smettila con quel frastuono!» tuonò Mia.
«Spaventa i kraken!»
«Spaventa i kraken…» gemette Naev da una pozza del suo stesso
sangue.
«Non li spaventa affatto, dannazione!» urlò Mia.
Si guardò alle spalle, nel caso in cui quel fracasso pazzesco avesse
davvero spaventato le mostruosità che li inseguivano, ma ahimè, i quattro
cunicoli di terra rimestata li seguivano ancora da presso.
Bastardo galoppava accanto al carro, legato con le sue redini. Lo stallone
stava guardando torvo Mia, lanciando ogni tanto un nitrito accusatorio nella
sua direzione.
«Oh, sta’ zitto!» urlò lei al cavallo.
«… non gli piaci proprio…» sussurrò Messer Cortese.
«Non sei d’aiuto!»
«… e cosa aiuterebbe?…»
«Spiegami come ci siamo cacciati in questo casino!»
Il gatto che era ombre inclinò la testa, come se stesse pensando. Un
ringhio raggelante proveniente da quelle creature gigantesche fece tremare
il carro sui suoi rivetti, ma i rimbalzi sulle dune non lo spostarono.
Quell’essere guardò scorrere le Frusciaride, l’orizzonte frastagliato
avvicinarsi, la sua padrona sopra di lui. E parlò con la voce di chi sta
svelando un’orrenda ma necessaria verità.
«… praticamente è colpa tua…»

Avevano trascorso due settimane in cima al loro punto di vedetta, e sia Mia
sia Tric avevano cominciato a perdere fiducia nella loro teoria. Il primo
cambio di Septimus si stava avvicinando lentamente: se non avessero
attraversato la soglia della Chiesa prima di allora, non avrebbero avuto
alcuna possibilità di essere accettati nel gregge di quest’anno. Osservavano
a turni, uno che si arrampicava sulla guglia per dare il cambio all’altro,
soffermandosi a chiacchierare un po’ durante il passaggio di consegne. Si
scambiavano trucchi del mestiere o storie del tempo passato come
apprendisti. Mia menzionava di rado la propria familia. Tric mai. Eppure si
tratteneva sempre: anche se non aveva nulla da dire, se ne stava
semplicemente lì seduto a osservarla leggere per un po’.
Finalmente Bastardo aveva cominciato a mangiare l’erba ai piedi della
guglia, anche se lo faceva con sdegno evidente. Mia notava spesso che la
guardava come se fosse lei che voleva mangiare.
Quando stava per arrivare l’illuminotte di quello che probabilmente era il
tredicesimo cambio, lei e Tric erano seduti in cima alla pietra, a fissare il
deserto. A Mia restavano quarantadue sigaretti, e già desiderava averne
portati di più.
«Ho cercato di smettere una volta» disse lei, scrutando la filigrana di
Dorian il Nero d sull’ottima paglia arrotolata a mano. «Sono durata
quattordici cambi.»
«Ti mancava troppo?»
«Astinenza. Mercurio mi costrinse a riprendere. Diceva che comportarmi
come un orso ubriaco tre cambi al mese era già troppo.»
«Tre cambi al… ah.»
«Ah.»
«… Non sei così intrattabile, vero?»
«Potrai dirmelo tra un cambio circa» ridacchiò lei.
«Non ho avuto sorelle.» Tric cominciò a riannodarsi i capelli,
un’abitudine a cui, come Mia aveva notato, si dedicava quando era a
disagio. «Non sono esperto di…» gesticolò in modo vago «… abitudini
femminili.»
«Be’, allora avrai una bella sorpresa.»
Tric si fermò a metà nodo e scoccò a Mia un’occhiata strana. «Sei
diversa da qualunque ragazza abbia mai…»
Poi tacque e scivolò dalla roccia in posizione accucciata. Tirò fuori un
vecchio cannocchiale da capitano, istoriato con gli stessi tre drachimarini
del suo anello, e se lo premette contro l’occhio.
Mia si accovacciò accanto a lui, scrutando in direzione di Ultima Spes.
«Vedi qualcosa?»
«Una carovana.»
«Cacciatori di fortuna?» e
«Non credo.» Tric sputò sulla lente del cannocchiale, poi tolse la
polvere. «Due carri carichi. Quattro uomini. Sono trainati da cammelli,
perciò deve trattarsi di un viaggio lungo.»
«Non ho mai cavalcato un cammello prima d’ora.»
«Nemmeno io. Ho sentito dire che puzzano. E sputano.»
«Sembra comunque un miglioramento rispetto a Bastardo.»
«Lo è anche un dracobianco con una sella.»
Osservarono la carovana procedere lungo la sabbia rosso sangue per
un’ora, meditando cosa li avrebbe attesi se il gruppo proveniva davvero
dalla Chiesa Rossa. E quando la carovana fu quasi un puntino all’orizzonte,
i due scesero dal loro trono e li seguirono in quella desolazione.
Sulle prime si tennero a distanza, facendo procedere Fiori e Bastardo a
un’andatura lenta. Mia era certa di poter udire una strana melodia nel vento.
Non i sussurri esasperanti – a cui non si era ancora abituata – ma qualcosa
di simile a campane stonate, accatastate l’una sull’altra e colpite con un
mazzafrusto di ferro. Non aveva idea di cosa pensare.
I due non erano equipaggiati per un viaggio nelle profondità del deserto
e stabilirono di raggiungere la carovana quando si fosse fermata per
riposare. Non c’era modo di avvicinarsi non visti: gli affioramenti di pietra
e i monumenti spezzati che punteggiavano le regioni aride non erano
sufficienti a nasconderli, e il manto d’ombra di Mia poteva celare solo una
persona. Inoltre, secondo lei, se questi fossero stati davvero servitori della
Signora dell’omicidio benedetto, forse non avrebbero gradito che qualcuno
li cogliesse di sorpresa mentre si fermavano per pisciare.
Purtroppo, i membri della carovana sembravano felici di mantenere la
loro andatura, per così dire. I due stavano guadagnando terreno, ma dopo
due interi cambi in sella, con Bastardo che le mordicchiava le gambe e ogni
tanto cercava di sbalzarla nella polvere, Mia non poté più sopportarlo: fece
fermare lo stallone vicino a un cerchio di statue erose dal tempo, perdendo
la pazienza a un punto tale da scaraventarla lungo la sabbia.
«Fermo, fermo!» sbraitò. «Fottiti. Nel buco dell’orecchio.»
Tric sollevò un sopracciglio. «Cosa c’è?»
«Nei pantaloni ho più parti paonazze che posteriore. Una pausa.»
«Stiamo giocando alle allitterazioni e non me l’hai detto o…»
«Fottiti. Mi serve un po’ di riposo.»
Tric guardò l’orizzonte con aria accigliata. «Potremmo perderli.»
«Sono guidati da una dozzina di cammelli, Tric. Un cane senza naso
potrebbe seguire questa scia di merda nel mezzo del verobuio. Anche se
cominciassero all’improvviso ad andare più veloci di un fumatore da
quaranta a cambio con un mucchio di prostitute ubriache sottobraccio,
credo che riusciremmo a ritrovarli.»
«Cosa c’entrano delle prostitute ubri…»
«Non mi serve un massaggio ai piedi o alla schiena. Voglio solo sedermi
per un’ora su qualcosa che non si muove.» Mia scivolò giù di sella con un
sussulto e agitò il suo stiletto contro Bastardo. «E se mi mordi ancora, giuro
sulla Mannaia che ti faccio diventare un castrone.»
Bastardo sbuffò e Mia si lasciò cadere contro una roccia liscia con un
sospiro. Premette una mano contro le interiora doloranti e si sfregò il
posteriore con l’altra.
«Posso aiutarti, con quello» si offrì Tric. «Se ne hai bisogno.»
Il ragazzo sorrise quando Mia gli fece il gesto delle nocche. Legò i
cavalli e si sedette di fronte a Mia mentre lei tirava fuori un sigaretto dalla
custodia, l’accendeva con la pietra focaia e prendeva una bella tirata.
«Il tuo Shahiid era un uomo saggio» esordì Tric.
«Cosa te lo fa dire?»
«Tre cambi al mese di questo è parecchio.»
La ragazza sbuffò e gli lanciò addosso un po’ di polvere col piede mentre
lui si allontanava ridendo. Mia si abbassò il tricorno sugli occhi e appoggiò
la testa contro la roccia, il sigaretto che le pendeva dalle labbra. Tric la
osservò, cercando in giro qualche segno di Messer Cortese. Invano.
Guardò lì attorno, esaminando le costruzioni in pietra. Le statue erano
tutte simili, figure vagamente umanoidi con teste feline, erose dai venti e
dal tempo. Tric si mise in piedi sull’affioramento e osservò attraverso il
cannocchiale la carovana di cammelli allontanarsi. Mia aveva ragione: si
muovevano a passo lento, e anche se loro due si fossero riposati per alcune
ore sarebbero riusciti a riguadagnare il terreno perduto. Lui non era
inesperto con i cavalli come Mia, ma dopo tre cambi in sella aveva dolori in
alcuni dei posti sbagliati. E così, seduto all’ombra per un po’, cercò di fare
del suo meglio per non guardarla mentre dormiva.
Chiuse gli occhi solo per un secondo.

«Naev gli consiglia di restare in silenzio.»


Un sussurro biascicato nell’orecchio, affilato come la lama contro la sua
gola. Tric aprì gli occhi, sentì odore di cuoio, acciaio e qualcosa di fetido
che immaginò essere cammello. Una voce di donna, carica di saliva, con un
accento che non riusciva a individuare. Dietro di lui.
Tric non disse una parola.
«Perché lui segue Naev?»
Tric si guardò attorno e vide Bastardo e Fiori ancora legati. Orme nella
polvere. Nessun segno di Mia. Il coltello fu premuto con più forza contro la
sua gola.
«Parla.»
«Mi hai detto tu di restare in silenzio» sussurrò lui.
«Ragazzo sveglio.» Un sorriso dietro quelle parole. «Troppo?»
Tric allungò una mano alla cintura, sussultando mentre la lama si
muoveva. Lentamente, molto lentamente, tirò fuori una scatolina di legno e
la scosse piano, facendo sbatacchiare debolmente i denti all’interno.
«Il mio tributo» disse. «Per la Mannaia.»
La scatola gli fu ghermita di mano. «Mammà è morta.»
«Oh, dea, non di nuovo…»
«Sta giocando con te, Dominus Tric.»
Tric fu lieto di udire la voce di Mia, e sorrise quando la donna con il
coltello sibilò dalla sorpresa.
«Ma io conosco un gioco migliore» disse Mia allegramente. «Si chiama
getta il coltello e lascialo andare prima che ti tagli le mani.»
«Naev gli squarcerà la gola.»
«Allora la tua testa si unirà alle tue dita sulla sabbia, Mea Domina.»
Tric si domandò se quello di Mia fosse un inganno. Chissà come sarebbe
stato sentire la lama sibilare da un orecchio all’altro. Morire prima ancora di
aver cominciato. La pressione sul suo collo si allentò e lui trasalì quando
qualcosa di piccolo e appuntito gli scalfì la pelle.
«Ahi.»
Stelle scure cozzarono davanti ai suoi occhi, e sulla lingua sentì un
sapore di fiori polverosi. Rotolò da una parte sbattendo le palpebre,
consapevole solo vagamente della lotta che infuriava alle sue spalle. Lame
fruscianti tagliavano l’aria, piedi sfregavano la sabbia rosso sangue. Con
occhi appannati, intravide la loro assalitrice: era una donna bassa e
segaligna, il volto velato, avvolta in una stoffa del colore della sabbia del
deserto. Portava due coltelli ricurvi a doppio filo e danzava come qualcuno
che conoscesse i passi giusti.
Tric si tastò il taglio sul collo e le sue dita divennero umide. Cercò di
alzarsi, invano, e rimase a fissare la propria mano mentre il cervello si
rimetteva in pari. Aveva ancora il controllo della propria mente, ma il
corpo…
«Avvelenato…» mormorò.
Mia e la sconosciuta stavano girando l’una attorno all’altra, le lame
strette in pose da combattimento. Si muovevano come nuovi amanti:
esitanti all’inizio, avvicinandosi fino a cadere l’una nelle braccia dell’altra,
pugni, gomitate e ginocchiate, parate, colpi e contrattacchi. Il sibilo
dell’acciaio riempiva l’aria. L’impatto umido di carne e osso. Non avendola
mai vista affrontare un avversario umano, Tric si rese conto lentamente che
Mia non si risparmiava con una lama: era precisa e all’apparenza impavida.
Combatteva con la sinistra e con uno stile non ortodosso, muovendosi
rapidamente. Ma nonostante tutta l’abilità di Mia, la donna magra sembrava
alla sua altezza. Sventava ogni colpo. Bloccava qualunque avanzata.
Dopo alcuni minuti a osservare, i piedi di Tric cominciarono a
riacquistare sensibilità. Mia stava sbuffando per lo sforzo, i capelli corvini
appiccicati alla pelle come alghe. La sconosciuta non la stava incalzando: si
stava solo difendendo in silenzio. Mia girava in cerchio, cercando di
mettersi il sole alle spalle, ma la sua avversaria era abbastanza scaltra da
non lasciarsi cogliere con Saan negli occhi. Perciò alla fine, con un piccolo
sospiro come un’ammissione di sconfitta, Mia spostò la propria ombra
affinché la sconosciuta ci si trovasse comunque dentro fino alle caviglie.
La donna lanciò un fischio allarmato e cercò di evitarla, ma quella si
mosse con estrema rapidità. Tric la osservò cadere immobile, come se i suoi
piedi fossero incollati in quel punto. Mia si avvicinò e mirò alla gola della
donna, la lama che fischiava nell’affondo. Ma invece di morire, la
sconosciuta intrappolò in una stretta l’avambraccio di Mia e le fece cadere
il coltello con una torsione, poi lanciò la ragazza sul posteriore ammaccato,
veloce come un’anima giusta che volava fino al Focolare. f
La lama di Mia tremolò sulla sabbia tra le gambe di Tric, a solo due
pollici da un tristissimo incidente. Il ragazzo sbatté le palpebre guardando
l’arma di necrosso e cercò di concentrarsi. Aveva la sensazione di doverla
ridare a Mia – sembrava una cosa importante – ma il calore sul collo gli
imponeva di starsene seduto ancora un po’.
Mia rotolò in piedi, il volto rosso di rabbia. Ghermì il coltello dalla
sabbia e tornò a voltarsi verso la donna, mostrando i denti in un ringhio.
«Riproviamoci, che ne dici?» ansimò.
«Tenebris» disse la strana donna, che aveva a malapena il fiatone.
«Sciocca tenebris.»
«… Cosa?»
«Lei chiama la tenebra qui? Nel profondo del deserto?»
«… Tu chi sei?»
«Naev» biascicò lei. «Solo Naev.»
«È una parola ashkahi. Significa “nulla”.»
«Una sciocca istruita, allora.»
Mia accennò a Tric. «Cos’hai fatto al mio amico?»
«Inchiostro.» La donna mostrò un anello spinato sul dito. «Una piccola
dose.» g
«Perché ci hai attaccato?»
«Se Naev avesse attaccato lei, le sabbie sarebbero più rosse. Naev ha
chiesto perché loro la seguivano. E ora Naev sa. Naev si interroga sulle
capacità della ragazza. E ora Naev vede.» La donna velata spostò lo
sguardo tra loro e fece un rumore acquoso con la lingua. «Vede un paio di
sciocchi.»
Tric si alzò in piedi barcollante, appoggiandosi contro la pietra alle sue
spalle. La testa si stava schiarendo e la rabbia sostituiva la foschia. Estrasse
la scimitarra e guardò torvo le tre donne minute e indistinte davanti ai suoi
occhi; il suo orgoglio era ferito tanto da sanguinare.
«Chi stai chiamando sciocco, tappetta?»
La donna guardò nella sua direzione. «Il ragazzo la cui gola Naev
avrebbe potuto tagliare.»
«Mi hai colto di sorpresa mentre stavo dormendo.»
«Il ragazzo che dorme quando dovrebbe montare la guardia.»
«Che ne dici se ti faccio vedere come sono bravo a montare…»
«Tric» lo interruppe Mia. «Calmati.»
«Mia, quest’ossuta striscia di merda mi ha puntato un coltello alla gola.»
«Ti sta mettendo alla prova. Sta mettendo alla prova entrambi. Tutto
quello che dice e fa. Guardala.»
Naev sosteneva ancora lo sguardo di Mia, gli occhi come lampade nere
che le ardevano nel cranio. Mia aveva già visto in precedenza uno sguardo
del genere: era quello di una persona che aveva visto la morte in faccia così
tante volte da considerarla un’amica. Era lo stesso del vecchio Mercurio. E
allora riconobbe la sconosciuta per quello che era.
Quel momento era completamente diverso da quello che aveva provato
allo specchio. Eppure Mia provò comunque un senso di sollievo nel
prendere il borsello di denti dalla cintura e gettarlo alla donna esile. Come
se sei anni le fossero stati sollevati dal petto.
«Il mio tributo» disse. «Per la Mannaia.»
La donna soppesò il sacchetto nella mano. «Naev non ha bisogno di
questo.»
«Ma vieni dalla Chiesa Rossa…»
«È un onore per Naev servire nella Casa della Nostra Signora
dell’omicidio benedetto. Almeno per qualche altro minuto.»
«Qualche altro minuto? Cosa…»
Il terreno sotto di loro tremò. Sulle prime fu una vibrazione lieve, che lei
avvertì nelle reni. In costante crescita.
«… È ciò che penso che sia?» chiese Tric.
«Un kraken» sospirò Naev. «Sentono quando lei chiama la tenebra. Una
sciocca, come Naev ha detto.»
Mia e Tric si scambiarono un’occhiata, poi dissero all’unisono: «Oh,
merda…».
«Non lo sapevi?» chiese Tric.
«Quattro Figlie, come avrei fatto a saperlo? Non sono mai stata ad
Ashkah!»
«Il kraken che ci ha attaccato prima è uscito dai gangheri quando hai
fatto quella cosa mantellosa!»
«“Cosa mantellosa”? Cos’hai, cinque anni?»
«Be’, comunque si chiami, non dovresti smettere?» Tric indicò le ombre
attorno ai piedi di Naev. «Prima che ne porti altri?»
L’ombra di Mia scivolò indietro sulla polvere e assunse di nuovo la sua
forma normale. Lei tenne d’occhio Naev, ma la donna si limitò a rinfoderare
la lama e a inclinare la testa.
«Ce ne sono due» biascicò. «Molto grossi.»
«Cosa facciamo?» chiese Mia.
«Fuggire?» Naev scrollò le spalle. «Morire?»
«Fuggire mi sembra un’ottima idea. Tric?»
Il ragazzo era già in groppa a Fiori e il cavallo si impennò per partire.
«Sto aspettando te.»
Mia volteggiò in sella e offrì una mano alla donna esile. «Cavalca con
me.»
Naev esitò per un istante, inclinando il capo e fissando Mia con quello
sguardo nero.
«Ascolta, puoi restare qui, se preferisci…»
Naev si avvicinò e il terreno tremò. Bastardo si impennò sulle zampe
posteriori, scalciando l’aria. Mia si lanciò un’occhiata alle spalle e vide una
scia di terra smossa avvicinarsi, come se qualcosa di enorme nuotasse sotto
la sabbia.
Dritto verso di loro.
Mentre lo stallone rimetteva gli zoccoli sul terreno, la ragazza fece di
nuovo appello alle ombre, bloccandolo per un tempo sufficiente a far salire
Naev dietro di lei. Un ruggito tonante risuonò sottoterra, come se anche
quelle cose stessero rispondendo alla sua chiamata. Quando Naev cinse con
le braccia la vita di Mia, lei colse una zaffata di spezie e fumo. E qualcosa
di marcio al di sotto.
«Lei li sta facendo arrabbiare» disse la donna.
«Andiamo!» urlò Tric.
Mia liberò gli zoccoli di Bastardo e scalciò con forza, spronando lo
stallone a un rapido galoppo. La terra dietro di loro esplose e dalla sabbia
spuntarono tentacoli che schioccarono come fruste uncinate. Mia udì un
verso agghiacciante e intravide un becco che avrebbe potuto inghiottire
Bastardo in un boccone. Notò un secondo cunicolo muoversi verso di loro
da ovest. Le sue orecchie si riempirono del tuono di zoccoli e di ruggiti.
«Due, proprio come hai detto!» gridò Mia.
La donna velata indicò in direzione nord. «Andiamo verso i carri.
Abbiamo cantaferro per tenere a bada i kraken.»
«Cos’è cantaferro?»
«Galoppa!»
E lo fecero. Un galoppo furioso su un oceano di sabbia rosso sangue.
Lanciandosi un’occhiata all’indietro, vide i due cunicoli convergere e
avvicinarsi rapidi. Si domandò come facessero quelle creature a seguirla.
Come sapessero che era stata lei a chiamare la tenebra. Un tentacolo uscì
dalla superficie, alto due piani e irto di uncini d’osso nero. Ruggiti di rabbia
riempirono l’aria quando calò a terra.
La polvere le sferzò gli occhi. Bastardo sbuffava sotto di lei e il battito
degli zoccoli riverberava nel suo petto. Mia tenne strette le redini e cavalcò
con più vigore, grata che, per quanto lo stallone la odiasse come il veleno,
sembrasse detestare ancor di più la prospettiva di essere divorato.
«Attenta!» la avvertì Tric.
Mia guardò avanti e vide un altro solco avvicinarsi da nord. Più grande e
veloce, fece tremare la terra sotto di lei. Fiori emise un nitrito di terrore.
«Sembra che siano in tre» disse Naev. «Spiacente…»
I tentacoli si srotolarono dal terreno come petali di un fiore letale. Mia
guardò nelle fauci della bestia, tutta becco schioccante e ossa uncinate.
Mentre Fiori scartava verso est per evitare quel colosso, Bastardo capì
finalmente che sarebbe andato più veloce senza due persone in groppa. Così
cominciò a sgroppare.
Mia aveva il vantaggio delle staffe. Redini. Una sella. Ma Naev era
seduta sulle parti posteriori di Bastardo avendo solo la vita di Mia a cui
ancorarsi. Bastardo sgroppò di nuovo, sbattendole in giro come bambole di
pezza. E senza nemmeno un sussurro, Naev si lasciò cadere dal dorso
dell’animale.
Mia tagliò verso est per seguire Tric, urlando al ragazzo sopra quel caos.
«Abbiamo perso Naev!»
Il Dweymeri si voltò per lanciare un’occhiata. «Forse si fermeranno per
mangiarla?»
«Dobbiamo tornare indietro!»
«Quand’è che sei diventata altruista? Tornare indietro è un suicidio!»
«Non è altruismo, brutto idiota: le ho dato il mio tributo!»
«Oh, merda.» Tric si tastò la cintura. «Ha preso anche il mio!»
«Tu prendi Naev» decise lei. «Io distrarrò i kraken!»
«… mia…» disse il gatto nella sua ombra. «… questa è una follia…»
«Dobbiamo salvarla!»
«… lo stallone del ragazzo non lo riporterà laggiù…»
«Perché è spaventato! E tu puoi rimediare!»
«… se bevo lui, non posso bere te…»
«Mi occuperò io della mia paura! Tu pensa a Fiori!»
Un sospiro fioco.
«… come ti compiace…»
Terra rossa, squarciata e ferita, tremava sotto di loro. Mia aveva polvere
negli occhi e il cuore in gola. Percepì Messer Cortese guizzare lungo la
sabbia e raggomitolarsi nell’ombra di Fiori, banchettando con il terrore
dello stallone. Mia sentì la propria paura sollevarsi come una piena: in
pancia crebbe un freddo gelido, dimenticato da così tanto tempo che l’aveva
quasi dominato. Erano passati molti anni dall’ultima volta che aveva dovuto
affrontarla. Anni con Messer Cortese al suo fianco, bevendone ogni goccia
affinché lei potesse essere sempre coraggiosa.
“Paura.”
Mia diede uno strattone alle redini, facendo fermare Bastardo. Lo
stallone sbuffò ma obbedì all’acciaio che aveva in bocca, pestando gli
zoccoli e smocciolando. La ragazza lo fece ruotare e vide che Naev era in
piedi, tenendosi stretta le costole mentre correva per la sabbia agitata.
«Tric, vai!» gli urlò Mia. «Ci vediamo al carro!»
Tric pareva ancora un po’ confuso dall’inchiostro. Però annuì,
precipitandosi verso la donna caduta e il kraken in avvicinamento. Fiori
galoppò rapido come un uragano verso quella mostruosità, completamente
impavido con il gatto senza occhi aggrappato alla sua ombra.
Il primo kraken eruppe dietro Naev, con tentacoli delle dimensioni di
scialuppe che fendevano l’aria. La donna esile rotolò e dondolò, evitando
una mezza dozzina di colpi. Purtroppo fu il settimo a colpirla: gli uncini le
squarciarono petto e pancia quando il tentacolo la sollevò. E perfino in
quella stretta tremenda, la donna si rifiutò di urlare, ma estrasse la lama per
colpire l’arto.
Mia sentì le vene colme di terrore, i polpastrelli che le pizzicavano e gli
occhi spalancati. Quella sensazione era così sconosciuta che l’unica cosa
che riuscì a fare fu non crollare sotto il suo peso. Tuttavia la paura di fallire
era più forte della prospettiva di morire nel tentacolo di un kraken. Il
ricordo delle parole di sua madre nel cambio in cui suo padre era stato
impiccato era ancora inciso nelle sue ossa. E così guardò dentro di sé e fece
ciò che andava fatto.
Avvolse la propria ombra attorno a sé, scomparendo alla vista sulla
groppa dello stallone. Il kraken che stringeva Naev esitò, percorso da
tremiti. E con un ululato che le fece rabbrividire le ossa, la creatura lasciò
cadere la propria preda sulla sabbia e si voltò verso Mia, seguita
rapidamente dai suoi simili.
La ragazza voltò lo stallone e galoppò a rotta di collo.
A denti stretti, si lanciò un’occhiata alle spalle mentre forme enormi
sfondavano la terra e poi si tuffavano di nuovo sotto come drachimarini in
caccia. Oltre quegli orrori, vide Tric galoppare a tutta velocità, afferrando
Naev e issando la donna ferita sopra l’arcione. Naev era ricoperta di sangue,
ma Mia riuscì a vedere che si muoveva ancora. Era viva.
Fece voltare Bastardo verso nord, in direzione della carovana. Gli
uomini della Chiesa non erano degli sciocchi: il loro convoglio di cammelli
stava già muovendosi rapido lungo la polvere. I kraken mantenevano la
distanza su Bastardo; uno andò a sbattere contro la sabbia appena trenta
piedi dietro di loro e lo stallone fece un passo falso quando la terra tremò.
Fragorosi ruggiti e il sibilo dei loro corpi che penetravano il terreno le
riempivano le orecchie. Domandandosi come potessero percepirla, Mia
cavalcò verso un tratto di calanchi rocciosi, pregando che il terreno fosse
più o meno solido.
Una quarantina di guglie di pietra erosa si innalzavano lungo la
superficie del deserto: un piccolo giardino roccioso in un nulla sconfinato.
Gettando da parte il suo manto d’ombra, Mia zigzagò in mezzo a esse e udì
ruggiti di frustrazione alle sue spalle. Guadagnò un piccolo vantaggio,
uscendo al galoppo dall’altro lato mentre i kraken facevano il giro. Madida
di sudore e con il cuore che palpitava, si stava avvicinando al convoglio di
cammelli, pollice dopo pollice, piede dopo piede. Tric l’aveva già
raggiunto, e uno dei carovanieri aveva preso in consegna il corpo
insanguinato di Naev, mentre un altro stava azionando una balestra su un
perno, con dardi grossi quanto manici di scopa.
Poteva sentire lo stesso canto metallico nel vento e si rese conto che uno
strano marchingegno era fissato al carro di coda, proprio accanto alla
balestra. Somigliava a un grosso xilofono fatto di tubi di ferro. Uno dei
carovanieri lo stava percuotendo come se avesse insultato sua madre,
riempiendo l’aria di rumore.
“Un metallofono” realizzò.
Ma sotto quella cacofonia, riuscì a sentire i kraken alle sue spalle, orrori
grandi come case che squarciavano il terreno. Le facevano male le cosce, i
muscoli gemevano, e la ragazza stava cavalcando con tutto ciò che le
rimaneva. La paura stava crescendo dentro di lei come qualcosa di vivo e
pulsante, che le artigliava le viscere e appannava pensieri e vista. Le
tremavano le mani, le fremevano le labbra… “per favore, Madre, fallo
smettere…”
Finalmente si accostò all’ultimo carro, sussultando per il frastuono. Tric
stava urlando e protese la mano verso di lei. Il cuore le martellava nel petto.
I denti sbatacchiavano nel suo cranio. E con le redini di Bastardo in pugno,
si tirò su gambe malferme e balzò verso di lui.
Il ragazzo la prese e la tirò contro il proprio petto, duro come mogano e
madido di sudore. Tremando tra le sue braccia, Mia guardò in quegli occhi
color nocciola, notando il modo in cui la stava fissando: sollievo,
ammirazione e anche qualcos’altro. Qualcosa…
Percepì Messer Cortese sgattaiolare di nuovo nella sua ombra,
sopraffatto per un attimo dal terrore che Mia aveva nelle vene. E poi lui
bevve e sospirò, e non rimase nulla tranne un ricordo sbiadito. Era di nuovo
se stessa. Di nuovo forte. Non aveva bisogno di nessuno. Di nulla.
Borbottando un ringraziamento, si liberò dalla stretta di Tric e si chinò
per legare Bastardo al lato del carro. Tric si inginocchiò accanto al corpo
sanguinante di Naev per controllare se fosse ancora viva. Il membro della
Chiesa al posto di guida urlò sopra il suono del metallofono.
«Madre Nera, cosa…»
Un tentacolo spuntò dal terreno di fronte a loro, fischiando mentre si
avvicinava. Tranciò il diaframma del carrettiere, segando a metà lui e uno
dei suoi compagni. Sangue e interiora schizzarono mentre i tettucci dei carri
venivano strappati via come carta. Mia si tuffò sul pianale; gli uncini
passarono pochi pollici sopra la sua testa quando il veicolo ondeggiò di lato,
tra le urla di Tric e i nitriti di Bastardo mentre il kraken appena arrivato
ruggiva dalla furia. La balestra e gli uomini che la azionavano furono
scagliati via dal pianale, scivolando nella polvere. I cammelli scartarono in
preda al panico, rovesciando il convoglio di carri. Mia si tuffò verso le
redini abbandonate, facendo fermare la carovana con uno scossone
improvviso. Si trascinò al posto di guida e imprecò, lanciando un’occhiata
alle sue spalle verso le quattro creature che adesso li inseguivano,
sovrastando quella baraonda per urlare a Messer Cortese.
«Ricordami di non fare mai più appello alla tenebra in questo deserto!»
«… non temere…»
L’uomo che suonava il metallofono era stato sbattuto via dall’attacco dei
kraken e ora stava urlando mentre uno dei mostri lo trascinava verso la
morte. Tric afferrò il mazzuolo caduto all’uomo e iniziò a percuotere lo
strumento mentre Mia urlava a Naev.
«In che direzione si trova la Chiesa Rossa, da qui?»
La donna gemette in risposta, tenendosi le ferite slabbrate su petto e
pancia. Mia poteva vederle gli intestini luccicare, i vestiti di Naev zuppi di
sangue.
«Naev, ascoltami! Da che parte dobbiamo andare?»
«Nord» gorgogliò la donna. «Le montagne.»
«Quali montagne? Ce ne sono dozzine!»
«Non le più alte… né le più basse. Né la… faccia corrucciata, il vecchio
triste o la muraglia spezzata.» Un sospiro esausto, denso di saliva. «La
montagna più semplice di tutte.»
La donna gemette e si raggomitolò su se stessa. Il cantaferro era quasi
assordante e l’emicrania di Mia le rimbalzava all’interno del cranio con
gioioso trasporto.
«Tric, smettila con quel frastuono!» tuonò Mia.
«Spaventa i kraken!» le urlò Tric.
«Spaventa i kraken…» gemette Naev.
«Non li spaventa affatto, dannazione!» gridò Mia.
Si guardò alle spalle, nel caso in cui quel fracasso pazzesco avesse
davvero spaventato le mostruosità che li inseguivano, ma ahimè, li
seguivano ancora da presso. Bastardo galoppava accanto al carro,
guardando torvo Mia, lanciando ogni tanto un nitrito accusatorio nella sua
direzione.
«Oh, sta’ zitto!» urlò lei al cavallo.
«… non gli piaci proprio…»
«Non sei d’aiuto!»
«… e cosa aiuterebbe?…»
«Spiegami come ci siamo cacciati in questo casino!»
Il gatto che era ombre inclinò la testa, come se stesse pensando. Guardò
scorrere le Frusciaride, l’orizzonte frastagliato avvicinarsi, la sua padrona
sopra di lui. E parlò con la voce di chi sta svelando un’orrenda ma
necessaria verità.
«… praticamente è colpa tua…»

a. Il Gran Tributo rappresentava il punto intermedio (approssimativo) tra i veribui, ed era una delle
sacre feste di Aa, caratterizzata per tradizione da scambi di regali tra le persone care. Si diceva che
il primo Gran Tributo fosse stato il cambio in cui Aa diede alle sue figlie il dominio sugli
elementi. A Tsana, la sua primogenita, regalò il dominio sul fuoco. A Keph, sulla terra. A Trelene,
sugli oceani. A Nalipse, sulla tempesta. Come contropartita, le figlie diedero al loro padre amore e
obbedienza.
Si dice che Niah non donò nulla alle sue figlie, poiché dentro di sé la Mannaia non ha nulla da
dare. Ma queste sono falsità sbraitate dai ministri della Chiesa di Aa.
A Keph, Niah diede i sogni per tenerle compagnia nel suo sonno eterno. A Trelene, il mistero,
le profonde acque scure oltre la soliluce. A Nalipse, la calma, ovvero la pace nell’occhio del
ciclone. E a Tsana? La sua primogenita che la disprezzava così tanto?
A Tsana, dea del fuoco, Niah diede la fame.
Una fame senza fine.
b. Non era fango. Ahimè.
c. Naturalmente, il numero tre ha un significato importante a Itreya e l’adorazione del Semprevigile è
considerata la religione ufficiale della Repubblica. Comunque è interessante notare che perfino in
altre regioni in cui il culto di Aa non era altrettanto prevalente, il numero tre conserva comunque
un grandissimo valore culturale.
Prendete Liis, per esempio.
Nei cambi prima che il Collegio Itreyano di Ferro facesse marciare i suoi guerrieri ambulanti
per Liis e la conquistasse nel nome del Grande Unificatore, re Francisco I, i Liisiani avevano il
proprio pantheon, una trinità composta da Padre, Madre e Figlio. I bambini nati il terzo cambio
del mese venivano considerati benedetti. I terzogeniti di terzogeniti di terzogeniti venivano iniziati
al clero liisiano, senza alcuna eccezione. Infine, si diceva che ciascuno dei re liisiani possedesse
tre testicoli, un segno del loro diritto divino a governare.
Anche se all’inizio tale affermazione fu contestata dagli altri regnanti, alla fine fu dimostrata da
re Francisco I. Dopo la cattura dell’ultimo re liisiano, Lucius l’Onnipotente, alla Battaglia delle
sabbie scarlatte, il Grande Unificatore rimosse lo scroto del sovrano con il proprio pugnale e trovò
tre palle che lo fissavano tristi dalla loro sacca.
Per quanto grato che fosse stata attribuita veridicità alla leggenda, Lucius l’Onnipotente fu
tutt’altro che lieto per il metodo usato da Francisco per controllare.
Ma solo per breve tempo.
d. Il fornitore del miglior fumo itreyano, di ottimo liquore e della collezione più vasta di litografie
oscene di tutta Godsgrave.
e. Un gruppo si era avventurato nelle Frusciaride circa tre cambi prima, guidando una lunga fila di
cavalli senza carico. Considerate le armi in mostra, Mia li scambiò per tombaroli, ma in effetti si
trattava di pellegrini appartenenti a una fazione che abitava ai margini, noti come Kephiani. Quel
gruppo era stato convinto dal loro capo – un uomo di nome Emiliano Rostas – che il tempo del
risveglio della grande Keph fosse prossimo e che la dea della terra presto si sarebbe destata dal
suo sonno per causare la fine del mondo. Solo coloro che si fossero radunati fedelmente
all’Ombelico della dea (che Emiliano supponeva si trovasse nel deserto ashkahi) sarebbero stati
risparmiati.
Quando gli fecero notare che il viaggio poteva essere più rischioso che starsene seduti ad
aspettare la comparsa di Keph, Emiliano replicò che lui e i suoi seguaci erano i preferiti della dea
e lei non avrebbe permesso che accadesse loro alcun male.
Si può solo presumere che i pulvispettri che divorarono i loro cadaveri non avessero ricevuto il
promemoria della dea.
f. Il Focolare, un fuoco alimentato eternamente dalla dea Tsana all’interno della pancia della dea
della terra dormiente, Keph. Quelle fiamme attirano gli spiriti virtuosi dei morti e diventano più
calde e brillanti per ogni anima che accede all’aldilà. Gli Itreyani credono che il numero dei morti
a un certo cambio sarà così vasto che il fuoco sveglierà Keph e il mondo finirà.
Alle anime malvagie viene negato un posto presso il Focolare e sono costrette a vagare al
freddo per essere consumate da Niah. A volte, queste anime malvagie vengono rimandate nel
mondo dei vivi dalla dea per tormentare i virtuosi e i giusti. Chiamati i “Senzafuoco”, sono figure
comuni nella tradizione popolare e sono in agguato in tombe abbandonate o luoghi di un male
indicibile, per rapire bambini, deflorare vergini e provocare aumenti illogici e ingiustificati alle
tasse.
g. Distillato dal meccanismo di difesa dei leviatani di alto mare, l’inchiostro è un sedativo
allucinogeno. Iniettare la droga provoca sensazioni di benessere e perdita di controllo muscolare
(in natura, i leviatani usano l’inchiostro per sfuggire ai predatori: basta lanciarlo in faccia perché
anche il dracobianco più affamato cessi di preoccuparsi del suo primopasto per un po’). Chi lo usa
a lungo termine, però, soffre di perdita di empatia e, in caso di grave abuso, di completo distacco
dalla realtà.
Francisco XV, ultimo re di Itreya, fu un famigerato inchiostrambo. Sotto l’influsso della sua
dipendenza, perfino durante la rivolta che lo detronizzò, si narra che fosse assolutamente divertito
mentre la sua scorta personale lo dichiarava un traditore del popolo. Si dice che la regina Isabella,
anch’ella dipendente da quella sostanza, rise sguaiatamente quando Francisco venne fatto a pezzi
nella propria sala del trono.
Presumibilmente i suoi spasmi di risate si interruppero quando i repubblicani rivolsero le loro
lame su di lei e sui suoi figli.
CAPITOLO 7
PRESENTAZIONI

Mia aprì con una spinta la porta di Curiosità di Mercurio e un


campanellino sopra l’intelaiatura annunciò il suo arrivo. Il negozio buio e
polveroso si estendeva in ogni direzione. Le imposte erano abbassate per
non lasciar entrare la soliluce. Mia ricordò l’insegna: “Stranezze, rarità e
antichità raffenate”. Guardando gli scaffali, vide le prime in abbondanza.
Le ultime parti dell’equazione erano opinabili.
A dire la verità, il negozio sembrava pieno fino all’orlo di spazzatura.
Mia avrebbe potuto giurare che dentro fosse più grande che di fuori, anche
se attribuì quella sensazione all’aver saltato il primopasto. Come a
ricordarle di averlo trascurato, il suo stomaco brontolò una lamentela con
parole severe.
Mia si fece strada fra cianfrusaglie e paccottiglia finché non arrivò a un
bancone. E lì, dietro un ripiano di mogano istoriato con un motivo a spirale
che le faceva dolere gli occhi, trovò la più grande stranezza dentro
Curiosità di Mercurio: il proprietario in persona.
La sua era una faccia di quelle che sembravano nate per accigliarsi,
sormontata da una corta massa di capelli grigio chiaro. Gli occhi azzurri
erano assottigliati dietro occhiali con una montatura in fildiferro che aveva
visto cambi migliori. La statua di una donna elegante con una testa di leone
era accucciata sul bancone accanto a lui, con un globo arkemico nel palmo
girato verso l’alto. Il vecchio stava leggendo da un libro grosso quanto
Mia. Un sigaretto dal debole aroma di chiodi di garofano gli pendeva dalla
bocca. Ondeggiò sulle sue labbra quando borbottò.
«Come posso aiutarti?»
«Buon cambio a voi, signore. L’Onnipotente Aa vi benedica e vi
preservi…»
Il vecchio tamburellò col dito sulla piccola placca di bronzo sul ripiano,
una ripetizione dell’avvertimento fuori dall’uscio. “Perditempo, gentaglia o
religiosi non sono ben accetti.”
«Perdonatemi, signore. Che le Quattro Figlie…»
Il vecchio picchiettò la placca con maggiore insistenza, spostando il suo
cipiglio su Mia.
La ragazza tacque. Il vecchio si voltò di nuovo verso il suo libro.
«Come posso aiutarti?» ripeté.
Lei si schiarì la gola. «Desidererei vendervi un gioiello, signore.»
«Desiderarlo e basta non lo farà accadere, ragazzina.»
Mia gironzolò lì incerta, mordendosi il labbro. Il vecchio ricominciò a
picchiettare sulla placca finché lei non colse il messaggio, staccandosi la
spilla e appoggiandola sul bancone. Il piccolo corvo la fissò con i suoi
occhi d’ambra rossi, come se fosse ferito al pensiero che lei potesse darlo
in pegno a un irritabile vecchio bastardo. Lei strinse le spalle in segno di
scuse.
«Dove l’hai rubato?» borbottò l’anziano.
«Non l’ho rubato, signore.»
Mercurio si tolse il sigaretto dalle labbra e dedicò a Mia la sua
completa attenzione.
«Quello è l’emblema della Familia Corvere.»
«Che occhio, signore.»
«Darius Corvere è morto come traditore un cambio fa per ordine del
senato itreyano. E si dice che l’intera casata sia stata rinchiusa nella Pietra
Filosofale.» a
La ragazzina non aveva un fazzoletto, così si asciugò il naso sulla
manica e non disse nulla.
«Quanti anni hai, marmocchia?»
«… Dieci, signore.»
«Hai un nome?»
Mia sbatté le palpebre. Chi si credeva di essere questo vecchio? Lei era
Mia Corvere, figlia del tribuno della legione dei Luminatii. Midollana di
una familia nobile, una delle dodici grandi casate della Repubblica. Non
avrebbe subito l’interrogatorio di un semplice negoziante. In particolare
quando gli stava offrendo un premio che valeva molto più di tutta la
paccottiglia di quello squallido buco messa assieme.
«Il mio nome è affar mio, signore.» Mia incrociò le braccia e fece del
proprio meglio per imitare sua madre quando doveva trattare con un
servitore insubordinato.
«Affarmio?» Sollevò un sopracciglio grigio. «Strano nome per una
ragazzina, eh?»
«Volete la spilla o no?»
Il vecchio si rimise il sigaretto tra le labbra e tornò a guardare il libro.
«No» rispose.
Mia sbatté le palpebre. «È del miglior argento itreyano. La…»
«Levati dalle palle» disse l’uomo senza alzare lo sguardo. «E porta con
te i tuoi guai quando smammi, signorina Affarmio.»
Le guance di Mia avvamparono dalla furia. Raccolse la spilla e se la
riappuntò sul vestito, si gettò i capelli sopra una spalla e girò i tacchi.
«Un consiglio» disse il vecchio, lo sguardo ancora sul libro. «Corvere e
i suoi sodali se la sono cavata con poco, con quell’impiccagione. Le loro
truppe ordinarie sono state crocifisse lungo le rive del Coro. Si dice che
lastricheranno le strade della Casa del Senato con i loro crani. Parecchi di
quei soldati avevano la loro familia da queste parti. Perciò non me ne
andrei in giro con il simbolo di un traditore attaccato alle tette, se fossi in
te.»
Quelle parole colpirono Mia come un sasso contro la nuca. Si voltò
verso il vecchio, mostrando i denti in un ringhio.
«Mio padre non era un traditore» sbraitò lei.
Mentre usciva di gran carriera, la sua ombra si srotolò lungo il
pavimento e sbatté la porta alle sue spalle. La ragazza era così arrabbiata
che non se ne accorse nemmeno.
Di nuovo nel mercato, si fermò sugli scalini all’ingresso del negozio
mentre la furia le faceva stringere le mani a pugno. Come osava il vecchio
parlare di suo padre a quel modo? Aveva una mezza idea di rientrare e
pretendere delle scuse, ma il suo stomaco brontolava e aveva bisogno di
soldi.
Stava scendendo tra la calca in cerca di un banchetto di gioielli quando
un ragazzo poco più grande di lei giunse sbandando dalla folla. Aveva le
braccia cariche di un canestro di dolci e, prima che Mia potesse farsi da
parte, il ragazzo andò a sbattere contro di lei con una bestemmia e una
piccola esplosione di zucchero a velo.
Mia cacciò un urlo mentre finiva lunga distesa, il suo vestito
impolverato di bianco. Anche il ragazzo venne sbattuto col sedere a terra e
i dolci si sparpagliarono tra la sporcizia.
«Perché non guardi dove vai?» domandò Mia.
«Oh, Figlie, mille scuse, signorina. Vi prego di perdonarmi…»
Il ragazzo si rimise in piedi, offrì una mano a Mia e l’aiutò ad alzarsi.
Le spolverò via la polvere bianca dal vestito meglio che poteva,
borbottando scuse per tutto il tempo. Poi, abbassandosi per raccogliere i
dolci caduti, li ficcò di nuovo nel suo canestro. Con un sorriso dispiaciuto,
prese una delle crostate meno sporche dalla pila e la porse a Mia con un
inchino.
«Vi prego di accettarla in segno di scuse, Mea Domina.»
La rabbia di Mia si placò fino a un bollore mentre la pancia borbottava
e, con espressione imbronciata, prese il dolce dalla mano sudicia del
ragazzo.
«Grazie, Meus Dominus.»
«Sarà meglio che vada. Il buon padre si spaventa se faccio tardi per la
consegna delle elemosine.» Sorrise di nuovo a Mia e inclinò un cappello
immaginario. «Scusate ancora, signorina.»
Mia gli rivolse un inchino e mostrò un’espressione meno corrucciata.
«Aa vi benedica e vi preservi.»
Il ragazzo corse via tra la folla. Mia lo osservò allontanarsi e la sua
rabbia si placò gradatamente. Guardò la crostata dolce che aveva in mano
e sorrise per la propria fortuna. Primopasto gratis!
Trovò un vicolo lontano dalla calca, sollevò la crostata e diede un bel
morso. I margini della sua bocca si incurvarono verso il basso e lei sgranò
gli occhi. Con un’imprecazione, sputò il boccone nel fango, gettandovi
anche il resto della crostata. Il dolce era duro come legno e il ripieno
completamente rancido. Fece una smorfia e si pulì le labbra sulla manica.
«Quattro Figlie» sbraitò. «Perché mai…»
Mia sbatté le palpebre. Abbassò lo sguardo sul suo vestito, ancora
lievemente impolverato di zucchero. Ricordando le pacche del ragazzo per
pulirla, capì di essere stata una stupida e che lui l’aveva giocata.
La spilla era sparita.

Il cantaferro alla fine spaventò i kraken.


Almeno era ciò che insisteva a dire Tric. Aveva passato quattro ore a
percuotere il metallofono come se quello gli dovesse dei soldi, e Mia
supponeva che avesse bisogno di qualche giustificazione. Quando gli
inseguitori mollarono uno dopo l’altro, Messer Cortese ipotizzò che il
terreno stesse diventando più duro man mano che la carovana si avvicinava
alle montagne. Mia era ragionevolmente certa che quelle creature si fossero
semplicemente annoiate e avessero deciso di cercare qualche preda più
facile. Naev non azzardò alcuna opinione: se ne stava stesa in una pozza di
sangue che si coagulava e faceva del suo meglio per non morire.
Sinceramente, Mia non era certa che ce l’avrebbe fatta.
Su sua insistenza, Tric prese le redini. Nel misericordioso silenzio dopo
che il ragazzo ebbe abbandonato il suo compito da percussionista, Mia si
inginocchiò accanto alla donna priva di sensi e si domandò da dove
cominciare.
Le interiora di Naev erano state sminuzzate dagli uncini del kraken, e la
puzza di intestini e vomito aleggiava nell’aria; solo le Quattro Figlie
sapevano come Tric lo sopportasse, con quel suo olfatto acutissimo.
Conoscendo piuttosto bene l’odore di merda e morte, Mia cercò
semplicemente di mettere a suo agio la donna. Non c’era nulla che potesse
fare davvero; se la perdita di sangue non l’avesse uccisa, l’infezione
avrebbe finito il lavoro. Sapendo quale destino attendeva Naev, Mia si rese
conto che sarebbe stato compassionevole porre fine alle sue sofferenze.
Staccando la stoffa dalla pancia straziata di Naev, Mia cercò qualcosa
con cui fasciare le ferite e infine si accontentò del tessuto attorno alla faccia
della donna. Mentre toglieva il velo dalla testa di Naev, percepì Messer
Cortese crescere e sospirare, bevendo l’impennata di terrore nauseante che
altrimenti l’avrebbe fatta urlare.
Tuttavia ci andò vicino.
«’Bisso e sangue…» mormorò.
«Cosa c’è?» Tric lanciò un’occhiata alle sue spalle e per poco non cadde
dal posto di guida. «Madre nera della notte… il suo volto…»
“Figlie, che faccia…”
Definirla sfigurata sarebbe stato come chiamare un coltello nel cuore un
“lieve inconveniente”. La carne di Naev era tesa e contorta in un nodo nel
punto in cui avrebbe potuto esserci il suo naso. Il labbro inferiore era
afflosciato come un figliastro malmenato, quello superiore arricciato
all’indietro a mostrare i denti. Nella sua carne erano intagliati cinque solchi
profondi, come se la sua faccia fosse d’argilla e qualcuno ne avesse preso
una manciata e strizzato. Eppure quella bruttezza era incorniciata da
bellissimi riccioli color biondo ramato.
«Cosa può aver causato… questo?»
«Non ne ho idea.»
«Amore» sussurrò la donna, colando saliva sulle labbra maciullate.
«Solo amore.»
«Naev…» fece per dire Mia. «Le tue ferite…»
«Male.»
«Tutt’altra cosa rispetto a bene.»
«Portate Naev alla Chiesa. Lei ha molto da fare prima di incontrare la
Signora benedetta.»
«Siamo a due cambi dalle montagne» disse Tric. «Forse più. E anche se
ci arrivassimo, non saresti in condizioni di arrampicarti.»
La donna fece un rumore con la lingua e tossì sangue. Si portò una mano
al collo, spezzò un filo di cuoio e tirò fuori una fiala argentea. Cercò di
mettersi a sedere, ma gemette dal dolore. Mia la spinse di nuovo giù.
«Non devi…»
«Toglile le mani di dosso!» ringhiò Naev. «Aiutala ad alzarsi.
Trascinala.» Fece un cenno verso il fondo del carro. «Via da questo sangue,
dove il legno è pulito.»
Mia non aveva idea di cosa avesse intenzione di fare la donna, ma
obbedì e trasportò Naev attraverso la pozza che si stava rapprendendo fino
al retro del carro. E lì la donna usò i denti per togliere il tappo alla fiala e
rovesciò il contenuto sulle assi incomplete.
Altro sangue.
Rosso acceso, come da una ferita appena aperta. Mia si accigliò quando
Messer Cortese le si raggomitolò sulla spalla, scrutando attraverso la cortina
dei suoi capelli. E mentre Naev trascinava le dita tra la pozza, il gatto che
era ombre fece del suo meglio per imitare delle fusa, facendo scorrere un
brivido lungo la schiena di Mia.
«… interessante…»
Mia si rese conto che Naev stava scrivendo. Come se la pozza fosse una
tavoletta e il suo dito il pennello. Le lettere erano ashkahi: le riconobbe
grazie ai suoi studi, ma il rituale stesso…
«È stregoneria del sangue» mormorò.
Ma era impossibile. La magika degli Ashkahi si era estinta con la caduta
dell’impero. Nessuno aveva più visto veri venefici del sangue da…
«Come fai a conoscerla? Quelle arti sono morte da cent’anni.»
«Non tutto ciò che è morto muore davvero» gracidò Naev. «La Madre
tiene… solo ciò che le serve.»
La donna rotolò sulla schiena, tenendosi la pancia straziata.
«Dirigetevi verso le montagne… la più semplice di tutte.» Mia giurò di
poter vedere lacrime negli occhi della donna. «Non darle la fine, ragazza.
Metti da parte la pietà. Se la Signora benedetta… dovesse prenderla, così
sia. Ma non aiutare Naev sul suo cammino. Lei ha sentito?»
«… Ti ho sentito.»
Naev le prese la mano. La strinse. E poi scivolò di nuovo nell’oscurità.
Mia fasciò le ferite meglio che poteva, immersa nel sangue fino ai polsi,
poi prese il suo mantello dalle bisacce di Bastardo (l’animale cercò di
morderla) e lo arrotolò sotto la testa di Naev. Quindi si unì a Tric al posto di
guida e scrutò le montagne più avanti. Una catena di grandi speroni neri si
estendeva da nord a sud, alcuni alti abbastanza da avere la punta ricoperta
di neve. Uno assomigliava quasi a un volto torvo, proprio come descritto da
Naev. Un’altra lunga catena poteva essere il muro rotto che aveva
menzionato. E annidata accanto a uno sperone che ricordava un vecchio
triste, Mia vide una vetta che rispondeva ai requisiti.
Era del tutto nella media, per quanto potevano esserlo possenti guglie di
granito preistorico. Non abbastanza alta da essere ricoperta di neve, né
evocava alcun paragone con facce o figure. Era solo una normale
protuberanza di roccia antica là fuori in quel deserto rosso sangue. Una che
non avresti degnato di una seconda occhiata.
«Laggiù» disse Tric, indicando lo sperone.
«Già.»
«Chissà perché non hanno scelto qualcosa di un tantino più plateale.»
«Credo che sia proprio questo il punto. Chiunque cerchi un covo di
assassini probabilmente non inizierebbe dalla montagna più noiosa di tutta
la creazione.»
Tric annuì e le regalò un sorriso. «Saggezza, Figlia Pallida.»
«Non temere, Dominus Tric.» Gli restituì il sorriso. «Non lascerò che mi
dia alla testa.»
Proseguirono per altri due cambi, con Tric al posto di guida e Mia al fianco
di Naev. Bagnò un panno e inumidì quelle labbra deformi, domandandosi
chi o cosa avesse potuto mutilare la faccia della donna a quel modo. Naev
parlava come febbricitante, rivolgendosi a qualche fantasma e chiedendogli
di aspettare. Allungò la mano verso il nulla, una volta, come per
accarezzarlo. E quando lo fece, quelle labbra si contorsero in un’orrenda
parodia di un sorriso. Messer Sottile sedette accanto a lei per tutto il tempo.
Facendo le fusa.
Fiori e Bastardo erano entrambi esausti e Mia temeva che uno di loro
potesse azzopparsi da un momento all’altro. Sembrava crudele (perfino nei
confronti di Bastardo) farli correre inutilmente accanto al carro. Tric e Mia
avevano superato il punto di non ritorno; o sarebbero arrivati alla Chiesa
Rossa o sarebbero morti ora. Lei aveva visto cavalli selvatici vagare per le
brulle colline pedemontane e supponeva che dovesse esserci dell’acqua da
qualche parte nelle vicinanze. E così, pur riluttante, propose di lasciar liberi
i due cavalli.
Tric parve rattristato, ma capì che era la scelta più saggia. Fecero
fermare il carro e il ragazzo slegò Fiori, lasciando che lo stallone bevesse a
fondo dal suo otre. Accarezzò con affetto il collo del cavallo e gli sussurrò
piano.
«Sei stato un amico leale. Confido che ne troverai un altro. Sta’ attento
ai kraken.»
Gli diede una pacca sulle zampe posteriori e l’animale galoppò verso est
lungo la catena montuosa. Mia slegò Bastardo e lo stallone la guardò torvo
perfino mentre gli svuotava in gola un otre intero. La ragazza infilò una
mano nelle bisacce e gli offrì l’ultimo zuccherino sul palmo rivolto verso
l’alto.
«Te lo sei guadagnato. Suppongo che ora tu possa tornare a Ultima Spes,
se vuoi.»
Lo stallone abbassò la testa e mordicchiò delicatamente il cubetto dal
suo palmo. Nitrì gettando indietro la criniera e le strofinò il muso contro la
spalla. E, mentre Mia sorrideva e gli dava una pacca sulla guancia, Bastardo
aprì la bocca e le diede un bel morso proprio sopra il seno sinistro.
«Brutto figlio di una…»
Lo stallone schizzò via per il deserto mentre Mia si metteva a saltellare,
tenendosi il petto e maledicendo il cavallo nel nome dei Tre Soli, delle
Quattro Figlie e di chiunque fosse in ascolto. Bastardo seguì Fiori verso est,
scomparendo nella foschia polverosa.
«Posso darti un bacetto proprio lì, se vuoi» sorrise Tric.
«Oh, smamma!» sbraitò Mia, gettandosi sul carro e rotolandosi sul
pianale. C’era sangue sulle sue dita quando toccò il morso, e sulla pelle
stava già comparendo un livido quando guardò dentro la camicia.
Ringraziando le Figlie per la prima volta nella sua vita di non essere una
ragazza più formosa, sibilò sottovoce mentre Messer Cortese rideva dalla
sua ombra.
«Era proprio un bastardo…»

Naev si stava spegnendo rapidamente e non potevano permettersi altre


soste: Mia temeva che la donna non sarebbe durata un altro cambio, e
l’indomani sarebbe stato il Primo di Septimus. Se non avessero trovato la
Chiesa al più presto, sarebbe stato tutto inutile. Adesso si trovavano nelle
colline pedemontane e le vette si incurvavano attorno a loro come le braccia
di un amante. Mia aveva letto che spesso i pulvispettri dimoravano dove i
venti ululavano di più e aguzzò le orecchie per udire la loro risata
caratteristica nella brezza sussurrante.
Il sangue si era coagulato sul pianale del carro ed era incrostato di
mosche. Lei faceva del suo meglio per tenerle lontane dalla pancia di Naev,
anche se sapeva che era spacciata. La determinazione di Naev era venuta
meno: quando era priva di sensi gemeva di continuo, mentre quando era
sveglia urlava semplicemente fino a perdere di nuovo conoscenza. Era nel
mezzo di una serie di urli quando Tric fece fermare il carro. Mia alzò lo
sguardo a quell’assenza di movimento dopo lunghi cambi a viaggiare, la
voce impregnata di fatica.
«Perché ci siamo fermati?»
«A meno che tu non riesca ad attaccare le ali a queste macchine
sputatrici,» disse Tric indicando i cammelli brontolanti «siamo arrivati il
più lontano possibile.»
La montagna più semplice si innalzava davanti alla carovana di cammelli
in dirupi scoscesi, spaccature e capitomboli tutt’attorno. Mia si guardò in
giro, non vedendo nulla e nessuno fuori dall’ordinario. Si sporse verso il
basso e afferrò la spalla di Naev, gridando più forte delle sue urla.
«Come proseguiamo?»
La donna si raggomitolò e farfugliò parole insensate, artigliandosi la
pancia marcia. Tric lasciò il posto di guida e si mise accanto a Mia, il volto
torvo. La puzza di rifiuti umani e di sangue imputridito era opprimente. Il
dolore in mostra era troppo da sopportare.
«Mia…»
«Ho bisogno di fumare» ringhiò la ragazza.
Rotolò giù dal carro, e Tric le balzò accanto nell’istante in cui lei si
accendeva un sigaretto. Il vento le ghermì la frangia mentre prendeva una
lunga tirata. Aveva le dita incrostate di sangue. Naev rideva e sbatteva la
nuca contro il pianale del carro.
«Dovremmo porre fine alle sue sofferenze» disse Tric. «È un atto di
pietà.»
«Lei ci ha detto di non farlo.»
«Sta soffrendo, Mia. Madre Nera, ascoltala.»
«Lo so! L’avrei fatto al cambio di ieri, ma lei mi ha chiesto di non farlo.»
«Allora sei felice di lasciarla morire urlando?»
«Come cazzo faccio a sembrarti felice?»
«Be’, cosa facciamo adesso? Questa è la montagna più semplice nel
raggio di miglia, fin dove posso vedere. Io non vedo nessun campanile. E
tu? Ci giriamo attorno finché non stramazziamo a terra dalla sete?»
«Non ne so più di te. Ma Naev ci ha detto di dirigerci da questa parte.
Quel veneficio di sangue non era così tanto per fare. Qualcuno sa che siamo
qui.»
«Già, i fottuti pulvispettri! La sentiranno urlare da miglia di distanza!»
«Dunque è la pietà o la paura a spingerti, Dominus Tric?»
«Io non ho paura di nulla» ringhiò lui.
«Messer Cortese può fiutarla su di te. E anch’io.»
«Che ti prenda la Mannaia» sibilò lui, estraendo il coltello. «Ora metterò
fine a tutto questo.»
«Fermati.» Mia lo afferrò per il braccio. «Non farlo.»
«Lasciami!» Tric schiaffò via le sue dita.
La mano di Mia andò allo stiletto, quella di Tric alla scimitarra. Le
ombre attorno a lei si allargarono e lunghi viticci si allungarono dalle pietre,
ondeggiando come a una musica che solo esse potevano udire.
«Lei è il nostro unico modo per trovare la Chiesa» disse Mia. «Del resto
è colpa mia se quei kraken l’hanno ferita. E lei mi ha chiesto di non
ucciderla.»
«Nello stato in cui è, non riuscirebbe a trovare le sue brache per fare una
pisciata. E io non le ho promesso un bel niente.»
«Non estrarre quella spada, Dominus Tric. Altrimenti le cose finiranno
male per entrambi.»
«Ti avevo scambiata per una persona fredda, Mia Corvere.» Scosse il
capo. «Ma non avevo capito quanto. Dove tieni il cuore che dovrebbe
essere dentro il tuo petto?»
«Continua così e ti darò da mangiare il tuo, bastardo.»
«Forse sarò un bastardo» sbraitò Tric. «Ma sei tu quella che decide di
essere una fregna a ogni cambio della sua vita.»
Mia tirò fuori il coltello e sorrise.
«Questa è la cosa più dolce che tu mi abbia mai detto.»
Tric estrasse la scimitarra e tenne i suoi graziosi occhi color nocciola
fissi in quelli di Mia. Nello sguardo della ragazza ribollivano confusione e
rabbia. Era come una densa zuppa dentro la sua testa, che metteva a tacere
il buon senso che urlava in fondo. Si rese conto che voleva uccidere questo
ragazzo. Squarciarlo dalla pancia alla gola e lavarsi le mani dentro di lui.
Inzupparsi fino ai gomiti e dipingersi labbra e seni con il suo sangue. Le
facevano male le cosce a quel pensiero. Il suo respiro accelerò quando
premette una mano tra le gambe; omicidio e lussuria le ruzzolavano dentro
la testa quando Messer Cortese le sussurrò dalla sua ombra.
«… questa non sei tu…»
«Vattene» sibilò lei. «Alla Mannaia, demone.»
«… questi pensieri non sono i tuoi…»
Tric stava avanzando, gli occhi stretti come tagli di coltello e le vene che
risaltavano sulla gola. Aveva il respiro affannoso e le pupille dilatate. Mia
lanciò un’occhiata sotto la sua cintura e si accorse che era duro: c’era una
protuberanza nelle sue brache, e quel pensiero le fece accelerare il respiro.
Sbatté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi e immaginò la lama
che scivolava dentro e fuori dal petto di Tric, e lui che infilzava lei, sapore
di rame sulla sua lingua…
«Questo non è giusto…» mormorò Mia.
Tric eseguì un affondo, un colpo spazzante che le passò sopra il capo
quando lei ondeggiò. Mia mirò un calcio al suo inguine, ma lui la bloccò
con un ginocchio e per un attimo lei fu tentata di abbassarsi. Gli pugnalò la
pancia, sapendo che tutto questo era sbagliato, che tutto questo era
sbagliato, ma trattenne il colpo all’ultimo momento e rotolò da un lato
mentre Tric vibrava un altro colpo verso la sua testa. Stava sogghignando
come un pazzo e quel pensiero fece divertire anche lei. Mia cercò di non
ridere e di superare il suo desiderio di ucciderlo e di scoparlo, entrambe le
cose assieme, giacendo con Tric dentro di lei mentre si trafiggevano, si
mordevano e morivano dissanguati sulla sabbia.
«Tric, fermati» ansimò lei.
«Vieni qui…»
Il petto di Mia si gonfiava, la mano protesa mentre si avvicinava. In
preda ai rantoli. Al desiderio.
«C’è qualcosa di sbagliato. Questo è sbagliato.»
«Vieni qui» ripeté lui, braccandola sulla sabbia, le lame alzate.
«… questo non è reale…»
Mia scosse il capo e cercò di scacciare il pizzicore dai suoi occhi.
«… tu sei mia corvere…» disse Messer Cortese. «… ricorda…»
Mia tenne la mano protesa e la sua ombra tremolò, allungandosi dai suoi
piedi e racchiudendo quella del ragazzo. Tric rimase incollato alla sabbia e
lei indietreggiò, le braccia sollevate come per respingere un colpo. Il
coltello era pesante nella sua stretta e la trascinava indietro, la sua mente
invasa dal pensiero di conficcarlo dentro di lui mentre lui si conficcava
dentro di lei ma no, NO, quella non era lei (“questa non sono io”) e con un
urlo disperato scagliò via la lama.
Cadde in ginocchio, poi si accasciò sulla pancia stringendo gli occhi.
Avvertì sabbia tra i denti quando scosse il capo, tenendo a bada lussuria e
omicidio, concentrata sul pensiero che Messer Cortese le aveva donato,
aggrappandosi a esso come un uomo che stava affogando con una
pagliuzza.
«Io sono Mia Corvere» mormorò. «Io sono Mia Corvere…»
Un lento battito di mani.
Mia sollevò lo sguardo a quel suono cupo che le riecheggiava nella testa.
Vide delle figure attorno a lei, abbigliate di rosso come il deserto, le facce
coperte. Erano una dozzina, radunate attorno a un uomo esile con una spada
ricurva alla cintura. L’elsa era foggiata con sembianze di figure umane con
teste feline, maschio e femmina nudi e intrecciati. La lama era di neracciaio
ashkahi. b
«Mia?» disse Tric. Adesso la voce era proprio la sua.
Mia guardò l’uomo che applaudiva dalla sua culla tra la polvere. Aveva
una corporatura muscolosa ed era bello quanto un manipolo di diavoli. I
suoi capelli erano ricci, scuri e punteggiati di grigio. Il volto era quello di
un uomo sulla trentina, ma gli intensi occhi bruni come cacao tradivano
molti più anni. Un mezzo sorriso indugiava agli angoli delle labbra, come
se avesse in mente di rubare l’argenteria.
«Bravi» disse. «Non avevo mai visto nessuno resistere così bene alla
Discordia dai tempi di lord Cassius.»
Quando l’uomo venne avanti, gli altri si fecero da parte come
rispondendo a un segnale. Cominciarono a scaricare la carovana e
staccarono i cammelli esausti. Quattro di loro sollevarono Naev in una
barella e la portarono verso il dirupo. Mia non riusciva a vedere nessuna
corda. Nessun…
«Come ti chiami?»
«Mia, maestro. Mia Corvere.»
«E chi è il tuo Shahiid?»
«Mercurio di Godsgrave.»
«Ah, finalmente Mercurio ritrova il coraggio di inviare un altro agnello
alla Chiesa del Massacro?» L’uomo protese la mano. «Interessante.»
Mia la strinse e lui la tirò su dalla polvere. La ragazza aveva la bocca
secca e il cuore le batteva forte. Nelle sue vene riverberavano echi di
omicidio e desiderio.
«Tu sei Tric.» L’uomo si voltò verso il ragazzo con un sorriso. «Che
porta il sangue e non il nome del clan Tredrachi. Lo studente di Adiira.»
Tric annuì lentamente, scostando le ciocche dagli occhi. «Sì.»
«Io mi chiamo Mouser, servitore della Nostra Signora dell’omicidio
benedetto e Shahiid di Tasche nella sua Chiesa Rossa.» Un piccolo inchino.
«Credo che abbiate qualcosa per noi.»
La domanda rimase sospesa come una spada sopra la testa di Mia. Mille
cambi. Illuminotti insonni, dita insanguinate e veleno che le colava dalle
mani. Ossa rotte, lacrime brucianti e una menzogna dopo l’altra. Tutto ciò
che aveva fatto, tutto quello che aveva perduto… tutto portava a questo.
Mia fece per prendere il borsello di denti alla cintura.
Provò un senso di gelo nella pancia.
«… No» mormorò.
Si tastò la cintura, poi la tunica, strabuzzando gli occhi dal panico
quando si rese conto che…
«Il mio tributo! È sparito!»
«Oh, cielo» disse Mouser.
«Ma ce l’avevo fino a poco fa!»
Mia esaminò le sabbie attorno a lei, temendo di averlo perso durante lo
scontro con Tric. Raspò tra la polvere, le lacrime agli occhi. Messer Cortese
si gonfiò e rotolò dentro il buio della sua ombra, ma perfino lui non poté
tenerne completamente a bada il terrore: il pensiero di aver fatto tutto
quanto per nulla… Strisciò tra la polvere, i capelli aggrovigliati davanti agli
occhi, mordicchiandosi il labbro e…
Clink, clink.
Alzò lo sguardo e vide un familiare borsello di pelle di pecora tenuto tra
dita agili.
Il sorriso di Mouser.
«Dovresti stare più attento, agnellino. Shahiid di Tasche, come ho detto.»
Mia si alzò e ghermì il borsello con un ringhio. Aprì il sacchetto, contò i
denti all’interno e li strinse in un pugno esangue. Squadrò l’uomo e per un
attimo la rabbia travolse il suo terrore. Dovette resistere all’impulso di
aggiungere i suoi denti alla collezione.
«È stata una cosa crudele» disse.
Il sorriso di Mouser si allargò, pur con la tristezza ancora ben visibile
agli angoli di quegli occhi vecchi.
«Benvenuta alla Chiesa Rossa» la salutò.

a. La “Pietra Filosofale”, com’era nota informalmente, era una sottile lancia di roccia al largo della
costa di Godsgrave, circondata da implacabili barriere coralline e profondità infestate da drachi. In
cima all’isolotto si trovava una fortezza estesa verso il basso, che secondo le dicerie era stata
scavata nella roccia da Niah in persona. In questa fossa, Godsgrave gettava qualunque criminale
non meritasse un’esecuzione immediata. La prigione traboccava di ladri e briganti, e gli
administratii sottopagati sembravano quasi del tutto indifferenti riguardo a provviste e cure
mediche, o al fatto che i galeotti fossero liberati al momento opportuno.
Una sentenza di un anno poteva facilmente arrivare fino a tre o cinque prima che i funzionari
della prigione trovassero il tempo per elaborare le scartoffie richieste. Pertanto, molti prigionieri
passavano gran parte del proprio tempo a riflettere a fondo sul concetto di ingiustizia, sulla natura
della criminalità e su come quel paio di stivali che avevano rubato non valesse davvero i cinque
anni di vita che era costato. Da qui, il nomignolo “Pietra Filosofale.”
A causa del sovraffollamento, il senato itreyano aveva escogitato un metodo ingegnoso e
divertente di controllo della popolazione noto come “la Calata”, che si teneva ogni tre anni,
durante il Carnivalé del verobuio. Comunque, un “incidente” inspiegato durante l’ultima Calata –
noto anche come la notte del Massacro del Verobuio – aveva portato alla distruzione di grandi
porzioni della Pietra Filosofale: la guglia stessa era parzialmente crollata. Da allora era stata
abbandonata: un involucro annesso vuoto, che si riteneva infestato dai fantasmi delle centinaia di
individui assassinati all’interno, gli orrori delle loro morti racchiusi nella pietra per l’eternità.
Bu!
b. Il neracciaio, noto anche come “antiferro”, era un metallo meraviglioso creato dagli stregoni
ashkahi prima della caduta dell’impero. Nero quanto il verobuio, non si arrugginiva né diventava
smussato, ed era possibile affilarlo fino all’inverosimile. Si diceva che i fabbri ashkahi tagliassero
a metà le loro incudini una volta completata una lama di neracciaio per dimostrarne il valore, una
pratica approvata con entusiasmo dalla gilda dei costruttori di incudini ashkahi.
Un famoso racconto narra di un ladro di nome Tariq che rubò una lama di neracciaio di
proprietà di un principe ashkahi. Nella sua fretta di fuggire dalla scena del crimine, il ladro lasciò
cadere la lama, che tranciò il pavimento e precipitò fino alle profondità della terra. La vampata di
fuoco liberata dalla ferita al mondo incendiò l’intera città. Da quel momento in poi, ad Ashkah la
pena per il furto divenne essere bruciati vivi: ogni ladro catturato ad Ashkah doveva essere legato
a un pilastro di pietra, poi gli veniva dato fuoco.
Certe persone rovinano la festa a tutti, non è vero?
CAPITOLO 8
SALVEZZA

«Due pezzi di ferro e dodici di rame» gracchiò il ragazzo. «Oggi


mangeremo come re. O regine. A seconda dei casi.»
«Cosa?» lo sbeffeggiò la ragazza sudicia accanto a lui. «Intendi
crocefissi in Via del Tiranno? Preferirei mangiare come un console, se per
te fa lo stesso.»
«Le ragazze non possono essere consoli, sorellina.»
«Non vuol dire che non possa mangiare come uno di loro.»
I tre monelli di strada erano accucciati in un vicolo non troppo lontano
dalla calca del mercato, un canestro di dolci raffermi posato accanto a
loro. Il primo era il tipetto dalle dita leste che era andato a sbattere contro
Mia al mercato. La seconda era una ragazzina con capelli biondi e sudici e
a piedi nudi. Il terzo era poco più grande dei suoi compagni, magro come
una grondaia e cattivo. Erano vestiti con abiti logori, anche se quello più
grosso indossava un’elegante cintura di coltelli in vita. I risultati della loro
mattinata di lavoro erano disposti davanti a loro: una manciata di monete e
un corvo d’argento con occhi d’ambra.
«Quello appartiene a me» disse Mia dietro di loro.
I tre si alzarono rapidamente e si voltarono a fronteggiare la loro
accusatrice. Mia era in piedi all’imboccatura del vicolo, i pugni sui fianchi.
Il ragazzo più grande estrasse un coltello dalla cintura.
«Ridatemelo subito» ordinò Mia.
«Oppure cosa?» replicò il ragazzo, sollevando la lama.
«O chiamerò i Luminatii. Vi taglieranno le mani e vi getteranno nel
Coro, se sarete fortunati. Altrimenti nella Pietra Filosofale.»
Il terzetto la omaggiò con una tornata di risate sbeffeggianti.
Il buio ai piedi di Mia si increspò. La paura dentro di lei scomparve.
Incrociando le braccia, gonfiò il petto, strinse gli occhi e parlò con una
voce che non riconosceva affatto come propria.
«Ridatemelo. Subito.»
«Smamma, puttanella» disse quello grosso.
La fronte di Mia si rabbuiò in un cipiglio. «… Puttanella?»
«Tagliala, Spadini» disse il ragazzo più giovane. «Falle un buco nuovo.»
Arrossendo, Mia scrutò il primo monello.
«Ti chiami Spadini? Oh, è perché porti dei coltelli, giusto?» Spostò lo
sguardo su quello più giovane. «Allora tu devi essere Pulci.» Quindi alla
ragazza: «Fammi indovinare: Vermi?». a
«Arguta» disse la bionda. Avvicinandosi con passo leggero dal lato di
Mia, tirò indietro un pugno e glielo conficcò nello stomaco.
Il fiato le lasciò i polmoni con un colpo di tosse gorgogliante quando
cadde in ginocchio. Sbattendo le palpebre su occhi accecati, Mia si tenne la
pancia cercando di non vomitare. Dentro di lei c’era stupore misto a
rabbia.
Nessuno l’aveva mai colpita prima.
Nessuno aveva osato.
Aveva visto sua madre fare a gara di intelletto innumerevoli volte nella
Dorsale. Aveva visto uomini ridotti a masse informi balbettanti da Domina
Corvere, donne spinte alle lacrime. E Mia aveva studiato bene. Ma le
regole dicevano che la parte lesa avrebbe dovuto reagire con una
frecciatina, non venire a prenderla a pugni come un teppista plebeo in un
vicol…
«Oh…» ansimò Mia. «Giusto.»
Spadini attraversò il vicolo e sbatté uno stivale contro le sue costole. La
bionda (che nella testa di Mia sarebbe rimasta per sempre Vermi) sorrise
allegramente quando lei vomitò pur non avendo nulla nello stomaco.
Voltandosi verso il monello più giovane, Spadini indicò il loro bottino.
«Raccoglilo e andiamocene. Ho…»
Spadini avvertì qualcosa di affilato e mortalmente freddo insinuarsi
nelle brache. Abbassò lo sguardo e vide lo stiletto che gli pungolava le
parti intime e un piccolo pugno che lo teneva stretto. Mia si era avvolta
attorno alla sua vita, premendo il pugnale di sua madre contro l’inguine del
giovane, il corvo sul pomello che guatava Spadini con due occhi d’ambra.
Il suo sussurro fu sommesso e letale.
«Puttanella, eh?»
Ora, se questo fosse un libro di racconti, gentili amici, e Mia ne fosse
l’eroina, Spadini avrebbe visto un’ombra dell’assassina che sarebbe
diventata e se la sarebbe filata con la coda tra le gambe. Ma la verità è che
quel ragazzo era alto due piedi più di Mia e pesava ottanta libbre più di lei.
E guardando la ragazza che aveva attorno alla cintura, non vide
l’assassino più temuto di tutta la Repubblica, ma solo una marmocchia che
non sapeva realmente come impugnare un coltello e con la faccia così
vicina al suo gomito che sarebbe bastato un bello strattone per mandarla
lunga distesa.
Così Spadini strattonò. E Mia non finì lunga distesa: fece proprio un
volo.
Cadde nel fango, tenendosi il naso rotto e accecata da lacrime di dolore.
Il ragazzo più giovane (che d’ora in poi sarebbe stato Pulci) raccolse il
pugnale caduto di Domina Corvere e sgranò gli occhi.
«Figlie, guardate questo!»
«Lanciamelo.»
Il ragazzo lo tirò con l’impugnatura in avanti. Spadini afferrò il pugnale
in volo e ne ammirò la fattura con sguardo avido.
«Cazzo di Aa, questo è vero necrosso…»
Pulci assestò un bel calcio nelle costole a Mia. «Una sgualdrina come te
dove ha preso…»
Una mano avvizzita calò sulla spalla del ragazzo, sbattendolo contro il
muro. Un ginocchio salutò il suo inguine e un bastone da passeggio nodoso
invitò la sua mascella a danzare. b Un colpo a due mani alla nuca lo fece
finire a terra sanguinante.
Il vecchio Mercurio era in piedi sopra di lui, abbigliato con un lungo
pastrano di cuoio battuto e il bastone da passeggio in una mano ossuta. I
suoi occhi azzurro ghiaccio erano stretti a osservare la scena e la ragazza
ferita stesa a terra. Guardò Spadini, le labbra arricciate all’indietro in un
ghigno.
«È a questo che vi piace giocare? Prendere a calci la palla?» Mirò uno
stivale crudele alle costole del giovane Pulci e fu ricompensato da uno
schianto nauseante. «Posso unirmi a voi?»
Spadini guardò torvo il vecchio, poi il suo compagno sanguinante.
Quindi, imprecando in modo osceno, sollevò lo stiletto di Domina Corvere
e lo scagliò verso la testa di Mercurio.
Era un bel lancio. Proprio in mezzo agli occhi. Ma invece di morire, il
vecchio afferrò la lama al volo, rapido come il lezzo sulle rive del Rosa. c
Infilandosi lo stiletto nel pastrano, Mercurio strinse il suo bastone e, con un
trillo netto, estrasse una lunga lama di necrosso nascosta dentro l’asta.
Avanzò verso Spadini e Vermi, brandendo la spada.
«Oh, regole liisiane, sì? Vecchia scuola? E sia, allora.»
Spadini e Vermi si scambiarono uno sguardo, gli occhi colmi di panico.
E, senza dire una parola, i due si voltarono e schizzarono lungo il vicolo,
lasciando il povero Pulci nel fango, privo di sensi.
Mia era carponi, con le guance macchiate di lacrime e sangue. Si
sentiva il naso scorticato e gonfio, rosso e pulsante. Non riusciva a vedere
bene né a pensare.
«Ti ho detto che quella spilla non ti avrebbe portato altro che guai»
borbottò Mercurio. «Avresti fatto meglio a darmi ascolto, ragazzina.»
Mia avvertì un calore nel petto e un pizzicore agli occhi. In quella
situazione, un altro ragazzino si sarebbe messo a piangere chiamando la
mamma o avrebbe urlato che il mondo era ingiusto. Invece tutto quanto – la
rabbia, l’affronto, il ricordo della morte di suo padre e dell’arresto di sua
madre, la brutalità e il tentativo di omicidio, a cui si aggiungevano ora un
furto e una baruffa in un vicolo in cui si era trovata dal lato sbagliato della
vittoria –, tutto ciò, dicevo, si accatastò dentro di lei come esche su un falò
e scoppiò in una fiamma luminosa e furibonda.
«Non chiamatemi “ragazzina”» sbraitò Mia, asciugandosi le lacrime
dagli occhi. Cercò di trascinarsi appoggiandosi al muro, ma si accasciò di
nuovo a terra. «Sono la figlia di un tribuno. Primogenita di una delle dodici
casate nobili. Io sono Mia Corvere, dannazione a voi.»
«Oh, so chi sei» disse il vecchio. «La domanda è: chi altro lo sa?»
«… Cosa?»
«Chi altro sa che sei la marmocchia dell’Incoronatore, signorinella?»
«Nessuno» ringhiò lei. «Non l’ho detto a nessuno. E non chiamatemi
nemmeno signorinella.»
L’uomo tirò su col naso. «Non sei stupida quanto pensavo, allora.»
Il vecchio guardò lungo il vicolo, poi verso il mercato. Infine spostò gli
occhi sulla ragazza sanguinante ai suoi piedi e, con qualcosa di simile a un
sospiro, le offrì la mano.
«Vieni, piccolo Corvo. Diamo una bella raddrizzata al tuo becco.»
Mia si passò il pugno sulle labbra e lo trovò macchiato di sangue.
«Non vi conosco affatto, signore» disse. «E mi fido di voi ancora meno.»
«Be’, queste sono le prime parole sensate che ti ho sentito pronunciare.
Ma se ti volessi morta, ti lascerei a cavartela per conto tuo. Perché da sola,
qua fuori, saresti morta entro l’illuminotte.»
Mia rimase dov’era, la sfiducia evidente nei suoi occhi.
«Ho del tè» sospirò Mercurio. «E torta.»
La ragazza si coprì la pancia che brontolava con entrambe le mani.
«… Che tipo di torta?»
«Quella gratis.»
Mia arricciò la bocca, si leccò le labbra e sentì il sapore di sangue.
«La mia preferita.»
E prese la mano del vecchio.

«Eio ho detto che non ho intenzione di indossarla!» tuonò Tric.


«Le mie scuse» disse Mouser. «Ho forse dato l’impressione che fosse
una domanda?»
Ai piedi della montagna più semplice, Mia stava facendo del suo meglio
per mantenere la testa sulle spalle. Gli uomini della Chiesa erano radunati
presso la facciata del dirupo, ciascuno con le braccia cariche di
equipaggiamento o un cammello stanco al seguito. Mouser teneva in mano
delle bende per gli occhi: aveva insistito affinché Mia e Tric le
indossassero. Per qualche motivo imperscrutabile, il ragazzo si era infuriato
per quella proposta. Mia poteva praticamente vedere rizzarsi i peli sulla
schiena del giovane dweymeri.
Anche se non avvertiva nessun residuo della strana mistura di rabbia e
lussuria di cui era stata colma poco prima, Mia pensò che magari il suo
amico potesse essere ancora sotto quell’influenza. Si voltò verso Mouser.
«Shahiid, le nostre menti non ci appartenevano quando siamo arrivati…»
«La Discordia. Un veneficio posto sulla Montagna Silente in epoche
passate.»
«Lo sta ancora influenzando.»
«No. Scoraggia coloro che arrivano alla Chiesa senza… invito. Ora siete
i benvenuti qui. Se indosserete le bende.»
«Le abbiamo salvato la vita.» Tric gesticolò verso Naev. «E ancora non
vi fidate di noi?»
Mouser si infilò i pollici nella cintura e mostrò il suo sorriso da
argenteria. La sua voce era intensa come aureovino delle Dodici Botti. d
«Siete ancora vivi, giusto?»
«Tric, che differenza fa?» chiese Mia. «Mettitela e basta.»
«Io non indosserò nessuna benda.»
«Ma siamo arrivati fin qui…»
«E non andrete oltre» aggiunse Mouser. «Non con occhi in grado di
vedere.»
Tric incrociò le braccia e lo guardò torvo. «No.»
Mia sospirò, passandosi la mano attraverso la frangia. «Shahiid Mouser.
Gradirei un momento per conferire con il mio esimio collega.»
«Fai in fretta» rispose lo Shahiid. «Se Naev muore proprio sulla soglia,
l’Oratore Adonai non ne sarà compiaciuto. Sarà colpa vostra se la Nostra
Signora dovesse reclamarla.»
Mia si domandò cosa intendesse lo Shahiid: le ferite del kraken erano
fatali e Naev era già praticamente morta. Tuttavia prese la mano di Tric e lo
trascinò per le colline friabili. Fuori portata d’udito, si girò verso il ragazzo,
sentendo crescere lentamente dentro di sé la collera.
«Denti della Mannaia, cos’hai che non va?»
«Non lo farò. Preferirei tagliarmi la gola da solo.»
«Ci penseranno loro, se continui con questa scenata!»
«Lascia che ci provino.»
«È così che fanno le cose, perciò è così che faremo. Capisci qual è il
nostro ruolo qui? Siamo accoliti! Il fondo della pila! O lo facciamo, o loro
ci si fanno.»
«Non indosserò una benda.»
«Allora non entrerai nella Chiesa.»
«Che se la prenda la Mannaia, la Chiesa!»
Mia oscillò sui talloni e un cipiglio le rabbuiò la fronte.
«… lui ha paura…» sussurrò Messer Cortese dalla sua ombra.
«Tu sta’ zitto, stronzetto dal cuore nero» sbottò Tric.
«Tric, di cos’hai paura?»
Messer Cortese annusò con il suo non-muso e sbatté le palpebre con i
suoi non-occhi.
«… del buio…»
«Zitto!» tuonò Tric.
Mia sbatté le palpebre, il volto che assumeva un’espressione di
improvvisa incredulità. «Non puoi dire sul serio…»
«… le mie scuse, non ero stato informato di essere stato relegato al
ruolo di intermezzo comico…»
Mia cercò di intercettare lo sguardo di Tric, ma il ragazzo stava fissando
i propri piedi.
«Tric, mi stai davvero dicendo che sei venuto a addestrarti tra i più
temuti assassini della Repubblica e che hai paura del fottuto buio?»
Tric era pronto a urlare di nuovo, ma le parole gli morirono sulla lingua.
A denti stretti e con le mani che gli si appallottolavano in pugni, quei
tatuaggi grossolani si contorsero mentre faceva una smorfia.
«… Non si tratta del dannato buio.» Un sospiro sommesso. «Solo… non
essere in grado di vedere. Io…»
Si accasciò col sedere a terra e diede un calcio a un pezzo di argilla,
facendolo finire giù per il pendio.
«Oh, che cazzo…»
Un senso di colpa montò nel petto di Mia, sommergendo la rabbia. Si
inginocchiò accanto al Dweymeri con un sospiro e gli mise una mano sul
braccio per rassicurarlo.
«Mi dispiace, Tric. Cos’è successo?»
«Brutte cose.» Tric si sfregò gli occhi. «Soltanto… brutte cose.»
Lei gli prese la mano e strinse, estremamente consapevole di quanto
stava arrivando ad apprezzare questo strano ragazzo. Vederlo così, che
rabbrividiva come un bambino…
«Posso portarla via» si offrì.
«… Portare via cosa?»
«La tua paura. Be’, Messer Cortese può farlo, comunque. Per un po’. Lui
la beve. La respira. È ciò che lo mantiene qui. Lo fa crescere.»
Tric guardò accigliato la creatura d’ombra, gli occhi colmi di repulsione.
«… La paura?»
Mia annuì. «Sono anni che beve la mia. Non è sufficiente a farmi
dimenticare il buonsenso, bada bene. Ma è quanto basta per farmi affrontare
a testa alta un combattimento con i coltelli o uno scippo. Mi rende forte.»
«Questo non ha senso» si accigliò Tric. «Se mangia la tua paura, non
impari mai ad affrontarla da sola. Non è un punto di forza: è una
stampella…»
«Be’, è una stampella che sono disposta a prestarti, Dominus Tric.» Mia
lo guardò torvo. «Perciò, invece di farmi una ramanzina sui miei difetti,
preferirei che dicessi: “Grazie, Figlia Pallida” e portassi il tuo misero culo
dentro la Chiesa prima che ci taglino la gola e ci lascino ai kraken.»
Il ragazzo fissò le loro mani congiunte, poi annuì lentamente.
«… Grazie, Figlia Pallida.»
Lei si alzò e lo tirò in piedi. Non fu necessario chiedere nulla a Messer
Cortese: fluì semplicemente lungo la giuntura dove le loro ombre si
sovrapponevano. Immediatamente l’ansia cominciò a divorare le viscere di
Mia, vermi freddi che le rodevano la pancia. Ma fece del suo meglio per
schiacciarli con i suoi stivali mentre Tric la accompagnava da Mouser lungo
il terreno sconnesso.
«Siete pronti, allora?» chiese lo Shahiid.
«Lo siamo» confermò Tric.
Mia sorrise nel sentire la sua voce, più profonda quasi di un’ottava. Lui
le strinse le dita e chiuse gli occhi, permettendo a Mouser di legare la
benda. Dopo aver fatto lo stesso con Mia, lo Shahiid afferrò le loro mani e li
guidò lungo il terreno accidentato. Lei udì pronunciare una parola: qualcosa
di antico e vibrante di potere. E poi udì un rumore di pietra, che raschiava
ed emetteva un boato fragoroso. La terra tremò sotto di lei e la polvere si
levò in una coltre asfissiante. Avvertì il fruscio di un vento e sentì nell’aria
un odore arkemico pungente e oleoso.
Delle mani presero le sue e la guidarono in avanti per il terreno spezzato
e poi su roccia liscia. La temperatura calò all’improvviso e la luce al di là
delle sue palpebre scemò lentamente. Adesso erano in un luogo buio;
ipotizzò che fossero nel ventre della montagna. Mouser la condusse per
mano e raggiunsero le scale, salendo sempre più in alto in una spirale che si
andava allargando. Ruotando e svoltando, un lieve senso di vertigini le
riempì la mente quando ogni traccia della direzione da cui era venuta o di
quella dove stavano andando scomparve. Su. Giù. Sinistra. Destra. Concetti
privi di significato. Nessuna memoria. Provò un desiderio quasi travolgente
di richiamare Messer Cortese per sentire quel tocco familiare senza il quale
non sapeva quasi più vivere.
Finalmente, dopo quelle che parvero ore, Mouser lasciò andare la sua
stretta. Per un momento lei vacillò. Immaginò di trovarsi sulla vetta di una
montagna, senza nient’altro attorno a lei tranne una caduta verso la morte,
allargando le mani per mantenere l’equilibrio. Con il respiro affannoso.
«Torna» sussurrò.
Percepì il non-gatto precipitarsi da lei come una piena, piombando sulle
farfalle che aveva nello stomaco e smembrandole una a una. La benda fu
rimossa e lei sbatté le palpebre: vide una sala enorme, più grande del ventre
della cattedrale più imponente. Mura e pavimento di granito scuro, liscio
come pietre di fiume. Una soffusa luce arkemica brillava da bellissime
finestre di vetro colorato, dando l’impressione che fosse la soliluce
dall’esterno, anche se in realtà a questo punto potevano trovarsi di varie
miglia all’interno della montagna. Tric era in piedi accanto a lei e si
guardava attorno. Vasti archi a punta ed enormi pilastri di pietra erano
disposti in cerchio, timpani di roccia svettanti che sembravano intagliati nel
centro della montagna stessa.
«Per Trelene e le sue grandi… morbide…»
Quando il ragazzo guardò verso il cuore della stanza gli mancarono le
parole. Mia seguì i suoi occhi e vide la statua di una donna sulla cui veste
color ebano erano appese gemme come stelle. La figura era colossale e
torreggiava per quaranta piedi sopra le loro teste, intagliata in una
scintillante pietra nera. Piccoli anelli di ferro erano inseriti nella roccia, più
o meno ad altezza della testa. Nelle mani reggeva una bilancia e una
gigantesca spada letale, ampia come un tronco d’albero e affilata come
ossidiana. Il suo volto era bellissimo. Terribile e freddo. Mia avvertì un
brivido correrle lungo la schiena: gli occhi della statua la seguirono quando
lei si avvicinò.
«Benvenuti nella Sala degli Elogi» disse Mouser.
«Chi è quella?»
«La Madre.» Mouser si toccò gli occhi, poi le labbra, poi il petto. «La
Mannaia. La Nostra Signora dell’omicidio benedetto. L’Onnipotente Niah.»
«Ma… è bellissima» mormorò Mia. «Nelle immagini che ho visto, è una
mostruosità.»
«La Luce è piena di menzogne, accolita. I Soli servono solo ad
accecarci.»
Mia vagò per la sala imponente, facendo scorrere le mani sui motivi a
spirale incisi nella pietra. Nelle pareti erano poste centinaia di piccole porte
da due piedi quadrati, impilate l’una sull’altra come in un grande mausoleo.
I suoi passi risuonavano come campane in quello spazio vasto. L’unico
suono era la melodia di quello che poteva essere un coro, sospesa
incorporea nell’aria. L’inno era stupendo, privo di parole e senza fine. Quel
luogo le dava una sensazione diversa da qualunque altro lei avesse mai
visitato. Non c’erano altari né rivestimenti dorati, ma per la prima volta
nella sua vita Mia ebbe l’impressione di trovarsi in un luogo… santificato.
Messer Cortese le sussurrò all’orecchio.
«… mi piace qui…»
«Cosa sono questi nomi, Shahiid?» chiese Tric.
Mia sbatté le palpebre e si rese conto che sul pavimento sotto di loro
erano incisi nomi. A centinaia. A migliaia. Intagliati in lettere minuscole su
pietra nera levigata.
«I nomi di ogni vita reclamata da questa Chiesa della Madre.» L’uomo si
inchinò alla statua sopra di loro. «Qui onoriamo coloro che sono stati presi.
La Sala degli Elogi, come ho detto.»
«E le tombe?» chiese Mia indicando con il capo le pareti.
«Ospitano i corpi dei servitori della Madre, passati dal suo lato. Assieme
a coloro che abbiamo preso, qui onoriamo anche i caduti.»
«Ma non ci sono nomi intagliati su queste tombe, Shahiid.»
Mouser fissò Mia mentre il coro spettrale cantava nell’oscurità.
«La Madre conosce i loro nomi» replicò infine. «Nient’altro ha
importanza.»
Mia sbatté le palpebre e alzò lo sguardo sulla statua che incombeva sopra
le loro teste. La dea a cui questa Chiesa apparteneva. Terribile e bellissima.
Inconoscibile e potente.
«Venite» disse lo Shahiid Mouser. «Le vostre camere vi attendono.»
Li condusse fuori dalla sala, attraverso uno dei grandi archi a punta.
Un’ampia rampa di scale a chiocciola saliva nell’oscurità. Mia rammentò lo
scudiscio di salice del vecchio Mercurio e le maledette scale della biblioteca
che le aveva fatto salire e scendere di corsa così tante volte da aver perso il
conto. Sorrise a quel ricordo mentre ringraziava il vecchio per
quell’esercizio che le permetteva di ascendere con falcate ampie e comode.
Salirono, seguiti dallo Shahiid di Tasche, silenzioso come la peste.
«Madre Nera» ansimò Tric. «Avrebbero dovuto chiamarla la Scalinata
Rossa…»
«Stai bene?» gli sussurrò lei. «Messer Cortese è stato d’aiuto?»
«Sì. È stato…» Il ragazzo scosse il capo. «Guardare dentro e trovare solo
acciaio… non ho mai provato nulla del genere. Alla malora la stampella.
Essere un tenebris dev’essere magnifico.»
Le scale sbucarono in un lungo corridoio. Degli archi si estendevano nel
buio privo di illuminazione, motivi a spirale su ogni parete. Lo Shahiid
Mouser si fermò fuori da un uscio di legno e lo aprì con una spinta. Mia
guardò dentro e vide un’ampia stanza, ammobiliata con bellissimo legno
scuro e un letto enorme coperto di lussuosa pelliccia grigia. Davanti a ciò, si
sentì il corpo dolorante: erano passate almeno due illuminotti dall’ultima
volta che aveva dormito…
«Le tue camere, accolita Mia» disse Mouser.
«Io dove sto?» chiese Tric.
«Più avanti. Gli altri accoliti sono già sistemati. Voi due siete gli ultimi
arrivati.»
«Quanti ce ne sono?» domandò Mia.
«Quasi trenta. Sono impaziente di vedere quali sono ferro e quali vetro.»
Tric annuì in segno di congedo e seguì Mouser lungo il corridoio. Mia
entrò e lasciò cadere lo zaino presso la porta. L’abitudine la costrinse a
controllare ogni angolo, cassetto e buco della serratura. Terminò guardando
sotto il letto prima di crollarci sopra. Meditò se slacciarsi gli stivali, ma
decise che era troppo stanca perché gliene importasse qualcosa. Lasciandosi
cadere tra i cuscini, precipitò in un sonno più profondo di quanto avesse
mai sperimentato.
Un gatto fatto di ombre si appollaiò sulla testiera, a vegliare sui suoi
sogni.

Mia si svegliò con il freddo sussurro di Messer Cortese nell’orecchio.


«… arriva qualcuno…»
Aprì gli occhi di colpo e si mise a sedere quando qualcuno bussò piano
alla porta. La ragazza estrasse il coltello e scostò i capelli dagli occhi
cisposi. Per un attimo si dimenticò dove si trovava. Era di nuovo nella sua
vecchia stanza sopra la bottega di Mercurio? O era tornata alle Costole, con
il suo fratellino addormentato accanto a lei, i genitori nella camera
accanto…
No.
“Non guardare…”
Parlò con esitazione. «Avanti?»
La porta si aprì piano, e una figura ammantata in vesti nere attraversò la
stanza per fermarsi ai piedi del letto. Mia sollevò cautamente la lama di
necrosso.
«Siete nella stanza sbagliata… o dalla ragazza sbagliata…»
L’intruso sollevò le mani. Tirò indietro il cappuccio e Mia vide riccioli
color biondo ramato e occhi familiari che scrutavano attraverso veli di
tessuto nero.
«Naev…?»
Ma era impossibile. Le interiora della donna erano state dilaniate dagli
uncini di un kraken. Dopo due cambi a marcire al sole, il suo sangue
doveva essere stato intriso di veleno. Nel nome della Mannaia, come faceva
a essere viva, e soprattutto a camminare e parlare?
«Dovresti essere morta…»
«Dovrebbe. Ma non lo è.» La donna magra si inchinò. «Grazie a lei.»
Mia scosse il capo. «Non mi devi nessun ringraziamento.»
«Più di un ringraziamento. Lei ha rischiato la vita per salvare Naev.
Naev non dimenticherà.»
Mia indietreggiò quando Naev estrasse una lama nascosta dall’interno
della manica e Messer Cortese si gonfiò nella sua ombra. Ma Naev passò il
coltello lungo la base della mano e dal taglio sgorgò sangue che gocciolò
sul pavimento.
«Lei ha salvato la vita di Naev» disse la donna. «Perciò ora Naev gliene
è debitrice. Sul suo sangue, al cospetto della Madre Notte, Naev lo giura.»
«Non devi farlo…»
«È fatto.»
Naev si sporse verso il basso e cominciò a slacciare gli stivali di Mia.
Lei lanciò un urlo e li nascose sotto di sé. La donna allungò le mani verso i
lacci della sua camicia, ma Mia gliele allontanò con uno schiaffo,
indietreggiando sul letto e tenendo in alto le proprie.
«Ora ascolta…»
«Lei deve spogliarsi.»
«Sei davvero dalla ragazza sbagliata. E molte persone offrono da bere,
prima.»
Naev si mise le mani sui fianchi. «Lei deve lavarsi prima di incontrare il
Culto. Se Naev può parlare francamente, lei puzza di cavallo e di
escrementi, i suoi capelli sono più unti di un pandolce liisiano ed è ricoperta
di sangue secco. Se desidera partecipare al suo battesimo nella
congregazione della Signora Benedetta avendo l’aspetto di un selvaggio
dweymeri, Naev le suggerisce di risparmiarsi il dolore e gettarsi
semplicemente giù dall’Altare del Cielo in questo momento.»
«Aspetta…» Mia sbatté le palpebre. «Hai detto bagno?»
«… Naev l’ha detto.»
«Con acqua?» Mia si mise in ginocchio, le mani che stringevano il petto.
«E sapone?»
La donna annuì. «Cinque tipi.»
«Denti della Mannaia» disse Mia, slacciandosi la camicia. «Sei dalla
ragazza giusta, dopotutto.»

Figure cupe si radunarono al cospetto di una dea di pietra, ammantate in


una luce smorta.
Erano passate dodici ore dall’arrivo di Mia alla Montagna Silente.
Quattro dal suo risveglio. Ventisette minuti da quando si era trascinata fuori
dalla vasca ed era scesa nella Sala degli Elogi, lasciando sulla superficie
dell’acqua una porcheria di sangue e sudiciume che se ne sarebbe potuta
andare da sola se le fossero stati lasciati alcuni cambi per diventare
senziente.
La veste era morbida contro la sua pelle, i capelli legati in una treccia
umida. Un profumo di sapone si diffuse attorno a lei quando si voltò per
guardare tra gli altri accoliti, ventotto in totale, tutti vestiti in un grigio
uniforme. Un rozzo ragazzo itreyano con pugni come magli. Una giovane
segaligna con capelli rossi a caschetto e gli occhi pieni dell’astuzia di un
lupo. Un Dweymeri imponente, con elaborati tatuaggi facciali e spalle su
cui avresti potuto posare il mondo. Due Vaaniani biondi e lentigginosi,
fratello e sorella, a giudicare dall’aspetto. Un ragazzo esile con occhi
azzurro ghiaccio, in piedi vicino a Tric al termine della fila, così immobile
che lei quasi non lo notò. Tutti quanti avevano più o meno la sua stessa età.
Tutti quanti erano duri, affamati e silenziosi.
Naev si trovava vicino a Mia, ammantata nelle ombre. Altre figure
silenziose abbigliate in vesti nere erano ai margini dell’oscurità, uomini e
donne con le dita intrecciate come penitenti in una cattedrale.
«Mani» sussurrò Naev. «Lei troverà due tipi nella Chiesa Rossa. Quelli
che seguono le chiamate e fanno offerte… coloro che la gente comune
chiama assassini, sì? Noi le chiamiamo Lame.»
Mia annuì. «Mercurio me l’ha detto.»
«I secondi sono chiamati Mani» continuò Naev. «Ci sono venti Mani per
ogni Lama. Mantengono la sua Casa ordinata. Gestiscono gli affari.
Effettuano i viaggi di approvvigionamento, come Naev. Non più di quattro
accoliti per ogni gregge diventano Lame. Quelli che sopravvivono all’anno
ma non riescono a superare l’esame diventano Mani. Altre persone vengono
qui semplicemente per servire la dea come possono. Non tutti sono adatti
per commettere omicidi nel suo nome.»
“Dunque solo quattro di noi possono farcela.”
Mia annuì, osservando le figure vestite di nero. Stringendo gli occhi al
buio, riuscì a vedere la cicatrice arkemica di schiavitù su alcune guance.
Dopo che gli accoliti ebbero terminato di radunarsi sotto lo sguardo della
dea, le Mani recitarono un frammento di scrittura e Naev si unì a loro,
parlando a memoria come ciascuno dei presenti.

«Colei che è tutto e nulla,


Prima e ultima e sempre,
Un nero perfetto, un Buio famelico,
Fanciulla e Madre e Matriarca,
Ora e nel momento della nostra morte,
Prega per noi.»

Da qualche parte nell’oscurità risuonò piano una campana. Mia percepì


Messer Cortese acciambellato ai suoi piedi, che beveva a fondo. Udì dei
passi e vide una figura avvicinarsi dalle ombre. Le Mani alzarono le loro
voci all’unisono.

«Mouser, Shahiid di Tasche, prega per noi.»


Una figura familiare salì sul podio attorno alla base della statua. Volto
affascinante e occhi anziani: l’uomo che aveva incontrato Mia e Tric fuori
dalla Montagna. Era abbigliato con una veste grigia, la spada di neracciaio
come unica decorazione. Prese il proprio posto di fronte agli accoliti e, con
un sorriso che avrebbe potuto rubare con facilità l’argenteria e pure i
candelabri, parlò.
«Ventisei.»
Mia udì altri passi e le Mani parlarono di nuovo.

«Ammazzaragni, Shahiid di Verità, prega per noi.»

Una donna dweymeri uscì dall’oscurità, alta e maestosa, la schiena dritta


come i pilastri attorno a loro. Capelli lunghi in ciocche precise e annodate le
fluivano lungo la schiena come corde. La sua pelle era scura al pari di tutto
il suo popolo, ma non aveva alcun tatuaggio in faccia. Sembrava una statua
semovente, intagliata nel mogano. Le mani giunte erano macchiate con
quello che poteva essere inchiostro, le labbra dipinte di nero. Una
collezione di fiale di vetro le pendeva alla cintura assieme a tre pugnali
ricurvi.
Prese il suo posto sul podio e parlò con voce forte e orgogliosa.
«Ventinove.»
Mia continuò a guardare in silenzio, mordendosi il labbro. E anche se
Mercurio l’aveva istruita bene nella sottile arte della pazienza, alla fine la
curiosità ebbe la meglio su di lei. e
«Cosa stanno facendo?» sussurrò a Naev. «Cosa significano i numeri?»
«Il loro conteggio per la dea. Il numero di offerte che hanno operato nel
suo nome.»

«Solis, Shahiid di Canti, prega per noi.»

Mia osservò una figura incedere dalle ombre, anch’essa vestita di grigio.
Era un omone con i bicipiti grandi quanto le sue cosce. Aveva la testa
rasata, con capelli cortissimi così biondi da essere quasi bianchi, il cuoio
capelluto ricoperto di cicatrici. La barba era acconciata in quattro punte sul
mento. Indossava una cintura portaspada, ma il fodero era vuoto. Quando
prese il suo posto, Mia osservò i suoi occhi e si accorse che era cieco.
«Trentasei» disse lui.
“Trentasei omicidi? Per mano di un cieco?”
«Aalea, Shahiid di Maschere, prega per noi.»
Un’altra donna avanzò nella luce soffusa con un’andatura ondeggiante,
tutta curve e pelle di alabastro. Mia scoprì di avere la bocca aperta: la nuova
arrivata era probabilmente la donna più bella su cui avesse mai posato gli
occhi. Folti capelli neri le ricadevano fino alla vita, occhi scuri truccati con
kajal, labbra dipinte di color rosso sangue. Era disarmata. In apparenza.
«Trentanove» disse, la voce come fumo dolce.
«Reverenda madre Drusilla, prega per noi.»
Una donna scivolò fuori dall’oscurità, silenziosa come una morte in
culla. Era anziana, con i grigi capelli ricci legati in trecce. Attorno al collo
pendeva una chiave di ossidiana su una catenella d’argento. Sembrava una
vecchietta gentile e i suoi occhi scintillarono quando rimirò il gruppo. A
Mia dava l’impressione di una donna che poteva starsene su una sedia a
dondolo presso un allegro focolare, con i nipotini sulle ginocchia e una
tazza di tè vicino al gomito. Non poteva trattarsi della gran sacerdotessa del
gruppo più letale di…
«Ottantatré» disse l’anziana, prendendo il suo posto sul podio.
“Che mi prenda la Mannaia, ottantatré…”
La Reverenda madre esaminò il gruppo con un sorriso gentile sulle
labbra.
«Vi porgo il benvenuto alla Chiesa Rossa, figli» disse. «Avete viaggiato
per miglia e anni per essere qui. E avete altre miglia e anni davanti a voi.
Ma alla fine del viaggio, sarete Lame, brandite per la gloria della dea nel
più santo dei sacramenti.
«Coloro che sopravvivranno, ovviamente.»
La vecchia gesticolò verso le quattro figure che la circondavano.
«Date ascolto alle parole dei vostri Shahiid. Sappiate che tutto ciò che
eravate prima di questo momento è morto. Che una volta votati alla
Mannaia, sarete suoi e suoi soltanto.» Una figura in una veste lunga e con
una ciotola argentea si accostò alla Reverenda madre e fece cenno a Mia.
«Porta il tuo tributo. I resti di un assassino, assassinato a sua volta e offerto
alla Nostra Signora dell’omicidio benedetto in quest’ora del tuo battesimo.»
Mia venne avanti con il borsello in mano. Il suo stomaco stava facendo
le giravolte, ma le mani erano salde come la roccia. Prese posto davanti alla
vecchia con il sorriso gentile e guardò in profondità in quegli occhi azzurro
pallido. Si sentì valutata, e si domandò se fosse stata giudicata carente.
«Il mio tributo» riuscì a dire. «Per la Mannaia.»
«Lo accetto nel suo nome con i suoi ringraziamenti sulle labbra.»
Mia sospirò nell’udire la risposta e per poco non cadde in ginocchio
quando la Reverenda madre l’abbracciò e le baciò una guancia dopo l’altra
con labbra gelide. Strinse forte Mia quando la ragazza respirò a fondo,
trattenendo calde lacrime. Poi, voltandosi verso la ciotola argentea,
l’anziana donna vi intinse una mano esile. Quando la tirò fuori, colava un
liquido rosso.
“Sangue.”
«Pronuncia il tuo nome.»
«Mia Corvere.»
«Giuri di servire la Madre della Notte? Imparerai la morte in tutti i suoi
colori e la porterai ai meritevoli e agli immeritevoli nel suo Nome?
Diventerai un’Accolita di Niah, uno strumento terreno del buio tra le
stelle?»
Mia scoprì di aver problemi a inspirare.
Il respiro profondo prima del tuffo.
«Lo giuro.»
La Reverenda madre premette il palmo contro la guancia di Mia,
macchiandole la pelle col sangue. Era ancora caldo, e l’odore di sale e rame
riempì i polmoni della ragazza. La vecchia le segnò una guancia e poi
l’altra, infine tracciò una lunga scia su labbra e mento di Mia. La ragazza
avvertì la solennità di quel momento nelle ossa, che le trascinava lo
stomaco fino agli stivali. La Madre annuì e Mia indietreggiò, stringendosi
forte e leccandosi il sangue dalle labbra, sul punto di piangere e ridere. Era
più vicina di un passo a vendicare la sua familia. A calpestare la tomba di
Scaeva.
Si rese conto di essere lì.
“Sono qui.”
Il rituale fu ripetuto: uno a uno, ciascun accolito portò il proprio tributo.
Alcuni offrirono denti, altri occhi; il ragazzo alto con le mani come magli
consegnò un cuore in decomposizione, avvolto in velluto nero. Mia si rese
conto che non c’era nemmeno uno di loro che non fosse un assassino. Che
di tutte le stanze della Repubblica, probabilmente non ce n’era nessuna più
pericolosa di quella in cui si trovava proprio in quel momento. f
«I vostri studi cominciano domani» disse la Reverenda madre.
«L’ultimopasto sarà servito all’Altare del Cielo tra mezz’ora.» Indicò la fila
di figure paludate. «Le Mani saranno disponibili se vi occorre assistenza, e
vi suggerisco di servirvene finché non saprete orientarvi. Sulle prime può
essere difficile aggirarsi per la Montagna, e perdersi in queste sale può
avere… conseguenze spiacevoli.» Occhi azzurri scintillarono nel buio.
«Camminate in silenzio. Imparate bene. Che la Nostra Signora possa
trovarvi il più tardi possibile. E quando lo farà, che possa accogliervi con un
bacio.»
L’anziana si inchinò e indietreggiò nell’oscurità. Gli altri membri del
Culto se ne andarono uno a uno. Tric si diresse da Mia e la salutò con un
sorriso, le guance arrossate. Era stato lavato e spazzolato, e perfino le sue
salciocche sembravano meno piene di vita propria.
«Ti sei rasato» lo sfotté lei.
«Non ti ci abituare. Accade due volte all’anno.» Guardò Naev a occhi
stretti, che si sgranarono lentamente quando la riconobbe. «Nel nome della
Signora, come…»
«Ci incontriamo di nuovo.» La donna magra fece un inchino profondo.
«Naev offre ringraziamenti per averla assistita in mezzo al deserto. Il debito
non sarà dimenticato.»
«Come fai a essere ancora in piedi e a respirare?»
«Questo posto cela segreti dentro segreti» disse Mia.
«Corvere?» la chiamò una voce sommessa alle sue spalle.
Mia si voltò. Era la ragazza che aveva notato, quella graziosa col
caschetto rosso frastagliato e occhi verdi da cacciatrice. Stava esaminando
Mia con attenzione, la testa inclinata. L’alto ragazzo itreyano con le mani
come magli torreggiava accanto a lei come un’ombra arrabbiata.
«Durante la cerimonia,» riprese la ragazza «hai detto che il tuo nome era
Corvere?»
«Sì» rispose Mia.
«Per caso sei imparentata con Darius Corvere? L’ex tribuno?»
Mia soppesò la ragazza nella sua mente. In forma. Veloce. Dura come il
legno. Ma chiunque fosse, Mia era certa che Scaeva e i suoi sgherri non
avessero alleati all’interno di queste mura; Remus e i suoi Luminatii
avevano giurato di porre fine alla Chiesa Rossa fin dal Massacro del
Verobuio, dopotutto. Ciò nonostante, Mercurio aveva esortato Mia a
lasciarsi alle spalle il nome quando avesse varcato questa soglia. Era una
delle poche cose su cui avevano litigato. Era stupido, forse. Ma la morte di
suo padre era l’unico motivo per cui aveva intrapreso questo percorso. Il
nome Corvere era stato cancellato dalle cronache da Scaeva e dai suoi
lacchè: lei non l’avrebbe abbandonato nella polvere, qualunque fosse stato
il prezzo.
«Sono la figlia di Darius Corvere» rispose infine Mia. «E tu sei?»
«Jessamine, figlia di Marcinus Gratianus.»
«Le mie scuse. È qualcuno che avrei dovuto sentir nominare?»
«Primo centurione della Legione dei Luminatii» la guardò storto la
ragazza. «Giustiziato per ordine del senato itreyano dopo la Ribellione degli
Incoronatori.»
Il cipiglio di Mia si attenuò. Madre Nera, era la figlia di uno dei
centurioni di suo padre. Una ragazza proprio come lei, resa orfana dal
console Scaeva, dal tribuno Remus e dal resto di quei bastardi. Qualcuno
che conosceva il sapore dell’ingiustizia tanto quanto lei.
Mia le porse la mano. «Piacere di incontrarti, sorella. Mio…»
Jessamine schiaffò via la mano, gli occhi lampeggianti. «Tu non sei mia
sorella, cagna.»
Mia percepì Tric adirarsi accanto a lei e il pelo di Messer Cortese si rizzò
nell’ombra ai suoi piedi. Si massaggiò le nocche schiaffeggiate e parlò con
cautela.
«Sono addolorata per la tua perdita. Davvero. Mio pa…»
«Tuo padre era un fottuto traditore» ringhiò Jessamine. «I suoi uomini
sono morti perché tennero fede ai loro giuramenti verso un tribuno folle, e
ora i loro teschi lastricano i gradini per la Casa del Senato. Per colpa del
potente Darius Corvere.»
«Mio padre era leale al generale Antonius» replicò Mia. «Anche lui
aveva promesse da onorare.»
«Tuo padre era un fottuto leccapiedi» sbraitò Jessamine. «Tutti sanno
perché seguiva Antonius, e non aveva nulla a che fare con l’onore. Mio
padre e mio fratello sono stati crocifissi a causa sua. Mia madre è morta di
dolore nel Manicomio di Godsgrave. E tutti loro non sono stati vendicati.»
La ragazza si avvicinò, gli occhi stretti. «Ma non per molto. Sarà meglio
che ti faccia crescere occhi sulla nuca, Corvere. E che ti abitui ad avere il
sonno leggero.»
Mia sostenne lo sguardo della ragazza senza sbattere le palpebre. Messer
Cortese si ingrossò sotto i suoi piedi. Naev scivolò vicino alla ragazza dai
capelli rossi, sussurrandole all’orecchio.
«Lei si toglierà dai piedi. O sarà tolta di mezzo.»
Jessamine lanciò un’occhiata alla donna, la mascella serrata. Dopo una
gara di sguardi che andò avanti per miglia, la ragazza girò i tacchi e si
allontanò, seguita dal grosso Itreyano. Mia si rese conto che stava
conficcando le unghie nei propri palmi.
«Sai sicuramente come farti degli amici, Figlia Pallida.»
Mia si voltò verso Tric e vide che sorrideva, anche se aveva la mano
infilata nella manica. La ragazza si rilassò un po’ e si concesse di sorridere
a sua volta. Per quanto non fosse brava a farsi degli amici, almeno ne aveva
uno dentro queste mura.
«Andiamo» disse il ragazzo. «Vogliamo mangiare l’ultimopasto o no?»
Mia guardò Jessamine mentre si allontanava, poi si girò a osservare gli
altri accoliti. Ora capiva molto meglio la realtà del luogo in cui si trovava.
Una scuola per assassini. Era circondata da novizi o maestri nell’arte
dell’omicidio. Lei era qui. Era fatta.
“È il momento di mettersi al lavoro.”
«Mi sembra una buona idea» concordò. «Non riesco a pensare a un posto
migliore per iniziare la ricognizione.»
«Che ricognizione?»
«Hai mai sentito il detto secondo cui il modo più rapido per arrivare al
cuore di un uomo è passare per lo stomaco?»
«Mi è sempre sembrato strano» si accigliò Tric. «La cassa toracica mi
sembra una strada molto più rapida.»
«Sì, è vero. Tuttavia, puoi imparare parecchio sugli animali guardandoli
mangiare.»
«… A volte sei un po’ inquietante, Figlia Pallida.»
Lei gli rivolse un sorriso beffardo. «Solo un po’?»
«Be’, le altre volte sei assolutamente spaventosa.»
«Andiamo» disse lei dandogli una pacca sul braccio «Ti offro da bere.»
a. Più palle che cervello, gentili amici. Più palle che cervello.
b. Quella rifiutò, ma purtroppo i due danzarono lo stesso.
c. Il fiume Rosa possiede il nome più fuorviante di tutta la Repubblica itreyana e forse di tutta la
creazione. Il suo lezzo è così tremendo che, quando gli venne offerta la scelta tra essere affogato
nel Rosa o essere castrato e crocifisso, l’eretico niahano Dominus Anton Bosconi disse ai suoi
confessori la frase diventata proverbiale: “Andreste a prendere un coltello, per cortesia, gentili
amici?”.
d. L’aureovino è un liquore itreyano che prende il nome dai vasti campi di cereali nelle regioni
interne in cui viene distillato. Diverse familiae sono note per le loro ricette, in particolare i Valente
e gli Albari.
La rivalità tra le due familiae è degenerata da cattivo sangue a un vero e proprio spargimento di
sangue in più di un’occasione, la più famosa delle quali, la Guerra delle Dodici Botti, durò quattro
veribui e costò la vita a non meno di trentadue persone. Dichiarato una Vendetta ufficiale – ovvero
una faida di sangue autorizzata dalla Santa Chiesa di Aa –, il conflitto venne chiamato così perché,
tra i massacri e gli incendi che lo incarnarono, solo dodici botti di liquore Albari sopravvissero per
essere distribuite nella Repubblica.
Le bottiglie di “Dodici Botti” sono dunque estremamente rare e straordinariamente costose: è
noto come un’unica bottiglia sia stata battuta per oltre quarantamila coglioni d’oro all’asta.
Quando la villa estiva del senatore Ari Giancarli fu data alle fiamme da due servitori maldestri, si
dice che Giancarli si precipitò nella casa che bruciava non meno di tre volte: per salvare sua
moglie, suo figlio e le sue due bottiglie di Dodici Botti.
Le dicerie secondo cui salvò le bottiglie per prime sono, naturalmente, clamorose ingiurie nei
suoi confronti inventate da avversari politici e non hanno alcun fondamento nella realtà.
(Le salvò per seconde.)
e. Una delle prove preferite del vecchio all’inizio dell’apprendistato di Mia era un gioco che
chiamava “Prete di ferro”, in cui lui e la ragazza vedevano chi riusciva a resistere più a lungo
senza parlare. Anche se sulle prime Mia pensava che fosse un gioco per mettere alla prova la sua
pazienza e determinazione, negli anni successivi Mercurio confessò di averlo inventato solo per
avere un po’ di pace e silenzio nel negozio.
La sua prova più famigerata, però, ebbe luogo quando Mia aveva dodici anni. Durante un
freddinverno particolarmente gelido, il vecchio ordinò alla ragazza di aspettare sui tetti di fronte
alla Grande Cappella di Tsana l’arrivo di un messaggero con dei guanti rossi e di seguire il
ragazzo ovunque andasse. Le disse che si trattava di una faccenda di “disperata importanza”.
Il messaggero, naturalmente, era uno dei numerosi agenti di Mercurio in città. Non stava
viaggiando in nessuna località importante – disperata o meno – ma aveva il semplice scopo di
guidare Mia in un inutile inseguimento nel freddo fino ad arrivare al negozio di curiosità.
Comunque, all’insaputa di Mercurio, il ragazzo fu colpito da un cavallo imbizzarrito mentre era
diretto al quartiere del tempio e perciò non arrivò mai.
Mia rimase sui tetti malgrado il freddo tremendo (soltanto un sole si trova nel cielo durante gli
inverni di Godsgrave, e il gelo è lungo e pungente). Quando cominciò a cadere la neve, lei rifiutò
di muoversi per paura di perdere il suo obiettivo. Quando il mattino successivo Mercurio vide che
Mia non era arrivata, si preoccupò e percorse a ritroso il tragitto assegnato al messaggero finché
non arrivò in cima al tetto nel quartiere del tempio. Lì trovò la sua apprendista, quasi in ipotermia,
percorsa da tremiti incontrollabili e gli occhi ancora fissi sulla Cappella di Tsana. Quando il
vecchio chiese perché, nel nome della Madre, Mia fosse rimasta sul tetto quando era in pericolo di
morire congelata, la dodicenne rispose semplicemente: “Hai detto che era importante”.
Come ho detto, non era priva di doti.
f. Sorprendentemente, straordinariamente, incredibilmente inesatto.
CAPITOLO 9
TENEBRA

Il vecchio le raddrizzò il naso meglio che poteva, poi le pulì il sangue dalla
faccia con uno straccio intriso di qualcosa dall’odore pungente e metallico.
La fece sedere a un tavolino sul retro della sua bottega e le preparò il tè.
La stanza era a metà tra una cucina e una biblioteca. Tutto era avvolto
nelle ombre, le imposte tirate per non lasciar entrare la soliluce. a Un’unica
lampada arkemica illuminava pile di stoviglie sporche e altre, più alte e
ondeggianti, di libri. Il dolore di Mia la lasciò mentre sorseggiava l’infuso
di Mercurio: il caos pulsante in mezzo alla sua faccia veniva reso
pietosamente insensibile. Lui le diede la torta di semiele e la guardò
divorarne tre fette, come un ragno osserva una mosca. E quando lei spinse
da parte il piatto, Mercurio finalmente parlò.
«Come sta il naso?»
«Non fa più male.»
«Buono il tè, eh?» Sorrise. «Come si è rotto?»
«Il ragazzo grosso. Spadini. Gli ho puntato il coltello contro le parti
basse e lui mi ha colpito.»
«Chi ti ha detto di puntare alle noci di un ragazzo in una baruffa?»
«Mio padre. Diceva che il modo più rapido di battere un ragazzo è fargli
desiderare di essere una ragazza.»
Mercurio ridacchiò. «Duum’a.»
«Che significa?» Mia sbatté le palpebre.
«… Non parli liisiano?»
«Perché dovrei?»
«Pensavo che te l’avesse insegnato tua madre. Era di quelle parti.»
Mia fu sorpresa. «Ah sì?»
Il vecchio annuì. «È passato molto tempo, ormai. Prima che si sposasse
e diventasse una domina.»
«Lei… non ne ha mai parlato.»
«Non ce n’era motivo, suppongo. Immagino che pensasse di essersi
lasciata alle spalle quelle strade per sempre.» Fece spallucce. «Comunque,
la traduzione più fedele di “duum’a” sarebbe “è saggio”. Lo dici quando
senti parole che condividi. Come potresti replicare “ben detto” o cose del
genere.»
«E “Neh diis…”» Mia si accigliò, impappinandosi con la pronuncia.
«“Neh diis lus’a… lus diis’a”? Cosa significa?»
Mercurio sollevò un sopracciglio. «Dove l’hai sentito?»
«Sono le parole che ha rivolto il console Scaeva a mia madre. Quando le
ha detto di supplicare per la mia vita.»
Mercurio si accarezzò la barbetta. «È un vecchio adagio liisiano.»
«Cosa significa?»
«Quando tutto è sangue, il sangue è tutto.»
Mia annuì: le pareva di aver capito. Sedettero in silenzio per un po’ e il
vecchio accese uno dei suoi sigaretti al sapore di chiodi di garofano,
inalando a fondo. Infine Mia parlò di nuovo.
«Hai detto che mia madre veniva da lì? Da Piccola Liis?»
«Sì. Molto tempo fa.»
«Aveva la sua familia lì? Qualcuno che potrei…»
Mercurio scosse il capo. «Se ne sono andati, bambina. O sono morti.
Probabilmente entrambe le cose.»
«Come mio padre.»
Il vecchio si schiarì la gola e prese una boccata dal sigaretto.
«… È stata una vergogna. Quello che gli hanno fatto.»
«Hanno detto che era un traditore.»
Una scrollata di spalle. «Un traditore è semplicemente un patriota dalla
parte sbagliata rispetto a chi vince.»
Mia scostò la frangia dagli occhi e lo guardò speranzosa. «Era un
patriota, allora?»
«No, piccolo Corvo» disse il vecchio. «Ha perso.»
«E l’hanno ucciso.» L’odio le crebbe nel petto e le appallottolò le mani
in pugni. «Il console. Quel prete grasso. Il nuovo tribuno. Loro l’hanno
ucciso.»
Mercurio esalò un sottile anello grigio e la osservò attentamente. «Lui e
il generale Antonius volevano rovesciare il senato, ragazza. Avevano
radunato un dannato esercito e progettavano di marciare contro la propria
capitale. Pensa quante persone sarebbero morte se non fossero stati
catturati prima che la guerra cominciasse per davvero. Forse dovevano
impiccare tuo padre. Forse se lo meritava.»
Mia sgranò gli occhi e scalciò via la sedia, allungando una mano verso
il suo coltello, che però non era al solito posto. Allora la rabbia riaffiorò,
tutto il dolore e la collera delle ultime ventiquattr’ore le avvamparono
dentro e l’ira che la pervase era tanto copiosa da farle tremare braccia e
gambe.
Anche le ombre nella stanza cominciarono a fremere.
Il buio si contorse, ai suoi piedi e dietro i suoi occhi. Serrò i pugni e
sbraitò a denti stretti: «Mio padre era un brav’uomo. E non meritava di
morire così».
La teiera scivolò dal ripiano con uno schianto. Le ante degli armadietti
sbatacchiarono sui cardini, le tazze danzarono sui rispettivi piattini. Torri
di libri crollarono e si sparsero per il pavimento. L’ombra di Mia si allungò
verso quella del vecchio, artigliando le assi scheggiate, con le unghie che si
staccavano man mano che si avvicinava. Messer Cortese prese forma ai
suoi piedi, sollevando peli trasparenti, sibilando e soffiando. Mercurio
indietreggiò per la stanza più velocemente di quanto lei avrebbe
immaginato potesse fare un vecchio, le mani sollevate in segno di supplica
e il sigaretto che pendeva da labbra secche come osso.
«Pace, pace, piccolo Corvo» implorò. «Una prova, è solo una prova.
Non intendevo offenderti.»
Mentre le stoviglie smettevano di tremare e gli armadietti tacevano, Mia
si afflosciò sulla sedia, le lacrime che lottavano con la rabbia. Tutto le
stava crollando addosso. La vista di suo padre che dondolava, le urla di
sua madre, dormire nei vicoli, essere derubata e picchiata… tutto quanto.
Era troppo.
Troppo.
Messer Cortese le girò attorno ai piedi, facendo le fusa e muovendosi
furtivo proprio come un gatto vero. L’ombra di Mia scivolò indietro lungo il
pavimento, addensandosi nella sua forma normale, solo un po’ più scura.
Mercurio la indicò.
«Da quanto tempo ti ascolta?»
«… Cosa?»
«La tenebra. Da quanto tempo ascolta quando la invochi?»
«Non so cosa intendi.»
Si accovacciò sulla sedia, cercando di tenere tutto dentro. Di
appallottolarlo e spingerlo giù fin dentro le scarpe. Le tremavano le spalle.
Le faceva male la pancia. E cominciò a singhiozzare piano.
Oh, Figlie, quanto odiava se stessa, in quel momento…
Il vecchio frugò nel suo pastrano, tirò fuori un fazzoletto quasi pulito e
glielo diede. La osservò afferrarlo e tamponare meglio che poteva il naso
rotto, lacrime cariche d’odio tra le ciglia. E infine si inginocchiò sulle assi
di fronte a lei e la guardò con occhi azzurri e taglienti come diamanti
grezzi.
«Non so cosa significhi nulla di tutto questo» mormorò lei.
Gli occhi del vecchio scintillarono mentre sorrideva. Con un’occhiata in
direzione del gatto fatto di ombre, Mercurio estrasse lo stiletto di sua madre
dal pastrano e lo conficcò nelle assi tra loro. Il necrosso levigato scintillò
alla luce della lanterna.
«Ti piacerebbe imparare?» le chiese.
Mia fissò il coltello e annuì lentamente. «Sì, signore.»
«Niente “signore” da queste parti, piccolo Corvo. Niente dominus o
domina. Solo tu e io.»
Mia si morse il labbro, tentata di afferrare semplicemente la lama e
darsela a gambe.
Ma dove sarebbe andata? Cos’avrebbe fatto?
«Come dovrei chiamarvi, allora?» chiese infine.
«Dipende.»
«Da cosa?»
«Se vuoi riprendere ciò che è tuo da coloro che te l’hanno portato via.
Se sei il tipo di persona che non dimentica e non perdona. Che vuole capire
perché la Madre ti ha marchiato.»
Mia lo fissò senza sbattere le palpebre. La sua ombra si increspò ai suoi
piedi.
«E se lo fossi?»
«Allora mi chiamerai “Shahiid”. Fino al cambio in cui io ti chiamerò
“Mia”.»
«Cosa significa “Shahiid”?»
«È una vecchia parola ashkahi. Significa “Maestro onorato”.»
«E voi come mi chiamerete nel frattempo?»
Un sottile anello di fumo uscì dalle labbra del vecchio quando parlò.
«Indovina.»
«… Apprendista?»
«Sei più sveglia di quanto sembri, ragazza. Una delle poche cose che mi
piacciono di te.»
Mia fissò l’ombra sotto i suoi piedi, poi alzò lo sguardo al bagliore della
soliluce in attesa appena oltre le imposte. Godsgrave. La città di ponti e
ossa, che si stava riempiendo lentamente delle ossa di coloro che amava.
Là fuori non c’era nessuno che poteva aiutarla, lo sapeva. E se aveva
intenzione di liberare sua madre e il suo fratellino dalla Pietra Filosofale,
se voleva impedire che finissero in una tomba accanto a quella di suo padre
– sempre che l’avessero seppellito –, se aveva intenzione di portare
giustizia a coloro che avevano distrutto la sua familia…
Be’, avrebbe avuto bisogno d’aiuto, giusto?
«D’accordo, allora. Shahiid.»
Mia allungò la mano per prendere il suo coltello. Mercurio lo allontanò
con un gesto rapidissimo e lo tenne sollevato in mezzo a loro. Minuscoli
occhi d’ambra luccicarono su di lei nell’oscurità.
«Non finché non te lo sarai guadagnato» disse.
«Ma è mio» protestò Mia.
«Dimentica la ragazza che aveva tutto. È morta quando suo padre è
stato impiccato.»
«Ma io…»
«Nulla è da dove comincerai. Non possedere nulla. Non sapere nulla.
Non essere nulla.»
«E perché vorrei farlo?»
Il vecchio schiacciò il sigaretto sulle assi tra loro.
Sorrise, e Mia fece lo stesso.
«Perché allora potrai fare qualunque cosa.»

Negli anni a venire, Mia avrebbe ripensato al momento in cui vide per la
prima volta l’Altare del Cielo e avrebbe capito che allora aveva cominciato
a credere nelle divinità. Oh, Mercurio l’aveva indottrinata nella religione
della Madre. La morte come un’offerta. La vita come una vocazione. E
prima di allora era stata allevata come una brava figlia di Aa timorata di
dio. Ma era stato solo quando aveva guardato da quella balconata che aveva
accettato che potesse essere probabile o cominciato a capire davvero
dov’era.
Lei e Tric furono condotti su per un’altra rampa di scale (apparentemente
interminabile) della Chiesa da Naev e altre figure con lunghe vesti. Tutti e
ventotto gli accoliti avevano deciso di cenare; parlavano sommessamente
mentre salivano, e il miscuglio dei loro accenti ricordava a Mia il mercato
di Piccola Liis. Ma tutte le conversazioni si interruppero quando il gruppo
raggiunse il pianerottolo. A Mia si mozzò il fiato e premette una mano
contro il petto. Naev le sussurrò all’orecchio.
«Benvenuta all’Altare del Cielo.»
La piattaforma era intagliata nel fianco della Montagna, senza alcuna
copertura. I tavoli erano disposti a “T” e l’odore di carne arrosto e pane
fresco baciava l’aria. Anche se il suo stomaco brontolò alla presenza di
cibo, i pensieri di Mia si concentrarono sul panorama di fronte a lei.
La piattaforma sporgeva dal fianco della Montagna e un precipizio di
mille piedi attendeva appena oltre il parapetto di legnoferro. Poteva vedere
le Frusciaride sottostanti, minuscole, perfette e immobili. Ma sopra, dove il
cielo avrebbe dovuto ardere per la luce dei soli ostinati, poteva vedere solo
oscurità, nera, integra e perfetta.
Colma di stelle minuscole.
«Nel nome della Luce, cosa…» mormorò.
«Non la Luce» biascicò Naev. «La tenebra.»
«Come può essere? Il verobuio non calerà almeno per un altro anno.»
«È sempre verobuio, qui.»
«Ma è impossibile…»
«Solo se qui è dove lei suppone che sia.» La donna scrollò le spalle. «Ma
non è così.»
Agli accoliti vennero mostrati i loro posti mentre fissavano imbambolati
l’oscurità sopra di loro. Anche se a quest’altitudine avrebbe dovuto ululare,
nemmeno un alito di vento disturbava la scena. Non c’era alcun rumore,
tranne voci sussurrate e il battito frenetico di Mia.
Si ritrovò seduta con Tric alla sua destra e il ragazzo esile con gli occhi
azzurro ghiaccio alla sua sinistra. Di fronte a lei c’era la coppia che Mia
aveva presunto essere fratello e sorella. La ragazza aveva capelli biondi
intrecciati in bellitrecce strette e rasati sui lati. Il suo volto era grazioso, con
fossette e una spolverata di lentiggini. Suo fratello possedeva lo stesso volto
tondo, anche se non sorrideva, perciò niente fossette. I suoi capelli erano
piccole punte basse e aggrovigliate. Entrambi avevano occhi azzurri come
cieli limpidi. Le loro guance erano ancora incrostate del sangue della
cerimonia del battesimo.
Dal suo arrivo, Mia aveva già ricevuto una minaccia di morte. Si
domandò se ogni accolito del gruppo di quell’anno sarebbe stato un
avversario o un nemico vero e proprio.
La ragazza bionda indicò le guance di Mia con il coltello. «Hai qualcosa
sulla faccia.»
«Anche tu» annuì Mia. «Quel colore ti sta bene, però. Fa risaltare i tuoi
occhi.»
La ragazza sbuffò e mostrò un sorriso sghembo.
«Bene» disse Mia. «Vogliamo presentarci o semplicemente guardarci in
cagnesco per tutto il pasto?»
«Io sono Ashlinn Järnheim» replicò la ragazza. «Per gli amici Ash.
Questo è mio fratello Osrik.»
«Mia Corvere. Questo è Tric» disse Mia, indicando col capo il suo
amico.
Da parte sua, Tric stava guardando torvo l’altro Dweymeri seduto al
tavolo. Il ragazzo più grosso aveva mascella squadrata e fronte piatta come
lui, ma era più alto, con le spalle più ampie, e mentre i tatuaggi di Tric
erano grossolani e malfatti, il volto del ragazzo più grosso era decorato con
inchiostri di foggia squisita. Stava osservando Tric come un dracobianco
guarda un cucciolo di foca.
«Salve, Tric» disse Ashlinn offrendogli la mano.
Il ragazzo la strinse senza guardarla. «Piacere.»
Ashlinn, Osrik e Mia guardarono tutti quanti il ragazzo pallido alla
sinistra di Mia. Da parte sua, il giovane stava fissando il cielo buio. Aveva
le labbra increspate come se si stesse succhiando i denti. Mia si rese conto
che era bello – be’, “grazioso” probabilmente era una parola migliore –, con
zigomi alti e gli occhi azzurri più penetranti che lei avesse mai visto. Ma era
magro. Troppo magro.
«Io sono Mia» disse, porgendogli la mano.
Il ragazzo sbatté le palpebre e voltò lo sguardo sulla ragazza. Sollevò
una tavoletta di carbone che aveva in grembo, ci scrisse sopra con un
gessetto e la tenne sollevata perché Mia la vedesse.
ZITTO , diceva.
Mia sbatté le palpebre. «È quello il tuo nome?»
Il ragazzo grazioso annuì e tornò a fissare il cielo in silenzio. Non emise
nemmeno un suono per tutto il pasto.
Ashlinn, Osrik e Mia parlarono quando venne servito il cibo: brodo di
pollo e montone con burro al limone, verdure arrosto e un delizioso rosso
itreyano. Ashlinn quasi monopolizzò la conversazione, mentre Osrik
sembrava più concentrato a controllare la stanza. I fratelli avevano sedici e
diciassette anni (Osrik era il maggiore) ed erano arrivati cinque cambi
prima. Il loro mentore (e padre, a quanto pareva) era stato molto più
esplicito rispetto al vecchio Mercurio su come trovare la Chiesa, così i
fratelli avevano evitato qualunque mostro sulla loro strada per la Montagna
Silente. Ashlinn parve impressionata dalla storia di Mia con i kraken delle
sabbie. Osrik sembrava più colpito da Jessamine. La rossa, con i suoi astuti
occhi da lupo, era seduta a tre sgabelli di distanza e Osrik pareva incapace
di distogliere lo sguardo. Da parte sua, la ragazza sembrava più interessata
all’itreyano grande e grosso seduto accanto a lei, gli sussurrava e ogni tanto
fissava Mia come se volesse ucciderla con lo sguardo.
Mia riuscì a percepire altre occhiate, furtive o prolungate: anche se
alcuni erano più bravi di altri a mascherarlo, quasi ogni accolito stava
studiando i propri compagni. Zitto si limitò a fissare il cielo e sorseggiò il
suo brodo come se fosse un’incombenza, senza toccare altro cibo.
Mia osservò il Culto tra una portata e l’altra, notando il modo in cui
interagivano. Solis, lo Shahiid di Canti cieco, pareva dominare la
conversazione, anche se dagli occasionali scoppi di risate che suscitava,
pareva che Mouser, lo Shahiid di Tasche, fosse dotato dell’arguzia più
spiccata. Ammazzaragni e Aalea, Shahiid di Verità e di Maschere, sedevano
così vicine che quasi si toccavano. Tutti portavano estremo rispetto alla
Reverenda madre Drusilla e le conversazioni si interrompevano quando
l’anziana parlava.
Erano a metà della portata principale quando Mia avvertì un senso di
nausea insinuarsi nelle viscere. Si guardò attorno e percepì Messer Cortese
rigirarsi nella sua ombra. La Reverenda madre si alzò all’improvviso e i
membri del Culto attorno a lei si affrettarono a imitarla, gli sguardi bassi.
Madre Drusilla parlò, gli occhi fissi sugli accoliti.
«Alzatevi tutti quanti, per favore.»
Mia si alzò in piedi, accigliandosi un po’. Ashlinn si voltò verso il
fratello, sussurrando in un tono prossimo al fervore.
«Madre Nera, lui è qui.»
Mia si accorse che c’era un uomo con i capelli neri sulla balconata
dell’Altare del Cielo, che si affacciava sul deserto mutevole lì sotto, anche
se avrebbe giurato di non averlo visto entrare nella stanza. Percepì la
propria ombra tremolare, rimpicciolirsi, e Messer Cortese raggomitolarsi ai
suoi piedi.
«Lord Cassius» disse Drusilla con un inchino. «Voi ci onorate.»
L’uomo si voltò verso la Reverenda madre con un sorriso accennato. Era
alto, muscoloso e vestito con morbido cuoio scuro. Lunghi capelli neri
incorniciavano occhi penetranti e una mascella su cui ti saresti potuto
rompere il pugno. Portava un pesante mantello nero e lame gemelle alla
cintura. Era perfettamente ordinario. Perfettamente letale. Parlò con una
voce che fece pizzicare Mia in tutti i punti sbagliati.
«Pace a voi, Reverenda madre.» Occhi scuri vagarono sui nuovi accoliti,
ancora in piedi come sull’attenti. «Desideravo semplicemente ammirare il
panorama. Posso unirmi a voi?»
«Ma certo, mio signore.»
La Reverenda madre liberò il suo posto a capotavola e gli altri Shahiid
del Culto si spostarono per fare spazio al nuovo arrivato. Ancora
sorridendo, l’uomo si diresse verso la sedia vuota, silenzioso come il
tramonto. Con movimenti fluidi come acqua, spostò da una parte il mantello
quando occupò il posto della Reverenda madre. La nausea nella pancia di
Mia crebbe quando lo strano uomo lanciò un’occhiata proprio verso di lei.
Ma quando si mise seduto e sollevò una coppa di vino, quell’incantesimo di
completa immobilità che sembrava aver lanciato sulla stanza pian piano si
ruppe. Le Mani si precipitarono per apparecchiare un nuovo posto al tavolo
e i membri del Culto si accomodarono lentamente ai loro posti, seguiti dagli
accoliti. Le conversazioni ricominciarono, caute sulle prime, ma
rilassandosi poco a poco fino a riempire la stanza.
Mia si ritrovò a fissare il misterioso nuovo arrivato per tutto il pasto, con
gli occhi che tracciavano la linea della sua mascella, della sua gola. Era
certa che fosse un trucco della luce, ma i suoi lunghi capelli corvini
sembravano quasi muoversi e i suoi occhi scintillare di una certa luce
interiore.
Mia cercò Naev, ma la donna era seduta con altre Mani, troppo lontana.
«Ashlinn» sussurrò infine. «Chi è quello?»
La ragazza guardò Mia stupefatta. Suo fratello Osrik sollevò un
sopracciglio.
«Denti della Mannaia, Corvere, quello è Cassius. Il Principe Nero.
Signore delle Lame. Capo dell’intera congregazione. Il conto dei suoi corpi
è maggiore di una necropoli liisiana.»
«Cosa ci fa qui? È un insegnante?»
«No.» Osrik scosse il capo. «Non avevamo idea che sarebbe stato qui
stasera.»
«Papà ci diceva sempre che Cassius se ne stava alla larga da qui» disse
Ashlinn. «Mantiene segreti i suoi movimenti. Nessun discepolo della
Chiesa sa dove sarà finché non ci arriva. Frequenta la Montagna solo per le
cerimonie di iniziazione, dicono.»
Osrik annuì e lanciò un’occhiata agli studenti attorno a loro. «Alcuni
accoliti posano gli occhi su di lui appena una volta in tutta la vita. La notte
in cui li dichiara Lame a pieno titolo. Se verrai scelta, lui ti consacrerà
proprio come ha fatto la Reverenda madre stanotte al battesimo.» Il ragazzo
indicò il sangue secco sulle gote di Mia. «Ma lo farà col proprio sangue.
Quello del Signore delle Lame. Mano Destra della Madre in persona.»
Mia scoprì che non riusciva a staccare gli occhi da quell’uomo.
Ashlinn le rivolse un sorriso con le sue fossette.
«Per essere il capo di un culto di pluriomicidi, non è così brutto, vero?»
Mia scostò la frangia dalle ciglia, il cuore in gola. Ashlinn non stava…
«Continua a fissarmi, koffi» disse una voce profonda «e ti caverò quegli
occhi graziosi.»
Mia sbatté le palpebre nel silenzio improvviso e tornò a voltarsi verso il
proprio tavolo. Si accorse che il grosso ragazzo dweymeri stava parlando
con Tric, lo sguardo carico di disprezzo.
Tric si alzò, il coltello dell’arrosto stretto in mano.
«Come mi hai chiamato, bastardo?»
«Tu definisci me bastardo?» Il grosso Dweymeri rise. «Io mi chiamo
Chiamapiena, terzogenito di Corripioggia del clan Lanciamarina. Qual è il
tuo clan, koffi? Tuo padre ha almeno detto a tua madre come si chiamava
quando ha finito di togliersi la sua puzza dall’uccello?»
Tric impallidì e serrò la mascella.
«Sei un uomo morto, cazzo» sibilò.
Mia gli mise una mano sul braccio per trattenerlo, ma Tric si lanciò
verso la gola di Chiamapiena. Il ragazzo più grande si alzò in piedi e balzò
sopra il tavolo, sbattendo da una parte piatti, bicchieri, e perfino Mia e Zitto
nella fretta di arrivare a Tric. Mia cadde tra un’imprecazione e uno schianto
di stoviglie; la sua spalla andò a sbattere contro il ragazzo pallido,
levandogli il fiato in uno spruzzo di saliva.
Chiamapiena afferrò Tric in una stretta poderosa mentre finivano sul
pavimento tra piatti e bicchieri che si rompevano. Pesava un centinaio di
libbre più di Tric ed era probabilmente la persona più forte nella stanza. Era
più grosso perfino dello Shahiid di Canti, che voltò gli occhi ciechi verso la
mischia e tuonò: «RAGAZZI, BASTA!».
Ma loro non udirono ragione e continuarono a battersi, vibrare pugni e
sbraitare. Tric mise a segno un buon colpo sulla faccia di Chiamapiena,
schiacciandogli le labbra contro i denti. Ma Mia rimase stupefatta dalla
facilità con cui il grosso Dweymeri sottomise Tric, rigirandolo e vibrando
un colpo dopo l’altro contro le costole del ragazzo più piccolo, poi altri
sulla sua mascella. Gli accoliti si radunarono attorno alla zuffa, ma nessuno
mosse un dito per aiutare. Mia si staccò da Zitto e stava per intervenire
quando vide lo Shahiid Solis allontanare la propria sedia con un calcio e
dirigersi verso la mischia.
Anche se l’uomo sembrava completamente cieco, si mosse con passo
rapido e sicuro. Toccò la spalla di Chiamapiena con una mano, poi mollò un
gancio come un’incudine sulla mandibola del ragazzo, facendolo finire
lungo disteso. Tric cercò di rialzarsi, ma Solis gli conficcò lo stivale in
pancia, togliendogli con un colpo solo il fiato e la voglia di combattere.
Voltandosi verso Chiamapiena, lo Shahiid gli pestò con forza i gioielli e il
ragazzo dweymeri si raggomitolò in una palla urlante.
C’erano voluti solo pochi attimi, ma lo Shahiid aveva messo in riga
entrambi i ragazzi come cuccioli disobbedienti; per tutto il tempo, i pallidi
occhi senza vista erano stati rivolti verso il cielo.
«Vergognoso» ringhiò, afferrando entrambi i giovani gementi per la
collottola. «Se dovete combattere come cani, potete mangiare di fuori col
resto di loro.»
Lo Shahiid di Canti trascinò Tric e Chiamapiena sul balcone. Afferrando
entrambi per la gola, l’omone li spinse contro il parapetto, quel precipizio di
mille piedi spalancato sotto di loro. Tutti e due stavano soffocando e
artigliavano la stretta dello Shahiid. Gli occhi ciechi dell’uomo non
mostravano alcuna pietà: i ragazzi erano solo a un passo dalla morte sulle
rocce sottostanti. Mia aveva la mano sul pugnale quando la Reverenda
madre parlò.
«Basta, Solis.»
L’uomo inclinò la testa e voltò occhi bianco-latte verso il suono della sua
voce.
«Reverenda madre» disse.
Chiamapiena e Tric crollarono a terra ansimando. Mia stessa riusciva a
respirare a malapena. Cercò Cassius e scoprì che se n’era semplicemente
andato, una sedia vuota a indicare il punto dove il Signore delle Lame era
stato solo pochi istanti prima. Ancora una volta, giurò di non averlo
nemmeno visto muoversi. Madre Drusilla si spostò dal suo tavolo e si
diresse verso i due ragazzi che giacevano a terra tossendo e sputacchiando.
«Oh, ricordo cosa si prova a essere giovane. C’è sempre qualcosa da
dimostrare. E poi sono solo ragazzi, dicono.» Si inginocchiò e toccò la
guancia insanguinata di Tric, poi lisciò le salciocche di Chiamapiena. «Ma
voi non siete più ragazzi. Siete servitori della Madre, votati alla sua Chiesa.
Assassino uno, assassini tutti. E mi aspetto che tutti voi vi comportiate
come tali.» Alzò lo sguardo sugli accoliti radunati. «Stasera è stato dato un
pessimo esempio.»
Madre Drusilla aiutò i Dweymeri sanguinanti ad alzarsi in piedi e la sua
facciata matronale scomparve per un attimo quando ognuno dei suoi
ottantatré omicidi trasparì dalla sua voce.
«Dunque. La prossima volta che voi due finirete ad azzuffarvi come
ragazzi in un vicolo, mi assicurerò che rimaniate ragazzi per il resto delle
vostre vite. Sono stata chiara?»
Mia osservò quei due tipi grandi e grossi rimpicciolirsi e guardarsi i
piedi. E quando parlarono all’unisono, come marmocchi davanti a un
genitore che li stava sgridando, tutto ciò che riuscirono a tirar fuori fu uno
squittio.
«Sì, Reverenda madre» dissero.
«Bene.» Quel sorriso materno tornò come se non se ne fosse mai andato,
e Drusilla spostò uno sguardo gentile sugli accoliti. «Credo che la cena sia
terminata per stasera. Andate alle vostre camere, tutti quanti. Domani
cominciano le lezioni.»
Il gruppo si disgregò lentamente, defilandosi giù per le scale. Quando
Mia andò al fianco di Tric ed esaminò il taglio insanguinato sulla fronte,
notò Jessamine che la osservava con le labbra contorte in un sogghigno.
Chiamapiena se ne andò zoppicando, lo sguardo omicida ancora dipinto sul
volto. Ashlinn si congedò da Mia con un cenno del capo e scese per le
scale. Mia si ritrovò a fissare per un’ultima volta il posto dove era stato
seduto Cassius.
“Mano Destra della Madre in persona…”
Rimase in silenzio per tutto il tragitto fino alle camere da letto, sempre
più arrabbiata. Perché Tric era scattato così facilmente? Dov’era sparito il
ragazzo taciturno che aveva sopportato gli scherni nella sala comune del
Vecchio Imperiale? Aveva perso la calma di fronte al signore dell’intera
congregazione. Nel corso della sua prima sera. Il suo accesso d’ira avrebbe
potuto farlo uccidere. Questo non era un luogo che perdonava gli errori.
Alla fine, proprio fuori dalla sua porta, Mia non riuscì più a trattenersi.
«Sei uscito di testa?» sibilò, con la voce più forte che osava. «Cos’è
stato?»
«Come vanno le costole, Tric?» chiese lui. «Non ho potuto fare a meno
di notare che ti hanno preso a calci come si deve. Oh, io sto bene, Figlia
Pallida, grazie per…»
«Che ti aspettavi? È il nostro primo cambio tra queste mura e tu hai già
fatto incazzare lo Shahiid Solis e probabilmente l’assassino più temuto della
Repubblica itreyana. E non dimentichiamoci dell’accolito che ha intenzione
di ucciderti.»
«Mi ha chiamato koffi, Mia. È fortunato che non gli abbia fracassato la
testa.»
«Cos’è un koffi?»
«Lascia stare.» Strattonò via il braccio dalla sua stretta. «Dimenticatelo.»
«Tric…»
«Sono stanco. Ci vediamo domani.»
Il ragazzo si allontanò, lasciando Mia sola con Naev. La donna la
osservò con occhi scuri e attenti, aleggiando come una falena attorno a una
fiamma nera. Mia aveva la fronte corrucciata e fissava l’enigma incompleto
davanti a lei.
«… Non è che per caso parli dweymeri, vero?» chiese.
«No. Anche se Naev è certa che esistano tomi di traduzione
nell’Ateneo.»
Mia si morse il labbro. Immaginò il suo letto, con le montagne di cuscini
e le pellicce morbide.
«È aperto anche così tardi?»
«La biblioteca è sempre aperta, qui. Ma per accedervi senza invito…»
«Potresti portarmici? Per favore?»
Gli occhi scuri della donna scintillarono. «Come lei desidera.»
Scale e arcate. Arcate e scale. Mia e Naev camminarono per quelle che
sembravano miglia faticose, soltanto con la pietra come compagnia. La
ragazza cominciò a pentirsi di non essere andata a letto: il viaggio da
Ultima Spes cominciava a presentarle il conto e lei stava esaurendo
rapidamente le forze. Perse l’orientamento diverse volte: corridoi e scale
sembravano tutti uguali e iniziò a sentirsi disperatamente disorientata.
«Come fai a non perderti qua dentro?» chiese.
La donna tastò i motivi a spirale intagliati nelle pareti. «Naev legge.»
Mia toccò la roccia gelida.
«Queste sono parole?»
«Di più. Sono una poesia. Una canzone.»
«Di cosa parla?»
«Di come trovare la strada al buio.»
«Trovare la biblioteca è più che sufficiente. I miei occhi stanno per
andare a letto senza di me.»
«Allora è una buona cosa: siamo arrivati.»
In fondo al passaggio torreggiavano delle doppie porte. Il legno era
scuro, intagliato con lo stesso motivo a spirale inciso sulle pareti. Mia notò
che non c’erano maniglie, e le ante dovevano pesare una tonnellata l’una.
Eppure Naev le aprì gentilmente con una spinta e i cardini emisero a
malapena un sussurro quando si spalancarono.
Mia entrò e, per la terza volta durante quel cambio, sentì i polmoni dire
addio al suo fiato. Si trovava a un piano ammezzato che si affacciava su un
bosco scuro, una foresta di scaffali elaborati, disposti come un labirinto
vegetale. E ogni ripiano ospitava libri. Pile di libri. Montagne di libri.
Oceani su oceani di libri. Libri di cartapecora macchiata e pergamena
nuova. Libri rilegati in cuoio, legno e foglie, libri chiusi a chiave e libri
impolverati, libri spessi quanto la sua vita e minuscoli quanto il suo pugno.
Gli occhi di Mia si erano illuminati e le sue unghie intaccavano la ringhiera
di legno.
«Naev, non lasciarmi laggiù» mormorò.
«Perché no?»
«Non mi rivedresti più…»
«Parole più vere non sono mai state pronunciate» disse una voce roca.
«A seconda del corridoio scelto.»
Mia si voltò verso chi aveva parlato e vide un Liisiano avvizzito
appoggiato contro la ringhiera opposta. Era vestito con brache e un
panciotto trasandato. Un paio di occhiali estremamente spessi era in
equilibrio su un naso a uncino e due folte masse di capelli bianchi
spuntavano da una testa dalla calvizie incipiente, come se non riuscissero a
decidere quale fosse la migliore via di fuga. La schiena era piegata come un
punto interrogativo. Un sigaretto gli pendeva dalla bocca, e ne aveva un
altro dietro l’orecchio. Sembrava avere settemilaquattrocentocinquantadue
anni.
Era in piedi accanto a un piccolo carrello di legno carico di libri con
scritto sopra RESI .
«È saggio?» disse Mia.
«Cosa?» replicò l’uomo sorpreso.
«Questa è una biblioteca. Non si può fumare in una dannata biblioteca.»
«Oh, merda…»
Il vecchio prese il sigaretto, lo osservò brevemente con aria
meditabonda, poi se lo rimise in bocca.
«E se i libri prendessero fuoco?» chiese Mia.
«Oh, meeeeerda» esclamò il vecchio, esalando una nuvola che le fece
pizzicare la lingua.
«Be’… posso averne uno, allora?»
«Uno di cosa?»
«Un sigaretto.»
«Sei scema?» L’uomo la scrutò attraverso quegli occhiali enormi. «Non
puoi fumare in una dannata libreria. E se i libri prendessero fuoco?»
Mia agganciò i pollici alla cintura e inclinò la testa. «Oh, meeeeerda?»
Il vecchio si tolse il sigaretto dall’orecchio, lo accese col proprio e lo
offrì alla ragazza. Mia sorrise e prese una boccata della paglia dal retrogusto
di fragola, leccandosi le labbra e apprezzando la carta zuccherata. Naev
gesticolò verso il vecchio.
«Naev presenta il Cronista Aelius, custode dell’Ateneo.»
«Tutto bene?» chiese il vecchio.
«Tutto bene» annuì Mia.
«Splendido.»
Naev tossì in mezzo a quella coltre sempre più densa. «Cronista, lei
cerca la traduzione di una parola dweymeri. Desidera un libro
sull’argomento. Lui ne ha uno in sua custodia?»
«Ne ho molti, senza dubbio. Ma se è solo una parola quella che l’accolita
vuole conoscere, probabilmente posso risparmiarmi la ricerca e dirgliela
qui.»
«Parlate dweymeri?» chiese Mia.
«Se esiste una lingua parlata sotto i soli di cui non sono a conoscenza,
puoi cavarmi gli occhi e usarli come biglie, ragazzina.» b
«Be’, per quanto l’idea di vagare per i corridoi sarebbe allettante in
qualunque altro cambio, il mio adorabile letto di pelliccia mi sta chiamando,
buon Cronista.» Mia prese una lunga tirata. «Perciò se poteste darmi un
significato assieme a quest’ottima paglia, sarei doppiamente in debito con
voi.»
«Pronuncia la parola.»
«Koffi.»
«Uff.» L’uomo trasalì. «Chi ti ha chiamato a quel modo?»
«Nessuno.»
«Una buona cosa… Aspetta, non l’avrai detta tu a qualcun altro?»
«Non ancora.»
«Be’, non farlo. È praticamente l’insulto peggiore che tu possa rivolgere
a un Dweymeri.»
«Cosa significa?»
«Una traduzione approssimativa? Figlio dello stupro.» Il vecchio sbuffò
del fumo. «I peggiori pirati dweymeri hanno l’abitudine di… fare i loro
comodi con le persone che catturano. Un koffi è il prodotto di tale
scelleratezza. Un mezza-casta. Il figlio bastardo di una madre nolente.»
«Denti della Mannaia» mormorò Mia. «Non c’è da meravigliarsi che
Tric volesse ucciderlo…»
Aelius spense la sua paglia sulla parete e si infilò in tasca il mozzicone
spento.
«Tutto qui quello che ti serviva? Una parola?»
«Per adesso.»
«Be’, allora me ne vado. Troppi libri. Troppo pochi secoli.»
«I miei ringraziamenti, Cronista Aelius.»
«Buona fortuna con le lezioni di canto domani.»
Mia si accigliò e osservò la sua schiena curva mentre si allontanava.
Spense il proprio sigaretto e guardò verso Naev. «Ora di andare a letto, se
sei così gentile da fare strada.»
«Ma certo.»
La donna guidò Mia nuovamente per quel labirinto tortuoso. Chiazze di
illuminazione arkemica si riversavano da finestre a vetri colorati. Mia
giurava che fossero tornati per una strada diversa rispetto a prima… oppure
le pareti si stavano muovendo. Nella sua mente giravano ingranaggi come
in un mekana.
Era vero quello che aveva detto Chiamapiena? Non era possibile che i
genitori di Tric si fossero amati, anche se ciascuno aveva una carnagione
diversa? Mia non poté fare a meno di ricordare lo sguardo omicida di Tric.
Sarebbe stato offeso a quel modo se non ci fosse stata alcuna verità dietro
l’insulto?
Mia si domandò se parlarne a Tric. Non voleva dover passare le sue
illuminotti a preoccuparsi del coltello che lo attendeva nel buio, ma il
ragazzo era ostinato come una carrettata di muli. Già le bastava doversi
guardare le spalle da Jessamine. Tric non aveva i non-occhi sulla nuca come
Mia, e Chiamapiena aveva già dimostrato di poter facilmente avere la
meglio su di lui in un corpo a corpo.
Se quel ragazzo non fosse stato attento, poteva finire ammazzato.
Allora potete immaginare la sorpresa di Mia quando Chiamapiena fu
scoperto steso nell’ombra della statua di Niah il mattino successivo. Una
pozza di sangue si stava raffreddando tra i nomi sulla pietra incisa attorno a
lui.
La sua gola era stata tagliata da un orecchio all’altro.
a. Come potete immaginare, gentili amici, i metodi con cui i soli possono essere tenuti a bada in una
terra dove quelle sfere bastarde non tramontano quasi mai godono di considerevole importanza.
Le stanze da letto principali nella Repubblica spesso vengono costruite nei seminterrati, mentre gli
ospiti nelle taverne più esclusive pagano un supplemento per alloggiare nelle camere senza
finestre. La somnialgia – un malanno che consegue alla mancanza di sonno profondo – è un
malessere sempre più problematico, e anche se il clero di Aa lo bruciò come eretico, nella Fila dei
Visionari dell’atrio grande del Collegio di Ferro si può trovare ancora una statua di Dominus
Augustine D’Antello, inventore delle imposte a triplo strato.
b. In effetti, esistevano tre lingue parlate sotto i soli di cui il Cronista Aelius non aveva alcuna
conoscenza.
La prima era parlata da un clan di montagna nello Spartiacque orientale che non aveva mai
avuto alcun contatto con i forestieri che non fosse terminato su uno spiedo.
La seconda era un dialetto particolare del liisiano antico, parlato esclusivamente da un culto
dell’apocalisse a Elai noto come gli Aspettatori (la loro congregazione ammontava esattamente a
sei, uno dei quali era un cane di nome Rolf ma a cui i suoi compagni si riferivano come “il
Principe Giallo”).
E, per ultima, la lingua dei gatti. Oh, sì, i gatti parlano, gentili amici, non dubitatene: se ne
possedete più di uno e non riuscite a vederli in questo particolare momento, è probabile che siano
in un angolo da qualche parte a lamentarsi del fatto che il loro padrone passa tutto il suo tempo a
leggere stupidi libri invece che dedicare a loro l’attenzione che si meritano ampiamente.
LIBRO 2
FERRO O VETRO
CAPITOLO 10
CANTO

Ventisette accoliti si trovavano nella Sala degli Elogi.


Uno in meno di ieri.
Mia li guardò interrogandosi. Jessamine con i suoi capelli rossi e gli
occhi da cacciatrice. Un robusto giovane con la carnagione olivastra a cui
mancava un orecchio e che si mangiava le unghie. Una ragazza esile con
cortissimi capelli neri e un marchio da schiava sulla guancia, che
ondeggiava sui piedi come un serpente. Un brutto ragazzo vaaniano con le
mani tatuate che sembrava sempre parlare tra sé. Mia stava ancora
associando le facce ai nomi. Ma anche se in gran parte le erano ancora
estranei, sapeva una cosa su ogni accolito attorno a lei.
“Assassini, tutti quanti.”
La statua della Madre della Notte torreggiava sopra di loro, fissandoli
con occhi spietati. Le voci si erano diffuse tra gli accoliti mentre si
dirigevano alla sala prima del primopasto. Due Mani erano in ginocchio a
sfregare la pietra ai piedi della dea con spazzole di crine di cavallo. L’acqua
nei loro secchi era di un lieve rosso trasparente.
Il corpo di Chiamapiena non si vedeva da nessuna parte.
Ashlinn si accostò a Mia e parlò piano con lo sguardo fisso in avanti.
«Hai sentito del ragazzo dweymeri?»
«… Qualcosa.»
«Dicono che gli abbiano tagliato la gola di netto.»
«Così ho sentito.»
Tric, alla destra di Mia, non disse una parola. La ragazza guardò l’amico,
esaminando il suo volto in cerca di qualche segno di colpevolezza. Tric era
sicuramente un assassino… ma tutti in quella sala lo erano. Solo perché lui
e Chiamapiena si erano azzuffati la sera prima, non voleva dire che sarebbe
stato in cima alla lista dei sospettati. La Reverenda madre Drusilla avrebbe
dovuto pensare che fosse un idiota per uccidere Chiamapiena con un
movente tanto ovvio…
«Credi che il Culto indagherà?» chiese Mia.
«Hai sentito cos’ha detto Madre Drusilla. “Assassino uno, assassini tutti.
E mi aspetto che tutti voi vi comportiate come tali.”» Ashlinn lanciò
un’occhiata a Tric. «Forse qualcuno l’ha semplicemente presa alla lettera.»
«Accoliti.»
Le ragazze alzarono lo sguardo e videro la Reverenda madre Drusilla, i
capelli sciolti e le dita intrecciate. Era arrivata senza un sussurro, come se
fosse fuoriuscita dalle ombre stesse. L’anziana parlò e la sua voce
riecheggiò nella penombra.
«Prima dell’inizio delle lezioni, ho un annuncio da fare. Sono certa che
tutti voi avete saputo dell’omicidio del vostro compagno accolito ieri sera,
qui in questa stessa sala.» Drusilla guardò il punto umido sulla pietra, che le
Mani stavano ancora sfregando. «La morte di Chiamapiena è
profondamente spiacevole e il Culto indagherà a fondo. Se avete qualunque
informazione, portatela nella mia camera entro la fine del cambio. Ci
troviamo nella Chiesa della Nostra Signora dell’omicidio benedetto e le vite
dei vostri compagni appartengono a lei, non a voi. Se questo omicidio è
stato commesso come un atto di vendetta, ripicca o semplice calcolo a
sangue freddo, il colpevole sarà punito di conseguenza.»
Mia era certa che gli occhi della donna si fossero soffermati su Tric
quando aveva detto “vendetta”. Lanciò un’occhiata al suo amico, ma la
faccia del ragazzo rimaneva impassibile.
«Comunque,» continuò Drusilla «mentre l’indagine sarà in corso, agli
accoliti sarà proibito lasciare le loro camere dopo il suono della nona
campana. Potrà esservi concessa una dispensa speciale dai vostri Shahiid
per scopi di addestramento e studio, ma vagare senza meta per i corridoi
non sarà permesso. Coloro che saranno scoperti a violare questo divieto
saranno puniti severamente.»
Madre Drusilla soffermò lo sguardo su ciascun accolito a turno. Mia si
domandò cosa costituisse una “punizione severa” tra un gregge di assassini
fanatici.
«Ora» terminò Drusilla. «Dirigetevi all’Aula di Canti e aspettate lo
Shahiid Solis in silenzio.»
La donna scomparve nelle ombre in un vorticare di vesti nere.
Su e giù per la fila di accoliti si diffusero mormorii. La ragazza con il
marchio da schiava stava fissando Tric intensamente. Il giovane dalla pelle
olivastra si stava tormentando il grumo di carne dove un tempo si trovava il
suo orecchio e guardava il Dweymeri a occhi stretti. Tric ignorò i loro
sguardi e seguì le Mani che erano apparse per accompagnarli. Dopo una
salita spossante fino a quella che poteva essere la vetta della Montagna, Mia
e i suoi compagni si trovarono nell’Aula di Canti.
Non aveva idea del perché quella stanza fosse chiamata così, anche se
sospettava che non avesse nulla a che fare con l’acustica. a Una finestra
tonda di vetro colorato era posta sul soffitto e faceva entrare un faro di
brillante luce dorata nel cuore della stanza. L’aula era enorme, i bordi
inghiottiti dalle ombre, anche se Mia notò tracce di quegli stessi motivi
vorticanti alle pareti. Sentiva l’odore di sangue vecchio, sudore, olio e
acciaio. Fantocci da addestramento, bersagli per il tiro con l’arco e
attrezzature per l’esercizio fisico erano disposti su file ordinate. Il
pavimento era di granito nero e un cerchio era inciso al centro della stanza,
abbastanza ampio per quaranta uomini affiancati. Ogni accolito prese posto
attorno a esso e, come ordinato, molti si prepararono ad aspettare la loro
prima lezione in silenzio.
Ashlinn prese posto alla sinistra di Mia e cominciò a sussurrare prima di
dieci secondi.
«Coprifuoco alle nove. Riesci a crederci?»
Mia si guardò attorno per la stanza prima di rispondere. «Non che ci sia
molto da fare qui dopo che si spegne la luce, comunque.»
La ragazza sogghignò. «Oh, Corvere. Non hai la minima idea.»
«Allora perché…»
«Vi era stato ordinato di attendere in silenzio.»
Una voce profonda riecheggiò per l’Aula di Canti, rimbalzando dalle
pareti oltre la loro vista. Mia non udì alcun passo, ma lo Shahiid Solis
emerse dalle ombre dietro di lei, le mani serrate alle sue spalle. Mentre le
passava accanto, Mia si rese conto che l’uomo era ancora più imponente da
vicino, con quelle spalle larghe e gli occhi bianchi come fantasmi.
Indossava morbide vesti nere e lo stesso fodero vuoto alla cintura. Eppure si
muoveva con una grazia silenziosa, come se stesse ascoltando una melodia
che solo lui poteva sentire.
«Una Lama della Madre dev’essere silenziosa come la luce delle stelle
sulla guancia di un infante addormentato» disse entrando nel cerchio. «Una
volta mi nascosi nel Grande Ateneo di Eali per sette cambi ad aspettare che
la mia Offerta si mostrasse, e nemmeno i libri seppero che ero lì.» b Si voltò
verso Mia e Ashlinn. «E voi ragazze non riuscite a tacere nemmeno per una
manciata di secondi.»
«Perdono, Shahiid» implorò Ashlinn con un inchino.
«Tre giri di scale per te, ragazza. Su e giù. Vai.»
Ashlinn rimase lì incerta. Lo Shahiid la guardò torvo, con quegli occhi
senza vista che sembravano penetrarle il cranio.
«Sei giri, allora. Il numero raddoppia ogni volta che devo ripetermi.»
Ashlinn si inchinò di nuovo e, mormorando ancora le sue scuse, si
allontanò dall’aula. Solis si voltò verso Mia, gli occhi incolore fissi sopra la
sua spalla. Lei notò che non sbatteva mai le palpebre.
«E tu, ragazza? Hai qualcosa da dire?»
Mia rimase in silenzio.
«Ebbene?» Lo Shahiid si avvicinò, torreggiando sopra di lei.
«Rispondimi!»
Mia tenne lo sguardo sul pavimento e rispose con voce ferma. «Perdono,
Shahiid, ma con tutto il dovuto rispetto, credo che qualunque cosa dirò sarà
semplicemente considerata come un’ulteriore infrazione del silenzio che
avete richiesto e voi non farete altro che punirmi di più.»
Le labbra dell’uomo imponente si incurvarono in un piccolo sorriso.
«Sei una sgualdrinella sveglia, eh?»
«Se fossi sveglia, non sarei stata beccata a parlare, Shahiid.»
«Un peccato, allora. C’è pochissimo altro degno di nota in te.» Solis
indicò le scale. «Tre giri. Su e giù. Via.»
Mia si inchinò e lasciò l’aula senza una parola.
Si stiracchiò le gambe sul pianerottolo, poi cominciò a correre, contando
i gradini nella testa. c Si domandò come facesse Solis a sapere se il suo
aspetto fosse degno di nota o no – quegli occhi erano ciechi come un
ragazzo innamorato, lei ci avrebbe scommesso la vita – ma l’uomo si
comportava come se fosse in grado di vedere quanto lei. A metà del
secondo giro, tutti i suoi pensieri sullo Shahiid erano cessati e la sua
attenzione era concentrata sul correre per le scale. Raggiunta la cima, aveva
le gambe come gelatina, e di nuovo ringraziò in silenzio il suo vecchio
maestro per tutte le scale di Godsgrave su cui l’aveva fatta correre come
punizione. Quasi desiderò essersi comportata male più volte.
Ashlinn (che Mia aveva doppiato negli ultimi cinquanta piedi) raggiunse
la cima madida di sudore e le fece l’occhiolino mentre si fermava a
riprendere fiato.
«Spiacente, Corvere» ansimò. «Mio padre mi aveva avvisato su Solis.
Avrei dovuto sapere di stare attenta.»
«Nessuno si è fatto male» sorrise Mia.
«Aspetta e vedrai. Ho ancora tre giri» sogghignò Ashlinn. «Ci vediamo
dentro.»
Mia tornò verso l’aula, le mani sui fianchi. Rientrò in tempo per vedere
il tirapiedi di Jessamine – l’alto accolito itreyano con pugni come magli –
entrare nel cerchio con lo Shahiid Solis. Notò altri sei novizi tra cui
Jessamine, il ragazzo pallido che aveva detto di chiamarsi Zitto e la giovane
con il marchio da schiava accasciati al loro posto sul cerchio, sudati e
ansimanti. Tutti sanguinavano da minuscoli graffi sulle guance.
Solis era in piedi al centro dell’anello. Mia vide che si era tolto la veste
scura e sotto aveva un completo di cuoio flessibile bruno-dorato. Vide una
serie di piccole cicatrici su un avambraccio poderoso, trentasei in totale.
L’uomo portava ancora il fodero vuoto al fianco, ma adesso era armato con
un gladio a doppio filo, una lama ideale per il combattimento ravvicinato.
Dozzine di rastrelliere erano state spostate dall’oscurità sulle loro ruote:
erano piene di ogni genere di arma Mia potesse immaginare. Spade e
coltelli, martelli e mazze… denti della Mannaia, ce n’era perfino una di
dannati mazzapicchi. Tutte erano semplici e disadorne, di una bellezza
perfetta e letale.
Lo sguardo cieco di Solis era fisso sul pavimento. «Come ti chiami,
ragazzo?»
Il grosso Itreyano si inchinò e rispose: «Diamo, Shahiid».
«E sei esperto nel canto della lama, piccolo Diamo.»
«Conosco una melodia o due.»
«Cantamele, allora.»
Mentre Mia riprendeva il suo posto sul cerchio, Diamo esaminò le
rastrelliere. Prese una spada lunga cinque piedi buoni e l’acciaio tagliò
l’aria con un sibilo quando provò un fendente. Mia annuì fra sé. Il ragazzo
aveva scelto un buon modo per contrastare la lama corta di Solis, perciò
almeno conosceva le basi. L’allungo superiore gli avrebbe dato un po’ di
spazio di manovra.
Diamo si mise in posizione di guardia di fronte a Solis e gli rivolse un
altro inchino. Lo Shahiid se ne stava lì, con l’arma rivolta verso il basso, la
testa inclinata e all’apparenza impreparato.
«Non sento cantare, ragazzo.»
Diamo sollevò la sua spada ed effettuò un affondo. Era un buon colpo,
un arco ampio che avrebbe tagliato la gola dello Shahiid se non fosse stato
bloccato. Ma davanti agli occhi stupefatti di Mia, Solis venne avanti e lo
deviò. Quindi attaccò Diamo e il ragazzo si ritrasse in posizione di guardia,
riuscendo a stento a respingere una gragnola di colpi a testa, gola, torace e
parti basse. L’acciaio cantava sull’acciaio e l’aula riecheggiava di quella
melodia tra minuscole scintille che volavano a ogni bacio delle lame. Il
volto di Solis era sereno come quello di un bimbo sognante, gli occhi ciechi
fissi sul pavimento. Ma la sua ferocia era terrificante e la sua velocità
formidabile. Quello scambio durò per qualche altro momento, in cui Solis
permise al ragazzo di assestare qualche altro colpo lodevole, bloccandoli
tutti quanti. E infine, mentre Mia osservava rapita, la spada di Diamo fu
sbalzata via dalla sua stretta mentre la lama di Solis si posò delicatamente
sulla guancia del ragazzo lustra di sudore.
Accadde così rapidamente che Mia vide a malapena l’uomo muoversi.
Diamo sussultò quando la spada fece scorrere il sangue, solo un taglietto
perché si ricordasse della sconfitta. Solis gli voltò le spalle e abbassò la
spada sul pavimento ancora una volta.
«Una dimostrazione mediocre.»
«Le mie scuse, Shahiid.»
Solis sospirò mentre Diamo riprendeva il suo posto al bordo del cerchio.
«Non c’è nessuno in questa stanza che conosca il canto?»
«Io sono intonato.»
Mia sorrise quando udì Tric parlare. Aveva gli occhi neri per la sua
baruffa con Chiamapiena, ma pareva essere dell’umore giusto per
combattere, malgrado il fatto che Solis l’avesse quasi gettato giù dall’Altare
del Cielo all’ultimopasto. Si tolse la veste, mostrando cuoio scuro e un
farsetto a maniche corte al di sotto. Mia si ritrovò ad ammirare la linea dei
muscoli lungo le braccia e la tensione della pelle abbronzata. Ripensò al
loro scontro fuori dalla Montagna, alle immagini di lussuria e violenza
intrecciate, e si umettò le labbra secche.
«Ah. Il nostro giovane mezzosangue.» Solis annuì. «Ho appreso tutto ciò
che mi serviva sapere sulla tua forma ieri. Ma vieni, cucciolo,» lo chiamò
con un cenno della mano «fammi sentire come ringhi.»
Mia era lieta di vedere che Tric sembrava aver imparato qualcosa dalle
botte che aveva ricevuto, poiché si scrollò di dosso l’insulto senza
scomporsi. Il ragazzo scelse una scimitarra dalle rastrelliere ed entrò nella
luce dorata. Solis rimase di nuovo immobile, la lama verso il basso mente
Tric si avvicinava. Ma anche se la forma del Dweymeri era letale e i suoi
colpi rapidi e precisi, lo scontro si rivelò una ripetizione di quello con
Diamo. Tric si ritrovò disarmato, senza fiato e sanguinante per un nuovo
graffio lungo la guancia.
Solis si voltò scuotendo il capo.
«Patetico. Mai avuto un gregge peggiore. Cosa vi hanno fatto studiare i
vostri maestri prima di venire qui? Cucina e lavoro a maglia?» Voltò quello
sguardo cieco attorno al cerchio. «Le Lame migliori non hanno affatto
bisogno dell’acciaio. Ma ci si aspetta che tutti voi siate capaci di affettare la
luce in sei parti prima di lasciare queste mura.» Sospirò. «E scommetto che
nessuno di voi è in grado di affettare una pagnotta di fottuta segale.»
Indicò le rastrelliere.
«Ognuno di voi prenda un coltello e mettetevi in formazione di fronte a
me. Cominceremo dalle basi.»
«Shahiid» disse Mia.
«Ah. È tornata la chiacchierona. Mi domandavo cosa fosse
quell’aroma.»
«… mia, non…»
«Shahiid, dovete ancora sentirmi cantare.»
«Risparmiati per le lezioni di Aalea, ragazza. So tutto quello che mi
serve su di te.»
Mia entrò nel cerchio. «A ogni modo, mi piacerebbe provare.»
Solis inclinò la testa fino a far schioccare il collo. Poi tirò su col naso.
«Fai in fretta, allora.»
Mia si diresse alle rastrelliere e scelse un paio di lunghi coltelli, curvi
nello stile liisiano. Per quanto sembrassero ordinari, erano estremamente
affilati e il loro peso perfetto. Erano le armi più veloci sulle rastrelliere,
leggere ed eleganti. Ma erano più corte della spada di Solis, utili solo a
distanza estremamente ravvicinata. Mentre Mia rientrava nel cerchio, lo
Shahiid ridacchiò.
«Affronti un avversario armato di gladio e scegli dei pugnali per cantare.
Sei sicura di conoscere le parole, ragazza?»
Mia non disse nulla e assunse una posa orientata sulla sinistra con un
piede in avanti, tamburellando con le dita sulle impugnature dei coltelli. La
finestra di vetro colorato sopra di loro proiettava una pozza scura ai suoi
piedi. Percepì Messer Cortese raggomitolato dentro di essa, che beveva la
sua paura a grossi sorsi. E senza attendere un altro insulto, si protese verso
l’ombra di Solis e tirò.
Anche se aveva usato la tenebra mille volte, non riusciva a ricordarsi di
averla mai percepita a questo modo. Forse era perché in questo posto non
c’erano soli, ma lì la sua forza sembrava superiore e l’oscurità più facile da
piegare. Invece di avvolgere i piedi dello Shahiid nella propria ombra, usò
semplicemente quella dell’uomo, infilandola nelle suole dei suoi stivali.
Nessuno all’interno della stanza poteva sapere cosa stava facendo. Non
c’era neanche un’increspatura a guastare il nero attorno ai piedi dello
Shahiid. Eppure, quando tentò di cambiare il proprio appoggio, il cieco
scoprì di avere gli stivali incollati al pavimento.
Solis sgranò gli occhi quando Mia colpì, un colpo sibilante diretto
proprio alla sua gola. Parò, sbattendo da parte la mano destra di Mia e
facendo volare il suo pugnale per la stanza. Ma con una velocità che una
falena-drago avrebbe invidiato, la ragazza piroettò con i capelli che
svolazzavano, colpendo con la sinistra e scalfendo la guancia dello Shahiid.
Tutti gli accoliti lì riuniti rimasero senza fiato. Una goccia di sangue
cadde dalla faccia di Solis. Tric lanciò un urlo di trionfo. Per un attimo, Mia
si ritrovò a sogghignare soddisfatta per aver versato il sangue di questo
altezzoso bastardo.
Ma solo per un secondo.
Solis l’afferrò per il polso e lo piegò all’indietro in una morsa salda come
il ferro. Vibrò la spada corta contro i propri stivali e due fibbie saltarono via
nell’oscurità. Con le suole ancora incollate al pavimento, lo Shahiid balzò
fuori dalle calzature e volteggiò sopra la testa di Mia. Atterrò sulla pietra
dietro di lei, con il polso ancora stretto nella mano.
Mia lanciò un urlo quando lui torse, piegandola in due e tendendo ancora
di più il suo braccio. Il gomito urlava di dolore e la spalla minacciava di
staccarsi dal suo alloggiamento.
«Ragazza sveglia» disse Solis, torcendole il braccio in modo sempre più
doloroso. «Ma questa è l’Aula di Canti, piccolina, non quella delle Ombre.»
La guardò con quegli occhi ciechi e spietati.
«E non ho chiesto di sentir cantare la mia ombra.»
Solis sollevò la propria lama in una stretta tanto poderosa da far
sbiancare le nocche. Poi la calò come un tuono dal cielo e Mia urlò tutto il
tempo quando colpì
una
due
tre volte
e le tranciò il braccio all’altezza del gomito.

a. Anche se in effetti era eccezionale. Falalalalaaaaaaa.


b. Non del tutto vero. Alcuni dei libri nella grande biblioteca di Liis sono davvero perspicaci.
c. Mia avrebbe corso queste particolari scale centinaia di volte nel corso della sua permanenza alla
Chiesa Rossa. Avrebbe contato i gradini ogni volta. E anche se non ne parlò mai a nessuno e non
fu del tutto sorpresa da quel fatto, il numero di gradini cambiava ogni volta che li percorreva.
CAPITOLO 11
RICREATA

Sangue. Dolore. Buio.


Era tutto ciò che Mia ricordava dei momenti subito dopo che Solis le
aveva staccato di netto il braccio. Il dolore era stato incandescente e
accecante, gorgogliando su dallo stomaco assieme al vomito e alle urla. Era
calato il buio, dolce, nero e pieno di sussurri, la voce di Messer Cortese da
qualche parte in lontananza, mista ad altre che non conosceva.
«… tieni duro, mia…»
«Oh, Solis, povero Solis. Se solo tua madre ti avesse amato di più…»
«Che disastro. Sei certa che varrà cotale dolore?»
«Drusilla stima di sì. E poi il suo viso mi aggrada.»
«… mia, aggrappati a me…»
«Un rimedio per quel malanno, ce l’ho sulla punta delle dita. Ne detengo
la certezza.»
«Comportati bene, amata sorella, sorella mia.»
«Che ritratto potrei dipingere su una tela siffatta. Che orrore potrei
donare al mondo.»
«… non mollare…»
Mia si svegliò con un urlo.
Una luce arkemica nei suoi occhi. Cinghie di cuoio a tenerla ferma. Si
dibatté contro di esse e sentì mani gentili e una voce dolce che le diceva
“zitta, zitta, dolce bambina”, poi alzò lo sguardo su una faccia che avrebbe
tormentato i suoi sogni a occhi aperti.
Un uomo. Alto, snello e pallido come un cadavere appena dissanguato. I
suoi occhi erano rosa e la pelle sembrava fatta di marmo, con un flebile
intreccio azzurro di vene al di sotto. I capelli erano pettinati all’indietro,
bianchi come neve invernale, e una veste di seta aperta rivelava un petto
liscio e sodo. Era il tipo di uomo bellissimo che offuscava tutto il mondo
attorno a lui. Ma era freddo. Esangue. La sua era la bellezza di una persona
che si era appena suicidata, stesa in una cassa di pino nuova. Quella che sai
che si guasterà dopo un’ora o due sottoterra.
«Resta immobile, dolcezza» disse lui. «Sei al sicuro, sana e di nuovo
integra.»
Mia ricordò la lama di Solis, il dolore del braccio che le veniva staccato
dal corpo. Ma guardando oltre le cinghie di cuoio e le fibbie attorno al suo
bicipite, vide che il braccio sinistro – nero, bluastro e pulsante di dolore – in
qualche modo era di nuovo attaccato al gomito. Deglutì, combattendo una
nausea improvvisa, l’aria troppo rarefatta per respirare.
«Il mio braccio…» rantolò. «Lui…»
«Andrà tutto bene, dolce bambina, sarà tutto a posto.» L’uomo sorrise
con labbra bluastre e le liberò il braccio. «I tuoi dolori sono smorzati, se
non sanati del tutto. Il tempo metterà a posto il resto.»
Mia tenne a bada la nausea e appallottolò le dita in un pugno. Avvertì un
pizzicore in ogni dito e un vago dolore al gomito dove la lama di Solis
l’aveva tagliata.
«Come?» mormorò.
«Sono stato io a interrompere l’emorragia, ma la tua carne è stata salvata
dalla mia Marielle. È lei a cui devi rivolgere gran parte dei ringraziamenti.»
L’uomo chiamò a gran voce. «Vieni, amata sorella, sorella mia. Mostra il
tuo volto. In verità, non temo che alcuna ombra possa nasconderti alla vista
di costei.»
Mia udì un movimento, poi voltò la testa e represse un rantolo. Lì nella
penombra vide una donna, ingobbita e deforme. Era un’albina come
l’uomo, avvolta in una veste nera, ma quel poco che Mia poteva vedere
della sua carne era semplicemente ributtante. Crepata e gonfia, sanguinante
e gocciolante, marcia fino all’osso. La donna emanava un sentore di
profumo, ma sotto di esso Mia poteva fiutare una dolcezza più cupa.
L’odore dolciastro della rovina. Di imperi caduti che ammuffivano nella
terra umida.
«Che mi prenda la Mannaia» mormorò Mia.
Un mezzo sorriso sbocciò su labbra sfigurate. «Lei ti ha già, bambina.»
«Chi sei?»
«Sono l’Oratore Adonai» disse l’uomo. «E la mia amata sorella, la
Tessitrice Marielle.»
«Oratore?» chiese Mia. «Tessitrice?»
«… sono stregoni…»
Marielle si voltò verso Messer Cortese, ora materializzatosi ai piedi del
letto di Mia. Il non-gatto stava fissando la donna, la coda che si spostava da
un lato all’altro e la testa inclinata.
«Ah, alfin si mostra. Buon cambio a te, piccolo passeggero.»
«… sono maestri dell’arte magika ashkahi, mia…»
La ragazza si accigliò. Ripensò alle statue con la testa felina che aveva
visto nelle Frusciaride, erose e bucherellate dal tempo. Quei monumenti
erano tutto ciò che rimaneva del popolo che aveva fatto di questa terra un
impero secoli addietro. Non restava nient’altro, a parte mostruosità e
inquinanti magiki.
«Ma le arti ashkahi sono morte…»
Marielle adesso era in piedi accanto al suo letto e a Mia si accapponò
lievemente la pelle in sua presenza. Ciuffi di capelli bianchi le spuntavano
dal cappuccio, gli occhi rosa come quelli del fratello. Uno sguardo per la
stanza rivelò disegni vorticanti e quattro porte ad arco. La flebile traccia di
facce sulle pareti.
«Non tutto ciò che è morto muore davvero» biascicò Marielle.
«La Madre tiene solo ciò che le serve» disse Adonai.
«Naev ha detto la stessa cosa…»
A Marielle lampeggiarono gli occhi. «Sei una di lei amica?»
«Resta calma, amata sorella, sorella mia» mormorò Adonai. «Costei è la
ragazza che ha riportato Naev dal deserto. Cotale dolce bambina le ha
salvato la vita.»
Marielle schiacciò i lividi sul gomito di Mia. «Allora mi interrogo sul
perché io abbia salvato la sua…»
«Perché io te l’ho chiesto, buona Marielle.»
Mia guardò in direzione di una delle porte e vide la Reverenda madre in
piedi con le mani ripiegate nelle maniche. L’anziana entrò nella stanza con i
lunghi capelli fluenti attorno alle spalle. Regalò a Mia un sorriso gentile.
«E avete svolto un lavoro davvero eccellente. Sembra in gran forma.»
«Qualche livido» riferì Adonai. «L’osso è stato scheggiato in tre punti e
mia sorella non dispone di competenze in tale ambito. Ma con la carne,
Marielle non ha pari. Vederla tessere tendini, unire i muscoli, ah…»
«Mi spiace essermela persa.» La Reverenda madre mise la mano sulla
spalla di Mia. «Come ti senti, accolita?»
«Come se avessi perso la testa…»
Marielle rise, e la carne del labbro inferiore si spaccò quando lo fece. Si
apprestò ad asciugare la fuoriuscita di sangue scuro ma Adonai la fermò
con una mano gentile. Mentre Mia osservava disgustata, l’uomo si sporse
più vicino e leccò via il sangue dal mento della sorella.
«I miei più profondi ringraziamenti» disse Madre Drusilla. «A entrambi.
Ora, se non avete obiezioni, vorrei parlare da sola con l’accolita.»
«Ne detieni tutto il diritto. Siamo tuoi ospiti.» L’uomo bellissimo si voltò
verso la sorella deforme. «Vieni, amata sorella, sorella mia. Sono assetato.
Puoi assistere, se ti compiace.»
Marielle premette le nocche del fratello sulla sua bocca deforme, gli
occhi rosa scintillanti. Poi, con un inchino alla Reverenda madre, i fratelli
uscirono dalla stanza mano nella mano. Quando se ne furono andati, Mia
guardò Drusilla e sbatté le labbra come un pesce spiaggiato.
Sorridendo, l’anziana si sedette accanto al letto. Riccioli grigi
incorniciavano gote rosee e uno sguardo stanco. Mia fu sopraffatta
nuovamente dall’impressione che Drusilla si sarebbe dovuta trovare seduta
accanto a un caldo focolare con dei nipotini sulle ginocchia. Il sorriso della
donna la faceva sentire al sicuro. Desiderata. Amata. Eppure Mia sapeva dal
suo conteggio di omicidi e dall’autorità che rivestiva all’interno della
Chiesa che Drusilla era la donna più pericolosa dentro quelle mura.
«Mi scuso se Adonai e Marielle ti hanno turbata» disse la Madre.
«Spesso hanno quell’effetto su coloro che non appartengono alla loro
specie.»
«La loro specie?»
«… gli stregoni…»
Drusilla si voltò verso Messer Cortese. «Ah. Eccoti qui. Avrei dovuto
saperlo.»
«… io sono sempre qui…»
«Vorrei parlare con l’accolita da sola.»
«… lei non sarà mai sola…»
«Non mettermi alla prova, piccoletto. Mi sono sottratta alla soliluce
molto tempo fa, con le braccia spalancate e la gioia nel cuore. Conosco il
buio come conosco me stessa. Quando lord Cassius non è presente, sono io
la più alta rappresentante di Niah in questo posto. E la prossima volta che ti
chiederò di andartene, non sarò così gentile…»
«… non occorre che tu abbia paura di me…»
Drusilla rise sommessamente. «Una persona non abita nelle ombre tutta
la sua vita senza imparare qualcosa su coloro che le condividono con lei.
Non hai alcun potere su di me, qui.»
«È tutto a posto, Messer Cortese» disse Mia. «Non allontanarti troppo.
Se avrò bisogno, ti chiamerò.»
Il gatto fatto di ombre la fissò per un lungo momento silenzioso. La
vecchia lo guardò torvo. Ma alla fine Mia percepì che lui la guardava,
oscillando la testa.
«… come ti compiace…»
E, senza un suono, scomparve.
Mia avvertì l’assenza dell’umbragatto quasi immediatamente, e la paura
si insinuò lenta nel suo stomaco. Era sola con la matrona di un gregge di
assassini. La sua memoria ardeva al ricordo degli occhi di Solis mentre le
tranciava il braccio. Ne avrebbe riottenuto la piena funzionalità? E se
l’Or…
«Frequenti compagnie interessanti, accolita» disse Drusilla.
Mia guardò verso la porta da cui erano usciti Marielle e Adonai.
«Non più di voi, Reverenda madre.»
«Come ho detto, hai le mie scuse se i fratelli ti hanno messo a disagio.
Marielle e Adonai abitano da diverso tempo nella Montagna Silente. In
cambio dei servizi resi, noi offriamo loro asilo in un mondo che non è del
tutto ospitale verso coloro che detengono il titolo di stregoni.»
«Pensavo che le arti degli Ashkahi fossero morte con la loro razza.»
«La razza degli Ashkahi è morta e scomparsa, vero.» Drusilla scrollò le
spalle. «Ma la morte non conosce avidità. La Madre tiene solo ciò che le
serve. E le arti ashkahi continuano a vivere in coloro che sono tanto
coraggiosi da accettare le sofferenze che comportano.»
«Ho visto Naev eseguire una stregoneria del sangue nel deserto» disse
Mia. «La fiala, la scrittura. È così che ha chiamato aiuto? Gliel’ha insegnato
Adonai?»
«Adonai non insegna nulla. Il sangue nella fiala era suo. Lui lo manipola
da lontano. Il suo sangue, e coloro di cui lui possiede il sangue. Tale è il
dono di un oratore. E la sua maledizione.»
«E sua sorella?»
«Una tessitrice di carne. Può crearne una bellezza impareggiabile o una
repellenza sconfinata.»
«Ma se Marielle può plasmare la carne secondo la sua volontà, perché la
sua è così…»
«Il dominio delle arti ashkahi richiede un prezzo. I tessitori usano la
carne come un vasaio usa la creta. Ma ogni volta che utilizzano quell’arte,
la loro carne diventa sempre più orrenda.» Drusilla scosse la testa. «Bisogna
riconoscerlo agli Ashkahi. Non riesco a pensare a nessuna tortura più
raffinata di avere un potere assoluto su tutto, tranne te stesso.»
«E Adonai?»
«Gli oratori del sangue hanno sete di ciò per cui hanno un’affinità. Non
conoscono altro nutrimento tranne ciò che si può trovare nelle vene di
qualcun altro.»
Mia sbatté le palpebre. «Bevono…»
«Proprio così.»
«Ma il sangue è un emetico» disse Mia. «Se ne bevi troppo, vomiti come
una fontana.»
«Le lezioni di Mercurio erano… eclettiche, a quanto pare.»
«Conoscete Mercurio?»
L’anziana sorrise. «Piuttosto bene, bambina.»
Mia scrollò le spalle. «Be’, una volta mi fece bere sangue di cavallo. In
caso mi ritrovassi dispersa da qualche parte senza acqua, avrei saputo cosa
aspettarmi.»
A quelle parole, il sorriso di Drusilla si allargò e lei scosse il capo. «È
vero che assaggiare una boccata di sangue è un modo certo per assaggiarla
una seconda volta. E gli oratori non fanno eccezione. Ancora una volta, una
vita di torture, vedi? Bevine un po’ e conoscerai una fame continua. Bevine
troppo e conoscerai una nausea continua.»
«Sembra… orribile.»
«Tutto il potere richiede un tributo. Tutti paghiamo un prezzo. Per gli
oratori è la fame. Per i tessitori l’impotenza. E coloro che chiamano la
tenebra…» Drusilla abbassò lo sguardo sull’ombra di Mia «… be’, prima o
poi essa li richiama a sua volta.»
Gli occhi di Mia vagarono verso il nero ai suoi piedi. La sua paura
crebbe. «Sapete cosa sono?»
«Mercurio mi ha parlato dei tuoi talenti. Solis mi ha raccontato della tua
piccola esibizione dell’Aula di Canti. So che sei marchiata dalla Notte in
persona, anche se non conosco il perché.»
«Marchiata dalla Notte» disse Mia. «Mercurio diceva la stessa cosa.»
«Non credere nemmeno per un momento che questo ti procurerà un
favoritismo qui. Puoi essere marchiata dalla Notte, ma non ti sei ancora
guadagnata il tuo posto. E la prossima volta che scialacquerai i tuoi doni
con dei trucchi da salotto per insultare il tuo Shahiid, potresti perdere più di
un arto.»
Mia si guardò il gomito livido. La sua voce fu a malapena un mormorio.
«Non intendevo insultare, Reverenda madre.»
«Sono anni che un accolito non fa sanguinare Solis. Sono sorpresa che ti
abbia preso solo il braccio.»
Mia si accigliò. «E voi consentite tutto questo? Maestri che mutilano i
novizi?»
«Non sei mutilata, accolita. Hai ancora il braccio, se non mi sbaglio.
Questa non è una scuola di etichetta per giovani domini e dominae. Gli
Shahiid qui sono artigiani della morte, con il compito di renderti degna di
servire la dea. Alcuni di voi non lasceranno mai queste mura.
«Solis cerca di punire in modo esemplare uno dei suoi alunni all’inizio.
Ma sotto quell’insensibilità, il suo compito è insegnare, e per lui è motivo
d’orgoglio. Se gli darai una ragione per farti nuovamente del male, lo farà
senza rimorso. Fare del male è nella natura di Solis, ed è proprio questa
natura a renderlo così perfetto per insegnarvi a fare del male agli altri.»
Allora Mia cominciò a comprendere l’enormità di tutto quanto. La realtà
di dove si trovava. Ciò che stava facendo. Questo posto era una forgia dove
venivano affilate le Lame e scolpita la morte. Perfino dopo anni ai piedi di
Mercurio, aveva così tanto da imparare, e un passo falso poteva costarle
caro. La verità era che aveva voluto vantarsi. E anche se Solis si era
comportato come un completo stronzo, lei aveva sbagliato nel cercare di
umiliarlo di fronte all’intero gregge. Decise di non lasciare che l’orgoglio
avesse di nuovo la meglio su di lei in futuro. Era qui per un motivo, uno
solo: il console Scaeva, il cardinale Duomo e il tribuno Remus dovevano
morire. Le occorreva diventare tanto abile, tanto scaltra, tanto dura da
eliminarli tutti quanti, e ciò non sarebbe mai accaduto se si fosse persa in
giochi infantili. Era il momento di tenere la bocca chiusa il più possibile e
giocarsela con intelligenza.
«Capisco, Reverenda madre.»
«Non potrai studiare nell’Aula di Canti finché non sarai guarita» disse
Drusilla. «Ho parlato con la Shahiid Aalea e ha acconsentito a iniziare
prima la tua istruzione.»
«Aalea.» Mia deglutì forte. «Shahiid di Maschere.»
L’anziana sorrise. «Non c’è nulla da temere, bambina. Col tempo sarai
impaziente di ricevere le sue lezioni.»
Drusilla si alzò in piedi e ficcò le mani dentro le maniche.
«Ora, se vuoi scusarmi, ho altri compiti di cui occuparmi. Se hai bisogno
o vuoi risposte ad alcune domande, vienimi a cercare. Come tutti noi, sono
qui per servire.»
La donna se ne andò senza un suono, camminando silenziosamente
nell’oscurità. Mia la guardò allontanarsi, interrogandosi sulle sue parole.
Cosa aveva detto?
“Coloro che chiamano la tenebra… be’, prima o poi essa li richiama a
sua volta.”
Mercurio non era mai sembrato del tutto a suo agio con Messer Cortese,
anche se non ne aveva mai parlato apertamente. Da parte sua, il non-gatto
sembrava contento di ignorare il suo maestro e restava fuori vista quando
Mercurio era nei paraggi. Crescendo, Mia non aveva mai avuto qualcuno
con cui parlare davvero dei suoi talenti. Nessun tomo nella bottega di
Mercurio affrontava l’argomento, e la tradizione popolare sui tenebris era
contraddittoria nella migliore delle ipotesi, o costituita da sciocche
superstizioni nella peggiore. a Lei aveva semplicemente tirato avanti con i
suoi doni sempre più potenti meglio che poteva. Quando era sceso il
verobuio l’anno in cui era diventata undicenne, aveva notato che la sua
connessione con le ombre sembrava più forte. E durante il verobuio in cui
aveva compiuto quattordici anni…
“No.
“Non guardare.”
«… lei sembra… cordiale…»
Messer Cortese apparve ai piedi del tavolo, portando un sorriso sulle
labbra di Mia. «“Cordiale” è una parola per descriverla.»
«… ne ho altre meno lusinghiere, ma c’è stato spargimento di sangue a
sufficienza per un solo cambio…»
Mia sussultò quando flesse il braccio e un dolore la trafisse fino alla
spalla. La sua apprensione stava scemando ora che Messer Cortese era di
nuovo al suo fianco, sostituita da rabbia. Imprecò sottovoce, sapendo che
questa ferita le avrebbe impedito di accedere all’Aula di Canti per
settimane. Desiderando di non essere stata tanto avventata o che lo Shahiid
Solis non si fosse meritato una bella lezione, si accinse a legare il braccio a
tracolla.
«… dovresti dormire. potresti aver bisogno delle forze domani…»
Mia si succhiò il labbro e annuì. Messer Cortese aveva ragione.
Mercurio era stato molto abbottonato su cosa aspettarsi all’interno della
Chiesa. L’aveva preparata meglio che poteva, ma lei aveva avuto
l’impressione che potesse rivelare solo certe informazioni prima di tradire
la fiducia della congregazione. Con il voto dei Luminatii di sradicare la
Chiesa, “segretezza” era la parola d’ordine oltre queste mura. Non aveva
idea di come i discepoli della Chiesa si muovessero da una città all’altra, di
come fossero gestite le cappelle locali o anche di quale fosse la gerarchia
interna. Solis era Maestro di Canti, il che voleva dire che insegnava l’arte
della spada. Mia supponeva che lo Shahiid di Tasche insegnasse il furto? Il
raggiro? Ma per quanto riguardava lo Shahiid di Verità e la Shahiid di
Maschere, Mia non sapeva davvero cosa aspettarsi dalla loro istruzione.
«Sono proprio stanca» sospirò, massaggiandosi le tempie.
«… dormi allora…»
«D’accordo. Tu vieni?»
«… sempre…»
La ragazza fece scivolare il braccio ferito nella tracolla e il non-gatto si
insinuò nella sua ombra, poi i due lasciarono la stanza.

Tric stava aspettando fuori dalla sua camera da letto quando lei arrivò. Se
ne stava accucciato con la schiena alla parete e si alzò rapidamente quando
vide Mia avvicinarsi, l’espressione sollevata.
«Grazie alla Nostra Signora» mormorò. «Stai bene.»
Mia mosse il braccio con un sussulto. «Un po’ ammaccata, ma tutta d’un
pezzo.»
«Quel bastardo di Solis» sibilò Tric. «Volevo sbudellarlo per quello che
ha fatto. Ci ho provato, ma mi ha gettato col sedere a terra e mi ha preso a
calci fino a farmi perdere i sensi.»
Mia guardò i nuovi lividi sul volto di Tric e scosse il capo. «Mio
coraggioso centurione. Sei arrivato sul tuo destriero per salvare la tua
povera damigella? Reggimi, coraggioso signore: temo che sverrò.»
«Non dire cazzate» si accigliò Tric. «Ti ha fatto del male.»
«La Reverenda madre dice che lo fa sempre. Dà l’esempio nelle sue
classi con il primo saputello tanto stupido da alzare la testa.»
«Entra Mia Corvere, sinistra palco» sogghignò Tric.
Mia fece un inchino profondo. «Suppongo che Solis possa permettersi di
essere brutale, avendo qui la Tessitrice Marielle.»
«Ha davvero sanato la ferita con le sole mani?»
Mia tirò fuori il gomito dalla tracolla e tastò con cautela la manica della
camicia. Tric le rigirò lentamente il braccio da una parte e dall’altra: le sue
mani grandi e callose erano straordinariamente delicate. Mia tirò giù la
manica prima che iniziasse a comparire la pelle d’oca.
«Vedi? Mi restano solo un paio di lividi come prova della mia prima
mutilazione.»
Tric si grattò le salciocche con aria imbarazzata. «Io ero… preoccupato
per te.»
Lei fissò il ragazzo, con quei tatuaggi orrendi e gli occhi color nocciola.
Si domandò quali pensieri si agitassero dietro di essi.
«Non c’è bisogno che ti preoccupi per me, Tric. In questo posto ci sono
abbastanza pericoli per ucciderci entrambi. Se ti agiti per me, non noterai il
coltello puntato su di te.»
«Non mi sto agitando» replicò il ragazzo aggrottando la fronte. «È solo
che… ti guardo le spalle, tutto qua.»
Mia non riuscì a fare a meno di sorridere. Dentro la sua pancia c’era un
calore riconoscente. Ciò che aveva detto era vero: questa montagna non era
un circolo della maglia. I pericoli all’interno di queste sale potevano
rappresentare la fine per tutti e due. Tuttavia era rassicurante sapere che
c’era qualcuno che si prendeva cura di lei, che aveva qualcosa a cui
appoggiare la schiena. E che, per la prima volta nella sua vita, non era fatto
di ombre.
«Be’… i miei ringraziamenti, Dominus Tric.» Gli rivolse una riverenza
sorridendo, e quel silenzio inquieto fu scacciato dalla risata del ragazzo.
«Sei affamata?»
«… Sto morendo di fame» si rese conto lei.
«Forse la Figlia Pallida vuole accompagnarmi alle cucine?»
Tric piegò il gomito e le offrì il braccio. Mia gli diede un pugno tanto
forte da farlo uggiolare. E sorridendo i due si avviarono lungo il corridoio
in cerca di cibo.

a. Un famoso racconto è incentrato sulla cittadina di Blackbridge, nella parte orientale di Itreya.
Ernesto Giancarli, confessore della Chiesa di Aa, fu mandato dal Gran cardinale a indagare su
asserzioni secondo cui diverse figlie dei maggiorenti della cittadina fossero state sedotte da un
tenebris. Ciascuna di tali unioni era risultata in un bambino con i capelli e gli occhi neri, e la
stessa carnagione pallida del presunto padre. Ciascuna delle signore in questione aveva fornito la
stessa versione dei fatti: aveva vagato nei boschi fino a incontrare un attraente sconosciuto e, con
l’innocenza di una fanciulla, si era concessa al suo fascino oscuro. Giancarli indagò a fondo, ma
non fu possibile trovare alcuna traccia di questo tenebris e, anche se a giudicare dall’aspetto
condividevano quasi sicuramente lo stesso padre, i bambini sembravano perfettamente normali. Il
confessore confortò i padri delle ragazze rassicurandoli che era assolutamente possibile che il
responsabile fosse un tenebris, poi tornò a Godsgrave per riferire al cardinale di non aver scoperto
nulla.
Ma Giancarli annotò nel suo rapporto che il giovane conestabile di Blackbridge – un tizio
pallido e con i capelli scuri di nome Delfini, nominato a quella carica circa dodici mesi prima –
era stato molto collaborativo nel corso dell’intera indagine.
CAPITOLO 12
DOMANDE

«… arriva qualcuno…»
Mia si svegliò al buio e sbatté forte le palpebre. Si alzò sul gomito e
sibilò quando un dolore si diffuse per il braccio sinistro. Era come se i suoi
lividi brillassero al buio.
Qualcuno stava scassinando la serratura della porta della sua camera.
Non poteva trattarsi di Naev: lei avrebbe bussato e basta. Allora chi? Un
altro accolito? Quello che aveva ucciso Chiamapiena? Mia estrasse lo
stiletto e rotolò giù dal letto, muovendosi furtiva sul pavimento lastricato
fino a un angolo buio. Sollevò il coltello con la mano destra quando la porta
si aprì e fece capolino un volto lentigginoso incorniciato da trecce bionde.
«Corvere» sibilò una voce. «Ci sei?»
«… Ashlinn?» Mia si alzò dal suo nascondiglio e celò di nuovo la lama
di necrosso nel polso. «Denti della Mannaia, non dovresti avvicinarti di
nascosto alla gente.»
«Te l’ho detto. I miei amici mi chiamano Ash.» La ragazza bionda
scivolò nella stanza con un sorriso che esaltava le sue fossette e le occorse
un momento per individuare Mia al buio. «E se mi fossi avvicinata di
nascosto, non mi avresti udita finché la mia lama non fosse stata premuta
contro la tua gola, Corvere.»
«Ma davvero?» Mia sollevò un sopracciglio, sorridendo a sua volta.
«Puoi scommetterci la vita. Come va l’ala?» Ashlinn diede a Mia una
pacca amichevole sul braccio e la ragazza proruppe in una terribile
imprecazione, tenendosi il gomito.
«Merda, scusa» sussurrò Ashlinn. «Mi ero dimenticata che fossi
mancina.»
«È tutto a posto.» Mia sussultò, massaggiandosi il gomito. «Ho sempre
una mano di riserva. Comunque, perché hai scassinato la mia serratura?
Non puoi esercitarti con la tua?»
«Esercitarmi, pfui. Se qui esiste una serratura che non posso convincere
ad aprirsi, devo ancora incontrarla. Sono solo venuta a chiederti se stavi
abbastanza bene da uscire.»
«Uscire?» Mia sbatté le palpebre. «Dove? Per cosa?»
«Ficcanasare in giro. Andare in cerca di guai. Sai… uscire.»
Mia si accigliò. «La Reverenda madre ha detto che non ci è permesso
lasciare le nostre stanze dopo la nona campana, ricordi?»
Un sorrisetto lentigginoso illuminò il viso della ragazza. «Tu fai sempre
quello che dice la Madre?»
Mia ricordò una cella nel buio. Il lezzo di decomposizione e di morte che
le bruciava gli occhi. Mani tremanti. Un sussurro, freddo e affilato come
acciaio.
“Non guardare.”
«No» rispose.
«Bene, ottimo. A mio fratello non piace combinare guai, e tutte le altre
ragazze di questo posto vogliono fare le toste, le viziate o entrambe le cose.
Perciò pare proprio che siamo tu e io, Corvere.»
«Hai sentito Drusilla. Ci prenderanno a calci nel sedere fino a farci
uscire il sangue dal naso se ci beccano.»
«Be’, allora questo è un ottimo motivo per non farsi beccare, giusto?»
Il sorrisetto della ragazza era contagioso. Era venuta a prendere Mia per
trascinarla con sé nel suo giro. E mentre Messer Cortese mangiava quel
poco che rimaneva della sua paura, Mia si ritrovò ad appendere al collo
l’ala ferita e a sorriderle a sua volta.
«Prima le signore» disse Ash, inchinandosi verso la porta.
«Non vedo nessuna signora da queste parti. E tu?»
«Oh, andremo d’accordissimo, io e te.»
Ancora sorridendo, la ragazza sgattaiolò nel corridoio e Mia la seguì da
presso.

Si mossero furtive per i corridoi, lungo innumerevoli rampe di scale tra il


buio serpeggiante. A Mia parve di riconoscere alcuni corridoi dal suo
viaggio fino all’Ateneo, ma non poteva esserne certa. Giurava che alcune
delle pareti si fossero… be’, mosse. I corridoi erano scarsamente decorati:
solo finestre a vetri colorati o strane sculture fatte con ossa di animali
rompevano la monotonia. Eppure Ashlinn procedeva sicura, silenziosa
come un cadavere e senza fermarsi un secondo. La ragazza faceva solo
qualche pausa ogni tanto per segnare il muro con un pezzetto di gesso
rosso.
«Sai dove stiamo andando?» chiese Mia.
«Nnn-non proprio.»
«Sai come tornare indietro?»
«Se qualcuno non cancella il gesso, sì.»
«E se lo fanno?»
«Probabilmente ci perderemo e moriremo di fame nelle viscere della
Montagna.»
«Giusto per informarti, se dovessimo arrivare al cannibalismo, tu sarai
mangiata per prima.»
«D’accordo, allora.»
Messer Cortese si aggirava davanti a loro, nascosto nell’oscurità
perpetua. Quando passarono accanto a una statua d’osso particolarmente
grottesca – uno strano incrocio tra un rapace e un serpente raggomitolato –
Mia avvertì un fremito nella sua ombra. Era una sensazione quasi familiare.
Poteva sentire i peli del collo di Messer Cortese che si alzavano, e la sua
stessa ombra incresparsi. Per un secondo, una scheggia di paura le perforò il
petto, fredda e acuminata. Mia afferrò Ash per il braccio e la tirò dietro il
piedistallo della statua, portandosi un dito alle labbra.
Stava arrivando qualcosa.
Un ringhio basso rombò per il corridoio. Una sagoma si mosse nella
penombra più avanti, completamente nera, distinguibile solo grazie alla
fioca illuminazione della finestra. Mia strinse gli occhi nel buio, desiderosa
di domandare a Messer Cortese cosa non andasse. Figlie, era quasi
impensabile, ma per la prima volta da che Mia riuscisse a ricordare, il non-
gatto sembrava… spaventato.
«Merda» sussurrò Ashlinn. «È Eclissi.»
Mia si accigliò. «Cos’è…»
La domanda le morì nella gola quando una figura nera giunse furtiva
nella sua visuale. Alta quattro piedi, agile e completamente silenziosa.
Lunghe zanne, artigli affilati e niente occhi. Era un lupo.
“Un lupo fatto di ombre.”
La creatura si fermò sui suoi passi e fissò il corridoio in direzione delle
ragazze. Entrambe erano premute contro il piedistallo; trattenevano il fiato e
il sudore scintillava sulla fronte di Ash. Mia riusciva a percepire Messer
Cortese ai suoi piedi: ora stava decisamente tremando. La sua paura fu
contagiosa, salendole nel petto e facendole vibrare le mani. Per tutto il
tempo in cui erano stati assieme, lui le aveva permesso di vincere le sue
paure. L’aveva resa più dura, più forte, più coraggiosa di quanto avrebbe
mai potuto fare da sola. Quante cose avevano visto. In quanti luoghi erano
stati. Ma adesso lui sembrava più terrorizzato di lei.
Il non-lupo ringhiò di nuovo e il suono riverberò per il pavimento.
«Eclissi» disse una voce profonda e musicale. «Silenzio.»
Anche se non osava respirare e tanto meno fare capolino per guardare,
Mia riconobbe all’istante chi aveva parlato: lord Cassius. Udì un lievissimo
fruscio di stoffa e il lieve sfregamento di cuoio su roccia. Il Signore delle
Lame era lì: ne era certa. Il capo dell’intera Chiesa Rossa. Stava guardando
lungo il corridoio verso di loro: solo pochi piedi di pietra levigata
impedivano che le ragazze fossero scoperte.
Passarono lunghi momenti.
Il cuore di Mia le palpitava nel petto.
Messer Cortese rabbrividì quando il lupo fatto d’ombra emise un ringhio
lungo e basso.
“Quattro Figlie, Cassius è un tenebris.”
«Eclissi» disse. «Adonai attende. Andiamo.»
Una voce roca e profonda gli rispose. Era venata di femminilità.
Sembrava provenire da qualche parte sottoterra.
«… COME TI COMPIACE …»
Un ultimo ringhio basso. Poi rumore di passi, appena un sussurro, che si
allontanavano. Mia riprese a respirare e si premette la mano contro il petto,
sentendo il cuore martellare lì sotto. Messer Cortese smise lentamente di
tremare e la paura iniziò a svanire. Ash sorrise, una risata quasi maniacale
sotto il suo respiro.
«Be’, questo sì che è stato eccitante.»
«Nel nome della Madre, cos’era quello?»
«Eclissi. Il passeggero di lord Cassius.» Ashlinn lanciò un’occhiata alla
sua ombra e alla sagoma informe che conteneva. «Cassius è un tenebris. Tu
sai di loro, giusto?»
Mia annuì. «Vagamente.»
«Ti andrebbe di seguirlo?»
«Seguirlo? Sei pazza?»
Il sorriso di Ash si allargò. «Un pochino.»
La ragazza ripartì nelle tenebre di soppiatto, quasi senza che i suoi piedi
emettessero un suono sulla pietra. Mia allungò una mano per toccare la sua
ombra e percepì il brivido in quel nero liquido.
«Stai bene?» mormorò.
«… domanda trabocchetto…?»
«Cos’era quello? Non ti ho mai sentito spaventato prima…»
«… potevo percepirlo. nella mia mente. era… affamato…»
«Affamato di…»
«Mia!» sibilò Ashlinn dall’oscurità più avanti. «Andiamo!»
«… non è sicuro qui, mia…»
Mia sospirò e guardò accigliata l’oscurità ai suoi piedi.
«Ne riparliamo…»
Procedette dietro la ragazza, a ogni passo rimpiangendo sempre più la
decisione di lasciare la sua stanza. Ma Cassius era un tenebris. Erano
passati anni e aveva percorso così tante miglia, ma non aveva mai
incontrato nessuno come lei. Dea, quali segreti avrebbe potuto insegnarle…
Purtroppo, il Signore delle Lame si rivelò difficile da inseguire quanto il
buio stesso, e a un certo punto, da qualche parte vicino alle stanze della
Tessitrice Marielle, era scomparso del tutto. A un crocevia in quell’oscurità
labirintica, Ashlinn si succhiò le labbra, imprecò in vaaniano e infine
scrollò le spalle.
«È sfuggente quanto un deliziante unto, quello» sussurrò Ash.
«Be’, dopotutto è un maestro assassino» sibilò Mia.
Ash sospirò. «Probabilmente sta lasciando la Chiesa. Mio padre dice che
non rimane mai in un posto troppo a lungo.»
«Non posso dire che mi dispiace saperlo.»
Ash sogghignò. «Hai paura di lui?»
«Madre Nera, tu no?»
«Oh, sì. Ma farai meglio a superarla. Se sarai promossa, sarà lui a
consacrarti alla cerimonia di iniziazione.» Ashlinn si guardò attorno, in
direzione dei passaggi che si estendevano nell’oscurità. «Ah, be’. Tornerà.
Andiamo, ho fame.»
Le due si avviarono furtive nelle ombre, lasciandosi alle spalle il Signore
delle Lame e i suoi affari. Trovarono l’Aula di Canti: l’odore di sangue
aleggiava ancora nell’aria. Il gomito di Mia le fece male come se si
ricordasse e lei provò un impeto di rabbia familiare. Ricordò la faccia di
Solis mentre sollevava la spada. Il dolore della sua menomazione.
Sussurrando un’imprecazione, sgattaiolò di nuovo giù per le scale tortuose.
In profondità nel ventre della Montagna, trovarono le porte dell’Ateneo,
anche se nessuna delle due ragazze pensava che sarebbe stata una buona
idea che il Cronista Aelius le scoprisse a vagabondare dopo la nona
campana. E dopo quella che parve un’eternità, un aroma delizioso che
scendeva dalle scale le guidò fino alle cucine.
Pane caldo stava cuocendo in lunghi forni a carbone. Le dispense erano
piene di formaggi e frutta fresca. I resti della cena precedente erano disposti
su lunghi vassoi. Mia non riuscì a vedere Mani da nessuna parte, così lei e
Ashlinn rubarono un vassoio ciascuna e uscirono di soppiatto sull’Altare
del Cielo ora vuoto. Mia rimase colpita di nuovo dall’enormità delle tenebre
oltre la piattaforma. Dal lungo precipizio fino alle regioni aride sottostanti.
Dal deserto che rispecchiava fedelmente le brulle zone ashkahi dove lei e
Tric avevano viaggiato, in qualche modo avvolto in una notte perpetua.
Fu sopraffatta nuovamente dal senso di santità di questo posto. Dal modo
in cui sembrava ultraterreno. Riusciva quasi a percepire lo sguardo nero di
quella statua nella Sala degli Elogi: la dea a cui questa Chiesa era dedicata.
“Marchiata dalla Madre” aveva detto Drusilla.
“Ma perché? A quale scopo?
“… Forse lord Cassius lo sa?”
Ash si sedette sul parapetto affacciato sul precipizio a gambe incrociate,
scostando ciocche bionde ribelli dagli occhi e divorando un pezzo di pane e
formaggio. Mia aggredì una coscia di pollo, domandandosi pigramente
dove la Chiesa si procurasse la farina per cuocere il pane e dove tenesse il
bestiame. Il convoglio da Ultima Spes conteneva solo polveri arkemiche,
attrezzi e cose del genere. Nulla di deperibile. Nulla di vivo.
«Come ci nutrono? Dove si procurano le scorte?»
Ashlinn parlò mentre masticava. «Il tuo Shahiid non ti ha insegnato nulla
su questo posto?»
«Qualcosa.» Mia scrollò le spalle. «Ma sembrava mantenere segreti gran
parte dei meccanismi. Andavano guadagnati, non ottenuti senza nulla in
cambio.»
Ashlinn scrollò le spalle e divorò un altro boccone. «Aoa scei otunata a
ee me.»
«… Cosa?»
La ragazza inghiottì e si leccò le labbra. «Ho detto, allora sei fortunata
ad avere me. Mio padre ha raccontato a me e a mio fratello tutto quanto, su
questo posto. Tutto quello che sapeva, comunque.»
«È una Lama?»
«Lo era. Ha lavorato al servizio del re di Vaan per anni. a Ma fu catturato
mentre era impegnato con un’Offerta a Liis. Fu torturato per tre settimane
nelle Torri Spinate di Elai. Fuggì, ma non prima che gli avessero portato via
la mano della spada, uno degli occhi ed entrambe le palle. Così la Chiesa lo
congedò dal servizio.»
«Denti della Mannaia» sussurrò Mia. «Marielle non poteva rimetterlo a
posto?»
Ash scosse il capo. «I Preti della Lebbra diedero i pezzi che gli avevano
tagliato via ai cani delle croste. Non rimaneva nulla da riattaccare. Così mio
padre si mise a addestrare me e Osrik per rimpiazzarlo.» Scrollò le spalle.
«Non poteva dare alla dea la propria vita, così si accontentò dei suoi
consanguinei.»
Mia annuì: per certi versi non era sorpresa. Un altro uomo avrebbe
potuto giurare vendetta contro colui che l’aveva mandato incontro a un tale
destino. Ma guardando la desolazione buia sotto l’altare, era facile capire
come questo posto generasse fanatici. Non poteva fare a meno di ricordare
lo sguardo della dea nella Sala degli Elogi. Il potere che conteneva. La
maestosità.
Abbassò lo sguardo verso l’ombra ai suoi piedi.
“Marchiata per cosa?”
«Tuo padre vi ha detto nulla su lord Cassius?» chiese.
Ash annuì. «L’uomo più ricercato della Repubblica. E il più pericoloso.
Gli vengono attribuite più uccisioni consacrate perfino della Reverenda
madre. Secondo la leggenda, ammazzò il suo primo uomo a dieci anni.
Uccise il pretore della Terza legione in piena vista del suo intero esercito e
ne uscì pulito. Assassinò il prefetto di Dawnspear assieme al suo intero
consiglio nel bel mezzo della seduta e nessuno fuori dalle stanze udì un
sussurro.
«Sono anni che è a capo della Chiesa Rossa, ma come ho detto, non sta
mai in un posto a lungo. Sono decenni che i Luminatii cercano di
distruggerci. Ed è ancora peggio dal Massacro del Verobuio. Ipotizzano che,
se uccideranno il pastore, le pecore si sparpaglieranno. Così lord Cassius è
in cima alla loro lista delle cose da fare.» Ash prese un altro morso e
borbottò. «Trovare questo posto è al numero due. Probabilmente è il motivo
per cui il tuo maestro non te ne ha parlato molto.»
«E il lupo d’ombra?»
«Mio padre mi ha detto di tenermi alla larga da Eclissi.» Ashlinn si
strinse nelle spalle. «Ho sentito dire che i tenebris possono rubarti il fiato
dai polmoni. Scivolare nella tua ombra e ucciderti nel sonno. Solo la
Mannaia sa cosa sono in grado di fare i demoni che li servono.»
«Pfui» la sbeffeggiò Mia. «Demoni.»
«Oh, abbiamo qui un’esperta?»
«No, non un’esperta. Ma conosco una o due cose.»
«Oh, davvero.»
«… miao…»
Ashlinn ruotò sul suo posto e allungò la mano verso il coltello che
portava contro le reni. Messer Cortese era sul parapetto e la fissava con la
testa inclinata.
«Di’ ciao, Messer Cortese.»
«… ciao, messer cortese…»
«Denti della Mannaia…» mormorò Ashlinn.
«Va tutto bene. Non è un demone. Non potrebbe fare del male a una
mosca. E nemmeno io posso rubare il fiato dai polmoni di qualcuno. Voglio
dire, forse se non mi facessi il bagno per una settimana o due…» b
Ashlinn guardò Mia incurvando un sopracciglio, poi annuì lentamente.
«Dunque sei davvero una tenebris.»
«… Lo sapevi?»
«Immaginavo che ci fosse qualcosa di strano dopo quella faccenda con
Solis. Non ho visto nessuna ombra muoversi, ma la cosa mi puzzava.» Ash
sorrise quando Mia la fissò stringendo gli occhi. «Non penserai che ti abbia
chiesto di sgattaiolare fuori solo perché mi sembravi simpatica, vero?»
Mia strappò la carne dalla coscia di pollo con i denti e non disse nulla.
Ash si rimise seduta di fronte a lei, con movimenti lenti e accorti. Lanciò
un’occhiata all’umbragatto. Un cittadino medio probabilmente avrebbe
cercato di inchiodarla a una croce se avesse avuto il minimo sentore di
cos’era. Mia si domandò se quella ragazza sarebbe stata accecata dalla
superstizione o dalla paura. Il sorriso che crebbe lentamente sulle labbra di
Ashlinn radunò tutti quei pensieri, li condusse in un vicolo buio e li
strangolò silenziosamente.
«Allora com’è?» chiese la ragazza bionda. «Puoi spostarti da un’ombra
all’altra? Ho sentito che puoi farti spuntare le ali, respirare oscurità e…»
Mia mandò la propria ombra a strisciare sul pavimento, contorcendosi in
una miriade di forme, orrende, bellissime, astratte. La fissò attorno ai piedi
di Ashlinn e le strattonò delicatamente gli stivali.
«Madre Nera, è meraviglioso» mormorò Ashlinn. «Che altro puoi fare?»
«Questo è più o meno tutto.»
«… Davvero?»
«Posso nascondermi. Avvolgermi l’ombra attorno come un mantello. Mi
rende difficile da individuare. Ma sono quasi cieca quando lo faccio. Non
riesco a vedere a più di qualche piede di fronte a me.» Mia scrollò le spalle.
«Nulla di troppo impressionante, temo.»
«Considerami impressionata comunque» ammiccò Ashlinn.
«Lo Shahiid Solis e la Reverenda madre non sembrano condividere il tuo
entusiasmo.»
Ashlinn fece una smorfia e sputò un pezzetto di crosta di formaggio dalla
lingua. «Solis è un bastardo. È solo uno stronzo brutale e maligno.» La
ragazza si sporse più vicino e parlò in tono cospiratorio. «Sai cosa significa
il suo nome, vero?»
Mia annuì. «È ashkahi. Significa l’Ultimo.»
«E hai sentito parlare della Pietra Filosofale, no? La prigione di
Godsgrave?»
Mia deglutì e annuì lentamente.
“Non guardare.”
«… Sono cresciuta a Godsgrave.»
«Perciò sai quanto diventasse sovraffollata la Pietra prima che fosse
sventrata. A intervalli di qualche anno, sfoltivano i numeri. Fu il console
Scaeva a escogitare quell’idea, quando era ancora un cucciolo nel senato.
La chiamò…»
«La Calata.»
Ashlinn annuì e parlò masticando un altro boccone di formaggio.
«Svuotavano quel posto di tutte le guardie. Legavano una scala alla torre
più alta e ormeggiavano una barca a remi sul fondo. Dicevano ai prigionieri
che a uno di loro sarebbe stato concesso di remare fino a riva e riunirsi al
mondo, qualunque fosse stato il suo crimine. Ma solo quando ogni altro
prigioniero di quel posto fosse morto. A quanto pare, circa dodici anni fa, il
buon Shahiid di Canti non era che uno dei tanti ladri sfortunati rinchiusi
nella Pietra Filosofale.»
«Solis» sussurrò Mia. «L’Ultimo.»
«È così che lo chiamarono. Dopo.»
«Quanti ne…»
«Parecchi. Ed era pure cieco come un cucciolo appena nato.»
«Figlie» mormorò Mia. Poteva sentire la sua lama che le tranciava il
braccio. Il muscolo che si spezzava. Il dolore lancinante. «E io gli ho
conficcato il coltello in faccia.»
«Forse ti rispetterà per questo?»
Mia lanciò un’occhiata alla tracolla in cui teneva il braccio ferito. «E
forse no.»
«Guarda il lato positivo. Almeno non ti faranno frequentare Canti finché
la tua ala non sarà migliorata. Forse nel frattempo puoi conquistarlo con i
fiori, o qualcosa del genere.»
«Drusilla mi ha detto che la Shahiid Aalea mi farà lezione finché non
sarò guarita.»
«Ooooh» sorrise Ashlinn. «Sei fortunata.»
«Perché? Cosa insegna?»
«Davvero non lo sai?» Ashlinn rise. «Denti della Mannaia, ti aspetta una
bella sorpresa.»
«Hai intenzione di spifferarlo o vuoi tirartela tutta la notte?»
«Insegna le arti gentili. Persuasione. Seduzione. Sesso. Quel genere di
cose.»
Mia per poco non si strozzò con il suo boccone. «… Insegna sesso?»
«Be’, non le basi. Si presume che quelle le conosciamo. Lei insegna
l’arte del sesso. Papà diceva che esistono due tipi di uomini a questo
mondo. Quelli che sono innamorati di Aalea e quelli che non l’hanno
ancora incontrata.» Ash sollevò un sopracciglio. «Madre Nera, non sarai
mica vergine?»
«No!» Mia la guardò storto. «È solo…»
«… Solo cosa?»
Mia si accigliò, cercando di placare il calore nelle sue guance. «È solo
che non ne ho… avuti tanti.»
«E Tric?»
«No!» ringhiò Mia. «Figlie, no.»
«Perché no? Un ragazzo vigoroso come lui? Voglio dire, i tatuaggi sono
orrendi, ma la faccia sotto non è male.» Ashlinn diede di gomito a Mia. «E
poi al buio sono tutti uguali.»
Mia lanciò un’occhiata a Messer Cortese. Poi ai suoi piedi. Quindi si
ficcò altro pollo in bocca.
«… Quanti ne hai avuti, Corvere?»
«Perché?» borbottò Mia mentre masticava. «Quanti ne hai avuti tu?»
«Quattro.» Ashlinn si picchiettò il labbro. «Beeeee’, quattro e mezzo,
tecnicamente. Ma quello era un idiota, perciò per me non conta. Tutti
abbiamo una seconda possibilità.»
«Uno» ammise infine Mia.
«Ah. Lo amavi, vero?»
«Non lo conoscevo nemmeno.»
«Com’era?»
Mia fece una smorfia e si strinse nelle spalle.
«Ah. Uno di quelli. E ora non riesci a capire perché tanto clamore, né
perché dovresti aver voglia di rifarlo?»
Mia si morse il labbro, poi annuì.
«La Shahiid Aalea ti insegnerà. Andrà meglio, Corvere. Vedrai.»
«Umph.» Mia si accasciò sul tavolo con il mento sulle nocche.
Ash si alzò in piedi e si scrollò via le briciole di formaggio che aveva in
grembo.
«Andiamo, faremo meglio a tornare. Domattina abbiamo Tasche. Se sei
fortunata, potresti perfino trovare un po’ di tempo per Aalea.»
Ashlinn iniziò a imitare rumori di baci.
«Sta’ zitta» ringhiò Mia.
I rumori di baci furono inframmezzati da deboli gemiti gutturali.
«Sta’ zitta.»
Si allontanarono nell’oscurità, seguite in silenzio da un gatto che non era
un gatto.
Poco dopo, un ragazzo uscì dalle ombre. Aveva la carnagione pallida ed
era vestito di cuoio nero. Molti l’avrebbero definito bello, ma grazioso
probabilmente era una parola migliore. Aveva zigomi alti e gli occhi azzurri
più penetranti che si fossero mai visti.
Un ragazzo di nome Zitto.
Impugnava un coltello. Osservò Mia e Ashlinn sgattaiolare via nel buio e
fece scorrere la punta di un dito esile sulla lama affilata.
E sorrise.

a. Sebbene dichiarata eresia, nell’assenza di un’eliminazione completa da parte dei Luminatii, la


Chiesa Rossa ha stretto qualcosa di simile a un accordo con varie autorità della Repubblica
itreyana. A causa del potere della Chiesa di Aa e del recente e ignobile attentato alla vita del
console Scaeva durante il Massacro del Verobuio, pochissimi membri della nobiltà di Godsgrave
hanno contatti diretti con i discepoli della Madre Notte. Ma in Stati vassalli della Repubblica di
tipo più cosmopolita – come la corte del re di Vaan, Magnussun IV – la Chiesa Rossa è
riconosciuta apertamente e uno dei suoi discepoli viene mantenuto a servizio permanente.
I benefici di questo accordo sono duplici: il buon re Magnussun può naturalmente sbarazzarsi
in silenzio dei suoi nemici, se dovesse presentarsi la necessità, ma, cosa più importante, mentre
tiene al suo servizio una Lama della Chiesa, il re non deve nemmeno temere che un rivale ingaggi
una Lama per sbarazzarsi di lui. Si tratta di una regola d’oro per i negoziati della Chiesa Rossa e
che ha visto crescere il favore nei loro confronti rispetto ad altri sicari: finché una persona ha una
Lama al proprio servizio, la sua vita è considerata inattaccabile per le altre Lame di Niah.
Naturalmente le tariffe per assoldare uno dei migliori assassini della Repubblica a servizio
permanente sono così esorbitanti da farsela nei pantaloni, e solo un re può permettersi di pagarle a
lungo. Tuttavia si può dire che tra tutti i regnanti di Itreya, probabilmente Magnussun IV è quello
che può dormire più tranquillo, il suo sonno turbato solo ogni tanto alla fine dell’anno da incubi
sull’imminente arrivo del conto da parte della Chiesa.
b. La settimana itreyana consiste in sette cambi, uno per ciascuna delle quattro figlie di Aa e per
ciascuno dei suoi tre occhi. Gli eretici niahani parlano di un tempo, prima che la Mannaia fosse
bandita dal cielo, in cui Aa reclamava come suo un cambio a settimana e ne concedeva un altro a
sua moglie.
Gli eretici non menzionano a chi potesse appartenere il settimo cambio.
CAPITOLO 13
LEZIONE

«Come era solita dire la mia ex moglie,» disse sorridendo lo Shahiid


Mouser «il segreto è nelle dita.»
Gli accoliti erano radunati nell’Aula di Tasche, in piedi a semicerchio
attorno allo Shahiid. La stanza era vasta, illuminata da una luce vagamente
azzurra proveniente dalle finestre a vetri colorati in alto. Lunghi tavoli
correvano per la stanza, disseminati di gingilli e oggetti curiosi, lucchetti e
grimaldelli. Le pareti erano fiancheggiate da porte, a dozzine, ciascuna con
un diverso tipo di serratura. E al limitare della luce, Mia riusciva a vedere
appendiabiti pieni di vestiti. Ogni taglio e stile immaginabile da tutti gli
angoli della Repubblica.
Mouser stesso era vestito con un comune abbigliamento itreyano: brache
di cuoio e un farsetto con le maniche tagliate. Le sue inquietanti vesti nere
non si vedevano da nessuna parte. Portava comunque la sua lama di
neracciaio, le figure dorate con la testa di gatto sull’elsa intrecciate l’una
nelle braccia dell’altra. Mia fu colpita nuovamente dagli occhi dello
Shahiid: anche se sembrava sulla trentina, quel profondo sguardo marrone
tradiva la saggezza di un uomo molto più vecchio.
«Naturalmente, la mia prima moglie non era la più brillante delle
fiamme. Dopotutto aveva sposato me.»
Lo Shahiid camminava tra i novizi con le mani dietro la schiena,
annuendo come un riccone midollano uscito per una passeggiata. Si fermò
all’improvviso di fronte al fratello di Ashlinn, Osrik. Protese una mano e
chiese: «Salve, ragazzo. Qual è il tuo nome?». Il giovane biondo gliela
strinse e Mouser gli lanciò un coltellino, l’elsa in avanti. «Credo che tu
abbia perso questo.»
Osrik controllò il fodero vuoto che portava al polso, poi sbatté le
palpebre dalla sorpresa. Mouser si girò verso gli accoliti e fece l’occhiolino.
«Sta tutto nella finta» disse.
Lo Shahiid proseguì lentamente lungo la fila e si fermò di fronte a Tric. I
lividi del ragazzo, causati dalle nocche di Chiamapiena e dagli stivali di
Solis, si stagliavano ancora bluastri.
«Come va la mascella, giovanotto?»
«… Sta bene, Shahiid, grazie.»
«Ha un aspetto pessimo.» Mouser sollevò una mano per sfiorare
delicatamente la faccia di Tric. Il ragazzo si ritrasse e sollevò la propria
mano per allontanare quella dello Shahiid. In un batter d’occhio, Mouser gli
gettò un anello che Mia riconobbe all’istante: tre drachimarini d’argento
intrecciati.
«Credo che tu abbia perso questo.»
Tric ricontrollò il dito ora spoglio, poi l’anello che aveva nel palmo.
Mouser guardò di nuovo gli accoliti.
«Sta nel tatto» disse.
Lo Shahiid riprese a vagare lungo la fila e si fermò infine davanti a
Jessamine. Mouser mostrò alla rossa il suo sorriso da argenteria e si
avvicinò. La ragazza incontrò il suo sguardo con luminosi occhi da
cacciatrice e un sorriso giocoso, facendo del proprio meglio per essere più
attraente dello Shahiid. La contesa di sguardi si interruppe quando Mouser
sollevò un braccialetto dorato e se lo rigirò attorno al dito.
«Credo che tu abbia perso questo» disse, restituendolo alla ragazza.
Si girò verso gli accoliti e ammiccò.
«Sta negli occhi.»
Senza una parola, Jessamine venne avanti e baciò Mouser proprio sulla
bocca. Stupore e divertimento si diffusero tra i novizi quando lo Shahiid
sgranò gli occhi. Mentre indietreggiava, sollevando le mani per tenere a
bada la ragazza, Jessamine afferrò l’elsa della sua lama di neracciaio e la
tirò fuori con un gesto plateale. Ancora sorridendo, la puntò al cuore dello
Shahiid.
«Sta nelle labbra» disse Jessamine.
Mouser rimase immobile, guardando la propria spada premuta contro il
petto. Mia trattenne il fiato, domandandosi se la sua disapprovazione
avrebbe assunto la stessa forma di quella di Solis. Ma poi lo Shahiid rise, un
suono lungo e fragoroso, e rivolse alla rossa un basso inchino elegante.
«Brava, Mea Domina, brava.»
Jessamine gli restituì la spada e gli fece una riverenza come se
indossasse una gonna immaginaria.
Ashlinn scoccò un’occhiata a Mia, che annuì malvolentieri.
“È brava…”
Tuttavia, Mia non riusciva a fare a meno di essere irritata per
quell’ingiustizia. Lei aveva messo in imbarazzo uno Shahiid e per questo le
era stato tranciato il braccio. Jessamine aveva ricevuto uno scroscio di
dannati applausi…
Mouser si voltò verso il gruppo. «Come la nostra intraprendente accolita
ha dimostrato, quello delle Tasche è un gioco di manipolazione. Un teatro.
Una danza in cui il vostro bersaglio dev’essere un passo indietro ogni
momento e voi un passo avanti. Corteggiare borselli o l’arte di non essere
visti possono sembrare poca cosa paragonati all’“arte” di fracassare il
cranio di un uomo o di ucciderlo con il suo stesso calice di vino. Ma a volte
tutto ciò che si frappone tra voi e il vostro bersaglio è un’unica porta,
oppure una parola d’ordine scritta su un foglietto nella tasca del capo delle
guardie. Il sentiero non è sempre lastricato di sangue.
«Purtroppo, l’ex amore della mia vita ha quasi centrato il punto. Le
vostre dita sono la vostra fonte di sostentamento in questo gioco. E l’unico
modo per migliorare è esercitarsi. Perciò questo è ciò che facciamo qui. Ci
esercitiamo.»
Lo Shahiid indicò una pila di pergamene sottili su un tavolo.
«Come incentivo, ogni Shahiid organizza una competizione a ogni
stagione. Tutti voi dovete prendere una di quelle liste. Su di essa, vedrete
una serie di oggetti che si trovano all’interno della Montagna Silente, con
un numero accanto a ciascuno. Sono i punti che accumulerete se riuscirete a
impadronirvi dell’oggetto e me lo porterete senza essere colti sul fatto dal
possessore.»
Mouser si guardò attorno, incontrando gli occhi di ciascun novizio.
«Sappiate che non mi assumo responsabilità per le conseguenze, se
verrete trovati a impadronirvi di tali tesori. E se sarete trovati a vagare per i
corridoi dopo la nona campana in violazione al coprifuoco della Reverenda
madre, che la Madre Nera vi aiuti. Si tratta di un gioco, bambini. Ma è un
gioco pericoloso.» Mosse le sopracciglia. «L’unico tipo che valga la pena
giocare.
«Alla fine dell’anno, l’accolito che abbia ottenuto il maggior numero di
punti sarà il primo di quest’aula. Ogni altro Shahiid terrà una competizione
simile: Canti, Maschere e Verità. Assumendo che non falliscano
platealmente nelle altre materie di studi, agli studenti che finiranno primi in
ciascuna sarà praticamente garantito di essere promossi alla Chiesa Rossa
come Lame complete.»
Dei mormorii si diffusero tra gli accoliti. Mia incontrò lo sguardo di Tric
dall’altra parte della stanza. Ashlinn stava ghignando come un gatto che
aveva rubato la panna, la mucca e perfino la mungitrice. Una garanzia quasi
certa di diventare una Lama? Di vendicare suo padre e calpestare la tomba
di Scaeva? Denti della Mannaia, quello sì che era un premio per cui valeva
la pena sgraffignare qualche ninnolo…
Alcuni accoliti avevano già cominciato a prendere le pergamene. Il
ragazzo con un orecchio solo, che si chiamava Petrus, ebbe una breve
baruffa con Diamo quando entrambi afferrarono la stessa. Quella di Tric gli
fu sottratta di mano da una Ash sorridente. Mia si fece largo tra la calca per
prendere la propria. Ruppe il sigillo di cera e lesse attentamente la lista
scritta a mano:

Un coltello da cucina – 1 punto


Un mazzapicchio dall’Aula di Canti – 1 punto
Un oggetto personale appartenente a un altro accolito – 2 punti
Un gioiello appartenente a un altro accolito – 3 punti
Un libro dall’Ateneo (rubato, non preso in prestito,
– 6 punti
furbacchione)
Uno specchio dall’Aula di Maschere – 7 punti
Gli occhiali del Cronista Aelius – 8 punti
Una faccia dalle stanze della Tessitrice – 9 punti
– 20
I coltelli cerimoniali della Shahiid Ammazzaragni
punti
– 35
Un cimelio dallo studio della Madre Drusilla
punti
Il fodero vuoto dello Shahiid Solis – 50
punti

E così via. C’erano dozzine di oggetti elencati sulla pagina, uno più
stravagante dell’altro. Pareva che questa “gara” avrebbe dato inizio a una
guerra di furti senza quartiere tra gli accoliti, il che probabilmente era
l’obiettivo di Mouser. Sarebbero stati all’erta in ogni momento, ora. Sempre
in cerca di un’opportunità. Costantemente vigili.
Costantemente in esercizio.
“Arguto.”
In fondo alla lista, Mia vide l’ultimo oggetto. Il più difficile di tutti.

La chiave di ossidiana della Reverenda madre – 100 punti

Mia si ricordò la chiave che pendeva attorno al collo dell’anziana. In che


modo qualcuno avrebbe provato a rubarla? Lanciò un’occhiata allo Shahiid
Mouser e scoprì che la stava guardando con quel sorriso da argenteria.
L’uomo batté le mani e si guardò attorno per l’aula.
«Ora. Esercitatevi.»
La prima lezione dello Shahiid consisteva semplicemente nel
borseggiare. Prese un borsello tintinnante da un tavolo e se lo legò alla
cintura. Poi istruì i novizi su diversi modi in cui il suo denaro poteva essere
sgraffignato, uno con il nome più eccentrico dell’altro. La Mano Morta.
L’Impertinente. La Giulietta. Il Gigolò. Con un bastone da passeggio in una
mano, Mouser sceglieva un accolito a caso perché provasse a rubargli il
borsello. Carlotta, la ragazza con il marchio da schiava che ondeggiava
come un serpente e si muoveva quasi altrettanto rapida. Il grosso Diamo, le
cui mani come magli si rivelarono più veloci di quanto sembrassero. I
novizi troppo lenti venivano ricompensati con una bacchettata sulle nocche.
La mano troppo pesante? Bacchettata. Troppo evidente? Bacchettata.
Troppo goffo?
Bacchettata, bacchettata, bacchettata.
Ashlinn sembrava abile in quel gioco, e Jessamine e Zitto le erano pari.
Il pallido ragazzo con gli occhi azzurri si rifiutava ancora di parlare: usava
il suo pezzo di gesso e la tavola di carbone per rispondere a qualunque
domanda per cui non bastasse un cenno di assenso o di diniego con la testa.
Ma era rapido come vermi su un cadavere e mortalmente silenzioso.
Mouser si cambiò d’abito diverse volte, passando in rassegna gli
attaccapanni e spiegando come ogni vestito poteva essere superato. Si
abbigliò come un dominus midollano, con una redingote dal taglio rifinito e
un borsello rigonfio all’interno. Poi passò a un senatore con le vesti proprie
del suo incarico orlate di porpora, che avevano una tasca segreta dove
nascondere le monete. a
«E poi,» annunciò Mouser frugando tra gli attaccapanni ancora una volta
«una razza che si aggrappa ai propri pezzi di rame come i cani ai loro ossi.»
Lo Shahiid si infilò una pesante veste bianca dalla testa e si assicurò una
catena d’oro al collo. «I vostri cari, vecchi preti di Aa timorati di dio.»
Mouser alzò tre dita in segno di benedizione e abbassò la voce di
un’ottava.
«Che il Semprevigile vi mantenga sempre nella Luce, o figli miei.»
Alzò la voce per sovrastare le risate. «Su, ridete pure, accoliti. Ma questo
è un abito genuino. Apparteneva a un sacerdote di Godsgrave che incontrai
brevemente quando ero giovane. Anche se lui gradì quell’incontro meno di
me.» Esaminò i volti dei presenti. «Ora, chi dovremo mettere alla…»
Mouser aggrottò la fronte.
«… Accolita, stai bene?»
Tutti gli occhi si voltarono verso Mia. La ragazza era in piedi come
bloccata lì dov’era, lo sguardo fisso sul medaglione attorno al collo di
Mouser. I soli erano lavorati su metalli differenti – oro rosa per Saan,
platino per Saai, oro giallo per Shiih – e quando li vide provò un senso di
nausea nello stomaco. Il suo volto si coprì di sudore. La luce dalle finestre
di vetro colorato si rifrangeva su quei tre cerchi di metallo prezioso,
bruciandole gli occhi. Messer Cortese si stava raggomitolando nella sua
ombra, in preda al panico e tremante, così pieno di paura da non riuscire a
bere la sua. Ma non era solo semplice terrore a stringere Mia in una morsa
alla vista della Trinità. Era vero e proprio dolore fisico.
«Io…»
«Su, bambina, è solo un abito da prete.»
Mouser venne avanti. Senza preavviso, Mia barcollò all’indietro e cadde
in ginocchio, vomitando tutto il primopasto sul pavimento. Gli altri accoliti
si ritrassero disgustati. I tre soli la stavano accecando e Mouser fece un altro
passo verso di lei, che sibilò come ustionata e si precipitò a nascondersi
dietro uno dei tavoli, tenendo sollevata una mano per bloccare quella luce
accecante che solo lei sembrava vedere.
Tric allungò una mano verso di lei, gli occhi sgranati dalla
preoccupazione. Jessamine stava sogghignando, mentre Ash sembrava
esterrefatta e mormorii confusi si diffondevano tra gli altri novizi.
«Fuori tutti» ordinò Mouser. «Le lezioni sono finite, per questo cambio.»
Il gruppo stazionò incerto: tutti fissavano imbambolati la ragazza
terrorizzata.
«Fuori!» ruggì Mouser. «Ora!»
La folla uscì dall’aula, ma Tric si soffermò vicino a Mia come
un’infermiera preoccupata finché Mouser non gli gridò di andarsene.
Quando l’aula fu vuota, lo Shahiid si tolse i paramenti e li gettò da una
parte. Quindi si avvicinò a Mia come se fosse un animale spaventato, con la
mano protesa.
«Stai bene, bambina?»
Ora che non vedeva più la Trinità, Mia scoprì che le riusciva più facile
respirare. Il cuore si calmò nel suo petto e il senso di nausea diminuì.
Messer Cortese si era ripreso, raggomitolato nella sua ombra a bere la
paura. Ma le mani le tremavano ancora e il cuore palpitava…
«Io… sono spiacente, Shahiid…»
Mouser si inginocchiò accanto a lei. «No, sono io a doverti delle scuse.
La Reverenda madre mi ha raccontato del trucchetto che hai giocato a Solis
nell’Aula di Canti. E brava, a proposito…»
Il sorriso dello Shahiid scomparve quando Mia non lo ricambiò.
«… Ma lei mi ha detto cosa sei. Sono stato incauto. Perdonami.»
Mia scosse il capo. «Non capisco.»
«Prima che gli tagliassi la gola, l’uomo che indossava quella Trinità era
un primus del culto di Aa. Quel medaglione è stato consacrato da un Gran
cardinale. Benedetto dalla Mano Destra di Aa in persona.»
«… Duomo?»
Mouser scosse il capo. «Il suo predecessore. Ma non si tratta dell’uomo,
bambina. Né dei suoi abiti. È la sua fede nel Semprevigile. Il cardinale che
benedisse quei soli era un credente. Un vero discepolo del Dio che bandì la
Notte stessa dai nostri cieli. Aa concede ai suoi servitori più devoti una
certa quantità della sua forza: i Luminatii e le loro lame di solacciaio ne
sono le manifestazioni più evidenti. Ma i più devoti tra i suoi preti possono
instillare una certa misura di quella forza in altri oggetti che toccano. Avrei
dovuto immaginare che una cosa del genere potesse essere un vero
tormento per te.»
«Ma perché?»
Lo Shahiid scrollò le spalle. «Sei toccata dalla Madre, accolita.
Marchiata, non so se per il bene o per il male. Ma so che la Luce odia la sua
sposa. E odia altrettanto coloro che lei ama.»
Mia sbatté le palpebre, con la nausea che ancora si agitava nel suo
stomaco. L’aveva percepito, proprio come poteva toccare la pietra sotto di
lei ora. Guardando quei tre cerchi ardenti, ne aveva sentito la furia.
Fiamma. Astio. Aveva provato la stessa cosa già una volta. La luce che le
bruciava negli occhi. Sangue sulle sue mani. Accecante.
“Non guardare…”
Mouser le diede una pacca delicata sul ginocchio.
«Terrò la Trinità nascosta nelle prossime lezioni. Scusami ancora.»
Lo Shahiid la aiutò ad alzarsi e si assicurò che riuscisse a reggersi in
piedi. Le tremavano le gambe e le girava un po’ la testa. Ma annuì e inspirò
a fondo.
«Avete mai visto lord Cassius reagire a quel modo alla Trinità?»
«Non sono stato tanto sciocco da indossarla in sua presenza» sorrise
Mouser.
«Mi piacerebbe parlargli, se possibile. Non ho mai incontrato un…»
La scrollata della testa di Mouser le fece morire la domanda sulle labbra.
«Lord Cassius non si trova più nella Montagna, accolita» disse lo
Shahiid. «Tornerà per la vostra iniziazione, ma dubito che ci onorerà della
sua presenza prima di allora. Qualunque siano le risposte che cerchi, dovrai
trovarle da sola. Vorrei poterti dire di più, ma Cassius è l’unico tenebris che
abbia mai conosciuto, e il Signore delle Lame si tiene tutto per sé.»
Mia annuì in segno di ringraziamento e uscì dall’Aula di Tasche. La sua
andatura era ancora incerta. Le mani continuavano a tremare. Si fermò fuori
dalle doppie porte, gli occhi chiusi, ad ascoltare quel coro spettrale che
cantava nella penombra. Nell’oscurità dietro le sue palpebre aleggiavano
ancora quei tre cerchi ardenti, e la sua mente era ancora agitata dalla
consapevolezza che in qualche modo si era guadagnata l’odio di una
divinità. Non aveva idea di come fosse successo. O perché. Ma qualunque
fossero i motivi, nessuno in questa Chiesa pareva avere delle reali risposte.
“Forse…”
Si avviò nell’oscurità, ancora nauseata, mentre i cerchi ardenti nei suoi
occhi sbiadivano lentamente. Pensò che forse poteva esserci tra queste sale
qualcuno che avesse le risposte che le occorrevano. Ma quando arrivò alle
porte imponenti dell’Ateneo, le trovò ben chiuse. Bussò, poi chiamò a gran
voce il Cronista. Come risposta ricevette solo silenzio.
Con un sospiro, Mia si accasciò contro le porte. Estrasse una scatoletta
d’argento dalla tracolla e si accese un sigaretto. Esalò uno sbuffo grigio.
Tre soli che le bruciavano dietro gli occhi.
Domande sempre ardenti nella sua mente.
Ma, se voleva trovare la verità su di sé, a quanto pare avrebbe dovuto
farlo da sola.
L’ombra si agitò ai suoi piedi. Una voce delicata sussurrò nel buio:
«… mai da sola…»

a. Il porpora è il colore del prestigio nella Repubblica dal tempo della rivoluzione in cui fu deposto
l’ultimo re di Itreya, Francisco XV.
La tintura porpora si ottiene dai petali macinati di un bocciolo che cresce solo al confine
montano fra Itreya e Vaan. Quasi impossibile da coltivare, il fiore fu chiamato Liberis: “Libertà”
in itreyano antico. I repubblicani che uccisero Francisco lo adottarono come simbolo della loro
causa, appuntandosi un bocciolo sul petto ai raduni di corte per indicare la loro lealtà alla
cospirazione.
Se questa sia una semplice invenzione romantica è in discussione, ma rimane il fatto che
adesso solo ai senatori è permesso indossare quel colore in pubblico. Qualunque plebeo venga
scoperto a portare il porpora potrebbe subire lo stesso destino del povero Francisco XV, ovvero
ritrovarsi assassinato brutalmente di fronte alla sua intera famiglia.
Cosa costituisca davvero il colore porpora è in qualche modo aperto all’interpretazione,
naturalmente. Il lilla potrebbe essere perdonabile, per esempio, se il magistrato in seduta fosse di
umore generoso. Per il pervinca, si potrebbe obiettare che è più blu che porpora, e allo stesso
modo il violetto, ma l’ametista richiederebbe un vero sforzo di amicizia.
Il malva, naturalmente, è fuori moda.
CAPITOLO 14
MASCHERE

«Direi più Aula degli Specchi» borbottò Mia.


Era passato un cambio dall’incidente nell’aula di Mouser. Aveva zittito
le preoccupazioni di Tric e Ashlinn con una scusa fiacca su un pezzo di
aringa andata a male che aveva mangiato al primopasto e, dopo qualche
sguardo dubbioso, i due avevano lasciato perdere la questione. Il resto del
gregge aveva un’altra lezione in programma nell’Aula di Canti, ma avendo
il braccio ancora nero e blu, Mia era stata accompagnata da Naev alla sua
prima lezione nella famigerata Aula di Maschere.
Scale e corridoi. Cori, finestre e ombre.
Ora l’aula si estendeva davanti a lei, trapuntata da un profumo tenue.
Ogni superficie era ricoperta di scarlatto. Lunghi drappi rossi ondeggiavano
come danzatori in un vento nascosto. Vetri colorati scintillavano cremisi.
Statue intagliate da raro marmo rosso erano disposte su file ordinate; le
figure erano nude e bellissime, ma stranamente a ciascuna mancava la testa.
Cosa ancora più singolare, non si vedeva nemmeno una maschera. Invece,
ovunque Mia guardasse, vedeva specchi. Di vetro e d’argento lucidato, con
cornici dorate, di legno e di cristallo. Centinaia di riflessi la fissavano a loro
volta. La frangia sbilenca. La carnagione pallida. Gli occhi scavati.
Era inevitabile.
Naev uscì dalla stanza e le doppie porte si chiusero silenziosamente alle
sue spalle.
«Sei in anticipo, amore mio.»
Mia cercò la voce tra i riflessi. Era venata di fumo. Musicale. Intravide
movimento: curve pallide ricoperte da una veste rosso vino. Poi vide Aalea,
Shahiid di Maschere, emergere tra tende di seta scarlatta trasparente.
Le fece quasi male lo stomaco quando guardò la donna nella luce piena.
Chiamarla bella era come definire un tifone una brezza estiva, o i tre soli un
lume di candela. Aalea era semplicemente meravigliosa; dolorosamente,
stupidamente meravigliosa. Riccioli folti le ricadevano come fiumi neri fino
in vita. Occhi impreziositi da kajal che traboccavano mistero, labbra
carnose dipinte con il rosso del sangue arterioso. Una corporatura a
clessidra. Era il tipo di donna di cui si parlava nei vecchi miti: per possedere
quelle come lei, gli uomini assediavano città, attraversavano oceani o
facevano altre cose estremamente stupide. In sua presenza, Mia si sentiva
alta quanto un insetto.
«Le mie scuse, Shahiid. Posso tornare più tardi, se vi compiace.»
«Amore mio, no.» Il sorriso di Aalea era come i soli che spuntavano
dalle nuvole. Attraversò la stanza e baciò Mia sulle guance. «Resta e sii la
benvenuta.»
«… I miei ringraziamenti, Shahiid.»
«Vieni a sederti. Vuoi qualcosa da bere? Ho acqua zuccherata. O
qualcosa di più forte?»
«… Liquore?»
A Mia sembrava che il sorriso di Aalea fosse solo per lei. «Come ti
compiace.»
La ragazza si ritrovò seduta su uno dei divani di velluto, con un bicchiere
del miglior aureovino in mano. La Shahiid si era messa comoda davanti a
lei, con un calice dallo stelo sottile pieno di un liquido scuro tenuto tra dita
affusolate e smaltate. Sembrava un ritratto che avesse preso vita. Una dea
che si aggirava per il mondo su piedi mortali, che per qualche motivo
riteneva giusto passare qualche momento con…
«Tu ti chiami Mia.»
La ragazza sbatté le palpebre, un po’ frastornata per il profumo. «Sì,
Shahiid.»
«Che nome stupendo. È liisiano?»
Mia annuì. Prese un sorso dal suo bicchiere, poi sussultò quando il
liquido le arse la gola. Figlie, quanto avrebbe voluto accendersi una
paglia…
«Parlami di lui» disse Aalea.
«… Di chi?»
«Del tuo ragazzo. Il tuo primo. Ne hai conosciuto solo uno, se non mi
sbaglio.»
Mia cercò di non avere la bocca troppo spalancata. Aalea sorrise di
nuovo, luminosa e affascinante, riempiendo il petto della ragazza con un
calore che non aveva nulla a che fare con l’aureovino. In quegli occhi scuri
c’era qualcosa che tradiva un’affinità. Segreti condivisi. Come sorelle che
non si fossero mai incontrate. Una voce nella testa di Mia le sussurrò che la
Shahiid stava usando la sua arte, eppure per certi versi non sembrava avere
importanza.
“Qui sta il trucco” ipotizzò.
«Non c’è molto da dire» rispose Mia.
«E se cominciassimo con il suo nome?»
«Non l’ho mai saputo.»
Aalea sollevò un sopracciglio curato, lasciando che fosse il silenzio a
porre la domanda per lei.
«Era un deliziante» disse infine Mia. «L’ho pagato per farlo.»
«Hai pagato un ragazzo per la tua prima volta?»
Mia incontrò gli occhi della donna, rifiutando di distogliere lo sguardo.
«Appena prima di venire qui.»
«Posso fare un’ipotesi sul perché?»
Mia scrollò le spalle. «Come vi compiace.»
Aalea si sdraiò sul divano, stiracchiandosi come un gatto.
«Tua madre» disse. «Era una bella donna?»
Mia sbatté le palpebre, ma non replicò.
«Sai che non hai guardato in uno specchio nemmeno una volta da
quando ti sei seduta? Ovunque ti volti in questa stanza, vedi il tuo riflesso.
Eppure te ne stai seduta lì, con il bicchiere in mano, facendo tutto il
possibile per evitare il tuo stesso viso. Perché?»
Mia guardò la Shahiid. Probabilmente lei aveva sempre avuto uomini
che spasimavano per averla. Non sapeva come fosse essere semplice.
Ordinaria. La rabbia guizzò negli occhi di Mia, e la sua voce divenne piatta
e dura.
«Alcuni di noi non sono nati fortunati come altri.»
«Tu sei più fortunata di quanto immagini. Sei nata senza ciò per cui
molte persone apprezzano i loro amanti. Quel ridicolo trofeo chiamato
bellezza. Tu sai cosa si prova a essere ignorati. Ne sei tanto consapevole che
hai pagato un ragazzo per amarti. Per assaggiare quella dolcezza, anche solo
per un attimo.»
«Non è stato così dolce, credetemi.»
Aalea sorrise. «Tu comprendi già cosa vuol dire desiderare, amore mio.
E molto presto capirai quanto potere può portarti instillare quel desiderio in
altri.»
«… Cosa insegnate con esattezza qui?»
«Il tocco delicato. Lo sguardo che indugia. Inezie sussurrate che
significano tutto. Queste sono le armi che ti darò.»
«Preferisco l’acciaio, se fa lo stesso» si accigliò Mia. «Più rapido e più
sincero.»
Aalea rise. «E se ti servissero informazioni per adempiere a un’Offerta?
Se il bersaglio fosse nascosto e la sua ubicazione nota solo a un servitore
fidato? O se ti occorresse una parola d’ordine per accedere a un raduno in
cui sarà presente il tuo obiettivo? La fiducia di una donna che può condurti
alla preda? In che modo ti aiuterà l’acciaio, allora?»
«Ho sentito dire che i tizzoni ardenti fanno miracoli, in quelle
situazioni.»
«La pelle calda funziona ancora meglio. E lascia meno cicatrici.»
La Shahiid si alzò, scivolò fino al divano di Mia e si sedette accanto a
lei. Mia poteva fiutare il profumo della donna: era inebriante e le dava le
vertigini. Fissò le pozze scure dei suoi occhi. In lei c’era una specie di
attrazione. Un magnetismo da cui Mia non poteva fare a meno di essere
trascinata. Forse c’era qualche tipo di arkemia nell’essenza che portava?
«Ti insegnerò come indurre gli altri ad amarti» sussurrò Aalea. «Uomini.
Donne. Completamente e totalmente. Anche solo per un’illuminotte. Anche
solo per un attimo.» Allungò dita gentili e sfiorò la guancia di Mia,
lasciandosi dietro un formicolio. «Ti insegnerò come far sì che gli altri
desiderino. Che si sentano come ti senti tu ora. Ma per prima cosa devi
dominare il volto che vedi allo specchio.»
L’incantesimo di Aalea si infranse, le farfalle nello stomaco di Mia
caddero morte una a una. Lanciò un’occhiata allo specchio più vicino, al
riflesso che conteneva. Alla ragazza ossuta e pallida, con il naso rotto e le
guance scavate, seduta accanto a una donna che poteva essere una delle
statue nella stanza che aveva preso vita. Era una follia. Per quanto fosse
dolce il suo profumo, per quanto fossero incantevoli le quisquilie che
poteva sussurrare, Mia non sarebbe mai stata una bellezza. Si era rassegnata
a quel fatto anni fa.
«Ho guardato nello specchio molto più di altri, credetemi» disse la
ragazza. «E per quanto apprezzi le vostre intenzioni, Shahiid, se continuate
a starvene lì seduta a dirmi che devo imparare ad amare me stessa prima
che gli altri possano amare me, penso che potrei vomitare questo ottimo
liquore su tutto il vostro grazioso tappeto rosso.»
Una risata, luminosa e calda come tutti e tre i soli. Aalea prese la mano
di Mia e la premette contro le labbra rosso sangue. Involontariamente, la
ragazza avvertì un rossore insinuarsi sulle sue gote.
«No, mia cara. Non dubito che tu conosca te stessa meglio di altri.
Succede sempre a noi persone ordinarie. Non intendo dire che tu debba
imparare ad amare il viso che vedi nello specchio adesso.» Toccò di nuovo
la guancia di Mia, suscitando un afflusso vertiginoso di calore. «Ciò che
intendo è che devi dominare il volto che vedrai nello specchio domattina.»
«Perché?» Mia si accigliò. «Cosa succede stasera?»
Aalea sorrise. «Te ne daremo uno nuovo, naturalmente.»
«… Uno nuovo di cosa?»
«Quel naso, quegli occhi… non vanno bene.» Aalea emise un suono di
disapprovazione. «Sono troppo distinguibili, capisci. Un naso rotto può
suscitare domande su come sia successo. Occhi lividi e infossati possono
far chiedere a un bersaglio cosa fai durante le tue illuminotti invece di
dormire come una fedele figlia di Aa. E nei posti in cui ti manderemo
presto…» La Shahiid sorrise. «Per adesso, ci servi graziosa, ma non
memorabile. Piacente, ma facile da dimenticare. Capace di far voltare una
testa, se desideri, o di scomparire sullo sfondo quando emerge la necessità.»
«Io…»
«Non ti piacerebbe essere graziosa, amore mio?»
Mia fece spallucce. «Non m’interessa affatto il mio aspetto.»
«Eppure hai pagato un bel ragazzo per amarti?»
La Shahiid si sporse in avanti. Mia poteva avvertire il calore che si
irradiava dalla sua pelle. Tutt’a un tratto sentì la bocca secca. Il respiro
accelerò un poco. Rabbia? Oltraggio? O qualcos’altro?
«Può non essere corretto» disse Aalea. «Può non essere giusto. Ma
questo è un mondo di senatori, consoli e Luminatii… di repubbliche, culti e
istituzioni costruiti e gestiti quasi interamente dagli uomini. E in esso,
l’amore è un’arma. Il sesso è un’arma. I tuoi occhi? Il tuo corpo? Il tuo
sorriso?» Scrollò le spalle. «Sono armi. E ti danno più potere di mille spade.
Aprono più cancelli di mille guerrieri ambulanti. L’amore ha spodestato re,
Mia. Ha distrutto imperi. Perfino il nostro povero cielo riarso dai soli.»
La Shahiid allungò una mano e scostò un capello ribelle dalla guancia di
Mia.
«Non vedranno mai il coltello che hai in mano se sono persi nei tuoi
occhi. Non sentiranno mai il sapore del veleno nel loro vino quando sono
ebbri della tua vista.» Una scrollatina di spalle. «La bellezza lo rende
semplicemente più facile, amore. Più facile rispetto a com’è per te ora. Può
essere triste. Può essere sbagliato. Ma è anche vero.»
La voce di Mia fu un sussurro teso, la rabbia che attendeva ai lati.
«E cosa ne sapete voi di com’è per me ora, Shahiid?»
«Ho indossato così tante apparenze che a stento ricordo com’ero
all’inizio. Ma non ero un ritratto, Mia.» Si sporse all’indietro e sorrise. «Ero
più o meno come te. Conoscevo il desiderio. Il dolore che porta. Il vuoto.
Lo conoscevo come me stessa. E così, quando Marielle mi diede la bellezza
e imparai come suscitare quel desiderio in altri, nulla poté fermarmi.»
«Marielle…» mormorò Mia.
“La tessitrice di carne.”
Tutto aveva senso, ora. La bellezza ultraterrena di Aalea. Il volto
giovane e gli occhi vecchi di Mouser. Perfino la facciata di calore familiare
della Reverenda madre. Finalmente comprese il nome di questa stanza.
“L’Aula di Maschere.” Figlie, poteva essere applicato all’intera Montagna.
Gli assassini lì dentro – assassino uno, assassini tutti – si nascondevano
dietro facciate che non erano fatte di ceramica o legno, ma di carne.
Bellezza. Giovinezza. Un delicato aspetto materno. Quale modo migliore
per coadiuvare una congrega di sicari anonimi che plasmare di nuovo le
loro facce ogni volta che diventava necessario? Quale modo migliore per
sedurre un bersaglio, confondersi in una folla o farsi vedere per poi essere
dimenticati immediatamente che creare una faccia adatta allo scopo?
“Quale modo migliore per farci dimenticare chi eravamo e plasmarci in
ciò che vogliono che siamo?”
Per quanto potesse essere imperfetta agli occhi degli altri, questa era la
sua faccia. Mia non era certa di cosa provare sul fatto che queste persone
gliela portassero via.
“Non possedere nulla” aveva detto Mercurio. “Non sapere nulla. Non
essere nulla.”
Mia respirò a fondo e deglutì forte.
“Perché allora potrai fare qualunque cosa.”
«Vieni» disse Aalea. «La Tessitrice attende.»
La Shahiid si alzò e le porse la mano. Mia ricordò le fattezze orrende di
Marielle: le labbra spaccate e sbavanti, quelle dita rachitiche e deformi.
Messer Cortese sospirò ai suoi piedi e la ragazza si fece forza,
appallottolando le mani in pugni. Questo era il prezzo che lei aveva scelto
di pagare. Per suo padre. Per la sua familia.
“Quando tutto è sangue, il sangue è tutto.”
Cos’altro poteva fare?
Prese la mano di Aalea.

Non l’aveva notato la prima volta che era stata quaggiù, ma a differenza
dell’aula di Aalea, le pareti delle stanze di Marielle erano coperte di
maschere. Ceramica e cartapesta. Vetro e terracotta. Maschere di Carnivalé
e maschere di morte, maschere da bambini e maschere antiche e distorte
fatte di osso, cuoio e pelle animale. Una stanza di facce, bellissime, orrende
e ogni via di mezzo, ma nessuna terrificante quanto la faccia della Tessitrice
in persona.
E non si vedeva uno specchio da nessuna parte.
Marielle era curva, circondata da un pallido bagliore arkemico. La statua
di una donna flessuosa con la testa da leonessa si trovava sulla scrivania
accanto a lei, una sfera tenuta nei palmi. Marielle stava leggendo da un
tomo impolverato le cui pagine scricchiolavano quando le voltava. Quando
la Shahiid Aalea bussò piano sulla parete per annunciare la loro presenza, la
Tessitrice non alzò lo sguardo.
«Una buona serata a te, Shahiid.» Una striscia di saliva uscì dalle labbra
di Marielle mentre parlava. Lei si accigliò e tamponò la pagina ora
macchiata. A Mia si arricciò la bocca dal disgusto.
«Anche a te, somma Tessitrice.» Aalea si profuse in un inchino e sorrise.
«Confido che tu stia bene.»
«La mia salute è buona, ti ringrazio.»
«Dov’è il tuo bellissimo fratello?»
A quelle parole, Marielle sollevò lo sguardo. Il suo sorriso fu tanto largo
che per poco non le ruppe di nuovo il labbro.
«Si sta nutrendo.»
«Ah.» Aalea mise la mano sulle reni di Mia e la spinse nella stanza.
«Chiedo scusa per l’interruzione, ma questa è la tua prima tela. Vi siete già
incontrate, credo.»
«Brevemente. Puoi porgere i ringraziamenti al gentile Solis per la nostra
presentazione.» Marielle si pulì la saliva dalla bocca e rivolse a Mia un
sorriso distorto. «Buon cambio a te, piccola tenebris.»
Mia si sentì irritata per lo sguardo malizioso sul volto della Tessitrice.
Adesso che la sorpresa del loro primo incontro era scemata, riconosceva
che razza di donna era Marielle. Mia aveva avuto a che fare con i tipi come
lei mille volte. Si rese conto che quella donna stava sorridendo per
provocarla. A Marielle piaceva tormentare. Amava osservare il dolore e
infliggerlo, e amava la compagnia di coloro che lo adoravano quanto lei.
“Una sadica.”
Eppure, la Shahiid Aalea si rivolgeva alla donna quasi con reverenza, gli
occhi bassi in segno di rispetto. Mia supponeva che avesse senso. Se
Marielle era quella che faceva in modo che Aalea mantenesse quell’aspetto,
era logico che la Shahiid di Maschere volesse rimanere nella lista delle
persone benvolute dalla Tessitrice. Perfino se quella lista, come il suo libro,
era macchiata di bava sanguinante.
«Vieni, falla accomodare.»
Marielle si alzò dalla scrivania con un sussulto e fece un gesto verso una
familiare lastra di pietra nera. Cinghie di cuoio e fibbie scintillanti. Mia
sentì l’amaro in bocca ricordandosi quando si era svegliata lì, in preda a
dolore, incertezza e vertigini.
«Dovrai privarti degli indumenti, piccola tenebris» biascicò Marielle.
«A che scopo?»
Aalea le sfiorò gentilmente la guancia. «Fidati di me, amore.»
Mia fissò la Tessitrice. Messer Cortese si raggomitolò nell’ombra sotto
di lei, bevendo la sua paura più velocemente che poteva. Con un sussulto e
senza una parola, Mia liberò il braccio dalla tracolla, prese la camicia e la
sfilò dalla testa. Scalciò via gli stivali, le brache, e si stese nuda sulla lastra.
La roccia era gelida sulla sua pelle, che si accapponò all’istante.
Quando Marielle pronunciò una parola, una manciata di globi arkemici
si accese sopra la testa di Mia. Lei strinse le palpebre, abbagliata da quella
radiosità. Due sagome indistinte torreggiavano sopra di lei, sfocate nella
luce. La voce di Aalea era calda e dolce come acqua zuccherata.
«Dobbiamo legarti, amore.»
Mia strinse i denti e annuì. Ricordò a se stessa che qui le cose si
facevano così, che questo era ciò che aveva accettato. Sentì le cinghie
serrarsi attorno a braccia e gambe, poi trasalì quando il cuoio s’infilò nel
gomito ferito. Le premettero un’imbottitura di cuoio sul collo. Si rese conto
di non riuscire a ruotare la testa.
«Impressioni?» biascicò Marielle. «Belle ossa. Potrei tramutarla in una
rara bellezza.»
«Solo un assaggio, per adesso. Meglio non nuotare troppo in profondità
da subito.»
«Sembra che abbia smarrito il seno.»
«Fa’ quello che riesci, somma Tessitrice. Sono certa che sarà un
capolavoro, come sempre.»
«Come ti compiace.»
Mia udì uno scrocchio di nocche, poi un respiro con uno schiocco di
lingua. Sbatté le palpebre alla luce e le sagome si mossero all’interno. Le
palpitava il cuore: Messer Cortese non era in grado di assorbire del tutto il
suo terrore crescente. Era inerme. Legata. Bloccata come un pezzo di carne
sul blocco di un macellaio.
“Hai combattuto per essere qui” disse a se stessa. “Ogni illuminotte e
ogni cambio per sei anni. Sei fottuti anni. Pensa a Scaeva. A Duomo. A
Remus. Morti ai tuoi piedi. Ogni passo che compi qui ti avvicina a loro.
Ogni goccia di sudore. Ogni stilla di sa…”
Mani delicate le accarezzarono la fronte. Aalea le sussurrò all’orecchio.
«Questo farà male, amore. Ma abbi fede. La Tessitrice conosce il suo
lavoro.»
«Male?» farfugliò Mia. «Non avete mai detto nu…»
Dolore. Delizioso, bruciante dolore. Mani deformi ondeggiavano sopra
di lei, dita si muovevano come se la Tessitrice stesse suonando una sinfonia
e le corde fossero la sua pelle. Percepì la propria faccia incresparsi, la carne
scorrere come cera in fiamme. Strinse i denti e ricacciò indietro un urlo. Le
lacrime la accecavano. Il cuore palpitava. Messer Cortese si gonfiava e
ruotava sotto di lei, le ombre nella stanza fremevano. Dalle pareti caddero
maschere mentre il dolore bruciava più ardente, e da qualche parte, in
quell’oscurità che la ustionava e la artigliava, avvertì qualcuno prenderle la
mano e stringerla forte, promettendo che tutto sarebbe andato bene.
«… aggrappati a me, mia…»
Ma il dolore.
«… reggiti, ti tengo…»
Oh, Figlie, il dolore…
Durò un’eternità. Diminuiva solo per un tempo sufficiente a farle
riprendere fiato, temendo il momento in cui sarebbe ricominciato.
Nemmeno una volta durante quei minuti interminabili Marielle la toccò
davvero, eppure Mia aveva l’impressione che le mani della donna fossero
ovunque. Le separavano la pelle e le torcevano la carne, mentre lacrime
scorrevano lungo guance liquefatte. E quando Marielle spostò le mani più
in basso, sul torace e sulla pancia di Mia, non lo trattenne più. L’urlo le
scivolò dai denti e salì tra l’oscurità ardente sopra la sua testa, trascinandola
giù dentro tenebre pietose dove non sentì nulla. Non seppe nulla. Non fu
nulla.
«… non ti lascerò andare…»
Nulla di nulla.

Non era bellissima.


Una volta seduta nella sua stanza dopo la procedura, Mia si rese conto
che la Tessitrice non le aveva concesso quel dono. Non era una statua che
aveva preso vita come Aalea. Non era una donna per cui un generale
avrebbe potuto radunare un esercito, né per cui un eroe avrebbe ucciso un
dio o un demone, né per cui una nazione sarebbe scesa in guerra. Ma
quando Mia fissò lo specchio sul suo comò, scoprì di essere affascinata.
Fece scorrere i polpastrelli sulle guance, sul naso e sulle labbra, le mani
ancora tremanti.
Messer Cortese la osservava dai suoi cuscini, sazio per il banchetto della
sua paura. Si era svegliata nel suo letto e lo aveva trovato accanto a lei, che
la guardava con i suoi non-occhi. La Shahiid Aalea non si vedeva da
nessuna parte, anche se Mia riusciva a percepire comunque il suo profumo.
Non appena si era seduta di fronte allo specchio, si era aspettata di
ritrovarsi a fissare un’estranea. Ma quando aveva scrutato il viso
nell’argento lucidato, si era resa conto che era ancora il suo. Gli occhi scuri,
la forma a cuore, le labbra arcuate… tutto suo. Ma in qualche modo era…
graziosa. Non del tipo che confinava con la bellezza vera e propria. Era più
quell’avvenenza ordinaria che si incrocia per strada a ogni cambio. Quella
che si può notare quando passa accanto, ma che si dimentica non appena
scompare dalla vista.
Era come se il rompicapo della sua faccia avesse qualche pezzo
mancante che finalmente era stato messo al proprio posto. Differenze sottili
che in qualche modo facevano tutta la differenza. Le sue labbra erano più
carnose. Il naso dritto. La pelle liscia come crema. Le ombre sotto gli occhi
erano scomparse, e gli occhi stessi sembravano un po’ più grandi. A
proposito…
Aprì i lacci sulla gola e guardò in basso, dove non c’era stato il suo seno.
«Figlie» borbottò. «Queste sono nuove…»
«… confido che tu abbia notato come ho educatamente evitato di
commentare…»
Mia guardò il non-gatto sulla cornice dello specchio sopra di lei. «La tua
moderazione è ammirevole.»
«… in realtà non riesco a pensare a nulla di arguto da dire…»
«Sia ringraziata la Mannaia per le piccole benedizioni, allora.»
«… o per quelle notevolmente più grandi, come in questo caso…»
Mia roteò gli occhi.
«… sapevamo entrambi che era troppo bello per durare…»
La ragazza si voltò ancora verso il suo riflesso. Fissò il nuovo volto che
la fissava a sua volta. La verità era che pensava che si sarebbe sentita
strana. Derubata di qualcosa: identità, personalità, individualità. Violata,
addirittura? Ma questa era ancora la sua faccia. La sua carne. Il suo corpo. E
mentre Mia scrollava le spalle verso la ragazza nello specchio, quella
scrollò le spalle a sua volta. Proprio come aveva sempre fatto. Proprio come
avrebbe sempre fatto.
Doveva ammetterlo.
La Tessitrice sapeva il fatto suo.
CAPITOLO 15
VERITÀ

Quando Mia si svegliò al mattino, trovò Naev ad attenderla fuori dalla


porta. Non appena vide il suo nuovo volto, la donna sgranò gli occhi dietro
il velo. Mia udì un sibilo sommesso che aleggiava incerto tra labbra
rovinate, quasi non fosse sicura di cosa dire. Alla fine fu lei stessa a parlare.
«Buon cambio a te, Naev.»
«… Naev viene a dirglielo. Naev sta partendo.»
Mia sbatté le palpebre. «Partendo? Per dove?»
«Ultima Spes. Poi per la città di Kassina sulla costa sud. Naev starà via
per un po’. Lei deve fare attenzione finché Naev non sarà tornata. Restare
salda. Essere forte. E stare attenta.»
Mia annuì. «Lo farò. Ti ringrazio.»
«Andiamo. Naev la accompagnerà al primopasto.»
Mentre procedevano lungo i corridoi tortuosi verso l’Altare del Cielo, a
Mia venne in mente che non sapeva quasi nulla della donna accanto a lei.
Naev sembrava sincera nel suo voto di sangue, ma Mia non era del tutto
certa fino a che punto si sarebbe spinta la sua affidabilità. Anche se la
donna non aveva pronunciato una parola al riguardo, lo spettro del nuovo
volto di Mia aleggiava tra loro come una nube. Una domanda sbatacchiava
dietro i denti della ragazza, esigendo di essere formulata. Mentre
raggiungevano la grande statua della dea nella Sala degli Elogi, che
torreggiava sopra di loro con spada e bilancia in mano, finalmente se la fece
sfuggire.
«Come riesci a sopportarlo, Naev?» chiese.
Naev si fermò di colpo e fissò Mia con occhi neri e freddi. «Sopportare
cosa?»
«Ho capito cosa intendevi nel deserto. Quando ho chiesto cos’avesse
potuto causare quello alla tua faccia. “Amore” mi hai detto. “Solo amore”.»
Mia guardò Naev negli occhi. «Tu amavi Adonai.»
«Non amava» replicò Naev. «Ama.»
«E Adonai ama te?»
«… Forse una volta.»
«Perciò Marielle ha storpiato la tua faccia perché era gelosa che tu
amassi suo fratello?» Mia era incredula. «Cos’ha detto la Reverenda
madre?»
«Nulla.» Naev fece spallucce e continuò a camminare. «Di Mani ne ha in
abbondanza. Di stregoni, non così tanti.»
«Perciò ha semplicemente lasciato correre?» Mia si mise al passo con
lei. «Non è giusto, Naev.»
«Lei imparerà che giusto e sbagliato hanno poco significato qui.»
«Non capisco questo posto. Un accolito è stato assassinato proprio sotto
questa statua e al Culto non sembra interessare scoprire chi sia stato.»
«L’indifferenza genera indifferenza. Presto anche a lei importerà poco
quanto a loro.»
Adesso fu il turno di Mia di fermarsi di colpo. «Che intendi?»
La donna osservò Mia con quegli occhi neri senza fondo, poi lanciò
un’occhiata alla statua sopra di loro. «A Naev piace la sua nuova faccia. La
Tessitrice sa il fatto suo, eh?»
Mia si portò di riflesso una mano alla guancia. «… Proprio così.»
«A lei manca la sua vecchia apparenza? Sente già il cambiamento nelle
sue ossa?»
«Hanno solo cambiato il mio aspetto. Sono ancora la persona che ero
ieri. Dentro.»
«È così che comincia. La tessitura è solo il primo passo. La farfalla
ricorda di essere stata bruco. Ma lei pensa che provi qualcosa tranne pietà
per quell’essere che striscia nel fango? Una volta spiegate quelle ali
bellissime e imparato a volare?»
«Io non sono una farfalla, Naev.»
La donna mise una mano sul braccio di Mia.
«Questo posto dà tanto. Ma prende molto di più. Possono renderla bella
all’esterno, ma dentro mirano a plasmare qualcosa di orrendo. Perciò se
esiste qualche parte di lei che le importa davvero, deve tenerla cara, Mia
Corvere. Tenerla stretta. Dovrebbe chiedere a se stessa cosa darà per
ottenere le cose che vuole. E cosa manterrà. Poiché quando diamo in pasto
qualcun altro alla Mannaia, le diamo anche una parte di noi. E presto non
resterà più nulla.»
«Io so chi sono. Cosa sono. Non lo dimenticherò mai. Mai.»
Naev indicò la statua di pietra sopra di loro. Quegli spietati occhi neri.
Le vesti fatte di notte. La spada stretta nella pallida mano destra.
«Lei è una dea, Mia. Ora appartiene a Lei, in tutto e per tutto.»
Mia fissò Naev, quindi lanciò un’occhiata alla statua sopra di loro. Le
pareti nere, le scale interminabili, il canto corale che sembrava giungere dal
nulla. La verità era che una parte di lei dubitava ancora. Dei e dee. La
guerra tra luce e buio. Mia poteva essere in grado di giocare qualche
trucchetto con le ombre, ma l’idea di essere stata scelta da Niah sembrava
decisamente inverosimile. Perfino in un posto come quello. E divinità a
parte, guardando il volto velato di Naev, sapeva che la gente era capace di
una brutalità maggiore di quella che la Signora dell’omicidio benedetto
poteva concepire. Ne aveva avuto la prova in prima persona. Cos’era
successo a suo padre? Alla sua familia? Quella non era opera di immortali,
ma dell’uomo. Di consoli, cardinali e dei loro lacchè. Quei sorrisi
bruciavano dietro i suoi occhi. I loro nomi erano impressi a fuoco nelle sue
ossa.
“Scaeva.
“Duomo.
“Remus.”
Per quanto quel posto l’avesse cambiata, lei non avrebbe mai
dimenticato. Mai dimenticare.
“Mai.”
«Buona fortuna a Ultima Spes» disse infine. «Ho bisogno del
primopasto. Sto morendo di fame.»
La donna si inchinò, poi si voltò in un fruscio di vesti grigie e ciocche
biondo ramato. E anche se parlò sottovoce, Mia udì comunque il sussurro
quando Naev si girò.
«Anche Lei.»

Mia fu la prima ad arrivare all’Altare del Cielo, e si sedette ai tavoli vuoti


facendo scorrere le dita sulla sua nuova faccia. Sentiva la pelle lievemente
scorticata, come se si fosse scottata con la soliluce. Torace e pancia le
facevano male come se qualcuno l’avesse presa a pugni. Inoltre stava
assolutamente morendo di fame, così divorò avena, poi riempì una ciotola
con brodo di pollo fumante.
Giunsero altri accoliti. Una ragazza liisiana con i capelli scuri e occhi
verde pallido, che Mia aveva saputo chiamarsi Belle. Quel Petrus con un
orecchio solo e il ragazzo con le mani tatuate che borbottava di continuo tra
sé. a Mouser le rivolse un cenno del capo mentre le passava accanto, Aalea
un sorriso d’intesa. Solis proseguì senza degnarla di un’occhiata. Lei fissò il
fodero vuoto che aveva alla cintura: cuoio nero usurato, sbalzato con un
motivo caleidoscopico di cerchi intersecati. Valeva cinquanta punti per la
gara di Mouser. Cinquanta punti più vicino a terminare al primo posto in
Tasche. E probabilmente uno sbudellamento se fosse stata beccata a rubarlo.
“Forse dovrei cominciare con qualcosa di un po’ più facile…”
Ashlinn si sedette di fronte a lei, la bocca già piena di cibo.
«Aoa omeshtao…»
La ragazza si strozzò e sgranò gli occhi mentre guardava in faccia Mia.
Inghiottì il boccone mezzo masticato con un sussulto e tossì prima di
parlare di nuovo.
«La Shahiid Aalea ti ha già portato da Marielle?»
Mia scrollò le spalle e torse le labbra. Le sembrava ancora strano quando
sorrideva.
«Denti della Mannaia, la Tessitrice ha fatto un ottimo lavoro. Ti ha
perfino raddrizzato il naso. Avevo sentito che era brava, ma ’bisso, quelle
labbra.» Abbassò gli occhi. «E quelle bocce…»
«Va bene» la guardò storto Mia.
La ragazza sollevò il suo bicchiere. «Verità della Notte, Corvere, sono di
prim’ordine. Ora sono dannatamente gelosa. Prima eri piatta come un
ragazzo di dodici…»
«Va bene» ringhiò Mia.
Ash ridacchiò e addentò un bel pezzo di pane. Un’altra accolita le passò
accanto con una ciotola di brodo fumante. Occhi azzurri. Capelli neri, corti
sui lati, la frangia lunga per nascondere il marchio da schiava sulla guancia.
Esitò ondeggiando come un serpente e sollevò un sopracciglio verso Mia.
«Ti dispiace se mi siedo, accolita?»
La voce della ragazza era monotona, piatta come una pietra del selciato,
ma i suoi occhi scintillavano di un’intelligenza intensa. Mia masticò
lentamente. Infine scrollò le spalle e indicò con il capo uno sgabello accanto
a sé. La brunetta le rivolse un sorriso accennato, si sedette rapidamente e le
porse la mano.
«Carlotta» disse, con quella stessa voce smorta. «Carlotta Valdi.»
«Mia Corvere.»
«Ashlinn Järnheim.»
Carlotta annuì e abbassò la voce mentre altri accoliti entravano nella
sala.
«La Shahiid Aalea ti ha portato a visitare la Tessitrice?»
Mia annuì e squadrò la ragazza dall’alto in basso. Era flessuosa, con una
buona muscolatura. Occhi luminosi, bordati di spesse strisce di kajal. Le
labbra sottili erano pitturate di nero. Anche se la sua acconciatura teneva a
nasconderli, tre cerchi intersecati erano stati marchiati arkemicamente sulla
sua guancia per contrassegnarla come una schiava istruita: forse
un’artigiana o una scriba. b Mia non poteva sapere da quale casata fosse
scappata. Ma il fatto che portasse ancora il suo marchio dimostrava che era
una fuggitiva. Quella ragazza aveva coraggio, poco ma sicuro. Il destino
degli schiavi fuggiti nella Repubblica era la pena più brutale che i
magistrati potevano escogitare. Rischiare tutto fuggendo dalla schiavitù per
venire qui…
«Com’è stata?» chiese Carlotta. «La tessitura?»
Mia osservò attentamente la ragazza per qualche altro momento,
soppesandola.
«Ha fatto tanto male da non credere» rispose infine.
«Ne è valsa la pena, però?»
Mia scrollò le spalle. Abbassò lo sguardo sul suo petto e sentì un
sorrisetto insinuarsi sul suo volto.
«Dimmelo tu.»
Anche Ashlinn sogghignò, sfiorando con i polpastrelli quelli di Mia.
Carlotta fece una smorfia come qualcuno che avesse letto solo nei libri
come si fa e si lisciò la frangia sopra il marchio da schiava. Altri accoliti
entrarono nell’altare, notando con interesse il viso nuovo eppure familiare
di Mia. Il fratello di Ash, Osrik. Il magro e silenzioso Zitto. Perfino
Jessamine non riuscì a fare a meno di fissarla. Per la prima volta da che
riuscisse a ricordare, Mia era oggetto di curiosità.
Notò il tirapiedi di Jessamine, Diamo, fissarla finché la rossa non gli
diede una gomitata nelle costole. Mia spiò un altro accolito – un
bell’itreyano con occhi scuri e attraenti di nome Marcellus – che la
osservava. Si portò una mano al viso e udì le parole della Shahiid Aalea
riverberarle nel cranio, le sentì crescere sotto la pelle.
“Potere” si rese conto.
“Ho una specie di potere, ora.”
«Gentili signore» disse una voce sorridente. Tric si lasciò cadere accanto
ad Ashlinn senza tante cerimonie, il vassoio carico di pane di segale fresco
imburrato e una ciotola di brodo. Senza alzare lo sguardo, inzuppò il pane e
sollevò una cucchiaiata, pronto a trangugiare tutto quanto. Ma quando
entrambi i bocconi furono vicino alle labbra, il ragazzo dweymeri esitò.
Sbatté le palpebre.
Poi annusò la scodella con aria sospettosa.
«… Hmm.»
Guardò accigliato il brodo come se gli avesse rubato il borsellino o
avesse chiamato sua madre con un epiteto poco lusinghiero. Scostando le
salciocche dagli occhi, porse il cucchiaio a Mia.
«Per te ha un odore strano? Giu…»
Notando finalmente il volto nuovo della ragazza, la mascella di Tric si
spalancò come una porta arrugginita al vento.
«Non far entrare le falene-drago» sogghignò Ashlinn.
Lo sguardo di Tric era fisso su Mia. «… Cosa ti è successo?»
«La Tessitrice.» Mia scrollò le spalle. «Marielle.»
«… Ha preso la tua faccia?»
Mia sbatté le palpebre. «Non l’ha presa. L’ha solo… cambiata, tutto
qua.»
Tric la fissò intensamente e il suo cipiglio si rabbuiò. Abbassò lo sguardo
sul suo primopasto e spinse il brodo da una parte. Poi, senza una parola, si
alzò e si allontanò.
«Sembra… turbato?» azzardò Carlotta.
«Scaramuccia tra innamorati?» sogghignò Ashlinn.
Mia fece il gesto delle nocche e Ash iniziò a ridacchiare.
«Oh, amato mio, toooooorna» la canzonò la ragazza quando Mia si alzò
dallo sgabello.
«Fottiti» ringhiò Mia.
«Hai il cuore tenero, Corvere. Dovresti fare in modo che siano loro a
dare la caccia a te.»
Mia ignorò le battute, ma Ash la afferrò per il braccio sano mentre
cercava di andarsene.
«Abbiamo Verità stamattina. Alla Shahiid Ammazzaragni non piacciono
i ritardi.»
«Già» annuì Carlotta. «Ho sentito dire che ha ucciso uno dei novizi per
essere arrivato in ritardo. L’ha avvertito una volta. Poi due. Dopodiché è
finito in una tomba senza nome nella sala grande.»
«Ma è ridicolo» sbuffò Mia. «Chi fa una cosa del genere?»
Carlotta lanciò un’occhiata al gomito di Mia. «Lo stesso tipo di gente
che ti taglia il braccio per avergli scalfito la guancia.»
«Ma ucciderlo?»
Ash scrollò le spalle. «Mio padre ha avvisato me e Osrik prima che
venissimo qui, Corvere. Tra tutti gli Shahiid, l’ultima che vorrai inimicarti è
Ammazzaragni.»
Mia sospirò e tornò a sedersi con riluttanza. Ma le parole di Ash erano
sagge, dopotutto. Mia non era qui per recitare la parte della consolatrice: era
qui per vendicare la sua familia. Il console Scaeva e i suoi compari non
sarebbero stati eliminati da una sciocca dal cuore tenero. Qualunque cosa
stesse rodendo Tric, poteva attendere la fine delle lezioni. Mia terminò il
suo primopasto in silenzio (non riuscì a fiutare nulla di strano nel brodo,
malgrado quello che affermava Tric), poi uscì dietro Ash e Carlotta in cerca
dell’Aula di Verità.
Di tutte le stanze all’interno della Montagna Silente, Mia stava per
scoprire che questa era la più facile da trovare. Mentre girovagava per scale
tortuose, notò che il suo naso si arricciava dal disgusto.
«’Bisso e sangue, cos’è quest’odore?»
Il volto di Carlotta era riverente, gli occhi illuminati di un sommesso
fervore.
«Verità» mormorò.
La puzza divenne più forte mentre procedevano al buio. Un profumo di
marcio e fiori freschi. Erbe essiccate e acidi. Erba tagliata e ruggine. Le
accolite arrivarono a una grande doppia porta che si spalancò, riversando su
di loro quell’odore a ondate.
Mia prese un respiro profondo ed entrò nel dominio della Shahiid
Ammazzaragni.
Se il rosso era stato il motivo dell’aula di Aalea, il tema qui era il verde.
Vetri colorati lasciavano entrare una luce dalla tonalità smeraldo intenso: i
pannelli erano tinti con ogni sfumatura, da lime a giada scura. Un grande
tavolo da lavoro in legnoferro dominava la stanza. A ogni posto erano
pronti pergamene e calamai. Gli scaffali alle pareti erano pieni di migliaia di
barattoli differenti, che contenevano una miriade di sostanze. Oggetti di
vetro erano allineati sul tavolo, pipe e pipette, imbuti e tubi. Una melodia
discordante di sibili e gorgoglii si sollevava dalle varie reazioni che
avvenivano in fiasche e ciotole sparse per l’aula.
A un capo della stanza c’era un altro tavolo più piccolo, dietro al quale si
stagliava una sedia dall’alto schienale. Tra le altre apparecchiature, ospitava
un terrario di vetro, ricoperto di paglia. All’interno, si aggiravano sei ratti,
grossi, neri e lucidi.
Tric era arrivato prima di Mia e si era seduto a un’estremità del grande
tavolo, ignorandola quando era entrata. Prendendo posto accanto ad Ash,
Mia si ritrovò a studiare quelle attrezzature: ampolle, fiale e barattoli
bollenti. Tutti strumenti dell’officina di un arkemista. Mentre iniziava a
sospettare che genere di “verità” insegnassero qui, una voce melliflua
interruppe i suoi pensieri.
«Una volta ho ucciso un uomo sette illuminotti prima che morisse.»
Mia voltò lo sguardo davanti a sé e si mise seduta dritta. Una figura
spuntò dalle tende a un capo dell’aula. Alta ed elegante, la schiena dritta
come una spada. Le sue salciocche erano intricate, immacolate. La sua pelle
aveva la tonalità scura come noce lucidato dei Dweymeri, il suo volto non
decorato da inchiostro. Indossava una lunga veste fluente color smeraldo
intenso, con oro all’altezza della gola. Tre pugnali ricurvi le pendevano alla
cintura. Le labbra erano dipinte di nero.
La Shahiid Ammazzaragni.
«Ho ucciso un senatore itreyano col bacio di sua moglie» continuò. «Ho
eliminato un proprietario terriero vaaniano con un bicchiere del suo
aureovino preferito, anche se non ho mai toccato la bottiglia. Ho assassinato
uno dei più illustri spadaccini Luminatii che fosse mai vissuto con un
frammento d’osso non più grande della mia unghia.» La donna si mise in
piedi davanti al terrario e i ratti all’interno la osservarono con quegli occhi
scuri. «Il nettare di un unico fiore può strapparci da questo involucro fragile
con più violenza di qualunque lama. E in modo più delicato di qualunque
bacio.»
Ammazzaragni sollevò una striscia di mussolina che conteneva mezza
dozzina di pezzi di formaggio. Tirò fuori i bocconcini e li fece cadere
dentro il terrario. Tra squittii e urletti, i ratti si precipitarono a prendere
ciascuno il proprio pasto, divorandolo in pochi secondi.
«Questa è la verità che vi offro» disse Ammazzaragni, voltandosi verso
gli accoliti. «Ma il veleno è una spada senza elsa, bambini. C’è solo la
lama. A doppio taglio e affilatissima. Da maneggiare con estrema cura
perché non vi ferisca e segni la vostra fine.»
Mentre Ammazzaragni tamburellava con unghie lunghe sulle pareti del
terrario, Mia si rese conto che tutti i ratti all’interno erano morti.
La Shahiid abbassò la testa e mormorò in tono reverente.
«Ascoltami, Niah. Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo banchetto.
Questo sangue il tuo vino. Queste vite, queste fini, il mio dono per te.
Tienile strette.»
Ammazzaragni aprì gli occhi e fissò gli accoliti. La sua voce infranse il
silenzio mortale che era calato sull’aula.
«Ora. Chi vuole provare a indovinare cosa ha portato queste offerte alla
loro fine?»
Regnò il silenzio. La donna fece spaziare lo sguardo tra gli accoliti, le
labbra increspate.
«Parlate. Qui i topi mi sono utili ancora meno dei ratti.»
«Camminavedova» tentò infine Diamo.
«La camminavedova provoca crampi addominali e vomito misto a
sangue prima che sopraggiunga la fine, accolito. Queste offerte sono morte
senza uno squittio di protesta. Qualcun altro?»
Mia sbatté gli occhi nella luce color smeraldo, poi se li stropicciò. Forse
era la sua immaginazione. Forse l’aria quaggiù era più malsana, ma le
risultava difficile respirare…
«Andiamo» li esortò Ammazzaragni. «La risposta potrebbe rivelarsi utile
per voi in futuro.»
«Aspirea?» chiese Marcellus, coprendosi la bocca per tossire.
«No» rispose Ammazzaragni. «L’insorgenza è stata troppo rapida.
L’aspirea uccide nel giro di minuti, non secondi.»
«Supplicium» giunsero le ipotesi. «Eternombra.» «Veleno segnonero.»
«Cattiveria.»
«No» replicò Ammazzaragni. «No. No. No.»
Mia si asciugò il labbro, umido di sudore, poi sbatté con forza le
palpebre. Lanciò un’occhiata ad Ash e si rese conto che anche lei aveva gli
stessi problemi a respirare. Gli occhi erano iniettati di sangue, il petto si
alzava e si abbassava rapidamente. Guardandosi attorno per l’aula, vide altri
accoliti che ora manifestavano gli stessi sintomi. Jessamine. Zitto. Petrus.
“Tutti tranne…”
Un sorriso si stava allargando sulle labbra nere di Ammazzaragni.
«Pensate rapidamente ora, bambini.»
“Tutti tranne Tric…”
«Merda» mormorò Mia.
Scostando le salciocche dagli occhi, porse il cucchiaio a Mia.
“Per te ha un odore strano?”
Tric si guardava attorno confuso mentre gli accoliti attorno a lui
cominciavano ad andare in iperventilazione. Belle cadde a terra tenendosi il
petto. Le labbra di Pip erano diventate quasi viola. Mia si alzò barcollando e
lo sgabello ruzzolò all’indietro con uno schianto contro il pavimento di
pietra. Ammazzaragni guardò verso di lei, sollevando lievemente un
sopracciglio curato in modo perfetto.
«Qualcosa non va, accolita?»
«Primopasto…» Mia guardò i suoi compagni novizi, che adesso stavano
tutti tremando e rantolando. «Denti della Mannaia, ha avvelenato il nostro
primopasto!»
Gli occhi si sgranavano, tra imprecazioni e sussurri. La paura si spargeva
tra gli accoliti come un incendio in caldestate. Ammazzaragni incrociò le
braccia e si appoggiò contro la scrivania.
«Ho detto che la risposta avrebbe potuto rivelarsi utile in futuro.»
Mia spostò lo sguardo per tutta la stanza. Soffocamento del petto.
Palpitazioni al cuore. Ripensò a tutta la sua conoscenza dei veleni, alle
pagine di Verità arkemiche che aveva letto e riletto. Ignorò il panico
crescente attorno a lei: era impavida, con Messer Cortese al suo fianco.
Cosa sapeva?
“È un veleno che si ingerisce. Insapore. Quasi inodore.”
Sintomi?
“Fiato corto. Senso di costrizione al petto. Sudori. Niente dolore. Niente
delirio.”
Guardandosi attorno, vide che Carlotta era in piedi: gli occhi della
giovane schiava stavano esaminando gli scaffali attorno a loro mentre
borbottava tra sé. Le labbra e le unghie di Ashlinn stavano diventando blu.
“Ipossia.”
«I polmoni» sussurrò. “Le vie respiratorie.”
Guardò verso Ammazzaragni. Doveva pensare in fretta. Macchie nere le
aleggiavano davanti agli occhi.
«Dalia rossa…» mormorò.
Mia sbatté le palpebre. Un altro sussurro aveva fatto eco al suo,
pronunciando la risposta proprio nel suo stesso momento. Guardò Carlotta e
vide che la stava osservando a sua volta, sgranando occhi iniettati di
sangue. Ma lei sapeva. Capiva.
«Tu prendi saleblù e calfite» disse Mia. «Io bollirò il pepelatte.»
Le ragazze si diressero barcollando agli scaffali stracolmi, passando in
rassegna gli ingredienti. Ignorando il dolore, Mia trascinò via il braccio
dalla tracolla, spinse da parte una scatola di scleradici, poi sbatté a terra un
barattolo di erbafiera con uno schianto. Si mise in punta di piedi,
allungandosi per prendere un barattolo di pepelatte sul fondo dello scaffale,
poi lanciò un’occhiata a Tric e indicò uno dei bruciatori a olio disposti sul
tavolo.
«Tric, accendilo!»
Zitto si inginocchiò, respirando a fatica. Marcellus cadde all’indietro dal
suo sgabello, tenendosi stretto il torace. Senza fare domande, Tric accese il
bruciatore, facendosi rapidamente da parte quando una Mia ansimante e
sudata gettò una camera di ebollizione in vetro sulla fiamma. Ci versò
dentro il pepelatte e quel liquido grigiastro gorgogliò quasi
immediatamente. La stanza le ondeggiava davanti agli occhi. Jessamine era
carponi e Diamo andò giù come una roccia. Ammazzaragni osservava gli
eventi in silenzio, con quello stesso sorriso nero sulle labbra. Non sollevò
un dito. Non disse una parola.
Carlotta trovò finalmente il saleblù, poi barcollò e per poco non cadde
mentre era diretta al bruciatore. Versò con mani tremanti i granelli violacei
nella fiasca che bolliva, poi vi gettò dentro una manciata di calfite giallo
brillante. Una serie di piccoli schiocchi risuonò all’interno del vetro e da
sopra iniziò a salire un denso fumo verdastro. La puzza era simile a
zucchero che bolliva in una latrina strapiena, ma quando Mia lo inalò,
scoprì che la costrizione nel petto si placava e le macchie davanti agli occhi
scomparivano. Il fumo continuò a sollevarsi, denso e pesante, calando sul
pavimento.
Carlotta trascinò più vicino Zitto, ora semicosciente, mentre Mia aiutò
Belle e Petrus ad avvicinarsi per inalarlo. Ash e Pip si muovevano a
malapena. Labbra blu, occhi lividi. Nel giro di qualche minuto in quel fumo
puzzolente, però, tutti ripresero a respirare in maniera normale. Agli accoliti
tremavano le mani, e c’era incredulità su ogni volto.
Un lento battito di mani risuonò per l’aula. Gli accoliti traumatizzati
guardarono a occhi sgranati Ammazzaragni, ancora appoggiata contro la
scrivania e sorridente.
«Eccellente» disse la Shahiid, spostando lo sguardo tra Carlotta e Mia.
«Sono lieta di vedere che almeno due di voi hanno una certa conoscenza
della Verità.»
«Ed è questo… il modo in cui ci mettete alla prova?» ansimò Carlotta.
«Disapprovi, accolita?» Ammazzaragni inclinò la testa. «Sei qui per
diventare uno strumento mortale della Signora dell’omicidio benedetto.
Pensi che la vita al suo servizio ti sottoporrà a prove più gentili?»
Mia era un po’ a corto di fiato, ma riuscì a trovare la voce per parlare.
«Ma Shahiid… e se nessuno di noi avesse saputo la risposta?»
Ammazzaragni passò in rassegna gli accoliti, in piedi o seduti attorno
alla fiasca che ora bolliva in silenzio, poi tamburellò con le dita sul terrario
di ratti morti.
Guardò Mia e, con un gesto molto lento, scrollò le spalle.
«Rimettetevi a sedere.»
Ancora piuttosto tremanti, i novizi occuparono stancamente i loro posti.
Marcellus diede a Mia e Carlotta una pacca sulla schiena mentre passava
accanto. Zitto e Petrus annuirono in segno di ringraziamento. Belle
sembrava ancora scossa e si mise seduta con la testa tra le gambe. Ashlinn
scoccò a Mia un’occhiata come per rimarcare “te l’avevo detto” quando le
ragazze ripresero i loro posti. La storia di Ammazzaragni che aveva ucciso
un accolito ritardatario ora non sembrava più così inverosimile…
«Ben fatto, Corvere» sussurrò Ash.
«Ben fatto?» sibilò Mia. «Denti della Mannaia, avremmo potuto
rimanerci secchi tutti quanti, cazzo.»
«Tutti tranne Trucco, naturalmente.» Ash sorrise al giovane dweymeri.
Tric stava dando una pacca sulla spalla a Belle, con gli occhi sgranati ma
ora a posto. «Ha un naso notevole sotto quei tatuaggi. Ricordami di saltare
il prossimo pasto se lui pensa che abbia un odore strano, eh?»
Ammazzaragni si schiarì la gola e fissò Ash. La ragazza divenne
silenziosa some i morti.
«Dunque.» La Shahiid serrò le mani dietro la schiena e si mise a
camminare lentamente avanti e indietro. «Al di là delle lame, al di là degli
archi, che la vostra vittima sia un guerriero leggendario in armatura lucente
oppure un re su un trono dorato, un dram della tossina giusta può
trasformare una guarnigione in un cimitero e una repubblica in rovine.
Questa, bambini miei, è la Verità che offro qui.»
La Shahiid Ammazzaragni indicò Mia e Carlotta con un ampio gesto
della mano.
«Ora, forse le vostre salvatrici vi spiegheranno come funziona la tossina
della dalia rossa.» c
Carlotta prese un respiro profondo e lanciò un’occhiata a Mia, poi
scrollò le spalle.
«Aggredisce i polmoni, Shahiid» replicò in tono piatto, ora che era
tornata nel pieno delle sue facoltà.
«Si unisce al sangue, cosicché non può farlo il respiro» terminò Mia.
«Voi due avete letto Verità arkemiche, suppongo.»
«Cento volte» annuì Carlotta.
«Ero solita portarlo a letto con me» disse Mia.
«Una sorpresa che tu sappia leggere…» borbottò qualcuno.
«Prego?» Ammazzaragni si voltò. «Non ti ho sentita, accolita
Jessamine.»
La rossa, che sembrava ancora un po’ indisposta per la “dimostrazione”
della Shahiid, nonostante tutto abbassò gli occhi.
«… Non ho detto nulla, Shahiid.»
«Oh, no. Di sicuro stavi per spiegare come viene estratta la tossina dai
semi di dalia? Quale sia la dose letale per un uomo di duecentoventi
libbre?»
Jessamine arrossì, le labbra premute con forza.
«Ebbene?» chiese Ammazzaragni. «Sto aspettando le tue risposte,
accolita.»
«Filtrazione nitrica» suggerì Carlotta. «In un letto di zucchero aspirato e
stagno. Bollita e condensata. La dose letale per un uomo adulto è mezzo
dram.»
Jessamine lanciò un’occhiataccia alla ragazza, con odio palese.
«Eccellente» annuì Ammazzaragni. «Forse, accolita Jessamine, seguirai
l’esempio dell’accolita Carlotta e saprai la lezione prima di interromperla.
Questa conoscenza potrebbe salvarti la vita, un cambio. Credevo che quella
verità ti fosse già stata impartita.»
La ragazza chinò il capo. «… Sì, Shahiid.»
Senza ulteriori cerimonie, Ammazzaragni si voltò verso una lavagna di
carbone e iniziò a parlare delle proprietà tossiche di base.
Somministrazione. Efficacia. Celerità. La sua compostezza era immacolata,
i suoi modi concisi. Era difficile credere che avesse quasi ucciso ventisette
ragazzi pochi minuti prima. Ora che finalmente il suo respiro era tornato
normale, Mia guardò verso Carlotta e annuì.
«Ben fatto» articolò.
La ragazza si lisciò i capelli sopra il marchio da schiava e annuì con
solennità. «Anche tu.»
Mentre Mia si concentrava sulla lezione, notò con la coda dell’occhio
Jessamine che scribacchiava su un pezzo di pergamena e lo passava a
Diamo. La rossa guardò torvo Carlotta con occhi stretti. Malgrado il fatto
che la giovane schiava le avesse appena salvato la vita, sembrava che ora
Jessamine avesse due nemesi. Mia si domandò se sarebbe stata disposta a
lanciare qualcosa di più che occhiate cariche di veleno…
Nel corso della lezione, divenne evidente che Mia e Carlotta erano
decisamente superiori agli altri accoliti nella conoscenza dei veleni. Questo
riempì Mia di orgoglio. Quello che aveva subito per mano dello Shahiid
Solis l’aveva scossa più di quanto fosse disposta ad ammettere. La sua
visita alla Shahiid Aalea le aveva mostrato quanto sapeva poco su alcune
sfaccettature di questo mondo. Ma questo era qualcosa che conosceva. Man
mano che lei e Carlotta rispondevano a una domanda dopo l’altra, e Mia
otteneva un riluttante sorriso di rispetto dall’arcigna Shahiid di Verità,
scoprì che, per la prima volta dal suo arrivo, iniziava ad avere la sensazione
che questo fosse il suo posto. Che si sentiva davvero felice.
Non durò, naturalmente.
Succede sempre così.

a. Origliando durante mediopasto alcuni cambi dopo, Mia avrebbe appreso che il ragazzo si chiamava
“Pip” e che quelle conversazioni borbottate non le intratteneva con se stesso, ma con il suo
coltello, un pugnale lungo e minaccioso che, a quanto pareva, aveva soprannominato
“l’Adorabile”.
b. La schiavitù a Itreya è una questione estremamente codificata, con un’intera sezione degli
administratii che si occupa della regolazione del mercato. Gli schiavi sono di tre tipologie,
differenziate per competenze e, di conseguenza, valore monetario.
I primi sono quelli ordinari – operai, servitori domestici e simili –, che sono marchiati
arkemicamente con un unico cerchio sulla guancia destra. I secondi sono quelli addestrati per la
guerra – gladiatii, guardie di casa e legioni di schiavi –, marchiati con due cerchi intrecciati. I terzi
e più preziosi sono quelli in possesso di un certo livello di istruzione o di alcune capacità preziose.
Musicisti, scribi, concubine e così via, che sono marchiati con tre cerchi intrecciati per denotare il
loro maggior valore.
La rimozione di questi marchi arkemici è un procedimento doloroso, dispendioso e segreto,
serbato gelosamente dagli administratii. Per ottenere la libertà, uno schiavo non solo deve
risparmiare denaro sufficiente per ricomprarsi dai suoi padroni, ma anche per pagare la rimozione
del proprio marchio. Dunque non è una sorpresa che nella Repubblica la maggior parte degli
schiavi porti il marchio fin nella tomba.
c. Nota anche come “regicida”, la dalia rossa era considerata il veleno preferito durante il periodo
della monarchia itreyana. A causa della rarità del fiore da cui si ricava, la dalia rossa era difficile
da ottenere e pertanto più costosa di un banchetto nuziale medio per midollani. Il suo utilizzo era
considerato sia un segno di rispetto per la vittima (i suoi effetti hanno un’insorgenza rapida e sono
relativamente indolori) sia una specie perversa di vanteria da parte dell’uccisore (dato che solo le
persone più ricche potevano permettersi di usarla). Al culmine della monarchia itreyana, la tossina
fu usata per assassinare non meno di tre re itreyani e diversi membri di alto rango dell’aristocrazia,
inclusi due Gran cardinali.
Quando suo padre morì per avvelenamento da dalia rossa, l’appena incoronato Francisco VII
dichiarò quel fiore come uno strumento della Mannaia e ordinò che ogni pianta entro i confini del
suo regno fosse bruciata. Questo generò un’inflazione spropositata e la dalia rossa non fu più in
voga se non tra coloro che avevano la lungimiranza di tenere una serra. Purtroppo questo fece sì
che misture meno pietose come il veleno segnonero e la corrosiva “cattiveria” prendessero piede
tra gli assassini che non avevano le conoscenze giuste.
Ci si potrebbe domandare se sul suo letto di morte, urlando mentre una dose letale della
suddetta cattiveria gli dissolveva stomaco e intestini, Francisco VII abbia avuto la presenza di
spirito per apprezzare l’ironia della cosa.
CAPITOLO 16
CAMMINO

Qualcosa di simile a una routine si stabilì all’interno della Montagna


Silente. I cambi passavano senza che Mia se ne accorgesse: solo le campane
segnavano le ore in quell’oscurità perpetua. Anche se ogni accolito era stato
interrogato dopo la morte di Chiamapiena e il coprifuoco di Madre Drusilla
era ancora in vigore, pareva che le indagini del Culto sull’omicidio del
ragazzo si fossero arenate. Pur essendo curiosa dell’identità dell’assassino,
Mia disse a se stessa che aveva faccende più urgenti di cui preoccuparsi.
Scaeva, Remus e Duomo non si sarebbero uccisi da soli, dopotutto. E così
si concentrò sui suoi studi. Una volta che il suo braccio fu guarito
abbastanza da togliere la tracolla, si dimostrò migliore della media nei
giochi di destrezza, ed eccelleva nell’uso dei veleni. a Sotto la gentile
istruzione della Shahiid Aalea, Mia riuscì perfino a capire le basi della
manipolazione e l’arte della seduzione.
Ashlinn fu sottoposta alla tessitura, poi fu la volta di Marcellus, che a dir
la verità era già stato un ritratto. L’impressione era che dare nuovi volti
esigesse un notevole sforzo da parte di Marielle, oppure era semplicemente
capricciosa. A ogni modo, la Tessitrice si occupava molto lentamente degli
accoliti. A questo ritmo, sarebbero passati mesi prima che tutti loro
assaggiassero il dolore del suo tocco.
La sfida di Mouser per i suoi studenti iniziò piano, con pochi punti
accumulati in quelle prime settimane. Il coprifuoco della nona campana
sembrava trattenere la maggior parte degli accoliti nelle loro stanze, e
Ashlinn e Mia non effettuarono altre scorribande fuori orario. Ma presto
cominciarono ad apparire delle lineette sulla lavagna di carbone nell’Aula
di Tasche. All’inizio si trattò di piccoli numeri, due o tre punti alla volta,
man mano che gli oggetti più semplici della lista venivano sgraffignati e gli
accoliti prendevano confidenza. All’inizio Ash conquistò la prima
posizione, ma Jessamine era seconda a poca distanza e al terzo posto,
all’apparenza completamente ristabilito dopo l’avvelenamento quasi fatale
per mano di Ammazzaragni, c’era Zitto. Da parte sua, Mia acquisì
rapidamente alcuni dei pezzi più facili, ma sapeva che sarebbero stati gli
oggetti più difficili a far cambiare davvero le sorti della gara, e nessun
accolito finora si era dimostrato abbastanza coraggioso da andare a rubare il
fodero di Solis o i coltelli di Ammazzaragni.
Gli altri Shahiid annunciarono le loro competizioni, e di nuovo gli
accoliti furono informati che i primi classificati di ciascuna aula avrebbero
avuto praticamente garantita l’iniziazione come Lame. Nell’Aula di Canti si
sarebbe tenuta una gara di bravura nella lotta senza limite di colpi. Il
vincitore avrebbe ottenuto il segno del rispetto di Solis.
Nella luce color smeraldo dell’Aula di Verità, la Shahiid Ammazzaragni
scrisse la formula di una tossina arkemica estremamente complessa sulla
lavagna e informò gli accoliti (ancora piuttosto terrorizzati) che chiunque le
avesse portato l’antidoto corretto sarebbe stato il vincitore. C’era una
condizione, naturalmente: gli accoliti dovevano essere disposti a provare il
loro antidoto ingerendo prima il veleno. Se avesse funzionato, tutto sarebbe
andato bene. In caso contrario…
E la competizione della Shahiid Aalea?
Si rivelò la più interessante di tutte.
Le accolite furono radunate una sera appena prima della nona campana e
scortate nell’Aula di Maschere. Era insolito: l’ora era prossima al
coprifuoco ma, cosa più importante, la Shahiid Aalea di solito teneva le sue
lezioni con uno studente alla volta. La sua era un’arte sottile che richiedeva
attenzione personale, e gruppi numerosi di adolescenti nella stessa stanza di
rado si dimostravano adatti per insegnare le sottili arti della seduzione. Per
qualche motivo, però, ogni singola ragazza era stata portata davanti alla
Shahiid.
Aalea era abbigliata con un lungo abito di seta trasparente borgogna,
senza alcun gioiello. Incontrò le accolite inclinando la testa e rivolgendo
loro un bellissimo sorriso rosso sangue.
«Mie signore, non sembriamo un ritratto, questa sera?»
Abbracciò ciascuna ragazza a turno e la baciò con affetto. Mentre Mia
veniva avvolta tra le braccia della Shahiid, fu sopraffatta di nuovo dalla
certezza che il sorriso della donna fosse unicamente per lei. Quando le
baciò le guance, Mia scoprì che erano arrossite.
«Dobbiamo lavorarci su, amore» disse Aalea, accarezzando la pelle di
Mia. «Non lasciare mai che la tua faccia racconti un segreto che le tue
labbra non dovrebbero farsi sfuggire.» Si voltò verso le accolite lì radunate,
nove in tutto. «Ora, mie signore. Mi è stato riferito che gli altri Shahiid
hanno annunciato le loro piccole, rozze competizioni. Rubare ninnoli,
picchiarsi fino a perdere i sensi e cose del genere. Ma la Signora
dell’omicidio benedetto si avvale di una miriade di talenti. E così, eccovi la
mia competizione.»
La donna spostò lo sguardo per la stanza e sorrise a ciascuna ragazza a
turno.
«Prima della fine dell’anno, ciascuna di voi deve portarmi un segreto.»
Carlotta sollevò un sopracciglio. Mia si ritrovò a esaminare con
attenzione la giovane schiava: non sorrideva mai e la sua voce era fredda
come una tomba. Ma era diventato evidente che Lotti poteva fare
meraviglie alzando un sopracciglio. Trasmettere irritazione, curiosità,
quello che poteva essere scambiato per divertimento. L’unica donna a cui
Mia aveva visto farlo meglio era sua madre.
«Un segreto, Shahiid?» chiese la ragazza.
«Sì» sorrise Aalea. «Un segreto.»
Ashlinn sbatté le palpebre. La Tessitrice aveva fatto un miracolo con il
suo viso solo poche sere prima. Era sparita la rotondità, così come la
spruzzata di lentiggini. Era graziosa come un campo di girasoli… ovvero se
i girasoli si fossero legati i capelli in bellitrecce e avessero rubato
qualunque cosa non fosse inchiodata al terreno.
«Che genere di segreto, Shahiid?»
«Uno delizioso. Uno osceno. Uno pericoloso. I segreti sono come gli
amanti, mia cara. Solo dopo averne avuti alcuni potete fare un paragone
accurato.»
Aalea guardò le ragazze radunate con un sorriso cupo.
«Dunque, portatemi un segreto. Chiunque mi porterà il migliore otterrà il
mio favore e il primo posto nell’Aula di Maschere.» Aalea agitò le dita in
aria come se stesse dipingendo. «Un gioco da ragazzi.»
«Shahiid, dove dobbiamo cercare?» chiese Jessamine. «Dentro la
Montagna?»
«Madre Nera, no. Ho strizzato fuori tutti i segreti da queste mura. Voglio
qualcosa di nuovo. Qualcosa che mi tenga al caldo la notte.»
«E dove troveremo tali segreti se non qui?» domandò Mia.
«Alla sorgente di tutti i segreti, amore. Il suo cuore marcio è spalancato
al cielo.»
Il cuore di Mia le sussultò nel petto. C’era solo un posto che Aalea
poteva intendere. La sorgente di tutti i segreti. La fonte di ogni intrigo nella
Repubblica. Il cuore del potere del console Scaeva, la sede del culto di Aa e
della cattedrale di Duomo, sempre sotto l’occhio vigile di Remus e delle sue
legioni di Luminatii.
“Godsgrave.”
Ma la città di ponti e ossa era a un oceano di distanza. Mia aveva
impiegato otto settimane su una nave, e un’altra evitando i kraken delle
sabbie, per arrivare qui da ’Grave.
“Nel nome della Madre, come facciamo ad arrivarci?”

Aalea accompagnò le accolite nelle viscere tortuose della Montagna, oltre la


sala delle facce di Marielle e in corridoi di granito che Mia non aveva mai
percorso prima. La pietra era liscia come vetro, la temperatura più calda
rispetto a sopra. L’aria era pesante e, mentre scendevano sempre più in
profondità, a ogni respiro Mia era certa di sentire odore di…
“Potrebbe essere?”
Il corridoio sbucò in una stanza vasta, illuminata da globi arkemici. Nel
pavimento era intagliata quella che sembrava una grande vasca, di trenta
piedi di lato e di forma triangolare. Nella pietra su ciascun vertice erano
incisi simboli arcani. E nella vasca stessa?
«Sangue» mormorò Mia.
Non aveva idea di quanto fosse profonda, ma la superficie si muoveva
come quella di un oceano in tempesta. Mia guardò le pareti che la
circondavano e vide che nel granito erano incise delle mappe. Città.
Nazioni. L’intera Repubblica e tutte le sue capitali: Carrion Hall, Elai,
Farrow e Godsgrave. Accanto e in mezzo a esse, altri emblemi che le
facevano male agli occhi. L’odore penetrante della stregoneria aleggiava
nell’aria accanto al tanfo intriso di rame della pozza.
«Accolite» disse una voce sommessa. «Vi porgo il benvenuto.»
Mia vide la figura esile dell’Oratore Adonai avanzare alla luce. In
contrasto con la sua carnagione smorta, indossava brache di cuoio scuro che
gli cadevano angosciosamente basse sui fianchi. Torace e braccia nudi
erano scarabocchiati con pittogrammi tracciati con il sangue. I capelli
bianchi erano gettati all’indietro su una fronte cesellata, e gli occhi rosa
sotto di essa sembravano leggermente lividi.
Quella bellezza da cadavere recente brillava, laggiù nella penombra.
«Sommo Oratore.» Aalea gli baciò le guance, incurante del sangue. «È
tutto pronto?»
«La città di ponti e ossa attende.» Gli occhi di Adonai vagarono sulle
accolite lì riunite. «Solo le tue dominae, stasera?»
«I domini domattina.»
«Come ti compiace.»
Aalea si voltò verso le ragazze. «Toglietevi i gioielli, amori miei. Niente
anelli o ninnoli. Niente lame o fibbie. Nulla che non abbia conosciuto un
tempo il rossore della vita può percorrere questo cammino.»
«Se provate vergogna che la vostra carne sia esposta, la seta sarà di
vostra utilità.» L’Oratore indicò con un gesto vago in direzione di un
appendiabiti con delle vesti contro una parete. «Ma rassicuratevi: non
possedete alcunché su cui non abbia mai posato gli occhi prima d’ora. Ciò
nonostante, necessiterete di cambiarvi dall’altro lato.»
“Dall’altro lato? Di cosa sta parlando?”
Malgrado i suoi timori inespressi, Mia si tolse stivali e cintura, poi si
sfilò la camicia dalla testa e sussultò per una fitta di dolore al braccio. Ma
quando estrasse lo stiletto dal fodero di cuoio che portava al polso, rimase a
fissarlo. Aveva lavorato anni per riaverlo da Mercurio. Lasciarlo
semplicemente lì…
Adonai attirò l’attenzione di Mia e le rivolse un sorriso grazioso e
indolente.
«La tua lama è di necrosso, nevvero?» b
«Sì.»
«Allora potrà superare il Cammino.» L’Oratore inclinò il capo. «È osso.
Tempo addietro, la vita vi fluiva attraverso. Ma se desideri lasciarlo nella
mia custodia, non nutrire alcun timore. Nessun ladro vivente dispone di
cotanto coraggio da saccheggiare la dispensa di questo ragno.»
Guardando gli emblemi scarlatti scarabocchiati sul volto di Adonai, poi
la pozza di sangue ribollente e sciabordante come un rosso mare infuriato,
Mia non ebbe alcuna difficoltà a credergli. Tuttavia, tenne la lama nel
fodero al polso e ripose il resto dei suoi averi in anfratti nel granito creati
apposta per quello scopo. Quindi si spogliò fino a restare solo con la
sottoveste di seta che indossava sotto i suoi indumenti di cuoio e si sentì
accapponare la pelle.
Adonai si inginocchiò al vertice della pozza triangolare, i palmi rivolti
verso l’alto, quindi annuì ad Aalea. La Shahiid fece scivolare la sua veste
giù dalle spalle, rivelando la pelle nuda al di sotto. Mia non riuscì a fare a
meno di fissarla, colpita dalla totale mancanza di imbarazzo della donna.
Lunghi capelli le scesero sulla schiena come un fiume di notte contro curve
bianco-latte. Entrò nuda in mezzo al rosso e avanzò fino al centro.
All’inizio la pozza parve profonda solo pochi pollici, ma presto si ritrovò a
guadare fino alla cintura, i capelli che la seguivano allargandosi sulla
superficie di sangue alle sue spalle.
Adonai parlò sottovoce e i suoi occhi rotearono all’interno della testa. Il
calore nella stanza si intensificò, assieme all’odore di rame e ferro. E
mentre Mia osservava, il sangue cominciò a mulinare. Sciabordando attorno
al bordo della pozza, ruotava in senso antiorario: era un vortice che girava
sempre più veloce mentre i sussurri di Adonai diventavano un canto gentile,
supplicante. Anche i suoi occhi erano diventati rosso sangue. Le labbra
erano arricciate in un sorriso estatico. Mia stessa sgranò gli occhi e sentì la
propria lingua pizzicare per il sentore di magika.
Aalea tenne le mani ai lati, il palmo verso l’alto. Aveva gli occhi chiusi e
il volto sereno. E poi, senza alcun preavviso, la Shahiid scomparve,
trascinata giù nel gorgo senza dibattersi. Senza un suono.
Il vortice si calmò. Il sangue divenne nuovamente privo di direzioni,
agitandosi in piccole onde schiumose. Il silenzio era sospeso nella stanza
come il cadavere di un traditore.
«La prossima» disse Adonai.
Mia guardò Ashlinn, Carlotta, Jessamine, Belle. I loro volti mostravano
evidente esitazione. Nessuna di loro doveva aver mai visto prima questo
genere di stregoneria… Figlie, nessuno fuori da queste mura doveva avervi
assistito da mille anni. Ma come sempre non c’era paura nella pancia di
Mia, perfino quando avrebbe dovuto. La sua ombra emise un sospiro
soddisfatto.
Entrò nella pozza senza una parola, il sangue denso e caldo tra le dita dei
piedi. Le piastrelle erano lisce, e dovette camminare lentamente per non
scivolare e raggiungere il centro della pozza, dove il sangue le arrivava alla
vita. Adonai ricominciò a mormorare e il flusso riprese a girare, sempre più
veloce, in un vortice che aveva lei come fulcro. Mia provò un senso di
vertigini e chiuse gli occhi per escludere quel bagliore arkemico, le braccia
spiegate per tenersi in equilibrio. La puzza di sangue le riempì le narici. La
stanza attorno a lei stava ondeggiando. E proprio mentre stava per parlare,
si ritrovò a cadere risucchiata in basso, sempre più in basso, in una specie di
risacca colossale.
Onde rosse si infransero sopra la sua testa e il mondo roteò, girò, mulinò.
Non aveva fiato nei polmoni, la bocca piena di sangue. Era circondata da un
buio amniotico e dalla pulsazione ritmica di un enorme e distante cuore,
ovattata dall’oscurità calda come il sangue che la avviluppava. Una bimba
minuscola in un ventre senza luce. Nuotava sempre più in alto, verso un
bagliore della cui presenza non poteva essere certa. Fin quando,
finalmente…
“Finalmente…”
Riaffiorò.
Mia proruppe alla luce. Soffocava. Annaspava. Mani gentili la
afferrarono, voci delicate la rassicuravano che andava tutto bene.
Togliendosi qualcosa di denso e appiccicoso dagli occhi, si ritrovò immersa
fino alla vita in una pozza di sangue. Accanto a lei c’erano due uomini con i
marchi da schiavi, che la sorreggevano per impedirle di cadere. La
aiutarono a uscire dalla pozza, mantenendola salda quando scivolava e
ondeggiava. Era ricoperta di sangue dalla testa ai piedi e gocciolò sulle
piastrelle, capelli e sottoveste attaccati alla pelle. Le sue ciglia rimasero
appiccicate quando sbatté le palpebre.
«Denti della Mannaia» gracidò.
Fu avvolta in un panno morbido e scortata da una delle Mani fino a
un’ampia anticamera. Lì trovò la Shahiid Aalea, che si ripuliva nella
seconda di tre vasche rettangolari. La donna si stava risciacquando i capelli
con mestolate di acqua calda e profumata. L’aroma floreale aleggiava
nell’aria fumante, ma sotto di esso Mia poteva fiutare morte. Sangue.
Interiora e merda.
«Lavati nella prima» le disse Aalea, indicando una vasca piena d’acqua
macchiata di sangue. «Insaponati nella seconda. Risciacquati nella terza.»
Mia annuì in silenzio, si tolse la sottoveste fradicia ed entrò nella prima
vasca. Aalea era ormai a mollo nella terza, e Mia si spostò nella seconda
quando Ashlinn entrò barcollando nella stanza, ricoperta di sangue dalla
testa ai piedi, i brillanti occhi azzurri che sbattevano in una maschera di
rosso appiccicoso.
«Be’, è stata un’esperienza diversa» disse.
Aalea rise, poi si sollevò dal vapore e si infilò una vestaglia di seta.
Indicò una porta dipinta di rosso. «Quando sarete pronte, troverete dei
vestiti lì dentro, amori miei.»
Sorridendo, la donna si allontanò a piedi nudi. Ashlinn si tolse la
sottoveste e balzò nella vasca, immergendosi sotto la superficie e facendo
diventare l’acqua ancora più rossa. Riapparve dopo un attimo, togliendosi
acqua cremisi dagli occhi con le mani.
«Allora questo è il Cammino del Sangue» spiegò.
«È così che lo chiamano?»
«Già.» La ragazza inclinò la testa per far uscire l’acqua dalle orecchie.
«Mio padre diceva che è così che le Lame si muovono per la Repubblica.
Una Cappella in ogni grande città, devota alla Madre. Fintantoché c’è un
bagno di sangue, Adonai può farci Camminare a ognuna di esse. A tutte
quante.»
«Vuoi dire che il mio maestro mi ha fatto viaggiare lungo le Frusciaride
per niente?»
Ash scrollò le spalle. «Non lasciano Camminare chiunque, Corvere.
Adonai deve permetterti di superare la soglia. La Chiesa Rossa non ha
intenzione di lasciare che ogni aspirante novizio sappia che hanno accesso a
un oratore di sangue ashkahi. Se il senato lo scoprisse, non si fermerebbe
davanti a nulla per mettere le mani su Adonai. Immagina se la Repubblica
potesse spostare i suoi eserciti per il mondo a volontà.»
«Ma ora si fidano abbastanza da lasciare che noi lo sappiamo? Siamo
accolite solo da un mese o due.»
Ash si limitò a fare spallucce.
«Denti della Mannaia, dove si procurano tutto questo sangue?» mormorò
Mia. «Devono essercene galloni.»
Ashlinn agitò le sopracciglia. «Lo vedrai molto presto.»
«… Non mi piacerà, vero?»
Ashlinn si limitò a una risata, poi si immerse sotto la superficie
dell’acqua macchiata di sangue.

«La Porcheria» sussurrò Mia. «Ma certo.»


Con lo sguardo che spaziava su un mare grufolante, Mia percepì i pezzi
sgradevoli andare al loro posto.
Fin dalla fanciullezza trascorsa sotto le Anche, sapeva che quattro
mattatoi contornavano la Baia dei Macellai di Godsgrave: quattro montagne
di frattaglie e fetore, che sputavano carne fresca sui vassoi dei ricchi e
gettavano i rimasugli nella baia. Due si occupavano di bovini, il terzo
trattava carni esotiche e il quarto solo maiali. Conosciuto come “la
Porcheria”, era relativamente piccolo e meglio fornito delle sue controparti.
Gestito da un uomo noto solo come “Pancetta” e dai suoi tre figli
“Prosciutto”, “Zampone” e “Maialino”, era famoso tra i midollani di
Godsgrave per avere i tagli migliori di tutta Itreya, e tra la gente meno
rispettabile come un posto eccellente per sbarazzarsi di un corpo, se
qualcuno si fosse casualmente ritrovato con un cadavere a cui i Luminatii
potevano essere interessati. c
Le accolite si erano vestite con pratici abiti di cuoio e mantelli, quindi si
erano armate con lame semplici ma funzionali prese dalla vasta armeria del
bagno pubblico, poi erano state guidate su per una scala a chiocciola. Il
lezzo di interiora ed escrementi era aumentato, fin quando non erano
sbucate su un mezzanino in legno. L’ora era tarda e i macellai erano tornati
a casa per l’illuminotte, ma una massa irrequieta di maiali gironzolava in un
grosso recinto lì sotto. Sulla pietra imbrattata di sangue del mattatoio, Mia
vide dei canali di scolo nella roccia, che senza dubbio portavano alla pozza
sottostante. Facendo due più due, la ragazza scoprì che stava cominciando a
odiare la matematica.
«Ci siamo appena fatte il bagno nel sangue di porco» disse Carlotta con
voce piatta.
«Probabilmente anche nel sangue di qualche persona» precisò Mia.
«… Dimmi che stai scherzando.»
Mia scosse il capo. «Molti braavi di Godsgrave si sbarazzano dei loro
casini quaggiù quando non vogliono che qualcuno faccia domande.»
Carlotta la fissò e Mia fece spallucce.
«I maiali affamati mangiano qualunque cosa.»
«Oh, stupendo» borbottò la ragazza, strizzando la sua lunga frangia.
«Mastro Pancetta e i suoi figli sono Mani della Chiesa» spiegò Aalea. «I
soldi che ricevono dai braavi del luogo aiutano con le operazioni a
Godsgrave. E devo confessare che trovo deliziosa l’ironia. Mi domando se i
midollani di questa città apprezzerebbero così tanto i Tagli Raffenati di
Pancetta se sapessero con esattezza cosa mangiano i maiali da cui sono
ottenuti.» d
«Davveeeero stupendo.» Carlotta rimase imperturbabile, ma strizzò i
suoi capelli con ancora più forza.
«Il sangue è sangue, amore» sorrise la Shahiid. «Porci. Poveri. Bestiame.
Re. Non fa differenza per la Nostra Signora. Macchia tutto allo stesso
modo. E allo stesso modo si lava.»
Mia guardò la donna negli occhi. Al di là del kajal e della pittura, al di là
di quella bellezza oscura. Sarebbe stato facile pensare che fosse
l’insensibilità a farla parlare così. Il segno di dozzine di omicidi la privava
di tutta la sua empatia, come aveva ammonito Naev. Ma Mia si rese conto
che c’era qualcosa di diverso a guidare la Shahiid di Maschere al servizio
della Signora dell’omicidio benedetto. Qualcosa di ancora più spaventoso,
semplicemente perché Mia non lo condivideva affatto.
“Devozione.”
La verità era che non sapeva se lei credeva davvero. Dei della luce in
cielo che la osservavano? Madri della Notte che contavano i suoi peccati?
Se le onde affogavano un marinaio, era perché alla signora degli oceani non
era stato offerto il sacrificio adeguato o perché la signora delle tempeste era
di cattivo umore? Oppure era tutta casualità? Fato? Ed era follia pensare
altrimenti?
La sua fede non era sempre stata così incerta. Una volta era stata devota
come un prete. Pregava il potente Aa, le Quattro Figlie, chiunque fosse
disposto ad ascoltarla. Si punzecchiava le dita con aghi o bruciava piccole
ciocche di capelli come sacrificio. Chiudeva gli occhi e implorava che Egli
riportasse sua madre a casa. Che tenesse al sicuro suo fratello, perché un
cambio – un luminoso, splendido cambio – potessero essere di nuovo tutti
assieme. Pregava ogni illuminotte prima di infilarsi nel letto sopra la
bottega di Mercurio.
Ogni illuminotte fino al verobuio dei suoi quattordici anni.
E poi?
“Non guardare.”
«Andate, amori» disse Aalea. «Portatemi segreti. Segreti deliziosi.
Tornate qui prima della fine dell’illuminotte con le tasche piene di sussurri.
E mentre vi avventurate là fuori alla vista di Aa, che la Nostra Signora
benedetta vegli su di voi e vi protegga dalla sua maledetta luce.»
«Signora, veglia su di noi» intonò Ash.
«Signora, veglia su di noi» ripeterono le altre novizie.
Mia chiuse gli occhi e chinò il capo, fingendo di essere di nuovo quella
ragazza di quattordici anni. La ragazza fiduciosa che le preghiere potessero
fare la differenza e che alle divinità importasse davvero qualcosa; la ragazza
convinta che in qualche modo tutto alla fine sarebbe andato bene.
«Signora» sussurrò. «Veglia su di noi.»

Ogni accolita sapeva che sarebbe stata giudicata in base al valore dei segreti
che avrebbe riportato e che la collaborazione non sarebbe stata premiata.
Perciò, anche se Ash era un’ottima compagnia e Mia apprezzava sempre di
più l’umorismo da forca e la prontezza di spirito di Carlotta, le accolite si
separarono non appena possibile. Mia conosceva il quartiere del porto
proprio come un tredicenne conosce la sua mano destra, così sgattaiolò
avanti e indietro per i vicoli a gomito e le stradine più strette finché non fu
sicura che nessun’altra la seguisse.
Era strano essere fuori alla soliluce dopo mesi di oscurità costante. Il
bagliore era doloroso, e anche se l’ombra che lei proiettava era netta, nera e
profonda, percepì l’affinità con essa come indistinta, invece del facile
controllo che aveva sperimentato all’interno della Montagna Silente. Frugò
nel mantello e si infilò un paio di occhiali con la montatura in fildiferro e
lenti di azzurrite che aveva sgraffignato dall’armeria. e
«… dove andiamo…?» chiese un sussurro ai suoi piedi.
«Se sono segreti quelli che Aalea vuole,» sorrise Mia «segreti avrà.»
Si avviò per la città, sopra ponti e sotto scale, e il lezzo della baia si
affievolì. L’illuminotte era stata suonata alla melodia di venti ululanti e le
strade erano quasi vuote. Pattuglie di Luminatii con i loro mantelli rossi si
aggiravano a passi pesanti per le arterie trafficate, e giovani scampanellatori
stavano agli angoli per suonare l’ora più forte delle raffiche, ma gran parte
della cittadinanza era rientrata per la sera. Solo Saan era in cielo e il clima
stava diventando gelido: anche i venti provenienti dalla baia portavano un
freddo pungente. Mia procedette lungo i canali tortuosi, le spalle ingobbite,
finché non arrivò allo squallido lembo di terra dove era nata: i vicoli che
circondavano il mercato di Piccola Liis.
Saan era basso e le ombre lunghe. Mia si avvolse nell’oscurità, passando
non vista oltre mendicanti e monelli di strada che bisticciavano per un
bottino rubato o per le infinite partite a dadi. Un tempietto alla Signora del
fuoco era incassato in una parete, la statua di Tsana circondata da candele
sgocciolanti. La dea dei combattenti e della guerra aveva templi sparsi per
tutta Godsgrave; perfino in tempo di pace, non c’era penuria di futili
lamentele o conflitti in cui a Tsana venisse chiesto di prendere posizione.
Ma questo santuario in particolare era incustodito.
Mia gettò da parte il suo manto d’ombra e si guardò attorno per
controllare che tutto fosse sgombro. Soddisfatta, allungò la mano e girò la
statua perché guardasse a nordest. Intinse le dita nelle ceneri, poi si
inginocchiò alla base del tempietto e scrisse il numero “3” e la parola
“regina” a carboncino tra i piedi della statua. Poi tirò di nuovo le ombre
attorno a sé e schizzò via dal mercato.
Mia procedette per le Anche, superando menestrelli che chiedevano un
obolo per le loro canzoni e bordelli straripanti, annuendo cortesemente alle
pattuglie di Luminatii che incrociava lungo la strada. Attraversò il Ponte
delle Promesse Infrante f mentre un vecchio pagaiava lungo il canale
sottostante in una graziosa gondola, cantando il ritornello di Mei Aami con
voce profonda e luttuosa.
«… dove andiamo ora…?»
«Il Braccio dello Scudo.»
«… odio il Braccio dello Scudo…»
«La tua obiezione è annotata.»
«… ti aspetti di trovare dei segreti lì…?»
«Un amico.»
Il Braccio dello Scudo si trova sul lato superiore est dell’arcipelago di
Godsgrave e comprende cinque isole principali. Come molti settori della
metropoli – Cuore, Bassifondi, Dorsale –, viene chiamato così per un
semplice motivo: se foste dotati di ali, gentili amici, o semplicemente
consultaste la mappa all’inizio di questo tomo, potreste notare che i
contorni della città di ponti e ossa assomigliano straordinariamente a una
figura decapitata stesa sulla schiena.
Il Braccio dello Scudo ospita edifici giudiziari e uno stupefacente
numero di cattedrali, e rappresenta il punto d’ingresso del vasto acquedotto
di Godsgrave. Le isole ospitano anche il quartier generale dei Luminatii – il
Bianco Palazzo – assieme a due dei dieci guerrieri ambulanti di Godsgrave.
I giganti di ferro torreggiavano sugli edifici circostanti, le dita contratte in
pugni titanici.
Mia si diresse fino alla grande spianata nel cuore del Braccio, piazza
d’Vitrium. Con un cortese cenno del capo alle sentinelle lì fuori, superò il
Bianco Palazzo, con le sue colonne di granito scanalate e le magnifiche
arcate, davanti a cui torreggiava una stupenda statua di Aa. Il Semprevigile
era abbigliato per la battaglia, con spada e scudo sollevati. Ricordando ciò
che era successo nell’Aula di Tasche, Mia distolse di riflesso gli occhi dalla
Trinità incisa sul suo pettorale.
La ragazza si avvicinò a una taverna ben curata al margine della piazza.
L’insegna sopra la porta recitava IL LETTO DELLA REGINA . g Dopo una lenta
ricognizione dei vicoli attorno all’edificio, entrò e trovò un tavolo riparato
in un angolo in ombra. Ordinò un liquore quando una cameriera stanca
passò per chiederle cosa desiderasse. Proprio mentre si metteva a sedere,
tutte le cattedrali attorno cominciarono a suonare le dodici.
«… eccoci qua…»
«Shhh.»
«… ti ho detto che odio questo posto…»
A dire la verità, Mia riteneva belli i rintocchi. Le note si intrecciavano e
cozzavano tra loro, facendo schizzare in volo dai campanili i piccioni
addormentati. Osservò il cambio della guardia fuori dal Bianco Palazzo al
suonare dell’ora, pattuglie di Luminatii in armatura bianca e mantelli rossi
che si increspavano dentro e fuori come onde. Ripensò a suo padre,
abbigliato con gli stessi colori, bello e alto come il cielo. Agli uomini che
avevano sorriso mentre lui moriva. Tracannò il suo liquore e ne ordinò un
altro.
E poi si sistemò per aspettare.
Passarono le ore. Le campane suonarono l’una e poi le due. Mia
centellinò la sua bevanda, ascoltando le conversazioni sommesse dei pochi
clienti ancora svegli a quell’ora, e domandandosi dove potessero essere le
altre accolite, ad apprendere chissà quali segreti. E quando le campane
suonarono infine le tre, i campanelli sopra la porta tintinnarono ed entrò una
figura con un tricorno e un lungo pastrano di cuoio. Le si rivoltò lo stomaco
quando lo vide, e un sorriso le arricciò le labbra. Lui si guardò attorno per la
taverna e la individuò nel suo angolo. Ordinò del vino riscaldato e zoppicò
fino al suo tavolo, con il bastone da passeggio che schioccava sulle assi.
«Salve, piccolo Corvo» disse Mercurio.
Apparve la cameriera col vino e Mia si impose di stare seduta immobile
mentre la ragazza era affaccendata lì attorno. Quando furono soli, strinse
forte la mano del vecchio, felicissima di rivederlo.
«Shahiid» sussurrò.
«Il tuo viso sembra… diverso.» Si accigliò. «Migliore.»
«Vorrei poter dire la stessa cosa di te» sorrise lei.
«Sotto quel bel faccino sei sempre la stessa insolente, allora.» Mercurio
tirò su col naso. «Non ti insulterò chiedendoti se sei stata seguita. Anche se
hai scelto un posto elegante per un incontro clandestino.»
Lei accennò al Bianco Palazzo dall’altro lato della piazza. «Sono poche
le possibilità di imbattermi nelle mie compagne accolite in questa parte
della città.»
«Vedo che non ti hanno ancora ucciso.»
«I tentativi non sono mancati.»
Il vecchio sorrise. «Ammazzaragni, eh?»
Mia sbatté le palpebre. «Sapevi che cosa avrebbe tentato di farci? Perché
non mi hai avvisato?»
«Non lo sapevo per certo. Cambiano le prove ogni anno. E poi gli
iniziati sono votati al segreto, e se ti fossi comportata come se avessi saputo
che il pugno stava arrivando, avrebbero cominciato a chiedersi perché.» Il
vecchio scrollò le spalle. «Inoltre, evidentemente ti ho insegnato quello che
ti occorreva sapere. Sei ancora viva, no?»
Mia mosse le labbra per un po’, ma non trovò alcuna replica. Ciò che
l’anziano aveva detto era vero: lui le aveva dato la copia di Verità
arkemiche, dopotutto. Grazie alla Mannaia, lei aveva passato effettivamente
più tempo a leggerlo rispetto a molti altri del suo gruppo…
«… È vero» borbottò infine.
«Allora. Cosa ti riporta qui a ’Grave? Aalea?»
«Già.»
Mercurio annuì. «Sei fortunata. Cambiano la città ogni anno. Non puoi
tirare un sasso senza colpire un pettegolezzo, qui a Godsgrave. Durante il
mio apprendistato, il vecchio Shahiid Thelonius ci mandò alla dannata
Farrow. Immagina rovistare in cerca di notizie tra un gruppo di
pescivendole dweymeri…»
«Non sono mai stata così brava a scovare segreti.»
«Allora non dovresti essere fuori a esercitarti?»
«Pensavo che potessi prestarmene uno e permettermi così di trascorrere
il tempo a bere con te.»
Mercurio sghignazzò e gli occhi azzurri si raggrinzirono quando sorrise.
Essere di nuovo con lui le scaldava il cuore: anche se erano passati a
malapena tre mesi da quando Mia aveva lasciato Godsgrave, doveva
ammettere che quel vecchio scontroso le era mancato. Iniziò a raccontargli
a bassa voce della Chiesa, della Montagna e del suo alterco con Solis.
«Sì, è un maledetto coglione» borbottò Mercurio. «Ma un ottimo
spadaccino. Presta attenzione ai suoi insegnamenti.»
«È difficile che possa imparare qualcosa se non posso frequentare le
lezioni.» Mostrò il braccio: ora il gomito aveva una deliziosa sfumatura di
giallo e grigio. «Ci sta mettendo un’eternità a guarire.»
«Che stronzata» sbraitò Mercurio. «Il livido non si vede quasi più.
Tornerai in quell’aula domani.» Il vecchio alzò la voce per bloccare Mia
che stava iniziando a protestare. «Dunque Solis ti ha dato una bella
strigliata. Impara da quella lezione. A volte la debolezza è un’arma. Se sei
abbastanza intelligente da usarla.»
Mia si morse il labbro e annuì lentamente. Sapeva che Mercurio diceva il
vero e che avrebbe dovuto imparare tutto ciò che poteva da Solis. Adesso
che era tornata a Godsgrave, il motivo che aveva per studiare la Chiesa
bruciava nella sua testa più rovente che mai. Ovunque guardasse, vedeva
cose che glielo ricordavano. Le Costole dove aveva vissuto da bambina. I
Luminatii con le loro splendenti armature bianche che le ricordavano suo
padre.
I bastardi che glielo avevano portato via…
«Qualche notizia su Scaeva da quando sono partita?» domandò.
Mercurio sospirò. «Be’, sta tenendo un quarto mandato come console
unico, ma questo non dovrebbe sorprendere nessuno. Ha metà del senato
alla sua mercé, e l’altra metà è troppo spaventata o troppo avida per
sollevare un trambusto. Pare che il seggio del secondo console rimarrà
vacante per un po’.»
Mia scosse il capo, silenziosamente stupefatta. All’epoca della
fondazione della Repubblica, quando gli Itreyani avevano ucciso il loro
ultimo re, il sistema che avevano costruito sulle rovine della monarchia era
stato pensato per renderne impossibile un’altra. Gli Itreyani eleggevano i
consoli che li avrebbero governati ogni verobuio, ma c’erano due seggi da
console nella Casa del Senato e a nessuno di loro era permesso di ricoprire
due mandati di fila. Quello era lo scopo della Repubblica. Ogni incarico di
potere era condiviso, nonché di breve durata.
Quando il generale Antonius aveva radunato il suo esercito per ribellarsi
contro il senato, Scaeva aveva ripescato alcuni emendamenti anacronistici
nella costituzione itreyana che gli avevano permesso di ricoprire il ruolo di
console unico in un momento di necessità per la Repubblica, ma…
«Continua a fare appello ai poteri d’emergenza?» sospirò Mia. «La
Ribellione degli Incoronatori fu soffocata sei anni fa. Le palle di quel
bastardo…»
«Be’, può darsi che abbia avuto qualche difficoltà a convincere il senato
che c’era ancora una crisi, ma quando un assassino tenta di uccidere il capo
della Repubblica in una cattedrale piena di testimoni, diventa un tantino più
facile perorare la causa. Il Massacro del Verobuio mostrò al senato quanto è
ancora pericolosa questa città. Ora avresti bisogno di un maledetto esercito
per arrivare a Scaeva. Non fa nemmeno una pisciata senza che un manipolo
di Luminatii gli tenga il vaso.»
Mia sorseggiò il suo liquore e tenne gli occhi sul tavolo.
«Il cardinale Duomo è ancora attaccato a Scaeva come un neonato alla
tetta della madre, naturalmente» borbottò Mercurio. «Fa predicare i suoi
ministri dai pulpiti, lodando il nostro “glorioso console” e la sua “età
dell’oro di pace”.» Il vecchio sghignazzò. «Età dell’oro di tirannia,
piuttosto. Siamo più vicini ad avere un altro culo sul trono di quando gli
Incoronatori radunarono il loro esercito. Ma la plebe accetta questa
situazione. La pace significa stabilità e la stabilità significa denaro. Scaeva
è quasi intoccabile ora.»
«Dammi tempo» disse Mia. «Io lo toccherò. E in modo non troppo
gentile.»
«Oh, già, cosa potrebbe mai andare storto?»
«Scaeva deve morire, Mercurio.»
«Tu pensa a seguire le tue lezioni» bofonchiò il vecchio. «Sei ancora
parecchio lontana dall’iniziazione. La Chiesa ti sottoporrà a prove sempre
più difficili, e ci sono molti modi per finire sepolti tra adesso e il traguardo.
Preoccupati di Scaeva quando sarai una Lama e non un istante prima.
Poiché ci vorrà solo una Lama a pieno titolo per arrivare a lui, quando sarà
il momento.»
Mia abbassò gli occhi e annuì. «Lo farò. Lo prometto.»
Mercurio la guardò e quegli occhi nati per gli sguardi severi si
intenerirono ai bordi.
«Come te la cavi là dentro?»
«Piuttosto bene.» Mia scrollò le spalle. «A parte la mutilazione.»
«Presto ti chiederanno di fare cose. Cose oscure. Per dimostrare la tua
devozione.»
«Ho già sangue sulle mie mani.»
«Non sto parlando di uccidere coloro che se lo meritano, piccolo Corvo.
Hai eliminato il boia, vero. Ma lui era l’uomo che impiccò tuo padre.
Sarebbe stato facile perfino per il più tenero di noi.» Il vecchio sospirò. «A
volte mi domando se abbia fatto la cosa giusta a coinvolgerti, a insegnarti
tutto questo.»
«L’hai detto tu stesso» sibilò Mia. «Scaeva è un fottuto tiranno. Deve
morire. Non solo per me, ma per la Repubblica. Per il popolo.»
«Il popolo, eh? Allora è di questo che stiamo parlando?»
Mia allungò una mano sopra il tavolo e strinse quella del vecchio.
«Posso farcela, Mercurio.»
«… Già.» Lui annuì, la sua voce improvvisamente roca. «Lo so,
ragazzina.»
Sembrava più stanco di quanto lei l’avesse mai visto. Il peso di tutto
quanto si accumulava cambio dopo cambio. Aveva la pelle come carta, gli
occhi iniettati di sangue.
“Sembra così vecchio.”
Mercurio si schiarì la gola e tracannò quello che restava del suo vino.
«Uscirò io per primo. Dammi dieci minuti.»
«Va bene.»
Il vecchio assassino sorrise e rimase lì per un attimo, incerto. Mia riuscì
a stento a trattenersi dall’alzarsi per abbracciarlo. Ma rimase immobile
mentre lui raccoglieva il bastone da passeggio e le rivolgeva un breve cenno
col capo. Voltandosi, fece un passo verso la porta ma si fermò di colpo.
«’Bisso e sangue, mi ero quasi dimenticato.»
Infilò la mano nel suo pastrano e tirò fuori una scatoletta di legno,
sigillata con sego. Mia riconobbe il sigillo marchiato a fuoco nel legno e
ricordò la botteguccia dove il vecchio era solito comprare i suoi sigaretti.
Rammentò la prima notte in cui le aveva permesso di fumarne uno, seduta
sui bastioni sopra il foro. Oscurità tutt’attorno. Mani tremanti. Dita
macchiate di sangue. Aveva quattordici anni.
“Non guardare.”
«Dorian il Nero» sorrise.
«Carta. Tabacco. Legno. Potrà passare il Cammino. Ricordo quella volta
in cui tentasti di smettere. Ho pensato che fosse meglio che non rimanessi
senza, là dentro.»
«Meglio di no.» Mia prese la scatola dalla sua mano, gli occhi che le
pizzicavano. «Ti ringrazio.»
«Guardati le spalle. E anche di fronte.» Gesticolò in modo vago. «E
anche tutto il resto.»
«Sempre.»
Il vecchio si calò il tricorno e alzò il bavero. Poi, senza un’altra parola,
uscì dalla taverna zoppicando. Mia lo osservò andar via e contò i minuti
nella testa. Tenne gli occhi sulla schiena dell’uomo mentre zoppicava in
lontananza.
“Presto ti chiederanno di fare cose. Cose oscure. Per dimostrare la tua
devozione.”
Mia posò il mento sulle mani, persa nei suoi pensieri.
Un gruppo chiassoso di uomini stava arrivando lungo la strada, vestiti
con le armature bianche e i mantelli rossi dei Luminatii. La ragazza alzò lo
sguardo al suono delle loro risate e vide volti giovani e sorrisi piacenti.
Essendo assegnati così vicino al Palazzo, probabilmente dovevano essere
tutti figli di midollani che servivano alcuni anni nella regione per portare
avanti i fini politici della loro familia. Se le cose fossero andate in modo
diverso, lei sarebbe stata fidanzata a un ragazzo come quelli, molto
probabilmente. Avrebbe avuto una vita di privilegi, senza fermarsi un
momento a…
«Perdonatemi» disse una voce.
Mia alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre. Uno dei Luminatii
torreggiava sopra di lei. Un sorriso da seduttore con denti da ragazzo ricco.
«Perdonatemi, Mea Domina» si inchinò. «Non ho potuto fare a meno di
notare che eravate seduta da sola e ho pensato che fosse un crimine contro
la Luce stessa. Vorreste concedermi il permesso di unirmi a voi?»
A Mia si rizzarono i peli del collo e le dita fremettero. Ma si ricordò che
il suo aspetto era quello di una ragazza midollana fuori a bere da sola, e
ricordò le numerose e difficili lezioni di Aalea sul fascino, così si lisciò le
penne e gli rivolse il suo sorriso migliore.
«Oh, sembra un’idea adorabile» disse. «Ne sono onorata, signore, ma
temo che mia madre si aspetti che io sia a letto. Forse un’altra volta?»
«Confido che vostra madre possa fare a meno di voi per il tempo di un
bicchiere?» Il ragazzo sollevò un sopracciglio speranzoso. «Non vi ho mai
visto qui prima.»
«Le mie scuse, signore.» Mia si alzò dal tavolo. «Ma devo andare
davvero.»
«Suvvia, fermatevi.» Il ragazzo le bloccava la strada, impedendole di
allontanarsi dal tavolo. I suoi occhi si rabbuiarono.
Mia cercò di placare la rabbia crescente, di mantenere la voce salda e lo
sguardo abbassato.
«Scusatemi, signore, ma mi state intralciando.»
«Sono solo amichevole, ragazza.»
«È così che lo chiamate, signore?» Gli occhi di Mia lampeggiarono
quando la sua collera uscì infine a giocare. «Altri potrebbero dire che vi
state comportando da stronzo.»
La rabbia macchiò la faccia del ragazzo, la furia repentina di un giovane
abituato a fare le cose a modo suo. Allungò una mano avvolta in un guanto
d’arme e afferrò il polso di Mia, tenendolo stretto.
In quel momento lei avrebbe potuto rompergli la mascella o ficcargli un
ginocchio nelle palle, poi sedersi sul suo petto e urlargli in faccia finché non
avesse capito che non tutte le ragazze erano un oggetto del suo
divertimento. Ma così si sarebbe smascherata come una persona che
conosceva il Canto, e dopotutto lui si trovava in una taverna con mezza
dozzina dei suoi compagni. Così si accontentò di torcergli il braccio come
le aveva insegnato Mercurio, facendogli perdere l’equilibrio e liberandosi
dalla sua stretta ricoperta di ferro.
I bottoni del polsino si staccarono e la stoffa si strappò. Il fodero che
aveva al polso si torse e, con un suono di cuoio che si rompeva, lo stiletto di
necrosso di Mia cadde rumorosamente sul pavimento.
Una mano pesante diede un colpetto alla nuca del ragazzo e una voce da
fumatore ringhiò: «Lascia in pace la ragazza, Andio. Siamo qui per bere,
non per dare la caccia alle colombelle».
Mia guardò alle spalle del ragazzo, che si girò a sua volta, e vide un tipo
più anziano con un’armatura da centurione che torreggiava su di lui. Era un
omone con il volto torvo e sfregiato.
«Perdonatemi, centu…»
Con un tonfo fragoroso, il centurione diede all’uomo più giovane un
calcio nel didietro e lo cacciò via, incrociando le braccia e guardando storto
il ragazzo finché non si riunì ai suoi compagni. Era evidente che si trattava
di un veterano, con un occhio coperto da una benda di cuoio scuro.
Soddisfatto, il centurione si toccò l’orlo dell’elmo piumato e rivolse un
cenno di scuse a Mia.
«Chiedo perdono per l’impertinenza del mio sottoposto, domina. Spero
che non vi abbia fatto alcun male.»
«No, signore.» Mia sorrise e il suo cuore rallentò i battiti. «Vi ringrazio,
centurione.»
L’uomo annuì, si chinò e raccolse lo stiletto di Mia da terra. Con un
piccolo inchino, glielo porse sull’avambraccio. Il sorriso della ragazza si
allargò e gli fece una riverenza con gonne invisibili mentre prendeva il
pugnale dalla sua mano. Ma nell’istante in cui lo stava infilando di nuovo
nella guaina, gli occhi dell’uomo seguirono la lama e il corvo intagliato
sull’elsa. Un lento cipiglio sbocciò sulla sua fronte.
Mia impallidì.
“Oh, Figlie…”
Ora lo riconobbe. Erano passati sei anni, ma non l’aveva dimenticato.
Sporto sopra il barile in cui era stata ficcata, con quei graziosi occhi azzurri
e il sorriso di un tizio che strangolava cuccioli per divertimento.
“Denti della Mannaia” mormorò il primo. “Non può avere più di dieci
anni.”
“E non vedrà mai gli undici.” Una scrollata di spalle. “Stai ferma,
ragazzina. Non farà male per molto.”
Il centurione ora non stava sorridendo.
Mia girò rasente al tavolo, sbattendo a terra la sua coppa vuota. Tentò
una nuova, frettolosa riverenza e si avviò rapida verso la porta, ma, come il
soldato prima di lui, adesso fu il centurione a bloccarle la strada. Le sue dita
si spostarono alla benda di cuoio, che copriva l’occhio che lei aveva
trapassato con lo stiletto di necrosso tutti quegli anni prima. Nelle sue
fattezze era incisa incredulità.
«Non può…»
«Scusatemi, signore.»
Mia cercò di passare a forza, ma il centurione l’afferrò per il braccio e lo
strinse forte. Mia tenne a bada la propria collera – a malapena – pensando
che forse poteva ancora uscire da quella situazione con il raggiro. Schizzare
via come un cervo spaventato avrebbe destato l’attenzione. Ma l’uomo le
torse il braccio e guardò ancora una volta lo stiletto nel fodero che aveva al
polso. Il corvo sull’elsa con i suoi minuscoli occhi d’ambra.
«Nome della Luce…» mormorò.
«Centurione Alberius?» lo chiamò il giovane soldato respinto da Mia.
«Va tutto bene?»
Il centurione fissò lo sguardo su Mia, e infine quel sorriso da strangola-
cuccioli uscì fuori di nuovo.
«Va tutto benissimo, oh sì» rispose lui.
Il ginocchio di Mia impattò contro l’inguine dell’uomo, il suo gomito
contro il mento. Il centurione lanciò un urlo e l’elmo gli volò via dalla testa
quando ruzzolò all’indietro, mentre Mia lo superava con un salto diretta
verso la porta. Ai legionari occorse un momento per reagire, mentre
guardavano il loro comandante crollare come un piagnucolante sacco di
patate, ma presto si precipitarono in strada dietro la ragazza in fuga. Mia
sentì alle sue spalle dei fischi, seguiti da urla furiose e dal rumore di piedi in
corsa.
«Con tutte le taverne a Godsgrave…» ansimò. «Quali sono le fottute
probabilità?»
«… hai scelto tu quella proprio accanto al palazzo…»
Mia si gettò il cappuccio sopra la testa, poi lasciò la strada principale,
svoltando lungo un vicoletto tortuoso, schizzando sopra i rifiuti e gli
ubriachi, le deliziatrici e i delizianti. Alle sue spalle giunsero altri passi, altri
fischi, altri uomini. Le pietre del selciato si muovevano sotto i suoi piedi, le
pareti anguste si stringevano attorno a lei. Sbucò in una minuscola piazza, il
lato lungo a malapena dieci piedi, con una vecchia fontana gorgogliante al
centro. In cima c’era la dea Trelene, il suo abito fatto di onde che si
infrangevano, circondata da candele e offerte di sangue. Rannicchiandosi in
un piccolo ingresso, Mia tirò attorno alle spalle il suo manto d’ombra e tutto
il mondo piombò in una cupa oscurità.
Passi in avvicinamento. Stivali pesanti. Attraverso il suo manto, colse
una vaga impressione di una dozzina di Luminatii, le loro lame di solacciaio
estratte e scintillanti, correre dentro la piazza. Non vedendo alcun segno di
lei, si separarono e si allontanarono a passi pesanti in tutte le direzioni. Mia
rimase immobile con Messer Cortese ai suoi piedi, entrambi solo una
macchia nell’ingresso. Attese mentre un altro gruppo di soldati passava di
corsa, urlando e spintonando.
Finalmente silenzio.
Si allontanò lentamente con passo furtivo, procedendo a tentoni lungo il
muro rimanendo sotto il mantello. In un momento come questo, era difficile
biasimare la Madre per averla marchiata, se era effettivamente ciò che
aveva fatto. Ma per quanto riguardava la magika, poter aggirarsi quasi cieca
e pressoché invisibile era tutt’altra cosa rispetto al tipo di stregoneria di
Adonai e Marielle. Tutti pagavano un prezzo, supponeva. Adonai era
assetato di ciò che controllava. Marielle tesseva la carne degli altri e
corrompeva la propria. E Mia poteva rimanere non vista, ma vedere a
malapena mentre lo faceva…
Brancolò per il dedalo di viuzze, ma non conosceva il Braccio dello
Scudo bene quanto Piccola Liis. Perfino con Messer Cortese ad andare in
avanscoperta, a questo ritmo le sarebbero occorse ore per tornare alla
Porcheria. Così alla fine gettò da parte le ombre e si diresse all’arteria più
vicina. Una volta arrivata sulla strada principale, attraversò tre ponti fino al
Cuore, poi scese fino ai Bassifondi, evitando tutti i Luminatii che passavano
entro un isolato. Imbattersi nello strangola-cuccioli l’aveva turbata,
riempiendole la testa di ricordi. Sua madre in catene. Il suo fratellino che
piangeva. Il cambio in cui il suo intero mondo era andato in pezzi. Doveva
tornare alla Montagna, lontano da questi bastardi fanatici dei soli.
Un momento per pensare.
Un momento per respirare.
Se non fosse stata così concentrata a notare gruppi numerosi di uomini in
scintillante armatura bianca che agitavano spade fiammeggianti, avrebbe
potuto notare una figura esile tutta vestita di color grigio malta, che iniziò a
pedinarla quando entrò nel quartiere del porto. Avrebbe potuto notare la
banda di giovani maschi che si diresse lungo la passerella verso di lei,
annuendo alla figura che la tallonava. Avrebbe potuto notare che
indossavano stivali da soldati. Che avevano sotto il mantello dei bozzi
sospetti a forma di manganello.
Avrebbe potuto notare tutto questo prima che fosse troppo tardi.
Ma poi fu troppo tardi.

a. Ammazzaragni cercò di avvelenare la sua classe altre due volte nelle settimane successive: la
prima per il contatto con una tossina nota come “brivido” che gettò una mattina presto nel bagno
pubblico, e la seconda, di concerto con Mouser, quando rimpiazzò la serratura della camera da
letto di ogni accolito con una trappola ad ago liisiana in cui c’era supplicium sufficiente a uccidere
un cavallo.
Due accoliti morirono a causa della trappola con il supplicium: un ragazzo itreyano di nome
Angio, che Mia conosceva a malapena, e una ragazza gentile di nome Larissa, che era stata tra gli
studenti migliori nella classe di Mouser. Si tenne una messa silenziosa per loro nella Sala degli
Elogi, a cui parteciparono i novizi e il Culto. I corpi furono interrati con gli altri servitori della
Madre, ciascuno messo all’interno di una tomba alle pareti, senza alcun nome sulle loro pietre.
Mia osservò Ammazzaragni durante tutta la funzione, cercando qualche cenno di rimorso. La
donna incontrò i suoi occhi solo una volta, proprio mentre veniva cantato il requiem.
E poi scrollò le spalle.
b. Il materiale di cui sono costituite le Costole e la Dorsale a Godsgrave viene denominato
“necrosso”, anche se in verità la sua resistenza alla trazione è superiore a quella dell’acciaio. I
segreti della sua lavorazione sono andati perduti nel tempo, ma si vocifera che due alti arkemisti
del Collegio di Ferro li possiedano ancora.
Anche se furono scavate durante la costruzione di Godsgrave, le Costole e la Dorsale sono
considerate tesori itreyani, e deturparle in qualunque modo è un crimine punibile con la
crocifissione. Gran parte del necrosso acquisito all’alba della città è andato perduto nel corso dei
secoli, e questo materiale è considerato una risorsa quasi inestimabile. Detto ciò, le coorti scelte
della legione dei Luminatii indossano armatura di necrosso, e molte familiae ricche e potenti
possiedono alcuni cimeli di questo materiale, di solito lame e, in rari casi, gioielli. I re di Itreya
portavano una corona di necrosso, anche se ora viene conservata su un piedistallo di marmo nella
casa del senato, con incise le parole Nonquis Itarem.
“Mai più.”
Se osservate attentamente, gentili amici, potete vedere che è ancora macchiata con il sangue
dell’ultimo uomo che la indossò.
c. Devo specificare che in realtà ne esistono pochissimi. I Luminatii sono in gran parte interessati a
crimini che turbano coloro che pagano i loro salari, ovvero il senato di Godsgrave. Fintantoché gli
elementi criminali della città continuano a uccidersi tra loro e a rimanere sotto le Anche, al senato
l’omicidio di un inchiostrambo che ha pestato i piedi alle persone sbagliate o di un pappone che ha
scommesso sul gladiatore sbagliato nell’arena può fregare meno dell’imprecazione di un
calderaio. I Luminatii non sono uno strumento della legge e dell’ordine nella capitale di Itreya,
gentili amici. Sono uno strumento dello status quo.
Tuttavia, gli incidenti accadono. E, se vi dovesse capitare un caso del genere, farete bene a
conoscere qualcuno che lavora alla Porcheria.
d. Anche se sicuramente avete udito storie su porci che mangiavano ruote di carro o gambe di legno e
i possessori a cui erano attaccate, i racconti sull’appetito leggendario dei suini sono, per la
maggior parte, clamorose esagerazioni. Comunque, i maiali inviati alla Porcheria dalla terraferma
vengono lasciati senza mangiare per oltre una settimana quando vengono scaricati, e dopo sette
cambi a non mangiare nulla tranne l’aria, la vista di un Vaaniano fatto a pezzi che doveva un po’
troppi soldi a Tipi Sbagliati sembrerebbe anche a voi un banchetto da cinque portate, gentili amici.
Esiste un famoso racconto tra i marinai itreyani sulla Beatrice, una nave carica di porci diretta a
Godsgrave, finita fuori rotta durante un verobuio tempestoso e naufragata su un’isola nel Mare del
Silenzio. Dodici marinai sopravvissero al disastro, eppure nel corso delle settimane successive, gli
uomini scomparvero misteriosamente, a uno a uno. Un unico marinaio fu salvato quando
finalmente si levarono i soli. Era un mozzo di nome Benio che, quando venne recuperato da un
peschereccio dweymeri di passaggio, giurò che il resto dei suoi compagni era stato mangiato da un
altro sopravvissuto al naufragio: una scrofa feroce che si aggirava durante la notte, divorando gli
sfortunati marinai uno dopo l’altro.
Pareva che gli uomini avessero soprannominato questo spietato suino “Rosina”.
Quando tornò alla civiltà, il povero Benio perse la testa davanti a un primopasto di pancetta e
rotoli di maiale fritti, e passò il resto dei suoi cambi nel Manicomio di Godsgrave. Si dice che
Rosina vaghi ancora per l’isola, banchettando con i marinai che vi fanno naufragio e latrando al
cielo quando cade il verobuio.
Che ci sia qualcosa di vero in tutto ciò, naturalmente, resta nel campo delle ipotesi da ubriachi
formulate su varie navi che trasportano maiali. Ciò che è vero è che dopo aver appreso cosa
succedeva realmente alla Porcheria all’età di tredici anni, una giovane Mia Corvere giurò di non
mangiare più prosciutto per il resto della sua vita.
e. I farmacisti teorizzano che lo squilibrio tra luce e buio a Itreya sia la causa di molti problemi di
salute pubblica, come il numero crescente dei malati di “somnialgia” che affollano il Manicomio
di Godsgrave e il costante aumento dei livelli di assuefazione a sedativi come il Deliquio. Gli
occhiali di azzurrite sono uno dei pochi rimedi accettati. Le lenti, di vetro tinto di blu o verde da
processi arkemici, controbilanciano il bagliore del sole dominante nel cielo e risparmiano ai
cittadini più abbienti la parte peggiore della furia di Aa.
Ci sono stati diversi comitati sovvenzionati dallo Stato per promuovere iniziative per la salute
di portata più ampia, ma dato che è la volontà dell’onnipotente Aa che sua moglie sia bandita dal
cielo per anni di seguito, perfino riconoscere il problema di malattie correlate alla luce può essere
interpretato come eresia. Pertanto, gli sforzi per affrontare il problema sono continuamente
intralciati in senato da lealisti della Chiesa, per non parlare dei lobbisti al servizio della
potentissima gilda dei tendaggisti itreyani.
Ah, la democrazia.
f. Il ponte più alto di Godsgrave, originariamente noto come Ponte delle Torri. Il suo nuovo nome e la
rinnovata popolarità come punto ideale per i suicidi si manifestò nel 39PR, quando l’amante del
Gran cardinale Bartolemew Albari – Francesca Delphi – saltò giù e morì durante il Carnivalé del
verobuio. Era abbigliata con un costume completo da Carnivalé, inclusa una bauta dorata
tempestata di gemme che valeva più di un piccolo possedimento nella Valentia superiore.
Una volta che la notizia del suo suicidio si diffuse, la ricerca del suo corpo e, cosa più
importante, della maschera che indossava, condusse a diversi affogamenti, almeno quattro
accoltellamenti e una piccola rivolta. Secondo le dicerie che circolavano, Albari aveva promesso
di abbandonare la sua posizione all’interno della Chiesa e di sposare la sua spasimante prima del
verobuio del 39. Quando Albari non aveva onorato la sua promessa, la ragazza aveva indossato i
gioielli che lui le aveva donato, aveva scritto un biglietto ai suoi genitori spiegando tutto quel
sordido affare, poi si era buttata giù dal ponte.
Purtroppo per il cardinale Albari, il padre di Francesca, Marcinus Delphi, a quel tempo era uno
dei consoli della Repubblica. Lo scandalo aveva portato alla sospensione a divinis e alla
flagellazione pubblica di Albari, che aveva finito per gettarsi dallo stesso ponte sotto cui era morta
la sua amante. Nel tempo, la storia si tramutò in un racconto tragico: due amanti, separati dalla
società e consumati dalla loro passione proibita. Gli adolescenti che soffrono per amore si gettano
dal ponte da allora, e il controllo delle rive del fiume attorno al Ponte delle Promesse Infrante (e
pertanto il diritto di essere i primi a saccheggiare i loro cadaveri malati d’amore) è stata la causa di
più di una guerra fra le bande di braavi locali.
Per inciso, la maschera e il corpo di Francesca non furono mai ritrovati.
Non da un umano, quantomeno.
g. Una delle taverne più vecchie di Godsgrave, Il Letto della Regina fu costruita e chiamata così da
un gestore particolarmente ardito, un certo Darius Cicerii, durante il regno di Francisco XIII. La
regina di Francisco, Donnatella, era nota per essere una donna di grandi… appetiti, e la plebe si
divertiva molto per le insinuazioni che ne derivavano. La conversazione, inevitabilmente, si
svolgeva più o meno così:
“Vediamoci nella mattinata per una bella rinfrescata al gargarozzo, gentile amico.”
“Una splendida idea. Ma dove ci vediamo?”
“Al Letto della Regina?”
“Ho sentito che è piuttosto popolare, di recente.”
(qui una risata fragorosa)
Come risultato, la taverna fece ottimi affari. Quando Francisco XIII fu informato del nome del
locale nel corso di un banchetto reale dalla moglie indignata, fu… meno sconvolto di quanto la
regina Donnatella avesse sperato. In effetti, si dice che il re sollevò il calice per brindare all’oste e
commentò con i suoi ospiti: “Forse dovrei visitare io stesso il Letto della regina? Solo le Figlie
sanno se è passato parecchio tempo dall’ultima volta che l’ho visto”.
(qui un silenzio imbarazzato)
CAPITOLO 17
ACCIAIO

Un bel ceffone.
Acqua schizzata in faccia.
Un rantolo sputacchiante.
«Sveglia, mio adorabile amore.»
Mia aprì gli occhi e se ne pentì immediatamente. Un dolore accecante le
attraversò la fronte fino alla base del cranio. Ricordi frammentari. Un
gruppo di uomini. Randelli. Colpi reiterati. Imprecazioni. Il suo coltello che
guizzava. Sangue nella bocca.
Poi buio.
Sussultando, si guardò attorno. Pareti di pietra. Una porta metallica con
una finestra sbarrata. Si trovava su una pesante sedia di ferro, con le mani
ammanettate dietro la schiena. Messer Cortese era nascosto nella sua
ombra, bevendo la sua paura. Non era sola.
“Mai sola.”
«Svegliati.»
Un altro schiaffo la colpì in piena faccia, facendole scattare la testa da un
lato. Capelli flosci e gocciolanti si appiccicarono alla sua pelle. Cercò di
scalciare con i piedi ma scoprì che anch’essi erano bloccati.
«Sono sveglia, fottuto figlio di puttana!»
Mia alzò lo sguardo verso l’uomo che l’aveva schiaffeggiata. Era un
colosso tutto muscoli, alto sei piedi e quasi altrettanto largo. Il suo volto era
una cicatrice unica. Dietro di lui c’era un altro tizio, rasato e con un bel
fisico, gli occhi morti e vuoti. Entrambi indossavano vesti bianche. Copie
dei vangeli di Aa erano appese a pesanti catene di ferro attorno al loro collo.
Sui polsini avevano macchioline di sangue.
«Oh, merda» mormorò Mia.
“Confessori…” a
«Proprio così» disse l’uomo con gli occhi morti. «E sei vincolata da libro
e catena a rispondere in modo veritiero alle nostre domande.»
L’uomo sfregiato fece lentamente il giro della stanza fino a mettersi
dietro Mia. Allungando il collo, la ragazza vide un lungo tavolo su cui
erano disposti diversi strumenti. Pinze. Cesoie. Serrapollici. Un braciere
pieno di carboni ardenti. Almeno cinque tipi diversi di martelli.
Non c’era paura nel suo stomaco, nessun fremito nella voce mentre
guardava il secondo uomo negli occhi morti.
«Cosa vorreste sapere, buon Fratello?»
«Tu sei Mia Corvere.»
“Come sanno il mio nome?”
«… Sì.»
«Figlia di Darius Corvere. Impiccato per ordine del senato sei anni or
sono.»
“Quel centurione… Alberius… non può aver già fatto arrivare la notizia
a Scaeva, giusto?”
«… Sì.»
Mani pesanti si posarono su entrambe le spalle di Mia, stringendo forte.
«La marmocchia dell’Incoronatore» giunse la voce dell’uomo sfregiato
dietro di lei. «Che mi rimbalzino le palle sul pontile se questa non è una
delizia, Fratello Micheletto!»
L’uomo con lo sguardo spento sorrise, e i suoi occhi non lasciarono
quelli di Mia neanche per un istante.
«Oh, una rara delizia, Fratello Santino. Ho lo stomaco tutto in subbuglio,
oh sì.»
«Non ho commesso alcun crimine» replicò Mia. «Sono una figlia di Aa
timorata di dio, Fratello.»
Quello di nome Micheletto smise di sorridere. La sua sberla fece uscire
le stelle dall’oscurità dentro il cranio di Mia. La testa le ciondolò sulle
spalle mentre il ringhio di Micheletto attraversava il ronzio che aveva nelle
orecchie.
«Pronuncia ancora il Suo nome, ragazza, e ti taglierò quella lingua
senzadei con un fottuto coltello da burro, poi la bollirò assieme al mio tè.»
Mia prese un respiro profondo e attese che il dolore si placasse. Cercò di
pensare in fretta. Era legata e in inferiorità numerica. Non aveva idea di
dove si trovasse. Non poteva aspettarsi alcun aiuto. Certo, non era la
situazione peggiore in cui si fosse mai trovata. Ma, Figlie, stava
competendo per il secondo posto…
Scrollò via i capelli dagli occhi e guardò il confessore che incombeva
sopra di lei.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera» le intimò. «Prima di essere
arrivata a Godsgrave.»
«Arrivata?» la ragazza scosse il capo. «Fratello, io ho sempre vissuto
qu…»
Mia sibilò di dolore quando Santino l’afferrò per la collottola e strinse.
Avvertì le sue labbra che le sfioravano l’orecchio quando parlò, l’alito
intriso di vino rancido e tabacco.
«Fratello Micheletto ti ha fatto una domanda, mio adorabile amore. E
prima che tu avvolga quella lingua attorno a un’altra bugia, farei meglio a
dirti che sento ancora odore di sangue fra i tuoi capelli…»
A quelle parole il cuore di Mia saltò un battito. Percepì la propria ombra
rabbrividire mentre Messer Cortese masticava forte la sua paura. Era
possibile che sapessero che proveniva dalla Chiesa Rossa? Avevano
qualche sentore del modo in cui i discepoli si muovevano avanti e indietro
dalla Montagna? Il tribuno Remus aveva giurato da tempo di distruggere gli
assassini, perfino prima del Massacro del Verobuio. Aveva senso che avesse
reclutato il Confessionato per stanarli. Ma potevano…
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Non ho lasciato Godsgrave da quando avevo otto a…»
Ciac. L’impronta di una mano rosso brillante rimase impressa sulla sua
faccia.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Da nessuna parte, Fratello. Io…»
La sua sedia fu trascinata all’indietro e il suono orribile del ferro che
grattava sulla pietra le risuonò nelle orecchie. Mia vide un barile pieno di
acqua scura e tiepida in un angolo della stanza. Mani ruvide afferrarono una
manciata dei suoi capelli, poi le immersero la testa e la tennero giù. Lei si
dibatté e sgroppò, ma le manette la bloccavano e la mano la stringeva forte.
Urlò e delle bolle le uscirono dalla bocca in quel buio salmastro. Acqua di
porto, si rese conto. Probabilmente presa direttamente dalla Baia dei
Macellai. Sangue, acqua di sentina e merda.
“E mi ci stanno affogando dentro.”
Macchioline nere si agitarono davanti ai suoi occhi. I polmoni le
bruciavano. La mano la tirò fuori dall’acqua e lei inspirò una boccata d’aria
disperata e sputacchiante.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Vi prego, fer…»
Di nuovo giù nell’acqua. Il dolore e il buio. La sua ombra ribolliva
attorno ai piedi, inerme e disperata. Ma non c’era nessun manto d’oscurità
che potesse nasconderla, qui. Non aveva senso bloccare i piedi dei suoi
aguzzini al pavimento. Prescelta dalla Madre? Le stava tornando proprio
utile. Perché la dea non le aveva concesso la capacità di respirare
sott’acqua?
Quando i suoi polmoni stavano quasi per scoppiare, fu trascinata di
nuovo alla luce. Il petto si gonfiava. Le gambe tremavano. Tossiva.
Rantolava. Ora la paura stava prendendo il sopravvento: Messer Cortese
non era in grado di berla tutta. Nonostante ciò, lei la tenne a bada: le assestò
un calcio nei denti e ci sputò sopra.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
«Non ero da nessuna parte!» tuonò lei.
Di nuovo giù. E su. La domanda ripetuta, più e più volte. Lei urlò.
Imprecò. Provò a piangere e a supplicare, ma invano. A ogni appello, ogni
lacrima, ogni maledizione seguì la stessa risposta.
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera. Prima di arrivare a Godsgrave.»
Ma sotto le lacrime e le urla, la mente di Mia stava ancora ragionando
rapida. Se la volevano morta, lo sarebbe già stata. Se avessero saputo da
dove era arrivata, sarebbero già andati alla Porcheria. E se il Confessionato
era in combutta con i Luminatii, ciò voleva dire che ciascuno di questi
bastardi era un tirapiedi di Scaeva e Remus. Gli uomini che avevano
impiccato suo padre. Coloro che l’avevano instradata su questo cammino
tutti quegli anni addietro. La Chiesa Rossa era la sua miglior opportunità di
ottenere vendetta contro di loro. E questi sciocchi si aspettavano che vi
rinunciasse per un po’ di paura di affogare?
Si ritirò nell’oscurità in fondo alla sua testa, osservando la sua tortura
con una specie di fascino semidistaccato. La lavorarono per ore finché non
ebbe la voce rotta, i polmoni che urlavano e ogni respiro era come fuoco.
Affogandola e picchiandola. Sputando e schiaffeggiando. Ore.
E ore.
E poi si fermarono. La lasciarono afflosciata sulla sedia, le mani legate
dietro di lei. I capelli puzzavano di acqua della baia ed erano calati davanti
alla sua faccia come un sudario funebre. Livida. Sanguinante. Quasi
affogata.
Quasi morta.
«Abbiamo tutto il cambio, mio adorabile amore» disse Santino. «E pure
tutta l’illuminotte.»
«E se l’acqua non ti scioglierà la lingua,» aggiunse Micheletto «abbiamo
altri rimedi.»
L’omone sollevò un attizzatoio di ferro dal tavolo degli strumenti, poi lo
ficcò nel braciere ardente e lo lasciò lì a riscaldare. Sputò sui tizzoni e un
sibilo sfrigolante riempì la stanza.
«Quando quel ferro sarà rosso, torneremo. Pensa a lungo e a fondo a chi
va la tua lealtà. Potresti ritenere che valga la pena morire per il tuo prezioso
gregge di eretici. Ma credi a me, ci sono destini di gran lunga peggiori della
morte. E noi li conosciamo tutti.»
I confessori uscirono dalla stanza, sbattendosi alle spalle una pesante
porta di ferro. Mia udì una chiave sbatacchiare e un chiavistello inserito.
Passi che si allontanavano. Urla distanti.
«… mia…»
La ragazza si scrollò via i capelli dagli occhi, cercando di riprendere
fiato. Rabbrividiva. Tossiva. Abbassò finalmente lo sguardo verso l’ombra
che si addensava ai suoi piedi.
«Io sto bene, Messer Cortese.»
«… per essere dei confessori, quei due sembrano tipi adorabili…»
«Nel nome dei soli, come mi hanno individuato?»
«… mercurio…?»
«Stronzate.»
«… il centurione? alberius…?»
«Non aveva alcun indizio che fossi con la Chiesa. Sembra qualcosa di
più grande. Di più profondo.»
Messer Cortese inclinò la testa, silenzioso e meditabondo.
«… a dopo gli enigmi. prima devi uscire da qui…» disse infine.
«Sono lieto che ci sia qui tu a dirmi queste cose.»
Mia si guardò attorno. L’attizzatoio che si riscaldava nel braciere. Gli
strumenti sul tavolo. Le avevano tolto gli stivali e le armi. La scatola di
sigaretti che le aveva dato Mercurio. Le manette erano strette forte. I suoi
piedi erano incatenati alla sedia. Tastando i ceppi, si rese conto che le
polsiere erano chiuse con pesanti bulloni di ferro invece di una vera e
propria serratura.
«Cazzo…» mormorò.
«… devi liberarti…»
«Non ci riesco» sibilò, cercando invano di raggiungere i bulloni.
«Sarebbe un paio di manette di merda se potessi semplicemente liberarti
con le tue stesse mani.»
«… non usare le mani, allora…»
Il non-gatto lanciò un’occhiata nelle ombre che li circondavano.
«Sai che non funziona così.»
«… potrebbe…»
«Non sono abbastanza forte, Messer Cortese.»
«… lo sei stata…»
Mia deglutì. Dei lampi nella sua memoria. Corridoi bui. Pietra senza
luce.
“Non guardare.”
«… ricordi…?»
«No.»
«… ti uccideranno, mia. a meno che non ti spezzino. e allora ti
uccideranno comunque…»
Mia strinse i denti e fissò il non-gatto, che la guardava a sua volta con i
suoi non-occhi.
«… prova…»
«Messer Cortese, io…»
«… prova…»
Lei chiuse gli occhi. Buio e calore dietro le ciglia. Percepiva le ombre in
questa piccola cella umida. Freddo. Vecchio. I soli non arrivavano mai, qui.
L’oscurità era profonda. Fredda e affamata. Poteva percepirle attorno a lei,
come cose vive. Guizzavano giocose nella flebile luce del braciere.
Ruzzolavano una sull’altra e ridevano senza emettere alcun suono. La
conoscevano. Era una specie di cosuccia pallida e debole, che le toccava
come il vento lambisce le montagne. Ma lei si protese chiudendo i pugni e
quelle rimasero immobili.
In attesa.
«… D’accordo» sussurrò.
Le torse e le fece strisciare lungo il pavimento per attorcigliarsi sulla sua
schiena e poi serpeggiare su attorno al ferro che aveva ai polsi. Al suo
ordine, si avvolsero strette attorno ai bulloni di ferro che mantenevano i
ceppi al loro posto. Tirarono.
E i bulloni non si mossero di un pollice.
Erano solo ombre, dopotutto.
Vere come sogni.
Dure come fumo.
«Non serve a nulla» sospirò Mia. «Non posso farlo.»
«… devi…»
«Non posso!»
«… devi. e se non lo rifai, morirai qui, mia…»
Le sue mani tremarono. Lacrime d’odio cercarono di sgorgarle dagli
occhi.
«… non comandare l’oscurità attorno a te…»
Il non-gatto si avvicinò, fissandola con l’intensità propria solo di chi non
ha occhi.
«… comanda l’oscurità dentro te stessa…»
Passi distanti.
Urla ovattate.
«… D’accordo.»
Richiuse gli occhi e stavolta non si protese all’infuori: si allungò dentro
di sé, in posti che i soli non avevano mai toccato. Il nero informe sotto la
sua pelle. Strinse i denti mentre il sudore le scintillava sulla fronte. Le
ombre tremolarono, si incresparono, sospirarono. Diventarono più nere. Più
dure. Più affilate. Afferrando i bulloni, il suo volto si contorse, il cuore
prese a martellare e il respiro accelerò come se stesse scattando. Ma
lentamente, molto lentamente, i bulloni cominciarono a tremare. A girare.
Attimo dopo attimo. Pollice dopo pollice. Le vene risaltarono tese sul suo
collo. Saliva sulle sue labbra. Sibili. Implorazioni. Fino a quando,
finalmente, non udì un debole rumore metallico, poi un altro. I ferri ai suoi
polsi erano caduti sulla pietra.
E lei era libera.
Mia guardò Messer Cortese. E anche se non aveva la bocca, riuscì a
capire che stava sorridendo.
«… ecco fatto…»
Armeggiò con i ceppi alle caviglie e li staccò. Si alzò in piedi, capelli e
abiti ancora zuppi, e si diresse alla porta senza fare rumore. La fessura della
finestrella era chiusa, ma auscultò contro il ferro. Udì deboli urla che
riecheggiavano sulla pietra. Un corridoio lungo, a giudicare dal suono.
Metallo e passi.
“Si avvicinano.”
Prese un martello dal tavolo e tirò le ombre attorno a sé, avvolgendosi
nell’oscurità e accucciandosi nell’angolo. Il chiavistello della porta
sbatacchiò e la serratura scattò. Fratello Santino entrò, vide la sedia vuota e
le manette a terra e sgranò gli occhi. Il martello di Mia impattò contro la sua
faccia, il ginocchio contro il suo inguine. Con un piagnucolio gorgogliante,
l’uomo crollò a terra. Fratello Micheletto era in piedi dietro Santino, il volto
atterrito. Mia cercò di colpirlo, ma era quasi cieca nella sua oscurità e la
martellata andò larga: il confessore indietreggiò e bloccò con il suo
parabraccio. L’uomo strinse gli occhi e vide solo una macchia semovente
ma la caricò comunque, afferrandola in una stretta salda. Lanciò un urlo
quando il martello di Mia gli rimbalzò contro la fronte. Cadde di peso,
trascinandola con sé.
I due rotolarono sulla pietra, prendendosi a pugni e dibattendosi.
Micheletto cercava di afferrare la ragazza che non riusciva a scorgere bene
e Mia tentava di mettere a segno un colpo decente senza essere in grado di
vedere del tutto ciò che stava cercando di percuotere. Alla fine, gettò da
parte il suo manto d’ombra e optò per la semplice ferocia invece dell’inutile
furtività. Il suo gomito spappolò il naso dell’uomo, mentre il suo pugno gli
danzava sulla mascella.
Un gancio violento andò a segno sul lato della sua testa e le fece perdere
i sensi. Giunse un altro colpo che la fece ruzzolare. Si rese conto che
Santino era di nuovo in piedi dietro di lei, pur con il volto devastato e
sanguinante. Mia si sforzò di alzarsi, ma il fratello l’afferrò in una terribile
presa alla testa. Le ombre schioccarono e si contorsero, ma quei colpi
contro il capo l’avevano stordita e non riusciva a controllarle a dovere.
Assestò un calcio selvaggio all’indietro e lo avvertì impattare contro
qualcosa di morbido, udendo un grugnito di dolore. Ma poi fu sbattuta di
nuovo sulla sedia, sputando e imprecando, i capelli aggrovigliati davanti
agli occhi. Santino la tenne giù mentre Micheletto le legava di nuovo i
polsi. Gli strumenti sul tavolo tremolarono mentre le ombre nella stanza
schioccavano come serpenti. Qualcosa di pesante andò a sbattere contro la
sua tempia e lei si afflosciò, sanguinante e ansimante, la testa che
ciondolava sulle spalle.
«Fottuta puttanella» sibilò Micheletto.
Zoppicò fino al braciere, il naso che colava sangue, e prese l’attizzatoio
dalle braci. La punta brillava di un arancione infiammato e luminoso. Mia si
dimenò sulla sedia, ma Santino la tenne giù mentre l’altro confessore
sollevava l’attizzatoio vicino alla sua faccia. Mia rimase immobile.
Avvertiva quel calore rovente solo a un pollice o due dalla sua pelle. Un
ciuffo ribelle di capelli toccò il ferro incandescente e fumò mentre si
carbonizzava.
«Mio adorabile amore» tubò Santino. «Temo che tra un attimo sarai
meno adorabile.»
Mani le premevano contro i lati della testa, tenendola ferma. Il fiato le
sibilava tra i denti. Ora dentro di lei c’era solo rabbia. Se questa doveva
essere la sua fine, non se ne sarebbe andata supplicando.
“Mai tirarsi indietro. Mai avere paura. E mai, mai dimenticare.”
«Dicci dov’eri all’inizio di questa sera» ringhiò Micheletto. «Prima di
arrivare a Godsgrave.»
«Fottiti.»
«Dov’eri prima di arrivare a Godsgrave?» urlò Micheletto.
Il ferro adesso si trovava solo a un alito dalla sua pelle. Stava già
cominciando a bruciare. Provò nausea allo stomaco e il sudore le pizzicò gli
occhi. Mia alzò lo sguardo sul confessore. Le labbra si ritrassero dai denti in
un sussurro feroce.
«Ho detto. Fottiti.»
Il fratello scosse il capo.
Poi, con un sorriso vuoto, sollevò l’attizzatoio all’altezza dell’occhio.
«Basta.»
Il sorriso scomparve dalla faccia del fratello, e così la stretta sulla testa di
Mia. Entrambi i confessori si raddrizzarono, come per mettersi sull’attenti.
Fratello Micheletto si fece da parte per rivelare sulla soglia una figura
coperta da un mantello.
Mia scorse lunghi capelli neri. Occhi neri senza fondo. Lame gemelle
alla cintura.
Perfettamente normale.
Perfettamente letale.
Un malore untuoso crebbe nella sua pancia e Messer Cortese rabbrividì
mentre l’oscurità attorno a loro cresceva bruscamente. E dalle ombre lei udì
un ringhio basso e rimbombante.
“Il ringhio di un lupo.”
«Lasciateci» ordinò Cassius.
«Sì, signore» risposero Micheletto e Santino.
Gli uomini si profusero in un inchino, poi in silenziosi cenni del capo a
Mia, quindi si allontanarono rapidamente dalla stanza. La sua pancia ebbe
un fremito di paura improvvisa quando lord Cassius entrò nella cella e
Messer Cortese si rimpicciolì nel nero ai suoi piedi. Il Signore delle Lame si
erse davanti a Mia con le mani serrate e le lunghe ciocche scure che si
muovevano come per una brezza invisibile. La sua pelle era dell’alabastro
più puro, la sua voce miele e sangue.
«Brava, accolita. I miei complimenti.»
«… Lord Cassius?»
Mia si guardò attorno. Oltre la nausea che sentiva nelle viscere, oltre
l’impennata di terrore ed eccitazione che provava in sua presenza, la
comprensione la inondò come una piena.
Sollievo. Rabbia. Mortificazione.
«Una prova» mormorò.
«Una necessità» replicò Cassius. «Ora che sai del Cammino del Sangue.
Oltre alla tua abilità con acciaio, veleno o carne, esiste una virtù che
dobbiamo assicurarci ogni discepolo della Chiesa Rossa possieda in
abbondanza.»
Mia guardò il Principe Nero negli occhi. Le tremavano le mani.
«La lealtà» sussurrò.
Cassius inclinò la testa. «La Chiesa Rossa si vanta della propria
reputazione. Nessun contratto intrapreso da questa congregazione è rimasto
inadempiuto. Nessun discepolo ha mai rivelato un segreto a coloro che ci
danno la caccia. Ogni anno, portiamo facce nuove nel gregge e vi affiliamo
perché possiate essere taglienti come rasoi. Ma per quanto possano
sembrare affilate, alcune lame sono semplicemente fatte di vetro.»
«Vetro?»
«Un pezzo di vetro può tagliare la gola di un uomo. Perforargli il cuore.
Squarciargli i polsi fino all’osso. Ma premi il vetro nel punto sbagliato e
andrà in frantumi. Il ferro no.»
Un debole sorriso incurvò labbra pallide. La mano di Cassius scivolò a
una lama alla cintura.
«Fin dall’attentato fallito alla vita del console Scaeva, il cardinale
Duomo ha dichiarato la distruzione della Chiesa Rossa un mandato divino.
Il tribuno Remus e i suoi Luminatii ci danno la caccia in ogni angolo della
Repubblica. Abbiamo il potere degli stregoni ashkahi a nostra disposizione.
Cappelle in ogni metropoli. Se uno dei nostri discepoli dovesse cadere nelle
mani dei nostri nemici, dobbiamo essere certi che non andrà in frantumi. E
così…»
Cassius fece un cenno verso le celle attorno a loro, il mantello che
sussurrava mentre si muoveva. La paura di Messer Cortese stava divorando
la pancia di Mia, le ombre si contorcevano sul pavimento. Lei alzò lo
sguardo quando un altro urlo riecheggiò lungo il corridoio. Deglutì forte e
cercò la propria voce.
«Dunque la prova della Shahiid Aalea era solo uno stratagemma?»
«Oh, no. L’accolito che le donerà il segreto migliore primeggerà
comunque in Maschere. E tutti voi verrete inviati più e più volte in questa
città a cercarli, non dubitare. Approfittiamo semplicemente di questa
opportunità per saggiare le acque, per così dire.»
«Le altre accolite che sono venute a Godsgrave? State mettendo alla
prova anche loro?»
«Vi mettiamo alla prova tutti quanti.»
«… Qualcuna ha ceduto?»
«Qualcuno cede sempre.»
L’uomo scrutò negli occhi di Mia. Forse attendeva qualche tipo di
protesta.
Mia rimase muta, incontrando quello sguardo senza fondo e lottando
contro la nausea nelle sue viscere. Quel sapore untuoso di bile aleggiava in
fondo alla sua gola e le sue mani tremavano talmente forte che fu costretta a
stringere la sedia per placarle. Cosa c’era in quest’uomo che la influenzava
così tanto? Forse perché apparteneva alla sua stessa specie? Il buio dentro
di lui chiamava quello dentro di lei?
Udì dei passi morbidi e ovattati alle sue spalle. Quel basso ringhio da
lupo.
“Eclissi…”
«Siete il primo tenebris che abbia mai incontrato» disse infine lei. «Con
cui abbia mai parlato.»
«Forse l’ultimo» replicò Cassius. «Ti mancano molte illuminotti
all’iniziazione. E se pensi che la nostra affinità ti procurerà privilegi nelle
sale della Madre, sei decisamente in errore.»
Gli occhi del Principe Nero erano mortalmente freddi. La sua bellezza
ancora di più. Mia riusciva a percepire il lupo d’ombra dietro di lei, che si
avvicinava. Messer Cortese si gonfiò nella sua ombra e soffiò, e una bassa
risatina risuonò dalle pietre ai suoi piedi. La domanda le artigliò la lingua
finché non le dette voce, un sussurro sottile sospeso nell’aria come fumo.
«Cosa siamo?»
«Tu cosa pensi?»
«Mercurio, Drusilla…» Mia deglutì. «Loro dicono che siamo i prescelti
della Madre.»
Le si rizzarono i peli sulla nuca quando il Signore delle Lame rise.
«È ciò che tu credi di essere, piccola tenebris? Una prescelta?»
«Non so cosa credo» sibilò lei. «Speravo che poteste insegnarmelo voi.»
«Cosa credere?»
«Cosa sono.»
«Non ha importanza cosa tu sia» rispose Cassius. «Solo che tu sia. E se
cerchi una risposta a un qualche grande enigma su te stessa, non cercarla da
me finché non te la sarai guadagnata. Per un aspetto, e uno solo, dovresti
essere lieta. Poiché in questo, se non in altro, siamo uguali.»
Lo stomaco di Mia sussultò quando il Signore delle Lame si sporse più
vicino, estraendo un pugnale dalla manica. Poi si protese verso il basso e
tagliò la corda che le legava i polsi.
«Siamo assassini, tu e io» disse. «Assassino uno, assassini tutti. E ogni
morte che causiamo è una preghiera. Un’Offerta alla Nostra Signora
dell’omicidio benedetto. Morte come misericordia. Morte come
avvertimento. Morte come fine in se stessa. Tutte queste cose sono la nostra
consapevolezza e il nostro dono al mondo. Il lupo non commisera l’agnello.
La tempesta non chiede perdono agli affogati.»
Scrutò di nuovo negli occhi di Mia, e la sua voce riverberò nel petto
della ragazza.
«Ma innanzitutto siamo servitori. Discepoli. Circondati da nemici. Leali
fino alla morte. Non ci pieghiamo e non ci spezziamo. Mai. Questa è la
verità che apprendi in questa cella. Questa è la prima risposta a qualunque
domanda tu possa porti su te stessa. E se non ti sta bene, accolita, se pensi
che forse tu abbia commesso un errore nel venire da noi, il momento di
parlare è adesso.»
Niente risposte, dunque. Solo altri enigmi. Se Cassius era il depositario
di qualche verità superiore sui tenebris, non aveva intenzione di
condividerla con lei. Forse mai. O forse, come aveva detto, non finché non
se la fosse meritata.
E così, con un sussulto, Mia si sollevò lentamente dalla sedia. Le
tremavano le gambe. Aveva la nausea fin dentro le ossa. Aveva freddo, era
bagnata e puzzava d’acqua della baia e di sangue. Guancia gonfia, occhio
pesto, labbro spaccato. Trascinando via dalla guancia i capelli zuppi,
incontrò lo sguardo di Cassius.
Poi protese la mano.
«Posso riavere i miei sigaretti?»

Ci vollero tutte le sue forze, ma se lo tenne dentro.


Fu scortata via dalla cella nel sotterraneo lungo la passerella illuminata
fino ai cunicoli nascosti sotto la Porcheria. Stringeva tra le mani una scatola
di legno sigillata con sego. Nella manica aveva un pugnale di necrosso.
Nemmeno un sussurro sulle sue labbra.
Il Cammino del Sangue per tornare alla Montagna non fu più facile della
prima volta. Mia si tolse i vestiti ed entrò nuda nella pozza scarlatta nei
sotterranei del mattatoio. Si immerse sotto la superficie, tentata per un
momento di rimanere lì per sempre con le sue domande e le sue paure. Ma
si oppose a quel peso, le mani strette con forza attorno alla scatola che
Mercurio le aveva donato, la lama di necrosso nel pugno.
Tre bagni più tardi, fu accompagnata da una Mano silenziosa su per le
scale tortuose fino all’Altare del Cielo, per consumare il suo primopasto
come se fosse tutto normale. Gli accoliti maschi non si vedevano da
nessuna parte: probabilmente erano già a Godsgrave, radunati per il loro
giro di percosse e torture. Vide Ashlinn seduta a un tavolo, il labbro gonfio
e la guancia ferita. Mia non volle incontrare il suo sguardo. Prese il proprio
cibo e si mise a sedere, mangiando senza pronunciare una parola. Notò le
altre accolite che giunsero lentamente dalle scale, i sorrisi e gli scherzi dei
pasti precedenti soltanto un ricordo.
Alla fine del pasto, solo Ashlinn, Jessamine, Carlotta e Mia sedevano a
quel lungo tavolo solitario. Tutte quante picchiate. Malconce. Sporche di
sangue. Ma vive, almeno. Delle nove ragazze che ieri sera erano state
radunate nelle stanze di Aalea, solo quattro erano tornate.
Quattro di ferro.
Il resto era vetro.
Si scambiarono occhiate. Carlotta, stoica come sempre. Jessamine,
trionfante. Una sottile ruga di preoccupazione attraversava la fronte di Ash,
probabilmente al pensiero di cosa stesse succedendo a suo fratello. Ma
nessuna di loro parlò. Mia fissò il piatto e masticò il proprio cibo, un
boccone insapore alla volta. Si costrinse a finire tutto, anche le briciole.
Raccolse l’intingolo come sangue su pietra ruvida. E, quando ebbe finito, si
alzò in silenzio, si diresse alla sua stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Guardò il suo riflesso nello specchio. Occhi scuri e ammaccati. Labbra
sottili e tremanti.
«… mi dispiace, mia…»
Mia guardò il non-gatto, acciambellato al bordo del letto. Cassius ed
Eclissi avevano scombussolato Messer Cortese peggio di lei. Ma le
domande sui tenebris, sul Signore delle Lame e sul suo passeggero, tutte
quante le morirono semplicemente sulle labbra.
«È tutto a posto, Messer Cortese» sospirò.
«… mai tirarsi indietro…» le ricordò. «… mai avere paura…»
Mia annuì. «E mai, mai dimenticare.»
Si sedette di fronte allo specchio e guardò la ragazza che la fissava a sua
volta. L’assassina che Cassius aveva descritto. Il mostro. Si domandò per un
brevissimo istante che piega avrebbe potuto prendere la sua vita prima che
Scaeva la facesse a pezzi. Cercò di ricordare il volto di suo padre e di
dimenticare quello di sua madre. Sentì il bruciore delle lacrime nei suoi
occhi. Desiderò che se ne andassero finché non ne rimase nulla. Solo Mia e
la ragazza con gli occhi asciutti che la stava fissando.
Mercurio doveva aver saputo che la prova di lealtà era imminente. Di
certo sapeva ciò che avevano progettato Cassius e il Culto. E anche se
un’altra si sarebbe potuta sentire tradita per il mancato avvertimento del suo
maestro, Mia provò soltanto orgoglio. Il vecchio aveva saputo cosa c’era in
serbo per lei, tuttavia non aveva spifferato una parola. Non perché non gli
importasse.
“Perché sapeva.”
Cassius e il Culto non avevano la minima idea. Non immaginavano
nemmeno di cosa fosse fatta. Ma lui sapeva.
“Ferro o vetro?” avevano chiesto.
Mia serrò la mascella e scosse il capo.
Non era nessuno dei due.
Lei era acciaio.

a. Una branca della Chiesa di Aa vecchia quasi quanto la religione stessa, il Confessionato, come
potete sospettare, ha l’incarico di estirpare l’eresia all’interno della Repubblica. Preoccupati
principalmente di coloro che adorano la Madre della Notte, i confessori sono reclutati tra i ministri
di Aa più zelanti o squilibrati. L’attuale capo del Confessionato, Attia Fiorlini, arrivò a
crocifiggere il proprio marito per un sospetto di eresia all’inizio della sua carriera. I suoi superiori
furono decisamente impressionati dalla sua devozione, e così la sua stella crebbe rapidamente.
In verità, Attia inventò le accuse contro il suo uomo dopo aver scoperto che si scopava una
delle servitrici.
Come si suol dire, due piccioni con una fava…
CAPITOLO 18
FLAGELLO

Il conteggio finale dei sopravvissuti alla prova di lord Cassius fu di


diciassette: quattro femmine e tredici maschi. Tutti sporchi di sangue, lividi
e pesti in modi diversi. Gli occhi di Zitto erano così neri che il ragazzo
riuscì a malapena a vedere per tre cambi. Marcellus camminò zoppicando
per settimane. La mascella di Pip era stata quasi rotta, e lui fu costretto a
mangiare solo zuppe per un mese. a
Mia sapeva che non le sarebbe dovuto importare che Tric fosse
sopravvissuto o no. Ma quando spuntò dalle scale e si sedette in silenzio per
il suo ultimopasto, si ritrovò a sorridergli. Quando lui alzò lo sguardo e la
vide, Mia decise di non provare a nasconderlo.
E Tric le sorrise a sua volta.
Il braccio con cui impugnava la spada non era ancora guarito del tutto,
ma il rimprovero di Mercurio aveva colto nel segno. Quando reputarono
che il gregge si fosse ristabilito quanto bastava per ricominciare le lezioni,
Mia decise di frequentare l’Aula di Canti. Aveva già saltato dozzine di
lezioni; se ne avesse perse altre, avrebbe rischiato di rimanere troppo
indietro per avere una possibilità con la prova di Solis. Non riteneva di
potercela fare comunque; la sua speranza migliore di finire prima in un’aula
era di creare l’antidoto per Ammazzaragni. Ma commettere un errore nella
gara di Ammazzaragni significava morire e inoltre, se fosse stata promossa
come Lama a pieno titolo, avrebbe avuto bisogno di tutta l’arte della spada
a cui poteva fare appello. Starsene lì seduta a leggere tutto il cambio non le
avrebbe giovato.
Mentre entrava nell’Aula di Canti, Jessamine stava facendo volare
l’imbottitura fuori da un fantoccio da addestramento: alzò lo sguardo e le
scoccò un sorriso che diceva fottiti. Quando Mia prese il suo posto nel
cerchio, Solis sollevò un sopracciglio, fissando con quegli orrendi occhi
ciechi. Il taglio che lei gli aveva inflitto non era stato guarito dalla Tessitrice
Marielle: una nuova, minuscola cicatrice, che l’Ultimo aveva
evidentemente deciso di tenere, adornava una guancia segnata dalle
intemperie.
Lo Shahiid non si degnò di accoglierla di nuovo nella sua aula, né di fare
menzione degli accoliti che non erano tornati da Godsgrave.
«Iniziamo con un ripasso delle forme a due mani di Montoya» disse
Solis. «Confido che vi siate esercitati. Accolita Jessamine, forse vorresti
essere così gentile da mostrare all’accolita Mia qualcosa di ciò che si è
persa durante la sua assenza?»
Un altro sorriso. «Con piacere, Shahiid.»
Gli accoliti si divisero a coppie e cominciarono a eseguire i loro esercizi.
Jessamine si diresse alle rastrelliere delle armi, prese due pugnali ricurvi e
ne lanciò un altro paio a Mia. La ragazza sollevò le lame e il suo gomito si
lamentò in silenzio.
«Ci esercitiamo con vero acciaio, Shahiid?» chiese Mia.
La faccia dell’Ultimo fu impassibile quando rispose: «Consideralo un
incentivo».
Jessamine sollevò i coltelli senza una parola e mirò un affondo alla gola
di Mia. La ragazza si ritrasse e riuscì a stento a opporre una difesa contro i
colpi della rossa. Pareva che la classe avesse fatto passi da gigante in sua
assenza e, tra la mancanza di addestramento e il suo braccio ancora
indebolito, Mia si ritrovò a essere disperatamente surclassata. Jessamine era
feroce e abile, e Mia riuscì soltanto a tenere le sue viscere al loro posto.
Subì alcuni tagli superficiali sull’avambraccio e un altro squarcio sul petto,
e il sangue gocciolò sulla pietra mentre lei imprecava.
Jessamine sorrise. «Vuoi interrompere, Corvere?»
«No, amore, voglio solo rompere… la tua mascella.»
Jessamine rise, roteando i pugnali avanti e indietro. Sapendo che non
poteva chiedere a Solis di intervenire, Mia tamponò le proprie ferite e tornò
a esercitarsi. Studiò le forme degli altri attorno a lei meglio che poteva tra
una schivata e l’altra delle lame di Jessamine. Dopo un’ora con i coltelli
passarono alle spade corte, e Jessamine non fu meno spietata. Mia passò il
resto della mattinata a prenderle di santa ragione su e giù per l’aula e
terminò la lezione stesa a terra, livida e sanguinante. La lama di Jessamine
era premuta contro la gola, proprio sulla giugulare. E anche se la rossa si
trattenne, Mia riusciva a capire che avrebbe dato quasi qualunque cosa per
far diventare rossa la pietra con un guizzo del polso.
Jessamine si inchinò a Solis, sogghignò a Mia e ripose le armi sulla
rastrelliera. Mia si alzò in piedi tenendosi il gomito dolorante, con la
frustrazione che le ribolliva dentro. Il tempo che aveva perso a causa della
ferita le era costato caro, ed era rimasta indietro più di quanto temesse.
Avrebbe dovuto impegnarsi il doppio per recuperare il terreno perduto, e nel
frattempo Jessamine avrebbe potuto sbudellarla “accidentalmente”.
Il vero peccato era che lei e Jess erano praticamente uguali. Entrambe
orfane della Ribellione degli Incoronatori. Entrambe derubate della loro
familia, guidate dalla stessa sete. Se Jess non fosse stata così accecata dalla
sua rabbia, avrebbero potuto essere ottime amiche, tenute assieme dal tipo
di legame che solo l’odio può forgiare. E anche se la colpa per la morte del
padre di Jessamine era di Julius Scaeva, non di Darius Corvere, Mia
riusciva comunque a capire perché la vista del suo sangue inducesse l’altra
ragazza a sorridere.
“Se non puoi fare del male a coloro che l’hanno fatto a te, allora ti
accontenterai di farlo a chiunque.”
Tutto ciò era un magro sollievo dopo la completa batosta che aveva
subito, naturalmente. E se Jess avesse deciso realmente di dar sfogo alla sua
sete di sangue lontano dallo sguardo di uno Shahiid? Di provare a toglierle
davvero la vita? Probabilmente di Mia sarebbe rimasta soltanto una
macchia sul pavimento.
“No, questo non va bene.”
Mia scosse il capo e uscì dall’aula zoppicando.
“Non va affatto bene.”

«Come va, Dominus Tric?»


Lo aveva trovato nella Sala degli Elogi dopo le lezioni, lo sguardo fisso
sulla statua di Niah. Le scoccò un sorriso che gli fece risaltare le fossette
quando lei parlò. Poi la squadrò da capo a piedi.
«Denti della Mannaia, Jessamine ti ha preso a calci nel sedere.»
«Meglio che a coltellate.»
«Pare che ti abbia dato anche un po’ di quelle.»
«Suppongo che potrei andare a farmi dare un’occhiata dalla Tessitrice.»
Tric si accigliò quando sentì menzionare Marielle e voltò di nuovo gli
occhi verso la statua sopra di loro. Si passò distrattamente una mano sulla
faccia, seguendo con i polpastrelli quei tatuaggi orrendi. Non per la prima
volta, Mia si ritrovò a esaminare il suo profilo e a rimproverarsi per essere
una sciocca quasi nello stesso istante. Senza quell’inchiostro, lui sarebbe
stato sicuramente un rubacuori. Ed era lieta che fosse tornato dalla prova di
Drusilla. Tuttavia…
“Occhi sul premio, Corvere.”
«Ho un’idea» disse.
«Oh, cielo» borbottò Tric.
Mia gli fece il gesto delle nocche. L’ombra di Marielle scomparve dal
volto del ragazzo e lui le regalò un sorriso. Voltò le spalle alla statua di Niah
e fronteggiò Mia con le braccia incrociate.
«Allora? Sputa.»
«Come sei stato tanto cortese da notare, sono rimasta un po’ indietro in
Canti.»
«Un po’?» sbuffò Tric. «Lassù ci sono dei fantocci da addestramento che
potrebbero usarti per pulire i pavimenti, Figlia Pallida.»
«Be’, grazie tante» gli disse Mia con rabbia. «Se volessi essere così
gentile e andare da qualche parte a farti fottere in silenzio, io aspetterò
pazientemente qui il tuo ritorno.»
Tric sollevò un sopracciglio. Mia sospirò e disse alla sua collera di
andare a sedersi in un angolo.
«Spiacente» borbottò.
«Non ce n’è bisogno» replicò lui con un sorriso. «Non sono certo che la
cortesia ti si addica.»
«Ho una proposta.»
«Mi sento lusingato.»
«Non quel tipo di proposta, brutto imbecille.»
Gli diede un pugno sul braccio e lui sogghignò. Ma da qualche parte in
quegli scintillanti occhi nocciola, Mia intravide un frammento di
disappunto. Qualcosa nella sua postura e nell’inclinazione della testa.
Qualcosa che, dopo mesi di lezioni con Aalea, stava cominciando a
riconoscere.
“Desiderio.”
«Le sto prendendo di santa ragione a Canti» disse lei. «E nella classe di
Ammazzaragni tu sei utile quanto una conchiglia per un eunuco.» Mia
proseguì soffocando la protesta borbottata da Tric. «Allora, tu mi aiuti a
rimettermi in pari con le forme della spada di Solis cosicché Jessamine non
possa tagliarmi la testa, e io mi assicurerò che tu ne sappia quanto basta per
non avvelenarti da solo prima dell’iniziazione. Ci stai?»
Tric si accigliò. Ora lei poteva vedere il Desiderio lottare con il
Buonsenso.
«Non ci sono abbastanza posti tra le Lame per tutti noi, Mia.
Tecnicamente, siamo in competizione l’uno contro l’altro. Perché mai
dovrei aiutarti?»
«Perché ho detto per favore?»
«… Non hai detto per favore.»
Mia agitò la mano. «Un mero tecnicismo.»
Tric sorrise e Mia ricambiò, la mano sull’anca. Aalea le aveva detto che
il silenzio poteva essere la risposta migliore a una domanda, se la persona
che la poneva conosceva già la risposta. Così non disse una parola, lo
sguardo fisso in quegli occhioni graziosi, a lasciare che fosse invece il
Desiderio a parlare. Una parte di lei si sentiva in colpa perché stava
provando l’arte di Aalea sul suo amico, ma come aveva fatto notare Tric
stesso, tecnicamente lui era un avversario. E come Aalea amava dire, mai
portare una lama se non sei disposto a versare del sangue.
«D’accordo» disse infine Tric. «Un’ora ogni sera dopo le lezioni. Ci
vediamo domani nell’Aula di Canti.»
Mia gli rivolse una riverenza. «I miei ringraziamenti, Dominus Tric.»
Tric le porse la mano e lei la strinse per siglare il patto. Rimasero lì per
un momento, le mani intrecciate. Le formicolò la pelle quando il pollice di
Tric scorse gentilmente lungo la curva del suo polso. Tornando in sé, Tric la
lasciò andare, borbottò qualcosa che poteva assomigliare a delle scuse e
fuggì via. Mia si girò e si avviò nella direzione opposta, nascondendo il
sorrisetto che aveva sulle labbra quando la sua ombra cominciò a parlare.
«… anche se non ho una faccia, credimi quando dico che ora ti sto
fissando con uno sguardo da farti rimanere senza mutande…»
Mia roteò gli occhi. «Sì, padre.»
«… naturalmente, sembra che rimanere senza mutande sia il tuo
obiettivo, perciò forse dovrei smettere…»
«Sì, padrrrrre.»
«… non usare quel tono di voce con me, signorinella…»
Mia sogghignò e assestò un calcio giocoso che passò proprio attraverso
la testa di Messer Cortese. La ragazza e la sua ombra si allontanarono in
direzione dei dormitori, in cerca di letto e sogni.
Un bellissimo ragazzo uscì dall’oscurità e seguì il suo cammino con
lucenti occhi azzurri.
Come sempre, non disse nemmeno una parola.

Lunghe ore dopo, qualcuno bussò forte alla porta di Mia, trascinandola via
dalle braccia dei suoi libri. Lei fece scivolare lo stiletto via dal polso e si
gettò una vestaglia attorno alle spalle. Muovendosi lentamente verso la
porta, sussurrò a chiunque fosse in attesa dall’altra parte.
«Ash?»
«Per favore, apri la porta, accolita.»
Mia strinse più forte il coltello, poi girò la chiave e sbirciò fuori, nel
corridoio in penombra. Vide una Mano fuori dalla sua porta, lunghe vesti
nere e il volto nascosto da un cappuccio. Allora pensò a Naev e si domandò
brevemente dove fosse.
«Sei convocata dalla Reverenda madre Drusilla» disse la Mano.
«Ma certo.» Mia si inchinò. «Come lei desidera.»
Guardò lungo il corridoio e vide altre Mani che bussavano alle porte
degli accoliti. Ashlinn uscì alla luce con andatura incerta, le sue bellitrecce
scompigliate dalla pressione contro il cuscino. Al di là della ragazza, Mia
vide suo fratello Osrik, i capelli a punta che gli spuntavano dal cranio ad
angoli improbabili. Pareva che stessero svegliando tutti quanti, il che voleva
dire che non era Mia in persona a essere nei guai.
“Evviva i piccoli miracoli.”
«Cosa sta succedendo?» sussurrò Mia mentre il gruppo procedeva lento
dietro le Mani.
«Ne so tanto quanto te» rispose Ash con uno sbadiglio. «Nulla di buono,
scommetto.»
«Niente scommesse.»
Gli accoliti si trascinarono su per le scale a chiocciola mentre il coro
spettrale cantava da qualche parte nell’oscurità. Arrivati alla Sala degli
Elogi, Mia chinò il capo, poi si toccò fronte, occhi e labbra come fecero gli
altri. Vide che l’intero Culto era riunito: Aalea, perfetta come un ritratto in
un sottile abito borgogna, Ammazzaragni con un’aria più arcigna del solito
e vestita di verde giada, Mouser e Solis che alternavano sorrisi e sguardi
torvi nel loro cuoio scuro. Drusilla si trovava all’ombra di Niah, la bocca
sottile. E accanto a lei, incatenato agli anelli d’acciaio della statua stessa,
Mia vide…
«Zitto…»
Il ragazzo era nudo fino alla cintola, bendato con stoffa nera, la schiena
rivolta alla sala. Gli accoliti si radunarono in un semicerchio attorno alla
base della statua, silenziosi e cauti. Ashlinn annuì tra sé e sussurrò a Mia.
«Flagello di sangue.»
«Cosa?»
«Shhh. Osserva.»
«Grazie per la vostra presenza, accoliti» li accolse Drusilla. «Ci sono
poche regole che governano la vita di una Lama. Se doveste sopravvivere
per servire la Madre, vivrete fuori dai confini della legge, pertanto
all’interno di queste mura vi concediamo quanto più libertà possiamo.
Tuttavia, le poche regole che vi impartiamo non possono essere ignorate.
«Dopo l’omicidio dell’accolito Chiamapiena, ciascuno di voi è stato
avvertito di non lasciare le proprie stanze dopo la nona campana. Ho
promesso che chiunque fosse stato trovato colpevole di aver infranto tale
coprifuoco sarebbe stato punito severamente. Eppure, uno di voi ha provato
a mettere alla prova la mia determinazione.» Indicò Zitto con un cenno
della mano. «Ora assisterete al prezzo della follia.»
La Reverenda madre scese dal podio e si voltò verso le ombre.
«Oratore? Tessitrice?»
Mia vide due figure entrare nella luce dei vetri colorati. L’Oratore
Adonai indossava brache di cuoio e una vestaglia di seta rossa gettata con
noncuranza sopra il torace nudo. Era senza stivali. Sua sorella Marielle era
avvolta dalla testa ai piedi in un ampio tessuto nero fluente. I fratelli presero
posto dietro il ragazzo. Zitto voltò la testa quando Marielle iniziò a farsi
scrocchiare le nocchie: schiocchi umidi e nauseanti riecheggiarono nella
penombra. Perfino bendato, Zitto doveva aver riconosciuto il suono. Mia lo
vide prendere un respiro profondo, poi voltarsi di nuovo verso la pietra.
Madre Drusilla parlò con una voce simile a ferro.
«Cominciate.»
Marielle sollevò la mano, le dita protese. Dal suo punto elevato, Mia
poteva vedere la faccia della donna, quelle labbra orrende spaccate in un
sorriso sanguinante. Marielle borbottò sottovoce, strinse gli occhi e chiuse
le dita in un pugno.
Un suono squarciante ruppe l’aria e la carne della schiena di Zitto si
spaccò come frutta marcia. Il ragazzo gettò la testa all’indietro quando
quattro lacerazioni orribili si aprirono lungo la pelle, come se una specie di
flagello invisibile gli avesse frustato la schiena. Sgorgò sangue e i muscoli
furono fatti a brandelli; Mia sussultò quando vide ossa rosee e scintillanti
comparire tra le ferite.
Ma il ragazzo non emise un suono.
Marielle agitò di nuovo la mano, con noncuranza, come se stesse
scacciando una mosca. Altri quattro squarci si aprirono nella carne di Zitto,
lacerandogli la schiena. Ogni muscolo del suo corpo si contrasse, le vene si
ingrossarono nelle braccia e sul collo, quel volto bellissimo si contorse dal
dolore. Mia non era certa che qualche altro accolito potesse vedere, ma
dall’angolazione a cui si trovava, rimase sconvolta nel notare le labbra del
ragazzo arricciarsi all’indietro in un ringhio, lasciando scoperte gengive
rosa e vuote.
“Madre Nera, non ha i denti…”
Marielle mosse nuovamente la mano. La pelle del ragazzo si lacerò
ancora. Lunghi squarci frastagliati si aprirono sulle gambe, la schiena
macinata come carne per le salsicce. Sulla pietra ai suoi piedi si stava
accumulando del sangue. Fiotti di sangue arterioso, schizzi in volute folli
che scintillavano nell’aria. Anche se doveva essere in preda alla sofferenza,
il ragazzo non emise nemmeno un sussurro. Gli accoliti osservarono
inorriditi mentre Marielle muoveva le mani e altra carne di Zitto continuava
a staccarsi. E per tutto il tempo il ragazzo rimase in silenzio, come se fosse
già morto.
Passarono minuti. Suoni umidi e laceranti. Gocce di pioggia. Zitto era un
relitto sanguinante. La testa gli ciondolava sulle spalle. Il sangue era
raccolto attorno ai suoi piedi come una marea rosso scuro. Non potevano
continuare ancora, no? Mia si voltò verso Ash, parlandole con un sibilo.
«Lo stanno uccidendo!»
Ash scosse il capo. «Osserva.»
Marielle continuò il suo lavoro orribile e quel sorriso sanguinante si
allargò ancora di più. Zitto si dibatté debolmente contro le sue catene, ma
adesso era a malapena cosciente. E quando Mia riuscì effettivamente a
contare le costole sotto la sua pelle, quando sembrò che ancora un solo
colpo invisibile lo avrebbe ucciso, la Reverenda madre alzò la mano.
«Basta.»
Marielle lanciò un’occhiata a Drusilla, il suo sorriso duro a morire. Ma
lentamente la Tessitrice inclinò la testa e abbassò la mano con evidente
riluttanza.
«Amato fratello, fratello mio» biascicò.
Adonai venne avanti, scostandosi bianchi capelli unti dalla faccia.
L’albino sussurrò, un suono sommesso e musicale, come se stesse cantando
sottovoce. Le parole riecheggiarono per la sala, come il canto di un coro
nella Basilica Grande. E mentre Mia guardava affascinata, il sangue
addensato ai piedi di Zitto cominciò a muoversi.
All’inizio era tremolante, increspandosi con qualche vibrazione nascosta.
Ma lentamente, in modo fiacco, quella marea scarlatta si ritirò lungo la
pietra ai piedi del ragazzo mentre si dibatteva e sussultava, scorrendo su per
le gambe e nuovamente nelle ferite che Marielle aveva squarciato. Mia
guardò la faccia dell’Oratore, pallida come un cadavere. Invece del loro
abituale rosa, gli occhi dell’uomo erano rosso sangue. Il suo sorriso era
estatico.
Marielle sollevò le mani accanto a quelle del fratello. Le agitò nell’aria
come una sarta a un telaio di sangue. E mentre Zitto sgroppava e tremava,
con la bocca aperta e il volto lustro di sudore, una a una le ferite si chiusero.
Gli orrendi squarci e lacerazioni. La carne fradicia e sminuzzata. Tutto
quanto si increspò e si richiuse mentre Zitto si dimenava in silenzio, finché
sulla sua pelle non rimase nemmeno un graffio.
Il ragazzo si afflosciò nelle catene, un filo di bava che gli colava dalle
labbra. Era rimasto cosciente per tutto il tempo. Ogni momento. Gli accoliti
lo guardarono con un misto di orrore e meraviglia.
Le Mani gli tolsero le manette e gettarono una vestaglia attorno alle sue
spalle intatte.
«Portatelo nella sua stanza» disse Drusilla. «È esonerato dalle lezioni di
domani.»
Le Mani obbedirono, sollevando Zitto in mezzo a loro e trascinandolo
via dalla sala. La Reverenda madre guardò gli accoliti lì riuniti, fissando
ciascuno con i suoi occhi azzurri. L’aspetto matronale era sparito, l’amore
materno momentaneamente evaporato. Questa era l’assassina svelata. La
stessa donna che non aveva mosso un dito mentre lord Cassius e i suoi
uomini torturavano gli accoliti dentro quella cella buia a Godsgrave. La
stessa donna che aveva mandato otto suoi studenti a morire con un sorriso.
«Confido che non saranno necessarie ulteriori dimostrazioni» disse. «Se
altri accoliti saranno trovati fuori dalle loro camere da letto dopo lo
scoccare della nona campana, dovranno bere dallo stesso calice. Anche se la
prossima volta potrei permettere alla Tessitrice Marielle di fare
completamente a modo suo.»
La Madre fece scivolare le mani all’interno delle maniche, poi si
inchinò.
«Ora andate a dormire, bambini.»

Il sonno era giunto lentamente e Mia si destò prima delle campane del
risveglio, fissando le pareti. Decisa a far tornare la forza nel braccio con cui
usava la spada, si esercitò: flessioni ai piedi del letto, poi contro la porta.
Dopo qualche minuto, il suo gomito urlava di dolore, ma continuò a
sforzarsi finché non le sgorgarono le lacrime dagli occhi. Alla fine crollò
sul pavimento e giacque lì a riprendere fiato, inveendo sottovoce contro
quel bastardo di Solis.
Uscendo dalla sua camera da letto, si diresse verso il bagno pubblico.
Passando accanto alla stanza di un accolito, udì uno schianto e il tintinnio di
vetri rotti all’interno. Si fermò fuori dalla porta; da dentro risuonarono molti
altri tonfi e schianti.
«… quelli che ficcano il naso nelle faccende altrui tendono a
perderlo…»
«Chiamami curiosa.»
«… lo sai cos’ha fatto la curiosità al gatto…»
Mia si sporse più vicino e appoggiò l’orecchio contro il legno.
La porta si spalancò e Mia balzò all’indietro stupefatta. Lì nella
penombra vide Zitto. Occhi arrossati, carnagione pallida. Quel volto
bellissimo striato di lacrime. Era a torso nudo, sudato per lo sforzo. La
stanza alle sue spalle era nel caos, cassetti rovesciati e scagliati contro il
muro, lenzuola rovinate. Mia lo squadrò. Snello e muscoloso. Petto glabro.
A parte alcuni lividi ai polsi, il suo corpo non mostrava nessun segno della
tortura inflittagli da Marielle e Adonai.
Il ragazzo la fissò. Aveva le labbra tirate in una linea e la rabbia negli
occhi.
«Scusami, Zitto» disse Mia. «Ho udito dei rumori.»
Zitto rimase in silenzio. Immobile.
«Va tutto bene?»
Nessuna risposta: solo uno sguardo freddo e macchiato di lacrime.
Ricordò la sua immagine della sera prima, la testa gettata all’indietro e le
labbra arricciate a mostrare gengive senza denti. Era quello il motivo per
cui non parlava mai? Come li aveva persi? Poteva esserseli strappati da solo
come tributo per ottenere l’ingresso alla Chiesa?
Rimasero lì entrambi, nessuno dei due intenzionato a muoversi. Il
silenzio risuonava più fragoroso delle campane dell’illuminotte per
Godsgrave.
«Mi dispiace» azzardò Mia. «Per quello che ti hanno fatto. È stato
crudele.»
Il ragazzo inclinò lievemente la testa e si strinse appena nelle spalle.
«Se mai volessi parlarne…»
Zitto le rivolse un sorrisetto privo di allegria.
«Voglio dire…» Mia mosse un po’ le mani. «Scriverlo. Se vuoi, sono
qui.»
Il ragazzo la fissò negli occhi. Poi, indietreggiando con un guizzo del
polso ammaccato, sbatté la porta in faccia a Mia. Lei si spostò con un
sobbalzo, evitando per poco di rompersi di nuovo il naso. Si infilò i pollici
alla cintura e fece spallucce.
«… be’, è andata a meraviglia…»
«Non puoi biasimare una ragazza per averci provato» disse lei,
avviandosi lungo il corridoio.
«… è una specie di stratagemma…?»
«Che c’è? È così bizzarro che me ne freghi qualcosa?»
«… non bizzarro, semplicemente inutile…»
«Ascolta, solo perché non ho nulla da guadagnarci, non significa che non
dovrebbe importarmi. L’hanno torturato, Messer Cortese. Anche se non gli
è rimasta nemmeno una cicatrice, non significa che non abbia lasciato il
segno. Ed è come ha detto Naev. Dovrei badare alle cose che sono
importanti qui.»
«… importanti? quel ragazzo non è nulla per te…»
«So che dovrei pensare a lui come un concorrente. So che non ci sono
abbastanza posti per tutti noi tra le Lame. Ma questa Chiesa ha lo scopo di
farmi diventare fredda, perciò aggrapparmi alla parte di me in grado di
provare pietà diventa più importante a ogni cambio che passa.»
«… la pietà è una debolezza che può essere usata contro di te. scaeva,
duomo e remus non ne avranno alcuna…»
«Un altro motivo per tenermela stretta, allora, giusto?»
«… umpf…»
«Pfui.»
«… grrrr…»
«Zitto.»
«… cresci…»
Risuonò una risata e le ombre sorrisero.
«Mai.»
La ragazza e il non-gatto scomparvero nell’oscurità.

a. Borbottò al suo coltello un po’ meno mentre la mascella era in via di guarigione. Mia era tentata di
andare a cercare i suoi aguzzini per ringraziarli.
CAPITOLO 19
MASCHERATA

Le settimane volarono nell’oscurità, contrassegnate solo dal rintocco dalle


campane, dai pasti che venivano serviti e da ore e ore trascorse a imparare. a
Mia e Tric si esercitavano a ogni cambio dopo le lezioni, nell’Aula di Canti
o in quella di Verità. A ogni sessione di Canti, Mia veniva accoppiata a
Jessamine o Diamo e il suo sangue dipingeva il pavimento. E anche se
scoprì che in effetti le piaceva sempre di più la compagnia di Tric, cominciò
a domandarsi se era proprio il mentore di cui aveva bisogno…
Era ormai inverno inoltrato, e il Gran Tributo si stava avvicinando: le
nevi cominciavano ad ammantare Godsgrave in abiti color bianco
infangato. Illuminotte dopo illuminotte, ombre graziose intraprendevano il
Cammino del Sangue dalle camere di Adonai e svolazzavano per la città in
cerca di segreti, tornando per posarli ai piedi di Aalea. La Shahiid di
Maschere non fornì alcuna indicazione su chi fosse in lizza per vincere la
sua competizione.
La Tessitrice continuò il suo lavoro, alterando le facce una a una. Intessé
la bellezza ferina di Jessamine per farla sbocciare del tutto, poi affinò il
bell’aspetto naturale di Osrik per dargli un’aria più elegante; perfino Petrus
aveva riottenuto l’orecchio mancante. Gli accoliti appena intessuti
cominciarono a utilizzare le numerose armi di Aalea: piccoli giochi di
contatti e seduzione si tenevano nel corso delle lezioni o dopo. Durante i
pasti, Mia poteva avvertire una corrente nuova nell’aria. Sguardi furtivi e
sorrisi segreti. Con tutto il sudore e il sangue che gli accoliti ci stavano
mettendo, Mia pensava che se lo meritassero. Le lezioni stavano diventando
sempre più ardue: la metà di loro era già morta. Mia supponeva che un po’
di innocuo divertimento non facesse mai male a nessuno.
E poi giunse la mascherata.
Gli accoliti furono convocati dopo un ultimopasto, tutti quanti, nelle
camere di Adonai. Senza preamboli, vennero fatti passare attraverso il
Cammino del Sangue, uno dopo l’altro. Mia percepì occhi bramosi sul suo
corpo quando si denudò fino alla sottoveste, e lei guardò gli altri a sua
volta. Dopo che furono usciti dal calore rosso sangue sotto la Porcheria, agli
accoliti fu ordinato di lavarsi in modo accurato e di vestirsi in fretta. Poi
tutti e diciassette furono traghettati – nientemeno che su gondole coperte –
al quartiere dei midollani di Godsgrave. Mia viaggiò con Carlotta, Ashlinn
e Osrik, sbirciando attraverso la copertura mentre passavano vicino alle
residenze facoltose delle persone più ricche e potenti di Godsgrave. Le
Mani che li traghettavano erano vestite in abiti eleganti da servitori:
redingote orlate d’oro e brache di seta. Il bagliore rosso sangue di Saan era
ridotto a un broncio scontroso dietro una coltre pesante di grigio turbolento,
ma Mia non poté fare a meno di stringere gli occhi, e fu costretta a mettersi
un paio di occhiali di azzurrite sul ponte del naso.
Guardò Carlotta da dietro quel vetro colorato, ammirando il poema che
Marielle aveva creato col volto della ragazza. Era stata intessuta solo pochi
cambi prima, ed era difficile non notare la differenza o il modo in cui gli
altri novizi la fissavano ora che era completa. Le labbra di Carlotta erano
più carnose, il suo corpo più formoso. E dove un tempo un marchio da
schiava aveva deturpato la guancia della ragazza, adesso c’era solo pelle
chiara e liscia.
«La Tessitrice sa il fatto suo» sorrise Mia.
Carlotta lanciò un’occhiata a lei, poi di nuovo fuori dal finestrino.
«… Suppongo di sì.»
«Oh, andiamo, sembri un ritratto, Lotti» protestò Ash. «Marielle è una
specialista.»
A una gomitata di sua sorella, Osrik disse la sua. «Oh, sì. Un ritratto,
senza subbio.»
«È strano» mormorò Carlotta. «Le cose che ci mancano.»
La ragazza si toccò la guancia dove c’era stato il marchio da schiava. Le
dita sfiorarono la pelle ora immacolata. Non disse altro e Mia era riluttante
a insistere, ma poteva vedere ricordi che galleggiavano negli occhi della
ragazza quando fissava la città di passaggio. Ombre che macchiavano le
iridi di Carlotta di un azzurro più intenso.
“Dov’è che una schiava ha imparato l’arte dei veleni?
“Cosa l’ha indotta a unirsi alla Chiesa?
“Perché era qui?”
Mia sapeva che Carlotta era la sua avversaria più temibile per il primo
posto con Ammazzaragni. Che Messer Cortese aveva detto il vero e la pietà
sarebbe stata una debolezza che gli altri avrebbero usato contro di lei. Che
non le sarebbe dovuto importare.
Ma in qualche modo le importava.
Finalmente la loro gondola fu ormeggiata a un piccolo molo di fronte a
un sontuoso palazzo a cinque piani, il genere di casa che solo i midollani
potevano possedere.
«’Bisso, cosa sta succedendo?» sussurrò Mia.
Ashlinn e Osrik fecero spallucce: pareva che il padre non avesse detto
loro ogni cosa, dopotutto. Mia controllò la sua lama di necrosso per la
quarta volta prima di mettere piede sul pontile. I venti provenienti dal
canale erano gelidi, il molo scivoloso sotto i suoi piedi.
Gli accoliti vennero scortati nell’atrio del palazzo. Le pareti erano rosse,
adornate con bellissimi ritratti nello sfarzoso stile liisiano. b Vasi pieni di
fiori spandevano un profumo delicato nell’aria e un fuoco vivace ardeva nel
focolare scolpito.
In cima a un’imponente scalinata curva c’era la Shahiid Aalea. Anche se
lei aveva sempre pensato che fosse una sciocca frase fatta che si trovava
solo nei libri, la vista di quella donna mozzò davvero il fiato a Mia. La
Shahiid era vestita con un lungo abito fluente, rosso come sangue arterioso,
decorato con merletto nero e perle. Un corsetto di dracosso le stringeva
dolorosamente il girovita e il taglio a spalle scoperte mostrava liscia pelle
color bianco panna. In mano teneva una bauta su un’esile bacchetta
d’avorio.
Lotti aveva gli occhi sgranati, le diffidenze riguardanti il proprio volto al
momento dimenticate.
«Ucciderei la mia stessa madre per entrare in un vestito come quello…»
«Io ucciderei te e tua madre per entrare in un vestito come quello»
sussurrò Ash.
«Vuoi danzare, Järnheim?» la canzonò Lotti con aria impassibile.
«Broccato di seta liisiana con un corsetto di taglio melphi e guanti
coordinati? Io ti seppellirò.»
La risata di Mia e Ash fu interrotta quando Aalea parlò, la sua voce
delicata come fumo.
«Accoliti» sorrise. «Benvenuti e grazie per essere qui. Sono passati tre
mesi dalla vostra ammissione nella Chiesa Rossa. Comprendiamo che le
lezioni sono sempre più lunghe e le ore più pesanti, perciò ogni tanto
convinco il Culto a permettervi di… sciogliervi i capelli, per così dire.»
Aalea sorrise ai novizi proprio come i soli sorridevano al cielo.
«Il Gran Tributo si avvicina e pertanto è consuetudine fare regali alle
persone care. Dall’altra parte del canale c’è il palazzo del pretore Giuseppe
Marconi, un giovane e facoltoso dominus midollano che indice alcuni tra i
ricevimenti più deliziosi a cui abbia mai partecipato. Questa sera, il pretore
ospita il tradizionale gala del Gran Tributo, un ballo a cui solo il fior fiore
della società di Godsgrave viene invitato. E tra gli invitati… ci siete anche
voi.»
Aalea tirò fuori una manciata di fogli di pergamena come dal nulla e si
sventagliò lentamente il collo.
«Naturalmente, ognuno di voi dovrà escogitare un sotterfugio
convincente sul perché sia stato invitato a una serata tanto esclusiva. Ma
sono certa di avervi preparato a dovere per questo. Il ballo è una
mascherata, dopotutto, perciò potete scegliere quale faccia indossare.»
La Shahiid indicò delle doppie porte con un gesto della mano.
«Troverete abiti adatti qui dentro. Divertitevi, miei cari. Ridete. Amate.
Ricordate com’è vivere, e dimenticate, anche solo per un momento, com’è
servire.»
Aalea distribuì gli inviti dorati e accompagnò gli accoliti attraverso le
doppie porte. All’interno, Mia trovò file e file delle giacche e degli abiti più
belli che avesse mai visto. I tagli più eleganti. La stoffa più costosa. Ashlinn
si tuffò praticamente su un attaccapanni di corsetti di seta, e perfino
Jessamine perse il suo abituale cipiglio.
Mia vagò a occhi sgranati tra una foresta di pelliccia e velluto, damasco
e merletto. Erano passati anni da quando aveva visto abiti come questi da
vicino. Ancora di più da quando aveva indossato qualcosa del genere. Da
piccola, aveva partecipato ai balli e ai gala più eleganti in abiti sontuosi. Si
ricordava di aver danzato con suo padre nella sala da ballo di questo o quel
senatore, tenendo in equilibrio i piedi sui suoi mentre piroettavano per la
stanza. Per un momento fu sopraffatta. Ricordi della vita che aveva perduto,
pensieri della persona che avrebbe potuto essere ma che non sarebbe mai
stata.
Fece scorrere le dita sulla fila di maschere che Aalea aveva preparato per
loro. Ciascuna di esse era un vultus: una maschera completa di forma ovale.
Erano di ceramica bianco perla e decorate d’oro, con tre lacrime rosso
sangue sotto l’occhio destro. Erano di fattura squisita, morbide come
velluto al tatto.
«Tutto questo è un po’ troppo, no?»
Mia si voltò e trovò Tric accanto a lei, che guardava accigliato gli altri
accoliti. Osrik e Marcellus si stavano provando vari gilè e foulard,
inchinandosi a vicenda. «Dopo di voi, signore.» «No, no, dopo di voi,
signore.» Carlotta si era infilata in un abito fatto con una stoffa straordinaria
che cambiava tonalità quando lei ruotava sul posto. Zitto si era abbigliato
dalla testa ai piedi in un bianco immacolato; il suo farsetto era ricamato
d’argento scintillante.
«Un po’ troppo?» ripeté Mia.
«Dovremmo essere discepoli della Madre. Si stanno comportando come
bambini.»
Anche Mia era agitata, a dire il vero. La prima volta che Aalea li aveva
mandati a Godsgrave, lei era stata rinchiusa in una cella e picchiata quasi a
morte per ordine del Signore delle Lame. Avevano già viaggiato dozzine di
volte alla città di ponti e ossa da allora, ma Mia non riusciva a scrollarsi di
dosso la sensazione che questo “regalo” fosse troppo bello per essere vero.
Tuttavia alla fine fece spallucce.
«Non può far male divertirsi un po’ ogni tanto. Provaci. Potrebbe
piacerti.»
«Stronzate» ringhiò lui. «Non sono qui per divertirmi.»
«Riposo, mio burbero centurione.» Mia raccolse uno dei vulti e lo spinse
contro la faccia di Tric. «Sorridi pure, tanto nessuno lo vedrà comunque.»
Tric sospirò, poi esaminò gli attaccapanni con gli abiti da uomo. Giacche
e farsetti, stivali con fibbie lucenti e gilè con bottoni scintillanti.
«Non sono abbastanza raffinato per questo tipo di faccende» confessò.
«Aalea ci ha provato, ma in verità non so da dove cominciare.»
Mia non poté fare a meno di ridere e gli offrì il braccio.
«Be’, allora è una fortuna che tu abbia me, Dominus Tric.»
Alla fine lui si diede una bella rassettata. Anche se fu una sfida trovare
qualcosa che calzasse bene su spalle ampie come le sue, Mia riuscì a
procurargli una lunga redingote grigio carbone (pareva che i colori scuri
fossero in voga tra l’aristocrazia in questa stagione) decorata d’oro. Mentre
Tric se ne stava seduto a contorcersi, lei gli intrecciò le salciocche in una
parvenza di ordine, poi gli legò un foulard di seta attorno alla gola.
Esaminando il suo lavoro allo specchio, il ragazzo le rivolse un cenno di
assenso riluttante. Ashlinn lanciò un fischio sonoro da un angolo.
Mia stessa scelse un abito ardito di velluto riccio di un intenso color
rosso vino, poi si mise in testa un tricorno della stessa stoffa. Kajal sugli
occhi. Pittura borgogna per le labbra. Aalea preferiva le tonalità di rosso e
Mia aveva un colorito simile, perciò pensò che quell’azzardo potesse valere
la pena. Si infilò un paio di lunghi guanti e una stola di pelliccia di lupo, poi
si guardò nello specchio e sorrise.
Ash fischiò di nuovo dal suo angolo.
Gli accoliti uscirono nella soliluce sgargiante e furono traghettati
all’altro lato del canale. Sbarcarono su un ampio pontile e attraversarono i
cancelli di Palazzo Marconi. Mia vide ospiti arrivare via gondola, altri con
delle carrozze i cui cavalli sbuffavano e scalpitavano al gelo. Un vento
pungente spirava dall’acqua e il respiro di Mia si condensava nell’aria. Si
strinse attorno la pelliccia di lupo e socchiuse gli occhi per osservare il sole
rosso pallido dietro il suo velo di nuvole, desiderando non aver indossato un
abito che lasciava le spalle scoperte. Tric, che camminava sottobraccio con
Ashlinn, notò i brividi di Mia e fece scivolare il braccio libero attorno a lei
per darle un po’ di calore.
Mia si pentì un po’ meno dell’abito che aveva scelto.
Tutti gli accoliti stavano indossando i loro vulti, le facce nascoste dietro
ceramica liscia. Mentre gironzolavano attorno all’ingresso, Mia vide che
anche gli altri ospiti erano abbigliati in modo simile e i suoi occhi si
sgranarono nel notare alcune delle maschere lì in mostra. Un gentiluomo
indossava una testa di morte intagliata in avorio nero, con globi arkemici
che gli bruciavano nelle orbite. Vide una donna con una bauta fatta di
penne di uccello di fuoco, che sembrava incresparsi di fiamme quando la
soliluce la lambiva nel modo giusto. Ma la più stupefacente apparteneva a
una ragazzina appena adolescente: la maschera era un lungo fascio di seta
nera la cui forma era adattata al suo viso; la seta si gonfiava come una vela
al vento, ma quando entrarono continuò a incresparsi, anche senza la brezza
a muoverla.
Uno stuolo di servitori, con marchi da schiavi sulle guance e vestiti che
dovevano costare più di quanto un cittadino medio guadagnava in un anno,
li accolsero, esaminando i loro inviti prima di accompagnarli in un atrio
sontuoso. Il palazzo del pretore Marconi trasudava ricchezza: marmo alle
pareti e oro sulle maniglie. Candelabri tintinnanti di cristallo dweymeri
ruotavano sopra le loro teste e una musica delicata riempiva l’aria, mista al
chiacchiericcio di centinaia di voci, risate, sussurri e canzoni.
«Allora è così che vive l’altra metà» disse Tric.
«Potrei sopportare di stare qui per un po’» replicò Ash. «Queste erano le
persone che frequentavi, Corvere? Tutto quanto è sempre così sgargiante?»
Mia fissò l’opulenza che li circondava, il mondo a cui un tempo era
appartenuta.
«Ricordo che tutti erano molto più alti» disse.
Apparvero dei servitori con vassoi dorati. Calici di cristallo riempiti di
vino, con sottili cannucce per consentire agli ospiti di sorseggiare senza
togliersi le maschere. Dolcetti zuccherati e frutta candita. Sigaretti e pipe
già riempite di sonnolerba, aghi carichi d’inchiostro. Bicchiere in mano,
Mia vagò per l’atrio, sopraffatta da immagini, suoni, odori e dimenticando
Aalea, i suoi sospetti e le sue preoccupazioni. Arrivò con Tric davanti a una
doppia porta che conduceva nella sala da ballo, e un servitore con una
maschera a forma di testa di buffone si inchinò davanti a loro.
«Meus Dominus. Mea Domina. Posso avere i vostri nomi?»
Tric tirò fuori l’invito come se la sua tasca stesse andando a fuoco.
«Sì, molto bene» disse il servitore. «Ma mi serve il vostro nome, Meus
Dominus.»
«… Per cosa?»
Mia si intromise in quel silenzio imbarazzato con modi dolci come
caramello.
«Questi è Donacoccole, Bara del clan Lanciamarina sull’isola di
Farrow.»
Tric scoccò a Mia un’occhiata allarmata. Il servitore si inchinò.
«Grazie, Mea Domina. E voi?»
«La sua… compagna.»
«Molto bene.» Il servitore andò a mettersi in cima alle scale della sala da
ballo e annunciò con voce stentorea: «Bara Donacoccole del clan
Lanciamarina, e la sua compagna».
Alcuni dei trecento e passa ospiti lanciarono un’occhiata in direzione
della coppia, ma molti tra la folla continuarono con le loro conversazioni.
Mia prese Tric per il braccio e lo guidò giù per le scale, annuendo a coloro
che guardavano verso di loro. Fece cenno a un servitore di passaggio, che
accese un sigaretto nero in un sottile bocchino d’avorio e glielo porse come
richiesto. Mia inalò il fumo attraverso le labbra della sua maschera ed esalò
un sospiro grigio e soddisfatto.
«Donacoccole?» sibilò Tric.
«Meglio di Trastullaporci.»
«’Bisso e sangue, Mia…»
«Cosa?» sogghignò lei. «Sono certa che doni coccole stupende.»
«La Madre Nera mi aiuti» sospirò Tric. «Ho un fottuto bisogno di bere
qualcosa…»
Quattordici servitori si materializzarono accanto al ragazzo, con vassoi
di quasi ogni bevanda possibile e immaginabile. Tric parve colto alla
sprovvista, ma alla fine scrollò le spalle e prese due calici di aureovino.
«Molto premuroso da parte tua» disse Mia, allungando la mano verso un
bicchiere.
«Smamma, questi sono miei. Prenditelo da sola.»
Mia si guardò attorno in quel mare di maschere, seta, pelle. Un quartetto
d’archi suonava su un piano rialzato e un profumo di note bellissime
aleggiava nell’aria. Coppie danzavano al centro della stanza mentre
capannelli di uomini benestanti e donne meravigliosamente vestite
chiacchieravano, ridevano e civettavano. La musica di anelli d’oro contro
calici di cristallo risuonava tra i volti nascosti. Aalea aveva ragione: in
mezzo a tutto questo, era facile dimenticarsi chi era.
Mia sospirò, poi scosse il capo.
«È uno spettacolo» concordò Tric.
«Un tempo questo era il mio mondo» disse lei piano. «Non avrei mai
pensato che mi sarebbe mancato.»
Il netto tintinnio di metallo su cristallo catturò la sua attenzione e Mia si
voltò verso il piano ammezzato. La musica si interruppe e tutti gli occhi si
alzarono su un gentiluomo sorridente, metà della faccia nascosta da una
bauta in oro battuto. La sua giacca era di seta, ricamata con filo d’oro, il
foulard alla gola tempestato di gemme, e aveva anelli a ogni dito.
“Senza dubbio il nostro anfitrione, il pretore Marconi.”
«Gentili signore e signori» esordì l’uomo, la voce intensa e profonda.
«Do a tutti voi il benvenuto nella mia umile casa. Non sono tipo da
dilungarmi in discorsi e distogliervi dai vostri festeggiamenti, ma è la
stagione del Gran Tributo e sarei negligente se non porgessi i miei
ringraziamenti a ciascuno di voi e, soprattutto, al nostro magnifico console,
Julius Scaeva.»
La mascella di Mia si serrò di riflesso. Gli occhi scandagliarono la folla.
«Purtroppo, il nostro nobile console non ha potuto partecipare al
ricevimento, ma vorrei comunque che ciascuno di voi riempisse un calice e
lo sollevasse in suo onore. Sono passati sei anni da quando gli Incoronatori
cercarono di schiavizzarci ancora una volta sotto il giogo della monarchia.
Sei anni da quando il console Scaeva salvò la Repubblica e diede inizio a
un’età dell’oro di pace e prosperità. Senza di lui, nulla di tutto questo
sarebbe possibile.»
Il giovane pretore alzò un bicchiere. Tutti nella sala lo imitarono, tranne
Mia. Tric la guardò sgranando gli occhi. Non brindare al console sarebbe
apparso come uno scandalo. Con i denti stretti tanto forte da temere che
potessero rompersi, Mia prese un calice da un vassoio vicino e lo sollevò
come il resto di quelle pecore.
«Al console Julius Scaeva!» gridò Marconi. «Che il Semprevigile lo
benedica!»
«Al console Scaeva!» gli fece eco la folla.
I bicchieri tintinnarono, il loro contenuto fu svuotato e un applauso
cortese riempì la sala. Il pretore Marconi scese dal piano ammezzato con un
inchino e la musica ricominciò. Mia era accigliata dietro la sua maschera.
All’improvviso questo mondo, questa vita, le mancarono molto meno
rispetto a un attimo pri…
«Sai ballare?» chiese Tric.
Mia sbatté le palpebre. Alzò lo sguardo verso la maschera di Tric e gli
occhi nocciola dietro di essa.
«Cosa?»
«Sai. Ballare?» ripeté lui.
Mia rise senza volere. «Perché? Tu sì?»
«La Shahiid Aalea mi ha insegnato. In caso mi ritrovassi a dover
corteggiare una giovane midollana o una domina di un certo livello.»
«Le dominae di un certo livello tendono ad avere criteri elevati, Bara
Donacoccole.»
«Sappi che lei mi reputa eccellente.»
Il ragazzo le porse il gomito. Mia fece spaziare lo sguardo attraverso la
sala. Facce vuote e sorridenti nascondevano quelle reali dietro di esse.
Questi bastardi midollani erano immersi in oro e menzogne. Aveva mai
provato davvero un senso di appartenenza per tutto questo? Era mai stato
davvero il suo mondo?
Sollevò la maschera e tracannò il suo calice di aureovino in un sorso
solo. Ne afferrò un altro da un vassoio di passaggio e lo finì altrettanto
rapidamente.
«’Fanculo, allora.»
Spense il sigaretto acceso in un bicchiere di vino che le passava accanto
e prese il braccio di Tric.
Mentre scendevano sulla pista da ballo, Tric le strinse la mano, e quelle
grosse dita segnate dai calli della spada si intrecciarono con le sue. Nella
sua pancia le farfalle presero il volo quando Tric le posò la mano libera
sulle reni. Mia poteva giurare che la musica fosse diventata più forte mentre
le conversazioni attorno a loro parevano scemate. E lì, nel mezzo di quel
mare di facce vuote e sorridenti, cominciarono a ballare.
Era strano, ma con la faccia del ragazzo coperta, Mia poteva vedere solo
i suoi occhi. Fissò quelle grandi pozze color nocciola scintillante e si rese
conto che erano concentrate esclusivamente su di lei. Tutte le perle e i
gioielli, la seta e i lustrini, l’opulenza in mostra. Questi bellissimi domini e
dominae immersi nell’oro. Eppure Tric aveva occhi solo per lei.
L’aveva osservato nell’Aula di Canti e sapeva che era aggraziato, ma
Figlie, per quanto potesse essere carente nelle altre lezioni di Aalea, questo
ragazzo ballava bene. Per un attimo, Mia si ritrovò sollevata e cullata tra le
sue braccia, in mezzo a piroette, casquè e dondolii mentre la musica
sembrava crescere ancora di intensità e tutto il mondo circostante
scompariva. Per un attimo, lei non fu Mia Corvere, figlia di una casata
sterminata, con la gola riarsa dalla sete di vendetta. Non fu un’assassina alle
prime armi o la servitrice di una dea. Fu solo una ragazza. E lui un ragazzo.
I loro occhi ciechi a tutto tranne a ciascun altro. E la voce di Aalea le
riecheggiava nelle orecchie.
“Divertitevi, miei cari. Ridete. Amate. Ricordate com’è vivere, e
dimenticate, anche solo per un momento, com’è servire.”
«Inviti, prego.»
Mia si accorse che la musica si era fermata. La sala era silenziosa. Si
voltò e si ritrovò a guardare tre legionari Luminatii, adornati con corazze di
necrosso lucidate. La corporatura del loro capo ricordava un muro di
mattoni. Freddi occhi blu guardarono dritto Tric.
«Inviti» ripeté.
Tric lanciò un’occhiata a Mia e infilò una mano nella tasca della giacca.
«Ma certo…»
Il centurione schioccò le dita e indicò Ashlinn e Osrik, che
gironzolavano ai margini della folla. «Anche loro. Chiunque abbia le
lacrime di sangue.» Ora i soldati si stavano sparpagliando tra gli ospiti
stupefatti, isolando gli accoliti che indossavano le maschere di Aalea. Zitto.
Pip. Jessamine. Petrus. Carlotta.
Tric stava frugando in tasca, ma tirò fuori solo pezzetti di polvere.
«Sono sicuro che un attimo fa ce l’avevo…»
Mia mise la mano nella tasca nascosta dentro il corsetto. Ma dove il suo
invito era stato riposto al sicuro, anche lei trovò solo una manciata di
polvere. Come se…
“Come se…”
«Come pensavo» dichiarò il centurione. «Venite con noi, Bara
Donacoccole.»
Una mano si serrò sul gomito di Tric. E sul polso di Mia, che lanciò
un’occhiata a Osrik proprio mentre Ashlinn veniva presa per la spalla. Mia
intravide delle manette, lo scintillio dell’acciaio. Gli ospiti che li
circondavano erano sconvolti che la loro festa fosse stata interrotta e il
pretore Marconi pretendeva di sapere chi osasse disturbare la pace della sua
casa. Ma in un batter d’occhio, l’illusione di quella pace andò in frantumi.
Tric afferrò la mano che l’aveva agguantato, piegò all’indietro il braccio
dell’uomo e lo ruppe all’altezza del gomito. Mia estrasse uno stiletto dal
bustino e pugnalò al polso il Luminatii che la teneva stretta. Udì uno
schianto e un urlo strozzato quando Jessamine spaccò il suo calice in faccia
a un legionario. Osrik ruggì con quanto fiato aveva in corpo.
«Via! Via!»
Mia attaccò con lo stiletto, ferendo un altro centurione che cercava di
afferrarla. Tric era già lontano, e stava schizzando per la sala e sbattendo via
uomini e donne mentre correva tra la folla. Afferrò un vassoio di bevande a
mezz’aria e lo scagliò contro una finestra, i cui pannelli esplosero con uno
schianto immediatamente dopo, quando fu lui a gettarcisi attraverso. Mia lo
seguì a ruota, sibilando di dolore nell’istante esatto in cui il suo braccio fu
squarciato dall’intelaiatura seghettata. Ruzzolò sulla sottile striscia d’erba
che correva lungo il lato del palazzo, atterrò sopra Tric e gli tolse il fiato dai
polmoni con un uffff.
«Fermi!» giunse un urlo. «Fermi, nel nome della Luce!»
Mia tirò in piedi Tric sussultando di dolore, il braccio ricoperto di
sangue. I due scattarono per il vicolo, alle loro spalle rumore di vetri
infranti e grida d’allarme. Mia udì una finestra esplodere al piano superiore
e vide Zitto balzare sull’edificio opposto e correre sul tetto, la giacca bianca
ora schizzata di rosso. Dietro di loro risuonarono stivali pesanti. Venti
pungenti sulla sua pelle. I due arrivarono all’alta recinzione in ferro battuto
che circondava i terreni del palazzo e Tric la superò volteggiando con
fluidità.
«Andiamo!» sibilò.
Mia si guardò alle spalle e vide quattro Luminatii correre verso di lei,
impugnando spade fiammeggianti di solacciaio. Ma, a quanto pareva, gli
abiti da sera non erano i vestiti migliori per un inseguimento disperato,
tanto meno per scavalcare recinzioni alte dieci piedi. Mia tagliò l’abito con
il suo stiletto, aprendo uno squarcio sulla coscia. Poi si lanciò verso la
recinzione, superandola proprio mentre una spada lunga fiammeggiante
fischiava nell’aria, tranciando ferro battuto in globuli fusi. Il braccio di Tric
guizzò attraverso le sbarre e la sua lama scintillò di rosso. Mia udì la
guardia lanciare un grido di dolore. Finì sull’acciottolato vicino a lui e
fuggirono con uno scatto nel vento gelido.
«Dove?» ansimò Tric.
«Da Aalea» replicò lei a fatica.
Tric annuì e scattò lungo il molo, facendo finire un povero servitore in
acqua con un calcio per requisire la sua gondola. Mia si lasciò cadere
accanto a Tric, che li traghettò lungo il canale, vogando con foga mentre
mezza dozzina di Luminatii saltava nell’imbarcazione dietro di loro per
continuare l’inseguimento. Tric fece virare la gondola verso il palazzo dove
avevano incontrato la Shahiid. Non c’erano Mani lì fuori, né luci alle
finestre. Precipitandosi attraverso le doppie porte, scoprirono che l’atrio e la
stanza dove si erano vestiti erano vuoti. L’aria era polverosa. Fredda. Come
se nessuno avesse messo piede in quella casa da anni.
Stivali pesanti. La porta principale si spalancò. Mia imprecò, afferrò la
mano di Tric e si affrettò verso l’uscita posteriore, sbucando in uno stretto
vicolo che correva lungo il retro dell’edificio. Udirono grida alle loro spalle
e lo sferragliare d’acciaio. Dal canale più avanti giunse un suono di
fischietti, urla per chiamare i rinforzi, passi pesanti. Tric sfondò con un
calcio la porta delle cucine di un altro palazzo e i servitori strillarono
quando lui e Mia fecero irruzione per poi correre nell’atrio, aprire con una
spallata l’ingresso principale e continuare lungo una strada lastricata.
Il braccio di Mia zampillava sangue. Tric ansimava e si reggeva il
fianco. Mia vide una bruciatura sulla sua giacca e fiutò odore di carne
ustionata. A un certo punto dello scontro presso la recinzione, Tric doveva
aver assaggiato il solacciaio, e la sua redingote era intrisa di sangue.
«Va tutto bene?» sbuffò lei.
«Continua a correre!»
«’Fanculo correre» sbottò Mia. «Indosso un maledetto bustino!»
La ragazza si lanciò sulla scaletta di una carrozza di passaggio, poi si
lasciò cadere a cassetta accanto a un cocchiere dall’aria stupefatta che
indossava la livrea di una qualche casata minore.
«Salve» disse lei.
«Sal…»
Gli assestò una gomitata in pancia, poi lo fece volar via dal sedile con un
gancio e l’uomo finì ruzzolando sul selciato. Mia diede uno strattone ai
cavalli, che si fermarono con un nitrito, poi si tolse il vultus e si girò per
guardare Tric con un sopracciglio sollevato.
«La vostra carrozza vi attende, Meus Dominus.»
Tric balzò sulla scaletta posteriore e Mia fece schioccare le redini contro
la schiena dei cavalli proprio mentre un quartetto di Luminatii ansimanti
spuntava sulla via dietro di loro. La carrozza si avviò veloce lungo la strada,
saltellando e sobbalzando sui ponti e sul lastricato. Mia imprecò quando per
poco non volò via dal suo posto. Il legato midollano a cui apparteneva la
carrozza mise la testa fuori dal finestrino per vedere cosa fosse tutto quel
trambusto e trovò una ragazza con un abito da sera strappato dove avrebbe
dovuto esserci il suo cocchiere. Quando aprì bocca per protestare, lei si girò
a guardarlo, la pelle macchiata di sangue e gli occhi stretti, un gatto fatto di
quelle che potevano essere ombre appollaiato sulla sua spalla.
L’uomo rimise dentro la testa senza una parola.
«… be’, tutto questo è tonificante, vero…?»
«È un modo per descriverlo.»
«… sembra che tu abbia perso metà del tuo vestito…»
«Gentile da parte tua notarlo.»
«… anche se visto il modo in cui danzavi con quel ragazzo, immagino
che perderne solo metà sia una delusione…»
Mia alzò gli occhi al cielo e frustò i cavalli più forte.
Abbandonarono la carrozza a sud delle Anche. Mia balzò sul selciato e
inclinò il suo tricorno in direzione dello smarritissimo proprietario della
carrozza. A cassetta, Mia aveva subito i morsi del vento gelido, e le sue
labbra stavano diventando blu. Stava di nuovo per pentirsi del vestito che
aveva scelto quando Tric si tolse la redingote e, senza una parola, gliela fece
scivolare attorno alle spalle. Era ancora calda per essere stata premuta
contro la pelle di lui.
Corsero per vicoletti e ponticelli, zigzagando verso sud in direzione della
Baia dei Macellai. Arrivati alla Porcheria, si intrufolarono all’interno e
salirono in silenzio le scale fino al piano ammezzato sopra il mattatoio ora
silenzioso.
A Mia girava la testa a causa dell’emorragia: il sangue le colava dal
braccio e aveva intriso la manica della redingote di Tric. Anche il gilè e le
brache di Tric erano insanguinati, la sua mano premuta contro un brutto
squarcio al fianco. Avevano le facce pallide e sofferenti, la musica, il ballo,
il liquore e i sorrisi già un ricordo lacero. Erano fuggiti salvandosi a
malapena la vita. Scesero furtivi per la scala a chiocciola mentre la puzza di
rame e sale si insinuava nelle loro narici, giù, sempre più giù nella camera
ricoperta di sangue.
La Shahiid Aalea li stava aspettando.
L’abito elegante, il bustino di dracosso, la graziosa bauta… tutto era
sparito. Era vestita di nero, con fiumi di capelli corvini a incorniciare quel
volto pallido a forma di cuore. L’unico colore era il suo sorriso. Rosso come
il sangue che colava dal braccio di Mia.
«Vi siete divertiti a recitare il ruolo di persone, amori miei?» chiese.
«Voi…» Tric trasalì, ancora ansimante. «Voi…»
La Shahiid camminò sulle piastrelle verso di loro. Tolse la mano di Tric
dalla sua ferita e fece un puah. Poi baciò i polpastrelli insanguinati di Mia.
«Il nostro dono per voi» disse. «Un promemoria. Giocate tra loro.
Vivete, ridete e amate tra loro. Ma non dimenticate mai, nemmeno per un
momento, cosa siete.»
Aalea lasciò andare la mano di Mia.
«E non dimenticate mai cosa significa servire.»
La Shahiid fece cenno verso la pozza.
«Felice Gran Tributo, bambini.»

a. Le varie ferite riportate dal gregge durante la prova di lealtà di lord Cassius ormai erano
praticamente guarite e, con disappunto di Mia, i mormorii di Pip con il suo coltello ripresero, più
frequenti di prima.
b. La ritrattistica liisiana è generalmente considerata la migliore di tutta la Repubblica, e i migliori
artisti possono far pagare piccole fortune per le commissioni. Vaiello, un famoso artista vissuto
alla corte di Francisco XIV, raggiunse una ricchezza talmente spaventosa che si diceva potesse
comprare il regno due volte. Purtroppo, dopo un incidente che coinvolse una bottiglia di vino di
troppo, il secondo figlio di Francisco, Donatello, un letto a baldacchino e un frustino, Vaiello si
ritrovò a essere incriminato per tradimento e condannato a morte.
Com’era prevedibile, l’esecuzione di Vaiello portò a un aumento spropositato del valore dei
suoi dipinti, e i midollani che li possedevano si ritrovarono con un piccolo capitale.
Inaspettatamente, però, ciò portò anche a un’improvvisa ondata di omicidi di famosi artisti liisiani,
dato che certi nobili scaltri cercarono di accrescere il valore delle proprie collezioni uccidendo i
poveri bastardi che le avevano dipinte. I pittori cominciarono a cadere come mosche e, nei mesi
successivi alla morte di Vaiello, quello del “ritrattista” divenne il mestiere più pericoloso del
regno.
Questa ondata di pittoricidi portò a una spaventosa impennata del prezzo delle nuove opere,
dato che ora c’erano meno maestri disponibili per dipinti su commissione. Rendendosi conto che
il loro valore era cresciuto, questi maestri cominciarono anche a istruire meno apprendisti, cosa
che condusse a prezzi ancora maggiori. Al culmine della crisi, si diceva che la tariffa corrente per
un normale ritratto consistesse in due possedimenti di medie dimensioni nella Valentia superiore e
in una figlia primogenita. A questo sfacelo si pose fine solo quando intervenne re Francisco,
commissionando l’istituzione di due accademie per istruire artisti liisiani (una a Godsgrave e una
seconda, più rinomata, a Elai) e, simultaneamente, dichiarando che l’omicidio di un artista liisiano
era un crimine punibile con la crocifissione.
Questo incidente, a proposito, viene ancora illustrato al Gran Collegio di Godsgrave come una
perfetta rappresentazione delle leggi di domanda e offerta. In onore di Vaiello, è soprannominato il
“Principio del frustino”.
CAPITOLO 20
FACCE

Solo uno di loro non tornò vivo da Godsgrave, un ragazzo con i capelli
scuri e un sorriso con le fossette di nome Tovo. Fu tenuta una messa
silenziosa per lui nella Sala degli Elogi.
Una pietra senza iscrizioni.
Una tomba vuota.
Mia non udì mai più menzionare il suo nome.
Mentre il coro cantava e la Reverenda madre pronunciava parole di
supplica alla dea di pietra sopra di loro, Mia cercò di trovare dentro di sé un
senso di colpa. Di domandarsi chi fosse questo ragazzo e perché fosse
morto lì. Ma spostando lo sguardo tra gli altri accoliti, con gli occhi freddi e
le labbra tirate, seppe cosa stava pensando ciascuno di loro.
“Meglio lui di me.”
Le settimane passarono, nessuno parlò più del Gran Tributo, niente più
ringraziamenti. Sembrava che la mascherata avesse sottratto l’ultimo alito
di leggerezza da quelle mura. La Tessitrice continuava il suo lavoro,
scolpendo gli altri in opere d’arte, ma non c’erano più sorrisi e occhiolini,
contatti e tentativi di seduzione. Se non l’avevano capito prima, ora
sapevano che questo non era più un gioco.
Il cambio successivo a quando Diamo si era sottoposto alla sua tessitura,
Mia notò che Tric aveva saltato Tasche. Dopo una scrupolosa lezione di
Mouser sull’arte delle trappole a polvere e come evitare le stesse, lei salì
una scala a chiocciola e trovò il ragazzo dweymeri nell’Aula di Canti. Era a
torso nudo, lustro di sudore. Aveva in mano un paio di spade di legno, con
cui si accaniva su un fantoccio da addestramento talmente forte che la
vernice stava praticamente urlando.
«Tric. Hai perso la lezione di Mouser.»
Il ragazzo la ignorò. Ampi colpi spazzanti impattarono contro la figura di
legno, quel crac, crac, crac che riecheggiava nell’aula vuota. Il suo torace
nudo scintillava e le salciocche gli pendevano madide attorno alla faccia.
Mezza dozzina di spade da addestramento rotte giaceva per terra accanto a
lui. Doveva essere lassù da tutto il cambio…
«Tric?»
Mia gli prese il braccio, facendolo fermare. Il ragazzo si girò quasi
ringhiando e strappò il braccio dalla sua stretta. «Non toccarmi.»
La ragazza sbatté le palpebre, colta alla sprovvista dalla rabbia nei suoi
occhi. Li ricordò quando l’avevano guardata mentre danzavano, le dita di
Tric intrecciate alle sue…
«Va tutto bene?»
«… Sì.» Tric si asciugò gli occhi e inspirò a fondo. «Spiacente.
Iniziamo.»
I due si misero in posizione nel cerchio per le esercitazioni sotto la luce
dorata dell’aula. Con le spade di legno in pugno, cominciarono a lavorare
sul Caravaggio di Mia. a Ma dopo solo pochi minuti, divenne evidente che
Tric non era dell’umore adatto per insegnare. Ringhiava come un lupo coi
postumi di una sbornia quando Mia commetteva un errore, urlava quando
faceva un passo sbagliato e finì per colpirle l’avambraccio con la spada così
forte da spaccarle la pelle.
«Madre Nera!» Mia si tenne stretto il polso. «Mi hai fatto male, cazzo!»
«Non dovrebbe certo fare il solletico» replicò Tric. «Abbassa la guardia
così contro Jessamine e lei ti taglierà la gola.»
«Ascolta, se vuoi dirmi il motivo per cui sei incazzato, ti ascolterò. Ma
se stai cercando qualcosa su cui sfogarti, ti lascerò con i fantocci da
addestramento.»
«Non sono incazzato, Mia.»
«Ma davvero.» Sollevò il polso insanguinato.
«Mi hai chiesto di insegnarti: ti sto insegnando.»
Mia sospirò. «Questa stronzata della facciata stoica sta diventando
stancante, Dominus Tric.»
«Fottiti, Mia!» tuonò lui, lanciando via le sue spade. «Ho detto che non
ho nulla!»
Mia si fermò di colpo quando le lame sbatacchiarono nel cerchio di
esercitazione. Scrutò gli occhi di Tric. L’orribile inchiostro scarabocchiato
sulla sua pelle. Le cicatrici al di sotto. Si rese conto che era l’unico accolito
che non era stato ancora sottoposto al tocco della Tessitrice.
«Ascolta» sospirò lei. «Potrò non essere la più sveglia quando si tratta
dei problemi altrui. E non voglio impicciarmi. Ma se vuoi tirare fuori
qualcosa di ciò che ti assilla, io sono qui.»
Tric si accigliò e fissò il vuoto. Mia usò lo stratagemma dell’attesa,
lasciando che fosse il silenzio a porre la domanda per lei. Dopo un’eternità
di broncio taciturno, finalmente Tric parlò.
«Lo porteranno via» disse.
«… Non capisco.»
«Non serve che tu capisca.»
«Potrebbe non servire.» Mia mise da parte la sua spada. «Però mi
piacerebbe comunque.»
Tric sospirò. Mia si sedette a gambe incrociate e diede una pacca alla
pietra accanto a sé. Accigliato e dannatamente prossimo a mettere il muso,
il ragazzo si inginocchiò dov’era e si piantò sul pavimento. Mia si trascinò
più vicina, quanto bastava perché lui sapesse che era lì. Rimasero seduti
senza parlare per lunghi, interminabili minuti. Nel completo silenzio
dell’aula che prendeva il nome dal canto.
Le sembrò stupido. Qui più che in qualunque altro posto. Questa era una
scuola per assassini alle prime armi. Gli accoliti stavano cadendo come
mosche. Entro domani Tric avrebbe potuto essere morto. Eppure eccola qui,
che cercava di indurlo a confidarsi sui suoi sentimenti…
“Madre Nera, è peggio che stupido. È ridicolo.”
Ma forse era proprio quello il punto? Forse era proprio come aveva detto
Naev. Di fronte a tutta questa insensibilità, forse lei doveva aggrapparsi alle
cose importanti? E guardando questo strano ragazzo, con i capelli arruffati
che gli pendevano davanti agli occhi tormentati, Mia si rese conto che lui
era importante.
Era importante per lei.
«Non ho ucciso io Chiamapiena» disse infine Tric.
Mia sbatté le palpebre. A dire la verità, con tutte le morti avvenute da
allora, si era quasi dimenticata dell’omicidio del ragazzo dweymeri la loro
prima sera in quel luogo.
«… Ti credo.»
«Volevo farlo. Ma qualcuno mi ha preceduto.» Le lanciò un’occhiata in
tralice. La voce trasudava rabbia. «Mi ha chiamato koffi, Mia. Sai cosa
significa?»
Per un momento, lei non riuscì a trovare la voce. «Figlio dello…»
«Stupro» sbraitò Tric. «Figlio dello stupro.»
Mia sospirò dentro di sé.
“È vero, allora.”
«Tuo padre era un pirata dweymeri? Tua madre…»
«Mia madre era la figlia di un Bara.»
«… Cosa?»
«Una principessa, se vuoi crederci.» Tric ridacchiò. «Ho sangue reale,
io.»
«Un Bara?» Mia si accigliò. «Tua madre era dweymeri?»
Mia non capiva. Stando a quanto aveva letto, erano i signori dei pirati
dweymeri e i loro equipaggi a stuprare e saccheggiare. Ma se la madre di
Tric era dweym…
«Si chiamava Camminaterra. Terzogenita del nostro Bara, Spezzaspada.»
Tric sputò il suo nome come se sapesse di rancido. «Non era molto più
grande di quanto sei tu ora. Viaggiava a Farrow per l’annuale Festival dei
Cieli. Ci fu una tempesta. Finì per fare naufragio su uno scoglio con
un’ancella e un nostromo. Tre sopravvissuti su cento.
«Fu ritrovata da un peschereccio itreyano. Il capitano li caricò a bordo.
Diede il piccolo in pasto ai drachimarini. Stuprò mia madre e la sua ancella.
E quando scoprirono chi era, mandarono un messaggio a mio nonno
dicendo che l’avrebbe potuta riavere indietro in cambio del suo peso in
oro.»
«Denti della Mannaia.» Mia gli strinse forte la mano. «Mi dispiace così
tanto, Tric.»
Lui sorrise amaramente. «Dirò solo una cosa su mio nonno. Amava le
sue figlie.»
«Pagò?»
Tric scosse il capo. «Scoprì dov’erano rintanati e rase al suolo con il
fuoco l’intero insediamento. Uccise ogni uomo, donna e bambino. Ma
riottenne sua figlia. Nove mesi dopo, ebbe un nipotino. E ogni volta che mi
guardava in faccia, vedeva mio padre.»
Mia fissò gli occhi del ragazzo, provando un dolore al petto.
“Nocciola, non marrone.”
«Non è quello che sei, Tric.»
Il ragazzo la fissò a sua volta, il racconto che gli moriva sulle labbra.
Qualcosa nell’aria cambiò, qualcosa nello sguardo di lui accese una fiamma
nella pancia di Mia. Quegli occhi senza fondo. Quello scarabocchio d’odio
sulla sua pelle. Il cuore le martellava nel petto. I palmi le sudavano nei suoi.
Tremava.
«… mia…»
Tremava, proprio come l’ombra ai suoi piedi.
«… mia, attenta…»
«Bene, bene.»
Mia sbatté le palpebre quando l’incantesimo del silenzio si infranse.
Jessamine era in cima alle scale, Diamo al suo fianco. La rossa era vestita
per esercitarsi: cuoio nero e una tunica senza maniche. L’imponente
tirapiedi della ragazza le torreggiava accanto, con qualcosa di orrendo che
indugiava nello sguardo. b
Jessamine agganciò i pollici alla cintura ed entrò nell’aula.
«Mi chiedevo come passassi le tue illuminotti, Corvere.»
Mia si alzò in piedi e fissò intensamente la ragazza. «Non sapevo che ti
importasse, Jess.»
La rossa si guardò attorno: fantocci da addestramento e spade a pezzi.
«Ti stai esercitando?» la schernì. «Faresti meglio a pregare.»
«Le mie scuse.» Mia si accigliò, osservando il pavimento come se stesse
cercando qualcosa. «Sembra che abbia smarrito il cazzo che me ne frega di
quello che pensi…»
Jessamine si tenne le costole e rise sguaiatamente per mezzo secondo.
Poi il sorriso lasciò il suo volto per infrangersi come vetro sulla pietra.
«Credi di essere divertente, puttana?» chiese Diamo.
«Oh, puttana.» Mia annuì. «Davvero creativo. Il prossimo? Baldracca?
No, troia, giusto?»
Diamo rimase sorpreso. Mia riusciva praticamente a vederlo eliminare
quelle parole dalla sua lista mentale di insulti e rimanere a secco. Tric era in
piedi accanto a lei, squadrando il grosso Itreyano, ma Mia gli mise una
mano sul braccio. Era improbabile che Jessamine tentasse qualcosa qui, e
Mia era sempre felice di duellare con l’arguzia. Avrebbe mandato quei due
a casa zoppicanti.
«Cosa vuoi, Rossa?»
«Il tuo teschio sugli scalini della Casa del Senato accanto a quello di mio
padre» replicò Jess.
Mia sospirò. «Julius Scaeva ha giustiziato mio padre proprio come ha
fatto col tuo. Questo ci rende alleate, non nemiche. Entrambe odiamo la
ste…»
«Non parlarmi di odio» ringhiò la ragazza. «Tu non l’hai mai assaggiato,
Corvere. La mia intera familia è morta per colpa di quel fottuto traditore di
tuo padre.»
«Chiama mio padre traditore ancora una volta,» sibilò Mia «e rivedrai la
tua familia prima di quanto ti piacerebbe.»
«Sai, è divertente» sorrise Jessamine. «La tua amichetta Ashlinn vincerà
di gran lunga nella gara di furto di Mouser. È evidente che ha la capacità di
intrufolarsi in qualunque stanza di questa montagna. Pensavo che le avessi
chiesto di prendersi cura della questione per te. Ma mi sono introdotta
nell’aula di Mouser una settimana fa e che sia dannata se non era ancora
lì…»
Mia roteò gli occhi. «Quattro Figlie, cosa stai blaterando?»
Il sorriso di Jessamine era tagliente come acciaio nuovo. Allungò la
mano nel colletto della sua tunica senza maniche ed estrasse qualcosa che
roteò e scintillò nella luce fioca.
«Oh, nulla di importante.»
Mia avvertì un sussulto nauseante nello stomaco. Uno spasmo di dolore.
Un bagliore accecante. E mentre indietreggiava ondeggiando, con una mano
a schermarsi gli occhi, distinse la forma di tre cerchi, oro rosa, platino e oro
giallo, che scintillavano su una catenella.
“Oh, dea…”
La Trinità di Mouser. Il medaglione sacro, benedetto dalla Mano Destra
di Aa.
Mia barcollò mentre Jessamine veniva avanti, il sorriso sempre più largo.
Il terrore la inondò in fredde ondate e Messer Cortese trasalì nella sua
ombra. E anche se i soli facevano brillare solo una piccola luce dal vetro
colorato sopra di loro, a Mia sembrava abbagliante. Bruciante. Ustionante.
Mentre Jessamine continuava ad avanzare, Mia crollò in ginocchio, la
bocca piena di bile. Tric afferrò la sua spada da addestramento e ringhiò.
«Metti via quel dannato affare, Jess.»
La ragazza fece una smorfia di delusione. «Ci stiamo solo divertendo un
po’, Trucco.»
«Ti ho detto di metterlo via!»
La ragazza fece un altro passo in avanti verso Mia, i soli che
scintillavano. Tric sollevò la spada da addestramento e Diamo avanzò per
fronteggiarlo, le mani come magli che fremevano. I ragazzi passarono alle
maniere forti: Tric vibrò la lama di legno con un sonoro crac contro
l’avambraccio di Diamo, che grugnì di dolore e rispose con un pugno. I due
cominciarono ad azzuffarsi, tra colpi vibrati con le nocche, gomitate e
insulti. Ma nel frattempo Jessamine stava avanzando e Mia ora stava
strisciando all’indietro sulla pietra, con il vomito che le gorgogliava nella
gola.
Era inerme. La paura di Messer Cortese si riversava nella sua,
raddoppiandola. Triplicandola. Andò a sbattere con la schiena contro
qualcosa di duro e si rese conto di essere arrivata alla parete. Chiuse gli
occhi per non vedere quell’orrenda luce bruciante. L’oscurità attorno a lei si
contorse, avvizzendo come fiori rimasti al sole troppo tempo. E mentre
Jessamine era sempre più vicina e Mia avvertiva la luce premere su di lei
come un peso fisico, con il cuore che le martellava così forte da minacciare
di balzarle fuori dal petto, Messer Cortese si strappò via dalla sua ombra.
Si liberò con uno strattone e corse.
«Messer Cortese!»
L’ombra schizzò lungo il pavimento, sibilando mentre fuggiva. Lungo la
pietra. Giù per le scale. Scomparve alla vista mentre Mia urlava e il terrore
la sommergeva con ondate violente. Tentò un debole calcio alle gambe di
Jessamine e la ragazza rise mentre si scostava. Mia riuscì a sentire Tric
urlare. Il battito del cuore le esplodeva nelle orecchie. Dolore. Terrore così
nero che pensava di poter morire. E proprio quando stava diventando
troppo, proprio quando quella luce orrenda minacciava di accecarla…
«Nel nome della Madre, cosa sta succedendo qui?»
Jessamine si voltò e il suo corpo oscurò la luce. Tra la nausea e le
lacrime brucianti, Mia riuscì a vedere lo Shahiid Solis in piedi nel cerchio
di addestramento, le grosse braccia incrociate e gli occhi bianchi fissi sul
nulla. Tric e Diamo si rialzarono dal pavimento, mentre Jessamine faceva
scivolare di nuovo la collana dentro la tunica. Ora che i soli non erano più
visibili, il dolore che squassava il corpo di Mia si placò quasi all’istante. Ma
adesso che Messer Cortese se n’era andato, la paura rimaneva, strisciando
come una marea untuosa nelle sue viscere. Si rialzò in piedi ondeggiando,
le pulsazioni accelerate, guardandosi attorno nella penombra. Non riusciva
a vedere alcun segno del suo amico.
«Ho fatto una domanda, accoliti» ringhiò Solis.
Ignorando lo Shahiid di Canti, Mia costeggiò il muro, lontano da
Jessamine. Occhi ciechi si voltarono verso i suoi passi, ma lei riuscì ad
arrivare fino all’arcata e scattò giù per le scale su gambe tremanti. Udì Solis
tuonare ed esigere una spiegazione. Tric la chiamò, ma lei lo ignorò e
proseguì barcollando nell’oscurità.
«Messer Cortese?»
Nessuna risposta. Nessuna percezione del suo amico. Solo la paura…
quell’ormai dimenticato, opprimente peso della paura. Le tremavano le
mani. Le fremeva il labbro. Si rese conto che l’aveva abbandonata.
“Mi ha abbandonata…”
«Messer Cortese!»
«Mia, fermati!» la chiamò Tric, scendendo a passi pesanti le scale dietro
di lei.
La ragazza lo ignorò e si precipitò per i corridoi contorti e nella
penombra rischiarata dai vetri colorati, urlando il nome dell’umbragatto.
«Fermati!» Tric l’afferrò per il braccio.
«Lasciami andare!»
«Questo posto è un dannato labirinto. Potrebbe essere ovunque.»
«Ecco perché devo trovarlo!» Si voltò e gridò all’oscurità. «Messer
Cortese!»
«Si è solo preso uno spavento, tutto qua. Tornerà quando sarà pronto.»
«Non puoi saperlo! Quei soli, quella puttana… l’hanno ferito.»
«Allora qual è il tuo piano? Vagare al buio in cerca di una creatura che è
fatta di oscurità? Pensa, per un minuto!»
Mia sbatté forte le palpebre. Cercò di riprendere fiato. Di lottare con la
paura. Il peso. Il brivido. Dea, era così tanto… e lei non lo provava da
un’eternità. Fin da quando lo aveva trovato raggomitolato in quel barile e le
aveva dato il coltello che le aveva salvato la vita. Ma ciò che Tric aveva
detto fuori dalla montagna era corretto: si era appoggiata a tal punto
all’umbragatto che aveva dimenticato come affrontare tutto questo da sola.
Le tremavano le gambe. Aveva la pancia piena di ghiaccio oleoso. Chiuse
gli occhi, imponendosi di calmarsi. La paura la respinse con una risata. Era
grande. Era troppa.
Lui l’aveva abbandonata. Per la prima volta da quando riusciva a
ricordare.
“Sono sola…”
«Oh, dea» sussurrò. «Oh, dea, aiutami…»
Era sospesa lì al buio. Incapace di andare avanti. Troppo spaventata per
rimanere ferma. L’immagine di quei maledetti soli fluttuava dietro le sue
palpebre ogni volta che sbatteva gli occhi. Riusciva ancora a percepirlo.
Quell’odio impossibile. I tre occhi del Semprevigile, che la bruciavano
tanto da accecarla. Cosa aveva fatto per meritarselo? Cosa c’era di sbagliato
in lei? E cosa avrebbe fatto se lui non fosse tornato?
E poi percepì qualcosa. Braccia forti che la avviluppavano. Che la
tenevano stretta. Tric la premette contro il suo petto, avvolgendola.
Lisciandole i capelli. Tenendola vicino a sé.
«Va tutto bene» mormorò. «Andrà tutto bene.»
Mia si concentrò sul calore della sua pelle nuda. Sul battito del suo
cuore. Chiuse gli occhi. Respirava e basta. Era calda, al sicuro e non così
sola. La ricacciò indietro. La paura. Lentamente. Ogni pollice era come un
miglio. Ma la spinse via, giù fino in fondo ai piedi, e la calpestò con quanta
forza poteva. Cercò di capire cosa volesse dire tutto questo. Perché quei soli
la ustionassero. Cosa avesse fatto per suscitare l’odio di un dio. Cosa avesse
spaventato a tal punto una creatura che si nutriva della paura stessa.
«Troppe domande» sussurrò. «Non abbastanza risposte.»
«Allora, cos’hai intenzione di fare?»
Mia tirò su col naso e deglutì. Mise entrambe le mani contro il petto di
Tric e, radunando tutta la forza che le rimaneva, si spinse via. Alzò lo
sguardo nei suoi occhi, con il cuore che ancora le martellava nel petto. Le
sue labbra erano solo a pochi pollici da quelle di Tric.
«… Mia?»
La ragazza inspirò a fondo. Abbassò lo sguardo sulla propria ombra sulla
pietra e scoprì che era scura proprio quanto quella del ragazzo accanto a lei.
Non era più buia. E lì, in quel nero, finalmente si aggrappò alla risposta al
suo enigma.
«Credo sia arrivato il momento di reclutare l’uomo più pericoloso tra
queste mura» disse.
Tric spostò di nuovo lo sguardo verso l’Aula di Canti e lo Shahiid da cui
erano appena fuggiti. «Pensavo che fossimo appena scappati da lui.»
Mia provò a sorridere.
Si accontentò di scrollare il capo.
«È evidente che non hai trascorso abbastanza tempo con i bibliotecari,
Dominus Tric.»

a. Antony Caravaggio, uno degli spadaccini più temuti della sua epoca, fu un duellante alla corte di re
Francisco III. Un famigerato libertino con la predilezione per giovani dominae di un certo livello,
Caravaggio si batté in non meno di quarantatré duelli nel corso della sua vita, e si dice che procreò
quattordici bastardi. Caravaggio combatteva con lame gemelle – una per ciascuna mano –, dando
vita all’arte della doppia arma a cui infine fu dato il suo nome.
Ironia della sorte, la sua predilezione per le gemelle si rivelò anche la sua rovina: fu ucciso in
un duello da Dominus Lentilus Varus dopo aver trascorso una notte di ebbra passione con le figlie
gemelle dello stesso Varus, Lucilla e Lucia. Stando ai resoconti, ancora sbronzo e troppo esausto
per sollevare il suo fioretto, fu infilzato dal suo avversario piuttosto facilmente, una fine ingloriosa
per un tale virtuoso della lama.
Si narra che le sue ultime parole furono: “Ne valeva la pena…”.
b. Anche se Marielle fece uno splendido lavoro nel tessere il volto del ragazzo, ogni volta che lo
esaminava Mia si rendeva conto che trovava Diamo ancora un tantino repellente. C’era qualcosa
nello sguardo del ragazzo itreyano, qualcosa di freddo e crudele che lei percepiva come
assolutamente sgradevole.
Se è vero che gli occhi sono una finestra sull’anima, quella di Diamo si apriva su una cella
senza luce e ricoperta di paglia.
CAPITOLO 21
PAROLE

I due fecero una sosta solo il tempo sufficiente per far prendere un’altra
camicia a Tric e controllare nella stanza di Mia se ci fosse qualche segno
dell’umbragatto. Lei aveva cercato nel buio sotto il letto, negli angoli e
negli armadi, ma non avendo trovato nulla si erano precipitati fuori
nell’oscurità delle scale a chiocciola. Suonarono le campane dell’ultimo
pasto, ma Tric e Mia si diressero lontano dall’Altare del Cielo, più in
profondità nelle tenebre, finché non arrivarono all’Ateneo. Le porte
torreggiavano sopra di loro, alte dodici piedi e spesse uno, e si aprirono in
silenzio al tocco di un dito della ragazza.
Un profumo familiare la prese e la riportò a cambi più felici:
raggomitolata nella sua stanza sopra la bottega di Mercurio, circondata da
montagne dei suoi amici più cari. Quelli che la portavano via dal dolore,
dalla luce sgargiante e dal pensiero di sua madre e del suo fratellino
rinchiusi in qualche cella buia.
“Libri.”
Mia abbassò lo sguardo ai suoi piedi e la sua ombra la precedette nella
biblioteca. Era ancora scura quanto quella di Tric. Nessuna differenza. Il
vuoto dentro di lei si impennò e snudò i denti, e per un attimo scoprì di
essere troppo spaventata per fare un altro passo. Ma infine, chiudendo le
mani a pugno, entrò nell’Ateneo e inalò l’odore di inchiostro, polvere,
cuoio e pergamena. Tric era in piedi accanto a lei, a dominare quel mare di
scaffali. Mia inspirò le parole. Centinaia, migliaia, milioni di parole.
«Cronista Aelius?» chiamò.
Nessuna risposta. In quel regno di inchiostro e polvere dominava il
silenzio.
«Cronista?» chiamò di nuovo. «Ehilà?»
Scese le scale in silenzio, fino al piano principale e la foresta di scaffali.
Quella stessa luminosità senza un’origine rischiarava la stanza, ma in
mezzo ai libri quella luce sembrava più fioca, le ombre più scure. Vagando
tra le pile, i due si ritrovarono circondati da tutti i lati. Scaffali neri
arrivavano fino al soffitto, pieni di pergamene elaborate e tomi impolverati,
grossi raccoglitori spessi e codici intagliati. Le voci di scribi e regine. Di
guerrieri e santi. Di eretici e dei. Tutti loro adesso erano immortali.
Si addentrarono più in profondità tra quelle cataste, chiamando il
Cronista e perdendosi tra le ombre. Gli scaffali erano un labirinto che
serpeggiava in ogni direzione. Tric si schiarì la gola e parlò, la voce che
riecheggiava nell’oscurità.
«Dovremmo davvero curiosare qui dentro da soli?»
Gli occhi di Mia vagavano per le cataste mentre il cuore le palpitava nel
petto. «Spaventato, mio coraggioso centurione?»
«Sono consapevole che recitare il ruolo arrogante della principessa dalla
lingua affilata è solo la tua tecnica di difesa naturale che prende il
sopravvento, ma vorrei farti notare che qui sono io ad aiutare te.»
Mia gli scoccò un’occhiata in tralice. «Già. Le mie scuse.»
«Cosa stiamo cercando?»
Mia inspirò a fondo. Scosse il capo.
«Quando Jessamine ha tirato fuori quei soli… è stato come se qualcuno
mi avesse dato fuoco. Come se la luce mi stesse bruciando fino a
incenerirmi. Non ci capisco nulla, e ne sono stanca. Questa è la biblioteca
più vasta che abbia mai visto. Se esiste un tomo sui tenebris da qualche
parte al mondo, dev’essere qui. Mi occorre sapere cosa sono, Tric.»
«Il tuo Shahiid non ti ha insegnato nulla su te stessa?»
«Suppongo che Mercurio sappia ben poco sui tenebris, come chiunque
altro qui. Il Culto dice di me che sono stata toccata dalla Madre, ma
nessuno di loro sembra sapere davvero cosa significhi. E lord Cassius è
stato collaborativo come una pila di mattoni quando gliel’ho chiesto a
Godsgrave.»
«Lord Cassius è un tenebris?»
«Lord Cassius è un bastardo.»
Mia si succhiò il labbro e scrollò le spalle con riluttanza.
«… Begli zigomi, però.»
La ragazza proseguì, continuando a chiamare il Cronista senza ottenere
risposta. Lesse attentamente le costole mentre passava e vide che molti libri
dell’Ateneo erano scritti in idiomi a lei sconosciuti. Alfabeti che non aveva
mai visto. Accigliandosi, si fermò davanti a uno scaffale pieno di tomi
particolarmente impolverati, poi strizzò gli occhi sui loro titoli. Ne esaminò
uno in particolare, un enorme manoscritto rilegato in cuoio nero, con lettere
argentee sulla costola.
«Ma è impossibile» mormorò.
Con uno sforzo, prese il pesante libro dallo scaffale. Si diresse a un
piccolo piedistallo di lettura in mogano e aprì delicatamente le pagine.
«Non può essere…»
Tric guardò sopra la sua spalla. «Sì. È proprio un libro.»
«Questo è Ephaesus. Il libro delle meraviglie.»
«Una lettura piacevole?»
«Non lo so. Ogni copia esistente fu ridotta in cenere nella Luce radiosa.
Questo libro… non dovrebbe esistere.» Lo sguardo di Mia vagò per le
cataste. «Guarda, lì c’è Eresie di Bosconi. E il trattato di Lantimo il vecchio
Su buio e luce.»
«Mia, comincio ad avere la sensazione che non dovremmo essere qua
dentro…»
La paura di Tric riecheggiava la sua, ma Mia vi si oppose più forte che
poteva. «La verità di ciò che sono dev’essere qui dentro da qualche parte.
Non me ne andrò finché non l’avremo trovata.»
«Forse dovremmo cominciare con la lettera S?»
«S?»
«S per snervante. S per stupida. S per strafottente.»
«S per Sta’ zitto.»
«Sì, è questo lo spirito.»
Ridere fu bello. Aiutò a scacciare il gelo dalla sua pancia. Ma Tric
tacque e il sorriso gli morì sulle labbra quando guardò accigliato l’oscurità.
«… L’hai sentito?»
«Sentito cosa?»
Mia inclinò il capo. E mentre se ne stava lì al buio, una debolissima
vibrazione rimbombò attraverso il pavimento, poi su per i suoi stivali, fino
ad arrivare alla base della spina dorsale.
«Questo l’ho sentito» sussurrò.
Sulle prime fu sottile, con i tomi che tremavano dove si trovavano. Ma
presto gli scaffali cominciarono a vibrare, i libri a mormorare, la polvere a
cadere in nuvole delicate. Mia scrutò le ombre mentre i tremiti
peggioravano e il pavimento sotto di loro sussultava. Adesso il suo cuore
batteva forte. Non sapeva quanto fossero in profondità all’interno del
labirinto, ma all’improvviso questo non sembrava il posto più saggio dove
trovarsi. Senza Messer Cortese nella sua ombra, la paura la assalì
rapidamente. La bocca si seccò. Le pulsazioni accelerarono.
«Nel nome della Madre, cos’è quello?»
Mia poteva sentire un suono ruvido. Come se una grossa mole fosse
trascinata sulla pietra. E poi un ruggito tonante riecheggiò da qualche parte
nel buio dell’Ateneo.
«Usciamo di qui, Mia.»
«… Sì» annuì lei. «Andiamo.»
Il suono trascinante crebbe d’intensità mentre i due si precipitavano
verso quella che Mia sperava fosse la direzione da cui erano venuti. Ma la
foresta di scaffali sembrava tutta uguale: si elevavano attorno a loro in file
anonime. I due sussultarono quando un altro ruggito risuonò nell’oscurità.
Tric afferrò la mano di Mia e si lanciò in uno scatto.
«Cos’è?»
«Non voglio nemmeno saperlo. Corri!»
Ora i libri parevano sul punto di cadere. Mentre Mia e Tric svoltavano
un angolo, lei si rese conto che erano incappati in un vicolo cieco. Con
un’imprecazione, tornarono sui loro passi mentre riecheggiava un altro
ruggito, stavolta più vicino. Troppo, per i suoi gusti. Non volendo avere
nulla a che fare con ciò che stava per accadere, Mia afferrò manciate di
ombre e le strappò via, avvolgendosi dentro di esse. E anche se non l’aveva
mai fatto prima, circondata da un’oscurità che non aveva mai conosciuto il
tocco di un sole, prese Tric per le spalle e lo trascinò dentro con sé,
avviluppandoli entrambi.
Mia tenne ben stretto Tric e si rannicchiò contro gli scaffali alle loro
spalle. Così da vicino, poteva sentire il cuore del ragazzo che gli palpitava
contro le costole, e si rese conto che lui era spaventato quanto lei. Quasi
cieco sotto quel sudario, Tric annusò l’aria e aggrottò la fronte.
«Cos’è?» bisbigliò lei.
«Non riesco ad annusarlo.»
«Per niente?»
Tric scosse il capo. «Tutto quello che percepisco sono i libri. E te.»
«Ora di farsi il bagno?»
«… È un invito?»
«Oh, vaffanc…»
Un altro ruggito. Più vicino. Qualunque cosa fosse, da sotto il mantello
loro non potevano vedere abbastanza bene per correre via: se avessero
provato a darsela a gambe, probabilmente sarebbero andati a sbattere con la
faccia contro uno scaffale. Così, Mia avvolse le braccia attorno a Tric e lo
tirò giù, per essere più piccoli possibile. La paura montò dentro di lei,
riempiendo il posto una volta occupato da Messer Cortese. Mia premette
contro la schiena del ragazzo e cercò di non rabbrividire.
Quel suono di trascinamento crebbe, umido e cigolante. Il pavimento
sotto di loro tremò. Oltre il suo velo fatto d’ombre, Mia vide qualcosa di
vasto muoversi lì davanti e strisciare sulla pietra. Colse l’impressione di una
lunga forma serpentina, con dozzine di teste rozze e arrotondate e file di
denti. Si muoveva tra gli scaffali come un bruco colossale, inarcando la
spina dorsale mentre si trascinava in avanti, annusando l’aria. Mia tenne
stretto il pugnale, tremando per la paura. Inveì contro se stessa: era una
smidollata. Una bambina.
Tric allungò una mano all’indietro senza parlare, afferrando la sua e
stringendo.
I minuti si trasformarono in un’eternità, in quel buio intriso di sudore.
Ma qualunque cosa fosse quella creatura, passò senza accorgersi di loro e
strisciò via lentamente tra gli scaffali. Mia e Tric si rannicchiarono assieme,
in ascolto finché non fu fuori portata d’udito, silenziosi come topi.
«Ora possiamo uscire di qui?» sibilò infine Tric.
«Penso… di ssssì.»
Gettando da una parte il manto d’ombra, aiutò Tric a rialzarsi. Mia si
arrampicò su uno scaffale e scrutò il mare di tomi in cerca di un’uscita dal
labirinto. Riuscì a vedere le porte dell’Ateneo in lontananza e sbatté forte le
palpebre per capire se fosse un trucco della luce. Sembravano lontane
miglia.
«Cerchi qualcosa?»
Mia imprecò e per poco non fece un balzo in aria quando la voce parlò
dalle ombre. Tric ruotò sul posto, le salciocche che volavano e la lama in
pugno.
Mia udì il rumore di un acciarino e vide una fiamma riflessa su occhiali
incredibilmente spessi e due masse distinte di capelli bianchi. Un
pennacchio di fumo all’aroma di cannella si levò in aria e il Cronista Aelius
fece un passo alla luce, spingendo un carrello di legno che conteneva pile
pericolosamente alte di libri. Una piccola placca sul davanti diceva RESI .
«Denti della Mannaia, tutti qua dentro camminano in punta di fottuti
piedi?» chiese Tric.
Il vecchio mostrò un sorriso bianco ed esalò fumo grigio. «Sei un tipo
impressionabile, eh?»
«Cosa cazzo vi aspettate? Avete visto quella cosa?»
Aelius sbatté le palpebre. «Eh?»
«Quel mostro. Quella cosa! ’Bisso, cos’era?»
Il vecchio fece spallucce. «Un tarlo dei libri.»
«Un tarlo…»
«… dei libri.» Aelius annuì. «Almeno così li chiamo io.»
«Ce n’è più di uno?» Mia era incredula.
«Oh, sì. Ce ne sono alcuni che vivono qui dentro. Quello era solo uno
piccolo.»
«Uno piccolo?» urlò Tric.
Il vecchio strinse gli occhi nella coltre di fumo. «Oh, sì. Molto
impressionabile.»
«E voi lasciate che qualcosa del genere vaghi per la vostra biblioteca?»
Aelius scrollò le spalle. «Innanzitutto, non è la mia biblioteca.
Appartiene alla Nostra Signora dell’omicidio benedetto. Io sono solo colui
che annota ciò che contiene. E non lascio che i tarli dei libri vaghino in
giro; loro… lo fanno e basta.» Il vecchio fece spallucce. «È proprio un
posto divertente, questo.»
«Divertente…» mormorò Mia.
«Be’, non divertente da ridere, ovvio.»
Aelius prese un altro sigaretto da dietro l’orecchio. Lo accese con quello
che stava fumando, poi lo porse alla ragazza con dita macchiate
d’inchiostro.
«Paglia?»
La paura era ancora raggomitolata nella pancia di Mia, i suoi nervi a
brandelli. Forse un sigaretto l’avrebbe calmata. E così, mentre il vecchio
sorrideva, ciondolò per il corridoio e andò a prendere la paglia con dita
tremanti. Rimasero lì a lungo, attimi silenziosi, con Mia che assaporava la
carta zuccherata sulle labbra mentre le sue pulsazioni finalmente
rallentavano a un ritmo quasi normale. Soffiò dei pennacchi in direzione di
Tric e sogghignò quando lui arricciò il naso e tossì.
«Ottime paglie, queste» disse infine.
«Già.»
«Non riconosco il simbolo del sigaraio, però.»
«È morto.» Aelius si strinse nelle spalle. «Non ne fanno più, così.»
«Come questi libri?»
«Eh?»
Mia gesticolò verso gli scaffali. «Riconosco alcuni titoli. Non
dovrebbero esistere. Ha senso, ora che ci rifletto. Questa è una Chiesa
dedicata alla dea dell’omicidio.»
Tric sbatté le palpebre mentre comprendeva. «Perciò la biblioteca di
Niah è piena di libri che sono morti?»
Aelius guardò i due attraverso il fumo e annuì lentamente.
«Alcuni» disse infine. «Alcuni sono libri che furono bruciati. O
dimenticati secoli fa. Altri non ebbero nemmeno la possibilità di vivere.
Abbandonati o immaginati solo a metà o troppo spaventosi per cominciare a
scriverli. Memoriali di tiranni assassinati. Teoremi di eretici crocifissi.
Capolavori di geni morti prima del tempo.»
Mia guardò gli scaffali e scosse la testa. Quali meraviglie erano nascoste
in queste pagine dimenticate o mai nate? Quali orrori?
«E i… tarli?» esalò.
«Non so da dove vengano con certezza, a essere sincero.» Aelius scrollò
le spalle. «Forse uno dei libri? Le cose in queste pagine non restano sempre
nelle pagine, se capite cosa intendo. Ma escono solo se pensano che le
parole siano in pericolo. Oppure se sono… sapete… affamate.»
«Cosa mangiano?» chiese Tric.
Il vecchio fissò il ragazzo con il suo sguardo. «Tu cosa immagini?»
«Siamo qui da quasi quattro mesi.» Mia prese una lunga boccata del suo
sigaretto. «Non pensate che questo sia il genere di cose che il Culto
dovrebbe menzionare il primo cambio? Tipo: “Oh, a proposito, accoliti, ci
sono questi fottuti vermoni giganti che vivono nella biblioteca, perciò, per
amore della Mannaia, riconsegnate i vostri libri in tempo”?»
«E se altri accoliti si intrufolassero qui dentro da soli?» chiese Tric.
«Nella competizione di Mouser, otteniamo sei punti per ogni libro rubato
dall’Ateneo.»
«Be’, Mouser è un po’ bastardo, non è vero?» disse Aelius.
«Cosa succederebbe se qualcuno irrompesse davvero qui dentro e
cercasse di sgraffignarne uno?»
Il vecchio sorrise. «Tu cosa immagini?»
Tric rimase a bocca aperta. «Follia…»
«Ascolta, i vermi danno fastidio solo alle persone che si immischiano
con le parole. E se sei tanto stupido da gingillarti con libri come questi, è
quello che ti meriti. E a parte questo, io ti avevo avvisato.» Aelius soffiò un
anello di fumo in faccia a Mia. «Te l’ho detto la prima volta che ci siamo
incontrati, che a seconda del corridoio scelto, potrebbero non rivederti mai
più.»
«D’accordo, allora, come raccomandazione futura, quali corridoi
dovremmo evitare?» chiese la ragazza.
«È variabile.» Il vecchio scrollò le spalle. «Questo intero posto muta di
volta in volta. Nuovi libri appaiono al passare dei cambi. Altri si muovono
in posti dove non li avevo messi. A volte scopro intere sezioni di cui non
avevo mai saputo l’esistenza.»
«E tu dovresti registrare tutto questo?»
Aelius annuì. «Un lavoro del cazzo, davvero.»
«Non potresti avere qualche aiuto?» propose Tric.
«Avevo quattro assistenti, una volta. Non andò bene.»
«Perché? Cosa gli è successo?»
Il vecchio guardò il ragazzo in tralice. Tre voci risuonarono nell’oscurità
simultaneamente.
«Tu cosa immagini?»
Mia esalò un pallido sbuffo grigio nel silenzio.
«… Immagino che non ci siano libri sui tenebris qui, giusto?»
Il Cronista lanciò un’occhiata alla sua ombra. Poi la guardò di nuovo
negli occhi. «Perché?»
«È un no?»
«È un “perché”. Qui sta la meraviglia di una biblioteca come questa.
Qualunque libro che sia mai o non sia mai stato scritto, prima o poi sarà qui
dentro. Il problema è trovare quei dannati volumi. Ci vuole uno sforzo
immane per cercare qualcosa di specifico. E a volte questi libri hanno un
pessimo carattere. Quelli bruciati in particolar modo. A volte non vogliono
essere trovati.»
Mia sentì la speranza sprofondarle dentro il petto. Guardò Tric, che fece
spallucce con aria impotente.
«Ma,» riprese il vecchio squadrandola dall’alto in basso «tu hai l’aspetto
di una ragazza che ha confidenza con le pagine. Riesco a capirlo. Hai le
parole nell’anima.»
«Parole nell’anima?» lo schernì Mia. «“Bruciare dopo aver letto”?»
«Ascolta, ragazza» disse Aelius storcendo il naso. «I libri che amiamo, ci
amano a loro volta. E proprio come noi segniamo certi passi sulle pagine,
quelle pagine lasciano il loro segno su di noi. Lo posso vedere in te, come
sicuramente tu lo vedi in me. Tu sei una figlia delle parole. Una ragazza con
una storia da raccontare.»
«Non narrano storie sui discepoli della Chiesa Rossa, Cronista» replicò
Mia. «Non intonano canzoni per noi. Niente ballate o poesie. Qui le persone
vivono e muoiono nelle ombre.»
«Be’, forse questo non è il tuo posto.»
A quelle parole lei alzò bruscamente lo sguardo. Gli occhi si strinsero
nel fumo.
«Comunque.» Il vecchio si staccò dallo scaffale e sospirò. «Terrò gli
occhi aperti. E se troverò un libro sui tenebris che valga la pena leggere, te
lo passerò. D’accordo?»
«… D’accordo.» Mia si inchinò. «I miei ringraziamenti, Cronista.»
«Voi due fareste meglio ad andare. E anch’io. Troppi libri. Troppo pochi
secoli.»
Il vecchio accompagnò Mia e Tric attraverso il labirinto di scaffali,
spingendo il suo carrello dei RESI e lasciandosi alle spalle per tutto il
tragitto fino alle porte una linea sottile di fumo dal profumo dolciastro. E
anche se a Mia la distanza era sembrata lunga miglia, arrivarono all’uscita
nel giro di pochi minuti, abbandonando la foresta di carta e di parole.
«Ciao.»
Con un cenno del capo a entrambi, Aelius sorrise e chiuse le porte senza
produrre alcun suono.
Tric si voltò verso di lei con un sorriso sghembo. «Parole nell’anima,
eh?»
«Oh, fottiti.»
Il ragazzo allargò le braccia, proclamando a gran voce: «Una ragazza
con una storia da raccontare!».
Mia diede un pugno forte proprio contro il bicipite di Tric. Il ragazzo
sussultò mentre Mia imprecava, scuotendo il gomito ferito. Tric sollevò
entrambi i pugni, poi indirizzò un paio di attacchi di prova verso la sua
testa, ma lei li deviò, mirando uno stivale al lato posteriore delle gambe del
ragazzo quando lui si voltò. Poi, assieme, i due si avviarono nell’oscurità.
Mia resistette all’impulso di prendere di nuovo la mano di Tric.
A malapena.
CAPITOLO 22
POTERE

Lei aveva quattordici anni, l’ultima volta che i soli caddero dal cielo.
I più grandi scrittori della Repubblica non hanno mai catturato davvero
la bellezza di un tramonto completo itreyano. La puzza di sangue che si
spande per le strade di Godsgrave quando i sacerdoti di Aa sacrificano
animali a migliaia, implorando il dio della luce di tornare presto. Il
bagliore insanguinato di Saan all’orizzonte, che si scontra con l’azzurro
pallido di Saai, finendo per formare un indaco imbronciato. Ci vogliono tre
cambi perché la luce muoia del tutto. Tre cambi di preghiere, ecatombi e
isteria crescente prima che la Madre della notte reclami per breve tempo il
dominio del cielo.
E allora comincia il Carnivalé del verobuio.
Mia si svegliò al suono di baldoria. Il costante scoppiettio di fuochi
d’artificio dal Collegio di Ferro, che aveva lo scopo di spaventare la
Mannaia e ricacciarla sotto l’orizzonte. La ragazza protese la mano e
osservò il gioco di ombre. Percepiva finalmente sbocciare il potere che era
cresciuto dentro di lei negli ultimi cambi. Con un gesto della mano, un
viticcio d’ombra scagliò un’intera pila di libri in aria, sparpagliando i tomi
per la stanza. A un suo capriccio, altre ombre si protesero, rimettendo
ciascun libro al proprio posto. Aprì la porta della camera da letto con
un’occhiata. Si vestì senza alzare un dito.
«… brava» disse Messer Cortese. «… se solo avessi le mani per
applaudire…»
Mia si diede una pacca sul sedere. «Mi accontento di labbra per baciare
il mio dolce didietro.»
«… prima dovrei trovarlo…»
«Il sedere è come il vino, Messer Cortese. Meglio troppo poco che
troppo.»
«… bella e arguta. placati, mio cuore palpitante…»
Il non-gatto si guardò il petto trasparente.
«… oh, aspetta…»
La ragazza controllò i coltelli che aveva alla cintura, negli stivali,
infilati su per la manica. Era piccola e magra, frangia sghemba e guance
scavate, piena di tutta la fiducia in se stessa generata dai suoi quattordici
anni al mondo. Ascoltò i suoni da basso e udì il familiare mormorio del
vecchio Mercurio che scambiava pettegolezzi con uno dei suoi abituali non-
clienti. L’anziano non era tipo da baldoria. A differenza di ogni altro
abitante di Godsgrave, il suo maestro se ne sarebbe stato lontano dalle
strade, stanotte. Lì fuori aveva occhi già in abbondanza.
«… allora insisti per farlo…?»
La ragazza guardò l’amico. Ogni traccia di scherzo aveva abbandonato
la sua faccia, lasciando una maschera dura e pallida.
«Questa è la mia opportunità migliore. Non mi sono mai sentita così
forte come durante il verobuio. Se mai riuscirò a entrare là dentro, sarà
stanotte.»
«… dovresti dirlo al vecchio…»
«Lui cercherebbe di convincermi a non farlo.»
«… e non ti domandi come mai…?»
«Non ci sono guardie all’interno durante il verobuio, Messer Cortese.»
«… perché presto comincerà la calata. centinaia di prigionieri che si
massacreranno a vicenda per il diritto di lasciare la Pietra Filosofale.
desideri davvero essere lì dentro con loro…?»
«Quattro anni, Messer Cortese. Sono rinchiusi da quattro anni in quel
buco. Mio fratello ha imparato a camminare nella cella di una prigione.
Non so quando sia stata l’ultima volta in cui mia madre ha visto i soli. Per
cosa mi sono addestrata tutti questi anni, se non per questo? Devo tirarli
fuori di lì.»
«… sei una ragazza di quattordici anni, mia…»
«Ed è la parte dei quattordici anni o quella della ragazza che ti turba?»
«… mia…»
«No» sbottò lei. «Tutto questo avrà fine stanotte. Sei dalla mia parte o
vuoi metterti in mezzo?»
Il non-gatto sospirò.
«… sai bene da che parte sto. sempre…»
«Allora smettiamola di parlarne, che ne dici?»
Fuori dalla finestra. Per strada. La calca e la baldoria. Tutti con le loro
maschere di Carnivalé; bellissime bautae, temibili vulti e ridenti pulcinelli.
La ragazza scivolò tra la folla, con una faccia da Arlecchino sulla propria,
il mantello sopra la testa. Superò gli amanti che sospiravano sul Ponte dei
Voti, gli imbonitori sul Ponte della Moneta, fino alla riva frastagliata.
Sollevò il telo dalla sua gondola rubata, allungò le mani e chiuse gli occhi.
L’oscurità strisciò da angoli e anfratti, avvolgendo la ragazza e la barca in
un sudario di oscurità.
Nascosta nel buio, attraversò la Baia dei Macellai, sotto una passerella
del Ponte delle Follie, che si muoveva e beccheggiava con l’alta marea. a
Gettò da parte il suo mantello quando si diresse in mare aperto, le ore che
passavano, diretta verso l’inquietante spuntone di roccia che s’innalzava
dalla superficie dell’oceano. Il buco in cui sua madre e suo fratello
avevano languito per quattro lunghi anni su ordine di Julius Scaeva, inermi
e disperati.
Non più.
Girò alla larga dalle rocce frastagliate e le ombre la portarono al sicuro
nel porticciolo. L’oscurità trascinò la gondola sulla riva, risparmiandole il
bacio seghettato delle rocce che circondavano la Pietra. Mia si umettò le
labbra e inalò aria salina. Ascoltò l’inno distante dei gabbiani. La violenza
che riecheggiava già tra le viscere della Pietra. Messer Cortese beveva la
sua paura, lasciandola feroce e impavida.
Protese le braccia. Desiderò di sollevarsi. Il potere riverberava nelle sue
vene come qualcosa di mai provato prima. Un’affinità oscura, che scorreva
come il buio crescente. Lunghi tentacoli neri la avvolsero e scivolarono
dalle sue dita, conficcandosi nei mattoni alla base della Pietra. Come arti
trasparenti di un ragno enorme, la tirarono verso l’alto. E con un nero
appiglio alla volta, la ragazza cominciò ad arrampicarsi.
Su per quella parete torreggiante, i capelli che si gonfiavano nel vento
sempre più forte. Poi sopra i bastioni e gli intrichi contorti di affilerba in
cima alle pareti. Le ombre la avvolsero come un neonato in fasce e la
trasportarono giù tra la puzza di morte che odorava di rame.
Mia si mosse furtiva per i corridoi di pietra insanguinata, circondata da
un’oscurità così profonda da riuscire a malapena a vedere. Corpi.
Ovunque. Uomini strangolati e pugnalati. Picchiati a morte con le loro
stesse catene e bastonati con i loro stessi arti. Un suono di omicidio
riecheggiava tutt’attorno, la puzza di interiora aleggiava densa nell’aria.
Forme vaghe le corsero davanti, aggrovigliandosi e urlando sul pavimento.
Le urla risuonavano da qualche punto distante, dove il buio non le
permetteva di udire.
Si intrufolò dentro la Pietra Filosofale come un coltello tra le costole.
Questa prigione. Questo mattatoio. Superò le celle aperte, scendendo in
posti più silenziosi dove le porte erano ancora sigillate, dove i prigionieri
che non desideravano tentare la sorte nella Calata erano ancora rinchiusi,
affamati e macilenti. Gettò da parte il manto d’ombra per poter vedere
meglio, scrutando attraverso le sbarre quegli spaventapasseri ossuti, quei
fantasmi dallo sguardo vuoto. Riusciva a capire perché quelle persone
volessero rischiare tutto in quell’orrendo stratagemma del senato. Meglio
morire combattendo che restare qui al buio a crepare di fame. Meglio
alzarsi e cadere che restare in ginocchio e vivere.
A meno che, naturalmente, non avessi un bimbo di quattro anni
rinchiuso con te…
Gli spaventapasseri urlarono quando la videro, pensando che fosse uno
spettro Senzafuoco venuto a tormentarli. Mia percorse tutto quanto il
blocco di celle, gli occhi sgranati. Ora provava disperazione. Paura,
malgrado il gatto nella sua ombra. Dovevano essere qui da qualche parte,
giusto? Di sicuro Domina Corvere non avrebbe trascinato suo figlio nella
carneficina lì sopra per una vaga possibilità di sfuggire a questo incubo…
Giusto?
«Madre!» chiamò Mia, le lacrime agli occhi. «Madre, sono Mia!»
Corridoi interminabili. Buio privo di ogni luce. Sempre più in profondità
nell’ombra.
«Madre?»

«Madre!»
Mia si sollevò brancolando, ciuffi di capelli appiccicati alla pelle dal
sudore. Il cuore le martellava contro le costole, gli occhi erano sgranati, il
petto ansante. Sbattendo le palpebre al buio, in preda al panico, riconobbe
finalmente la sua camera nella Montagna Silente, la luminosità priva di
un’origine che avvolgeva tutto nel suo bagliore soffuso.
«Solo un sogno» mormorò.
Non un sogno. Un incubo. Come non ne aveva da anni. Ogni volta che i
terrori dell’illuminotte erano giunti strisciando al suo letto sopra la bottega
di Mercurio, ogni volta che i fantasmi del suo passato le si erano insinuati
nel cranio mentre dormiva, Messer Cortese era stato lì. A farli a fette. Ma
adesso lei era sola. Alla mercé dei suoi sogni.
Dei suoi ricordi.
“Figlie, dove potrebbe essere?”
Mia si tirò su fino a raddrizzarsi, tremante. Il capo chino. Le braccia
avvolte attorno a se stessa. La paura le pulsava nel petto al ritmo del cuore.
Le ombre si contorsero sulla parete quando serrò il pugno. Le ricordarono il
modo in cui erano affluite al suo comando l’ultima volta che i soli erano
caduti dal cielo. L’ultima volta che lei…
“Non guardare.”
Aveva pensato di poter star bene. Tric l’aveva accompagnata alla sua
camera da letto dopo la visita alla biblioteca e l’aveva rassicurata che
Messer Cortese sarebbe tornato. Quando era suonata la nona campana, lei si
era infilata nel letto, cercando di convincersi che tutto sarebbe andato bene.
Ma senza il suo amico lì a proteggerla, non c’era nulla a fermare i sogni. I
ricordi di quella fossa senza luce e intrisa di sangue. Di quello che aveva
trovato all’interno.
“Non guardare.”
Chiuse forte gli occhi.
“Non guardare.”
La stanza vuota. Il letto vuoto. Solitudine. Paura. Si riversavano su di lei
a ondate. Erano anni che non era davvero sola. Non aveva mai affrontato i
terrori del sonno senza qualcuno al suo fianco. Si spinse le nocche negli
occhi e sospirò.
La nona campana era suonata. Infrangere il coprifuoco della Reverenda
madre sarebbe stata una follia, in particolare dopo quello che avevano fatto
a Zitto. Ma lei era uscita di nascosto con Ashlinn e non erano state beccate.
E il posto dove voleva essere si trovava solo a poche porte di distanza,
dopotutto.
“Il posto dove voglio essere?”
Davanti a sé la prospettiva di interminabili ore senza sonno.
La paura crescente che Messer Cortese potesse non tornare mai più.
La certezza che le sbocciava nel petto.
“Il posto dove voglio essere.”

Un corridoio buio. Mani tremanti. Spinse la materia delle ombre nella


serratura per attutire il suono, ma le dita le tremavano a tal punto che si
domandò se potesse romperla. Se avesse bussato, qualcun altro avrebbe
potuto sentire. Ashlinn. Diamo. Jessamine.
Finalmente la serratura scattò. La porta si socchiuse su cardini smorzati
dalle ombre. Sbirciò nella camera buia e si intrufolò. Ansimò dalla paura
quando qualcuno l’afferrò per il braccio e la sbatté con la schiena contro il
muro, un coltello alla gola. Lui esitò quando la riconobbe al buio, poi
abbassò la lama e parlò a denti stretti.
«Denti della Mannaia, cosa ci fai qui dentro?» sibilò Tric.
«… Una sorpresa?»
«Avrei potuto tagliarti la dannata gola!»
Mia lottò per calmare le pulsazioni galoppanti e ricacciò indietro la
paura quanto bastava per parlare.
«Non riuscivo a dormire» sussurrò.
«Perciò hai fatto irruzione nella mia stanza? Sono passate le nove. E se ti
avessero beccata?»
«Mi dispiace.» Si umettò labbra secche. Deglutì.
Tric era ancora premuto contro di lei, tanto vicino da inalare il suo odore.
Mia si rese conto che doveva dormire nudo: la sua pelle scintillava nella
fioca luce priva di origine. Fece scorrere lo sguardo sul suo corpo, i muscoli
sodi del torace glabro, le vene tese sul collo e lungo le braccia. Il suo
respiro accelerò. La paura che l’aveva destata si agitava ancora dentro di
lei, ma adesso qualcos’altro si stava risvegliando. Qualcosa di più vecchio.
Di più forte.
“È questo che voglio?”
Alzò lo sguardo in quei profondi occhi color nocciola, provando
commiserazione. Lui non poteva sapere com’era. Non poteva capire cosa
significava Messer Cortese per lei. Tuttavia, vide la sua rabbia dissolversi e
una lieve comprensione farsi avanti a rimpiazzarla.
«Dispiace anche a me. Mi hai solo spaventato, tutto qua.»
Tric sospirò e iniziò a staccarsi. Una protesta priva di parole scivolò
dalle labbra di Mia, e lei allungò una mano, facendo scorrere le punte delle
dita sul braccio di lui. Al ragazzo si accapponò la pelle. Lei gli posò una
mano sulla dura rotondità della spalla. Gli impedì di ritrarsi.
«Mia…»
«Posso dormire qui, stanotte?»
Lui si accigliò. Quei grandi occhi nocciola scrutarono nei suoi.
«Dormire?»
Nudo com’era, lei poteva sentirlo premere contro la sua gamba. Abbassò
il mento e lo guardò attraverso la foschia scura delle sue ciglia. Un piccolo
sorriso scaltro le increspò le labbra quando lo percepì eccitarsi leggermente.
Con lentezza intenzionale, allungò la mano libera verso il basso. Lo sfiorò
con le punte delle dita per tutta la sua lunghezza, sentendolo ingrossarsi.
Lui ansimò quando lo prese completamente nella mano, facendo scorrere le
dita lungo la serica parte inferiore. Straripava di una cupa soddisfazione che
il suo minimo tocco potesse infiammarlo.
Figlie, quanto era caldo. Le scottava quasi il palmo della mano. E la
chiazza di paura fredda dentro la pancia di Mia cominciò a sciogliersi,
rimpiazzata da un fuoco che cresceva lentamente.
Si lanciò a mordicchiargli il labbro con i denti. Tanto forte da far uscire il
sangue. Sale sulla sua lingua. La fiamma che ardeva dentro di lei,
soffocando la paura. Il ragazzo cercò di staccarsi, ma Mia chiuse il pugno
attorno a lui, stringendo. Tric rimase immobile, gemendo e chiudendo gli
occhi. Un sorriso le increspò le labbra e la riempì di un calore ebbro. Questa
torreggiante massa di muscoli, questo assassino, lei poteva tenerlo fermo
come un cervo spaventato con una sola mano.
Mia aveva paura. Tanta da darle le vertigini. Da incespicare. Ma sotto
tutto quanto, si rese conto che lo voleva. Che desiderava assorbirlo dentro
di sé. Possederlo. E la paura di ciò, la trepidazione, non faceva che acuire
quel desiderio. In quel momento nulla aveva importanza, non i posti dove
era stata né le cose che aveva fatto. Non le miglia da percorrere fatte di
omicidi, né quelle alle sue spalle. Solo il suo odore – aroma, virilità e
lussuria – che le riempiva i polmoni. Il calore nella mano, la pulsazione che
batteva come un martello sotto la pelle, inghiottendo i suoi sospiri quando
lei trovò la sua bocca e cercò la sua lingua con la propria. Lui gemette
quando Mia lo baciò, un bacio lungo, profondo e caldo, le mani avvolte tra i
capelli di lei mentre la ragazza lo spingeva con forza con la schiena contro
il muro, i muscoli che sbattevano sulla pietra.
Adesso le mani di Mia erano sulla gola di lui, la lingua scorreva lungo la
linea ardente dell’arteria. Una mano esplorò il liscio rigonfiamento del suo
petto e nel frattempo l’altra lo accarezzava mentre Tric fremeva e sospirava.
Ancora spaventata, il respiro tremolante, lei si abbassò facendogli scorrere
le labbra sulla clavicola e poi sul petto. Con una mano delicata, lui la fermò,
scrutando nei suoi occhi, la bocca ancora macchiata di sangue.
«Mia… non devi.»
«Io voglio.»
Con deliberata lentezza, incontrò lo sguardo di Tric e si mise in
ginocchio. Entrambe le mani accarezzavano la sua virilità tremante, e
sorrise quando lui inclinò la testa all’indietro e gemette. Mia non l’aveva
mai fatto prima e non era sicura di sé, malgrado tutte le lezioni di Aalea
sull’argomento. Ma voleva possederlo con una ferocia che soffocò tutto ciò
che restava della paura dentro di lei.
Toccò con la lingua la sua pelle ardente e lo avvertì sobbalzare. Dea,
quanto era duro. Aprendo la bocca, lo leccò dalla base alla punta,
sorridendo mentre lui gemeva. Assaggiò una dolcezza salata sulla corona,
calda sulla sua lingua. Lo baciò su e giù, le ginocchia di Tric prossime a
cedere. Si inumidì le labbra con la punta della lingua e lo immerse nella sua
bocca.
Allora perse il controllo. Era l’istinto a guidarla. Quasi non riusciva a
credere a quel suo liscio calore. All’inizio procedette goffa, incerta in preda
alla lussuria, e lui avvolse i pugni tra i suoi capelli e la guidò con
delicatezza, su e giù per la sua lunghezza, le guance infossate mentre con il
pugno gli massaggiava la radice.
Allora lui fu suo. Completamente. Totalmente. Senza difese. Figlie, Mia
era quasi travolta da tutto ciò. La sensazione di controllo assoluto, godendo
dei gemiti e fremiti che suscitava mentre lavorava con la lingua, iniziando a
gemere lei stessa mentre la fame prendeva il sopravvento. C’era una sola
cosa che voleva in quel momento. Non era più una sprovveduta tremante su
lenzuola macchiate di sangue, ora. Non era più una ragazza tenuta
prigioniera dai suoi incubi. Né una verginella spaventata.
La stretta sui suoi capelli si serrò e le pulsazioni di Tric accelerarono. Il
petto sussultò: non aveva abbastanza aria nei polmoni.
«Mia» rantolò. «Io…»
Lei lo avvertì sgroppare, pulsarle nella bocca. Tirarla più vicina, ancora
di più. Il ragazzo inarcò la schiena e gli tremarono le gambe. E poi mugolò
il suo nome, ogni muscolo rigido, riempiendole la bocca con fiotti di calore
dolce e salino. Mia gemette, inebriata da quel potere. Continuò a pompare
la sua virilità con il pugno, mungendo anche l’ultima goccia finché lui non
ansimò per il dolore misto a piacere, poi la spinse via e prese respiri
sussultanti nel petto.
Mia si alzò con un sorriso malizioso su labbra scintillanti. Ridacchiò
notando lo sguardo negli occhi di Tric, l’incredulità, il desiderio e il
piacevole ricordo. Lui riusciva a stento a reggersi in piedi, respirare o
parlare. E lei gli aveva fatto tutto questo nel giro di pochi attimi.
“È questo che intendeva Aalea” realizzò.
«Stai bene?» gli chiese.
Lui batté forte le palpebre. Scosse il capo. «Forse, dammi un minuto.»
Ridendo, lei si girò e si lasciò cadere sul letto di lui. Le lenzuola erano
ancora tiepide, l’odore di Tric intriso nelle pellicce. Il ragazzo crollò
accanto a lei, nudo anche se Mia era ancora completamente vestita. Si
scostò le salciocche dagli occhi e la guardò dall’altro lato dei cuscini.
«Ti prego di notare che non mi sto lamentando, ma che motivo avevi?»
«Dev’esserci per forza una ragione?»
«… Di solito.»
«Mi piaci.» Mia scrollò le spalle. «E volevo vedere se ci riuscivo. Prima
che la Shahiid Aalea portasse qualche giovane schiavo liisiano su cui
esercitarci.»
Tric rise brevemente. «In qualche modo, non penso che sia tutta la
verità.»
«Non… mi piace stare da sola. Le cose che vedo quando chiudo gli
occhi…»
Si accigliò e scrollò la testa quando le mancarono le parole. Tric fece
scorrere la punta di un dito lungo la sua guancia, sul rigonfiamento delle
sue labbra.
«Anch’io ho i miei demoni. E tu mi piaci, davvero. Mi domando solo…
questo è saggio?»
«Cosa significa “questo”?»
«Be’, questo. Noi.» Agitò la mano verso il buio che li circondava. «Non
resteremo qui a lungo. Anche presumendo che saremo iniziati come Lame,
verremo inviati a Cappelle differenti. Saremo assassini, Mia. La vita che
condurremo… non è una che termina con un lieto fine.»
«È questo che credi che voglia? Un lieto fine?»
«È proprio questo l’enigma, giusto?» Tric sospirò. «Io non so cosa
vuoi.»
Mia rotolò sul letto e si puntellò con un gomito sopra di lui. Lunghi
capelli neri caddero sulla pelle di Tric mentre lei lo fissava in quei dolci
occhi color nocciola. «Sei un idiota.»
«Vero» sorrise lui.
Allora Mia lo baciò, la bocca aperta alla sua. Gli passò una mano sul
petto, sopra le colline e gli avvallamenti dell’addome, sentendo i muscoli
indurirsi in contrasto con la morbidezza delle labbra. Occhi chiusi. Soli al
buio e nient’affatto soli.
Interrompendo il bacio, lei esaminò il suo volto. Quegli orrendi
scarabocchi d’odio sulla pelle. Le cicatrici. E, oltre, quegli stupendi occhi
senza fondo.
«Tieni soltanto a bada i sogni. È tutto quello che chiedo. Lo farai per
me?»
Lui scrutò nei suoi occhi. Poi annuì lentamente. «Posso farlo.»
Mia gli prese la mano e la tirò vicino a sé. La spinse contro il suo seno,
guidandola alla tensione del suo addome, fino a farla scivolare nelle brache.
Le dita di Tric passarono attraverso i suoi peli folti, cercando ancora più in
basso, e a Mia si mozzò il fiato nei polmoni.
Lo percepì separarle le labbra e gemette quando le sua dita si
arricciarono delicatamente contro di lei. Abbassò anche lei la mano,
cercando di nuovo il suo membro, ma lui la spinse sulla schiena e con abili
movimenti delle dita le fece scorrere brividi di piacere su per la spina
dorsale.
«È il mio turno» sussurrò.
Mia si appoggiò all’indietro, gemendo mentre lui le baciava il collo e
incoraggiandolo a morderla forte, sempre più forte. Gli avvolse le dita tra i
capelli quando lui le strattonò la camicia verso l’alto, mugugnando di
piacere quando Tric fece mulinare la lingua attorno al rigonfiamento sempre
più duro del capezzolo. La prese nella sua bocca e succhiò, con le dita che
operavano ancora una specie di magika tra le sue gambe. Dal centro di lei si
irradiò un calore e le cosce rabbrividirono, intrise di desiderio. Tric ruppe i
lacci delle brache e gliele trascinò giù fino alle caviglie, dove si
impigliarono negli stivali. Lei le scalciò via, una gamba ancora incastrata,
contorcendosi sul letto mentre Tric continuava ad accarezzarla, descrivendo
circoli duri e decisi nel suo punto più morbido.
«Oh, Figlie» mormorò lei. «Oh sì.»
Il ragazzo si inginocchiò tra le sue cosce, una mano che le accarezzava il
seno, l’altra che continuava ad accendere fuochi tra le cosce. E con un
ultimo bacio sulle labbra, il ragazzo si spinse giù lungo il suo corpo
tremolante. Lasciò una scia di baci ardenti sui suoi seni, poi sulla pancia.
Mia sapeva dov’era diretto, e all’improvviso ebbe di nuovo paura e i suoi
occhi si aprirono sfarfallando. La sua mano si impigliò tra i capelli di Tric e
lo tirò su con un sussulto.
Lui la guardò, una domanda che gli bruciava negli occhi dietro il
desiderio accecante.
«… Non devi» mormorò lei.
«Ma voglio» disse lui.
Le sollevò la gamba, baciando la pelle tenera dietro il ginocchio e
facendola rabbrividire. Fece scorrere le punte delle dita lungo il suo addome
sempre più teso. Trascinò le labbra giù, all’interno della coscia: la peluria
della barba le faceva il solletico, il suo alito era umido sulla pelle.
Finalmente la lussuria ebbe la meglio sulla paura e lei gli avvolse le dita tra
le ciocche, spronandolo ad andare ancora più in basso. Con lentezza
intenzionale e straziante, Tric scese con movimenti a spirale, sempre più
vicino, leccando il sudore appena spuntato e facendola gemere tra respiri
sempre più veloci. Si fermò quando raggiunse le labbra, inspirandola come
se lei fosse aria e lui un uomo che stava affogando. Lei piagnucolò,
un’implorazione silenziosa. E quando Tric le separò le pieghe con dita
delicate, lei avvertì il primo tocco della sua lingua.
«Oh, dea» gemette.
Quella lingua tremolò contro di lei, gentile sulle prime, descrivendo
minuscoli cerchi attorno al suo bocciolo ingrandito. Mia inarcò la schiena e
sollevò le gambe in aria, le dita dei piedi protese in avanti. Lui giocò con
lei, facendo guizzare la lingua dentro e fuori, soffiando su di lei aliti freddi
tra i gentili assalti della sua bocca. La ragazza fu sopraffatta da quella
sensazione, esposta e completamente alla sua mercé. Ma Figlie, la voleva.
Si deliziò in essa. Afferrò i suoi capelli nei pugni e lo tirò dentro di sé,
volendo che premesse più forte, che la prendesse, che la assaporasse, che la
incendiasse.
Lui leccava in modo ritmico e Mia si dibatteva sul letto, roteando gli
occhi all’indietro. Il calore cresceva dentro di lei, straziante e avviluppante,
suppliche senza parole a riempire l’aria. Proprio mentre pensava di non
farcela più, avvertì un’altra pressione, urgente e calda. E separando le sue
labbra umide con la mano, Tric inserì lentamente un dito dentro di lei.
Scintille nella sua mente. Luce accecante nei suoi occhi. Mia gemette
mentre lui si metteva al lavoro, muovendolo a spirale e in carezze, il suo
ritmo che si adattava a quello più rapido della sua lingua. Lei iniziò a
fremere più forte a ogni rantolo ansimante, contorcendosi mentre una piena
cresceva dentro di lei, premendo contro una specie di diga nascosta, sempre
più alta e calda. Tric mosse le dita e la bocca, la lingua e il respiro, mentre
le stelle si scontravano dietro gli occhi di Mia e imprecazioni di “Oh, cazzo,
oh, cazzo, oh, cazzo” le scappavano dai denti, finché quella diga non andò
in pezzi e la piena fuoriuscì assieme a un grido inintelligibile dalle sue
labbra, la schiena arcuata, la testa gettata all’indietro mentre lei urlava in
silenzio il suo nome.
Tric rallentò, ritraendo la mano ma continuando a descrivere cerchi
gentili sulle sue labbra bagnate con la lingua. E poi la baciò con tenerezza,
come se il sesso di Mia fosse la sua bocca e lui le stesse dicendo addio per
l’ultima volta.
Sollevò la testa mentre Mia districava le dita dai suoi capelli. Poi le
scoccò un sorriso sbilenco.
«Tu stai bene?»
«Dove… ’bisso… hai imparato a farlo?»
Sogghignando, il ragazzo si raddrizzò sul letto e si lasciò cadere accanto
a lei. «Nello stesso posto dove ho imparato a ballare. La Shahiid Aalea mi
ha dato qualche dritta, se mi fossi mai trovato a sedurre una figlia midollana
o qualcuno del genere.»
Mia sospirò, ancora con il cuore che le palpitava nel petto. «La
ringrazierò la prossima volta che la vedo.»
Tric sorrise, poi si sporse a baciarla. Mia poteva sentire il sapore di se
stessa sulle sue labbra, la lingua intrecciata con quella di Tric. Allungò la
mano e lo trovò ancora duro come la pietra, caldo come il ferro. Lei ne
voleva ancora. Ma una paura fredda ardeva in fondo alla sua mente e crebbe
di volume mentre scalciava via anche l’altra gamba dei pantaloni, poi si
metteva a cavalcioni su di lui con un balzo. Si strappò via la camicia e lui si
avventò sul suo seno, baciandolo e mordicchiandolo. Sporgendosi
all’indietro, Mia afferrò la lancia ardente del suo membro e la premette
contro le labbra doloranti. Lo fece scorrere avanti e indietro, tentata di
lasciarlo semplicemente penetrare un pollice dopo l’altro fino in fondo.
«Ti voglio» sussurrò lui. «Madre della fottuta Notte, ti voglio.»
La bocca di Mia trovò la sua e gli alitò contro la pelle. «E io te. Ma…»
«Ma cosa?»
«Non so se sia sicuro.»
Lui l’afferrò per le anche, la bocca sul suo seno, e la tirò giù mentre Mia
lo trascinava lungo le sue labbra doloranti. La punta del ragazzo scivolò
dentro di lei – Oh, sante Figlie, che sensazione stupenda – e allora per poco
non perse il controllo. Desiderio. Bisogno. Più di quanto avesse mai
desiderato o avuto bisogno in tutta la sua vita. Gli intrecciò le dita tra i
capelli e lo tirò via dai capezzoli doloranti. Sporgendosi all’indietro, gli
permise di entrare ancora un po’ dentro di lei, gemendo dal profondo. Ma
poi Mia si fermò. Serrò la stretta e si alzò da lui, rimanendo vuota. Tric
sospirò, ma lei sorrise e gli diede una pacca giocosa, spingendolo di nuovo
sul letto e scivolando sulla pelliccia intrisa di sudore accanto a lui.
«Non stanotte, Dominus Tric» sussurrò.
Tric si stese nell’intrico di cuscini e pellicce, cercando invano di
riprendere fiato.
«Sei una tipa fredda, Figlia Pallida» riuscì a dire.
Lei gli prese la mano e la premette tra le sue gambe. «Ripetilo?»
«Denti della Mannaia, adesso sei semplicemente sadica.»
Lei rise, sdraiandosi tra i cuscini e fissando il soffitto. Strinse gli occhi e
torse le ombre, osservandole agitarsi. La paura era scomparsa.
Completamente inghiottita dalla consapevolezza che le ardeva nella mente.
“Lui farebbe qualunque cosa per avermi, in questo momento. Qualunque
cosa chiedessi. Ucciderebbe per me. Morirebbe per me. Si immergerebbe
nel sangue di centinaia di persone solo per poter esalare il suo ultimo
respiro dentro di me.”
Mia inarcò la schiena e si fece scivolare una mano tra le gambe.
Premette il dolce dolore che trovò lì in mezzo, chiuse gli occhi e sospirò.
“Questa è la forza che spodesta i re. Pone fine agli imperi. Distrugge
perfino il cielo.”
Fece scorrere dita umide su labbra sorridenti.
“Questo è potere.”

Si svegliò ore dopo da un beato sonno privo di sogni. Stiracchiandosi come


un gatto, strinse le cosce e si deliziò nei ricordi del modo in cui lui l’aveva
toccata. Guardò il ragazzo accanto a lei, il volto sotto l’inchiostro addolcito
dal sonno. Disse a se stessa che era stato solo per tenere lontani i sogni.
Immaginando che la campana del mattino fosse vicina e ricordandosi
della flagellazione di Zitto, decise che sarebbe stato meglio per tutte le parti
interessate se non l’avessero vista sgusciare fuori dalla stanza di Tric
quando gli altri accoliti si fossero svegliati. Così si vestì in silenzio e uscì
dalla camera senza svegliarlo. Con il manto d’ombra attorno alle spalle,
procedette a tentoni lungo la parete fino ad arrivare alla sua stanza. Aprì la
porta con un rapido giro della chiave e scivolò dentro senza che nessuno si
fosse accorto di nulla. Esalò un piccolo sospiro di sollievo.
«… il delitto perfetto…»
«Messer Cortese!»
Eccolo lì, ai piedi del letto; una semplice scheggia di oscurità più intensa
nella penombra. Fece una corsa per tuffarsi sulle pellicce, obbligata a
tentare di toccarlo, raccoglierlo e stringerlo. E mentre lui balzava nelle sue
braccia, Mia rimase stupefatta di scoprire che percepiva un vago tocco,
morbido come il velluto, quando le sue mani passarono attraverso di lui,
freddo come ghiaccio, delicato come il respiro di un neonato. Lui si gettò
attorno alle sue spalle, insinuandosi tra i suoi capelli, e le lunghe ciocche si
mossero come animate da una brezza gentile. Lacrime di sollievo le
sgorgarono dagli occhi.
«Ero preoccupata, stronzetto!»
«… mi dispiace…»
Mia si sdraiò sui cuscini e il non-gatto le balzò sul petto, scrutandola
negli occhi. Era stato via per tutta la notte e non aveva detto nulla. Cosa
che, malgrado il sollievo per il ritorno del suo amico, le imponeva
comunque di fargli quella domanda…
«Dove sei stato?»
«… oh, una visitina al teatro, un rapido giro di birra e prostitute, sai…»
«Aspetta un attimo, non puoi mica fare il saputello. Sei sparito per ore.»
«… confido che tu abbia trovato qualche modo per divertirti mentre ero
via…?»
«Oh, un viaggetto all’Ateneo, qualche lettura leggera, sai.»
Il non-gatto ruotò la testa in direzione della camera di Tric.
«… credo sia meglio se non…»
Lei sorrise e passò le dita attraverso di lui, sentendo di nuovo quel gelo
vago che le faceva rizzare i peli del corpo. Le domande su chi aveva
dormito con chi potevano aspettare.
«… Allora» disse lei.
«… allora…»
«Jessamine ha rubato la Trinità di Mouser.»
«… ma davvero, non l’avevo notato…»
«Ti avevo avvisato di non fare il saputello.»
«… come se un sole avesse ammonito un altro che stava brillando
troppo luminoso…»
«Lei mi odia in modo viscerale, Messer Cortese. E adesso ha un’arma
contro cui non possiamo difenderci appesa al collo.»
«… allora dillo a mouser. al culto. fa’ confiscare la trinità…»
«Spifferare cose al Culto manca di un certo… stile, non credi?»
«… hai un altro piano, allora…?»
«Sono certa di poterne escogitare uno con l’aiuto di abbastanza
aureovino.»
«… non hai tempo per buffonate meschine. ricorda perché sei venuta
qui…»
«Me lo ricordo bene, ma se Jessamine decidesse di vendicare suo padre
una volta per tutte? Estrarrà quella Trinità e io cadrò in ginocchio cercando
di non vomitare l’intestino.»
«… nel caso non l’avessi notato, jessamine odia quasi tutti quelli che la
circondano. lascia che ti reputi sconfitta e si annoierà. detesta carlotta
quasi quanto te…»
«Allora devo semplicemente starmene immobile e lasciarmi calpestare?»
«… hai mai sentito parlare dei cani delle croste di liis…?» b
«Ma certo.»
«… non nuoce mai essere sottovalutati, mia. il tuo obiettivo dovrebbe
essere l’iniziazione…»
Mia si morse il labbro. Una domanda si agitava dietro i suoi denti. Una
che non aveva mai avuto bisogno di porre prima. D’altro canto, lui non
l’aveva mai abbandonata, in precedenza. In tutti i loro anni assieme,
l’umbragatto era stato il suo confidente. La stella con cui orientare la sua
rotta. Era stato lui a salvarla dagli uomini di Scaeva. Lui a starle accanto
quando sua madre…
No. Non farlo.
“Non guardare.”
Ma la Trinità lo aveva influenzato ancora peggio di quanto non avesse
fatto con lei. I soli l’avevano terrorizzata, ma Messer Cortese era quasi
impazzito dal panico. Cosa c’era in lui che lo sguardo del Semprevigile
faceva soffrire così tanto? Era semplicemente perché si trattava di una
creatura d’ombra? O in lui c’era qualcosa di più che normale oscurità?
«Cosa sei, Messer Cortese?»
Il non-gatto inclinò la testa.
«… tuo amico…»
«Ma cos’altro? Un demone, come dicono le leggende popolari?»
Una risata come vento tra le lapidi aleggiò nell’aria. «… demone, sì.
avevo giusto in mente di chiederti di firmare questa pergamena. con il
sangue e in triplice copia, per cortesia…»
«Non sono in vena di scherzare. Perché non me lo dici?»
«… perché non lo so. prima di trovare te, ero solo una forma che
attendeva nelle ombre…»
«Attendeva cosa?»
«… una persona come te…»
«È così semplice?»
«… e perché sarebbe sbagliato…?»
«Perché nulla è mai semplice.»
«… sei troppo giovane per essere così cinica…»
Mia fece un balzo, passando proprio attraverso Messer Cortese e
scendendo dal materasso. Il non-gatto si leccò la zampa e si pulì i baffi
come se non ci fosse nulla di strano.
«Fottiti, allora. Tieniti i tuoi segreti. Cercherò lord Cassius quando
tornerà per l’iniziazione. Gli chiederò dei tenebris e cosa significa esserlo. E
se stavolta deciderà di rimanere criptico invece di darmi le mie risposte,
potrei strozzarlo per averle. E non m’importa quanto sono belli i suoi
dannati zigomi.»
«… questo non è saggio, mia…»
«Perché? Perché potrebbe dirmi la verità?»
«… perché lui è pericoloso. sicuramente lo percepisci…»
«Tutto ciò che percepisco quando sono vicino a lui è la tua paura.»
«… e tu credi che io abbia paura per me…?»
Mia si rimangiò la sua invettiva e fissò il non-gatto seduto tra le pellicce.
Tutto ciò che Messer Cortese aveva mai fatto era stato proteggerla. Cacciar
via i suoi incubi quando era una ragazzina. I fantasmi dell’illuminotte sullo
strangola-cuccioli venuto ad affogarla. Gli spaventapasseri e le ombre che
aveva visto dentro la Pietra Filosofale.
«Allora aspetterò il Cronista. Dev’esserci un libro nell’Ateneo che
contenga la verità. È solo questione di tempo prima che lui lo trovi.»
«… credi davvero che imparerai a dominare le ombre leggendo un
libro…?»
«Allora cosa dovrei fare?» urlò lei.
«… te l’ho detto mille volte, mia…»
La ragazza guardò il suo amico, acciambellato lì sul letto. Unghie gelide
le corsero lungo la schiena. Il suono di urla distanti le riecheggiò nella testa.
L’immagine di un volto striato dalle lacrime. Occhi vuoti, spaventati.
Sangue.
«… per dominare l’oscurità di fuori, prima devi affrontare quella
dentro…»
Il respiro stava accelerando. Sudore sulla sua pelle. Frugò nelle brache e
trovò la custodia dei sigaretti. Se ne portò uno alle labbra con mani
tremanti.
«… non è stata colpa tua, mia…»
«Zitto» sussurrò lei.
«… non è sta…»
«ZITTO!»
La ragazza scagliò la custodia d’argento contro il muro. La sua faccia si
contorse. Il non-gatto premette le orecchie contro la testa. Si rimpicciolì su
se stesso e sussurrò.
«… come ti compiace…»
Mia sospirò. Chiuse gli occhi e inspirò. Dopo lunghi minuti silenziosi,
usò l’acciarino per accendere il sigaretto, prendendo una lunga tirata e
sedendosi sul letto. Osservò il fumo risalire la penombra in spirali spezzate.
Alla fine sospirò.
«Sto diventando proprio una stronza, eh?»
«… diventando…?»
Lei lanciò un’occhiata al gatto mentre quello ridacchiava e gettò la
cenere nella sua direzione.
«… tutto questo è nuovo per te. non può essere facile…»
Mia prese una lunga tirata ed espirò dalle narici.
«Non deve essere facile. Ma posso farlo, Messer Cortese.»
«… non ho dubbi. e io sarò con te fino alla fine…»
«Davvero.»
«… davvero…»
Mia rimase sveglia, guardando il sigaretto bruciare lentamente fino a
consumarsi. Rimase seduta al buio con i suoi pensieri. Messer Cortese
aveva ragione: il suo obiettivo doveva essere l’iniziazione. Tutto il resto
erano solo stronzate e cose inutili. Lei non era una maestra di tasche come
Ash o Jessamine. E addestrarsi con Tric non avrebbe migliorato le sue
capacità con la spada quanto era necessario. Ma l’unica pari a lei nell’arte
dei veleni era Carlotta, e la sua attuale debolezza nell’Aula di Canti era
qualcosa che poteva sfruttare. Come avevano detto Messer Cortese e
Mercurio, essere sottovalutata era un’arma che poteva rivoltare a suo
vantaggio.
“È il momento di iniziare a ridurre i rischi.”
Ora che il sigaretto era terminato, si sdraiò di nuovo a letto. Era grata che
il fumo avesse cancellato ciò che restava di Tric sulla sua pelle. “Solo per
una volta” disse a se stessa. “Solo per tenere a bada i sogni.” I suoi pensieri
rallentarono quando la stanchezza ebbe la meglio su di lei e il sonno
l’avvolse tra braccia gentili, le ciglia che sbattevano contro le guance. E
finalmente si addormentò.
Con il non-gatto accanto a lei ad attendere l’arrivo degli incubi.
Sempre vigile.
Sempre affamato.
Non attese a lungo.
Mia si alzò dal letto e uscì dalla stanza prima del primopasto. Superò le
camere da letto degli accoliti e si addentrò in profondità nella Montagna.
Domandando cortesemente a una figura di passaggio vestita di nero, fu
accompagnata giù per scalinate tortuose fino a una stanza che non aveva
mai visto. Odore di polvere e paglia, di cammello e merda. Uscendo in una
grande caverna scavata nelle viscere della Montagna, capì dove si trovava.
“Le stalle…”
La caverna era alta almeno cinquanta piedi, con grandi recinti di legno
che contenevano due dozzine di sputatori sbuffanti e ringhianti. Poteva
vedere le Mani che scaricavano una carovana appena arrivata e
abbeveravano le bestie giunte dal deserto. I carri erano colmi di alte cataste
di mercanzie da Ultima Spes e oltre. E lì, tra le Mani ricoperte di polvere
nel deserto rosso, Mia vide una faccia velata di seta. Riccioli biondo
ramato. Occhi scuri e scintillanti.
«Naev!»
La Mano si voltò, gli occhi sorridenti. «Amica.»
Mia la cinse in un abbraccio, ricambiato con affetto. Fiutò odore di
sudore sulla pelle della donna, terra e polvere di una lunga strada.
«Mi scuso per l’intrusione» disse Mia. «So che devi essere stanca.
Quando ho chiesto di te, non ero nemmeno sicura che fossi ancora tornata
da Ultima Spes.»
«Appena arrivata.» La donna annuì. «Tutto bene?»
«Piuttosto bene» Mia annuì. «Sei occupata?»
«… Un po’. Ma Naev può dedicare un momento a lei.»
La donna si diresse a un angolo in ombra, portando Mia con sé. Naev
attese trepidante, urla e versi di cammelli in sottofondo. Mia stabilì che la
sua amica andava di fretta e che, nonostante la prima delle regole auree
della Shahiid Aalea, in questa situazione sarebbe stato meglio saltare i
preliminari.
«Quando abbiamo incrociato le lame nelle Frusciaride,» esordì Mia
«prima che chiamassi la tenebra, almeno… tu ti eri fatta un’idea delle mie
capacità. Se avessi combattuto in modo leale, mi avresti sconfitto.»
Naev annuì. Nella sua voce non ci fu arroganza, ma semplice
pragmatismo.
«Lei combatte con lo stile Orlani. Un po’ di Caravaggio. È abbastanza
esperta. Ma ci sono molte facce nell’uso delle lame e sembra che lei ne
conosca solo una.»
«E tu ne conosci molte.»
Gli occhi della donna scintillarono. «Naev le conosce tutte.»
«Allora forse puoi aiutarmi.»
«Di cosa ha bisogno lei?»
«Dipende.»
«Da cosa?»
Mia sorrise.
«Che tu sappia o no mantenere un segreto.»

a. Costruito per ordine del console Julius Scaeva, il Ponte delle Follie è costituito interamente da
imbarcazioni – navi e barche, relitti e traghetti – legati da un’estremità all’altra e tenuti assieme da
pezzi di catena arrugginita. Per ordine della costituzione itreyana, i consoli possono servire solo
per un mandato, lungo quasi tre anni. Quando Scaeva infranse la tradizione durante la Ribellione
degli Incoronatori e si candidò per la rielezione, avocando poteri emergenziali in quel tempo di
crisi per la Repubblica, il suo più diretto avversario politico, il senatore Suetonius Arlani, fu
sentito affermare: “Scaeva ha più possibilità di camminare sulle acque della Baia dei Macellai che
di riuscire nella sua follia”.
Dopo la sua schiacciante vittoria, ottenuta con un’affermazione senza precedenti, Scaeva
comprò ogni natante che fu in grado di trovare e li legò assieme a formare un rozzo ponte, poi
attraversò la baia a piedi nudi. Chiamato Ponte delle Follie per citare il commento di Arlani, quel
passaggio da allora è rimasto uno dei luoghi più caratteristici di Godsgrave, dimora di un gruppo
eterogeneo di vagabondi, derelitti ed emarginati, che scroccano un posto in cui vivere senza
pagare alcun affitto proprio nel monumento al trionfo del console. Scaeva stesso non sembra
essere disturbato dalla cosa.
Per quanto riguarda il senatore Arlani, fu condannato all’ergastolo nella Pietra Filosofale poche
settimane dopo la vittoria elettorale del console. Le motivazioni alla base della sua incarcerazione
non avevano nulla a che vedere con le sue esternazioni pubbliche, ve l’assicuro.
b. I cani delle croste sono carnivori voraci del continente liisiano che assomigliano a grassi cani
senza peli con occhi porcini e denti come rasoi. Combattono con ferocia stupefacente da vicino,
ma difettano della resistenza per inseguire le prede sulle lunghe distanze. Di frequente si cibano di
carogne, ma hanno anche sviluppato un metodo peculiare di “caccia”.
Il cane delle croste si ferisce in modo superficiale, masticandosi le cosce fino a sanguinare.
Allora mostra di essere ferito, zoppicando e perdendo sangue finché non viene notato da un
mangiacarogne come un avvoltoio, uno sciacallo o un altro cane delle croste. Allora l’animale
crolla a terra fingendosi morto. Questo sotterfugio può durare ore, a volte perfino cambi.
Queste bestie sono attori consumati, che arrivano a rimanere immobili anche mentre un altro
carnivoro prende cautamente un morso. Ma quando finalmente il mangiacarogne si accinge a
nutrirsi, il cane delle croste colpisce, facendo a pezzi il suo aspirante predatore e banchettando con
esso a sazietà.
Come risultato delle ferite autoinflitte, queste creature sono spesso ricoperte di croste, da cui il
loro nome.
E in caso ve lo steste chiedendo, gentili amici, no, non sono buoni animali da compagnia.
CAPITOLO 23
SCAMBIO

Passarono settimane nella Montagna Silente, e non molte furono silenziose.


L’Aula di Canti risuonava con la melodia di acciaio su acciaio. Il sibilo
netto delle corde d’arco e il tonfo dei coltelli da lancio. Anche se si rivelò
un’abile tiratrice con la balestra, Mia le prendeva di santa ragione quasi in
ogni lezione. Dopo il loro confronto precedente, notò che Jessamine
indossava sempre la Trinità sotto la tunica, e quella minaccia pendeva in
mezzo a loro come un coltello. Ma anche se Jess non mancava mai di farle
mordere la polvere, Mia seguì il consiglio di Messer Cortese e tenne la sua
rabbia sotto chiave. Si concentrò sull’addestramento. Meglio lasciare la
meschinità ai meschini. All’apparenza annoiata dalla mancanza di spina
dorsale di Mia, la rossa concentrò la maggior parte delle sue attenzioni su
Carlotta, che reagiva con l’abituale arguzia impassibile e lo sguardo privo di
emozioni.
Jessamine, però, non fu l’unica a notare la nuova determinazione di Mia.
La lezione del mattino era Verità, ma quando Mia ciondolò nell’aula con
Ash e Lotti al suo fianco, notò che i grandi banchi da lavoro di legnoferro
erano stati spostati contro le pareti più lontane e che gran parte
dell’equipaggiamento arkemico era stato messo via. Ammazzaragni si
trovava al centro della stanza, con sacchetti di colori diversi in mano.
«Accoliti» disse la Shahiid annuendo. «Per favore, radunatevi dietro di
me.»
Il gruppo obbedì e formò un semicerchio alle spalle della Shahiid.
«Abbiamo passato gli ultimi mesi a occuparci della creazione di tossine
arkemiche e della loro applicazione. Ma l’arkemia non consiste
semplicemente nell’arte dei veleni e può assistervi nelle vostre carriere più
di un semplice strumento di morte.»
Ammazzaragni allungò una mano in un sacchetto di cuoio nero e tirò
fuori un piccolo globo, non più grande dell’unghia del pollice. Era
perfettamente liscio, lucidato fino a brillare.
«Mutavitrum» spiegò. «Vapori arkemici mantenuti in uno stato solido da
un procedimento di mia invenzione. Un brusco sussulto fisico interromperà
il processo, ripristinando il composto al suo stato gassoso, ma a differenza
delle armi più rozze a base di vapore, il mutavitrum non lascia tracce.
Niente schegge o turaccioli a testimoniare la vostra presenza. Il vetro stesso
è il composto.»
La Shahiid fece passare il globo tra gli accoliti riuniti. Era più pesante di
quanto Mia si aspettasse, freddo al tocco.
«Ne ho sviluppato diverse varietà» spiegò Ammazzaragni. «La prima è
onice.»
La Shahiid tirò una manciata di globi neri contro il pavimento. Colpirono
con una dozzina di piccoli schiocchi e, in un attimo, una nube densa di
fumo turbinante si levò dalla pietra. Era oleosa, pesante come nebbia e nera
come la notte sopra l’Altare del Cielo.
«Utile come per diversivo e per eseguire manovre difensive.»
Ammazzaragni frugò in un altro sacchetto e tirò fuori tre globi di
mutavitrum bianco, poi li scagliò contro la parete opposta. Di nuovo
scoppiarono in un fumo denso che scese lentamente fino al terreno. Mia
trovava difficile credere che così tanto vapore potesse essere concentrato in
qualcosa di così piccolo.
«Perle per le tossine. Più comunemente sedativi come il Deliquio, ma ho
creato varianti più letali dall’aspirea. E infine» la Shahiid tirò fuori un globo
di mutavitrum rosso e mostrò un sorriso insolito. «Rubino. Il mio
preferito.»
Ammazzaragni tirò il globo contro un’altra parete e, con un boato
crepitante, una sfera di caldo fuoco bianco sbocciò contro la pietra. Gli
accoliti sussultarono e fissarono con occhi sgranati il pezzo delle
dimensioni di un pugno che era stato staccato dal granito.
«È in grado di perforare un’armatura di piastre e polverizzare la carne
all’interno.»
Ammazzaragni porse una manciata di globi di mutavitrum di onice agli
accoliti e indicò la parete opposta.
«Ora provate voi.»
Sorridendo tra loro, gli accoliti vennero avanti e cominciarono a lanciare
il mutavitrum contro la pietra. Dozzine di piccoli schiocchi risuonarono
nell’aula e fumo nero si sollevò all’estremità opposta. Ammazzaragni diede
a Zitto e Tric un globo di rubino ciascuno e le sue labbra nere si
incresparono quando esplosioni brillanti squassarono l’aria. Quando il fumo
si diradò, gli accoliti si sedettero presso i banchi da lavoro e Ammazzaragni
andò alla lavagna per spiegare le proprietà base del mutavitrum.
Mia stava scribacchiando frettolosamente appunti quando Ash le
sussurrò all’orecchio.
«Allora. Una domanda.»
«Non vuoi chiedermi da dove vengono i bambini, vero?» borbottò Mia.
«Perché non credo che la nostra amicizia sia pronta per questo.»
«Perché ti fai mettere i piedi in testa da Rossa?»
Mia smise di scribacchiare e alzò gli occhi dai suoi appunti.
«Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno» sussurrò.
«Ti sta malmenando come un fantoccio da addestramento a Canti. Ieri ti
ha quasi fatto sobbalzare all’Altare del Cielo, e quando ti ha strigliato, tu le
hai soltanto voltato le spalle.»
Mia guardò dall’altro lato dell’aula in direzione di Jessamine, che
lavorava accanto a Diamo. La rossa scoccò a Mia un sorriso velenoso come
un infuso preparato da Ammazzaragni.
«Non è da te, Corvere.»
«Non è niente.»
«Stronzate.»
Mia lanciò un’occhiata ad Ammazzaragni, che stava ancora lavorando
alla lavagna.
«Lei…»
Mia si morse il labbro. Guardò Ashlinn. Non le piaceva chiedere aiuto.
Non gradiva aver bisogno di qualcuno. Ma Ash era una tipa a posto,
malgrado la sua abitudine di sgraffignare qualunque cosa non fosse
inchiodata a terra. E non sarebbe certo andata a spifferare al Culto quella
storia…
«Ha rubato la Trinità.»
Ash sbatté le palpebre dalla confusione.
«Dall’aula di Mouser» sibilò Mia. «Il medaglione che mi ha fatto
vomitare l’anima quel cambio in cui lui si è vestito da prete.»
Ash sollevò un sopracciglio. «Mi hai detto che era stato del pesce andato
a male, Corvere.»
«Sì, be’, è stato gentile da parte tua fingere di credermi.»
La ragazza bionda guardò torvo Jessamine.
«Perciò è stata la Trinità a scombussolarti così tanto?»
Mia abbassò la voce ancor di più. «Non sono certa del perché. Ha
qualcosa a che fare con l’essere tenebris, penso. Jessamine l’ha tirata fuori
davanti a me nell’Aula di Canti. Mi è sembrato di essere sul punto di tirare
le cuoia.»
Ash notò la catenella d’oro attorno al collo di Jessamine, quasi nascosta
dalla camicia.
«Quella subdola, piccola f…»
Un globo di mutavitrum di onice scoppiò sul tavolo di fronte a loro.
Entrambe le ragazze furono avviluppate in una densa nube turbinante di
fumo nero e Ash cadde dal suo sgabello. Gli altri accoliti sghignazzarono
mentre le ragazze tossivano e sputacchiavano, agitando le mani per diradare
l’aria. Mentre il fumo si dissipava lentamente, Mia si ritrovò a incontrare lo
sguardo arcigno di Ammazzaragni.
«Accolita Ashlinn. Accolita Mia. Avete un contributo per la lezione?»
«No, Shahiid» borbottò Mia.
«Allora credete forse che chiocciare come un paio di galline mi aiuterà
nella mia spiegazione?»
«No, Shahiid» rispose Ash con la sua migliore espressione da cane
bastonato. a
«Allora vi ringrazierò se ascolterete in silenzio. Il prossimo globo che
lancerò sarà di un colore diverso.»
Ammazzaragni sollevò il sacchetto di mutavitrum di rubino e lanciò
un’occhiata agli altri accoliti. Tutti tornarono a prendere appunti con una
veemenza che avrebbe fatto vergognare uno scriba di ferro. Per il resto della
mattinata regnò il silenzio. Ma alla fine della lezione, Ash fissò Jessamine
con durezza.
Fece scrocchiare le nocche.
Poi ammiccò a Mia.

Due cambi più tardi, poco dopo l’ultimopasto, Mia stava lavorando alla
formula di Ammazzaragni. Ogni sera se ne stava china sui suoi appunti per
cercare di venire a capo del problema. Sembrava impossibile: ogni antidoto
per un componente sembrava aumentare l’efficacia di un altro. Ma risolvere
quell’enigma era la migliore possibilità che Mia aveva per finire prima in
quell’aula, e starsene rintanata nella sua stanza voleva dire meno possibilità
di imbattersi in Jessamine. Stava lanciando una sequela di improperi e
considerando di dar fuoco ai suoi appunti quando udì un grimaldello alla
sua porta.
«Denti della Mannaia, non può semplicemente bussare?»
La ragazza si districò dalla sua pila ingarbugliata di venomologia e si
diresse alla porta, aprendola con una torsione e trovando Ashlinn accucciata
fuori dalla stanza.
«Cos’hai? Non ti funzionano le nocche?» chiese Mia.
Ash le fece il gesto delle nocche con entrambe le mani e gliele agitò
davanti alla faccia.
«Sei dannatamente comica» sorrise Mia. «Che ti serve?»
«Non è quello che serve a me.» Ash si raddrizzò facendo l’occhiolino.
«È quello che posso dare a te.»
«E cosa sarebbe?»
«La Trinità di Jessamine.»
Ash lanciò un urletto quando Mia l’afferrò per il bavero, la trascinò
dentro e chiuse la porta.
«Denti della Mannaia, datti una calmata, Corvere…»
«L’hai rubata?» sibilò Mia.
«Non ancora.» Ash lanciò un’occhiata al mucchio di appunti che
ricoprivano il letto di Mia. «Ma sto per farlo, se preferisci fare qualcosa di
utile con il tuo tempo.»
«Non se la toglie mai, Ash. L’ho vista indossarla perfino quando si fa il
dannato bagno.»
«A questo proposito, non ho potuto fare a meno di notare quei segni di
morsi sul tuo interno coscia qualche cambio fa…»
Mia sollevò un sopracciglio. «Hai spiato il mio interno coscia nel
bagno?»
Ash fece spallucce. «Occhio non paga dazio.»
«Verdetto?»
«Eh. Ho visto di meglio.»
Mia sollevò le nocche davanti alla faccia della sua amica. «Tu guarda,
anche le mie funzionano.»
«Sì, sì, molto bene.» Ash roteò gli occhi. «Il punto è che lei se la toglie.
Deve farlo quando passa per il Cammino del Sangue, perché è fatta di…
aiutami su questo…»
«Metallo» mormorò Mia.
«Urrà! Riesci a imparare!»
«Va’ a farti fottere.»
«Un avvertimento: non sono granché in fatto di morsi…»
«Ash, giuro sulla Madre…»
«A ogni modo,» la interruppe Ash «mi è capitato di sapere che Jessamine
e qualche altro sono appena partiti per un altro giro di “spremi il segreto” a
Godsgrave. Perciò proprio in questo istante tutti i suoi averi si trovano nelle
alcove vicino alla pozza di Adonai.»
«… Vuoi rubare dalle camere dell’Oratore?»
Ashlinn si limitò a sogghignare come risposta.
«Jessamine saprà che è sparita non appena tornerà» fece notare Mia. «E
dovrebbe essere particolarmente idiota per non capire che sono stata io a
prenderla.»
Ashlinn tirò fuori dalle sue brache tre cerchi d’oro appesi a una catena
scintillante.
«Jessamine non saprà un bel niente, Corvere.»
Mia fissò il medaglione, che roteava e brillava nella luce fioca. Un’altra
Trinità. A parte il metallo prezioso di cui era fatta, che poteva valere quanto
una casetta in una delle zone più eleganti di ’Grave, sembrava
perfettamente normale. Mia non si sentiva affatto nauseata in sua presenza:
ovviamente non era mai stata benedetta da uno dei fedeli di Aa. Tuttavia,
quella vista…
«Dove l’hai presa?»
«Dai costumi di Mouser. Nutre una strana passione per gli abiti da prete,
quello. Ho scoperto anche della biancheria intima femminile nella sua
collezione.» Ash scrollò le spalle e si ficcò la Trinità di nuovo nei pantaloni.
«Allora. Vieni a combinare dispetti o hai un appuntamento con Trucco nella
speranza di guadagnare altri segni di morsi?»
Mia aprì bocca per accingersi a negare. Il sopracciglio sollevato di
Ashlinn le disse che non era il caso. Allora, con un sospiro, aprì la porta e
gesticolò verso il corridoio.
«È questo lo spirito» sogghignò Ash.
La puzza di sangue era ancora intensa e l’aria ancora più pesante quando le
ragazze si intrufolarono nelle viscere della Montagna. Messer Cortese
consumava la sua paura come sempre, ma la parte assennata del cervello di
Mia stava ancora urlando che quella era un’idea decisamente pessima.
«Questa è un’idea decisamente pessima, Ash.»
«L’hai già detto. Circa venti volte, ormai.»
«Ricordi cos’ha fatto Marielle a Zitto?»
«Denti della Mannaia, Corvere. Quando mio padre è stato torturato nelle
Torri Spinate di Elai, gli hanno tagliato le palle e le hanno date in pasto ai
cani delle croste. Qual è la tua scusa?»
«Per cosa?»
«Ehm, per la tua completa mancanza di palle?»
Mia indicò il suo seno. «Ehm, queste le vedi, vero?»
«D’accordo, d’accordo» bofonchiò Ash. «Pessima analogia.»
Raggiunsero il piano delle stanze di Adonai. Mia prese la mano di Ash e,
proprio come aveva fatto con Tric nell’Ateneo, allungò un braccio verso il
buio attorno a sé. Un’oscurità che non aveva mai conosciuto il tocco dei
soli. Poteva percepire il potere dentro di essa. Il potere in lei. Intrecciando
le dita nell’oscurità, tirò il suo manto d’ombra attorno a entrambe, che
scomparvero alla vista come fumo al vento.
«Non riesco a vedere un cazzo sotto questa cosa» sibilò Ash.
«Te l’avevo detto: essere una tenebris non è così sensazionale. Restami
vicina e basta.»
Le due procedettero lentamente lungo il corridoio, con punti fiochi di
illuminazione arkemica come uniche guide. Alla fine, attirate dall’intensa
puzza di rame, trovarono la stanza di Adonai. Appostate sulla soglia, Mia e
Ash sbirciarono dentro. Adonai era inginocchiato a un capo della pozza e
stava fissando il sangue, la pelle scribacchiata di glifi scarlatti. Come di
consueto, l’Oratore vegliava finché tutti gli accoliti non erano tornati da
’Grave.
Aalea aveva spiegato che alcune gocce del sangue di Adonai venivano
mischiate nelle vasche della Porcheria e di altre cappelle della Chiesa
Rossa. Tramite quel sangue, l’Oratore poteva percepire quando qualcuno
entrava nella pozza e, se lo desiderava, poteva permettere che effettuasse il
Cammino di ritorno. Era come un ragno al centro di una vasta tela scarlatta,
con la sua stessa essenza a fungere da fili. Mia era ancora stupita da tutto
ciò: a paragone di Adonai, i suoi trucchetti con le ombre sembravano un
tipo di magika davvero debole. Se il console Scaeva e i Luminatii avessero
mai scoperto che la Chiesa Rossa disponeva di questo genere di potere…
«D’accordo» sussurrò Ash. «Ecco il piano. Tu vai dentro e lo distrai. E
mentre lui è abbagliato da te, io mi occupo delle alcove e sgraffigno la
Trinità.»
«Abbagliato da me?» sibilò Mia. «E come ci riesco?»
«Non lo so, sei tu quella sfacciata. Usa le tue astuzie, donna.»
Mia rimase a bocca aperta, avendo perso per un attimo la capacità di
parola.
«… Denti della Mannaia, Ash. “Usare le mie astuzie”? È questo il tuo
piano?»
«Be’, non lo so. Tu hai studiato con Aalea più a lungo rispetto a
chiunque di noi. Usa quell’andatura seducente che ti piace tanto. Tira fuori
le tue ragazze o cose del genere.»
«Tirare fuori le mie…»
Mia mosse le labbra, esterrefatta.
«Usa le tue parole» sospirò Ash.
«Ecco alcune parole» riuscì finalmente a dire Mia. «Perché non distrai tu
Adonai e io – la ragazza che, vorrei far notare, ci sta facendo diventare
fottutamente invisibili proprio in questo istante – vado invece a sgraffignare
la Trinità?»
«E come hai intenzione di toccarla senza zampillare come una fontana, o
somma invisibilità?»
Mia aprì la bocca per replicare. Poi la chiuse di nuovo e sospirò.
«Hai ragione.»
Ash annuì. Poi attese.
«Be’, andiamo, allora.»
Mia roteò gli occhi e gettò via il manto d’ombra. «Bene.»
Mia si alzò, bussò sulla parete ed entrò nella camera di Adonai.
«Oratore?»
Adonai non aprì gli occhi, parlando come un uomo che stesse sognando.
«Buona sera, accolita. Sei diretta alla città? La Shahiid Aalea non mi ha
reso edotto.»
«No. Le mie scuse.» Mia entrò nella camera, cercando disperatamente
un qualche tipo di stratagemma. «Io… volevo parlare con voi.»
«E di cosa vuoi favellarmi, orsù?»
Gli occhi di Mia vagarono per le mappe intagliate alle pareti. Le isole
frammentate di Godsgrave. La fortezza di ossidiana di Carrion Hall. Il porto
di Farrow. Alcuni glifi erano scribacchiati col sangue tra gli intagli, e si
muovevano e diventavano sfocati se lei li guardava troppo a lungo. Da
questa stanza, la Chiesa Rossa poteva toccare qualunque città della
Repubblica.
Il suo sguardo si posò su una mappa che non riconobbe, quasi nascosta
tra le ombre mutevoli. Una grande metropoli molto estesa, più grande di
Godsgrave, con forma e strade diverse da qualunque cosa lei avesse mai
visto.
«Questa dov’è?» chiese. «Non l’ho mai vista prima.»
«Né la vedrai.»
Mia spostò lo sguardo su Adonai, la domanda evidente nel suo sguardo.
Lasciò parlare il silenzio, come le aveva insegnato Aalea. Ma Adonai non
aveva ancora aperto gli occhi e le sue labbra erano increspate in quello
stupendo sorriso indolente. Pareva che anche l’Oratore conoscesse l’arte di
Aalea.
«Potete dirmi perché no?» chiese infine Mia.
«Non esiste più» replicò Adonai.
«Come si chiamava?»
«Ur Shuum.»
«È un nome ashkahi» disse Mia. «Significa Prima città.»
Adonai sospirò, trasudando noia. «Non sei qui per una lezione di
geografia, piccola tenebris. Palesa cosa ti conduce qui e accomiatati prima
che la mia rabbia abbia la meglio sulla mia pazienza.»
Mia deglutì dal disgusto, domandandosi da dove venisse davvero il
sangue che beveva Adonai. Non osava guardarsi alle spalle per vedere se
Ashlinn era già entrata nella stanza. Avvicinandosi all’Oratore, bloccò la
sua linea visiva fino alle alcove, se mai lui si fosse degnato di aprire gli
occhi. Da distanza così ravvicinata, poteva vedere le vene sotto la sua pelle
pallida, che risaltavano di un colore azzurro cielo. I suoi zigomi angolosi,
quelle lunghe ciglia e poi quelle dita così affusolate che si muovevano
nell’aria. Mia si domandò se fosse nato così bello o se sua sorella lo avesse
intessuto così. E lì incappò in un argomento che poteva rivelarsi un
diversivo…
«Voglio parlarvi di Naev.»
Adonai aprì gli occhi. Il bianco era cosparso di una sottile pellicola
scarlatta, le iridi di un rosa intenso. Molto lentamente, l’Oratore voltò la
testa e posò il suo sguardo su Mia. Lei lo avvertì come un peso gravoso. La
bloccò come una mosca nella sua rete scarlatta.
«Naev» ripeté Adonai.
L’aria divenne più pesante, le onde nella pozza di sangue si agitarono un
po’ più forte. Per la prima volta, Mia notò che Adonai non sembrava
sbattere le palpebre.
«Le ho salvato la vita nelle Frusciaride.»
«Ne sono edotto, accolita.»
«Ho visto la sua faccia. Ciò che le ha fatto Marielle. Non è giusto,
Adonai.»
«Proprio tu favelli di giusto e sbagliato, piccola omicida?»
«… Chiedo perdono?»
«Non è mio, il perdono che dovresti implorare» sorrise Adonai. «Non
sono io colui a cui hai mutilato il corpo per acquistare la tua panca a questo
altare, nevvero?»
Mia strinse forte la mascella. «L’uomo che ho ucciso per essere qui
aveva ammazzato a sua volta. Centinaia di persone. Migliaia, forse.
Impiccò mio padre. Se lo meritava. Fino in fondo.»
«E gli altri?»
Mia rimase sorpresa. «Quali altri?»
Adonai si alzò in piedi con movimenti indolenti, languidi. Si avvicinò a
tal punto che Mia poteva avvertire il calore che si irradiava dalla sua pelle.
Si sporse finché la sua frangia color bianco osso non le sfiorò la fronte.
Labbra che supplicavano di essere baciate si trovarono solo a un alito di
distanza dalle sue, umide di sangue. Per un momento frastornato, pensò di
essere sul punto di farlo e scoprì che al solo pensiero i suoi battiti erano
accelerati e che provava un senso di eccitazione nella pancia. Invece lui
inalò, inspirando a fondo e chiudendo le palpebre con uno sfarfallio. E
quando parlò sorrise.
«Riesco a fiutare il loro sangue su di te, piccola tenebris.»
Mia si impose di non trasalire. Di non indietreggiare.
«Avete l’attenzione di vostra sorella» disse la ragazza. «Lei vi ama,
Adonai.»
«E io amo lei. Come la Luce amava l’Oscurità.»
«Ma anche Naev vi ama. Lei non merita di soffrire per questo.»
L’Oratore le mise il pollice sul mento. Le inclinò la testa all’indietro, di
pochissimo. Mia immaginò quelle labbra color rubino che le accarezzavano
la pelle, i suoi denti che le mordicchiavano la gola. Represse un fremito.
Trovava sempre più difficile respirare.
«Non ho mai assaggiato nessuno della tua specie prima d’ora…»
sussurrò lui.
Le labbra di Adonai si contorsero in un altro sorriso dolcissimo. Ma
fissandolo negli occhi, Mia si rese conto che non c’era nulla dietro di essi.
Tutto questo per lui era solo un gioco, e lei una distrazione momentanea.
Quella di Adonai era una bellezza solo di facciata: la sua vanità gli filtrava
attraverso fino alle ossa, e lui era distorto e marcio dentro proprio come sua
sorella lo era fuori. E anche se Naev poteva averlo amato – anche se Mia
riusciva a capire come qualunque donna potesse farlo – lei seppe che, a
parte Marielle, Adonai non provava amore per nessuno tranne se stesso.
Con molta gentilezza, Mia spinse via la sua mano.
«Vi ringrazierò se non mi toccherete, Oratore.»
Il sorriso di Adonai si allargò. «Ma mi ringrazieresti anche se lo
facessi?»
“Lo ringrazierei?”
Le ombre ai piedi di Mia tremolarono mentre il sangue nella pozza
ribolliva sempre più. I suoi occhi si strinsero e digrignò i denti. E proprio
mentre il calore nella stanza diventava insopportabile, proprio mentre lo
sciabordio e gli schizzi della pozza aumentavano, Mia udì la voce di
Ashlinn.
«Denti della Mannaia, eccoti qua.»
Mia si allontanò dall’Oratore e vide Ashlinn sulla soglia.
«Ti ho cercato dappertutto, Corvere. Dovremmo lavorare alla lezione di
Ammazzaragni.» Ash entrò nella stanza e fece un inchino profondo. «Le
mie scuse, Oratore. Potrei riavere la mia stimata collega? Si
dimenticherebbe la sua dannata ombra se non ce l’avesse inchiodata ai
piedi.»
Il sorriso di Adonai scivolò via come foglie in inverno.
«Costei può andare dove le compiace.» Un sospiro. «Non me ne cale
nulla.»
Adonai si rimise in ginocchio, gli occhi di nuovo sulla pozza. Congedò
Mia senza nemmeno una parola. Ash la prese per mano e la portò fuori
dalla stanza. Trascinandola giù per il corridoio, si fermò solo quando fu
fuori vista e portata d’udito dalla camera dell’oratore.
«’Bisso e sangue» mormorò Ash. «Per un attimo ho pensato davvero che
stesse per provare a baciarti.»
«Be’, sei stata tu a dirmi di distrarlo» ribatté Mia. «Ora dimmi che ha
funzionato.»
Ashlinn si mise la mano nelle brache e tirò fuori una catena d’oro. Mia
vide una vampata di luce e sussultò come se fosse stata ustionata,
portandosi la mano agli occhi. «Denti della Mannaia, rimettila nei
pantaloni.»
«Devi sempre servirmela su un piatto d’argento, eh?»
Ash si rinfilò il medaglione nelle brache e diede una pacca sulla spalla a
Mia. La ragazza socchiuse gli occhi esitante, poi si rilassò quando si rese
conto che la Trinità non era più in vista.
«L’hai scambiata con l’altra?»
Ash annuì. «Jess non si accorgerà di nulla. Ovvero, fino alla prossima
volta che non te la tirerà fuori davanti. Quello sarà il tuo segnale per darle
un bel calcio nelle parti ricciolute.» Ash si diede una pacca sulle brache.
«Mi occuperò io di questa cosa. La metterò in un posto dove nessuno potrà
impossessarsene di nuovo.»
«Il delitto perfetto» sorrise Mia.
«Se fosse stato perfetto, alla fine avrei ottenuto una torta.»
«Non è ancora la nona campana.» Mia le porse il braccio. «La cucina è
ancora aperta?»
«Vedi? Lo sapevo che mi piacevi per un motivo, Corvere.»
Sottobraccio, le ragazze si avviarono nel buio.

a. La miglior espressione da cane bastonato di Ashlinn avrebbe potuto far perdere il lavoro a un vero
cane bastonato, costringendolo a fare i bagagli e trasferirsi in qualche posto più tranquillo ad
allevare polli.
CAPITOLO 24
FRIZIONE

I cambi passavano.
Com’era prevedibile, Ashlinn era ancora in testa nella contesa di
Mouser, anche se Zitto stava rimontando dalla seconda posizione. Alla luce
della competizione sempre più intensa, Mia era lieta che la sua amica
avesse dedicato del tempo per aiutarla a rubare qualcosa che non sarebbe
stata conteggiata nel punteggio ufficiale. Gli accoliti stavano diventando più
audaci e ora venivano sgraffignati oggetti più complicati della lista, invece
di semplici gingilli. Tuttavia, se Mia avesse dovuto scommettere, avrebbe
puntato tutta la sua fortuna sul fatto che Ash sarebbe finita al primo posto
nell’Aula di Tasche.
Ma se Mia avesse avuto davvero una fortuna, a quest’ora Ash l’avrebbe
probabilmente rubata, amiche oppure no…
Le lezioni di Mouser stavano diventando eclettiche ed eccentriche
quanto lo Shahiid stesso. Dedicò diverse ore a settimana a insegnare ciò che
lui chiamava Senzalingua, a poi insistette che tutte le conversazioni nell’aula
fossero condotte con quel linguaggio. In un’altra lezione, Mouser fece
portare una cisterna di legno nell’Aula di Tasche. Era piena di acqua sporca,
con una manciata di grimaldelli sparpagliati sul fondo. Quindi legò gli
accoliti mani e piedi con manette di piombo e li spinse dentro a uno a uno.
Bisognava riconoscere allo Shahiid che sembrò piuttosto compiaciuto
che nessuno fosse affogato.
Le lezioni nell’Aula di Maschere erano più sottili e, per la verità, molto
più gradevoli. Gli accoliti continuavano a essere inviati con regolarità a
Godsgrave e Mia passò una dozzina di illuminotti appostata in varie
taverne, esercitando la sua dialettica e riempiendo la gente di alcol e sorrisi
graziosi. Teneva al guinzaglio due membri degli administratii giovani e
piuttosto piacenti, e origliò alcuni pettegolezzi succosi in un bordello al
porto su un violento scontro tra bande di braavi locali. Aalea accettò i nuovi
segreti di Mia con un sorriso e un bacio su ciascuna guancia. E se notò un
cambiamento in lei dopo la sera passata nel letto di Tric, la Shahiid si
astenne educatamente dal fare commenti.
Nei cambi dopo quella notte, Mia aveva resistito all’impulso di sorridere
al ragazzo durante il primopasto o di fissarlo troppo a lungo durante le
lezioni. Con lo scopo di tenerlo a distanza, gli aveva detto di non aver
bisogno di altre lezioni nell’uso della lama. Mia sapeva che sarebbe stato
stupido lasciar crescere altro fra loro e, da parte sua, Tric faceva almeno
finta di capire. Tuttavia, a volte lei lo beccava a fissarla con la coda
dell’occhio. Di notte, da sola nella sua stanza, si faceva scivolare la mano
tra le gambe e cercava di non immaginare il suo volto. Ci riusciva, qualche
volta.
Mentre il tempo passava e l’iniziazione incombeva, le prove diventavano
sempre più dure. Mia aveva la sua vendetta contro Scaeva e i suoi lacchè a
tenerla concentrata sulle lezioni, ma ogni accolito sapeva cosa c’era in
ballo. Un altro di loro era stato ucciso dopo la mascherata del Gran Tributo:
un ragazzo di nome Leonis, a cui era stata sfondata la gola da un colpo
vagante nell’Aula di Canti e che era soffocato prima che potesse arrivare
Marielle.
Dei ventuno accoliti che avevano cominciato l’addestramento, ne
rimanevano solo quindici. E poi giunse l’incidente che da quel momento
avrebbero definito “la Mattina Blu”.
Iniziò come cominciavano di solito le crisi: con il sussurro ora familiare
di Messer Cortese.
«… attenta…»
Aprendo gli occhi, Mia estrasse il suo stiletto, subito sveglia. Riusciva a
sentire un debole rumore sibilante. Alzando lo sguardo, notò che una delle
pietre nel soffitto sopra il suo letto era scivolata via e un vapore rarefatto
stava filtrando nella camera. Danzava nell’aria come fumo di sigaretto,
lento e vagamente blu.
Accucciandosi, Mia si precipitò verso la porta e girò la chiave, solo per
scoprire che la serratura non si apriva. Sempre in guardia contro le trappole
ad aghi grazie alle lezioni precedenti di Mouser e Ammazzaragni, si infilò
un pesante guanto di cuoio e sbatacchiò la maniglia. Rifiutò di muoversi.
«Bene, merda.»
«… mia…»
Si guardò alle spalle e vide altro vapore bluastro riversarsi dentro. Il
flusso era sempre più denso, l’aria sempre più annebbiata. Mia riusciva a
sentire un certo sapore acre in fondo alla lingua. Gli occhi cominciarono a
bruciarle. Almeno conosceva a menadito i sintomi.
«Aspirea…» mormorò.
«… un’altra prova…»
«E io che volevo dormire fino a tardi.»
Afferrò una camicia dal pavimento, la intrise d’acqua dalla bacinella sul
comodino e se l’avvolse attorno alla faccia. L’aspirea provocava paralisi e
morte per lenta asfissia. Era più pesante dell’aria e non infiammabile in
forma gassosa. Mia conosceva bene l’antidoto, anche se non aveva nessuno
degli ingredienti per prepararlo. Ma uno straccio umido sopra la bocca
avrebbe tenuto a bada i vapori almeno per qualche minuto; quanto bastava
per escogitare un modo per fuggire.
I suoi occhi esaminarono la stanza mentre pensava rapidamente.
La chiave non voleva muoversi e sbattere la spalla contro l’uscio le
provocò soltanto un livido. I cardini erano fissati con chiodi di ferro:
avrebbe potuto svellerli, ma avrebbe richiesto tempo, e se fosse stata
esposta più di qualche minuto all’aspirea, il risultato sarebbe stato una
funzione silenziosa nella Sala degli Elogi e una tomba senza nome.
Premendo la guancia contro il pavimento, scrutò sotto la porta. Poteva
sentire persone che tossivano. I suoni di oggetti pesanti che venivano
sbattuti contro il legno. Deboli urla. Aria fresca e pura filtrava attraverso la
fessura, assieme a suoni di panico crescente. Se gli accoliti non fossero
riusciti a uscire dalle loro stanze, sarebbero morti tutti, fino all’ultimo.
«Denti della Mannaia, non stanno più giocando» sibilò lei.
«… la pressione non farà che aumentare, da adesso fino
all’iniziazione…»
Mia trattenne il fiato.
Guardò la fessura sotto la porta. Il foro nel soffitto.
«Pressione» sussurrò.
Afferrò una bottiglia di liquore dal comodino e la versò sulla soffice
pelliccia grigia che copriva il suo letto. Afferrò i suoi sigaretti e usò
l’acciarino, poi lo accostò al letto e indietreggiò. Con un rumore sordo,
l’aureovino si incendiò. Mia si accucciò vicino alla porta osservando il
fuoco attecchire finché il suo letto non si mise a bruciare allegramente.
«… potrebbe esserci una metafora qui da qualche parte…»
La temperatura si alzò, poi aria calda, fumo e vapore di aspirea si
arroventarono tra le fiamme, per essere risucchiati attraverso il foro sul
soffitto. Mia afferrò uno tra le dozzine di coltelli sparpagliati per la stanza e
lo conficcò nel primo chiodo che teneva fermi i cardini della sua porta.
Adesso il letto era una luminosa e crepitante palla di fuoco. Il fumo
veniva attirato su nel soffitto assieme all’aspirea, ma a Mia lacrimavano
ancora gli occhi e bruciava la gola. Uno dopo l’altro, svelse i chiodi,
facendoli cadere sul pavimento con sordi tonfi metallici. Quando ne ebbe
tolti a sufficienza perché l’uscio fosse bloccato a malapena, le bastò qualche
calcio per far saltare i pochi rimasti e sfrecciare nel corridoio.
Mia barcollò fuori, tossendo e scacciando le lacrime dagli occhi.
Ammazzaragni e Mouser erano in piedi alla fine del corridoio. Lo Shahiid
di Tasche stava spuntando nomi in un registro rilegato in cuoio. L’arcigna
Shahiid di Verità concesse a Mia un sorriso.
«Il primopasto sarà servito all’Altare del Cielo tra quindici minuti,
accolita» disse.
Mia riprese fiato e si fece da parte quando due Mani entrarono nella sua
camera per spegnere il letto. Vide che la porta della stanza di Carlotta era
aperta, la serratura in frantumi come vetro. La porta di Osrik era un rudere
carbonizzato. Un lungo tubo di pergamene arrotolate spuntava da sotto
l’uscio di Zitto e si sentiva il suono di un respiro costante che usciva
dall’imboccatura. Mentre osservava, la serratura apparentemente bloccata
sulla porta di Ashlinn in qualche modo si aprì con uno scatto e la ragazza
uscì con aria rilassata nel corridoio, mettendosi in tasca i grimaldelli mentre
le faceva l’occhiolino.
«Buona mattinata, Corvere» sogghignò.
Gli occhi di Mia trovarono la porta di Tric, e fu sollevata nel vederla
socchiusa. Lasciandosi alle spalle il fumo e la puzza di aspirea, lei e Ash
salirono le scale fino all’Altare del Cielo, dove trovarono Tric e Osrik già
seduti al tavolo con Carlotta. Tric stava osservando le scale e si illuminò
visibilmente quando vide Mia. Lotti era china su un quaderno rilegato in
cuoio, scribacchiando appunti e ponendo piano delle domande a Osrik. Il
ragazzo era sporto in avanti, irradiando un fascino naturale, le labbra
incurvate in un bellissimo sorriso.
Dopo essere andate a prendere la colazione, Ash e Mia si sedettero
accanto al terzetto. Un’occhiata fece capire a Mia che Carlotta stava
lavorando su qualche tipo di veleno, anche se stranamente non sembrava
correlato alla formula di Ammazzaragni. I suoi appunti erano scritti in
codice: sembrava una variante della sequenza di Elberti mista a un cifrario
artigianale.
“Ingegnoso, per una ex schiava.”
«Be’, non sono sorpresa di trovare Lotti quassù per prima. Se si tratta di
veleno, lei lo conosce.» Ash lanciò un’occhiata a Tric. «Ma ’bisso, tu come
hai fatto a uscire così rapidamente, Trucco?»
«Oh, donna di poca fede.»
«Lasciami indovinare. Hai sfondato la porta con la testa?»
«Non è stato necessario.» Tric agitò le sopracciglia. «Ho sentito l’odore
dell’aspirea prima che avessero la possibilità di bloccare le serrature. Ho
fatto capolino in corridoio per vedere cosa stava succedendo, quindi Mouser
mi ha lanciato un improperio in Senzalingua e mi ha mandato quassù.»
Ashlinn sorrise. «Hai proprio un bel naso, Trucco.»
Tric scrollò le spalle e lanciò un’occhiata a Mia. «Tu come ci sei
riuscita?»
Mia stava guardando le scale. Altri accoliti stavano arrivando all’Altare
del Cielo. Jessamine, Zitto, Diamo, Marcellus… ma ne mancavano ancora
mezza dozzina. Ash ci stava già scherzando sopra, ma da basso alcuni di
loro probabilmente stavano morendo. Persone che loro conoscevano.
Persone che…
Si rese conto che gli altri la stavano osservando trepidanti, in attesa dei
particolari della sua fuga.
«Differenziale di pressione» spiegò. «Il vapore caldo sale attraverso il
buco nel soffitto. Lo spiffero sotto la porta fa entrare aria fresca. Semplice
convezione, come delineata da Micades nel quattordicesimo…»
La voce di Mia si spense sotto tre sguardi vacui.
«Ha dato fuoco al suo letto» disse infine Carlotta senza alzare lo sguardo
dai suoi appunti.
Ash spostò lo sguardo tra Mia e Tric. Aprì la bocca per parlare, ma Mia
la interruppe.
«Non. Una. Fottuta. Parola.»
Con un sorrisetto d’intesa, Ash tornò al proprio pasto.
Tre cambi dopo, Mia era seduta sul suo letto tutto nuovo, anche se nell’aria
aleggiava ancora vagamente l’odore di bruciato di quello vecchio. Un altro
di loro era morto durante la Mattina Blu, un ragazzo silenzioso di nome
Tanith che sinceramente non era mai stato un grande esperto di Verità.
Un’altra tomba senza nome nella Sala degli Elogi.
Un altro accolito che non avrebbe più rivisto i soli.
Mia era circondata da appunti, a lavorare ancora sulla formula di
Ammazzaragni. Con un sigaretto tra le labbra, esaminava Verità arkemiche
e le dozzine di tomi che la Shahiid aveva dato ai suoi novizi. Mia non
poteva che ammirare la bellezza del dilemma di Ammazzaragni: cercare di
risolverlo era come trovare un’unica pagliuzza di fieno in una catasta di
aghi avvelenati. Eppure si dilettava con quell’enigma. Come quella
ragazzina e il suo rompicapo. La voce di sua madre le risuonò nella testa.
“La bellezza è una dote innata, ma l’intelligenza va coltivata.”
Non guardare.
«… perderai la cena, mia…»
«Sì, padre.»
«… sembra che il tuo stomaco stia borbottando in qualche dialetto
ashkahi dimenticato…»
Alzò lo sguardo dai suoi appunti, con le formule che le danzavano
ancora davanti agli occhi. Si portò una mano alla pancia brontolante. La
risposta era lì, lo sapeva. Ma la stuzzicava, appena oltre la sua portata.
«D’accordo. Questo può aspettare.»
L’Altare del Cielo era pieno di accoliti, e odori da far venire l’acquolina
in bocca si diffondevano dalle cucine, pervase da un’attività frenetica. Gli
Shahiid non erano presenti – sicuramente erano a una qualche riunione
degli insegnanti per discutere i progressi tra i novizi – ma le Mani vestite di
nero si muovevano in giro servendo vino e sparecchiando le stoviglie.
Mia ammonticchiò su un piatto agnello arrosto e verdure al miele, poi si
lasciò cadere accanto ad Ash e Carlotta e iniziò ad abbuffarsi senza
esitazione. Lotti era impegnata a scribacchiare sul suo quaderno. Ash stava
parlando di una rissa da taverna a cui aveva assistito quando le ragazze
erano a Godsgrave a caccia di segreti: alcuni cittadini insoddisfatti avevano
criticato il console Scaeva e i suoi “poteri di emergenza” ed erano stati
aggrediti da una dozzina di braavi che apparentemente trovavano il governo
del console più che soddisfacente. b
«La città sembra arrabbiata» dichiarò Ash masticando un pezzo
d’agnello.
Mia annuì. «Ci sono più Luminatii per le strade di quanti ne abbia mai
visti.»
«E sono più graziosi dei giovani soldati che vedevo io a Carrion Hall.»
«Non pensi ad altro, Järnheim.»
La ragazza sogghignò e agitò le sopracciglia mentre suo fratello la
ignorava deliberatamente. Mia guardò verso Carlotta, ancora impegnata a
scribacchiare appunti.
«Come va?» chiese Mia.
«Lentamente» mormorò la ragazza, esaminando la pagina. «Proprio
quando penso di aver preso la tigre per la coda, quella si gira e mi morde.
Ma sono vicina. Molto vicina, penso.»
Lo stomaco di Mia fece una giravolta. Se Lotti l’avesse preceduta nella
contesa di Ammazzaragni…
«Pensi che sia saggio portare quegli appunti a cena?» chiese Osrik.
«Dovrei lasciarli nella mia stanza per lasciarli sgraffignare a Domina
Ditaleste qui?»
Carlotta alzò un sopracciglio verso Ash. La ragazza aveva totalizzato
dozzine di punti nel gioco di Mouser rubacchiando oggetti e gioielli agli
altri accoliti. Mia sapeva che non era nulla di personale, ma stava bene
attenta a rimanere fuori dalla portata di Ash quando poteva. Perfino Osrik
sedeva a distanza di sicurezza da lei a cena.
Ash cercò di obiettare mentre masticava, ma per poco non si strozzò e
infine si accontentò di sollevare le nocche.
«Come ho detto,» Carlotta si voltò di nuovo verso Mia «è più sicuro
tenerli vici…»
«Attenti!»
Con un’imprecazione e uno schianto, una Mano che passava lì vicino
inciampò e finì addosso a Carlotta e Mia, lasciando cadere il vassoio carico
con un fragore assordante. Una caraffa mezza piena e piatti sporchi
andarono a sbattere contro il tavolo, schizzando gli accoliti di avanzi e vino.
Carlotta afferrò i suoi appunti proprio mentre il liquido li bagnava, facendo
scorrere e sbavare l’inchiostro. Si districò dal servitore sconvolto con le
pagine fradicie spiegazzate nel pugno. Mentre la Mano chiedeva perdono,
lei si alzò, guardando torvo l’alto ragazzo itreyano che aveva fatto cadere il
servitore.
“Diamo.”
«Mi dispiace terribilmente» disse lui, aiutando la Mano a rialzarsi.
«Tutta colpa mia.»
Carlotta scoccò al ragazzo il suo sguardo impassibile, senza nemmeno
sbattere le palpebre.
«L’hai fatto apposta» disse piano.
«Un incidente, Mea Domina, te l’assicuro.»
Mia udì una risata sommessa. Voltandosi, notò Jessamine osservare
l’accaduto con un sorriso velenoso. Anche Carlotta udì il suono e fissò Jess
che sollevava il suo bicchiere in un brindisi. Con i fogli bagnati in mano,
Lotti si diresse con calma dalla rossa e si stagliò davanti a lei.
«I miei appunti sono rovinati» riferì.
«Spero che non fossero importanti» sogghignò Jessamine. «Non sei tanto
sciocca da portare le note sui tuoi veleni a tavola, vero, piccola schiavetta?»
La mano di Carlotta si sollevò alla guancia dove c’era stato il suo
marchio arkemico.
«Non prendo più ordini da nessuno» disse piano.
«Da me le prenderai e basta se non te ne vai, piccolo tarlo dei libri.
Ammazzaragni non è qui per salvarti, ora.» Jess tornò al suo pasto con
un’aria di scherno dipinta sul viso. «Ora prendi i tuoi preziosi appunti a
vattene a piangere in un angolo, prima che ti regali un nuovo buco.»
Un ghigno tronfio sbocciò sul volto di Diamo. Mia e Ashlinn si
scambiarono un’occhiata afflitta. Non era un segreto che Jessamine fosse
tra i preferiti di Solis e una tra gli accoliti più abili nell’Aula di Canti.
Carlotta era intelligente e istruita, ma non poteva competere con Jess se
fossero venute alle mani. La rossa ora le stava facendo sbattere il muro
contro quella consapevolezza, certa che l’altra ragazza fosse troppo sveglia
e pacata per dare inizio a uno scontro che non poteva vincere.
Carlotta guardò gli accoliti attorno a lei.
Poi accartocciò gli appunti nel pugno.
«Ho un’idea migliore su cosa farci» mormorò.
E caricando il pugno, Lotti lo vibrò contro la mascella di Jessamine.
La rossa volò giù dalla sedia, con un’espressione di stupore quasi comica
in faccia. Lotti cadde sopra di lei, dimenandosi e sputacchiando, la sua
abituale facciata stoica andata in mille pezzi. Afferrò Jessamine per la gola,
le sbatté la testa all’indietro contro la pietra, poi passò a provare a far
ingoiare alla ragazza gli appunti bagnati mentre la rossa si dibatteva e
scalciava. Le due ruzzolarono in giro in un turbine di imprecazioni e pagine
fradicie. Jessamine centrò con un gancio la mascella di Carlotta, ma lei
sbatté gli appunti sul naso della rossa e lo scrocchio umido fece trasalire
Mia.
Non era presente nessuno Shahiid: nessuno che potesse fermare quel
parapiglia. Diamo parve arrivare alla stessa conclusione di Mia e Ash,
quindi si intromise nella zuffa e separò Carlotta e Jessamine. Lotti si
dimenava e sgroppava, imprecando con veemenza tale che avrebbe indotto
il marinaio più incallito ad abbandonare il gioco d’azzardo e diventare un
prete di ferro. Ma Jessamine era fuori di sé dalla rabbia, il volto contorto e il
naso zampillante che le cospargeva labbra e mento di sangue. Artigliava
l’aria, scalciando nella stretta di Diamo, gli occhi fissi su Carlotta.
«Sei morta, puttana» sbraitò. «Mi hai sentito? Morta!»
«Lasciala andare!» ruggì Carlotta a Diamo. «Lasciala andare!»
«Ti farò mangiare il tuo fottuto cuore! Ti farò…»
«BASTA!»
Quella voce tonante paralizzò la massa brulicante di accoliti e tutti gli
occhi si voltarono. Mia vide il fratello di Ash, Osrik, in piedi sulla panca, le
guance paonazze di rabbia.
«Nel nome della Mannaia, cos’avete che non va voi due? Siamo
discepoli di Niah, non fottuti braavi. Ci troviamo nella casa di una dea.
Mostrate un po’ di dannato rispetto!»
L’invettiva di Osrik parve placare un po’ Carlotta. Mia e Ash, che si
reggevano l’un l’altra per il braccio, allentarono lentamente la stretta.
Diamo lasciò andare Jessamine, e la ragazza, con un’ultima occhiata
velenosa, si pulì il sangue dal mento e tornò a sedersi al tavolo, riprendendo
a mangiare come se non fosse successo nulla. Fredda e dura come un barile
di ghiaccio.
Mia e Ash aiutarono Carlotta a raccogliere gli appunti sparpagliati. Tutte
e tre erano accovacciate sopra quella devastazione, con Carlotta che cercava
di rimettere le pagine in una specie di ordine. Il suo lavoro era un caos,
bagnato fino a essere illeggibile in diversi punti. Aveva le spalle incurvate,
la sua facciata stoica era a brandelli. Settimane di lavoro rovinate in un
attimo. Mia si ritrovò a provare pena per la ragazza. Lotti aveva una mente
affilata come un rasoio ed era anche un’ottima compagnia. Dopo Ash, la
ragazza era la cosa più vicina a un’amica che lei avesse realmente in quelle
sale.
«Non affliggerti per ciò che ha detto quella puttana» sussurrò Ash,
lanciando un’occhiata alla guancia immacolata di Carlotta. «Non è più
quello che sei.»
«Non è mai stato quello che ero.»
Le mani di Carlotta si fermarono. Il suo sguardo divenne annebbiato.
«È stato solo ciò che mi hanno reso.»
Mia lanciò ad Ash un’occhiata di avvertimento, pensando che fosse
meglio non toccare quel tasto dolente. Raccogliendo altre pagine, le porse a
Lotti assieme a un cambio di argomento.
«Tengo i miei appunti nella mia stanza» disse. «Forse non sono arrivata
al punto in cui eri tu, ma puoi prenderli in prestito, se vuoi.»
Carlotta parve sorpresa. Parve tornare dal ricordo in cui si era persa, e la
sua maschera andò di nuovo al proprio posto. Rivolse un piccolo sorriso a
Mia.
«Non è necessario. Ne avevo memorizzato buona parte. Chiederò ad
Ammazzaragni il permesso di lavorare fino a tardi nell’aula. Dovrei riuscire
a rimettermi in pari con il resto se sacrifico un po’ di sonno. Perciò grazie
per l’offerta, ma ti prenderò comunque a calci nel sedere, Corvere.»
«Stai attenta» la ammonì Ash. «C’è qualcuno che vorrebbe dare ancora
più calci al tuo.»
Carlotta lanciò un’occhiata a Jessamine. La ragazza stava
tranquillamente consumando il suo pasto, comportandosi come se avesse
sempre avuto il naso insanguinato. Non mostrava alcun dolore. Nessuna
debolezza. Jess era una rogna insopportabile, ma Mia doveva ammetterlo:
quella ragazza aveva le palle.
«Che ci provi» disse Carlotta.
Lotti si guardò alle spalle, squadrando Osrik dall’alto in basso. Il ragazzo
aveva ripreso il proprio posto al tavolo dopo la sua invettiva e guardava
accigliato il caos provocato dalla rissa. «Sai, tuo fratello non è così male
quando si mette a urlare, Ashlinn.»
«Oh, Madre Nera, chiudi la bocca prima che mi metta a vomitare.»
Carlotta si alzò e si diresse da Osrik, poi gli parlò piano, con il quaderno
fradicio in mano. Oz le rivolse quel suo sorriso affascinante e toccò con le
punte delle dita quelle di Lotti.
Mia guardò Ash sollevando le sopracciglia. «Sono diventati intimi. Li ho
visti lavorare assieme a una mistura qualche cambio fa. E sembra che
vengano appaiati molto spesso a Verità.»
Ash gonfiò le gote e finse di vomitare sotto il tavolo.
Mia sorrise, ma scoprì che dentro di sé provava una certa inquietudine.
L’iniziazione era sempre più vicina. Le frizioni stavano crescendo. I coltelli
erano sguainati. La consapevolezza che non tutti sarebbero diventati Lame
aleggiava a ogni respiro, l’idea che gli altri accoliti fossero degli avversari
influenzava ogni momento. Sarebbe stato facile pensare a quel modo.
Vedere i loro compagni crollare lungo la strada, a uno a uno. Ogni morte li
faceva diventare un po’ più freddi. Le prove della Chiesa stavano
diventando più pericolose, la considerazione del Culto per le vite degli
accoliti sempre più sprezzante. Mia sapeva che era pura idiozia pensare a
chiunque altro che non fosse lei stessa.
Supponeva che fosse quello il punto. Che cosa aveva detto Naev?
“Questo posto dà tanto. Ma prende molto di più.”
Toglieva l’empatia. La compassione. Pezzo dopo pezzo. Morte dopo
morte.
“E cosa rimarrà alla fine?”
Mia si guardò attorno nell’Altare del Cielo. Le facce. Le macchie di
sangue. Le ombre.
“Lame” si rese conto.
“Lame.”

a. Una lingua parlata completamente con gesti di mani, dita e faccia. Utilizzata da un maestro, una
conversazione in Senzalingua può sembrare poco più di una serie di tic, occhiolini e piccoli cenni
del capo, del tutto irrilevanti per chi non sia addestrato in quest’arte.
Chi inizia a praticarla, spesso, sembra fare facce strane come in preda a una crisi epilettica, ma
dicono che la pratica renda perfetti.
b. I braavi sono un gruppo variegato di bande che gestiscono gran parte delle attività criminali a
Godsgrave: prostituzione, furti e violenza organizzata. Per centinaia d’anni, i braavi sono stati una
spina nel fianco di vari re itreyani, e perfino dopo la formazione della Repubblica rimasero
rintanati nei Bassifondi di Godsgrave come zecche particolarmente ostinate. Le loro ruberie
usuravano il commercio, diminuivano i profitti, e sembrava che nessuna irruzione di Luminatii
potesse estirparli in modo permanente.
Fu un senatore appena eletto, Julius Scaeva, a proporre per primo l’idea di dare alle bande di
braavi più potenti – come quelle che controllavano i moli e il distretto dei magazzini di Godsgrave
– uno stipendio ufficiale dai forzieri della Repubblica. Argomentò che sarebbe costato di meno
pagare i malviventi che organizzare una forza di polizia ufficiale per combatterli, e che le bande
stesse avrebbero tratto beneficio da un periodo di stabilità. Scaeva finanziò il primo pagamento
con la propria ricchezza personale e fu ricompensato praticamente da un cambio all’altro con un
calo straordinario dei tassi di criminalità nei Bassifondi. Ciò vide la sua popolarità schizzare alle
stelle tra i mercanti che esercitavano il commercio ai moli, tra i cittadini che in precedenza erano
rimasti invischiati nelle guerre tra i Luminatii e i braavi, e tra i malviventi stessi, a cui piaceva
essere pagati tanto per essere pagati. Fu dopo questa mossa brillante che Scaeva venne
soprannominato per la prima volta tra la folla il Senatum Populiis: il Senatore del Popolo.
Gli epiteti con cui i suoi avversari lo chiamavano a porte chiuse erano molto meno lusinghieri.
Ma solo quando le porte erano sbarrate.
CAPITOLO 25
PELLE

Due settimane dopo, tutto cominciò a cambiare.


Il gregge era radunato per il primopasto come al solito. A Mia girava la
testa dopo ore a lavorare sulla formula di Ammazzaragni. Carlotta passò
l’intera colazione china sul suo quaderno recuperato, impegnata a tentare di
risolvere il dilemma della Shahiid, dicendo a malapena una parola. Stava
facendo le ore piccole nell’Aula di Verità per compensare la distruzione del
suo lavoro, gli occhi lividi e iniettati di sangue. Anche se Lotti non ne
parlava, la sua faida con Jessamine aleggiava nell’aria come veleno.
Ashlinn riempiva quei vuoti parlando di qualche nuovo spasimante che
aveva trovato nel corso del suo ultimo viaggio a Godsgrave: il figlio di un
senatore che, a quanto pareva, parlava delle faccende di suo padre nel
sonno.
Mentre gli accoliti si allontanavano dall’Altare del Cielo, Mia vide la
Shahiid Aalea prendere da parte Tric e parlargli in toni sommessi. Sotto
l’inchiostro, Mia vide la faccia del ragazzo impallidire visibilmente.
Sembrava sul punto di discutere, ma Aalea tagliò le ginocchia alle sue
proteste con un sorriso affilato come necrosso.
La lezione di quel cambio era nell’Aula di Canti e, nel corso delle ultime
lezioni, Solis si era concentrato sull’arte delle armi a distanza. Una serie di
fantocci impagliati erano sospesi dal soffitto con catene di ferro oliate. Un
accolito stava nel cerchio di addestramento e Solis lo equipaggiava con una
balestra o coltelli da lancio, poi ordinava agli altri di far oscillare i bersagli
per colpirlo alla schiena e alla testa. I fantocci erano abbastanza pesanti da
mandarti a gambe all’aria se ti colpivano, ed evitare di farsi beccare da uno
di essi si dimostrò una motivazione valida. Mia era già grata che un
cambiamento dal normale allenamento a due significasse una pausa
dall’essere il fantoccio di addestramento per Jessamine, ma in questo
particolare gioco scoprì anche di avere un vantaggio di cui i suoi compagni
non disponevano.
Quella consapevolezza giunse quando prese posto nel circolo, con i
coltelli da lancio tenuti tra i denti. Mentre Mia si legava i lunghi capelli in
una treccia, Diamo colse l’opportunità per prenderla alla sprovvista e fece
oscillare in silenzio il suo fantoccio contro la schiena di Mia. Ma anche se
lei non poteva vedere il bersaglio precipitarsi nella sua direzione, in qualche
modo lo percepì comunque arrivare. Fece un passo di lato e perforò l’uomo
di paglia con tre coltelli, poi si voltò verso Diamo scoccandogli
un’occhiataccia fulminante.
Il ragazzo le lanciò un bacio.
Quando altri fantocci giunsero dondolando verso di lei, lanciati dagli
altri accoliti, Mia riuscì a evitarli tutti quanti. Forse era perché il buio qui
non aveva mai conosciuto la soliluce. Ma la ragazza si rese conto che,
anche senza vederli, lei riusciva a percepirli.
Riusciva a sentire le loro ombre.
Mia riuscì a evitare tutti i bersagli durante la sua permanenza nel
cerchio. Muovendosi come una brezza tra gli uomini di paglia, con i coltelli
che cantavano, fu lieta di aver trovato finalmente qualcosa in cui eccelleva
nell’aula di Solis. Non aveva avuto alcuna notizia da parte del Cronista
Aelius sulla sua ricerca del tomo che rivelava i misteri dei tenebris. Non
c’era stato alcun segno di lord Cassius dalla sessione di tortura a
Godsgrave. Ma in modo lento e costante, lei stava facendo sempre più
scoperte sul suo dono. Un sorriso le increspò le labbra e rimase lì fino a
circa metà della lezione, quando Tric prese posto nel cerchio e Marcellus lo
centrò alla schiena con un uomo di paglia volante.
Marco mostrò un sorriso (migliorato parecchio dalla Tessitrice, pensò
Mia) e si inchinò.
«Dovrai essere più veloce di così, Trucco.»
Tric si rialzò da terra e bofonchiò. «Perché non aspetti che sia pronto, la
prossima volta?»
«Così l’esercizio non avrebbe più scopo, giusto?»
«Dannati Itreyani» ringhiò Tric. «Puoi sempre contare sul fatto che ti
conficchino un coltello nella schiena quando ti giri, eh?»
Il seducente sorriso di Marco si spense lentamente. «Tu stesso sei mezzo
Itreyano, idiota.»
Mia ebbe un tuffo al cuore. Tric sgranò gli occhi. E poi accadde. Pugni e
imprecazioni, gomitate e ringhi, i ragazzi che ruzzolavano sulla pietra. Tric
spaccò la fronte di Marco con un pugno e gli colpì il labbro fino a farlo
sanguinare. Presto Solis li divise, prendendo a cinghiate entrambi come se
fossero bambini finché non smisero di lottare. Sollevando in piedi Marco,
gli ordinò di far visita a Marielle per medicare le ferite.
«E tu» ringhiò lo Shahiid a Tric. «Dieci giri di scale. Su e giù. Vai.»
Tric guardò torvo il cieco negli occhi e Mia si domandò sinceramente se
avesse intenzione di provare ad aggredire anche lui. Ma con un’espressione
rabbuiata il ragazzo obbedì. Solis tuonò agli altri accoliti che si rimettessero
al lavoro e Zitto entrò nel cerchio per iniziare il suo turno. Mia notò che
Tric non fece ritorno nell’aula dopo il decimo giro.
Andò a cercarlo al termine di Canti, controllando la sua camera, l’Altare
del Cielo, l’Ateneo. Lo trovò infine nella Sala degli Elogi, i pollici
agganciati alla cintura, che fissava la statua di Niah. I nomi di mille
cadaveri erano intagliati nella pietra ai suoi piedi. Sulle pareti tutt’attorno
c’erano tombe senza nome.
«Come va, Dominus Tric?»
Lui la guardò per un istante. Annuì una volta.
Mia si avvicinò a lui lentamente, le mani serrate dietro di sé. Il ragazzo
dweymeri tornò a voltarsi verso la statua, alzando lo sguardo sulla faccia di
Niah. Gli occhi della statua erano dotati della inquietante caratteristica di
dare l’impressione che guardasse dritto verso di te, a prescindere da dove ti
trovassi nella sala. L’espressione della dea era feroce. Cupa. Mia si
domandò chi o cosa lo scultore avesse immaginato che Niah guardasse
quando aveva foggiato il suo volto. Per la prima volta, notò che Niah teneva
la bilancia nella mano destra. La spada era stretta nell’altra.
«È mancina» disse Mia. «Come me.»
«Non è affatto come te» ringhiò Tric. «Lei è un’avida puttana.»
«… Sei assolutamente certo che sia saggio chiamarla una puttana nella
sua stessa casa?»
Tric la guardò in tralice. «Pensavo che tu non credessi nelle divinità.»
Mia scrollò le spalle. «È difficile non crederci quando il Dio della Luce a
quanto pare ti odia visceralmente.»
«Che si fotta. E che si fotta anche lei. A cosa ci servono? Ci danno una
sola cosa. La vita. Miserabile e merdosa. Dopodiché? Prendono. Le tue
preghiere. I tuoi anni.» Gesticolò verso le tombe senza nome tutt’attorno a
loro. «Perfino la vita che ti avevano dato all’inizio.»
Tric scosse il capo.
«Prendere è tutto ciò che fanno.»
«… Sicuro di star bene?»
Tric sospirò. Incurvò le spalle. «La Shahiid Aalea me l’ha fatto sapere.»
Mia attese con pazienza. Il ragazzo indicò l’inchiostro sulle sue guance.
«L’ho rimandato il più possibile» riprese lui. «Dopo cena. Sarà il mio
turno con la Tessitrice.»
«… Ah.»
Lei gli mise goffamente una mano sulla spalla. Non sapeva cosa dire.
«Perché lo stavi evitando? Per il dolore?»
Tric scosse il capo. Mia non disse altro e lasciò che fosse il silenzio a
parlare per lei. Poteva vedere che il ragazzo era in difficoltà. Avvertì Messer
Cortese nella sua ombra, che gravitava verso la paura del ragazzo come
mosche con carne morente. Lui voleva parlare, Mia lo sapeva. Tutto ciò che
doveva fare era lasciargli lo spazio per…
«Ti ho raccontato di mia madre» disse lui. «Di mio… padre.»
Mia annuì, quasi piena di tristezza al solo pensiero. Gli toccò di nuovo la
mano. Con un sospiro, Tric guardò i propri piedi. Le parole si incastravano
dietro i suoi denti. Mia rimase semplicemente al suo fianco, tenendogli la
mano. In attesa che il silenzio fosse riempito.
«Mi hai domandato del mio nome quando ci siamo incontrati» disse lui
infine. «Mi hai detto che i Dweymeri hanno nomi come Mangialupi e
Spezzaschiena.» Un sorrisetto fugace. «Donacoccole.»
Mia ricambiò il sorriso e non disse nulla.
«E mi hai detto che il mio nome non poteva essere Tric.»
«… Già.»
Il ragazzo alzò lo sguardo verso la statua sopra di loro. I suoi occhi
nocciola erano cupi e annebbiati.
«Quando nasce un Dweymeri, il bimbo viene portato dall’alta suffi
sull’isola di Farrow. Al tempio di Trelene. E la suffi tiene il bimbo sopra
l’oceano, guarda nei suoi occhi e vede il cammino che gli si prospetta. E le
prime parole che pronuncia sono il nome del bambino. Camminaterra per
un vagabondo. Ammazzadrachi per un guerriero. Bevionde per uno
destinato ad affogare.
«Perciò, come doveva fare la brava figlia di un Bara, mia madre mi portò
a Farrow quando ebbi tre cambi.» Un sorriso amaro. «Ero un nanerottolo. I
Dweymeri sono gente grossa. Dicono che i nostri antenati discendevano dai
giganti. Ma io ero solo un mezzosangue. E un piccoletto. Avevo preso da
mio padre, suppongo. La levatrice scherzò dicendo che mia madre non mi
aveva nemmeno sentito mentre mi portava in grembo.»
Tric scosse il capo. Il sorriso gli morì sulle labbra.
«Sai cosa disse la suffi quando mi sollevò?»
Mia scosse la testa. Muta e sofferente.
«Disse: “tu rai ish’ha chē”.»
Mia mise assieme le prime lettere della frase e trovò il suo nome. Ma…
«Non parlo dweymeri» mormorò.
Tric guardò Mia. Rabbia e dolore nei suoi occhi.
«Affogalo e falla finita.» La sua voce si abbassò a un sospiro tremolante.
«Furono queste le sue prime parole. Era così che mi aveva chiamato, cazzo.
Affogalo e falla finita.»
Mia chiuse gli occhi. «Oh, Tric…»
«La suffi mi riconsegnò a mia madre e le disse di darmi alle onde.
Aggiunse che la signora degli oceani mi avrebbe accettato, poiché il mio
popolo non l’avrebbe mai fatto.» Una risata amara. «Il mio popolo.»
Si sedette sul piedistallo ai piedi della Madre, fissando nel buio.
Mia gli si accomodò accanto, fissando solo lui.
«Tua madre disse alla sacerdotessa di andare all’Abisso, immagino.»
«Proprio così.» Tric sorrise. «Era feroce, mia madre. Mio nonno era
d’accordo che dovesse affogarmi, così lei mi portò via da Farrow. Lontano
da lui. Abbandonò il suo diritto di nascita per me. Tutto quanto. Morì di
vaiolo quando avevo dieci anni. Ma sul suo letto di morte, mi diede
questo.» Sollevò i tre drachi d’argento che circondavano sempre il suo dito.
«E mi raccontò di un modo per dimostrare quanto valevo, come lei sapeva
già.»
Tric si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia.
«I guerrieri dweymeri si sottopongono a un rituale quando diventano
adulti. Al termine, le nostre facce vengono tatuate cosicché tutti sappiano
che abbiamo superato la Prova. Ai guerrieri del clan Tredrachi toccava la
dimostrazione più difficile. Affrontare le acque profonde e uccidere uno dei
tre grandi drachimarini. Tempesta, sciabola o bianco.
«Da quando mia madre me ne parlò, iniziai a sognarlo. Vivevamo a est
di Farrow. Un porto chiamato Solace. Dopo la sua morte, un vecchio lupo
di mare mi insegnò a costruire barche, a maneggiare le vele, a usare gli
arpioni. Abbattei io stesso gli alberi di legnoferro per il mio skiff. Mi ci
volle un anno per costruirlo. E quando ne compì quattordici, voltai le spalle
a Solace e mi diressi al largo.
«Vedi, i drachitempesta sono grossi ma stupidi. Gli sciabola sono più
intelligenti ma anche più piccoli. Ma il dracobianco… lui è il re degli abissi.
Grosso, crudele e scaltro. Così mi diressi a nord verso le acque fredde, dove
le foche stavano figliando. Tutto ciò che volevo era tornare a Farrow con la
carcassa di un draco di diciotto piedi. Mettermi di fronte a mio nonno e
sentirgli dire che si era sbagliato su di me. Pregai la signora degli oceani
affinché mi portasse una bestia degna di un uomo. E lei rispose.»
Tric respirò a denti stretti, gli occhi illuminati.
«Madre della Notte, quanto cazzo era grosso, Mia. Avresti dovuto
vederlo. Quando prese la lenza, per poco non spezzò il mio skiff in due. Ma
il mio amo mordeva a fondo e la barca resse. Cercò di venirmi addosso più
di una volta, ma dopo aver assaggiato i miei arpioni capì di non doversi
avvicinare troppo. Le onde si abbatterono su di noi, e io non mangiai né
dormii. Lottavo e basta. Cinque cambi interi a scontrarci, le mie mani che
sanguinavano. Immaginai la faccia di mio nonno mentre trascinavo questo
mostro nella Baia di Farrow.
«Si stancò. Non riusciva a stare giù e stava nuotando sempre più
lentamente. Così vogai accanto a lui e presi il mio arpione migliore e più
appuntito. Quello che avevo tenuto per ultimo.»
Tric guardò Mia attraverso il velo delle sue salciocche.
«Hai mai fissato un draco negli occhi?»
La ragazza scosse il capo. Non osava aprire bocca. Non voleva
infrangere questo silenzio mortale. Quando Tric parlò di nuovo, perfino la
statua della Madre sembrava in ascolto.
«Hanno gli occhi neri. Occhi da cadavere. Guardi dentro quel nero e
tutto ciò che puoi vedere è te stesso. E io lo vidi. Me stesso. Quel piccolo,
terrorizzato bastardo con la sua lancia striminzita e gli occhi di suo padre. E
lo trapassai con quell’arpione. Proprio in mezzo al suo cuore da ragazzino.
Uccisi lui e anche la bestia. E mi reputai un uomo.
«Navigai nella Baia di Farrow con la sua testa legata alla murata. Aveva
denti grossi come il mio pugno. Dovevano esserci almeno cento persone
attorno a me quando glieli strappai dalle gengive. Poi li infilai per farci una
collana e mi diressi a casa di mio nonno.
«Si domandarono chi fossi. Questo macilento mezzosangue. Troppo
piccolo e pallido per essere uno di loro, pur conoscendo le loro usanze.
Quindi entrai nella casa di mio nonno, mi inginocchiai davanti al suo
scranno e gli dissi chi ero. Il figlio di sua figlia. E gli mostrai i denti che
avevo attorno al collo e l’anello che avevo al dito. Poi indicai la testa sulla
spiaggia e gli chiesi che mi nominasse uomo.»
Tric strinse le mani a pugno. Le vene si tesero sotto la sua pelle,
stagliandosi sul muscolo. Mia si rese conto che stava tremando. Non sapeva
se per la rabbia o per la sofferenza.
Mise una mano su di lui e parlò più piano che poteva.
«Non devi raccontarmelo, Tric…»
Si impappinò sul nome, domandandosi se fosse un insulto. Non sapeva
cosa dire o fare. Si sentiva inerme. Stupida. Dopo tutte le lezioni di Aalea.
Dopo tutto quello che aveva imparato.
“Inerme.”
Tric scosse il capo. La sua voce era carica di rabbia.
«Lui ri…»
Per un attimo al ragazzo mancò la voce. Sibilò. Si schiarì la gola.
«Lui rise, Mia. Mi chiamò bastardo. Figlio di puttana. Koffi. Mi disse
che quando sua figlia l’aveva sfidato, aveva cessato di essere sua figlia. Mi
disse che non ero suo nipote.
«“Ma tu sei un uomo, piccolo koffi” disse. “Perciò vieni a prendere il tuo
inchiostro, cosicché gli altri possano riconoscerti per ciò che sei.” I suoi
uomini mi tennero fermo a terra mentre lui mi strappava i denti di draco dal
collo. Li usò sulla mia faccia mentre urlavo. Poi versò inchiostro nelle ferite
e mi picchiò finché non persi i sensi.»
Mia sentì lacrime rigarle le guance. Inarcò la schiena mentre le unghie le
mordevano i palmi. Cinse il ragazzo con le braccia e lo strinse più forte che
poteva, seppellendogli la faccia tra i capelli.
«Tric, mi dispiace così tanto.»
Lui proseguì, incurante del suo tocco. Era come se una ferita ora fosse
stata incisa e il veleno ne stesse uscendo a fiotti. Per quanti anni se l’era
tenuto dentro?
«Mi legarono a un palo di fronte a casa di mio nonno» continuò. «I
bambini venivano a tirarmi sassi. Le donne mi sputavano addosso. Gli
uomini mi insultavano. Le ferite si infettarono. Gli occhi mi si ingrossarono
e non riuscivo a vedere.» Scosse il capo. «Quella era la parte peggiore.
Attendere al buio il sasso successivo. Il prossimo ceffone. Lo sputo
seguente. Bastardo. Figlio di puttana. Koffi.»
«Figlie» mormorò Mia. «Ecco perché non volevi indossare la benda per
entrare nella Montagna.»
Tric annuì. Si morse il labbro.
«Pregai la signora degli oceani affinché mi liberasse. Che punisse coloro
che mi torturavano. Mio nonno più di tutti. E alla terza illuminotte, quando
si levarono i venti e la morte era così vicina che potevo sentire il suo gelo,
udii qualcuno sussurrarmi all’orecchio. Parole come ghiaccio.
«“La signora degli oceani non può aiutarti, ragazzo.”
«“Non merito di morire così” dissi io. E la udii ridere.
«“Il merito non ha nulla a che fare con la morte. Lei ci prende tutti. Sia i
giusti sia i malvagi.”
«“Allora prego che prenda il Bara lentamente” sbraitai. “Prego che urli
mentre muore.”
«“Cosa daresti perché accadesse?”
«“Qualunque cosa” le dissi. “Tutto.”
«Così lei mi liberò. Si chiamava Adiira. Colei che diventò la mia
Shahiid. Curò l’infezione e mi instradò sul sentiero. Mi disse che la Madre
della Notte mi aveva scelto. Che mi avrebbe reso un’arma. Il suo strumento
su questa terra. E un cambio l’avrei visto morire. Mio nonno.» Tric strinse
la mascella e sibilò a denti stretti. «Morire urlando.»
«Io giurai la stessa cosa» disse Mia. «Remus. Duomo. Scaeva.»
«Uno dei motivi per cui mi piaci, Figlia Pallida.» Tric sorrise. «Siamo
uguali, tu e io.»
Il ragazzo si toccò la faccia. lo scarabocchio d’inchiostro che raccontava
la storia della sua tortura.
«Ogni cambio, mi svegliavo e vedevo questi allo specchio. Ricordavo
cosa mi aveva fatto. Perfino quando Adiira mi addestrava quasi fino allo
sfinimento, guardavo nello specchio e me lo ricordavo mentre rideva. Non
riesco a ricordare che aspetto avessi prima. Questo inchiostro… è ciò che
sono.» Lanciò un’occhiata a Mia. Alle sue gote ora perfette e alle labbra
increspate. «Marielle mi toglierà le cicatrici. Adiira mi ha avvisato. Mi
rendono identificabile. Ma cosa sarò quando non ci saranno più? Sono
quelle a rendermi ciò che sono.»
«Stronzate» disse Mia.
Tric sbatté le palpebre dalla sorpresa. «Cosa?»
«Questo ti rende ciò che sei.» Diede un pugno al fascio di muscoli sopra
il suo cuore. «Questo.» Gli diede un ceffone in cima alla testa. «Queste.» La
ragazza gli prese le mani, si inginocchiò di fronte a lui e fissò il ragazzo
negli occhi. «Marchi da schiavo. Tatuaggi. Cicatrici. Il tuo aspetto non
cambia quello che sei dentro. Possono darti una nuova faccia, ma non
possono darti un nuovo cuore. Qualunque cosa ti tolgano, questo non
possono portartelo via, a meno che tu non glielo permetta. È questa la vera
forza, Tric. È questo il vero potere.»
Gli strinse le mani così forte che le fecero male le dita.
«Tienilo da conto, mi hai sentito? Tu ti immagini mentre calpesti la
tomba di quel fottuto bastardo. Mentre sputi sulla terra in cui è sepolto.
Succederà, Tric. Un cambio, avrai la tua vendetta. Te lo prometto. Che la
Madre mi aiuti, te lo giuro.»
Il ragazzo fissò le mani che reggevano le sue. «È un sentiero oscuro
quello che percorriamo, Mia.»
«Allora lo percorreremo insieme. Io ti guarderò le spalle. Tu guarderai le
mie. E se dovessi cadere prima della fine, tu eliminerai Scaeva per me. Lo
farai urlare. E io giuro lo stesso per te.»
Il ragazzo la guardò. Quegli occhi nocciola senza fondo. Quell’odio
imbrattato sulla pelle. Le martellava il cuore. Il suo sguardo era colmo di
passione, i palmi sudavano in quelli di Tric.
«Farà male?» chiese.
«… Dipende.»
«Da cosa?»
«Dal fatto che tu voglia che io menta o no.»
Tric rise, infrangendo l’incantesimo cupo che manteneva la sala
immobile. Il sorriso di Mia si spense non appena guardò nei suoi occhi. Si
spostò un po’ più vicina a lui. Non abbastanza.
«Più tardi,» disse lei senza volere «se non vuoi stare da solo…»
«… È saggio?»
«Dopo la nona campana? Probabilmente no.»
Tric scivolò verso di lei. Era alto e forte… oh, quanto era bello. Le
salciocche caddero attorno alle guance di Mia mentre lui si sporgeva in
avanti.
«Allora probabilmente non dovremmo.»
Le labbra di Mia sfiorarono le sue mentre lei sussurrava. «Probabilmente
no.»
Restarono sospesi lì per un altro momento, lo stomaco di Mia in
subbuglio e la pelle che le formicolò quando Tric le fece scorrere
delicatamente un dito lungo il braccio. Mia sapeva esattamente cosa voleva
il ragazzo. La stessa cosa che voleva lei. Ma tra loro aleggiava il pensiero
delle mani torcenti della Tessitrice. Strangolò quel momento. E così lui si
alzò. Fissò il buio e respirò a fondo.
«I miei ringraziamenti, Figlia Pallida» sorrise lui.
«Al tuo servizio, Dominus Tric.»
Mia lo guardò allontanarsi e la sua assenza la lasciò sofferente. Quando
se ne fu andato, lei rimase seduta al buio ai piedi di una dea, e la sua ombra
cominciò a sussurrare.
«… penso che faresti meglio a visitare la tessitrice dopo il ragazzo…»
«E perché mai?»
«… sembra che il tuo cervello e le tue ovaie si siano scambiati di
posto…»
«Oh, smettila. Temo che morirò dal ridere.»
Si ritirò nelle sue stanze e tornò a immergersi tra appunti e formule,
persa di nuovo nell’enigma. Una mano tracciava cerchi indolenti nell’aria,
facendo contorcere le ombre della stanza. Messer Cortese balzava per
afferrarle come un vero gatto che dava la caccia ai topi.
Quando suonò la campana dell’ultimopasto, lei rimase con l’enigma,
anche se la mente scivolava verso Tric. Si domandò come se la stesse
cavando nella sala delle maschere della Tessitrice. Le emozioni stavano
crescendo tra gli accoliti: poteva percepirlo. Man mano che la competizione
diventava più intensa, lo stesso succedeva con le altre sensazioni. Mia
aveva come l’impressione che il mondo stesse diventando più rumoroso,
che ogni cosa avesse maggiore importanza. Non aveva idea di cosa avrebbe
potuto portare il prossimo cambio. Lei non lo amava. L’amore era stupido.
Folle. Non aveva alcun posto tra queste mura o nel suo mondo, e lei lo
sapeva.
Ma una parte di lei sperava che non si sarebbe trovata da sola quella
sera…
Ore ad aspettare lì al buio. Farfalle che battevano le ali nelle sue viscere.
Si domandava se con Tric fosse tutto a posto. Chissà che aspetto avrebbe
avuto quando quegli scarabocchi d’odio fossero stati cancellati dal suo viso.
Chi sarebbe potuto essere alla fine.
Attese che bussasse alla porta. Ora dopo ora.
«… ne sei certa…?»
«Lo sono.»
«… mi domando se…»
«So cosa sto facendo.»
Ma il sonno giunse prima del ragazzo.

Mia si svegliò a un certo punto nel buio dell’illuminotte, gli occhi che si
riaprivano lentamente da un riposo senza sogni. Quanto tempo aveva
dormito? Che ora poteva…?
Poi giunse di nuovo. Un suono lieve che svegliò le sue farfalle.
Toc, toc.
Rotolò giù dal letto e si gettò una vestaglia di seta sopra la camicia da
notte. Le martellava il cuore contro il petto. Sotto i piedi nudi aveva pietra
fredda. Raggiunse la porta e le tremarono le mani mentre girava la chiave e
socchiudeva l’uscio. E lo vide lì, solo una sagoma al buio, le salciocche che
incorniciavano i contorni nascosti del suo volto.
Con le labbra asciutte, Mia si fece da parte senza una parola. Lui guardò
su e giù per il corridoio, soffermandosi sulla soglia. Se fosse stato trovato
fuori dalla sua camera dopo le nove, avrebbe subito una tortura per mano
della Tessitrice. Ma sapeva cosa sarebbe successo se fosse entrato. Lo
sapevano entrambi. Un respiro che parve durare un’eternità mentre lei lo
osservava attraverso le ciglia. E infine, silenzioso come il suo sospiro, lui
entrò.
Mia toccò la lampada arkemica sul suo tavolo e attese che il calore della
sua mano accendesse la luce all’interno. Quella tremolò e un caldo bagliore
color seppia sbocciò nel vetro. Tric era dietro di lei: poteva percepirlo.
Sentiva la sua ombra. Avvertiva la sua paura di essere qui. Il suo desiderio.
Trattenendo il fiato, Mia si voltò e guardò la sua faccia.
Un ritratto, proprio come si era aspettata. L’inchiostro non c’era più, le
cicatrici di denti di draco erano scomparse, al loro posto un’abbronzatura
liscia e immacolata. Guance più definite, e le parti infossate attorno agli
occhi colmate. Era il tipo di bellezza per cui una ragazza avrebbe potuto
radunare un esercito, uccidere un dio o un demone. Questa ragazza, almeno.
«La Tessitrice sa il fatto suo» disse Mia.
Tric si guardò i piedi, evitandola. Lei sorrise nel vederlo in imbarazzo.
«Come ti sembra?»
«Non male» rispose lui con una scrollata di spalle. «Voglio dire, mi ha
fatto soffrire come fuoco e ferro, ma dopo non è così male.»
«Ti mancano? I segni?»
«Lei mi ha permesso di tenerli.»
Il ragazzo indicò una fialetta di vetro su una cordicella di cuoio attorno
al collo. Mia vide che era piena di un liquido scuro e scintillante.
«È…?»
Lui annuì. «Tutto quello che resta dell’opera di mio nonno.»
Allungando una mano per toccarla, Mia fece scorrere un dito dal suo
colletto fino alla pelle al di sotto. Vide l’arteria che gli pulsava sul collo
accelerare. Si voltò per nascondere un sorriso.
«Qualcosa da bere?»
Lui annuì senza parlare. Mia si mise al lavoro con le coppe d’argilla e la
bottiglia che aveva sgraffignato durante una delle sue prime incursioni in
cerca dei ninnoli sulla lista di Mouser. Anche se il liquore non valeva
nessun punto nella competizione dello Shahiid, Mercurio le aveva sempre
insegnato di non lasciarsi sfuggire una buona marca, quando la vedeva.
Ne versò due e offrì una coppa a Tric. Lui fece un brindisi con lei e la
tracannò con lo stesso gesto. Mia ne versò ancora. «Vuoi sederti?»
Il ragazzo si guardò attorno, posando gli occhi sullo sgabello infilato
sotto la specchiera.
«C’è solo una sedia» disse.
Voltandosi, Mia si fece scivolare lentamente la vestaglia giù dalle spalle.
La lasciò cadere in un mucchio scomposto sul pavimento mentre strisciava
sul letto, godendo della sensazione degli occhi di Tric sul suo corpo. Mise
la bottiglia sul comodino e si sdraiò tra i cuscini, con le gambe allungate
davanti a sé e il liquore in mano. In attesa.
Lui si diresse verso il letto, senza che i piedi emettessero alcun suono
sulla pietra. Muovendosi come un lupo, abbassò la testa e inspirò il suo
aroma. Mia sapeva che doveva essere in grado di fiutare il suo desiderio. Il
cuore le martellava contro le costole. Aveva la bocca asciutta come il
deserto oltre quelle mura. Sorseggiò di nuovo l’aureovino, assaporando il
bruciore affumicato lungo la gola. Tric si sedette sul bordo del materasso,
incapace di staccare gli occhi da lei. La tensione crepitava tra loro,
increspandole gli angoli delle labbra. Poteva sentirla riverberare nei
polpastrelli. Pulsare sotto la pelle. Desiderio. Di lei per lui. Di lui per lei.
Nulla e nessuno in mezzo.
Lui tracannò il liquore con un sussulto. Mia guardò la luce giocare sulle
sue labbra mentre inghiottiva, le profonde depressioni della gola, la linea
forte e perfetta della mascella.
«Un altro?»
Lui annuì. In silenzio. Mia si tirò su lentamente e sentì la cinghia della
sottoveste caderle da una spalla. Si mise seduta a gambe incrociate, con la
seta arricciata attorno alle gambe. Era colma di un cupo piacere quando
vide gli occhi di Tric scorrere sul suo corpo, fino all’ombra tra le sue
gambe. Si mise carponi e si mosse sulle pellicce, gli occhi fissi nei suoi.
Allungò la mano verso la coppa che lui aveva in mano, le punte delle dita
che girarono attorno all’orlo fino ad arrivare al suo polso. Poi risalirono il
liscio rigonfiamento del suo braccio nudo, osservando la pelle accapponarsi
e sentendo il suo fiato che si mozzava. La faccia di Mia era solo a pochi
pollici dalla sua.
Non era certa di chi fu il primo a muoversi. Se lei o lui. Solo che si
ritrovarono uniti con uno schianto: Mia aveva gli occhi chiusi, ma la sua
bocca trovò quella di Tric come se avesse sempre conosciuto la strada. Pelle
calda e labbra che lo erano ancora di più. Mani forti e muscoli sodi. Le dita
di Tric le si avvolsero tra i capelli. Le dita di Mia gli artigliarono la pelle.
Tric premette la bocca contro la sua, facendole assaggiare l’aureovino sulla
lingua. Lei gli tolse la camicia, poi armeggiò con la cintura. Lui le afferrò la
sottoveste in un pugno e gliela strappò dal corpo come se non le dovesse
servire mai più.
Mia lo spinse sulla schiena e si sollevò a quattro zampe, mettendosi a
cavalcioni sulla sua faccia. Voleva assaggiarlo mentre lui assaggiava lei. La
bocca di Tric le lasciò una scia ardente sull’interno delle cosce, le mani
vagarono per la sua pelle nuda facendola rabbrividire. Con un rantolo, Mia
riuscì a strattonargli giù le brache fino alle ginocchia, e sentì che le separava
i lembi mentre lei lo prendeva in bocca. Gemendo attorno alla sua virilità,
avvertì la lingua di Tric guizzare contro di lei, sussurrando suppliche,
perdute nelle ombre sopra la sua testa. Le sue dita… Oh, Figlie, il suo liscio
calore ardente contro la lingua. La sua bocca contro quel bocciolo
dischiuso, col respiro affannoso mentre lei muoveva il pugno su e giù e
rotolava la lingua contro la sua corona, scendendo fino all’elsa. Voleva di
più. Voleva tutto.
Tirandosi su, ruotò lì dov’era, spingendolo di nuovo sul materasso
mentre Tric scattava verso di lei con gli occhi illuminati di lussuria. Salendo
sopra di lui, lo prese nella mano, quasi ebbra di desiderio. Accarezzandolo
con forza mentre lui gemeva, lo premette contro di sé. Tric balzò verso
l’alto, prendendole il seno in bocca, le mani sulle anche, e tirandola verso il
basso. Ma Mia oppose resistenza per un altro interminabile momento,
paralizzata sopra di lui. I loro sguardi fissi l’uno nell’altro. Alla distanza di
un pollice e di un’eternità dal precipizio.
Alla fine, però, lei si abbassò molto, molto lentamente guardandolo in
profondità negli occhi, dolore e piacere intrecciati, il respiro strozzato nei
polmoni, incapace perfino di rantolare. Dea, lui era così duro. La testa di
Mia si inclinò all’indietro tra uno sfarfallio di ciglia, lunghe ciocche strette
nel pugno mentre Tric spostava la lingua da un seno all’altro e lei
dondolava i fianchi, la schiena arcuata e le unghie che gli artigliavano la
schiena. Ora si muovevano come una cosa sola, i denti di Tric contro la sua
gola. Sibilando. Implorando.
Tric fece scivolare la mano in mezzo a loro, giù tra le gambe. Muovendo
con delicatezza le punte delle dita, le fece girare in cerchio e il calore dentro
Mia divenne sempre più rovente, luminoso e feroce finché non ci fu altro
che fiamma, accecante dietro i suoi occhi. Ogni muscolo si tendeva e lei
lanciava un urlo silenzioso tra i capelli di Tric. Lui sbatteva e bruciava
contro di lei, strabuzzando gli occhi e fremendo di desiderio mentre Mia
dondolava avanti e indietro sopra di lui. La ragazza guardò nei suoi occhi,
sapendo che era proprio sull’orlo e la implorava di lasciarlo cadere. E, nella
frazione di secondo prima del suo orgasmo, Mia si sollevò da lui e terminò
con la mano, rantolando mentre lui le schizzava su pancia e petto,
sussurrando il suo nome.
Spossati e senza fiato, crollarono in un mucchio sudato sul letto.
Il silenzio regnò nel buio tremante. Le ombre nella stanza ondeggiavano
e si agitavano. I libri caduti dagli scaffali erano spalancati, le pagine
spiegazzate sul pavimento. Gli sportelli della cassettiera erano aperti, lo
sgabello rovesciato, la stanza nel caos. Ma Tric la prese tra le braccia e le
baciò la fronte, e solo per un unico, minuscolo momento, Mia si lasciò
andare. Chiuse gli occhi e dimenticò. Ascoltò il cuore contro le costole di
lui, sentendo il bagliore caldo ritirarsi, un sorriso sulle labbra.
Giacque lì per un’eternità. Premuta contro la pelle di Tric, la guancia
contro il suo petto. I capelli erano sparsi su di lui, quasi a intessere una
coperta di tessuto nero e delicato come le ombre tutt’attorno. E lì, nel buio
ora immobile, lei sussurrò.
«Ho pagato troppo quel deliziante.»
Attese la replica. Gli attimi si dilungarono in minuti. Alla fine lei sollevò
la testa e si rese conto che Tric stava dormendo, il respiro delicato che gli
sfuggiva dalle labbra socchiuse.
Mia sorrise e scosse il capo. Sporgendosi, gli diede un bacio lungo e
gentile. Avvolse le braccia attorno a lui e chiuse gli occhi con un sospiro di
contentezza, sprofondando finalmente nel sonno.
E mentre scivolava via, le ombre ricominciarono a muoversi.
Dapprima lentamente.
Increspandosi.
Contorcendosi.
Prendendo infine forma in una sagoma sottile quanto un nastro, ora
appollaiata ai piedi del letto.
Un non-gatto, che fissava la ragazza con i suoi non-occhi. Attendeva
paziente, come faceva sempre. L’arrivo dei sogni. La possibilità di dilaniare
e fare a pezzi i terrori che giungevano a tormentarla ogni illuminotte da
quando aveva sentito il suo richiamo. Ogni illuminotte da allora, appollaiato
accanto a lei mentre dormiva. Sempre più forte a ogni boccone.
La cosa chiamata Messer Cortese attendeva. Una pazienza appresa nel
corso delle ere. Un silenzio tombale. Mancava poco. Da un momento
all’altro, lei avrebbe cominciato a piagnucolare. A chiamarlo con un
sussurro. Cos’avrebbe sognato, stanotte? Quelli che erano venuti per
affogarla? Le gambe di suo padre che scalciavano, il volto violaceo, il
gorgoglio? La Pietra Filosofale e gli orrori che aveva trovato all’interno,
Persa nell’oscurità a soli quattordici anni?
Non aveva importanza.
Avevano tutti lo stesso sapore.
Da un momento all’altro, gli incubi sarebbero arrivati.
Da.
Un.
Momento.
All’altro.
Ma per la prima volta da un’eternità, gli incubi non arrivarono.
La ragazza non era spaventata.
E lì, in quell’oscurità vuota, il non-gatto inclinò la testa.
Strinse i suoi non-occhi.
E non fu contento.

Mia aprì gli occhi. Si mise seduta nel letto. Sorrise nell’accorgersi che Tric
era ancora accanto a lei, nudo e magnifico nel bagliore arkemico, le
salciocche sparse sul cuscino.
Ed eccolo di nuovo. Il suono che l’aveva svegliata.
Toc, toc.
Tric si mosse e si accigliò nel sonno. Mia gli toccò la guancia e lui aprì
gli occhi, rendendosi finalmente conto di dove si trovava e mettendosi
seduto di scatto con un sibilo sommesso.
«Madre Nera, mi sono addormentato?»
«Shhh. C’è qualcuno alla porta.»
Mia strisciò giù dal letto. Cercò la sua vestaglia in mezzo al caos e
sorrise nel sentire gli occhi di Tric sul suo corpo. Infilandosi l’indumento di
seta nera attorno alle spalle, si mosse silenziosa fino alla soglia proprio
mentre bussavano di nuovo.
«Corvere» sibilò una voce.
«Ash?» Mia girò la chiave, socchiuse la porta e sbirciò fuori. Si
domandò perché Ash non avesse semplicemente scassinato la serratura
come faceva di solito. Vide la ragazza che attendeva lì fuori, gli occhi
azzurri sgranati al buio. «Che ora è?»
«Quasi la campana mattutina.» La ragazza spinse da parte Mia ed entrò
nella camera, nuvoloni neri addensati sopra la sua testa. «Una delle Mani
me l’ha appena detto. Fottuta Jessamine, quella piccola…»
Soltanto quando fu all’interno notò il disordine. I vestiti e i libri
disseminati per il pavimento. E, oh sì, il ragazzo dweymeri nudo seduto sul
letto di Mia.
«Ah» disse Ash.
Tric la salutò con la mano.
Ash lanciò un’occhiata a Mia, un po’ imbarazzata. «Spiacente, Corvere.»
Mia chiuse la porta affinché nessuno passando lì per caso potesse vedere
Tric nel suo letto. Se qualcuno avesse detto alla Reverenda madre che era
uscito dopo il coprifuoco…
«Hai intenzione di dirmi perché sei qui?»
Ashlinn non aprì bocca. Aveva le labbra socchiuse, non riuscendo a
trovare le parole.
«Cosa?» Mia scrutò nei suoi occhi. «Cos’è successo?»
«Mia…»
«Cazzo, Ash, cosa c’è?»
La ragazza scosse il capo.
Sospirò piano.
«Lotti è morta.»
CAPITOLO 26
CENTO

L’Aula di Verità aveva un odore diverso rispetto alla mattina. Tra marcio e
fiori freschi, erbe secche e acidi, c’era un nuovo aroma che sapeva di
ruggine e soffocava il profumo familiare.
“Sangue.”
Mia si fece largo tra le Mani radunate, seguita da presso da Ash e Tric. I
servitori cercarono di fermarla, ma lei inveì contro di loro e sgomitò finché
una voce dall’interno non gridò: «Lasciateli passare». Mia si ritrovò
all’interno della luce verde dell’aula, gli occhi sgranati dalla rabbia.
Carlotta era riversa sul tavolo da lavoro, con una penna d’oca stretta in
una mano fredda. Una chiazza di scarlatto coagulato ricopriva il tavolo
davanti a lei e si addensava sotto lo sgabello. Il canto del coro spettrale
aleggiava nell’aria assieme alla puzza ferrata di sangue.
La Reverenda madre e Ammazzaragni si trovavano accanto al corpo, e
parlavano in toni sommessi con Solis. Il sorriso abituale di Madre Drusilla
era completamente svanito dal suo volto e Ammazzaragni sembrava perfino
più cupa del solito. Solis fissò l’aria vuota sopra la spalla di Mia quando lei
entrò, il volto lugubre come il pavimento di un mattatoio.
«Mancano ore all’inizio delle lezioni, accoliti» disse Ammazzaragni.
«Non dovreste essere qui.»
«Quella è la nostra amica» disse Mia, indicando il corpo di Carlotta.
Ammazzaragni scosse il capo. «Non più.»
«Com’è morta?» chiese Tric.
«Non è morta» sbraitò Ash. «È stata ammazzata.»
«Gola tagliata» replicò Ammazzaragni. «Molto rapido. Quasi indolore.»
«Da dietro?»
La Shahiid annuì.
«Jessamine» sibilò Mia. «O Diamo. Forse entrambi.»
«Quei fottuti codardi» sussurrò Ash.
Madre Drusilla sollevò un sopracciglio.
«Sapete qualcosa su questa faccenda, accoliti?»
Mia lanciò un’occhiata ad Ashlinn e Tric, poi annuì lentamente.
«Carlotta e Jessamine hanno litigato all’ultimopasto qualche cambio fa,
Reverenda madre. Lotti era prossima a decifrare la formula di
Ammazzaragni, ma Diamo ha distrutto i suoi appunti. Per poco Lotti non ha
rotto il naso di Jessamine, che ha promesso di ucciderla per questo.
Chiedetelo a chiunque. L’abbiamo sentito tutti.»
«Capisco.»
«Lotti ha detto che avrebbe chiesto alla Shahiid Ammazzaragni il
permesso di lavorare fino a tardi per recuperare il lavoro perduto. Jessamine
e Diamo sapevano che sarebbe stata qui.»
«Da quello che stai descrivendo, chiunque fosse presente a
quell’ultimopasto doveva sapere che si trovava qui.»
«Ma Jessamine ha giurato di ucciderla. Di fronte a tutti noi.»
«E questo cosa dimostra, esattamente?» sbottò Solis. «Ricordo l’accolito
Tric qui minacciare di uccidere un altro novizio all’ultimopasto non molto
tempo fa. E quello stesso novizio è stato trovato morto il cambio
successivo.» Solis si voltò verso Tric. «Hai qualcosa da confessare,
accolito?»
«Non ho avuto nulla a che fare con la morte di Chiamapiena, Shahiid. Lo
giuro.»
L’uomo imponente si voltò verso Mia e ridacchiò. «Le minacce vuote
non fanno un assassino.»
«A voi non importa nemmeno che sia morta, vero?» chiese lei.
«Al contrario, accolita, ci importa eccome» disse Madre Drusilla.
«Motivo per cui stiamo indagando accuratamente invece di saltare a
conclusioni ovvie. Jessamine è una persona crudele, vero. Ma credi che sia
tanto sciocca da uccidere una ragazza che ha minacciato apertamente di
fronte a una stanza piena di persone solo poche sere prima?»
«Forse pensava che a nessuno di voi gliene sarebbe fregato nulla? Non
avete esattamente messo a soqquadro questo posto in cerca di indizi quando
hanno tagliato la gola a Chiamapiena. Più della metà di noi sono morti da
allora e nemmeno una lacrima è stata versata, per nessuno di loro.»
Solis le lanciò un’occhiataccia con le sue pupille cieche. «Ti consiglio di
stare attenta ai toni quando parli di persone migliori di te, ragazza. Il tuo
disprezzo per Jessamine è ben noto. Le sconfitte che ti ha inflitto nell’Aula
di Canti sarebbero motivo sufficiente per indurti a diffondere menzogne su
di lei, ora. E se c’è qualcuno tra questa congregazione che avrebbe
beneficiato dalla morte di Carlotta, quella eri tu.»
Mia era sorpresa. Esterrefatta. «Cosa?»
«Hai detto tu stessa che era vicina a risolvere il dilemma di
Ammazzaragni. Se Carlotta avesse preparato l’antidoto, la tua migliore
opportunità di finire prima dell’aula sarebbe andata perduta, no? Di sicuro
hai la stessa probabilità di un soliraggio nel ’bisso di essere vittoriosa
nell’Aula dei Canti.»
«Miserabile…»
«Mia» la ammonì Tric, mettendole una mano sul braccio.
«… spietato…»
«Corvere» borbottò Ash.
«… fottuto…»
«… mia…»
«COGLIONE! » tuonò Mia. «Lei era mia amica! Chi cazzo ti credi di
essere?»
Solis calò il pugno sul tavolo da lavoro e urlò: «Sono uno Shahiid della
Chiesa Rossa! La Lama della Madre su questa terra, trentasei uccisioni
santificate eseguite nel suo nome! E ti giuro che sarai la trentasettesima se
osi rivolgerti di nuovo a me così!»
Mia fece un passo avanti con il petto che le ardeva di rabbia. Sapeva
meglio di chiunque cosa significava far arrabbiare Solis. Ma era comunque
incurante, perfino impavida, mentre Messer Cortese inghiottiva intera la sua
cautela. Tric e Ash l’afferrarono per le braccia e la tennero sotto controllo.
Ma fu la voce della Reverenda madre che portò infine il silenzio nella
stanza.
«Dov’eri ieri sera, accolita?»
Drusilla inclinò la testa e scrutò il corpo di Carlotta.
«Attorno alla terza campana?»
Saliva sulle labbra di Mia. Occhi stretti. Mascella serrata. «A letto,
naturalmente.»
«Allora non c’è nessuno che possa confermare dove ti trovavi.»
«… No.»
La Reverenda madre la fissò con un freddo sguardo azzurro.
«Interessante.»
«Perché è interessante?»
«Ho fatto prendere aria ad alcune gole, ai miei tempi.» Drusilla accennò
al cadavere di Carlotta. «Dall’aspetto della ferita, ipotizzo che l’assassino
sia mancino.»
Sulla sala calò il silenzio. Ashlinn e Tric si scambiarono occhiate
inquiete e il sudore sulla pelle di Mia cominciò a raffreddarsi. La Madre
stava guardando dritto verso di lei.
«Jessamine è ambidestra» disse Mia. «Combatte egualmente bene con
ciascuna mano.»
«E qual è la tua mano preferita, accolita?»
«… La sinistra, Madre Drusilla.»
L’anziana fece un cenno verso la scrivania. Mia notò un debole contorno
nello schizzo di sangue, come se ci fosse stato un oggetto rettangolare di
fronte a Lotti mentre le veniva tagliata la gola, riparando il tavolo da una
parte dello spruzzo.
«È evidente che Carlotta stava lavorando su qualcosa mentre è stata
assassinata. Pare simile alla forma di un libro. Un diario, forse. Tu non ne
sai nulla, vero, accolita?»
«Carlotta vi teneva i suoi appunti sull’antidoto di Ammazzaragni. Lo
sapevano tutti.»
La Reverenda madre inclinò la testa. «Interessante.»
Mia sostenne lo sguardo dell’anziana senza sbattere le palpebre. La voce
di Ammazzaragni infranse il silenzio.
«Abbiamo del lavoro da fare, accoliti. Voi dovreste andare al vostro
primopasto. Ci vedremo qui per Verità all’ora della lezione.»
Ash prese per mano Mia e la trascinò fuori dall’aula. I tre consumarono
un primopasto silenzioso all’Altare del Cielo, lo sguardo torvo di Mia fisso
su Diamo. Il grosso Itreyano la osservava con occhi freddi e morti,
sfidandola a fare la sua mossa. Jessamine non si vedeva da nessuna parte.
Mia digrignò i denti. Il cibo sapeva di polvere e morte nella sua bocca.
Non udiva i sussurri di Ash. Il sangue le pulsava nelle orecchie. Tric
insisteva per farsi avanti e testimoniare che aveva passato la notte nel letto
di Mia. Che lei non poteva aver ucciso Carlotta. Ma la sessione di Tric con
la Tessitrice era terminata ben oltre la nona campana: aveva avuto una
dispensa solo per tornare nella sua camera, non certamente per andare in
quella di Mia. Perciò alla fine lei lo supplicò di mantenere il silenzio. Non
aveva senso che Tric rischiasse la tortura fin quando lei non si fosse resa
conto di quanto era bollente l’acqua in cui nuotava.
Durante la lezione nell’Aula di Verità, Mia non riuscì a staccare gli occhi
dalla sedia vuota di Carlotta. Dalla sbiadita macchia di sangue che perfino
l’arkemia di Ammazzaragni non era riuscita a cancellare dal tavolo da
lavoro in legnoferro. Immaginò gli ultimi istanti della ragazza. Curva sul
suo quaderno. La testa tirata indietro da una mano rapida. I brevi secondi di
terrore tra il momento in cui aveva sentito la lama e quello in cui l’oscurità
si era impadronita di lei.
Mia fissò Jessamine, che si era unita alla classe solo pochi secondi prima
dell’inizio. Una promessa silenziosa le riecheggiò nella testa.
“Questa sarà la tua fine, puttana…”
«Mia Corvere.»
Mia sbatté le palpebre. Alzò lo sguardo dalla faccia di Jessamine e trovò
la Reverenda madre Drusilla sulla porta dell’aula, circondata da mezza
dozzina di Mani.
«… Sì, Madre Drusilla?»
«Devi venire con noi immediatamente.»
Due Mani vestite di nero presero Mia per le braccia, una ciascuna. La
ragazza protestò mentre la trascinavano via dallo sgabello e la facevano
marciare senza tante cerimonie verso la porta. Udì le rimostranze di Tric,
una zuffa, un ordine urlato dalla Reverenda madre. Allungando il collo,
vide l’anziana procedere dietro di lei, circondata da sinistre figure in nero. Il
suo sguardo era di un freddo azzurro ghiaccio.
«Madre Drusilla, dove mi state portando?»
«Nelle mie stanze.»
«Perché?»
«Un’inquisizione.»
«Per cosa?»
«Per l’omicidio di Carlotta Valdi.»

Drusilla mise un lenzuolo di lino spiegazzato nel grembo di Mia e incrociò


le braccia.
«Spiega questo.»
Le camere della Madre erano annidate in cima alla Montagna, al termine
di quella che sembrava un’interminabile rampa di scale illuminata
fiocamente da una scultura di vetro arkemico che pendeva dal soffitto. Una
scrivania elaborata piena di alte pile di pergamene dominava la stanza in cui
si trovavano; sul pavimento c’erano pellicce candide, e pittura bianca alle
pareti. Scaffali straripanti fiancheggiavano la camera a destra e a sinistra,
ma dietro la scrivania, la parete era intagliata con centinaia di nicchie.
All’interno di questi piccoli vani, Mia vide ogni tipo di curiosità. Il pugnale
di un centurione. Una rosa riccamente ornata in oro battuto. Una copia
macchiata di sangue del Vangelo di Aa. Un anello di zaffiro.
Mischiate fra i trofei, Mia vide centinaia e centinaia di fiale d’argento,
sigillate con tappi di cera scura. Erano dello stesso tipo di quello che Naev
aveva indossato attorno al collo nelle Frusciaride. E lì al centro, una porta di
ossidiana era incassata nella roccia, segnata con strani glifi mutevoli.
Seduta su una sedia elaborata con un alto schienale, Mia osservò
sorpresa il lenzuolo che le aveva dato Drusilla.
«Spiegare cosa, Reverenda madre?»
«Questo.»
Drusilla raccolse il lenzuolo e lo tenne davanti alla faccia di Mia. Lì,
intrisa nel tessuto, la ragazza vide una minuscola macchia, secca e scarlatta.
«Sembra sangue.»
«Sangue di Carlotta, accolita. L’Oratore Adonai lo conferma.»
Mia guardò l’albino, impegnato ad ammirare la collezione di curiosità
della madre. Era scalzo come sempre, con il petto liscio e pallido che si
intravedeva attraverso il collo aperto della sua veste di seta. Come sempre,
l’Oratore sembrava particolarmente annoiato.
«È la vitae di colei che è stata uccisa.» Adonai annuì, facendo scorrere le
punte delle dita su una tra le molte fiale d’argento. «Senza alcun dubbio.»
«Non capisco» disse Mia. «È sangue di Carlotta. Cos’ha a che fare
questo con me?»
Drusilla piegò il lenzuolo ordinatamente e lo rimise in grembo a Mia.
«Questo lenzuolo è stato preso dal tuo letto stamattina.»
Mia si accigliò. La sua mente si arrovellò. Il battito accelerò. «Questo
non ha senso.»
«Puoi spiegare come ha fatto il sangue di Carlotta a finire nel tuo letto,
accolita?»
Mia rimase a bocca aperta, gli occhi che esaminavano la stanza. Prese
fiato tra denti stretti. Ricordò Diamo seduto da solo al primopasto.
L’immagine di Jessamine che arrivava soltanto appena in tempo per la
lezione di Ammazzaragni.
«Jessamine» sbottò Mia. «Non era al primopasto. Deve avercelo messo
lei.»
«Jessamine era qui nelle mie stanze stamattina, accolita» sospirò
Drusilla. «A essere interrogata da me su questa stessa faccenda.»
«Reverenda madre, io non ho avuto nulla a che fare con la morte di
Lotti. Lei era mia amica!»
«Non ci sono amici qui, accolita. Il lupo non commisera l’agnello. La
tempesta non chiede perdono agli affogati. Assassino uno, assassini tutti.»
Mia alzò lo sguardo quando l’anziana riecheggiò le parole di Cassius:
l’ammonimento che le aveva dato in quella prigione priva di luce a
Godsgrave. «E anche se abbiamo messo in chiaro che l’uccisione dei vostri
compagni accoliti è un crimine, se ammetti il tuo coinvolgimento nella
morte di Carlotta ora, il giudizio del Culto sarà più clemente per questo.»
«Non ammetterò qualcosa che non ho fatto!»
«Tutte le prove affermano il contrario.» Drusilla si puntellò al bordo
della scrivania, sporgendosi vicino a Mia. La chiave di ossidiana che
portava attorno alla gola scintillò nella luce fumosa. «Sei l’unica mancina
nel gregge attuale. Avevi da guadagnare più di tutti dalla rimozione di
Carlotta dalla competizione di Ammazzaragni. Non hai modo di dimostrare
dov’eri ieri sera e il sangue della vittima è stato trovato sulle tue lenzuola,
un fatto che tu stessa non riesci a spiegare. Carlotta ha mai fatto visita alla
tua camera?»
«No, ma…»
«È rimasta ferita nell’alterco all’Altare del Cielo con Jessamine, forse? Il
suo sangue potrebbe essere arrivato in qualche modo sui tuoi vestiti?»
Mia prese in considerazione per un attimo di mentire, ma sapeva che
Drusilla avrebbe posto queste medesime domande a chiunque avesse
assistito alla colluttazione. E se l’avesse scoperta a mentire ora…
«No, Lotti non è rimasta ferita.» Mia si accigliò. «Ma perché eravate
nella mia camera?»
«Per cercare il quaderno perduto di Carlotta, naturalmente.»
«Credevate sinceramente di trovarlo? Sarei dovuta essere un’idiota per
tenerlo nella mia stanza dopo averle tagliato la gola, giusto?»
«Ma se qualcuno volesse incastrarti per l’omicidio come affermi tu,
l’assassino non avrebbe fatto meglio a piazzare il quaderno, invece di
un’unica goccia di sangue?»
«Perciò se aveste trovato i suoi appunti, questo avrebbe dimostrato la
mia innocenza o la mia colpevolezza?»
Drusilla si accigliò e incrociò le braccia.
«Non c’è nessuno che può testimoniare dov’eri?»
Mia premette con forza le unghie contro i palmi. Ma certo che c’era
qualcuno che poteva garantire per lei. Ma se Tric avesse ammesso di essere
andato nella sua stanza, sarebbe equivalso a rivelare di aver violato il
coprifuoco. Lo avrebbero flagellato, per quello. Probabilmente peggio di
Zitto.
«… c’è qualcuno che può testimoniare dov’era…»
Mia avvertì un sussulto allo stomaco. Messer Cortese si era
materializzato sulla scrivania della Reverenda madre e fissava l’anziana con
il capo inclinato. Drusilla si voltò per osservare la creatura, lo scetticismo
evidente nei suoi occhi. Ma Mia sapeva che lui non nutriva alcun affetto per
Tric. Nessuna lealtà. Avrebbe tradito il ragazzo in un attimo se avesse
significato risparmiare a Mia un altro secondo di questo oltraggio.
«Oh, davvero?» disse Drusilla. «Oso chiederlo?»
«… non lo so. osi…?»
«Messer Cortese, non farlo» lo ammonì Mia.
«… e perché no…?»
«Perché te lo sto chiedendo io.»
A quelle parole, Drusilla si girò di colpo e fissò Mia a occhi stretti.
«Accolita, non credo di doverti spiegare la gravità di questo crimine. Se
sarai trovata colpevole dell’omicidio dell’accolita Carlotta, come minimo
sarai flagellata. Forse perfino uccisa. Se esiste qualcun altro che può fornire
un alibi per te ieri sera…»
Lo sguardo di Mia era fisso sul non-gatto. Implorante.
«… una volta ti fidavi di più di me…»
«Ti prego, no.»
«… cos’è cambiato, mia…?»
«Ora basta» sbottò Drusilla. «Sono io la padrona di queste sale. Non
parlare con lei, parla con me. Nel nome della Nostra Signora benedetta, io
te lo ordino.»
A quelle parole, Messer Cortese voltò la testa e fissò il suo sguardo
senza fondo su Drusilla.
«… è ovvio, in effetti…»
«Messer Cortese, no.»
Il non-gatto agitò la coda e squadrò l’anziana dall’alto in basso.
«… sono io…»
Nel silenzio che seguì, Mia giurò di aver udito Adonai ridacchiare. Il
non-gatto le lanciò un’occhiata e parve scuotere la testa come per dire che
avrebbe dovuto saperlo.
«… io non lascio mai il suo fianco. veglio su di lei quando dorme. so
con esattezza cos’ha fatto la scorsa notte…»
«Mi prendi per una sciocca, piccolo passeggero?»
«… ci sono degli sciocchi in queste sale, Reverenda madre, ma tu e lei
non siete tra loro…»
Messer Cortese annuì in direzione di Mia.
«… lei non l’avrebbe mai fatto, né avrebbe potuto…»
Drusilla ringhiò e si alzò dal punto dov’era appoggiata per andarsi a
sedere dietro la scrivania. Adonai vagò tra le nicchie, toccando una fiala qui
e una là, un sorriso accennato sul suo volto. L’anziana donna unì i
polpastrelli delle mani.
«Accolita Mia Corvere. Sei confinata nelle tue stanze. Ti verranno
portati i pasti, assieme a qualunque materiale di cui tu abbia bisogno per
continuare i tuoi studi. Non ti sarà consentito alcun contatto con l’esterno e
una Mano sarà appostata fuori dalla tua porta finché questa faccenda non
sarà risolta. Il Culto si riunirà questa sera per discutere il tuo destino.»
Due Mani parvero materializzarsi accanto alla sedia di Mia. Rendendosi
conto che non aveva senso sfidare ulteriormente l’ira della Madre, Mia si
alzò lentamente e fece un inchino profondo, poi uscì dalle stanze. Le Mani
la scortarono fino alla sua camera da letto, poi la fecero entrare e chiusero la
porta dietro di lei.
La sua stanza era stata messa a soqquadro: i cassetti rovesciati, le
lenzuola rimosse. Mia si lasciò cadere sul materasso spoglio, si accese un
sigaretto e fissò il soffitto.
«Be’, merda.»
Messer Cortese apparve sulla testiera e scrutò nei suoi occhi.
«… preferirei le tue scuse per iscritto, anche se delle parole pronunciate
in modo eloquente potrebbero essere sufficienti…»
«Già» disse Mia, schiarendosi la gola. «Mi dispiace.»
«… deve trattarsi di una nuova forma di eloquenza con cui non ho
familiarità…»
«’Bisso e sangue, ti scriverò delle scuse raffinate su una pergamena
dorata e più tardi le canterò dalla vetta della montagna. Abbiamo questioni
più urgenti di cui occuparci, no?»
«… perfino se ti giudicheranno colpevole, non ti uccideranno per
questo…»
«Cosa ti rende così sicuro? Potrebbero usarmi come esempio.»
«… farlo avrebbe poco senso. l’assassino è stato tanto abile da uscire
dalla sua camera da letto dopo la nona campana, sgattaiolare fino all’aula
di verità, tagliare la gola della ragazza da un orecchio all’altro, ripulirsi
dagli zampilli di sangue e poi tornare a letto di soppiatto, tutto senza farsi
vedere…»
Mia soffiò il fumo in faccia al non-gatto. «Si chiamava Carlotta, Messer
Cortese.»
«… a ogni modo, l’assassino mostra un’abilità considerevole
esattamente nelle arti che insegnano qui…»
«Oh, sì, potrebbero perfino appuntarmi un nastro sulle poppe.»
«… ne dubito. ma dubito anche che i maestri di una scuola di assassini
letali possano rimanere troppo turbati che uno dei loro studenti si dimostri
davvero un assassino letale…»
La ragazza prese una boccata profonda del suo sigaretto ed esalò
un’imprecazione grigio fumo.
«… jessamine è la persona più ovvia da incolpare. ma non
necessariamente l’accolito giusto…»
«Chi altri, allora?»
«… chi è il terzo più abile nell’arte dei veleni…?»
«… Probabilmente Zitto? Ma anche Osrik e Marcellus sono a poca
distanza.»
«… e qualunque di loro è abile a sufficienza nell’arte della furtività per
aver fatto questo…»
Mia prese una tirata, i pensieri che si rincorrevano nella sua testa.
Jessamine doveva essere eliminata. Ma se lei o Diamo fossero stati
semplicemente trovati morti, il Culto avrebbe sospettato di lei all’istante. E
comunque tutto ciò era irrilevante. Non aveva senso riflettere su Jessamine
e Diamo finché non avesse saputo quale sarebbe stato il giudizio su
Carlotta. La sua catasta di problemi si sarebbe rimpicciolita notevolmente
se il Culto le avesse tagliato la gola e basta…
Invece di starsene semplicemente lì a rimuginare, Mia si rimise al lavoro
sulla formula di Ammazzaragni. Incurvata sullo sfacelo del suo letto,
scribacchiò le idee nel suo quaderno rilegato in cuoio. Passarono ore nella
penombra, con Messer Cortese che forniva il poco aiuto che poteva.
L’enigma distolse la sua mente dal Culto e dalla possibilità che tutti i suoi
piani ben congegnati potessero precipitare nel giro di poche ore.
Cos’avrebbe detto Mercurio se tutto fosse andato in pezzi?
“Concentrati su quello che puoi cambiare” le avrebbe consigliato. “Il
resto andrà al suo posto da solo.”
Mia sospirò.
“In un modo o nell’altro.”

Ore dopo, qualcuno bussò alla sua porta e Mia si riscosse dalla danza
arkemica nella sua testa, guardando nella luce fioca. Aveva
inconsapevolmente fumato uno dopo l’altro la metà dei sigaretti che le
rimanevano, e la tazza accanto al suo letto era colma di cenere. Si sentiva la
gola infiammata e la testa che ondeggiava. Spense il mozzicone della sua
paglia con una smorfia.
«Denti della Mannaia, devo fumare di meno.»
«… ci sono cose più pericolose attorno a te da metterti in bocca…»
Messer Cortese la scrutò attraverso quella coltre grigia.
«… ragazzi dweymeri, per esempio…»
«Ma bravo. Ci stavi lavorando da un po’, eh?»
«… buona parte di ieri sera…»
«Tempo ben speso, allora.»
«… ci sono modi più pericolosi che potrei…»
«D’accordo, d’accordo. Basta. L’ultima cosa che mi occorre sentire
prima della mia esecuzione sei tu che critichi la mia scelta in fatto di peni.»
«… aggeggi ridicoli, tutti quanti. se fosse mai necessaria una prova
della cattiveria del vostro creatore, basta guardare tra le gambe di un
adolescente medio…»
Toc, toc, toc.
«Accolita. Sei convocata nella Sala degli Elogi.»
Mia si alzò dal letto. Non c’era paura nella sua pancia. Il battito del
cuore era regolare. Aveva nascosto una dozzina di lame sulla sua persona,
determinata a morire combattendo, se si fosse arrivati a quello. Si domandò
cosa l’attendeva sotto lo sguardo della statua.
Sei Mani attendevano fuori dalla porta della sua camera, i cappucci tirati
sopra gli occhi. Lo Shahiid Mouser era in mezzo a loro, con la sua lama di
neracciaio alla cintura. Ma il suo familiare sorriso da argenteria non si
vedeva da nessuna parte.
«Shahiid» annuì Mia.
«Vieni con noi, accolita.»
Mia fu guidata lungo il corridoio verso la Sala degli Elogi. Poteva
percepire Messer Cortese nella sua ombra, che beveva la sua paura con
quanta più velocità possibile. Tuttavia, ora stava cominciando a filtrare.
Sudore sui palmi. Un senso di leggerezza nello stomaco. Non sarebbe morta
in ginocchio come una bambina piagnucolante. Aveva lavorato così
duramente. Era arrivata così lontano. Sarebbe incespicata e caduta
all’undicesima ora su qualcosa del genere?
L’oscurità si gonfiava attorno a lei, premendo da tutti i lati. Reagiva alla
sua rabbia crescente. Alla sua ansia che sbocciava. Era al suo comando, se
l’avesse desiderato. Se solo avesse avuto la volontà di protendersi ad
afferrarla. L’aveva fatto in precedenza. Non molto tempo fa. Quando aveva
quattordici anni. Mura di pietra. Urla nell’aria. Sangue sulle sue mani.
“Non guardare.”
Il Culto era radunato sotto lo sguardo di granito di Niah. Anche gli
accoliti. Uno in meno rispetto all’ultima volta che erano stati riuniti qui.
Tric la stava guardando, e il suo volto tradiva sofferenza. Lei scosse il capo
e chiuse con forza le labbra. Senza parlare, lo avvisò di fare lo stesso.
La luce dai vetri colorati si riversava sul pavimento, rosso sangue e
bianco spettrale, con il coro che cantava in sottofondo. Mia venne
accompagnata fino a un posto vuoto davanti al Culto. Le facce degli
Shahiid lì riuniti erano torve, quella della Reverenda madre la più cupa di
tutte.
«Accolita Mia. Il Culto si è consultato a lungo sulla morte dell’accolita
Carlotta. Pur mancando una prova definitiva della tua colpevolezza, il
sangue trovato nella tua stanza e il fatto che l’assassino fosse mancino non
possono essere ignorati. Inoltre, il tuo movente è irrefutabile. Con la morte
dell’accolita Carlotta, tu hai la migliore possibilità di finire prima nell’aula
di Ammazzaragni. A parte le parole che hai già pronunciato stamattina, hai
qualcosa da aggiungere in tua difesa?»
Mia esaminò le facce degli Shahiid lì riuniti. Lo sguardo cieco di Solis.
La bellissima maschera di Aalea. Avevano preso la loro decisione. E
implorare semplicemente non era da lei.
«No, Reverenda madre» replicò.
«Molto bene. Alla luce delle prove, e senza nessuna testimonianza
convincente del contrario, la tua colpevolezza è confermata. Vista la natura
dei tuoi studi qui e la maestria con cui l’omicidio è stato commesso, ti sarà
risparmiata l’esecuzione. Comunque, eravate stati avvisati espressamente
che uccidere i vostri compagni era proibito, pertanto una punizione
dev’essere inflitta. Subirai la flagellazione del sangue. Cinquanta frustate.»
Mia strinse i denti contro l’improvviso impeto di paura, con Messer
Cortese che si gonfiava nella sua ombra. “Denti della Mannaia, cinquanta
frustate.” Zitto ne aveva ricevute la metà e la cosa l’aveva quasi ucciso.
Lanciò un’occhiata al ragazzo dagli occhi azzurri, all’estremità del
semicerchio degli accoliti. Giurò che le avesse rivolto un lieve cenno del
capo. La voce di sua madre le risuonava nella testa.
“Mai tirarsi indietro. Mai avere paura. E mai, mai dimenticare.”
I suoi occhi incontrarono quelli di Tric e lei scosse di nuovo il capo. Non
aveva senso che lui si facesse avanti per essere punito ora. Malgrado tutte le
loro chiacchiere sulle regole, questa era una scuola per assassini: almeno il
crimine di cui Mia era ritenuta colpevole aveva un certo grado di credibilità.
Ma la violazione palese del coprifuoco della Madre solo per un piccolo,
ansioso bocca a bocca?
“Lo spellerebbero vivo. Letteralmente.”
«Inoltre,» continuò Drusilla «dal momento che la tua motivazione per
questo crimine era il desiderio di ottenere un vantaggio in Verità, sei testé
bandita dalla competizione di Ammazzaragni e non potrai gareggiare per il
piazzamento al primo posto nella sua aula.»
Mia si afflosciò come se la madre le avesse dato un pugno in pancia.
Terminare al primo posto a Verità era la sua migliore probabilità per
l’iniziazione, e tutti lo sapevano. Senza la competizione di Ammazzaragni,
Mia avrebbe potuto non diventare mai una Lama. Cosa le sarebbe successo?
Sarebbe stata relegata a viaggiare fino a Ultima Spes con Naev oppure a
occuparsi di una pozza di sangue in un posto sperduto come Carrion Hall o
Elai? In che modo avrebbe potuto sperare di vendicarsi di Scaeva e degli
altri come una semplice servitrice?
Mia guardò le facce attorno a lei. Solis sorrideva. Jessamine ghignava
come se avesse ricevuto i suoi Gran Tributi tutti assieme. Diamo stava
praticamente sbavando dalla trepidazione. Madre Drusilla annuì alle Mani
ai lati di Mia, che la presero ciascuna per un braccio. Tutto ciò che lei riuscì
a fare fu trattenersi. Il buio tremolò quando lei strinse i denti, lasciandosi
condurre agli anelli di ferro alla base della statua e notando Marielle e
Adonai nelle ombre. Il volto dell’Oratore era inespressivo, ma le labbra
sanguinanti della Tessitrice erano spaccate in un sorriso.
Si stava facendo scrocchiare le nocche.
Le Mani le afferrarono la camicia e Mia si tese quando si prepararono a
strappargliela dalla schiena. Guardò la dea sopra di lei, quegli occhi vuoti
che la seguivano ovunque andasse.
“Dammi la forza…”
«Fermatevi.»
Mia sospirò. Sollievo e rabbia in egual misura.
“Quel maledetto idiota…”
Mia si voltò. Tutti gli occhi erano puntati su Tric. Il ragazzo si era fatto
avanti e fissava gli Shahiid riuniti. «Madre Drusilla, interrompete tutto
questo.»
«Torna in fila, accolito. La sentenza è stata pronunciata. Sarà eseguita.»
«Tric, no» sibilò Mia.
«La sentenza è sbagliata. Mia non avrebbe potuto uccidere Carlotta.»
«Non sono interessata alla tua valutazione del suo carattere, accolito.»
«Non sto parlando del suo dannato carattere» sbottò Tric. «Mia non
avrebbe potuto uccidere Carlotta ieri sera senza che io lo sapessi.»
«E come mai?»
«Tric, fermati!»
Tric ignorò la supplica di Mia e scoccò un’occhiata alla Tessitrice. Aveva
le labbra secche. Ma pur sapendo quale poteva essere la punizione, il
ragazzo parlò comunque.
«Perché ero con lei nella sua stanza.»
I membri del Culto si scambiarono occhiate, tranne Solis che stava
fissando torvo il soffitto. Drusilla spostò lo sguardo su Marielle e suo
fratello, poi di nuovo su Tric.
«Ammetti di essere stato fuori dalle tue stanze dopo la nona campana?»
«Sono stato fuori tutta la notte. Ash può confermarlo. Mi ha visto nel
letto di Mia stamattina.»
Drusilla si voltò verso Ashlinn. «È vero, accolita?»
Ashlinn si morse il labbro, poi annuì con riluttanza. «Sì, Reverenda
madre.»
«Perciò Mia non avrebbe potuto uccidere Lotti» proseguì Tric.
«Malgrado le vostre “prove”. Non potete escluderla dalla competizione di
Ammazzaragni. Sono stato a letto con lei per tutto il tempo.»
«E perché non ci hai informato prima di ciò?»
«Perché gli ho chiesto io di non farlo» disse Mia.
«Non potete estromettere Mia dalla prova di Ammazzaragni» insistette
Tric. «Diventare una Lama significa tutto per lei. Non ha commesso lei
l’omicidio.»
Drusilla guardò verso Mia. Il Culto verso la Madre.
La ragazza trattenne il fiato, minuti che scorrevano come anni. Il coro
spettrale cantava il suo inno nel buio, mentre il sangue pulsava a un ritmo
forsennato nelle vene di Mia. I membri del Culto parlarono tra loro in toni
sommessi, botta e risposta: tutto ciò per cui Mia aveva lavorato era in
bilico. Avrebbe potuto baciare Tric. Avrebbe potuto dargli un pugno. Ma lui
era un avversario. Quella era la prima, l’ultima e la costante realtà. Lei non
lo amava. Lui non amava lei. Non c’era posto per l’amore qui nel buio, ed
entrambi lo sapevano. Perché aveva rischiato così tanto per lei, quando lei
non avrebbe mai fatto lo stesso per lui?
Madre Drusilla infine parlò, placando il tumulto nella mente di Mia.
«Molto bene» disse l’anziana. «Alla luce di questa nuova prova, pare che
la colpevolezza dell’accolita Mia non sia assicurata e la sua punizione
potrebbe essere ingiustificata. E malgrado sia giunta in modo tardivo, il
Culto deve lodare l’accolito Tric per la sua sincerità. Tale coraggio
dev’essere encomiato, se considerato alla luce del suo prezzo.»
Drusilla si voltò verso le Mani accanto a lei.
«Legatelo.»
Le figure ammantate circondarono Tric e lo trascinarono alla base della
statua mentre Drusilla continuava a parlare. «Purtroppo, accolito Tric,
sincerità a parte, pare che la punizione inferta all’accolito Zitto non sia stata
un incentivo sufficiente a dissuadere i novizi dall’infrangere il coprifuoco.
Forse la tua stessa punizione preverrà ulteriori disobbedienze.»
Si voltò verso Marielle.
«Cento frustate.»
Un mormorio si diffuse per la fila di accoliti mentre il volto di Tric
impallidiva. Perfino se Adonai gli avesse impedito di dissanguarsi, perfino
se Marielle non l’avesse fatto morire, il dolore di cento frustate l’avrebbe
sicuramente ucciso. Dopo tutto ciò che aveva passato, tutto quello che
aveva già sofferto, Tric sarebbe finito qui, nelle viscere di questa montagna
nera, urlando in preda alla follia e implorando la morte.
Lui aveva rischiato tutto per lei. Aveva detto la verità, pur sapendo
quanto sarebbe costata.
Sapendo che lei non avrebbe mai fatto lo stesso a parti invertite.
«Reverenda madre» interloquì Mia. «Aspettate.»
Un freddo sguardo azzurro si voltò sulla ragazza. «Accolita?»
Lei prese un respiro profondo. L’ombra si mosse ai suoi piedi.
“… Non l’avrebbe mai fatto?”
«Ho chiesto io a Tric di venire nella mia stanza. La colpa è almeno per
metà mia.» La ragazza si fece forza. «Dovrei subire metà della punizione.»
La sala era silenziosa come una tomba. La Reverenda madre guardò
lungo la fila di Shahiid, domandandolo a ciascuno di loro senza parlare.
Mouser scrollò le spalle. Solis scosse il capo, quasi stesse suggerendo che
guardare Tric che veniva fustigato avrebbe fatto più male a Mia che non
subire lei stessa quella punizione. Ma Aalea annuì, e così fece
Ammazzaragni, gli occhi scuri fissi su Mia. Drusilla premette le dita contro
le labbra, aggrottando la fronte mentre rifletteva.
«Legateli entrambi» disse infine.
Le Mani scortarono Tric alla statua e gli bloccarono i polsi. Mia guardò
torvo Tric per tutto il tempo, scrollando la testa. Il ragazzo la fissò a sua
volta, il viso tirato ed esangue.
«Idiota» sussurrarono simultaneamente.
Mia sentì che la camicia le veniva strappata via. Fu premuta contro la
pietra: la roccia fredda sotto di lei le fece accapponare la pelle nuda.
Guardando dietro di sé, vide Adonai e Marielle in piedi alle sue spalle. La
sua paura stava cominciando a superare l’appetito di Messer Cortese. Le
sue pulsazioni accelerarono.
“Ma come dev’essere per Tric?”
Sembrava che il ragazzo non riuscisse a respirare abbastanza
velocemente, prendendo lunghe boccate tra denti serrati che gli sollevavano
il petto. Gli occhi sgranati erano fissi sulla pietra nera a cui era legato. Mia
si tese contro le manette, finché le punte delle sue dita non trovarono quelle
di Tric e strinsero forte.
«Reggiti a me» sussurrò.
Tric sbatté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi. Annuì. Poi le
Mani si avvicinarono alle loro spalle e legarono delle bende attorno agli
occhi di entrambi gli accoliti, oscurando completamente la luce.
Mia sentì la mano di Tric stringere forte, schiacciandole le dita. Seppe
con esattezza dove si trovava lui. Quattordici anni. Legato all’albero fuori
dalla casa di suo nonno. Al buio, aspettando di essere colpito dal sasso
successivo. Dal prossimo schiaffo. Da un altro sputo.
Bastardo. Figlio di puttana. Koffi.
«Messer Cortese» sussurrò lei.
«… no, mia…»
«Aiutalo.»
«… e se aiuto lui, chi aiuterà te…?»
Mia percepì le Mani controllare le manette ai suoi polsi. Udì passi
allontanarsi. Tric le stava stringendo le dita così forte da farle male.
«Mi hai detto tu che per dominare l’oscurità di fuori, prima devo
affrontare quella dentro…»
«… non qui. non così…»
«Se non qui, allora quando?»
Avvertì la sua ombra rabbrividire. La paura dentro di lei crebbe.
«Posso farcela» sibilò.
La Tessitrice Marielle fece scrocchiare le nocche.
La voce di Madre Drusilla riecheggiò nel buio della benda.
«Comincia.»
Un momento vuoto, interminabile.
«… come ti compiace…»
L’oscurità si increspò attorno ai suoi piedi per un ultimo addio. Poi
Messer Cortese scomparve, scivolando lungo la pietra nera fin dentro
l’ombra di Tric. Mia udì il respiro del ragazzo farsi un po’ più calmo, la
stretta violenta sulle sue dita allentarsi quando il non-gatto si avventò sulla
paura del ragazzo. Lì, premuta contro quella pietra gelida, malgrado il
supplizio ormai prossimo, Mia si ritrovò a sorridere. Il silenzio riecheggiava
nella sala, profondo come i secoli. Il mondo tratteneva il fiato.
E poi la Tessitrice serrò i pugni.
Il colpo fu come fiamma incandescente e rasoi arrugginiti. Limone e sale
strofinati su una ferita appena aperta e sanguinante, squarciata in quattro
strisce seghettate lungo la sua schiena. Il dolore le fece ritrarre le labbra dai
denti in un urlo silenzioso.
Ogni muscolo si tese. La sua schiena si strappò come carta. Mia sgroppò
contro la pietra e la sua stretta sulle dita di Tric si serrò mentre la paura si
riversava nello spazio vuoto lasciato dall’affievolirsi della frustata. Grandi
ondate di gelo si schiantarono sopra la sua testa e la trascinarono in basso.
Ogni secondo si allungava in un’eternità. Ogni momento passato ad
attendere l’arrivo del colpo seguente era esso stesso un’agonia. Si ritrovò a
pregare che giungesse, solo perché quella pausa terminasse. E poi calò,
dilaniandole la schiena in quattro linee di dolore perfetto.
Gettò la testa all’indietro. Con la bocca aperta ma rifiutandosi di urlare.
Non avrebbe dato loro quella soddisfazione. Jessamine e Diamo. Solis.
Poteva percepire i loro sguardi. Avvertire i loro sorrisi. Il sangue le scorreva
caldo e denso lungo la schiena, addensandosi nell’ombra vuota ai suoi
piedi. La Tessitrice colpì di nuovo, il suono di fruste invisibili che
schioccava nell’aria, il dolore incandescente. Tuttavia lei si resse alla mano
di Tric, aggrappata a quell’unico pensiero bruciante; che nonostante quanto
facesse male
(crac)
nonostante quanto lei volesse
(crac)
non avrebbe mai
(crac)
permesso che loro
(crac)
la
(crac)
sentissero
(crac)
urlare.
Ma al decimo colpo aveva perso la stretta sulla mano di Tric. Al
dodicesimo perse quella sul suo terrore e l’urlo le uscì dalle labbra, lungo,
fievole e tremolante. Riusciva a sentire la mano di Tric che cercava la sua a
tentoni, ma Mia chiuse le dita in un pugno. Abbassò il mento e premette la
fronte contro la pietra. Niente stampelle. Niente passeggeri. Nessuno
accanto a lei. Nessuno dentro di lei. Solo lei (crac) e il dolore (crac) e la
paura (crac). Tutte quante una cosa sola.
Adesso aveva le vertigini. Era ancora sveglia ma fluttuava da qualche
parte tra la consapevolezza e l’oblio dagli stregoni e la loro magia. Dopo la
ventesima staffilata si profilò una breve pausa e il calore fluì su per le sue
gambe, rientrando nelle vene spezzate e nelle arterie squarciate, ponendo
fine all’inverno che minacciava di sopraffarla. Udì il sussurro di Tric da un
punto lontano
“Mia, riprendilo”
grattando la fronte contro la pietra, sangue nei suoi occhi
“Mia, per favore…”
Il buio ora incombeva davanti a lei. L’incubo in agguato dietro il muro
del sonno. E quando la Tessitrice colpì ancora, il dolore avvampò di nuovo
e le strappò un urlo privo di parole dalla gola, mentre la parete cominciava a
sgretolarsi. La veglia non poteva tenerli a bada, qui sull’orlo dell’oblio.
Nessun umbragatto appollaiato sopra il letto, a impedire l’arrivo degli
incubi con i suoi non-occhi. Solo lei. La piccola Mia Corvere. Da sola al
buio mentre questo diventava sempre più profondo, la paura che affluiva
rapida, la follia che si insinuava sempre più vicina. E lì, in quell’oscurità
sottilissima, con così poco tra lei e loro e tra loro e lei, vide infine da
sveglia le cose che avevano tormentato il suo sonno per tutti questi anni.
(crac)
Non fantasmi.
(crac)
Non incubi.
(crac)
(crac)
(crac)
Ricordi.
CAPITOLO 27
VEROBUIO

Non guardare.
Mia si mosse furtiva per i corridoi di pietra insanguinata, circondata da
un’oscurità così profonda da riuscire a malapena a vedere. Corpi.
Ovunque. Uomini strangolati e pugnalati. Picchiati a morte con le loro
stesse catene e bastonati con i loro stessi arti. Il suono di omicidio
riecheggiava tutt’attorno, la puzza di interiora aleggiava densa nell’aria.
Forme vaghe le corsero davanti, aggrovigliandosi e urlando sul pavimento.
Le urla risuonavano da qualche punto distante, dove il buio non le
permetteva di udire.
Si intrufolò dentro la Pietra Filosofale come un coltello tra le costole.
Questa prigione. Questo mattatoio. Superò le celle aperte, scendendo in
posti più silenziosi dove le porte erano ancora sigillate, dove i prigionieri
che non desideravano tentare la sorte nella Calata erano ancora rinchiusi,
affamati e macilenti. Gettò da parte il manto d’ombra per poter vedere
meglio, scrutando attraverso le sbarre quegli spaventapasseri ossuti, quei
fantasmi dallo sguardo vuoto. Riusciva a capire perché quelle persone
volessero rischiare tutto in quell’orrendo stratagemma del senato. Meglio
morire combattendo che restare qui al buio a crepare di fame. Meglio
alzarsi e cadere che restare in ginocchio e vivere.
A meno che, naturalmente, non avessi un bimbo di quattro anni
rinchiuso con te…
Gli spaventapasseri urlarono quando la videro, pensando che fosse uno
spettro Senzafuoco venuto a tormentarli. Mia percorse tutto quanto il
blocco di celle, gli occhi sgranati. Ora provava disperazione. Paura,
malgrado il gatto nella sua ombra. Dovevano essere qui da qualche parte,
giusto? Di sicuro Domina Corvere non avrebbe trascinato suo figlio nella
carneficina lì sopra per una vaga possibilità di sfuggire a questo incubo…
Giusto?
«Madre!» chiamò Mia, le lacrime agli occhi. «Madre, sono Mia!»
Corridoi interminabili. Buio privo di ogni luce. Sempre più in profondità
nell’ombra.
«Madre?»
«… cercherò negli altri corridoi. così sarà più rapido…»
«Non allontanarti.»
«… non temere…»
Mia provò un brivido quando Messer Cortese si avviò balzelloni lungo il
corridoio. L’oscurità la accerchiò e lei staccò una torcia tremolante dalla
parete, le ombre che danzavano. Sentì una paura fredda insinuarsi nelle
viscere, ma strinse i denti e la ricacciò indietro. Il suo respiro accelerò. Il
cuore le martellava mentre vagava per un corridoio dopo l’altro,
chiamando con quanto volume osava.
«Madre?»
Sempre più all’interno della Pietra.
«Madre!»
E infine riuscì a trovare la strada per la fossa più profonda. Il buco più
cupo.
Un posto che la luce non aveva mai toccato.
Non guardare.
«Bel fiorellino.»
La ragazza strinse gli occhi al buio. Il cuore si serrò al suono della sua
voce.
«… Madre?»
«Bel fiorellino» giunse il sussurro. «Bella, bella.»
Mia venne avanti nella luce tremolante della torcia e scrutò tra le sbarre
di una cella lurida. Pietra umida. Paglia marcia. Il fetore di mosche, merda
e marcio. E lì, raggomitolata nell’angolo, magra come uno stecco e avvolta
di stracci e ciocche fradicie dei suoi stessi capelli aggrovigliati, la vide.
«Madre!»
Anche se teneva la mano sollevata contro la luce, trasalendo, il sorriso
di Domina Corvere era giallo, instabile e troppo ampio.
«Bellina» sussurrò. «Bellina. Ma non ci sono fiori qui, no. Non cresce
nulla. Cos’è lei?» Occhi sgranati cercarono nell’oscurità, guardando
ovunque tranne la faccia di Mia. «Cos’è lei?»
«Madre?» Mia si avvicinò alle sbarre con passi esitanti.
«Niente fiori, no.»
Domina Corvere dondolava avanti e indietro, chiudendo gli occhi per
non vedere la luce.
«Tutto svanito.»
La ragazza posò la torcia e si inginocchiò accanto alle sbarre. Guardò
lo scheletro tremante all’interno e il suo cuore si frammentò in un milione
di schegge scintillanti. Troppo.
Aveva aspettato troppo.
«Madre, non mi riconosci?»
«Non me» sussurrò lei. «Non lei. No. No.»
La donna artigliò le pareti con dita insanguinate. Mia vide decine di
segni sulla pietra, tracce di scarlatto secco e unghie rotte. Uno schema di
follia, intagliato con le mani nude di Domina Corvere. Un conteggio del
tempo interminabile che aveva trascorso a marcire qui.
Erano passati quattro lunghi anni da quando Mia l’aveva vista, ma non
così tanto da non poter ricordare la bellezza di sua madre. Un’intelligenza
più affilata della lama di un duellante. Un carattere che faceva tremare il
terreno su cui camminava. Dov’era quella donna, adesso? La donna che
aveva tenuto Mia contro le sue gonne perché non potesse distogliere lo
sguardo? Che l’aveva costretta a fissare suo padre che penzolava e ruotava
in fondo alla corda? Mentre il cielo stesso piangeva?
Mia poteva udire la voce di Scaeva nella testa, un’eco del cambio in cui
suo padre era morto.
«E quando diventerai cieca al buio, la dolce Madre Tempo rivendicherà
la tua bellezza e la tua volontà, assieme all’esile convinzione di essere mai
stata qualcosa di più di merda liisiana avvolta in seta itreyana.»
Domina Corvere scosse il capo, masticando ciocche arruffate dei propri
capelli. Un tempo in quella chioma corvina scintillavano gemme e oro, ma
adesso era piena di pulci e punteggiata di paglia marcia. Mia allungò la
mano attraverso le sbarre. La protese quanto più poteva.
«Madre, sono Mia.»
I suoi occhi erano pieni di lacrime. Il labbro inferiore tremolava.
«Per favore, Madre, io vi amo.»
A quelle parole, Domina Corvere sussultò. Sbirciò tra dita insanguinate.
Nelle profondità frammentate delle sue pupille avvampò una luce di
comprensione. Qualche residuo della donna che era stata si fece strada fino
in superficie. La donna che un tempo ogni senatore aveva temuto. I suoi
occhi si riempirono di lacrime.
«Tu sei morta» mormorò. «Io sono morta con te?»
«Madre, no, sono io.»
«Ti hanno affogata. La mia bellissima ragazza. La mia bambina.»
«Madre, per favore» la implorò Mia. «Sono venuta a salvarvi.»
«Oh, sì» sussurrò lei. «Portami al Focolare. Fammi sedere e lasciami
dormire. Solo le Figlie sanno se non mi sono meritata il riposo.»
Mia sospirò. Le si spezzava il cuore. Aveva le lacrime agli occhi. Ma no.
Non c’era un secondo da perdere. Avrebbe avuto tempo a sufficienza per
occuparsi delle ferite di sua madre quando fossero state lontane da qui.
Tempo a sufficienza quando loro…
… loro…
Mia sbatté le palpebre al buio. I suoi occhi perlustrarono la cella.
«Madre, dov’è Jonnen?»
«No» sussurrò lei. «Niente fiori. Nulla cresce qui. Nulla.»
«Dov’è mio fratello?»
La donna articolò parole prive di forma. Le labbra sbatacchiavano. Si
artigliò la pelle e conficcò le mani tra i capelli aggrovigliati. Digrignò i
denti e chiuse gli occhi quando le colarono lacrime lungo le guance.
«Andato» mormorò. «Con suo padre. Andato.»
«No.» Mia scosse il capo e si toccò il petto dolorante. «Oh, no.»
«Oh, Figlie, perdonatemi.»
Ci volle tutto quello che aveva. Ogni oncia di se stessa. Ma Mia spinse
da parte la sofferenza. La schiacciò sotto il tacco dello stivale. Ricacciò
indietro le lacrime brucianti. Cercò di non ricordare le illuminotti in cui
aveva tenuto il fratellino tra le braccia, cantando per zittire i suoi vagiti.
Ignorando i gemiti febbrili di sua madre, esaminò la pesante serratura sulla
porta della cella. Tirò fuori un grimaldello dalla cintura e si mise al lavoro
come le aveva insegnato Mercurio. Si concentrò su quel compito. Sul
conforto di quei movimenti meccanici. L’oscurità attorno a lei tremolò. Le
urla di omicidi distanti divennero più forti. Più vicine?
Non guardare.
La mano di sua madre serpeggiò fuori dalle ombre. Si avvolse attorno al
polso di Mia. La ragazza sussultò, ma Domina Corvere tenne stretta sua
figlia. Sibilò con un alito marcio.
«Come posso toccarti se sei morta?»
«Madre, non sono morta.» Afferrò l’altra mano della donna e se la portò
al volto. «Vedi? Sono viva. Come te. Viva.»
Domina Corvere le strinse il polso così forte da farle male.
«Oh, dio» mormorò. «Oh, mai. Niente fiori…»
«Zitta ora. Dobbiamo farti uscire di qui.»
«Il mio bambino» strillò lei. «Il mio dolce, piccolo Jonnen. Se n’è
andato. Andato.»
Lacrime colarono lungo guance luride. Un sussurro, delicato come la
neve.
«Anche la piccola Mia è morta.»
«No, sono qui.» Mia baciò quelle dita lacere e sanguinanti. «Sono io,
Madre.»
«… mia, il campo è libero, dobbiamo sbrigarci…»
Messer Cortese si materializzò sul pavimento accanto a lei: il suo
sussurro giungeva dall’oscurità. Domina Corvere lanciò uno sguardo
all’umbragatto e sibilò come se fosse stata scottata. Si ritrasse dalle sbarre
nell’angolo più lontano, mostrando i denti in un ringhio.
«Madre, va tutto bene! È mio amico.»
«Occhi neri. Mani bianche. Oh, dio, no…»
«… mia, dobbiamo andare…»
«Lui è dentro di te» sussurrò la domina. «Oh, Figlie, è dentro di te.»
A Mia tremavano le mani. La serratura non voleva cedere. Era
arrugginita e piena di sporcizia. Domina Corvere era nell’angolo, con tre
dita sollevate verso Messer Cortese: il gesto di protezione di Aa contro il
male. Mia poteva udire il caos sopra di loro, le urla dei moribondi, il
sangue denso nell’aria. Allora fu pervasa dalla rabbia nel vedere la
sofferenza a cui sua madre era stata sottoposta, il relitto in cui l’avevano
trasformata. I soli erano ben al di sotto dell’orizzonte, adesso, e il potere
del verobuio lì fuori cresceva nelle sue ossa. Senza pensare, sollevò
entrambe le mani, il volto distorto mentre le ombre tremavano. Oscurità
liquida serpeggiò attorno alle sbarre, tirando con forza. Il ferro gemette
mentre veniva staccato dai suoi alloggiamenti, e la cella si aprì quando le
sbarre si spezzarono come ramoscelli secchi. Mia passò attraverso il buco
che aveva creato e protese la mano.
«Tu sei sua» sibilò sua madre. «Sei sua.»
«… mia, dobbiamo andare…»
«Madre, venite con me.»
Domina Corvere scosse il capo. I suoi occhi erano pieni d’orrore. «Tu
non sei la mia bambina.»
Mia afferrò la mano della madre. La donna urlò, cercando di staccarsi,
ma Mia la tenne stretta. Legandola con nastri d’oscurità, Mia la trascinò in
piedi e fuori dalla cella. Alinne Corvere non sembrava riconoscere più sua
figlia e si contorceva nella stretta di Mia. Ma la ragazza tenne duro,
tirandola lungo i corridoi e su per le scale fino ai bastioni in alto. L’odore
della carneficina era sempre più intenso, il canto dell’omicidio sempre più
forte. E quando cominciarono a farsi strada tra i cadaveri, i gemiti della
domina divennero urla. Gli occhi iniettati di sangue si stringevano nella
luce ardente. La bocca era aperta.
Urlava.
«… deve stare zitta…!»
«Madre, smettetela, ci sentiranno!»
«Lasciami andare! LASCIAMI ANDARE!»
«… mia…!»
Un uomo sbucò dall’oscurità più avanti, un paio di manette
insanguinate strette nel pugno. Avvistandole, ruggì e caricò lungo il
corridoio. Mia si voltò verso di lui con un guizzo del polso. Le ombre si
dispiegarono, afferrando l’uomo e sbalzandolo contro la parete. Quello
crollò in ginocchio, sanguinante e frastornato, mentre altri due galeotti
svoltavano un angolo. Erano poco più che adolescenti, le facce imbrattate
di sangue. L’oscurità si agitò al comando di Mia, sbattendoli via come se
fossero fatti di stracci. Ma, nell’occuparsi dei ragazzi, Mia aveva allentato
la stretta su sua madre e Domina Corvere si liberò, allontanandosi di corsa
lungo il corridoio.
«Madre!»
L’uomo che aveva schiantato contro il muro si alzò su gambe tremolanti
e avanzò barcollando verso di lei. Mia lo scagliò di nuovo contro i mattoni,
più forte di prima, e con un sospiro gorgogliante quello crollò e rimase a
terra. Mia si precipitò dietro la madre, urlandole di fermarsi.
Tutte le ombre nel corridoio si sferzarono avanti, lanciando nastri di
oscurità per ghermirla. Ma ora stavano arrivando altri prigionieri: le urla
di Alinne li stavano attirando come drachi verso acque intrise di sangue.
Mia li sbatté via, incrinando la pietra.
«Madre, fermatevi! Per favore!»
Alinne continuò a correre, su per una rampa di scale in direzione del
cortile. Con una mano si schermava gli occhi dalle torce alle pareti,
accecanti dopo anni nelle tenebre più totali. Guardandosi alle spalle,
gemette quando vide sua figlia che la inseguiva e le ombre che le
schioccavano attorno come cose vive. C’era un demone accanto a lei.
Dentro di lei.
«Madre, fermatevi!»
«Stammi lontana!»
Il ragazzo apparve dall’oscurità poco più avanti: era mingherlino,
mezzo morto di fame, con una scheggia d’acciaio frastagliato in mano.
Molto probabilmente era più spaventato di Alinne. Ma attaccò comunque in
preda a quella paura, a quel panico, e la lama scintillò di rosso. La domina
incespicò. Si tenne il petto. E dietro di lei, sua figlia urlò.
«NO!»
Le ombre si allungarono come per volontà propria, afferrando il ragazzo
con il coltello insanguinato per sbatterlo contro il muro, più e più volte.
Mia si fermò slittando al fianco di sua madre: la donna era accasciata
contro la pietra, il petto umido e rosso.
«Madre, no, no, no!»
La ragazza premette la mano contro la ferita, cercando di arrestare il
flusso. Un liquido scarlatto le pulsava tra le dita, scuro quasi quanto le
ombre che le circondavano. Domina Corvere alzò lo sguardo negli occhi di
sua figlia. Nei suoi, la luce stava morendo.
«Non sei… mia figlia…»
Strizzò la mano di Mia in una stretta rossa e appiccicosa.
La spinse da parte.
«Solo… la sua ombra…»
Il petto di Alinne sbatacchiò mentre la luce nei suoi occhi si spegneva
lentamente. La ragazza si inginocchiò lì sulla pietra, mentre le ombre
attorno a lei si contorcevano e si deformavano. La struttura stessa attorno
a lei stava tremando. Le pareti si incrinavano. Il soffitto brontolava. Sangue
sulle sue mani. La carneficina attorno a lei le riecheggiava nella mente, il
sangue colava nell’oscurità annidata tra ogni pietra del pavimento.
NON GUARDARE.
La ragazza si alzò, i capelli corvini che si sollevavano attorno a lei come
in un vento invisibile. Le mani si contrassero in pugni. Cento ombre
serpeggiarono nell’aria. Le pareti si incrinarono e si spaccarono. Il soffitto
iniziò a incurvarsi, a sgretolarsi. E proprio mentre la roccia veniva fatta a
pezzi, mentre centinaia di tonnellate di muratura crollavano, distruggendo
la tromba delle scale e tutto ciò che c’era all’interno, la ragazza entrò in
uno di quei viticci di oscurità che si contorcevano e uscì da un’ombra

cinque
piani
sopra.

Ora si trovava ai piani superiori. La Calata era in pieno svolgimento.


Uccisori e uccisi. Caos e sangue. Uomini imbrattati dai prodotti delle loro
stragi, stringendo in mano armi improvvisate o arti tagliati. Uno la vide e si
diresse verso di lei con un ghigno mortale. Lei guardò nella sua direzione e
l’oscurità lo fece semplicemente a pezzi. I brandelli dell’uomo furono
scagliati in giro come quelli di in giocattolo rotto da un bambino. Le pareti
attorno a lei si incurvarono, venate da crepe profonde. I mattoni furono
ridotti in polvere. Arrivarono altre persone, uomini e donne intrisi di
omicidio, solo per essere fatti a brandelli come stracci rotti. La ragazza
avanzò lungo i bastioni della Pietra, le mura che crollavano dietro di lei,
precipitando in piogge di malta polverizzata e pietra in frantumi, giù, nel
mare.
La Pietra Filosofale cominciò a pendere, con intere sezioni della
fortezza che si sbriciolavano mentre le ombre tra ciascun mattone e ogni
pietra si liberavano con uno strattone, andando ad aggiungersi alla
tempesta di oscurità che turbinava attorno alla ragazza piangente. Le
lacrime le colavano lungo le guance. Il volto era distorto dal dolore. Gli
occhi orbite nere. Era troppo da tenere dentro. Troppo da sopportare.
«… mia…!»
Un gatto fatto di ombre si materializzò accanto a lei, urlando sopra il
frastuono della pietra torturata, dei moribondi, dell’oscurità ululante. La
fortezza si spaccò lungo il muro esterno e i bastioni precipitarono
nell’oceano sottostante. I ladri e i criminali cessarono i loro scontri
sanguinosi e si rintanarono negli angoli o fuggirono di nuovo verso le celle
da cui erano scappati. Le pietre sotto i suoi piedi caddero, lasciandola
sospesa in una rete di oscurità che si contorceva.
«… mia, smettila…!»
L’intero corpo della ragazza adesso era avvolto nell’ombra. Viticci neri
come l’inchiostro le spuntarono dalla schiena simili ad ali, nastri di
oscurità affilata come rasoi crebbero dalla punta di ogni dito. Occhi neri
erano fissi sulla baia, verso le Costole che si innalzavano sopra la città di
ponti e ossa. La Casa del Senato di Itreya e tutta la sua nobiltà midollana,
su cui spadroneggiava il console gongolante che aveva fatto a pezzi la sua
famiglia. Aveva ucciso suo padre. Il suo fratellino. E ora anche sua madre.
La ragazza scosse il capo. Ringhiò.
«La smetterò quando lui smetterà.»
E ripiegando le dita in pugni tremanti, lei scomparve.

Passo.
Era sul fondo della Pietra, tra le ombre delle rocce frastagliate.
Passo.
Era dall’altro lato della baia, nel buio mutevole della costa.
Passo.
Era sul viale a guardare la folla del Carnivalé nelle loro maschere
sorridenti. Messer Cortese non era più con lei, ma accanto alla ragazza
camminava la rabbia, che consumava il posto in cui la paura cercava di
radicarsi. Passò da un’ombra alla successiva, come un bambino che salta
sulle pietre per attraversare un canale di scolo allagato. La gente
rabbrividiva al suo passaggio. La città attorno a lei era sfocata e indistinta:
solo sagome fioche contro un nero più intenso. Ma i cieli notturni erano
brillanti come la soliluce. Le stelle erano sparse come diamanti su un
sudario funebre. Le ombre le cantavano. La tenevano stretta e le
asciugavano le lacrime. C’era dolore nelle loro pance. Brama sulle loro
lingue.
Lei si rese conto che erano affamate.
La tenebra era affamata.
Mia scrutò il profilo della città e trovò le Costole che spuntavano sopra
tetti distanti. Passo. E passo. E ancora passo. Finché non si ritrovò fuori
dalla Basilica Grande. Sapeva che sarebbero stati lì per la messa del
verobuio. Tutti in fila. Il console Scaeva. Il cardinale Duomo. Il tribuno
Remus. Falsa devozione e vesti sfarzose. Mani macchiate di sangue
premute assieme, occhi rivolti al cielo che pregavano per i soli che non
avrebbero rivisto mai più.
Uscì dalle ombre di un arco di trionfo e ammirò la basilica davanti a lei.
Un vasto cortile circolare, attorniato su tutti i lati da pilastri di marmo.
Una statua dell’onnipotente Aa torreggiava al centro, alta cinquanta piedi,
con la spada sguainata e tre grandi globi arkemici sul palmo. Dietro c’era
la struttura svettante, tutta vetri colorati e superbe cupole ampie. Arcate e
guglie illuminate da mille globi, nel vano tentativo di bandire quella
tenebra affamata.
Il cortile era pieno di persone non abbastanza ricche o nobili da essere
ammesse in notti così nere. Ma presso ciascuna colonna c’erano uomini in
bianche e scintillanti armature di piastre, mantelli cremisi e piume sugli
elmi. Legionari Luminatii, radunati in forze per proteggere senatori e
pretori, proconsoli e cardinali all’interno delle sale consacrate della
basilica. Quella vista le ricordò suo padre nei cambi prima della sua morte.
Che la portava sulle spalle per le strade cittadine. La sua barba non rasata
le pizzicava la guancia quando la baciava.
Il volto violaceo.
Le gambe che scalciavano.
Il gorgoglio.
La ragazza alzò lo sguardo sulla statua di Aa. Sputò odio.
«Ti ho pregato. Ti ho implorato di riportarli a casa. Vedi tutto ma non
hai visto abbastanza per notare le loro sofferenze? Oppure non ti è
importato e basta?»
Il Semprevigile non rispose. Lei allungò la mano verso il Dio della Luce
e i suoi globi, avvolgendoli in nastri neri. E mentre la folla lì attorno urlava
di terrore, la ragazza serrò i pugni. I muscoli si tesero. Le vene del collo si
gonfiarono. Con uno stridore di pietra torturata, la statua ondeggiò sul
piedistallo. I fedeli strillarono di terrore e si sparpagliarono in torme
urlanti quando finalmente crollò in avanti e si schiantò sul selciato con un
boato assordante.
Le ombre si protesero fino al Luminatii più vicino, si avvolsero attorno
alla sua testa e ai suoi fianchi e lo fecero a pezzi. Il sangue schizzò sul
marmo lucidato. La gente gridò. I legionari diedero l’allarme ed estrassero
le lame. Perfino qui, nella notte che si addensava, le loro spade
scintillavano come se ai loro lati danzasse veraluce. Mia entrò nelle ombre
ai suoi piedi e uscì da quella che si trovava immediatamente dietro al
legionario più grosso e forte che riusciva a vedere. L’oscurità si avvolse
attorno al collo dell’uomo come se fosse dotata di volontà propria, e la
spina dorsale del malcapitato si spezzò con un suono di fuochi d’artificio
umidi. Il legionario crollò a terra già morto.
«Demone!» giunse l’urlo. «Tenebris! Assassino!»
L’allarme risuonò per l’ampio cortile. Le persone scappavano dalle
rovine del loro dio in frantumi in un fuggi fuggi di fedeli. I soldati
caricavano da ogni direzione. Ora la tenebra le cantava, riempiendole la
testa. Spingeva i pensieri coscienti in luoghi vuoti e freddi, lasciando solo
la rabbia. La fame. Tentacoli neri sferzavano il buio. Ossa e sangue. La
luce le scottava gli occhi. Così tante spade, adesso. Così tanti uomini.
Guadò in mezzo a loro, saltando da ombra a ombra. Li scagliava via come
giocattoli, le ombre affilate come lame che aprivano l’acciaio bianco
scintillante e mostravano le parti rosse all’interno.
Si mosse da una colonna all’altra. Verso i resti della statua di Aa e i tre
soli spaccati nel suo palmo proteso. Evitò un colpo che le avrebbe spiccato
la testa dalle spalle. Un altro uomo cadde, fatto a pezzi. Adesso era sulle
scale. Le grandi doppie porte, decorate in oro inciso, riflettevano il fuoco
delle cento spade dietro di lei. Mia sollevò le mani e spalancò le porte,
ruggendo il suo nome.
«SCAEVA!»
Degli uomini la attendevano proprio all’interno delle porte, e il suo
ruggito divenne un urlo quando quelli alzarono i loro bastoni. Il cardinale
Duomo e i suoi ministri, abbigliati con i paramenti più eleganti. Gli anni
dall’esecuzione di suo padre avevano cambiato poco il cardinale; sembrava
ancora più simile a un brigante che avesse derubato un prete delle sue vesti
che l’uomo a cui appartenevano davvero. Ma lui venne avanti, circondato
dai suoi ministri. La barba nera ispida, la bocca aperta in un grido.
«Nel nome della Luce, abominio, ti ordino di andartene!»
La Trinità sulla punta del suo bastone avvampò più luminosa di tutti e
tre i soli. Mia strillò e barcollò all’indietro. Quella luce era così feroce, così
calda. Portandosi le mani agli occhi, li strinse tra quel bagliore sgargiante.
E lì, alla fine della navata, circondata da due dozzine di legionari in bianco
lucido e rosso sangue, lo vide. Il bellissimo console con gli occhi neri, le
vesti porpora e un serto dorato sopra la fronte. Colui che aveva sorriso
mentre suo padre moriva. Che aveva consegnato sua madre alla follia. Che
aveva ucciso il suo fratellino.
«SCAEVA!»
«Questa è la sacra casa di Aa!» tuonò Duomo. «Tu non hai alcun potere
qui, demone!»
Mia serrò i pugni, abbagliata dalla luce davanti a lei. Il vento le ruggiva
nelle orecchie. Il calore picchiava su di lei come tutti e tre i soli. Nausea
nello stomaco, vomito in bocca. Nessuna ombra da afferrare davanti a lei.
Era troppo. Troppo luminosa. Vide un uomo enorme in armatura di piastre
bianca, un volto lupesco rosso di rabbia, una guancia sfregiata dagli artigli
di un gatto.
Remus…
«Abbattetela!» tuonò il tribuno. «Luminus Invicta!»
Mia si voltò mentre i Luminatii si precipitavano su per gli scalini verso
di lei. La luce alle sue spalle era così feroce che l’ombra da lei proiettata
sulla pietra era lunga come quella dei soli al tramonto. Qualcosa di affilato
e bruciante impattò con la parte posteriore del cranio e lei barcollò. Ora si
stavano avvicinando dozzine di legionari. Il tribuno Remus caricò, la spada
fiammeggiante. La rabbia ardeva luminosa. La tenebra in lei si agitava.
Tutto ciò che voleva era divorare. Spalancarsi e affogare nel sangue che
avrebbe versato. Mia poteva percepirla. Tutt’attorno a lei. Trapelava
attraverso le fessure di Godsgrave. La sofferenza. La furia. L’odio puro e
accecante annidato nelle ossa di questa città.
Essa ci odia.
Ma, nei luoghi freddi e vuoti, rimaneva una minuscola parte di lei.
Quella parte minuscola non era rabbia, odio o fame. Era solo una
quattordicenne che non voleva morire.
Il tribuno si fece largo tra le file di uomini del clero e vibrò la lama di
solacciaio con tutta la sua forza. La Trinità sul pomolo della spada brillava
più ardente della lama stessa. Mia barcollò all’indietro e la spada le scalfì
il braccio, facendole ribollire il sangue. Remus agitò l’arma ancora e
ancora; adesso lei era circondata da Luminatii, brillanti e accecanti. E con
un urlo sfinito, cadde nell’ombra ai suoi piedi, per uscire dalla stessa
ombra a cento piedi di distanza.
Risuonarono le balestre. Le fiamme si incresparono su acciaio lucidato.
Remus ruggì. La gente urlò. Ma lei era distante. Viaggiò tra le ombre: era
di nuovo la ragazzina che saltava da una pietra all’altra. Aveva sangue
sulla nuca, e la luce del cardinale l’aveva bruciata fin quasi ad accecarla.
E in profondità, sotto il dolore e la rabbia, raggomitolata in quei posti
freddi e vuoti, albergava la sensazione più fioca di tutte.
Fallimento.
Si ritrovò sui bastioni sopra il foro. Sopra il punto dove era morto suo
padre. La piazza illuminata da luce arkemica rossastra. Gente che faceva
baldoria e ubriachi che danzavano sul selciato. Poteva udire le urla che
riecheggiavano per la città. Assassino! Demone! Abominio!
Si accasciò contro il necrosso freddo. Le sue mani tremanti erano
imbrattate di sangue. L’oscurità attorno a lei sussurrava, supplicava,
implorava. Proprio come l’oscurità dentro di lei. Era solo una bambina in
mezzo a tutto ciò. Una ragazzina in un mondo così freddo e vuoto, con le
ombre attorno a lei che non le portavano alcun conforto.
Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta lì, seduta. Il sangue si
seccò fino a incrostarsi sulle sue mani. La città era nel caos. Folle si erano
radunate sulla costa orientale, a guardare la rovina pendente della Pietra
Filosofale, i cui bastioni si erano staccati ed erano ruzzolati in mare.
Pattuglie di Luminatii si aggiravano per le strade, cercando di portare
ordine tra il panico crescente e il caos ubriaco in aumento. Risse e vetri
rotti.
Un fremito nella sua ombra.
«… mia…»
Un debole rumore di passi sulla pietra accanto a lei.
«Ha detto che ti avrei trovato qui.»
Il vecchio Mercurio si inginocchiò accanto a lei, le ossa che
scricchiolavano. Mia non lo guardò, ma tenne gli occhi fissi sul profilo
della città. Le Costole che torreggiavano sopra di loro. I guerrieri
ambulanti che montavano la loro veglia silenziosa. Il bagliore ardente della
Basilica Grande al di là.
«Notte turbolenta, piccolo Corvo?» le chiese.
Le lacrime colarono lungo le guance di Mia. Il singhiozzo le artigliava
la gola, pretendendo che lo facesse uscire. Lei si morse il labbro per non
farlo scappare e aggravare il fallimento. Sentì sapore di sangue.
Mercurio tirò fuori una sottile custodia d’argento dall’interno del suo
pastrano. La ragazza sussultò quando lui usò un acciarino e quella
vampata momentanea le ricordò la luce nelle mani di Duomo, che bruciava
sulla spada di Remus. L’odore di chiodi di garofano che bruciavano
macchiò la notte.
«Ecco» disse Mercurio.
Lei guardò il vecchio. Le stava porgendo il sigaretto.
«Calma i nervi» spiegò lui.
Mia sbatté le palpebre al buio. Allungò mani insanguinate. Si portò la
paglia alle labbra e sentì un sapore zuccherino. Un calore per scacciare il
gelo. Il fumo che inalò soffocò i singhiozzi e placò i suoi tremiti. Tossì.
Sputacchiò fumo grigio. Trasalì.
«Ha un sapore orribile.»
«Domani sarà migliore.»
Mia voltò gli occhi verso le luci scintillanti della città. Il cuore ardente
di Godsgrave si estendeva davanti a lei. Sussultò al ricordo degli uomini
che aveva ucciso, di quelli che aveva affrontato. Così tanti, e lei tutta sola. I
soli bruciavano sulle loro mani. Sul loro acciaio. Nei loro occhi.
«Era così luminoso» sussurrò. «Troppo luminoso.»
«Non temere, piccolo Corvo.»
Il vecchio sorrise. Le diede una pacca sulla mano.
«Più brillante è la luce, più cupa è l’ombra.»
LIBRO 3
NERO SCORRE ROSSO
CAPITOLO 28
VELENO

Ore più tardi, Mia si svegliò al buio. Avvertiva un dolore fantasma lungo la
schiena dove i colpi della Tessitrice erano caduti. Le ossa riecheggiavano
ancora quella sofferenza. Alzò lo sguardo dove si aspettava di trovare un
paio di occhi. Messer Cortese sulla testiera, che vegliava su di lei mentre
dormiva.
«… stai bene…?»
«Abbastanza.»
«… mi hai chiesto di badare al ragazzo. non sono riuscito a tenere
lontano l’incubo…»
«È sempre stato lì.» Lei sospirò. «Sempre.»
Mia si mise a sedere sul letto, i capelli sospesi attorno alla faccia mentre
chinava la testa. Le dolevano i muscoli a causa del tocco della Tessitrice, e
sentiva la bocca asciutta per i ricordi che aveva tenuto segregati. Che si era
rifiutata di guardare. Sua madre. Il potere delle notti, che le fluiva nelle
vene. Era stata lei a distruggere la Pietra Filosofale. Era stata lei a
perpetrare il Massacro del Verobuio. Aveva ucciso dozzine di uomini sui
gradini della Basilica Grande. Altre dozzine nella Pietra stessa. Padri.
Fratelli. Figli.
Aveva tentato di uccidere Scaeva.
“Tentato e fallito.”
Così tanto sangue sulle sue mani. Così tanto potere sulla punta delle sue
dita.
E non c’era arrivata nemmeno vicino.
«Abbiamo del lavoro da fare.»

E così cominciò.
Il tempo passava sotto il cielo dell’illuminotte e l’iniziazione si
avvicinava sempre più. Routine e rituali. Pasti, addestramento estenuante e
sonno.
Aver sopportato cinquanta frustate per mano della Tessitrice non era
un’impresa da poco, e molti degli accoliti trattavano Mia con rinnovato
rispetto dopo la flagellazione. Ma Tric era riuscito a sopportare l’intera
ordalia senza nemmeno piagnucolare, e ora era considerato con una sorta di
meraviglia tra gli altri novizi. Perfino lo Shahiid Solis riservò alcune lodi
per le sue forme sempre migliori nell’Aula di Canti. Nei momenti privati
che riuscivano a prendersi prima della nona campana (nessun accolito osava
più mettere piede fuori dalla propria stanza), Tric sussurrò a Mia che era
ridicolo: era stata lei quella coraggiosa, non lui. Ma Mia era lieta di lasciare
che lui le rubasse la gloria. Meglio essere sottovalutata.
Era più facile nascondersi nel buio che nelle luci della ribalta.
Per quanto riguardava Mia, Solis continuava a mostrare poca pietà. Lei
colpiva ancora debolmente con il braccio ricucito e non riusciva a
mantenere la difesa quando era sotto pressione. Anche se era stato lui a
causarle quella ferita, lo Shahiid mandava Mia a correre su e giù per le scale
alla minima infrazione. Lei tollerava quell’abuso in silenzio e riusciva a
evitare di farsi trapassare il petto quando veniva accoppiata con Jessamine o
Diamo, cosa che sembrava accadere con più frequenza rispetto a quanto
avrebbero dovuto dettare le leggi della probabilità.
Spesso, al termine di Canti, era costretta a doversi presentare dalla
Tessitrice per farsi rammendare le ferite. Da parte sua, Marielle non diceva
nulla sul flagello di sangue e non trattava Mia in maniera diversa. Ma Mia
non dimenticava. Non perdonava. a
Adonai mostrava ancor meno preoccupazione per Mia rispetto a sua
sorella. Sempre distaccato, presiedeva il consueto Cammino del Sangue che
inviava gli accoliti a Godsgrave in cerca di segreti per Aalea. Mia si ritrovò
ad appostarsi nelle taverne, a lusingare giovani soldati per immergersi tra le
dicerie. C’era stata una piccola sollevazione quando il console Scaeva
aveva introdotto suo figlio Lucius, di appena sette anni, nella legione dei
Luminatii. b Lei udì voci secondo cui il tribuno Remus aveva generato un
figlio bastardo con la figlia di un certo senatore. Si diceva che Scaeva stesse
lavorando sotto silenzio per essere nominato imperatore, un titolo che gli
avrebbe dato autorità sul senato fino alla morte. Mia riportò tutte queste
dicerie e altre ancora alla Shahiid Aalea, sperando di ottenere il suo favore.
La donna sorrideva e basta, baciava Mia sulla guancia, ma non le dava
alcuna indicazione sulla sua posizione nella gara.
Era esasperante.
Ma il dilemma di Ammazzaragni lo era ancora di più. Mia passava ogni
momento libero a lavorarci, ma l’antidoto era ancora oltre la sua portata.
Scribacchiava e imprecava. Osservava i simboli arkemici scontrarsi nella
sua mente finché non li vedeva anche durante il sonno.
Lei e Tric orbitavano lentamente l’uno attorno all’altro, scivolando
sempre più vicini a una nuova collisione. Ma la sofferenza che avevano
sopportato per mano della Tessitrice urlava ancora più forte del dolore di
non stare assieme. Non c’era tempo tra le lezioni, nessun posto dopo la
nona campana, nessuna soddisfazione in qualche angolo buio a scopare
come ladri. Lei aveva la sensazione che tutto ciò valesse più di quello. E
così attendevano il momento in cui l’altro sarebbe esploso. Mia lo sognava
da sola nel suo letto, mentre faceva vagare le mani sempre più in basso,
urlando muta il suo nome.
E nei minuti silenziosi, nelle ombre, si incontrava con Naev.
Che sudava altrettanto.
E non urlava affatto.

«Madre Nera, questa sarà la mia fine.»


Mia era curva sopra i suoi appunti al tavolo del primopasto, controllando
con la coda dell’occhio che non volassero vassoi con bevande. Osrik e
Ashlinn erano seduti dal lato opposto, Tric accanto a lei. Il chiacchiericcio
si diffondeva tra gli accoliti tra il tintinnio e lo stridio delle posate, con Pip
che borbottava al suo coltello come sempre, con delle pause tra le domande,
come se la sua lama gli rispondesse. c
Il picchiettio di una forchetta contro un bicchiere richiamò l’attenzione, e
tutti gli occhi si voltarono verso il tavolo d’onore. La Reverenda madre
Drusilla era in piedi, l’abituale sorriso in volto. Spaziò lo sguardo sulle
facce lì riunite e annuì tra sé con aria soddisfatta.
«Accoliti. Questo è l’ultimo cambio di lezioni ufficiali che frequenterete
come novizi della Chiesa Rossa. Da questa sera fino all’iniziazione tra due
settimane, potrete usare il vostro tempo come ritenete più opportuno. Lo
Shahiid Mouser e la Shahiid Aalea accetteranno oggetti rubati e segreti fino
al termine della settimana. Anche la Shahiid Ammazzaragni potrà ricevere
soluzioni per il suo enigma. Vorrei far notare che finora nessuno ha
partecipato alla sua contesa, e sottolineo che nessun accolito debba sentirsi
in alcun modo obbligato a risolvere l’enigma della Shahiid. Spero che
Ammazzaragni abbia messo sufficientemente in chiaro cosa comporta il
fallimento.»
L’arcigna donna inclinò il capo, le labbra nere increspate in un sorrisetto.
«La competizione dello Shahiid Solis nell’Aula di Canti comincerà
domani. In mattinata si combatteranno gli incontri preliminari, e le finali
avranno luogo dopo mediopasto. L’Oratore Adonai e la Tessitrice Marielle
saranno a disposizione per occuparsi delle vostre ferite.»
«Quando gli accoliti saranno decretati primi di un’aula, il Culto terrà una
serie di prove finali. Chi dei quattro effettuerà una prestazione
soddisfacente, sarà iniziato come Mano Destra di Niah e consacrato con il
sangue di lord Cassius in persona.»
Mia deglutì rumorosamente. Era tutto ciò per cui aveva lavorato. Tutto
ciò che voleva.
«Suggerisco a tutti voi di prendervi una bella serata di riposo dopo le
lezioni» disse Drusilla. «Domani cominciano le prove finali.»
L’anziana tornò a sedersi al tavolo. Il chiacchiericcio tra gli accoliti
riprese lentamente, ora che sulle loro teste gravava il peso di ciò che stava
per accadere. Ma presto quella preoccupazione fu sepolta sotto pile di cibo.
Sembrava che la cucina stesse usando tutte le risorse in questi ultimi cambi,
e sui vassoi c’erano alte cataste di deliziose pietanze dolci e salate, uova
fresche e prosciutto sfrigolante.
Mia non aveva voglia di mangiare nulla di tutto ciò. Tornò ai suoi
appunti e si accigliò. Le formule si contorcevano e rigiravano di fronte ai
suoi occhi, con un’emicrania che si insinuava alla base del cranio e
stringeva. Bestemmiò in ogni lingua che conosceva: Ashlinn la osservava
tra un boccone e l’altro e sogghignava alle imprecazioni più colorite.
«Ffai unn pash mugguri» disse.
Mia alzò lo sguardo dal suo quaderno. «Cosa?»
Ash cercò di pronunciare più chiaramente, deliziando Mia con
un’occhiata della sua bocca piena.
«Ffai. Unn. Pash. Muggri.»
«Madre Nera, non parlare con la bocca piena, Ash» borbottò Osrik.
Ash prese un sorso d’acqua e guardò torvo il fratello. «Divertente. Ho
detto la stessa cosa a un grazioso soldatino l’ultima volta che sono stata a
Godsgrave.»
Suo fratello si coprì le orecchie e cominciò a cantilenare: «Lalalalalaaa».
«Cantava come un chierichetto, oh sì. Durante e dopo. I giovani
Luminatii si prendono tutto il meglio.»
«Credo di aver detto: “La. La. LA”» bofonchiò Osrik.
Ashlinn tirò una pagnotta contro la testa di suo fratello.
Osrik sollevò una cucchiaiata di farinata. «Adesso morirai…»
Mia intervenne prima che potesse scoppiare una guerra senza quartiere.
«Cosa stavi dicendo, Ash?»
La ragazza abbassò la seconda pagnotta e alzò un dito di ammonimento
verso suo fratello.
«Ho detto che dovresti fare una pausa, magari. Tutto lavoro e niente
svago non ti fa bene. Fai una passeggiata con me la prossima volta che
andiamo a ’Grave. Ti porterò in alcune taverne dei Luminatii. Così la
smetterai di strapparti i capelli.»
«I miei capelli stanno benissimo.»
«Uomini in uniforme, Corvere.»
«Pensiero fisso, Järnheim.»
«Almeno loro sanno com’è fatto un dannato pettine.»
Ash lanciò un’occhiata di sottecchi a Tric, aspettando una reazione.
Bisognava riconoscere che il giovane dweymeri mantenne il volto
impassibile mentre allungava la mano verso una pagnotta e la tirava in testa
ad Ashlinn.
«Alcuni sono a posto» borbottò Mia. «Tu sei in testa alla competizione
di Mouser di quasi settanta punti. Finirai sicuramente prima in Tasche.»
Ash si mise le mani dietro la testa, si appoggiò all’indietro e sospirò.
«Non posso farci nulla se ho un talento naturale. Posso rubare una bistecca
dalle fauci di un cane, io. Avresti dovuto vedermi quando ho sgraffignato i
coltelli di Ammazzaragni. È stata pura magika.»
«Ho visto la sua faccia dopo che si è resa conto che glieli avevi fregati»
disse Tric. «Sei più coraggiosa di me, Ash.»
La ragazza scrollò le spalle. «Tutto è lecito in amore e ruberia.»
«Due settimane all’iniziazione» borbottò Mia. «La gara di Solis
nell’Aula di Canti comincia domani. Se non decifro presto questo
problema, non ci riuscirò mai. Nessuno ha la minima idea di chi sia in testa
nella competizione di Aalea, e io non ho nemmeno una remota possibilità di
finire prima in qualunque altra aula, a meno che non trovi un modo per
rubare la chiave della Reverenda madre dal suo collo.»
«Denti della Mannaia, perfino io non sono tanto temeraria per provarci»
rabbrividì Ash, lanciando un’occhiata all’anziana donna. «Alla malora i
cento punti. Ti ucciderebbe due volte solo per averlo sognato.»
«Allora.» Mia ricominciò a scribacchiare i suoi appunti. «Eccoci qua.»
«Non sei preoccupata di metterlo tutto per iscritto?» disse Ash
sollevando un sopracciglio.
«Perché? Progetti di rubare anche questo?»
«Che siano dannati i tuoi occhietti lucenti, donna. Ti ho rubato solo un
misero coltello. E dopo ti ho chiesto scusa. Chiunque avrebbe pensato che ti
avessi rubato il fidanzato.»
«… Io non ho occhietti lucenti.»
«Ti sto solo dicendo di stare attenta a dove lasci quegli appunti» la
ammonì la ragazza. «Le questioni con Rossa o con il suo ragazzo sono
tutt’altro che terminate. Ricorda cos’hanno fatto a Lotti.»
Mia lanciò un’occhiata lungo il tavolo in direzione di Jessamine e
Diamo. Anche se aveva concepito una dozzina di piani per vendicare
l’omicidio di Carlotta, Mia sapeva che sarebbe stata una totale idiozia
metterli in atto. Se fosse successo qualcosa a uno dei due, il Culto avrebbe
bussato alla porta di Mia dieci secondi dopo.
Diamo la stava osservando tra un boccone e l’altro mentre Jess gli
sussurrava all’orecchio. Mia si domandò distrattamente se quei due
scopassero. Non mostravano mai apertamente affetto, ma ostentare
debolezza non era nello stile di Jessamine. E anche se adesso tra loro si
profilava la morte di Lotti, anche se non sarebbero mai state amiche, Mia si
ritrovò a pensare al padre di Jessamine. Ai Luminatii che aveva ucciso fuori
dalla Basilica Grande. Quanti altri orfani aveva creato quel verobuio?
Quante altre Jessamine?
I figli e le figlie degli uomini che lei aveva assassinato l’avrebbero
guardata come lei guardava Scaeva?
Cosa stava diventando?
“Occhi sul premio, Corvere.”
Reprimendo quei pensieri spiacevoli, Mia si voltò di nuovo verso Ash e
borbottò.
«Be’, aspettiamo finché non avrò scoperto la soluzione prima di
preoccuparci troppo, eh?»
«Quanto ci sei vicina?»
Mia fece spallucce. «Molto. E non abbastanza.»
Ash indicò con il capo Jessamine lungo il tavolo. «Be’, se la trovi, tienila
segreta. Se è la tua unica possibilità di arrivare prima in un’aula, puoi essere
dannatamente certa che la Rossa se la segnerà.»
Mia alzò gli occhi su Ashlinn.
«… Ripetilo?»
«Ripetere cosa?»
«La Rossa se la segnerà…»
«… Che?»
«Dalia rossa» mormorò Mia, strabuzzando gli occhi. «Veleno
segnonero.»
«Eh?»
Mia sfogliò le pagine fino a trovarne una ricoperta di scarabocchi e fece
scorrere le dita lungo gli appunti. Ash aprì bocca per parlare, ma Mia
sollevò una mano per chiederle di stare zitta. Scribacchiò una manciata di
formule rapide. Passò avanti e indietro tra le nuove e le vecchie. Infine
sollevò lo sguardo sulla ragazza e le rivolse un ampio sorriso.
«Ashlinn, potrei baciarti…»
«… Pensavo che non l’avresti mai chiesto.»
«Sei un fottuto genio!» urlò Mia.
La ragazza si voltò verso suo fratello e sorrise. «Vedi, te l’avevo
detto…»
Mia si alzò e prese Ash per le orecchie, poi la tirò vicino a sé e le stampò
un bacio rumoroso sulle labbra. Tric diede il via all’applauso spontaneo dei
presenti, ma Mia stava già raccogliendo i suoi appunti per allontanarsi di
corsa dall’Altare del Cielo. Jessamine e Diamo notarono la sua uscita,
parlando in tono sommesso tra loro. Tric e Ashlinn osservarono Mia
scomparire giù per le scale, mentre Osrik tornò al suo pasto scuotendo il
capo.
«È fuori di testa come il cervello di un pazzo, quella.»
«Bacia bene, però» sogghignò Ash. «Ora capisco perché stravedi per lei,
Trucco.»
Il giovane dweymeri mantenne il volto impassibile.
Con calma, allungò una mano verso un’altra pagnotta.
Mia passò il resto del cambio nella sua stanza, curva sulla pergamena
con un carboncino tra le dita. Sparse gli appunti sul letto, riesaminando la
mistura più e più volte. Suonò la campana dell’ultimopasto e lei non si
mosse di un pollice, fumando un sigaretto per ammazzare la fame. I non-
occhi di Messer Cortese vagavano sulla soluzione di Mia, pagina dopo
pagina, facendo le fusa tutto il tempo.
«… ingegnoso…»
Mia prese una tirata della sua paglia. «Se funziona.»
«… altrimenti…?»
«Faresti meglio a cercarti una nuova migliore amica.»
«… ho una migliore amica, ora…?»
La ragazza gettò la cenere in faccia al non-gatto. Udì la nona campana
suonare e il debole rumore di passi degli accoliti che tornavano alle loro
camere. Delle ombre passarono davanti alla fessura che lasciava entrare la
luce del corridoio. E, accanto a esse, un foglio di pergamena piegato,
infilato sotto la sua porta.
Mia si alzò dal letto e sbirciò fuori in corridoio. Nessuno in vista.
Raccolse la pergamena, la spiegò e lesse le parole scritte all’interno.

Ti voglio.
T.

Il cuore di Mia accelerò i battiti a quelle parole, e le maledette farfalle


mossero di nuovo le ali nella sua pancia. Alzò lo sguardo verso Messer
Cortese, con il sigaretto che le pendeva dalle labbra. Il non-gatto era seduto
sul letto, circondato dal suo mare di appunti. Non disse una parola.
«Dovrei essere una totale idiota per sgattaiolare di nuovo fuori dopo le
nove.»
«… specialmente proprio la sera prima della gara di solis…»
«Dovrei farmi una bella dormita.»
«… l’amore ci rende tutti idioti…»
«Non sono innamorata di lui, Messer Cortese.»
«… allora è un bene che sembri così a tutti quelli che ti circondano…»
Raccogliendo i fogli sparsi sul letto, Mia li infilò nel suo quaderno e lo
legò stretto, poi lo nascose sotto l’ultimo cassetto della scrivania.
«Mi guarderai le spalle?»
«… sempre…»
Messer Cortese scivolò sotto la sua porta per controllare che il corridoio
fosse sgombro. Mia tirò a sé le ombre e scomparve nell’oscurità. Uscì
furtiva dietro il non-gatto, procedendo a tentoni per il lungo corridoio: gli
stivali morbidi non facevano nemmeno un sussurro sulla pietra. La figura
sfocata di una Mano attraversò un passaggio più avanti e lei rimase
immobile, premuta contro il muro. Attese finché non fu fuori vista prima di
riprendere a muoversi, fermandosi infine fuori dall’uscio di Tric.
Provò la maniglia e la trovò chiusa. Si accovacciò e sbirciò dal buco
della serratura: vide Tric sul suo letto a leggere, alla luce di una lampada
arkemica. Il globo proiettava ombre lunghe sul pavimento, e lei si protese
verso di esse. Ricordò di nuovo com’era stato essere quella quattordicenne.
Il potere della notte sulla punta delle sue dita. Non aveva più paura di esso.
Di chi era. Di quello che era.
E, chiudendo gli occhi, lei

entrò

nell’ombra
ai suoi piedi

e uscì dalle ombre

dentro la stanza di Tric.

Il ragazzo sussultò quando lei apparve dall’oscurità, i capelli come


increspati da una brezza nascosta. Un coltello gli scivolò fuori dalla manica,
fermandosi nella mano quando la riconobbe. Tric guardò verso la porta
chiusa con le domande che si agitavano negli occhi.
Mia scalciò via gli stivali dai piedi.
«Mia?»
Si sfilò la camicia dalla testa.
«Shhh» sussurrò lei.
E le domande negli occhi di Tric scomparvero.

a. Mia riuscì a studiare le numerose facce che adornavano la camera della Tessitrice durante quelle
cure, e si ritrovava spesso a far visita a Marielle con poco più di un graffio da rammendare, giusto
per poter dare un’altra sbirciata alla sua collezione. Quelle maschere erano meraviglie raccolte da
tutti gli angoli della Repubblica.
Mia riconobbe le bautae, i vulti e i pulcinelli del Carnivalé itreyano, naturalmente. Le temibili
maschere da guerra delle Isole di Dweym, intagliate in legnoferro con le fattezze di orrori degli
abissi. Il viso immacolato e bianco come osso di un prete della lebbra liisiano e il cappuccio
accecante di un eunuco dall’harem di qualche Re Magus morto da molto tempo. Ma la Tessitrice
sembrava ossessionata dai volti di ogni forma e dimensione, e pareva che ne collezionasse di
stranissime per alimentare quella mania.
Tra la raccolta della Tessitrice, Mia vide meraviglie dorate con le sembianze di teste di leoni,
simili alle statue con teste feline nelle Frusciaride ashkahi e alle figure sulla lama di neracciaio di
Mouser. Spiò un cappuccio putrescente da boia, una benda incrostata con quello che sembrava
sangue secco, le maschere di morte di una dozzina di bambini, alcuni dei quali neonati. Facce di
legno e metallo. Osso e pelle essiccata. Elaborate e banali. Bellissime e orrende. La Tessitrice le
collezionava tutte.
Mia a volte si ritrovava quasi a compatire Marielle. Supponeva che dovesse essere terribile
avere potere sulla carne degli altri ma non sulla propria. Ma poi ricordava di come Marielle avesse
reso orribile la faccia di Naev. E per quanto cercasse di aggrapparsi a quella compassione, per
quanto sapesse che era importante, essa scemava lentamente.
Lasciando soltanto ceneri nella sua scia.
b. Diciott’anni erano l’età minima per un Fulgente, una tradizione che risaliva alla formazione della
legione. La dottrina di fondazione dei Luminatii era sorprendentemente dettagliata e i requisiti per
entrare a farne parte erano estremamente rigidi. Cosa interessante, i codici non proibivano che le
donne si unissero ai loro ranghi, anche se nessuna donna nella storia l’aveva mai fatto.
Non ancora.
c. Mia aveva sentito storie di armi magike, naturalmente. Si diceva che Lucius l’Onnipotente, ultimo
Re Magus di Liis, avesse una lama che cantava quando uccideva i suoi nemici. L’eroe leggendario
Maximian brandiva una spada nota come “Terminus”, che si narrava sapesse come sarebbe morto
ogni uomo sotto i soli, incluso il suo padrone. Le leggende itreyane abbondano di racconti di lame
in grado di pensare.
Naturalmente, Mia sospettava che il coltello di Pip non fosse capace di parlare più di quanto gli
asini potessero far girare le ruote di un carro. Tuttavia, ogni volta che salutava il ragazzo, si
ricordava sempre di rivolgere un saluto anche “all’Adorabile”.
Ecco la verità, gentili amici: nel dubbio, è meglio essere educati quando avete a che fare con
dei pazzi.
CAPITOLO 29
DIVISIONE

Mia si svegliò tra le sue braccia.


Dimenticò per un attimo dov’era e cosa la aspettava. Tric era ancora
addormentato, il petto che si alzava e si abbassava lentamente. Lo osservò
per un momento silenzioso, i pensieri annebbiati. Sporgendosi più vicino, lo
baciò come se fosse l’ultima volta.
Sgattaiolò fuori dalla stanza, ancora vestita con gli abiti che indossava la
notte prima. Guizzò da un’ombra all’altra. Ascoltò il coro spettrale e i suoni
della Chiesa che si risvegliava attorno a lei. Si ritrovò infine nella Sala degli
Elogi, sotto la statua di Niah, e alzò lo sguardo sul volto della Notte in
persona.
«… il ragazzo…»
Mia lanciò un’occhiata verso l’ombra ai suoi piedi. Verso i non-occhi
dentro di essa.
«Che cosa?»
«… non può accadere di nuovo, mia…»
Lei tornò a guardare la dea e annuì lentamente.
«Lo so.»
«… è una storia che non ha futuro…»
«Lo so.»
I suoi occhi vagarono per le tombe senza nome alle pareti. I sepolcri
anonimi dei caduti della Chiesa. Guardò la pietra ai suoi piedi. Migliaia di
vittime della Chiesa sotto le suole dei suoi stivali. Le sembrava ancora
strano che i servitori di Niah non dovessero avere nessun nome a indicare il
loro trapasso, mentre quelli che sottraevano a questo mondo fossero resi
immortali nel granito per l’eternità. Ripensò al Massacro del Verobuio. Alle
dozzine di morti per mano sua. La luce accecante. Remus. Duomo. Scaeva.
Sua madre.
Suo padre.
“Quando tutto è sangue, il sangue è tutto.”
Le campane del mattino cominciarono a suonare, e lei rimase lì.
I minuti si susseguirono indistinti, e lei fissava ancora.
La dea la fissò a sua volta. Muta come sempre.
«… va tutto bene…?»
Mia sospirò. Annuì lentamente.
«È tutto perfetto.»

Gli altri accoliti erano già radunati nell’Aula di Canti, riposati e nutriti.
Quattro Mani dalle vesti nere si trovavano al centro del cerchio, una con in
mano quello che sembrava un teschio umano con la calotta segata via. Lo
Shahiid Solis torreggiava accanto a loro, gli occhi ciechi rivolti all’insù.
Mia fu una degli ultimi ad arrivare, il suo ritardo superato da Ashlinn, che si
precipitò nell’aula quando mancavano solo pochi istanti. Lo Shahiid di
Canti voltò il suo sguardo pallido sulla ragazza, arricciando le labbra.
«È bello da parte tua unirti a noi, accolita» disse.
«È bello… essere qui…» ansimò Ash.
«Non per molto, temo.»
Voltandosi verso gli altri accoliti, Solis parlò.
«La Prova di Canti ha inizio. Vi spiegherò le regole solo una volta.
Ascoltate attentamente.
«La prova comincia con le eliminatorie. Ciascuno di voi combatterà
cinque incontri, contro cinque avversari casuali. Ogni incontro terminerà
con la resa o con un colpo mortale. L’Oratore Adonai e la Tessitrice
Marielle hanno cortesemente acconsentito a essere a disposizione per i
festeggiamenti.» Solis gesticolò verso le due figure in piedi accanto alle
rastrelliere per le spade. «Guariranno qualunque ferita vi metta fuori
combattimento più rapidamente che potranno. Potrete richiedere il loro
aiuto in ogni momento nel corso di un incontro, ma questo risulterà in un
abbandono. Perderete anche se lasciate – o siete costretti a lasciare – il
cerchio durante un incontro.
«Al termine delle eliminatorie, i quattro accoliti che avranno accumulato
il maggior numero di vittorie verranno ammessi alle finali. Ogni sconfitta
nelle finali comporta l’eliminazione. Chiunque vinca l’ultimo incontro si
classificherà primo in quest’aula.»
Lo sguardo vuoto di Solis vagò sugli accoliti lì radunati.
«Domande?»
«Siamo in tredici, Shahiid» disse Marcellus. «Come gestirete il numero
dispari?»
«Solo dodici di voi competeranno. L’accolito Diamo ha scelto di non
partecipare alla prova.»
Mia guardò Diamo dall’altro lato del cerchio, le braccia incrociate e un
sorriso rivolto proprio verso di lei. Ashlinn, che sembrava aver dormito
poco quanto Mia, sussurrò a suo fratello accanto a lei.
«Sono in netto vantaggio in Tasche, eppure gareggio comunque in Canti.
Diamo non è abile con le lame quanto Jessamine, ma una possibilità è
meglio di nulla, no?»
Osrik scosse il capo. «Forse se non stessi a Godsgrave tutto il tempo,
avresti un sentore di quello che succede in queste aule.»
«Denti della Mannaia, Oz, hai intenzione di sputare il rospo o vuoi farmi
giocare agli indovinelli?»
«Si vocifera che Diamo abbia risolto la formula di Ammazzaragni
stamattina.»
Mia sentì lo stomaco sussultare.
«Diamo?» sibilò Ash. «È abile nei veleni quanto un blocco di legno…»
Osrik scrollò le spalle. «Riferisco solo quello che ho sentito. Ha fatto
visita ad Ammazzaragni prima del primopasto. Aveva in mano un quaderno
di appunti. La Shahiid ha sigillato l’aula, ma Diamo ne è uscito poco dopo,
con un sorriso da un orecchio all’altro. È andato dritto da Solis e si è ritirato
dalla sua competizione.»
Ash guardò Mia.
«Potevano essere gli appunti di Lotti?»
Mia scosse il capo. «Non penso che Carlotta abbia mai risolto l’enigma.»
«Allora dove hai nascosto i tuoi appunti, Corvere?»
Mia deglutì. Guardò verso Tric. Poi verso Ammazzaragni, seduta
accanto alla Reverenda madre. Le due erano immerse in una conversazione
e lanciavano ogni tanto uno sguardo a Diamo. E a Mia.
«… Nella mia stanza» disse lei.
«Oh, allora sì che erano al sicuro.»
Tric scoccò un’occhiata a Mia. «A meno che tu non abbia lasciato la tua
camera la notte scorsa…»
Ashlinn spostò lo sguardo tra i due. «Oh, dimmi che non l’hai fatto…»
Mia rimase in silenzio, osservando Diamo. Notò con la coda dell’occhio
Jessamine che sorrideva come per dire fottiti. Il bagliore in quel verde
vipera. Lo sguardo scintillante di Ammazzaragni.
«Denti della Mannaia, Corvere» sussurrò Ash. «Hai lasciato incustoditi i
tuoi appunti per andarti a fare una scopata? Il piccolo Trucco non può essere
così bravo…»
Tric parve ferito e aprì la bocca per…
«’Bisso e sangue, prestate attenzione» bisbigliò Osrik. «Stanno per
cominciare.»
Ash si voltò verso Solis e i suoi assistenti, sigillando le labbra. La Mano
che reggeva il teschio umano lo porse a una seconda, in piedi accanto a lei.
Una pietra nera e liscia con un nome inciso sopra era stata estratta dal
teschio vuoto, di fronte agli accoliti riuniti.
«Marcellus Domitian.»
L’attraente ragazzo itreyano alzò lo sguardo quando udì menzionare il
suo nome. «Sì.»
«Vieni avanti, accolito» ordinò Solis.
Marco – come veniva chiamato dai compagni – annuì e andò a mettersi
al centro del cerchio. Il ragazzo inclinò la testa fino a far scrocchiare il
collo, allungò le braccia e si toccò le punte dei piedi. La Mano prese
un’altra pietra, la tirò fuori e lesse il nome.
«Mia Corvere.»
Mia vide Marcellus sorridere tra sé, Diamo e Jessamine scambiarsi un
ghigno tronfio. Marco era un abile spadaccino e aveva ottime possibilità di
piazzarsi tra i primi quattro. Il ragazzo aveva stracciato per bene Mia in
ogni esercitazione in cui avevano combattuto, e tutti nell’aula lo sapevano.
Mia girò attorno al bordo del cerchio. Solis sollevò lentamente un
sopracciglio.
«Accolita?»
Mia prese un respiro profondo ed entrò nel cerchio, silenziosa come un
gatto. Il suo passo era calmo. Il respiro regolare. Prese posto al centro del
cerchio, con Solis tra lei e il suo avversario. Gli accoliti si fissarono e
Marco increspò le labbra.
«Non temere, Mea Domina» disse. «Ci andrò piano con te.»
Mia gli scoccò un’occhiata fulminante. Marco sogghignò. Una delle
Mani tenne un prete d’argento sul palmo aperto e mostrò entrambe le facce
della moneta per assicurare che non ci fosse alcun imbroglio. Su un lato,
c’era la trinità dei tre soli intrecciati. Sull’altro, un’immagine sbalzata della
Casa del Senato a Godsgrave, con le Costole che si innalzavano in cielo
dietro di essa.
«Accolita Mia, cosa scegli?»
«Trinità.»
La Mano lanciò la moneta. Con un movimento fulmineo, il braccio di
Solis guizzò e la ghermì in volo. Lo sguardo cieco dello Shahiid perforò gli
occhi di Mia.
«Sono certo che non hai dimenticato la tua prima lezione per mano mia,
accolita» disse. «Ma voglio ricordarti ancora una volta che questa è l’Aula
di Canti, non delle ombre. Se sospetterò che tu stia combattendo con
qualcosa di diverso dalle lame durante questi incontri, non sarà solo il
braccio quello che rimuoverò dal tuo corpo. Sono stato chiaro?»
Mia alzò lo sguardo in quegli occhi vuoti. La sua voce fu un sussurro.
«Chiarissimo, Shahiid.»
L’uomo lasciò cadere la moneta dalla sua mano. Scintillò alla luce dei
vetri colorati mentre precipitava e tintinnò quando colpì la pietra.
«Senato» riferì la Mano.
«Scegli le tue armi, accolita Mia» disse Solis.
Mia si diresse alle rastrelliere, camminando lungo file e file di acciaio
affilato. Lanciando un’occhiata a Jessamine, scelse un fioretto e uno stiletto.
La rossa la sbeffeggiò. Tric sembrava decisamente preoccupato quando un
mormorio si diffuse attorno al cerchio. Mia non aveva mai dato grande
prova di abilità con il tradizionale stile a doppia arma di Caravaggio o
Delphini. Nelle lezioni di Solis, era stata regolarmente rimproverata perché
il suo braccio era troppo debole, e non se l’era cavata molto meglio quando
Tric aveva provato a insegnarle le sottigliezze di quello stile. Riusciva
praticamente a vedere la domanda negli occhi del ragazzo.
“A che gioco stai giocando?”
Malgrado tutti i suoi dubbi, Tric chiuse una mano a pugno e le rivolse un
cenno di assenso per darle fiducia. Ma dietro di lui, nascosta nelle ombre tra
le altre Mani, Mia vide Naev. La Mano era avvolta nel suo mantello, le
ciocche biondo ramato che le incorniciavano il volto nascosto. E fu alla
donna, non al ragazzo, che lei annuì a sua volta.
Marcellus optò per una pesante spada lunga e un brocchiere per
controbattere alle scelte di Mia, facendo affidamento sulla sua forza
superiore per vincere rapidamente l’incontro. Mia osservò il ragazzo
attraverso la frangia mentre assumevano le loro posizioni. Ogni traccia di
un sorriso sul volto grazioso di Marco era scomparsa. Tutti sapevano cosa
c’era in ballo, qui. Il primo posto nell’aula. Solo a un passo dal diventare
una Lama a pieno titolo. Marcellus annuì a Mia, freddo e fiducioso. Come
chiunque altro nell’aula, sapeva che sarebbe stata una batosta.
Risuonò un gong nell’oscurità. Marco venne avanti, vibrando colpi ampi
e brutali nell’aria, aspettandosi che Mia indietreggiasse e schivasse. Non
immaginava che la ragazza avesse altri piani. Piani formulati con Naev
nelle ore che precedevano ogni primopasto. Le loro lame fischiavano al
buio mentre si esercitavano, avanti e indietro. I dolori e le fitte. Le
settimane e i mesi passati a simulare debolezza alle lezioni di Solis,
lasciandosi tagliare, pugnalare, umiliare di continuo da Jessamine, Diamo,
Pip, Petrus, tutti quanti. L’aveva fatto per creare l’illusione di debolezza.
Una vipera che si spacciava per un opossum. Un cane delle croste che
sanguinava nella polvere.
Era proprio come aveva detto Mercurio.
“A volte la debolezza è un’arma.
“Se sei abbastanza intelligente da usarla.”
Mia intercettò il terzo affondo di Marco con il suo stiletto, deviandolo
con una torsione e facendo perdere l’equilibrio al ragazzo. Marcellus
sollevò il brocchiere per parare, pronto a respingere il contrattacco di Mia
come aveva fatto cento volte in scontri precedenti. Ma con una velocità
sviluppata in quelle ore innumerevoli con Naev, con una forza che aveva
mantenuto nascosta nel corso di infinite sconfitte sotto gli occhi spietati di
Solis, lei fece saettare per l’aria il fioretto, aprendo uno squarcio profondo
sulla spalla di Marco.
Il ragazzo barcollò, confuso e sbilanciato. Mia indietreggiò, saltellando
sulle punte dei piedi e fendendo l’aria con la lama insanguinata.
«Hai ancora intenzione di andarci piano con me, Marco?» sorrise lei.
Il ragazzo la guardò accigliato e lanciò un secondo attacco: i suoi colpi
falciarono l’aria sopra la testa di Mia quando lei si abbassò per evitarli. La
ragazza svaniva, ruotava, si muoveva come una ballerina, e lo scontro
terminò con un altro taglio profondo, stavolta sul braccio di Marco che
reggeva la spada. Sangue schizzò sulla pietra. E mentre Marcellus si
rendeva finalmente conto di quanto fosse profondo l’abisso in cui stava
nuotando, Mia si lanciò in avanti, colpo, colpo, finta, colpo, sbattendogli via
di mano la spada lunga e posando la lama sul cuore martellante di Marco.
«Arrenditi» gli ordinò.
Il ragazzo la guardò in faccia. Poi spostò gli occhi sulla sua lama. Il petto
ansimante. La pelle madida di sudore.
«… Mi arrendo» disse infine.
«Punto!» urlò Solis, mentre qualcuno suonava il gong.
Mia si abbassò in una riverenza sollevando i lembi di una gonna
immaginaria, poi tornò al proprio posto nel circolo.
Gli altri accoliti mormorarono tra loro, stupefatti.
Il velo di Naev nascondeva il suo sorriso.
Jessamine non sorrideva affatto.

Gli incontri proseguirono per tutta la mattina, sudore e sangue che


scintillavano sulla pietra. Anche se Pip si ritrovò a essere quasi sbudellato
da Osrik e Jessamine tagliò la gola di Marco da un orecchio all’altro con un
colpo fulmineo, l’Oratore Adonai e la Tessitrice Marielle intervennero
tempestivamente per guarire qualunque ferita grave. Nessun accolito perse
più di qualche goccia di sangue nel cerchio.
Contrariamente alle aspettative e sotto il malcelato cipiglio di Solis, Mia
vinse tre su quattro dei suoi incontri rimanenti. La verità era che, grazie a
Mercurio, non era mai stata una dilettante con una lama, ma le lezioni
segrete di Naev avevano affinato le sue capacità, e l’idea che tutti quanti
nell’aula si aspettassero che fallisse non faceva altro che spingerla con
maggior forza a far finire le facce di tutti loro nella polvere. Stracciò
Ashlinn nel loro incontro (essendo in testa nella gara di Mouser, Ash non
sembrava preoccuparsene troppo, anche se dopo le fece il gesto delle
nocche) e diede una bella lezione a Petrus, disarmandolo con una risposta
perfetta e conficcando lo stiletto nel petto del ragazzo.
Terminati gli incontri preliminari, i primi quattro accoliti rimasero al
bordo del cerchio, mentre gli altri si sedettero sulle panche tutt’attorno. Sia
Jessamine sia Osrik erano imbattuti, piazzatisi rispettivamente prima e
secondo. Tric era arrivato terzo, perdendo solo contro Jess. E al quarto
posto, malgrado i nuvoloni neri che si stavano addensando visibilmente
sopra la testa dello Shahiid di Canti, c’era la nostra Mia Corvere.
«Ora verranno combattute le finali» annunciò Solis. «Scegliete gli
incontri.»
Le Mani al fianco di Solis si inchinarono. Una porse il teschio umano e
la seconda pescò una delle quattro pietre con i nomi che conteneva. Mia
osservò attentamente, gli occhi stretti. Percepì le ombre annidate all’interno
di quella calotta scavata. La liscia pietra nera su cui era intagliato il nome di
ciascun contendente. Le sue dita si contrassero dietro la schiena.
«L’accolito Osrik…» una seconda pietra «… affronterà l’accolito Tric.»
Mia guardò dall’altro lato del cerchio, incontrando il sorriso freddo di
Jessamine.
«L’accolita Mia affronterà l’accolita Jessamine.»
Solis annuì e si voltò verso i due ragazzi.
«Accoliti, prendete i vostri posti.»
Mia lanciò un’occhiata a Tric e gli rivolse un sorriso. L’imbattuto Osrik
entrò nell’anello, le braccia muscolose lustre di sudore. I ragazzi si
fronteggiarono all’interno del cerchio e Tric si legò di nuovo le salciocche
mentre Oz sceglieva la faccia della moneta e vinceva.
Tric optò per scimitarra e brocchiere, i suoi preferiti, Osrik per spade
corte gemelle. Il gong risuonò nel buio e il loro acciaio cozzò, i due che
sbattevano l’uno contro l’altro come ombre e scogli su una spiaggia battuta
dalla tempesta. Mia osservò in silenzio, mordendosi il labbro. Pregando.
A quanto pareva, la dea era in ascolto.
Dopo una contesa lunga e sanguinosa, con Mia e gli altri accoliti che
guardavano meravigliati, Tric riuscì nell’impossibile. Osrik combatté
valorosamente, le sue forme quasi perfette, ma forse in definitiva Tric aveva
semplicemente di più da vincere, e molto di più da perdere. L’incontro
terminò con la pancia di Osrik aperta dall’inguine alle costole, e la puzza di
intestini e sangue aleggiò densa nell’aria tra il canto di Adonai. Solis urlò:
«Punto!» tra gli applausi degli altri Shahiid e accoliti, con Mia che batteva
le mani più forte di tutti.
Adonai e Marielle si misero all’opera per guarire le ferite di Osrik. Tric
si ritirò sulle panche, madido e ansimante. Ma quando incontrò gli occhi di
Mia, sorrise.
«Accolita Mia» chiamò Solis. «Accolita Jessamine. Prendete posto.»
Mia si guardò attorno per la sala. Notò Diamo seduto sulle panche con
gli altri accoliti. Le rivolse il suo sorriso, sbilenco e tronfio.
«Sono affamata, Shahiid» disse Mia. «Che ora è?»
«Quasi mediacampana» rispose Solis. «Ma mangeremo solo dopo aver
concluso questi scontri. Prendi il tuo posto nel cerchio.»
Mia si alzò lentamente, stiracchiò le braccia e si toccò le punte dei piedi.
Si sentiva i muscoli doloranti e, malgrado tutto l’esercizio che aveva fatto
per rafforzarlo, il braccio le faceva male. Si passò le dita tra i capelli e
aggiustò la treccia mente Jessamine camminava avanti e indietro. Gli occhi
verdi erano fissi sulla sua avversaria. Astuzia da cacciatrice e rabbia
animalesca.
«Denti della Mannaia, datti una mossa, Corvere.»
Mia guardò Tric. Il ragazzo annuì per incoraggiarla e le fece rapidamente
l’occhiolino. Infine, con le ombre che fremevano attorno a lei, Mia andò a
mettersi al suo posto.
Solis si voltò verso la Mano accanto a lui, l’espressione arcigna.
«Accolita Jessamine, cosa scegli?»
«Trinità.»
La moneta guizzò in aria, roteando da una faccia all’altra.
«Senato» dichiarò la Mano.
«Accolita Jessamine» disse Solis. «Scegli le tue armi.»
La rossa si diresse alle rastrelliere. Lanciò un’occhiata alle sue spalle
verso Mia, ancora con il solito sogghigno in faccia. Vagò su e giù per le
lame come se fosse incerta, portandosi un dito alle labbra come una
fanciulla al mercato in cerca di un vestito nuovo. Ma alla fine scelse quello
che Mia aveva sempre saputo: la combinazione di fioretto e stiletto preferita
da tutti quelli che usavano lo stile Caravaggio. Quelle armi erano appuntite
come aghi e, quando Jessamine le fece roteare in aria, fischiarono un
motivo vivace. La ragazza rientrò nel cerchio e inclinò la testa verso Mia.
«Un peccato che non ci siano balestre sulla rastrelliera, eh? Avresti
potuto avere una possibilità con quaranta iarde di distanza e un quadrello
robusto, ragazzina.»
Mia ignorò quel sorrisetto esasperante e si diresse alle armi. Prese due
gladi dalle rastrelliere e tagliò l’aria con qualche fendente di prova. Il gladio
era più corto ma più pesante di un fioretto. Quasi altrettanto veloce, e
costruito per poter reggere di più. Un colpo robusto poteva mandare
facilmente in frantumi un fioretto, e Naev aveva mostrato a Mia che un paio
di essi branditi con abilità potevano costruire un muro di lame che per un
combattente con lo stile Caravaggio sarebbe stato difficile oltrepassare. La
domanda era se Mia avrebbe avuto qualche possibilità di colpire Jessamine
a sua volta…
Jessamine lanciò un’occhiata a Diamo sulle panche. Lui la stava
osservando attentamente, ancora sorridendo, gli occhi sgranati e luminosi.
Si asciugò il labbro superiore, umido di sudore.
Poi lanciò un bacio a Mia.
«Smettila di cincischiare, Corvere» sospirò Jessamine. «Facciamola
finita.»
«Sì» annuì Mia. «Mi sembra ora.»
Lo Shahiid Solis e i suoi assistenti indietreggiarono dall’anello,
lasciando sole le ragazze. La luce senza fonte scintillava dall’alto,
stagliando il cerchio in una luminescenza soffusa. Mia guardò in direzione
della Tessitrice Marielle, quelle labbra orrende increspate in un sorriso.
L’Oratore Adonai era appoggiato contro la parete accanto a lei, impegnato a
esaminarsi le unghie. Mia notò che la Reverenda madre, Aalea, Mouser e
Ammazzaragni si erano radunati tutti a osservare gli incontri finali, seduti
assieme su panche di pietra tra gli accoliti. Nell’aria sembrava danzare una
corrente arkemica. La pelle di Mia formicolò mentre la sua ombra
sussurrava.
«… non temere…»
Ashlinn portò le mani attorno alla bocca e urlò dalla panca: «Prendila a
calci in quel culo secco, Corvere!».
«Basta!» tuonò Solis.
Mia prese un respiro.
Jessamine assunse la sua posizione.
Il gong risuonò nel buio.
La rossa fece un affondo, muovendosi rapida sulla pietra, puntando alla
gola di Mia. La ragazza indietreggiò, deviando quella gragnola veloce con
la mano secondaria, ma la sua risposta sibilò accanto alla mascella di
Jessamine. Le lame cantarono, il chiarore pallido scintillava sull’acciaio
lucidato. Entrambe le contendenti sulle prime furono caute; Mia con
deferenza per l’abilità di Jessamine, Jessamine per rispetto dell’acciaio in
mano a Mia. Ma presto la rossa acquistò più fiducia e costrinse Mia a
indietreggiare fino al bordo del cerchio con un impressionante movimento
dei piedi, i suoi colpi che piovevano come grandine.
Colpo, finta, affondo era la sua strofa. Parata, risposta il ritornello. Le
ragazze danzavano attorno all’anello a quel canto, il sudore che bruciava
negli occhi stretti a fessura. Mia era quasi completamente sulla difensiva,
schivando avanti e indietro ai margini del cerchio. Ma dopo tre o quattro
minuti, i suoi gladi stavano diventando pesanti. Anche se riuscì a portare
qualche colpo encomiabile, Mia stava già ansimando. La sua mancanza di
sonno stava cominciando a farsi notare. E la mancanza del primopasto nello
stomaco non aiutava affatto. Lo sapeva come chiunque altro nell’aula: lo
sbarramento costante di Jessamine con quelle armi più leggere e veloci alla
lunga avrebbe decretato la sua fine.
Mia fu troppo lenta nel difendersi e Jessamine stillò sangue una volta,
poi due. Una sottile linea rossa si aprì sull’avambraccio sinistro di Mia e un
buco profondo le scavava la spalla. Il suo respiro era più rapido, e aveva
saliva sulle labbra. Il sangue rendeva insidiosa la sua stretta. Le bruciavano
i polmoni. Jessamine si limitò a sorridere, mantenendo il suo ritmo di finta
colpo, colpo finta. Ora teneva Mia occupata. Stava facendo scorrere la
clessidra piano piano. Non aveva senso rischiare un duro colpo da quei
gladi quando la perdita di sangue e la fatica potevano fare il lavoro per lei.
«Hai paura di me, Jess?» Mia si lanciò in un affondo per provare a
metterla alle strette.
«Sono terrorizzata» disse la rossa, scivolando via e aprendo un altro
buco nel braccio di Mia. «Non vedi come tremo?»
Le due si girarono attorno, le armi sollevate. La frangia umida pendeva
davanti agli occhi di Mia.
Le dita erano appiccicose sull’elsa.
Ansimava.
«Allora Diamo ha trovato l’antidoto, eh?»
Jessamine sorrise, rossa e maligna. «Così ho sentito.»
«Quell’idiota non riconoscerebbe la venomologia nemmeno se gli
danzasse sulle palle con tacchi liisiani.»
«La Shahiid Ammazzaragni non sembra essere d’accordo.»
Finta, parata, affondo.
Mia si asciugò il sangue dalla fronte con la manica. «E immagino che,
quando tornerò nella mia stanza stasera, tutto sarà esattamente dove l’ho
lasciato?»
«Tu parti dal presupposto che riuscirai a tornare nella tua camera,
ragazzina.»
Jessamine fece un passo in avanti, mirando a faccia, petto, pancia. Mia
barcollò e reagì con una risposta avventata per costringere la rossa ad
arretrare. Jessamine indietreggiò, mulinando le lame, i suoi movimenti
rapidi e sicuri. Sorrideva ancora.
«Quei vecchi, grossi coltellacci stanno diventando pesanti?» domandò.
«Credi che il tempo sia dalla tua parte, eh?»
Jessamine si limitò a sogghignare in risposta. Ma il sorriso di Mia si
allargò quando le campane del mediopasto cominciarono a suonare e una
canzone di ottone ed echi riempì la sala.
«E che ne pensi di Diamo?» chiese Mia. «Credi che il tempo sia anche
dalla sua, di parte?»
Jessamine scoccò un’occhiata al ragazzo, che ora si stava asciugando il
sudore dalla fronte.
«Di cosa ’bisso stai parlando, Corvere?»
Il sorriso di Mia si allargò da un orecchio all’altro. «Mi domandavo se
uno di voi sarebbe stato tanto idiota. Credevo davvero di aver esagerato, ieri
al primopasto. Ma non siete mai state le lame più affilate del mucchio. Il
messaggio che hai mandato da parte di Tric è stato un bel tocco, però. Non
c’è nulla come la promessa di un vigoroso ragazzo dweymeri per attirare
una ragazza fuori dalla sua camera, eh?»
Jessamine interruppe la sua danza e fissò Mia strabuzzando gli occhi.
«Tuttavia,» continuò Mia «mi domandavo se Diamo avrebbe offerto a te
gli appunti. Fortunatamente per te, sei più abile con una lama. E la
cavalleria è morta, proprio come lui.»
«Stai solo dicendo cazzate» la schernì la rossa.
Mia inclinò la testa.
«Davvero?»
«J-Jess…»
La rossa si voltò verso Diamo e il suo volto impallidì ancora di più. Il
ragazzo si era alzato in piedi, barcollando. Era madido di sudore e si teneva
la pancia. Un rivoletto di sangue gli colava dalle labbra. Sussultò, i denti
dipinti di rosso, e gemette. E mentre gli accoliti attorno a lui si
allontanavano con un sobbalzo per la repulsione, il ragazzo vomitò scarlatto
su tutto il pavimento.
«Oh, dea… Di?»
La faccia di Jessamine perse ogni colore quando il ragazzo crollò in
ginocchio. Rapidissima, Mia avanzò e sbatté via il fioretto dalle dita fiacche
di Jessamine. La ragazza cercò di montare la parvenza di una difesa, ma
Mia le schiaffò da una parte lo stiletto e poi, con un amorfo urlo di rabbia,
conficcò la sua spada in profondità nelle viscere di Jessamine.
La rossa si tenne la ferita, gli occhi sgranati. Mia strappò via il gladio in
uno schizzo di rosso e assestò un calcio selvaggio sul petto di Jessamine,
facendola slittare sulla pietra levigata. Solis urlò: «Punto!». Un gong
risuonò al buio. Ma tutt’attorno all’anello era il caos. Adonai e Marielle si
inginocchiarono accanto a Jessamine. L’Oratore cominciò il suo canto e il
sangue strisciò di nuovo nel corpo della ragazza. Le dita della Tessitrice
danzarono sull’orrenda ferita alla pancia e la carne si richiuse. Ma gli occhi
di Jessamine erano ancora fissi su Diamo.
Il ragazzo era carponi tra le panche. Stava vomitando un altro fiotto di
sangue sul pavimento. Gli accoliti indietreggiarono, temendo il contagio, tra
la puzza di vescica e intestini svuotati, ma Tric corse dal ragazzo e si
inginocchiò accanto a lui, incerto sul da farsi.
«Qualcuno prenda dell’acqua!» tuonò Tric. «Aiutateci!»
«Non farete nulla del genere» affermò Ammazzaragni.
Il silenzio calò sull’Aula di Canti, interrotto solo da lunghi e miserabili
gemiti. Ammazzaragni si alzò dal suo posto accanto alla Reverenda madre.
Le sue salciocche si agitavano mentre camminava, come un covo di
serpenti sopra la fronte. Gli occhi scuri erano fissi su Diamo, la mano del
ragazzo protesa verso di lei. Adesso era supino e stava cercando di parlare,
il sangue che gli gorgogliava denso sulle labbra.
«Shahiid, vi prego.» Jessamine gemette. «Vi prego, salvatelo.»
Ammazzaragni parve sorpresa. «Voi tutti conoscevate le regole della mia
prova. Chi tenta e fallisce, muore. Nessuna pietà. Nessuna eccezione.»
«Sono…» Diamo farfugliò ai suoi piedi, afferrando l’orlo della sua
veste. «Spia… centeee.»
«Oh, sì» annuì Ammazzaragni. «Ne sono certa.»
Il ragazzo tossì, una schiuma rosa che gli gorgogliava sulle labbra. Fu
percorso da spasmi, facendo volare schizzi di saliva insanguinata. Tric
indietreggiò quando i tremori peggiorarono. Diamo si tenne il petto e urlò,
sangue scuro che gli fiottava fuori dalla gola. Si dibatté sulla pietra umida. I
suoi occhi si riempirono di lacrime. Le dita artigliavano la pelle. E infine,
dopo minuti di lamentosa agonia, con un ultimo urlo gorgogliante, rimase
immobile.
Mia era in piedi al centro del cerchio.
Il gladio insanguinato in mano.
«Questo è per Lotti, bastardo» mormorò.
«Brutta puttana…» Jessamine si era rialzata, il sangue che si seccava su
tunica e labbra. Si teneva il punto in cui Mia l’aveva infilzata. «L’hai
ucciso…»
«Io? Come? Non è colpa mia se si è avvelenato. A meno che…» Mia
inclinò il capo. «A meno che ci fosse qualcosa di sbagliato negli appunti
che ha usato?»
Jessamine raccolse il fioretto caduto, il volto distorto in un ringhio.
«Basta!» tuonò Solis. «Accolita Jessamine, l’incontro è terminato. Giù le
armi. Punto all’accolita Mia. Riprendete i vostri posti, tutti quanti!»
Jessamine tamburellò con le dita lungo l’elsa della lama. Lanciò
un’occhiata a Solis per capire cosa pensasse. Non trovando alcuna
compassione nel suo sguardo, la ragazza gettò via la spada. Le Mani si
mossero rapidamente per rimuovere il corpo di Diamo e togliere il sangue
rimasto. L’Oratore Adonai si leccò via il sangue dalle dita e li osservò
lavorare con occhi scintillanti.
Jessamine si sedette su una panca. Il suo volto era impassibile. Mia tornò
a sedersi in cerchio, di fronte agli accoliti riuniti. Ash intercettò il suo
sguardo e annuì in segno di approvazione.
“Ottimo lavoro” fece segno in Senzalingua. “Fredda come il ghiaccio.”
Mia scrollò le spalle come se non avesse idea di cosa intendesse la
ragazza. Voltò lo sguardo su Jessamine. La rossa la stava fissando a sua
volta. Si tastò la catena dorata attorno alla gola e annuì. Era una promessa.
Mia ricambiò con un sorriso.
E soffiò un bacio a Jessamine.
Solis congedò gli accoliti per il mediopasto all’Altare del Cielo, ricordando
loro di tornare entro un’ora. La finale si sarebbe combattuta davanti a tutti
quanti lì riuniti; il vincitore avrebbe ottenuto il segno del favore di Solis.
Entro la fine del cambio sarebbe stato nominato l’accolito primo
classificato dell’Aula.
Mia e Tric sedettero l’uno di fronte all’altro al mediopasto, i piatti
carichi di cibo. Mia aggredì il suo pranzo con tutta la fame causata dall’aver
saltato l’ultimo e il primopasto, cercando di ignorare gli occhi di Tric. Il
ragazzo non sembrava affamato: piluccava il cibo e sorseggiava il vino,
fissando nel vuoto quando non stava guardando lei.
La morte di Diamo voleva dire che l’enigma di Ammazzaragni era
ancora irrisolto: Mia poteva finire prima in Verità, se avesse osato accettare
la sfida. Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi di avvelenarsi da sola se
avesse vinto la prova di Solis. E, Denti della Mannaia, dopo tutti i
maltrattamenti che lui le aveva riservato, sarebbe stata una gioia guardare
quell’altezzoso bastardo proclamarla vincitrice.
D’altro canto, Mia dubitava che Tric avesse una possibilità di
primeggiare da qualunque altra parte. Non era un maestro della
venomologia, né del furto, anche se lei ipotizzava che potesse aver
raggranellato un segreto o due da ’Grave. Tuttavia, se lei l’avesse sbattuto
fuori dalla competizione di Solis, avrebbe compromesso decisamente le sue
possibilità di essere nominato una Lama.
Poteva percepirlo osservarla tra un boccone e un altro. La fronte
increspata. Le labbra assottigliate.
Tric stava pensando le stesse cose? Si stava domandando dove stava
portando con esattezza tutto questo? Prima o poi, uno di loro doveva
perdere. Prima o poi, uno di loro sarebbe rimasto ferito. La tensione era
tanto densa da poterne sentire il sapore sulla sua lingua.
«L’hai fatto apposta?» chiese infine lui.
«… Fatto cosa?» Mia sbatté le palpebre.
Tric abbassò la voce affinché gli altri non potessero sentire. «I tuoi
appunti. Li hai lasciati lì perché Diamo li rubasse? Con dentro un falso
antidoto?»
Mia guardò in quei grandi occhi nocciola. Vide un guizzo di delicatezza.
La stessa delicatezza che lui mostrava a letto. Tenendola vicina e
accarezzandole i capelli all’indietro. Il problema era che qui non c’era posto
per tutto ciò. E malgrado tutti i suoi discorsi con Messer Cortese di tenere
stretta la propria compassione, sapeva che c’era pochissimo spazio anche
per quello.
Non per gli assassini di Lotti, comunque.
Mia appoggiò le posate. Strinse gli occhi. «E se l’avessi fatto, Dominus
Tric?»
«Quando sei venuta da me la scorsa notte… era perché volevi stare con
me o solo perché volevi essere fuori dalla tua camera?»
«Perché non può essere entrambe le cose?»
«Non mi piace essere usato, Mia.»
La ragazza lanciò un’occhiata di sottecchi agli accoliti attorno a lei.
Anche se ciascuno fingeva di essere occupato con il proprio pasto, sapeva
che stavano ascoltando. Sentiva i loro occhi. Fissavano questa sfumatura di
Mia Corvere che non avevano mai visto davvero. Bugiarda. Serpente.
Volpe.
«Ascolta, se Diamo ha rubato i miei appunti e ha trangugiato una dose di
veleno, quell’idiota si merita ciò che ha ottenuto. Qualcuno così stupido non
durerebbe un mese in una vera Cappella. Gli ho fatto una dannata grazia.»
«Una grazia?» Tric si accigliò. «È morto soffocato dal suo stesso sangue,
Mia.»
Mia lanciò un’occhiataccia lungo la panca verso Jessamine, poi guardò
di nuovo Tric.
«Come Lotti, intendi?»
Jessamine diede una botta sul tavolo e strinse nel pugno il suo coltello
per l’arrosto. Lanciò un’occhiata agli Shahiid, attenta a non attirare la loro
attenzione. Fissò Mia e parlò con voce bassa e misurata.
«Noi non abbiamo toccato Carlotta.»
«Stronzate» borbottò Ash. «Tutti qui ti hanno sentito minacciare di
ucciderla, puttana.»
«Madre Nera, l’avrei fatto se ne avessi avuto l’opportunità» sibilò
Jessamine. «Ma dopo l’avrei spiattellato, Corvere. Almeno con te. Avrei
voluto vedere lo sguardo nei tuoi occhi.» La rossa scosse il capo, le labbra
arricciate in un ghigno. «Ma avrei voluto vedere anche lo sguardo negli
occhi di Carlotta. Perciò l’avrei fatto faccia a faccia. Solo perché potesse
vedere il mio viso quando l’avessi uccisa.»
Mia fissò Jessamine, gli occhi che scintillavano come selce levigata.
«Allora sei un’idiota anche tu» disse lei.
«Mia…» la ammonì Tric.
«Cosa?» sbottò lei. «Ascolta, solo perché sono disposta a bagnare le
pellicce con te, non significa che tu possa giudicare chi sono e cosa faccio.
Questo non è un asilo. Denti della Mannaia, siamo aspiranti assassini, Tric.
Forse dovresti cominciare a comportarti come tale. A ricordare perché sei
venuto qui.» Occhieggiò la fiala d’inchiostro che portava attorno al collo,
tutto ciò che restava dell’odio di suo nonno. «A ricordare chi eri, anche se
lo specchio l’ha dimenticato.»
La mano di Tric andò alla collana, e lui sgranò gli occhi. Dolore e rabbia
in egual misura. Mia li ignorò entrambi. Spinse via il piatto.
«Ci vediamo nel cerchio.»
E, senza una parola, lei si alzò e si allontanò.

Mia guardò il ragazzo dweymeri negli occhi. Non vide nessun guizzo di
delicatezza. Nulla di prossimo a ciò che mostrava nel suo letto, tenendola
vicina e accarezzandole i capelli all’indietro. Non rimaneva nemmeno
alcuna traccia di dolore. Se l’era lasciato alle spalle all’Altare del Cielo.
No, ciò che Mia vide era rabbia.
Gli accoliti e il Culto erano radunati attorno al cerchio. Solis e le sue
Mani in attesa, con una moneta d’argento nel palmo. Mia e Tric si
fronteggiavano a una distanza di dieci piedi di granito lucidato. Le macchie
della morte di Diamo non si vedevano da nessuna parte.
«Accolita Mia, che faccia scegli?»
«Senato.»
Un tintinnio argentino risuonò quando la moneta colpì la pietra.
«È senato.»
Tric si diresse alle rastrelliere, prese una scimitarra dall’aspetto
particolarmente minaccioso e fendette l’aria. Si legò un piccolo brocchiere
all’altra mano e tornò nell’anello. Gli occhi freddi. La mascella serrata.
“È furioso. Gli ho fatto davvero male.”
Mia andò alle rastrelliere e scelse stiletto e fioretto.
“Bene.”
Il gong suonò. I due si incontrarono, acciaio contro acciaio, velocità e
agilità contro forza e ferocia. Ogni accolito ormai sapeva che Tric e Mia
condividevano il letto. Lei supponeva che ciascuno di loro si aspettasse che
uno o l’altro ci sarebbe andato piano. Che avrebbe lasciato vincere l’altro.
Quella sarebbe stata la cosa romantica da fare, giusto?
Non erano passati dieci secondi dal suono del gong, e quel pensiero
giaceva morto sul cerchio nel pavimento. Tric voleva sangue. Aveva il volto
contorto. I denti serrati. Le sue salciocche gli sferzavano attorno mentre
vibrava colpi al petto e alla testa di Mia. La ragazza era rapida, ma il grosso
Dweymeri si muoveva con passi eccellenti, costringendo Mia ai margini del
cerchio dove la sua velocità contava di meno. La sorpresa non era più dalla
sua parte: tutti sapevano che il suo braccio non era debole quanto voleva far
sembrare, né che lei era la novellina che fingeva di essere. E così Tric era
cauto, la guardia alta, mai allungandosi troppo per non lasciare aperture al
fioretto di lei.
La scimitarra del ragazzo fischiò nell’aria, facendo riecheggiare note
argentine quando i loro colpi si incrociarono. Mia gli bloccò la spada, le
lame intrecciate, poi si sporse più vicina quando Tric premette su di lei con
tutta la sua forza. Sudava. Era rosso in viso. Sogghignava.
«Sembri arrabbiato, Dominus Tric.»
«Che tu sia fottuta, Mia.»
«Più tardi, amante.»
La ragazza attaccò con il ginocchio e diversi accoliti urlarono quando
impattò contro l’inguine di Tric. Il ragazzo si piegò in due mentre Mia
scivolava di lato, ruotando all’indietro nel centro dell’anello. Tric riprese il
suo appoggio e piroettò per fronteggiarla, le salciocche che volavano. Una
mano era ancora premuta sui suoi gioielli doloranti.
«Posso darci un bacetto, se vuoi» gli gridò Mia.
Tric mugghiò dalla rabbia e caricò attraverso il cerchio. Adesso era pura
furia. La sensazione di lei tra le sue braccia dimenticata. Mia danzò
all’indietro e scalfì l’avambraccio del ragazzo. Un altro colpo gli perforò la
tunica, aprendogli uno squarcio sanguinante nella pancia. Mia sogghignò
per tutto il tempo, osservando Tric infuriarsi sempre più. Gli accoliti attorno
a loro gioivano di quello spettacolo. La Reverenda madre Drusilla
osservava con attenzione; la Tessitrice e perfino l’Oratore erano seduti sul
bordo delle loro sedie. La testa di Solis era inclinata in ascolto. La mascella
contratta. I pugni serrati.
Mia sbatté via la scimitarra di Tric con un rapido colpo di rovescio e la
mandò a roteare sul pavimento. Si abbassò quando Tric effettuò un affondo
col suo brocchiere e fece un passo di lato quando lui colpì di nuovo. Poi,
abbassandosi con una spaccata ai suoi piedi, Mia gli affondò il fioretto nella
pancia.
Gli accoliti rimasero senza fiato. Ash esultò di piacere.
Mia alzò lo sguardo negli occhi pieni di dolore di Tric.
I loro sguardi si incrociarono.
Lei sorrise.
«Koffi» gli sussurrò.
Il volto di Tric impallidì. Strinse i denti e assottigliò quel grazioso
sguardo color nocciola. Allungò la mano verso quella di Mia e l’afferrò con
forza, schiacciandole le dita contro l’elsa del fioretto. E con le nocche
sbiancate, il volto contorto e il sangue che gli colava dalla bocca, il giovane
dweymeri si tirò ancora di più sulla sua lama. Trascinò Mia su dal
pavimento finché la guardia della spada non fu premuta contro la sua pancia
sanguinante.
Poi Tric tirò indietro il brocchiere e lo sbatté contro la faccia di Mia. La
ragazza indietreggiò sbandando, il sangue che le colava dalle labbra
spaccate. Riprese l’equilibrio e attaccò, seppellendo lo stiletto nel petto di
Tric. Ma il ragazzo non sussultò, e percosse di nuovo la faccia di Mia: lei
vide le stelle quando lo scudo impattò contro la sua guancia e la testa le
ciondolò sul collo mentre l’oscurità si addensava dietro i suoi occhi. Un
colpo al petto la fece finire a terra, ad artigliare la pietra con le unghie nel
tentativo di rialzarsi. Uno stivale calò sulle sue costole. Poi un altro. E un
altro ancora. La ragazza alzò lo sguardo tra una foschia rossa mentre Tric si
faceva scivolare il fioretto fuori dalla pancia, sollevando la lama in una
stretta a due mani e preparandosi a conficcargliela nel petto.
«Mi arrendo» mormorò Mia.
Il mondo rimase immobile.
«Io mi arrendo» ripeté, accasciandosi di nuovo sulla pietra.
Il petto di Tric si stava gonfiando. La sua stretta vacillava. Gli occhi
erano fissi in quelli di Mia.
La ragazza sorrise con labbra insanguinate.
E ammiccò.
«Punto!» tuonò Solis. «L’incontro va all’accolito Tric!»
Il ragazzo rimase lì immobile per un altro momento. In
quell’affascinante sguardo nocciola ardeva ancora la rabbia. Mia si
domandò quanta parte di lui la volesse morta in quel momento. Ma alla fine
lui abbassò l’acciaio. Lo gettò da una parte e crollò in ginocchio, tossendo
sangue, la mano premuta sui nuovi buchi che lei gli aveva donato. Gli
accoliti erano in piedi esultanti, gli occhi che brillavano per la sete di
sangue.
La Tessitrice e l’Oratore entrarono nel cerchio e si misero a guarire le
ferite che Mia e Tric si erano inflitti a vicenda con il loro acciaio.
Ma cosa potevano fare per le loro parole?
Guardando negli occhi Tric, la ragazza si rese conto di non conoscere la
risposta.

Agli accoliti fu dato il resto del cambio libero. Una volta che le ferite
furono ricucite dalla Tessitrice, ma con la mandibola ancora dolorante, Mia
si ritrovò nella sua camera da letto con le mani sui fianchi.
Diamo e Jessamine avevano fatto un buon lavoro nel coprire le loro
tracce: c’erano solo pochi segni che qualcuno fosse stato lì. Ma, come
aveva sospettato, i suoi appunti erano scomparsi dal nascondiglio sotto la
scrivania, senza dubbio rubati nel primo mattino, mentre lei era nel letto di
Tric. Aveva calcolato più o meno cinque ore dal momento in cui Diamo
aveva assunto il veleno di Ammazzaragni fino al momento della sua morte.
Il suo sudore era stato il vero segnale, tuttavia il tempismo era stato quasi
perfetto.
«… ti senti compiaciuta di te stessa…?»
Messer Cortese la scrutò dalla cima dell’armadio.
«Lo sono abbastanza, sì.»
«… ora jessamine tenterà quasi sicuramente di ucciderti…»
«La parola chiave è “tenterà”.»
«… e nonostante la tua messinscena all’altare del cielo, non hai ancora
risolto l’enigma di ammazzaragni…»
«Ci sono quasi.»
«… diamo ha rubato i tuoi appunti…»
«Me ne ricordo la maggior parte. Sono vicina, Messer Cortese.»
«… la competizione di ammazzaragni termina tra sei cambi, mia…»
«Sono lieta che ci sia tu qui a dirmi queste cose.»
«… avresti dovuto semplicemente vincere la gara di solis e farla
finita…»
«Allora Tric non sarebbe diventato una Lama.»
«… meglio lui di te…?»
Mia si accasciò sul letto, gli occhi rivolti al soffitto. Non disse nulla. I
pensieri si susseguivano nella sua testa. Tutto ciò che Messer Cortese
diceva era vero. Qui c’era molto di più in ballo di lei e Tric. Scaeva.
Duomo. Remus. Tutto ciò per cui lei aveva lavorato. Solo un assassino
addestrato della Chiesa Rossa avrebbe eliminato quei bastardi: il suo
attacco dell’ultimo verobuio era una prova sufficiente. Se non fosse finita
prima dell’aula, chi sapeva se sarebbe mai diventata una Lama? Perché nel
nome delle Figlie non aveva semplicemente…
«… stai lasciando che i tuoi sentimenti per il ragazzo annebbino il tuo
giudizio…»
«Non nutro alcun sentimento per il ragazzo.»
«… ma davvero…?»
«Sì, davvero.»
«… allora perché passare mesi a esercitarti in segreto con naev solo
per…»
Qualcuno bussò alla sua porta. Mia si alzò dal letto e attraversò la stanza.
Dall’altro lato c’era Tric, le salciocche che gli pendevano attorno alla
faccia. Il cuore di Mia batté un po’ più veloce quando lo vide. Quelle
dannate farfalle erano tornate nel suo stomaco. Strinse i denti, le afferrò con
le dita e staccò loro le ali. Le uccise una a una.
«Buon cambio a te, Dominus Tric.»
«Anche a te, Figlia Pallida.»
Lei abbassò lo sguardo sulla camicia del ragazzo. Indossava una
semplice spilla sul petto: una chiave musicale intagliata da legnoferro
lucidato. Gli era stata data alla fine del torneo da Solis in persona come
prova che era arrivato primo nell’aula dello Shahiid.
«Congratulazioni» disse Mia.
Il ragazzo annuì. Si morse il labbro. «Posso entrare?»
Mia guardò su e giù per il corridoio. Non vedendo altri accoliti, si fece
da parte. Per essere insetti senza ali, pareva che quelle farfalle continuassero
a fare un fracasso tremendo.
«Vuoi qualcosa da bere?» gli chiese lei, voltandosi verso il suo
aureovino rubato.
«No. Non mi tratterrò a lungo.»
Mia udì una strana nota nella sua voce. Si voltò per fissarlo, quegli occhi
nocciola duri come la pietra. Aveva le spalle incassate, come un uomo che
si preparasse per una carica.
«Mi hai lasciato vincere» disse lui.
«No.» Mia scosse il capo. «Ho combattuto con quanta foga potevo.»
«Ma mi hai indotto a combattere con maggior impeto.»
Lei fece spallucce. «Sapevo che altrimenti non ti saresti impegnato
abbastanza.»
«Mi conosci così bene, eh?»
«So cosa provi per me.»
«Ah, davvero. E cosa provo?»
Mia abbassò lo sguardo e si passò una mano tra i capelli. Scrutò le
ombre ai suoi piedi. La verità era lì in piena vista. Alzò gli occhi in quelli di
Tric, incapace di dirlo. Sperando che lui lo sentisse comunque.
Il ragazzo scosse il capo. Il suo sguardo era duro. La voce ancora di più.
«Sapevi che effetto mi avrebbe fatto sentire quella parola. Sai cosa
significa.»
«Mi dispiace» sospirò lei. «Mi conosci abbastanza bene da sapere che
non lo intendevo davvero. Ma dovevo farti arrabbiare. Sapevo che
altrimenti mi avresti lasciato vincere. Posso finire ancora prima in Verità.
Non avevo bisogno di esserlo a Canti.»
«Non mi serve la tua fottuta pietà, Mia.»
«Denti della Mannaia, non si tratta di pietà! C’è abbastanza spazio per
tutti e due tra le Lame. Tu sei finito primo dell’aula, ed è praticamente
sicuro che diventerai una Lama. Sarai un passo più vicino a calpestare la
tomba di tuo nonno. Abbiamo promesso che ci saremmo aiutati a vicenda a
ottenere la nostra vendetta, ricordi? Io voglio quello che è meglio per te,
non lo capisci?»
«E così fai di me il tuo strumento, eh? Come una lira? Mi attorcigli le
budella e mi accechi dalla rabbia.» Tric scosse il capo. «Te l’ha insegnato
Aalea, vero? Piccola Mia Corvere. Un lupo nelle penne di un corvo. Ci hai
ingannati tutti quanti. Me, Diamo, Jessamine. Chi altro sta danzando alla
tua melodia senza nemmeno saperlo? Chi altro ucciderai per ottenere quello
che vuoi?»
«Quattro Figlie, Tric, questo non è un dannato…»
«Un dannato asilo! Lo so! Me l’hai detto mille fottute volte, Mia.»
«E quante volte devo dirtelo prima che tu lo comprenda?»
«Mai più.»
Quelle parole la colpirono come un brocchiere sulla mascella. Anche se
in seguito l’avrebbe negato a se stessa, trasalì davvero quando le udì.
«Siamo stati degli sciocchi a farlo arrivare fino a questo punto. Mi hai
sentito, Mia?» Tric indicò lei. Poi se stesso. «Tu e io? Mai. Più.»
«Tric, io…»
Lui uscì sbattendo la porta.
Mia fissò i suoi palmi vuoti. Le accuse di Tric le riecheggiavano nel
cranio.
Le tornò alla mente la faccia di Diamo. La sofferenza nei suoi occhi
mentre implorava per la propria vita. Ma se l’era meritato, giusto? Per
Lotti?
Le sue urla le rimbombavano dentro la testa, intrecciate con quelle degli
uomini che aveva massacrato sui gradini della Basilica Grande. Sparsi come
stracci laceri e zuppi nel ventre della Pietra Filosofale. Un’orchestra di urla,
e lei era il maestro scarlatto. Mani insanguinate che si agitavano nell’aria.
I passi di Tric scemarono nel corridoio.
Mia rimase lì al buio.
Le spalle curve.
Il capo chino.
Sola.
«… è per il meglio, mia…»
E mai sola.
«… è per il meglio…»
CAPITOLO 30
FAVORI

Cinque cambi prima che fosse troppo tardi per risolvere l’enigma di
Ammazzaragni.
Prima che la sua migliore possibilità per l’iniziazione si dissolvesse
come fumo.
Prima che tutto ciò per cui aveva lavorato si sbriciolasse in polvere.
Solo.
Cinque.
Cambi.
Dalla prova finale di Canti, Mia aveva dormito e mangiato a malapena.
Aveva sepolto il naso in un tomo dopo l’altro, con l’impressione che la
risposta fosse tanto vicina da poterla toccare, solo per guardarla scivolare
via come sabbia quando le chiudeva attorno le dita.
Era scoppiata una guerra di furti senza quartiere, con gli accoliti che si
affannavano per spodestare Ash dalla cima della classifica di Mouser. Il
conto dei punti ora veniva tenuto nell’Altare del Cielo invece che nell’Aula
di Tasche, affinché tutti potessero conoscere il punteggio.
Zitto era al secondo posto, ancora a ottanta punti buoni dalla vetta.
Jessamine era altri venti punti più indietro. Il primato di Ash sembrava
praticamente inattaccabile, un fatto che la ragazza ricordava platealmente a
tutti quanti durante i pasti, nel caso in cui si fossero dati delle arie. Le
camere da letto venivano violate, le tasche depredate e ogni collisione
apparentemente innocua nei corridoi risultava nel passaggio di proprietà di
quattro o cinque oggetti diversi. Il Cronista Aelius presentò un reclamo
formale presso la Reverenda madre dopo che Ashlinn gli rubò gli occhiali
dalla testa mentre stava sonnecchiando alla sua scrivania, a e l’oggetto
numero 5 della lista dello Shahiid Mouser:
Un libro dall’Ateneo (rubato, non preso in prestito, furbacchione) – 6
punti
fu rimosso dalla lista dallo Shahiid in persona per la protesta. A quanto
pareva, Pip aveva orchestrato una razzia all’Ateneo di mattina presto per
sgraffignare alcuni tomi dal carrello dei RESI e si era fatto divorare da uno
dei tarli dei libri più scorbutici. b
«E adesso tutti gli altri sono incazzati per non averne mangiato un
pezzo!» aveva urlato Aelius. «Quello che voglio sapere è chi pulirà il
dannato casino!»
Essendo terminate le lezioni ufficiali, agli accoliti era permesso
viaggiare a Godsgrave ogni volta che volevano. L’oratore Adonai era seduto
presso la pozza per inviare gli assassini in erba nella città di ponti e ossa,
mattina e illuminotte. La Shahiid Aalea teneva il riserbo su chi fosse in testa
nella sua competizione, ma con la quantità di segreti che arrivavano da
’Grave, Mia supponeva che la donna ormai ne sapesse di più dei principes
dei dannati obfuscatii. c
Da sola nella sua stanza o incurvata sopra una scrivania nell’Aula di
Verità (sempre rivolta verso la porta), Mia lavorava alla formula di
Ammazzaragni. Aveva abbandonato l’idea di tornare a ’Grave in cerca di
sussurri. La competizione di Aalea era troppo simile a un azzardo per i suoi
gusti. Meglio lavorare su qualcosa che poteva realmente vedere. Toccare.
Assaggiare.
Aveva montato una serie di equipaggiamenti in vetro; ampolle e ciotole,
cilindri e fiasche, e alambicchi con spirali interminabili. Le soluzioni
gorgogliavano, si dissolvevano o si solidificavano all’interno di quelle
strutture elaborate, e più di cento ratti neri abbandonarono le loro spoglie
terrene mentre Mia continuava la ricerca. Ammazzaragni le faceva visita
spesso, lavorando al proprio banco per esperimenti personali, ma Mia
sapeva di non dover sperare che le offrisse un indizio. Se voleva finire
prima in Verità, se lo sarebbe dovuto guadagnare. In effetti, la Shahiid non
parlava quasi per niente, tranne una volta, il cambio appena dopo la
competizione di Solis.
«Un peccato, per Diamo…»
Mia aveva alzato gli occhi dal suo lavoro. Ammazzaragni aveva
camminato lentamente fino all’ultima scultura di alambicchi di Mia,
facendo scorrere un’unghia lunga per il vetro. Le sue mani erano macchiate
di nero per le tossine. Anche le labbra erano dipinte di nero. Ma il suo
sguardo era il più nero di tutti.
«Un peccato che non abbia provato il suo antidoto prima di usarlo,
intendete?» aveva chiesto la ragazza.
«Ah, ma è proprio quello il problema, vedi» aveva detto Ammazzaragni.
«Anche se non ha annullato del tutto la mia tossina, la soluzione di Diamo
ha rallentato i suoi effetti. Perciò qualunque ratto su cui l’avesse provato la
sera prima doveva essere ancora vivo quando mi ha portato la soluzione la
mattina dopo.»
«Hmmm» aveva detto Mia, tornando al suo lavoro. «Questo è davvero
un peccato.»
La Shahiid aveva dato una pacca sulla spalla a Mia e aveva lasciato
l’aula senza aggiungere un’altra parola. Diamo era stato tumulato in una
tomba senza nome nella Sala degli Elogi quel pomeriggio. Ammazzaragni
non l’aveva più menzionato.
Le innumerevoli ore a lavorare al dilemma le rendevano più facile
evitare Tric, almeno. Mia restava concentrata sul suo compito, riservandogli
meno pensieri possibile. Mangiava a ore strane per evitarlo. E se i suoi
sogni erano visitati dal ragazzo nelle poche ore in cui dormiva realmente,
Messer Cortese li divorava prima che potessero infastidirla.
Quando mancavano due cambi al termine della competizione, Mia era
china sopra una fiasca in ebollizione nell’Aula di Verità. Erano scoccate le
nove, ma lei aveva ricevuto di nuovo la dispensa da Ammazzaragni per
restare fuori dopo il coprifuoco. Un sentore di zucchero bruciato e ratto
morto aleggiava nell’aria. Si intrecciava nei suoi capelli. Le offuscava lo
sguardo.
Mia udì le porte aprirsi.
Alzò lo sguardo aspettandosi di vedere Ammazzaragni, ma al suo posto
Mia vide brillanti occhi azzurri. Carnagione pallida e zigomi spigolosi. Un
ragazzo più grazioso che bello.
Le ampie doppie porte si chiusero silenziosamente alle sue spalle.
La mano di Mia andò allo stiletto che aveva nella manica.
«Salve, Zitto» disse.
Il ragazzo, naturalmente, non replicò. Attraversò l’aula in silenzio per
andare a mettersi di fronte a Mia. La osservò attraverso l’equipaggiamento
di vetro, le labbra premute assieme.
Teneva le mani dietro la schiena.
Mia era tesa come una molla mekana. Questa era la stanza in cui era
stata uccisa Lotti, dopotutto. Messer Cortese l’aveva avvisata che Jessamine
e Diamo potevano non essere i colpevoli. Zitto era stato colto a
vagabondare dopo le nove, ma nessuno aveva mai spiegato cosa stesse
facendo quando era stato scoperto, e ora eccolo qua, fuori dalle sue camere
dopo la nona campana, di nuovo. E nessuno aveva mai scoperto cos’era
successo a Chiamapiena…
Il silenzio del ragazzo era totale: non solo le sue labbra, ma la sua intera
persona. Non emetteva alcun suono quando camminava. Quando respirava.
Quando si muoveva, perfino il tessuto dei suoi vestiti era muto. E le sue
dannate mani erano ancora dietro la schiena.
«Non dovresti essere fuori dopo il coprifuoco» disse Mia.
Zitto si limitò a sorridere.
«… Posso aiutarti con qualcosa?»
Il ragazzo scosse lentamente il capo.
Messer Cortese prese forma dietro Zitto, osservando. Ogni muscolo del
corpo di Mia era teso. Le ombre attorno a lei si incresparono e le sue dita si
contrassero. La sua stessa ombra cominciò a piegarsi, serpeggiando per il
pavimento, più lunga e scura di quanto sarebbe dovuta essere. E Zitto tirò
fuori le mani da dietro la schiena e mostrò che erano vuote.
Mia sospirò. Lasciò andare il coltello. Zitto cominciò a parlare in
Senzalingua: le sue dita si muovevano così rapidamente che Mia aveva
difficoltà a seguirle.
aiutarti
Mia rispose con i segni a sua volta, un po’ più impacciata del ragazzo.
aiutarmi con cosa?
Il ragazzo indicò le misture gorgoglianti, le fiale, i condensatori e i
barattoli. Mia ricordò quando lo aveva visto durante la flagellazione. Quelle
gengive senza denti allo scoperto mentre urlava senza emettere un suono.
Le mani della ragazza si mossero rapide, gli occhi non lasciarono mai quelli
del giovane.
perché?
Zitto esitò a quella domanda. Un cipiglio accennato guastò quella fronte
perfetta.
ho osservato
questo non è il tuo posto
Adesso fu il turno di Mia di aggrottare le ciglia. Era confusa. Insultata.
cosa significa?
Le mani del ragazzo oscillarono e dita agili crearono parole dal silenzio.
dopo la flagellazione
tu sei stata l’unica
a chiedere se stavo bene
a nessun altro importava
Zitto scosse il capo.
questo non è il tuo posto
Mia lo guardò torvo.
e invece è il tuo?
Il ragazzo annuì.
orrendo come il resto di loro
Mia era confusa. Girò attorno alle spire di vetro gorgogliante, l’odore
dolciastro della morte. Si mise davanti al ragazzo e gli prese le mani,
sussurrando.
«Zitto, di cosa stai parlando? Tu non sei affatto orrendo.»
Il ragazzo si mise realmente a ridere a quelle parole. Le sue corde vocali
erano atrofizzate per il disuso e la risata uscì come poco più di uno squittio.
Si portò le mani alla bocca mentre sghignazzava, ma lei intravide
comunque le gengive senza denti dietro quelle labbra ad arco. Le crepe
dietro i suoi occhi.
«Cosa ti è successo?» mormorò.
Lo sguardo del ragazzo era intenso. Gli occhi erano come un cielo riarso
dai soli.
schiavizzato
«Ma non hai alcun marchio da schiavo.»
Il ragazzo scosse il capo.
ci mantengono graziosi
«… Chi?»
casa di piacere
Mia sentì freddo allo stomaco quando osservò i suoi gesti formare le
parole. Seppe immediatamente cosa intendeva il ragazzo. Da dove era
venuto. Chi l’aveva posseduto prima di tutto questo e perché gli aveva tolto
tutti i denti, fino all’ultimo.
«Oh, dea» mormorò. «Mi dispiace così tanto, Zitto.»
lo vedi?
Le labbra del ragazzo si incresparono in quello che poteva essere un
sorriso.
questo non è il tuo posto
Si guardò attorno per la stanza, verso il liquido che bolliva e i ratti morti,
marcio e ruggine nell’aria.
ma la gentilezza dovrebbe raccogliere gentilezza
perfino in un campo come questo
Il ragazzo si infilò un braccio nelle brache e per un attimo,
istintivamente, la mano di Mia vagò di nuovo alla manica. L’oscurità
attorno a loro tremolò. Ma invece di un coltello nascosto, il ragazzo tirò
fuori un quaderno rilegato in cuoio nero. Lo aprì a una pagina a caso. Mia
vide degli appunti in codice, una variante della sequenza Elberti mista a un
cifrario artigianale. Riconobbe la calligrafia. Il cifrario stesso.
«È il quaderno di Carlotta» mormorò.
Il ragazzo annuì.
«Dove l’hai preso?»
Zitto inclinò la testa.
te l’ho detto
ho osservato
Il cuore di Mia prese a battere più veloce. Sfogliò le pagine e vide che su
non poche c’erano schizzi di sangue secco. Una pagina verso il fondo era
stata strappata via completamente. Una lenta rabbia ribolliva sotto la sua
pelle, ma per istinto lei la tenne a bada. Non aveva senso infuriarsi senza
motivo. Zitto si stava offrendo di aiutarla. Poteva aver ottenuto gli appunti
di Carlotta senza averla uccisa: se n’era andato in giro di soppiatto per la
Chiesa fin dal suo arrivo. Tuttavia, spesso la risposta più semplice era anche
quella giusta…
«Zitto» sussurrò lei in tono lento e accorto. «… Hai ucciso tu Lotti?»
Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla sua ombra. Poi lo alzò nei suoi occhi.
che importa?
Mia chiuse le mani a pugno. Rosso nei suoi occhi.
«Importa perché lei era mia amica.»
Il ragazzo scosse il capo. Sembrò quasi triste.
tu hai un solo amico dentro queste mura
non carlotta
non tric o ashlinn
e non me
Zitto la fissò senza sbattere le palpebre. Mia si rese conto che non era
suo alleato. Questo non era un segno di rispetto o un simbolo di riottosa
amicizia da parte di questo stranissimo ragazzo. Un debito ripagato, tutto
qua. Gentilezza per gentilezza. Perfino in un campo come questo. E anche
se le dita di Zitto non si mossero affatto, le parole si agitavano con evidenza
nei suoi occhi.
“Prendilo o lascialo.”
Mia sollevò il libro dalle mani del ragazzo. Zitto inclinò la testa in un
inchino appena accennato, la frangia che gli cadeva sopra i tormentati occhi
azzurri. Poi girò i tacchi e si allontanò dall’aula, silenzioso come un
soliraggio. Raggiunse le doppie porte e le aprì con una spinta della mano,
ma la voce di Mia lo fece fermare di colpo.
«Zitto.»
Il ragazzo si girò. Attese.
«Perché non usi tu stesso gli appunti? Non vuoi essere primo dell’aula?»
Zitto inclinò il capo. Le rivolse un sorriso d’intesa.
E senza un sussurro se ne andò.

Ci vollero ore per decifrare il codice di Carlotta. Altre ancora per rimettere
assieme i frammenti di quella scrittura fitta, con il coro spettrale come sua
unica compagnia. La pagina mancante era un mistero, ma in definitiva non
aveva importanza. Le venne in mente che forse Zitto stava usando con lei lo
stesso stratagemma che Mia aveva usato con Diamo. Ma la verità era che
Mia era già stata abbastanza vicina alla soluzione da saggiarne il sapore:
forse le mancavano solo poche ore per risolvere l’enigma da sola. Dubitava
che Zitto sarebbe stato tanto stupido da imbrogliarla al suo stesso gioco. E
lì, tra i pensieri di Carlotta scritti in modo ordinato, trovò l’unico pezzo
mancante: la chiave finale per aprire la serratura che ancora le sfuggiva.
Ne era certa.
Mia distillò la sua soluzione in tre fiale. Ne usò due su un paio di ratti e
tenne la terza per sé. I suoi compagni pelosi stavano sonnecchiando nelle
loro gabbie due ore dopo quando Ammazzaragni aprì le porte e trovò Mia
seduta in mezzo a palazzi di vetro scintillante.
«Sei qui presto, accolita» disse lo Shahiid. «O forse è tardi?»
Come unica risposta, la ragazza tenne sollevata una fiala di vetro, piena
di un liquido torbido. Ammazzaragni attraversò l’aula tra il fruscio delle sue
vesti verde giada. Scostando le salciocche dalla spalla, lanciò un’occhiata
alla fiala che Mia aveva in mano. Labbra dipinte di nero si incurvarono in
un sorriso curioso.
«E cos’è che hai?»
«Una risposta all’impossibile.»
«Ne sei certa?»
Mia si guardò i piedi e seppe senz’ombra di dubbio che, perfino se
Messer Cortese non fosse stato con lei, in quel momento lei non avrebbe
avuto paura.
Guardò Ammazzaragni e sorrise.
«C’è un solo modo per esserne certa, Shahiid.»

L’annuncio fu fatto al primopasto. Com’era abitudine di Ammazzaragni,


non ci fu alcuna fanfara, nessun vero encomio. La Shahiid attese
semplicemente finché Culto e accoliti non furono radunati, si diresse
silenziosamente dove Mia era seduta e le appuntò una spilla sul petto. Era
un oggetto piccolo, intagliato dal legnoferro, lucidato fino a un bagliore
scuro.
Un ragnolupo.
Dei mormorii si diffusero tra gli accoliti. Ammazzaragni si sporse e
stampò un bacio nero sulla fronte di Mia.
«Le mie benedizioni» disse.
E basta.
Ash sogghignò e le porse le dita tese, che lei sfiorò con un sorriso. Mia si
rese conto che era stata una sciocca a permettere che la ragazza la toccasse
e si controllò platealmente le tasche, assicurandosi che la spilla di
Ammazzaragni fosse ancora appuntata al suo petto. Ashlinn roteò gli occhi
e rise, poi tornò al suo pasto senza una parola. Guardando lungo il tavolo,
Mia notò Jessamine fissarla con odio palese.
«Bene» disse Mouser, alzandosi dalla tavola del Culto. «Se
Ammazzaragni ha reputato che fosse il momento per elargire i suoi doni,
forse dovremmo fare lo stesso.» Lo Shahiid si voltò verso Aalea con il suo
abituale sorriso sbarazzino. «Bellezza prima dell’età. Non concordi,
Shahiid?»
Aalea obiettò con una piccola scrollata del capo. «Gli accoliti hanno
ancora un’illuminotte per depredare ’Grave. Concederò il mio favore
domani.»
«Come ti compiace» si inchinò Mouser. «Per quanto riguarda la mia
gara, confido che chi detiene il primato nell’arte di Tasche non possa essere
superato. C’è qualche obiezione da parte dei partecipanti?»
Ashlinn si appoggiò contro lo schienale della sedia e sorrise come una
regina su un trono rubato. Gli altri accoliti fissarono accigliati i loro pasti,
ma Mouser aveva detto la verità. Guardando la classifica, Ash distaccava
Zitto di novanta punti, e nessun altro era minimamente vicino. La
competizione era terminata.
«Accolita Ashlinn» iniziò Mouser. «Posso offrirti le mie congratulazioni
per quella che è stata la più audace dimostrazione di latrocinio in queste
sale sin da quando seguii il mio apprendistato a…»
La voce dello Shahiid si spense quando Zitto si alzò dal suo posto.
«Accolito?» si accigliò Mouser.
Zitto attraversò l’Altare del Cielo senza una parola. Una volta di fronte a
Mouser, il ragazzo mise una mano in tasca e, con un lieve inchino, offrì il
palmo aperto allo Shahiid. Gli accoliti si alzarono dalle loro sedie per
vedere cos’aveva in mano. Mia intravide un bagliore nero. Una catenella
d’argento.
«Denti della Mannaia» mormorò, riconoscendo l’oggetto nel palmo del
ragazzo.
«Non può essere…» sibilò Ash.
Zitto teneva in mano la chiave di ossidiana della Reverenda madre.
“Nel nome della Mannaia, come ha fatto a rubarla senza che lei si
accorgesse che era sparita?”
Mia guardò verso il tavolo del Culto. Drusilla aveva strabuzzato gli
occhi alla vista della sua chiave nel palmo di Zitto e la sua mano andò al
petto, cercando tra le pieghe delle sue vesti. Ma dopo alcuni momenti, le
sue labbra si incresparono in un sorriso.
«Caro Mouser» gli gridò. «Temo che ti stia giocando. Una volpe negli
abiti di un ragazzo, eh?»
La Reverenda madre sollevò la mano. Una chiave d’ossidiana
scintillante appesa a una catenella d’argento penzolava tra pollice e indice.
«Lo sapevo» sospirò Ash. «Non esiste modo per cui abbia potuto
sgraffignare quella cosa…»
«A-ha» sorrise Mouser, inchinandosi a Zitto. «Un bello stratagemma,
accolito. Ma qui non si danno punti agli imbonitori, temo. Il Mouser accetta
l’articolo genuino e nient’altro.»
Zitto sorrise. Mise la sua chiave nella mano di Mouser e si diresse
silenziosamente al tavolo del Culto. Le labbra di Aalea erano incurvate in
un sorriso scaltro; perfino Solis e Ammazzaragni sembravano divertiti. Il
ragazzo pallido si fermò di fronte a Madre Drusilla, protese una mano e
gesticolò con l’altra in Senzalingua.
posso?
Drusilla aggrottò lievemente la fronte, ma acconsentì e gli consegnò la
chiave. Senza tante cerimonie, Zitto la lasciò cadere ai suoi piedi e la
calpestò con lo stivale. Sollevando il tacco, il ragazzo indicò il pavimento
con un gesto teatrale, come un truffatore che giocava a indovina la tazza.
Mia vide che la chiave era stata polverizzata sotto lo stivale di Zitto.
«Figlio di puttana» mormorò Ash.
«Argilla…» sussurrò Mia.
C’era stupore sulla faccia della Madre. Su quella di Mouser. Di ogni
accolito lì riunito. Non solo il ragazzo aveva rubato la chiave che Drusilla
aveva attorno al collo, ma l’aveva sostituita con un falso talmente perfetto
che l’anziana non si era accorta di nulla.
Il silenzio aleggiava nella sala come nebbia. Voltandosi verso Ash, Zitto
si portò una mano sul petto e fece un inchino. Mia guardò in direzione della
ragazza, quasi aspettandosi che gli balzasse alla gola. Invece, Ash aveva
l’aria che qualcuno le avesse strappato gli intestini con dei ganci da
macellaio. Si afflosciò sulla sua sedia con occhi sgomenti e guardò verso
suo fratello. Osrik, che era andato in giro come un fantasma dopo la
sconfitta contro Tric, non riuscì a far altro che fissarla, sbudellato quanto
lei.
Gli altri accoliti erano sbalorditi dalla dimostrazione di Zitto. Mouser
cominciò ad applaudire, seguito dalle Shahiid Aalea e Ammazzaragni. Poi
da Solis e dalla stessa Reverenda madre. Mouser si diresse alla classifica e
aggiunse altri cento punti al conteggio del ragazzo, portandolo al primo
posto. E con uno sguardo di scuse ad Ash – così pallida che Mia temeva
potesse svenire – lo Shahiid appuntò il segno del suo favore alla camicia di
Zitto. Era una spilletta di legnoferro, con una forma dai lucidi occhi neri
arrotolata su se stessa.
Un topo.
«Primo di Tasche, accolito» disse Mouser. «Ben fatto.»
“Ecco perché non gli servivano gli appunti di Lotti. Aveva già la chiave
di Drusilla.”
Mia alzò le mani e cominciò ad applaudire a sua volta. Ma quando
guardò Ashlinn, le sue mani si fermarono. L’iniziazione tra i ranghi delle
Lame aveva significato molto per Ash quanto per Mia. Ashlinn e suo
fratello erano stati addestrati da loro padre per anni. Era stato una Lama
della Chiesa e, dopo che era stato menomato nel nome della Madre, il suo
unico desiderio era stato che i suoi figli lo sostituissero. I due ragazzi
dovevano aver subito una pressione tremenda. E quanto dovevano aver
desiderato che il sacrificio di loro padre – il suo braccio, l’occhio… dea,
perfino la sua virilità – significasse qualcosa.
E ora nessuno di loro sembrava sul punto di essere iniziato.

«Quel baciacapre, succhiamuli, fottiporci figlio di puttana» ringhiò Ash.


La ragazza stava camminando su e giù per la camera da letto di Mia
mentre lei era rannicchiata tra i cuscini. Tra le labbra aveva uno dei suoi
ultimi sigaretti. Quello che restava del suo aureovino rubato era in due
coppe intatte sul comodino.
«Come ’bisso c’è riuscito?» domandò Ash.
«È arguto» scrollò le spalle Mia. «Più di quanto chiunque gli abbia mai
riconosciuto. Mi domando se non si sia fatto beccare fuori dopo le nove di
proposito.»
«Pensi che si sia fatto flagellare apposta?»
«Forse. Affinché pensassimo che fosse solo uno zotico.»
«Be’, ha dannatamente funzionato.»
Mia sospirò una boccata di grigio. «Proprio così.»
«E ora io sono fregata.» Ash si accigliò e ricominciò a camminare su e
giù. «Mi sarei dovuta impegnare per perdere la prova di Mouser. E ora l’ho
persa, cazzo. Lord Cassius tornerà qui tra due cambi per l’iniziazione. Tu
berrai il latte della Madre al banchetto con le altre Lame e io sarò bloccata
con il resto degli scarti e sarò iniziata tra le Mani. Sempre presumendo che
non decretino il mio totale fallimento e mi donino alla Madre.»
Mia prese una boccata del suo sigaretto e strinse gli occhi per il fumo.
«Probabilmente dovresti passare l’illuminotte a lamentartene, allora.»
Ash girò attorno a Mia con uno sguardo fulminante. «La tua solidarietà è
sinceramente apprezzata, Corvere. Ti ringrazio.»
«Che si fotta la solidarietà.» Mia sorrise. «Vieni con me e avrai una
soluzione.»
Ash agitò le mani in aria. «E che soluzione? Arkemica?»
«Aalea non ha ancora concesso il suo favore, Ash.»
«E che possibilità ho di ottenerlo?»
«Se continui a scavare un buco nel mio pavimento andando avanti e
indietro, nessuna. Se vai a ’Grave e trovi qualcosa di particolarmente
succoso…»
«Un ago in un fottuto pagliaio.»
«Be’, dare la caccia agli aghi è meglio che starsene seduta qui a pregare,
giusto?»
Ash si mise in bocca la punta di una delle sue bellitrecce e la masticò
pensierosa.
«Verrò con te» si offrì Mia.
Ashlinn alzò lo sguardo a quelle parole. «Vuoi evitare Trucco, eh?»
«Questo non ha nulla a che vedere con Tric.»
«Ne sono certa.»
Mia le mostrò le nocche. Poi tracannò il suo liquore con un unico sorso.
«Su, andiamo.»
Ash fece una smorfia e scosse il capo. «Credo che farei meglio ad andare
da sola.»
«Due paia di orecchie non sono meglio di una?»
«Sì.» Ash scrollò le spalle. «E apprezzo l’offerta e tutto quanto. È solo
che… non sarebbe giusto. Se non riesco a farlo da sola, forse non merito
affatto di essere qui.»
Mia annuì. Anche se lo nascondeva dietro le battute e i sorrisi, Ash era
un tipo orgoglioso. Andava fiera delle sue capacità. Di suo padre e della sua
eredità. Mia riusciva a capire perché non volesse essere iniziata grazie a
qualcun altro. E così si alzò dal letto, cinse la sua amica con le braccia e
strinse forte.
«Che la dea sia con te. Stai attenta.»
Ash strinse Mia a sua volta, tanto forte da farla sussultare.
«Sai, la gente da queste parti ti crede una puttana spietata dopo quel tiro
che hai giocato a Diamo. Ma io so che non è così. Se qualcuno fa del male a
quelli che ami, tu non lo perdoni. Ma sotto tutto quanto, sei una persona
buona, Corvere.»
Mia baciò Ash sulla guancia e sorrise. «Non dirlo a nessuno: ho una
reputazione da difendere.»
«Dico sul serio. A volte mi domando cosa ci faccia tu in un posto come
questo, Mia.»
«… Da quando mi chiami Mia?»
«Sono seria» disse Ash. «Tu dovresti essere sicura.»
«… Di cosa?»
Ash scrutò nei suoi occhi. Ogni traccia del suo sorriso era scomparsa.
«Se vuoi davvero essere qui domani sera.»
«E dove altro dovrei essere?»
Ash sembrava sul punto di ribattere, ma il suo sguardo si indurì e si
trattenne prima di parlare. Attese un altro istante, le braccia ancora attorno
alla vita di Mia. Le labbra si socchiusero. Le pupille si dilatarono. E poi
Ash la lasciò andare e scivolò fuori dalla stanza, sparendo lungo il corridoio
in cerca dell’Oratore. Mia chiuse la porta dietro di lei e si rimise a letto.
Osservò il sigaretto spegnersi nella sua mano.
Cosa voleva dire Ash? Questo era tutto ciò per cui lei aveva lavorato.
Tutto quello che voleva. Tutti gli anni, le miglia, gli sforzi. Le cose che
aveva fatto per arrivare qui, le vite che aveva preso su questa strada
sanguinosa. Le mani tinte di rosso. Ma adesso era solo a un passo
dall’iniziazione.
Un passo più vicina alla gola di Remus.
Al cuore di Duomo.
Alla testa di Scaeva.
Allora ne sarebbe valsa la pena, vero?
“Vero?”
Una sagoma nera si addensò ai suoi piedi, sussurrando come vento
attraverso i rami in inverno.
«… domani…» disse.
Mia annuì.
«Domani.»

a. Il suo ultimo paio. Il buon Cronista aveva rotto quelli di riserva durante un incontro di lotta con
una copia di Al servizio di sua maestà, l’autobiografia di Angelica Trobbiani, cortigiana durante il
regno di Francisco VI. Tutte le copie di questa “oscenità sovversiva” erano state rintracciate e
bruciate su ordine della regina di Francisco, Aria, dopo la morte del marito. La copia nell’Ateneo
della Chiesa Rossa è l’ultima esistente.
Il libro, avendo ereditato parte del famigerato temperamento della sua autrice, è
comprensibilmente turbato per questo fatto.
b. Nessuno sa cosa ne fu dell’amato coltello del ragazzo.
c. La terza branca della burocrazia della Repubblica (la prima e la seconda sono rispettivamente i
Luminatii e gli administratii). Molto meno numerosi delle altre due organizzazioni simili, gli
obfuscatii sono gli intermediari di informazioni e i venditori di dicerie del senato. Preoccupati
principalmente delle minacce interne alla sicurezza di Itreya, l’organizzazione risale alla nascita
della Repubblica stessa. Il suo fondatore, Tiberius il vecchio, era noto per essere stato tra i
rivoltosi che rovesciarono l’ultimo re di Itreya, Francisco XV.
Secondo alcune dicerie, fu dello stesso Tiberius la mano che impugnava la lama che uccise il
povero Francisco.
CAPITOLO 31
DIVENTARE

Quella sera, Mia dormì il sonno dei morti giusti. Fu svegliata da un lieve
bussare prima del mediopasto e udì la voce bassa di una Mano dall’altro
lato della porta.
«Fatti trovare nella Sala degli Elogi tra un’ora, accolita.»
Mia si vestì lentamente e si diresse verso l’Altare del Cielo. Panche e
sedie erano deserti, la Montagna Silente più tranquilla di come se la fosse
mai ricordata. Il pensiero dell’iniziazione riempiva la sua mente. Era finita
prima in Verità, ma la Reverenda madre aveva lasciato intendere che la
attendevano altre prove. Non aveva alcun indizio su cosa avrebbe potuto
affrontare nella Sala degli Elogi, o quali ostacoli finali avrebbe dovuto
superare.
Si fermò presso l’Ateneo mentre si dirigeva alla sala. Il Cronista Aelius
stava oziando sulla soglia come sempre, scartabellando il carrello dei RESI .
Senza dire una parola, si tolse l’onnipresente sigaretto di riserva da dietro
l’orecchio e lo offrì a Mia. I due si appoggiarono contro la parete a
osservare il mare di scaffali lì sotto. Quante vite avrebbe potuto passare
laggiù se fosse stata libera di farlo? Con quanta facilità si sarebbe potuta
perdere in quelle pagine infinite e lasciarsi alle spalle questa strada di
ombre e sangue?
«Presto sarai iniziata, eh?» chiese Aelius.
Mia annuì e soffiò un perfetto anello di fumo grigio all’aroma di fragola.
«Be’…» Aelius scrollò le spalle. «Tutte le cose belle…»
Mia si leccò il sapore dolce dalle labbra. «Non hai mai trovato il libro
che avevo chiesto?»
Il Cronista scosse il capo. «Però ieri ho scoperto una nuova ala là fuori.
Migliaia di libri. Milioni di parole. Forse c’è qualcosa sui tenebris.»
Mia fece spaziare lo sguardo sulle parole lì sotto. Sospirò.
«Che posto bellissimo. Parte di me vorrebbe poter restare qui per
sempre.»
«Attenta a ciò che desideri, ragazzina.»
«Lo so» disse Mia. «L’erba è sempre più verde. Comunque ti invidio,
Aelius.»
«I vivi non invidiano i morti.»
Mia guardò il vecchio. Un lento cipiglio si formò sulla sua fronte quando
si rese conto che non lo aveva mai visto lasciare l’Ateneo. Non l’aveva mai
visto consumare un pasto all’Altare del Cielo o attraversare nemmeno una
volta questa soglia ed entrare nella Chiesa vera e propria. La ragazza fissò il
suo sigaretto. Il simbolo del sigaraio che non aveva mai visto prima.
“Non ne fanno più così.”
La biblioteca della Nostra Signora dell’omicidio benedetto.
“Una biblioteca dei morti.”
«Tu…»
«La Madre tiene solo ciò che le serve» disse il vecchio.
Mia si limitò a fissarlo con un senso di gelo nella pancia. Orrore e
tristezza nel suo cuore.
«Ricordi cos’ho detto quel cambio in cui avete incontrato il tarlo dei
libri?» chiese Aelius.
«Hai detto che forse questo non era il mio posto.»
Aelius prese una lunga boccata dal sigaretto. Soffiò una serie di anelli di
fumo che si inseguirono tra loro nel buio silenzioso. «Darò un’occhiata in
quella nuova ala. Se troverò qualcosa sui tenebris, lo farò lasciare nelle tue
camere. O da qualche altra parte. Se è dove vuoi essere.»
Mia si accigliò attraverso una nube di grigio mutevole.
«Buona fortuna nella Sala degli Elogi, ragazzina» disse Aelius. «Sono
certo che andrà tutto bene.»
«… I miei ringraziamenti, Cronista.»
Aelius spense la sua paglia contro il muro e si mise in tasca i resti.
«Sarà meglio che vada. Troppi libri.»
«Troppo pochi secoli.»
Allora lui la guardò. C’era qualcosa di vuoto e orribile in quello sguardo
azzurro latteo. Ma con una scrollata di spalle, l’uomo zoppicò giù per le
scale, tra gli scaffali interminabili.
L’oscurità lo inghiottì.
Tre accoliti erano all’ombra della dea.
La Madre della Notte torreggiava sopra di loro, fissandoli con occhi di
pietra.
Tric e Zitto erano già lì in attesa quando Mia arrivò, con diverse Mani
che aleggiavano ai margini della luce dei vetri colorati. Mentre il coro
spettrale cantava nel buio, una figura in una lunga veste scortò Mia sul
podio. Lanciando un’occhiata di lato, lei scorse dei riccioli biondo ramato.
«Amica Naev» sussurrò Mia.
La donna le strinse la mano. «Buona fortuna. Forza.»
Mia prese il suo posto accanto a Tric. Notò che il ragazzo la stava
ignorando di proposito. Udì la voce di un’ombra che le riecheggiava nella
testa.
«… è per il meglio, mia…»
Tre accoliti radunati. I vincitori in Verità, Canti e Tasche. Mia si
domandò chi avesse vinto infine nell’aula di Aalea e quale genere di segreto
dovesse aver carpito per ottenere il favore della Shahiid. Udì passi morbidi
dietro di lei. Si ritrovò a pregare di non girarsi e vedere Jessamine.
Prendendo un respiro profondo, Mia si guardò alle spalle. E lì, in piedi al
margine della luce, vide Ashlinn. I capelli erano acconciati in bellitrecce
nuove, gli occhi scintillavano al buio. Una spilletta di legnoferro era
appuntata alla sua camicia. Una maschera da Arlecchino sorridente.
«Spiacente di aver fatto tardi» sogghignò la ragazza.
Ammiccando a Mia, Ash salì sul podio e prese posto al fianco di Zitto.
Mia era sbalordita. Che razza di segreto aveva ripescato la ragazza? Cosa
doveva…
«Accoliti.»
Mia si mise dritta, gli occhi davanti a sé. Le doppie porte per
l’anticamera si erano aperte senza emettere un suono. Una Mano avvolta in
lunghe vesti nere attendeva sulla soglia, una pergamena spiegata davanti a
lei. Al suo fianco c’era la Reverenda madre Drusilla.
«Le mie congratulazioni a voi tutti» disse l’anziana. «Ciascuno di voi ha
dimostrato maestria in una delle quattro aule di questa Chiesa e competenza
considerevole in altri ambiti di studio. Di tutti gli accoliti del gregge di
quest’anno, siete i più vicini a essere iniziati come Lame. Ma prima che
lord Cassius possa introdurvi appieno ai segreti di questa cerchia, resta una
prova finale.»
L’anziana si voltò, scomparendo tra le doppie porte in un turbinio di
stoffa nera. La Mano che portava la pergamena venne avanti, consultando il
foglio.
«Accolito Tric?»
Tric prese un respiro profondo e venne avanti. «Sì.»
«Cammina con me.»
Mia osservò il ragazzo avanzare, con Naev al suo fianco. Si domandò
cosa lo attendesse. Cercò di mettere da parte il ricordo del loro ultimo
commiato. Il senso di colpa per averlo ferito, la rabbia negli occhi del
ragazzo… Se c’era la morte dietro quella porta, Mia voleva che le cose tra
loro fossero a posto. Ma lui era già andato, varcando la soglia senza
nemmeno guardarsi indietro, e le porte si erano chiuse silenziosamente alle
sue spalle. Mia poteva avvertire Messer Cortese nella sua ombra, che
gravitava verso la paura crescente attorno a lei. Lanciò un’occhiata a Zitto.
Poi ad Ashlinn. Si domandò se il padre della ragazza le avesse detto cosa
aspettarsi oltre quelle porte.
Il terzetto attese in silenzio all’ombra della statua. Passarono i minuti.
Lunghi come anni. Quel perpetuo coro spettrale era l’unico suono. Infine le
porte si aprirono, e ne uscì Tric. Aveva la mascella serrata. Era lievemente
pallido. Apparentemente illeso. Trovò gli occhi di Mia e lei vide
un’espressione tormentata attraversargli il volto. Per un attimo, pensò che
stesse per parlare. Ma senza dire nulla agli altri, Tric fu scortato su per le
scale a chiocciola e scomparve.
Ash aveva lo sguardo dritto davanti a sé. Parlò in un sussurro, le labbra
quasi immobili.
«Sii sicura, Corvere.»
«Accolita Mia.»
La Mano presso le doppie porte la stava guardando con trepidazione.
Messer Cortese fece le fusa nella sua ombra. Mia venne avanti, le mani
strette a pugno.
«Sì.»
«Cammina con me.»
Mia scese dal podio. Naev fu di nuovo al suo fianco, accompagnandola
come aveva fatto con Tric. Quando raggiunsero la soglia, la donna le toccò
la mano e annuì.
«Tienilo con te, Mia Corvere. Tienilo stretto.»
Mia incontrò gli occhi della donna, ma non ci fu possibilità di chiederle
cosa intendesse. La ragazza si voltò e seguì la Mano per un lungo passaggio
di pietra scura. L’unico suono era quello dei loro passi delicati, il coro muto
quando le doppie porte si chiusero dietro di loro. Più avanti li attendeva una
grande stanza a cupola, adornata su tutti i lati da ampie finestre ad arco di
vetro colorato. Motivi astratti erano raffigurati sui pannelli, spirali rosso
sangue, che ruotavano e si contorcevano, dodici dita di luce che si
sovrapponevano sul pavimento.
In piedi al centro della luce, Mia vide la Reverenda madre Drusilla. Le
sue mani erano ripiegate all’interno della veste e sul volto aveva quel
paziente sorriso materno. La chiave di ossidiana attorno al suo collo
scintillava al movimento indolente del petto. Mia si avvicinò con cautela,
scrutando tra le ombre, lieta per i non-occhi che aveva dietro la testa.
Non poté fare a meno di notare che il pavimento di fronte a Drusilla era
umido.
Era stato ripulito da poco.
«Salute, accolita.»
Mia deglutì. «Reverenda madre.»
«Questa è la tua ultima prova prima dell’iniziazione. Sei pronta?»
«Suppongo che dipenda da cosa si tratta.»
«Una cosa semplice. Un momento ed è fatta. Ti abbiamo affilata a un
punto tale che potresti tagliare la soliluce in sei parti. Ma prima di iniziarti
ai misteri più profondi, dobbiamo vedere cosa batte nel tuo cuore.»
Mia ripensò alla cella delle torture a Godsgrave. Ai “confessori” che
l’avevano picchiata, bruciata, quasi affogata per la prova di lealtà di lord
Cassius. Allora non l’avevano distrutta. Non l’avrebbero distrutta ora.
«Ferro o vetro» disse Mia.
«Precisamente.»
«Non abbiamo già risposto a quella domanda?»
«Hai dimostrato la tua lealtà, vero. Ma se servirai come Lama della
Madre, affronterai la morte in tutti i suoi colori. La tua stessa morte è solo
uno di essi. Questo è un altro.»
Mia udì un fruscio di passi nelle ombre. Vide due Mani avvolte di nero
che trascinavano tra loro una figura che si dibatteva. Un ragazzo. A
malapena adolescente. Gli occhi sgranati. Le guance macchiate di lacrime.
Legato e imbavagliato. Le Mani lo trascinarono al centro della luce e lo
costrinsero a mettersi in ginocchio di fronte a Mia.
La ragazza guardò la Reverenda madre. Quel dolce sorriso matronale.
Quegli occhi vecchi e gentili, corrugati agli angoli.
«Uccidi questo ragazzo» disse l’anziana.
Tre parole. Pesavano una tonnellata ciascuna.
Tutto il mondo rimase immobile. Il buio la opprimeva. Quel peso si posò
sulle sue spalle, schiacciandola. Era difficile respirare. Era difficile vedere.
«Cosa?» riuscì a dire.
«Potrebbe giungere il momento in cui ti verrà chiesto di uccidere un
innocente come servizio a questa congregazione» replicò Drusilla. «Un
bambino. Una moglie. Un uomo che abbia vissuto in modo retto. Non sta a
te mettere in discussione il perché. O chi. O cosa. Tu devi solo servire.»
Mia guardò il ragazzo negli occhi. Erano sgranati dal terrore.
«Ogni morte che portiamo è una preghiera» continuò Drusilla. «Ogni
uccisione è un’Offerta a Colei che è tutto e nulla. La Nostra Signora
dell’omicidio benedetto. Madre, Fanciulla e Matriarca. Lei ha posto il Suo
marchio su di te, Mia Corvere. Tu sei la Sua servitrice. La Sua discepola.
Forse perfino la Sua prescelta.»
L’anziana donna le porse un pugnale nella mano aperta. Fissò Mia
intensamente.
«E se tagli la gola di questo ragazzo, tu sarai la Sua Lama.»
Durò un’eternità. Durò un momento. La ragazza rimase lì immobile in
quella luce rosso sangue. La mente correva. Il cuore martellava. Domande
mai pronunciate le turbinavano nella testa.
Conosceva già le risposte.
“Chi è lui?”
“Nessuno.”
“Cos’ha fatto?”
“Niente.”
“Perché dovrei ucciderlo?”
“Perché te lo diciamo noi.”
“Ma…”
“Ferro o vetro, Mia Corvere?”
Prese il pugnale dalla mano di Drusilla. Saggiò il filo. Pensò che potesse
essere a molla, che potesse trattarsi di un altro inganno, che tutto ciò che le
occorreva fare fosse mostrare la volontà e tutto sarebbe andato bene. Ma il
coltello era tanto affilato da stillare sangue sul suo polpastrello. La lama
solida quanto qualunque altra avesse impugnato.
Se l’avesse conficcato nel petto di questo ragazzo, senza esitazioni,
l’avrebbe fatto finire nella fossa.
«Il lupo non commisera l’agnello» disse Drusilla. «La tempesta non
chiede perdono agli affogati.»
La ragazza guardò la pietra umida ai suoi piedi. Seppe con esattezza
cos’era stato lavato via negli attimi prima che entrasse nella stanza. Seppe
che Tric non aveva esitato. Non si era sfaldato.
«Assassino uno» sussurrò Mia. «Assassini tutti.»
Era il momento. Tutti gli anni. Tutte le miglia. Tutte le illuminotti
insonni e i cambi interminabili. Questo era il sentiero che aveva intrapreso.
Avevano impiccato suo padre. L’avevano strappata dalle braccia di sua
madre, avevano ucciso il suo fratellino. La sua casa, la sua famiglia, il suo
mondo… tutto distrutto.
Ma era un motivo sufficiente per ammazzare questo ragazzo senza
nome?
Uccidendolo si sarebbe assicurata il suo posto qui. Sarebbe diventata la
Lama che avrebbe trafitto il cuore di Duomo, si sarebbe insinuata nelle
viscere di Remus, avrebbe tagliato la gola di Scaeva da un orecchio
all’altro. Figlie, meritavano di morire. Mille e mille volte. Urlando.
Implorando. Piangendo.
Ma anche il ragazzo stava piangendo. Fili di muco gli rigavano il labbro.
Mia lo guardò e lui gemette dietro il bavaglio. Scosse il capo. Lei poteva
vedere le parole nei suoi occhi.
“Ti prego.
“Ti prego, no.”
Lanciò un’occhiata a Madre Drusilla. Sorriso gentile. Occhi tranquilli.
Pietra umida ai suoi piedi. E poi cercò dentro se stessa un motivo per
uccidere questo ragazzo. Il fratello di qualcuno. Il figlio di qualcuno. Era a
malapena più grande di lei. Scavò a fondo, tra il fango e il sangue. Tra i
brandelli della moralità che aveva messo da parte quando aveva intrapreso
questa strada, lastricata delle migliori intenzioni. Le urla di Diamo mentre
moriva le riecheggiavano nella testa. Gli innumerevoli uomini e donne che
aveva sterminato all’interno della Pietra Filosofale. I Luminatii che aveva
massacrato sugli scalini della Basilica Grande.
“Io sono acciaio” disse a se stessa.
Tutto questo accadde in un secondo. Un attimo sotto lo sguardo freddo
della Reverenda madre. E l’istante successivo, Mia si inginocchiò davanti al
ragazzo. Gli posò la lama sulla gola. Il cuore le martellava contro le costole.
Pronunciò le parole come una credente.
“Io sono acciaio.”
«Ascoltami, Niah» mormorò. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo
banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio dono
per te. Tienilo stretto.»
La vecchia sorrise.
Il ragazzo piagnucolò.
Mia prese un profondo respiro tremante. L’avvertimento di Naev le
riecheggiava nella testa. E, con orrore, infine comprese. Infine udì. Proprio
come l’aveva udita dai bastioni sopra il foro dov’era stato impiccato suo
padre.
“Musica.”
Il lamento funebre del coro spettrale. Il tuono delle sue stesse pulsazioni.
Il singhiozzo sommesso di questo povero ragazzo si insinuò assieme al
ricordo dell’applauso di un sacro brigante e un attraente console, e del
mondo marcio andato in malora. E allora lei seppe. Come aveva sempre
saputo. Nonostante tutte le miglia, tutti gli anni, tutti i tomi polverosi, le
mani sanguinanti e la malefica oscurità. Ferro, vetro o acciaio, quello di cui
era composta ora non faceva differenza. Era ciò che sarebbe diventata una
volta ucciso questo ragazzo che avrebbe avuto davvero importanza.
Scaeva meritava di morire. Duomo. Remus. Diamo. Quei Luminatii alla
Basilica Grande erano gli strumenti della macchina da guerra del senato.
Perfino gli uomini e le donne nella Pietra erano criminali incalliti. Nel buio
della sua camera da letto, lei poteva convincersi che le loro morti fossero
giustificate, se si sforzava di provarci. Poteva ritrovarsi a credere che tutti
coloro che aveva ucciso fino a questo punto, le innumerevoli morti che
aveva donato, l’orchestra di urla e lei, il maestro scarlatto… che tutti quanti
lo meritassero.
Ma questo ragazzo?
Questo bambino senza nome, senza colpa?
Se l’avesse ucciso, la verità era che anche lei se lo sarebbe meritato. E
malgrado tutte le miglia e tutti gli anni, la vendetta non era un motivo
sufficiente per diventare il mostro a cui dava la caccia.
Mia allontanò il coltello dalla gola del ragazzo.
Si rimise lentamente in piedi.
«Non per questo» disse.
Drusilla scrutò il suo volto, e lo sguardo dell’anziana divenne duro come
il ferro.
«Ti abbiamo avvisato, Mia Corvere. Marchiata dalla Madre oppure no.
Se fallisci in questo, fallirai completamente. Tutto il lavoro di Mercurio,
tutti i cambi che hai studiato ai suoi piedi, dentro queste mura. Il sangue, la
morte, tutto quanto sarà stato per nulla.»
Mia abbassò lo sguardo negli occhi del ragazzo. Il fratello di qualcuno. Il
figlio di qualcuno.
Le tremavano le mani. Aveva le lacrime agli occhi. Ceneri sulla lingua.
Eppure…
«Non per nulla» disse.
E riconsegnò la lama.

Giaceva sul suo letto al buio. Accanto a lei, un’ombra che non diceva una
parola.
In mano aveva il suo ultimo sigaretto. Un lungo dito di cenere
tratteggiato pendeva dalla punta fumante. La frangia sugli occhi. Oscurità
nella sua testa.
Cos’avrebbero fatto con lei? L’avrebbero relegata al ruolo di Mano?
L’avrebbero flagellata?
Uccisa?
A ogni modo, non aveva importanza. Ora non sarebbe mai diventata una
Lama. Non avrebbe mai appreso i misteri più profondi della Chiesa, o i
misteri di chi e cosa era. Non sarebbe mai diventata affilata quanto le
serviva per avere una possibilità di uccidere Scaeva. Adesso per lei era
intoccabile, proprio come Mercurio aveva…
“Mercurio…”
Cos’avrebbe fatto lui?
Cos’avrebbe detto?
Un rumore di chiavi alla porta. Non si preoccupò nemmeno di prendere
il suo stiletto. Chiunque fosse, non le importava. Mettendosi il sigaretto alle
labbra, fissò il soffitto, guardando le ombre contorcersi.
Passi delicati. Il clic clac di un bastone da passeggio su pietra fredda.
Una figura curva e stanca in piedi in fondo al letto.
«Andiamo a casa, piccolo Corvo.»
Lei guardò il vecchio con le lacrime agli occhi.
Oh, Figlie, quanto si odiava, in quel momento…
«Sì, Shahiid» disse lei.

Partì solo con una manciata di oggetti. Il suo pugnale di necrosso. La spilla
di legnoferro per cui aveva lavorato così sodo. Una tela cerata legata stretta
con i suoi libri, gli appunti macchiati di sangue di Lotti. Nient’altro sarebbe
potuto passare per il Cammino del Sangue. Non c’era altro che potesse
portare.
Naev accompagnò Mia e il vecchio giù per il percorso a spirale verso le
camere dell’Oratore. Ma la donna si rifiutò di entrare nel dominio di
Adonai.
«Lei deve pensarci per un cambio o due» disse Naev dalla soglia. «Le
ferite guariscono con il tempo. Naev sarà lieta di rivederla qui. Naev può
parlare con Madre Drusilla a suo nome mentre lei è via. Può accompagnare
Naev nei suoi viaggi a Ultima Spes. È un bel posto. Una buona vita. Forse
non quella che lei voleva…» guardò verso la camera e l’Oratore lì dentro
«… ma di rado la vita lo è.»
Mia annuì. Strinse forte la mano della donna. «Grazie, Naev.»
Entrarono nelle stanze di Adonai. L’aria era intrisa dell’odore di sangue.
L’Oratore era inginocchiato al vertice della pozza, macchiato di sangue.
Rivolse addirittura un inchino a Mercurio, gli occhi verso terra.
Il vecchio sembrava più stanco di quanto Mia l’avesse mai visto.
Scendere per le scale era stato lento e straziante, il suo bastone che batteva
forte a ogni passo. Mia supponeva che lui non si sarebbe mai immaginato di
percorrere di nuovo questa strada. Non avrebbe mai pensato di dover
tornare qui a prenderla – la sua migliore allieva, il suo fallimento – per
trascinarla di nuovo a Godsgrave in disgrazia. Ma pareva che la Reverenda
madre avesse consigliato a Mercurio che sarebbe stato meglio se Mia non
fosse stata presente all’iniziazione. Ammazzaragni era furibonda che avesse
dilapidato il suo favore. Lord Cassius non aveva tempo per la debolezza, né
per i deboli, e presto sarebbe arrivato alla Montagna per consacrare gli altri
con il suo sangue. Mia doveva tornare a ’Grave con il suo Shahiid, a
pensare a lungo e duramente al proprio futuro. Poteva tornare alla
Montagna e servire per tutta la vita come una Mano. Oppure poteva
decidere che vivere nel fallimento era inaccettabile e occuparsi di quella
faccenda per conto suo.
Drusilla aveva messo in chiaro qual era l’alternativa che preferiva per
Mia.
E lei non aveva nemmeno avuto la possibilità di dire addio a Tric…
«Andiamo, piccolo Corvo» sospirò Mercurio. «Non ho mai potuto
sopportare queste fottute pozze. Prima entriamo, prima usciamo.»
«Un momento!» giunse una voce.
Mia si voltò con il cuore in gola, pensando che forse lui era venuto a
vederla partire. Invece vide Ashlinn che correva verso di lei lungo il
corridoio. Delusione e gioia si mischiarono nel petto di Mia. Ash le gettò le
braccia attorno alle spalle e strinse forte. Mia restituì l’abbraccio con quanta
forza aveva in corpo.
«Avevi intenzione di andartene senza un addio?» domandò Ash.
«Tornerò» disse Mia. «Tra qualche cambio.»
Ash scoccò un’occhiata consapevole allo zaino di Mia e a ciò che
conteneva. Non disse nulla.
«Hai un’aria familiare» disse Mercurio. «Come ti chiami, ragazzina?»
«Ashlinn» rispose lei. «Ashlinn Järnheim.»
«Sei la figlia di Torvar? Come sta il vecchio bastardo?»
«Com’è stato per anni. Mezzo cieco. Storpio. Mutilato.»
«Tu l’hai reso orgoglioso, Ash» disse Mia. «Sei riuscita dove altri hanno
fallito.»
«Tu non hai fallito, Corvere» replicò Ash. «Non pensarlo mai.»
Mia sorrise tristemente. «Sono sicura.»
«Dico sul serio.» Ash le strinse forte la mano. «Questo non è mai stato il
tuo posto, Mia. Ti meriti di meglio.»
Il sorriso di Mia si spense. Confusione nei suoi occhi. Mercurio borbottò
impaziente.
«Su, basta con queste stronzate degli abbracci. Andiamo.»
Ash guardò torvo il vecchio. Poi spostò lo sguardo su Mia, incerta. Prese
un respiro profondo, come se stesse per immergersi in acque oscure. E poi
si sporse lentamente in avanti, prese il volto di Mia tra le mani e la baciò
delicatamente sulle guance.
Durò un momento di troppo. Forse non abbastanza? Era caldo e delicato
come miele. Prima che Mia potesse decidere, era già finito. Ash interruppe
il bacio e strinse la mano di Mia. Un milione di parole non dette le
brillavano negli occhi. Un altro milione sulla lingua di Mia.
«… Dirai addio a Tric per me?» chiese infine.
L’espressione di Ash si attenuò. Sospirò e annuì lentamente.
«Lo farò. Prometto.»
Mia lasciò andare la mano della sua amica. Guardò le pareti attorno a lei.
I glifi e il sangue. Si domandò se questa sarebbe stata l’ultima volta in cui
avrebbe visto tutto ciò. Guardò Adonai, Mercurio, Ash. Poi, con un respiro
profondo, entrò nella pozza.
Il rosso si sollevò attorno a lei.
Mia chiuse gli occhi.
E cadde.

Ashlinn rimase immobile per un’eternità, lì al buio. Fece scorrere le punte


delle dita sulle sue labbra, interrogandosi su tutto ciò che sarebbe potuto
essere. Osservò Adonai guardare il sangue. Quella bellezza suicida,
attorcigliata qui nella penombra. Un ragno al centro della sua tela scarlatta,
in attesa di vibrazioni impercettibili lungo i suoi fili.
«Quando arriverà il Signore delle Lame, sommo Oratore?» chiese
Ashlinn.
Adonai sbatté le palpebre. Alzò lo sguardo dal sangue come sorpreso che
lei fosse ancora lì.
«Arriverà quando arriverà, piccola accolita» replicò.
Ash sorrise, poi si profuse in un ampio inchino e uscì dalla stanza. Salì a
passi pesanti per le scale a chiocciola, i pollici alla cintura, mordicchiando
l’estremità di una delle sue bellitrecce. Le campane suonarono le due e lei
imprecò, accelerando il passo. Salì rapida per il cuore della Montagna, fino
alla grande pedana dell’Altare del Cielo.
La stanza era stata pulita e preparata per la festa dell’iniziazione. Le
cucine erano indaffarate e rumorose, ma l’altare stesso era deserto, tranne
per una figura solitaria, tra le ombre, appoggiata alla ringhiera con lo
sguardo fisso nel buio.
«Come va, Trucco?»
Il ragazzo alzò lo sguardo e annuì in segno di saluto. Voltò gli occhi
verso il deserto che si estendeva lì sotto. Quella bellissima notte senza fine.
«Non mi stanco mai di vederlo» disse.
«È uno spettacolo» concordò Ash, appoggiandosi alla ringhiera accanto
a lui.
«Oz ha detto che volevi parlarmi» mormorò. «Di Mia.»
«È tornata a Godsgrave per un cambio o due. Per riflettere.»
«Ancora non riesco a concepirlo» sospirò Tric. «Tra tutti noi, lei aveva il
motivo più valido per essere qui.»
«Quasi.»
«Non avrei mai pensato che avrebbe inciampato all’ultimo ostacolo.»
«Forse non ha inciampato» disse Ash con una scrollata di spalle. «Forse
ha solo scelto di non saltare. Sono lieta che non sarà qui per l’iniziazione.
Decidere di non uccidere un innocente la rende migliore di questo posto.»
Tric la guardò in tralice. «Tu hai superato la prova. Tu hai ammazzato un
innocente.»
«Perché io ho un motivo migliore di Mia per essere qui, Trucco.»
«E quale sarebbe?»
«Familia» rispose lei.
«Anche Mia era qui per la sua familia.»
«Già.» Ash annuì. «La differenza è che mio padre è ancora vivo. Saresti
sorpreso di quanto può essere motivante un burbero ex assassino senza
testicoli.»
Tric sogghignò, poi voltò di nuovo gli occhi verso il buio. Ash parlò
piano.
«Mia mi ha chiesto di dirti addio.»
«Tornerà» disse Tric. «La rivedrò.»
«… Non ne sono così sicura.»
«Le vesti da Mano potrebbero essere adatte a lei. E cosa farebbe?
Lascerebbe perdere? Lei? Non esiste.»
«Oh, potrebbe anche decidere di unirsi alle Mani. Tuttavia, non credo
che tu la rivedrai.»
«E perché?»
Ash emise un sospiro profondo che le arrivava fin dai piedi. «Come ho
detto prima, hai un naso davvero notevole, Trucco. E non posso permettere
che annusi l’antipasto di stasera.»
«Cosa int… ughhh.»
Tric guardò sorpreso il pugnale che Ash aveva in mano. La lama
scintillava di rosso e gocciolava. Abbassò gli occhi verso la macchia che si
stava diffondendo sulla sua camicia mentre lei gli conficcava il coltello nel
petto ancora. E ancora. E ancora. Rantolò e allungò la mano verso la gola
della ragazza, gli occhi sgranati. Ma, rapida come menzogne, lei lo spintonò
con forza, facendolo finire all’indietro oltre la ringhiera e precipitare
sempre più giù in quel deserto perennemente nero.
Senza un suono.
Senza un guaito.
Andato.
Ash guardò nel buio e sussurrò piano.
«Spiacente, Trucco.»
La ragazza si inginocchiò con un fazzoletto e cancellò il sangue che era
caduto sulla pietra. Pulì la lama e la fece scivolare di nuovo nella manica. Si
guardò alle spalle. L’altare era ancora deserto: le Mani erano indaffarate in
cucina per preparare l’imminente banchetto. Nove posti apparecchiati a
tavola. Uno per ciascuno dei tre accoliti che sarebbero stati iniziati al
termine della festa. Cinque per il Culto: Drusilla, Mouser, Solis, Aalea e
Ammazzaragni. E l’ultimo a capotavola, per il Signore delle Lame. Il
Principe Nero. Il capo della congregazione della Chiesa Rossa in persona.
«Cassius» mormorò lei.
«È fatta?»
Ashlinn si voltò e vide una figura nelle vesti rubate di una Mano.
«È fatta.» Ash si mise dritta, lo sguardo perso sulle terre aride. «Il
piccolo Trucco non sarà presente per annusare alcunché. Sempre che ci sia
qualcosa da annusare, naturalmente.»
«Io farò la mia parte» replicò suo fratello.
«Non fare casini, Oz» lo ammonì Ash. «Hai bruciato la nostra ultima
opportunità. Avremmo potuto avere Cassius rinchiuso in un sacco mesi fa.
Se ne stava semplicemente seduto lì, allo scoperto.»
«Te l’ho già spiegato: quell’idiota di Chiamapiena mi ha visto
avvicinarmi furtivo. Cosa avrei dovuto fare?»
«Oh, fammi pensare. Forse assassinarlo e lasciare il suo corpo in piena
vista? Rendere dieci volte più difficile per noi avere una seconda
opportunità?»
«Balzare addosso a Cassius come un paio di teppisti in un vicolo era un
piano stupido, te l’ho detto all’epoca. Il fatto che Chiamapiena si sia messo
in mezzo è stata una benedizione. Abbiamo avuto mesi per prepararci
questo. Avvelenare il banchetto ci farà ottenere l’intero sacco di vipere in
un colpo solo. L’accolita che ha creato la tossina per me è morta. E l’unico
accolito che aveva una possibilità di fiutare quello che stiamo facendo l’ha
seguita all’altro mondo. Smettila col tuo fottuto piagnucolio e stai pronta.»
«Sono pronta» sibilò Ash.
Osrik si guardò di nuovo alle spalle e abbassò ancora di più la voce.
«Ti sei incontrata con loro ieri sera, giusto?»
«Sì.» Ash annuì. «Dopo che mi hanno fornito il pettegolezzo per finire
prima in Maschere, e altro ancora. Come ho detto, i giovani Luminatii si
prendono tutto il meglio.»
«Sono pronti?»
«Senza dubbio. Il nostro nobile tribuno ha messo in allerta la prima e la
seconda centuria. Duecento uomini faranno irruzione nella Porcheria alla
settima campana. Tu accertati soltanto che Adonai sia motivato.»
«Quel mostro ama sua sorella più della sua stessa vita. Quando le
punterò il coltello alla gola, danzerà la fottuta balinna se gli dirò di farlo.»
«Stai attento quando prendi Marielle. Hai visto quello che ha fatto a…»
«Non sono un bambino, Ashlinn» ringhiò Osrik. «Io mi occuperò della
Tessitrice e dell’Oratore. Tu pensa alla tua parte. Fai in modo che Cassius e
il resto del Culto siano legati e imbavagliati quando arriveranno Remus e i
suoi uomini. I confessori vorranno comunque interrogarli, perciò
dovremmo farli Camminare tutti quanti. Niente manette.»
«Non temere.» La ragazza gli rivolse un sorriso torvo. «La Shahiid
Aalea mi ha insegnato qualche trucchetto con le corde.»
«Tra poche ore.» Osrik annuì. «Queste mura crolleranno.»
I due fissarono il deserto. Il buio interminabile sopra di esso, con un
miliardo di puntini luminosi. Il volto della dea che erano stati allevati per
adorare e che adesso stavano tradendo.
«Per papà» disse Ashlinn.
«Per papà» replicò Osrik.
La ragazza baciò il fratello sulla guancia e si allontanò nell’oscurità.
CAPITOLO 32
SANGUE

Avevano lavato via il sangue nei bagni della Porcheria, ma Mia riusciva
ancora a sentirne l’odore sulla sua pelle.
Arrancò per le strade di Godsgrave, con Mercurio che zoppicava accanto
a lei. Nessuno dei due parlava. Trovava un certo conforto nel fatto che il
vecchio fosse venuto a prenderla, che avesse parlato a Drusilla in suo
favore. Qualche cambio lontano dalla Chiesa le avrebbe schiarito la testa,
aveva detto Mercurio. Le avrebbe fatto bene. Le avrebbe permesso di
pensare alla scelta che le si prospettava.
La vita come una Mano. La vita di una servitrice.
Si fissò su quel pensiero, rabbuiandosi. Non c’era vergogna in quello.
Naev era una mano e teneva la testa alta. Forse non sarebbe stato così male.
Viaggiare per le Frusciaride, giù per l’Ashkah meridionale. Trovare bellezza
in parti del mondo che non aveva mai visto. a
Ma Scaeva? Duomo? Remus?
Poteva trascorrere la sua intera vita sapendo che la sua familia non
avrebbe ottenuto vendetta?
Venti sferzanti ruggivano dalla baia, gelidi e urlanti. L’inverno era giunto
a ’Grave con forza e le tempeste si addensavano costantemente
all’orizzonte, avvolgendo la luce di Saan e smorzando il bagliore azzurro di
Saai mentre sorgeva di nuovo dal limitare del mondo. Tuttavia… lì fuori era
così luminoso. Quasi accecante dopo mesi di buio pressoché costante. Il
canto del coro era stato sostituito dal viavai e dal trambusto delle strade
cittadine, dalle urla degli imbonitori, dai rintocchi delle campane della
cattedrale. Tutto questo non le pareva giusto.
“Non mi sembra più di essere a casa.”
La ragazza e il vecchio tornarono al negozio di curiosità, la campanella
che tintinnava sopra la porta. Mia si ricordò della prima volta che era
entrata lì dentro. Il cambio dopo che suo padre era morto penzolando.
Mercurio che l’aveva accolta sotto la sua ala. L’ultima apprendista che
avrebbe addestrato, molto probabilmente. Le aveva dato sei anni. E lei cosa
gli aveva dato in cambio?
“Fallimento.”
Il vecchio stava zoppicando verso la cucina, gli schiocchi del bastone
sulle assi.
«Mi dispiace, Mercurio.»
L’uomo si voltò verso di lei e vide le lacrime che le sgorgavano dagli
occhi.
«Ti ho deluso» continuò lei. «Ho deluso entrambi. Sono così spiacente.»
Il vecchio scosse il capo. Ma non le disse che si sbagliava.
«Vuoi del tè?» propose infine. «Te lo porterò nella tua stanza.»
«No. Grazie.»
Lui si tolse il pastrano. Si accese una paglia e si diresse in cucina.
Di sopra, nella sua stanza, Mia riusciva ancora a sentirlo zoppicare in
giro. La rabbia del vecchio riecheggiava nella melodia di barattoli che
sbattevano, di padelle che sferragliavano. Mia gettò il pacchetto di tela
cerata sul suo vecchio letto e poi ci si lasciò cadere sopra. Non l’aveva mai
notato prima, ma era un tantino piccolo per lei, ora. Come questa stanza.
Come questa vita.
«… cosa facciamo adesso…?»
Mia guardò la striscia di oscurità appollaiata in cima a una pila sghemba
di cronache.
“Se potessi vedere i suoi occhi, leggerei disappunto anche in essi?”
«Dormiamo» sospirò lei. «Dormiamo per cent’anni.»
Sciolse i lacci della borsa di tela cerata e tirò fuori la sua vecchia copia
malconcia di Teorie della Mannaia. Fece scorrere una mano amorevole
sulla copertina di Verità arkemiche. Poi si sdraiò con il quaderno di Lotti.
Pensò a Zitto, domandandosi come se la passasse. Ad Ash. A Tric.
Supponeva che in quel momento si stessero preparando per la cerimonia di
iniziazione. Ultimopasto all’Altare del Cielo, poi giù nella Sala degli Elogi,
per essere consacrati con il sangue di Cassius e introdotti nei ranghi delle
Lame.
Ipotizzò che quello fosse un motivo per unirsi alle Mani. Almeno,
all’interno della Montagna, avrebbe avuto accesso all’Ateneo. Forse perfino
a Cassius in persona, ogni tanto. Ancora non aveva alcuna reale risposta sui
tenebris, né una qualche idea più chiara su cosa fosse lei…
Mia sfogliò le pagine del quaderno di Lotti. Sorrise al pensiero
dell’arguzia impassibile e dello sguardo privo di emozioni della sua amica.
Ma quel sorriso scomparve quando raggiunse le pagine a cui Carlotta stava
lavorando quando era stata assassinata. C’era uno schizzo di sangue secco
sugli appunti, che era filtrato a quelle successive.
Sangue.
Che filtrava…
“Spiegare cosa, Reverenda madre?”
“Questo.”
Drusilla raccolse il lenzuolo e lo tenne davanti alla faccia di Mia. Lì,
intrisa nel tessuto, la ragazza vide una minuscola macchia, secca e
scarlatta.
Mia guardò sorpresa la macchia di sangue sulla pagina.
«Non hai modo di dimostrare dov’eri ieri sera e il sangue della vittima è
stato trovato sulle tue lenzuola, un fatto che tu stessa non riesci a spiegare.
Carlotta ha mai fatto visita alla tua camera?»
«No, ma…»
No, ma qualcun altro le aveva fatto visita quella mattina…
«Non può essere» mormorò.
«… non può essere cosa…?»
Mia guardò il non-gatto. Aveva difficoltà con le parole. Con il pensiero
che sottendevano. Alzandosi dal letto, Mia sfogliò il quaderno di Lotti fino
alla parte finale. Alle pagine che mancavano. Frugando sulla sua scrivania,
trovò un carboncino e lo sfregò lievemente sulla pagina vuota che seguiva
la sezione mancante. Lì, in quella spolverata di nero, riuscì a vedere le
tracce, debolissime. La calligrafia di Lotti, il suo cifrario artigianale,
simboli arkemici.
«… cosa stai…»
«Zitto. Dammi un momento.»
Guardò accigliata le pagine, stringendo gli occhi per distinguere quella
calligrafia sfocata. I segni erano a malapena leggibili. Non poteva esserne
certa, ma…
«Sembra una ricetta modificata per il Deliquio…»
«… il sedativo…?»
Lei annuì. «Ma queste misurazioni sono sufficienti almeno per una
dozzina di persone. Perché mai Lotti avrebbe…»
Carlotta si alzò e si diresse da Osrik, poi gli parlò piano, con il
quaderno fradicio in mano. Oz le rivolse quel suo sorriso affascinante e
toccò con le punte delle dita quelle di Lotti.
Mia guardò Ash sollevando le sopracciglia. “Sono diventati intimi. Li ho
visti lavorare assieme a una mistura qualche cambio fa. E sembra che
vengano appaiati molto spesso a Verità.”
«Questo non ha senso» sussurrò.
«… una sensazione con cui ho sempre più familiarità…»
Mia si alzò dal suo sgabello, il quaderno di Lotti in mano. Stava per
scendere al piano di sotto da Mercurio, ma udì un trambusto in cucina.
Un’imprecazione più turpe di quelle che gli aveva mai sentito usare. Non
sembrava un buon momento per infastidirlo con teorie folli. Probabilmente
le avrebbe staccato la testa a morsi.
Legò di nuovo il quaderno nella tela cerata. Aveva la fronte così
aggrottata che le faceva male la testa.
Ma se aveva ragione…
“Non è possibile che abbia ragione.”
«Devo tornare alla Chiesa.»
«… così presto…?»
«Ho bisogno di parlare con la Reverenda madre.»
«… sicuramente sarà impegnata con la cerimonia di iniziazione, no…?»
Mia era già appollaiata sul davanzale, il vento che ululava attraverso la
finestra aperta.
«Sei dalla mia parte o vuoi metterti in mezzo?»
Il non-gatto sospirò.
«… come ti compiace…»
Mia si precipitò attraverso il mercato di Piccola Liis, le strade brulicanti
dei Bassifondi, spintonando e sgomitando fino alla Baia dei Macellai. Ora
la tempesta era quasi sopra Godsgrave, tuoni e fulmini che si inseguivano
nel cielo. La puzza di interiora e acque fognarie giungeva assieme al sale
dell’oceano profondo. Mia incurvò le spalle e un groviglio nero si agitò
attorno alla sua faccia quando alzò il cappuccio per tenere a bada il freddo.
Il porto era movimentato.
Più indaffarato del normale, col tempo così fosco.
Mentre Mia si avvicinava alla Porcheria, notò gruppi di uomini grandi e
grossi appostati vicino all’ingresso. Non scherzavano né ciarlavano come
avrebbero fatto marinai o mercanti. La guardarono torvo mentre si
avvicinava, ma lei sorrise amabilmente e passò dritto davanti a loro. Li
esaminava con la coda dell’occhio.
Erano enormi, tutti quanti. Vestiti come popolani, ma tutti quanti con un
fisico robusto. E, gli occhi bassi, lei vide che ciascuno indossava stivali da
soldato.
“Cosa ’bisso sta succedendo qui?”
Svoltò l’angolo, i pensieri che si agitavano nella sua mente. Trascinò il
manto d’ombra attorno alle spalle, si aggrappò al tubo di una grondaia e si
arrampicò per il lato della Porcheria, agile come una scimmia. Sul tetto, si
mise al lavoro sulle tegole, conficcando il suo stiletto di necrosso tra un
paio di esse per poi staccarle. Si lasciò cadere nello spazio vuoto e strisciò
sulle travi, togliendosi di dosso il manto d’ombra per poter vedere il
mattatoio lì sotto.
Non c’era segno di Pancetta o dei suoi figli. Nemmeno dei soliti macellai
che tagliavano il maiale. Ma c’erano altri di quegli omoni a ogni uscita, così
come sul piano ammezzato che portava alla pozza di sangue.
Il suo cuore si fermò e le si mozzò il fiato quando, in mezzo a loro, lo
vide.
Erano passati due anni da quando lo aveva affrontato sui gradini della
Basilica Grande. Sei anni da quando l’aveva visto davvero da vicino, il
cambio in cui aveva preso il titolo di suo padre, in cui aveva rubato le terre
della sua familia. Eppure l’avrebbe riconosciuto ovunque. L’uomo più
grosso che lei avesse mai visto. Una barba curata che incorniciava fattezze
lupesche, un istinto animale che gli scintillava nello sguardo. La cicatrice di
quelli che potevano essere stati solo artigli di gatto lungo la guancia. Era
vestito da plebeo come il resto di loro. Niente armatura bianca, mantello
rosso o lama di solacciaio in vista. Ma lei lo riconobbe. L’odio gocciolò
dalla sua lingua quando disse il suo nome con un sussurro.
«Tribuno Marcus Remus…»
Si guardò attorno per la Porcheria. Osservò gli uomini con quelle mani
fatte per impugnare spade e gli stivali da soldato. E li riconobbe con
esattezza per quello che erano.
«… luminatii…»
«Sono qui per la pozza di sangue.» Mia inspirò a fondo, non riuscendo
quasi a credere ai propri occhi. «Si stanno preparando per invadere la
Chiesa.»
«… adonai non li farebbe mai passare…»
«A meno che non fosse in combutta con loro?» mormorò Mia. «O se
qualcuno lo costringesse?»
«… entrare spensierati nel covo degli assassini più letali della
Repubblica? e proprio questa sera? quando sarà presente lord cassius in
persona…»
«… Forse è proprio quella, l’idea.»
Il tribuno Remus parlò con uno dei suoi centurioni, guardando le sue
truppe a occhi stretti.
«È tutto pronto?»
«Sì, tribuno.» L’uomo alto e duro gli rivolse il saluto, il pugno sul petto.
«Il mattatoio è stato occupato senza incidenti. Gli eretici che alloggiavano lì
sotto sono stati presi prigionieri o uccisi.»
Il tribuno annuì e si voltò verso un altro uomo accanto a lui. Era un
veterano dall’aspetto brizzolato che Mia riconobbe dalla benda di cuoio
sopra un occhio.
«Centurione Alberius, la seconda centuria entrerà nel portale per prima e
metterà al sicuro l’area di allestimento. Prepara immediatamente i tuoi
uomini. L’attacco inizierà tra cinque minuti.»
Lo strangola-cuccioli si batté il petto. «Luminus Invicta, tribuno.»
L’uomo si voltò verso i suoi uomini e strillò.
«Seconda centuria, in formazione!»
Cento Luminatii si schierarono con precisione militare, i volti torvi e
silenziosi. Portavano randelli di legno e scudi, assieme ad alcune lame di
necrosso. Mia almeno era lieta che nessuno di loro avrebbe potuto portare
con sé il solacciaio: nessun metallo poteva attraversare il Cammino del
Sangue, e affrontare qualche centinaio di Luminatii armati di lame ardenti
era un po’ più spaventoso che combattere contro gli stessi uomini armati di
grossi bastoni.
“Ma solo un poco.”
Remus si voltò verso il suo secondo, parlando in toni misurati.
«Centurione Maxxis. La terza centuria manterrà la posizione qui finché
non saremo tornati con gli eretici e il loro maestro in catene. La prima
centuria marcerà con me all’Altare del Cielo.»
A Mia si rivoltò lo stomaco alla menzione dell’Altare. Remus conosceva
la Montagna. Ciò voleva dire che era al corrente della sua disposizione, di
come funzionava. In che altro modo i Luminatii potevano sapere tutto
questo, a meno che non ci fosse un traditore tra i membri della Chiesa?
Ma Drusilla li aveva messi tutti alla prova! Ogni accolito del gregge
aveva scelto di morire piuttosto che rivelare la posizione della Porcheria.
Chi avrebbe subito la tortura per mano dei confessori di lord Cassius solo
per tradire la Chiesa e consegnarla ai Luminatii dopo?
“Qualcuno che sapeva che i confessori di Cassius erano solo una
prova…”
La comprensione danzò una giga nauseante nella pancia di Mia.
Ashlinn scrollò le spalle e divorò un altro boccone. “Aoa scei otunata a
ee me.”
“… Cosa?”
La ragazza inghiottì e si leccò le labbra. “Ho detto, allora sei fortunata
ad avere me. Mio padre ha raccontato a me e a mio fratello tutto quanto, su
questo posto. Tutto quello che sapeva, comunque.”
«Il padre di Ash e Oz…»
«… cos’ha fatto…?»
«Ash mi disse che aveva allevato i suoi figli per sostituirlo.»
Guardò verso l’ombra annidata accanto a lei.
«E se invece li avesse allevati per vendicarlo?»
«… attaccare il tenebris a capo dei migliori assassini al mondo in un
luogo di oscurità perpetua? con qualche centinaio di uomini? buona
fortuna, caro tribuno…»
«Non avrà bisogno di fortuna» sussurrò Mia. «Il Deliquio, non capisci?
Le misurazioni negli appunti di Carlotta erano sufficienti per mettere a
dormire dozzine di persone. Se Ashlinn oppure Oz lo infilano nel banchetto
dell’iniziazione, Cassius sverrà come chiunque altro, tenebris o no.»
«… ma tric sarà al banchetto. sicuramente lui fiuterà il veleno, no…?»
A Mia balzò il cuore in gola. Sentì freddo allo stomaco.
«’Bisso e sangue…»
Scese dalle travi prima che Messer Cortese potesse pronunciare un altro
bisbiglio. Lasciandosi cadere sul piano ammezzato, si avvolse ancora una
volta nel suo manto d’ombra: era solo una macchia scura contro le pareti
della Porcheria. La seconda centuria stava salendo sul mezzanino, seguita
da Remus e dal suo primo ufficiale. Gli uomini scesero le scale fino alla
pozza di sangue, in fila per due.
Mia si mosse furtiva dietro di loro, nascosta sotto il suo manto d’ombra,
il mondo attorno a lei fosco e nero. Lampade arkemiche punteggiavano le
scale e lei seguì la loro luce fin nel ventre della Porcheria, il viscido odore
di sangue che aleggiava nell’aria. Udì sciabordare, rimestare, gorgogliare.
Si mosse silenziosa, avanzando piano piano rasente il muro, accanto alle
file di soldati in attesa di entrare nella pozza di sangue. I glifi sulla pietra
stavano ronzando debolmente e il potere cantava nell’aria mentre il
centurione Alberius sbraitava i suoi ordini. Nemmeno uno di loro doveva
aver visto venefici del sangue ashkahi prima di allora, ma bisognava
riconoscere che i Luminatii entravano nella pozza di Adonai come ordinato.
Chiudevano gli occhi mormorando le loro preghiere, poi con un’ondata di
magika ashkahi scomparivano uno a uno.
Tutti gli occhi erano puntati sul vortice turbinante. I glifi erano
scarabocchiati col sangue per tutte le pareti. Mia meditò di aspettare finché
tutti i componenti della seconda centuria non fossero passati; sicuramente ci
sarebbe stata una possibilità di eliminare Remus in tutto questo. Ma poi
pensò a Tric. Al veleno. Al banchetto. Se Ashlinn e Osrik avevano tradito la
Chiesa, avevano ogni motivo per ucciderlo, e quel pensiero la riempì di una
paura che perfino Messer Cortese non riuscì a divorare del tutto.
“Madre Nera, sono stata così cieca…”
Il sangue mulinava e si gonfiava. I soldati venivano trascinati nel flusso.
Malgrado la sua arroganza, Mia non riusciva a immaginare che Adonai
potesse essersi rivoltato contro la Chiesa: doveva essere stato costretto. A
ogni modo, le occorreva sapere cosa stava succedendo. La vendetta poteva
aspettare.
Le persone a cui teneva erano più importanti.
Non poteva fare a meno di ammirare l’ironia. Se fosse diventata il
mostro che voleva la Chiesa, se avesse ucciso quel ragazzo senza nome e
fosse stata accettata per l’iniziazione, non sarebbe mai venuta al corrente
del complotto di Ashlinn e Osrik. In questo momento si sarebbe ritrovata
seduta al banchetto, a essere avvelenata assieme agli accoliti e al resto del
Culto.
Invece era l’unica in grado di salvarli.
Mia si mosse furtiva lungo la parete della camera del sangue e scivolò
nella pozza, immersa fino alla vita in quel calore nauseante. Non sapeva se
due persone potessero effettuare il Cammino simultaneamente. Ma sapeva
che il sangue di Adonai era mischiato dentro questa pozza e che l’Oratore
sarebbe stato in grado di percepirla assieme al soldato che ora guadava
accanto a lei.
L’Oratore l’avrebbe riconosciuta come un’amica? Sarebbe stato in grado
di…
Il rosso si impennò. Il pavimento scomparve sotto i piedi di Mia. Si
ritrovò a essere inghiottita giù con il flusso, ruotando e torcendosi, il sangue
nella sua bocca. Quell’orrendo risucchio minacciava di trascinarla giù per
sempre. Nuotò verso l’alto, in direzione della luce. Il petto le stava
scoppiando. Il cuore palpitava. Fino a quando, finalmente…
Sentì pietra sotto i piedi. Si spinse su lentamente, la testa che affiorava
dalla superficie e il sangue che le colava negli occhi. Un legionario
Luminatii spuntò dal flusso accanto a lei, sputacchiando e tossendo. I suoi
compagni lo trascinarono su e lo aiutarono a mettersi in piedi. Gli uomini
nella camera erano dipinti dalla testa ai piedi di scarlatto, un orrore
silenzioso su ogni volto. La camera intrisa dai sangue di Adonai poteva
soltanto essere la conferma di qualunque storia raccapricciante avessero mai
udito sugli adoratori di Niah. Era facile capire come potessero pensare che
la Chiesa fosse un’eresia. Come Scaeva e Duomo potessero spacciarli per
un nemico.
“Dall’esterno, penserei lo stesso di noi.”
Mia sbatté le palpebre e si pulì il sangue dagli occhi.
“… Noi.”
Con il manto d’ombra ancora avvolto attorno alle spalle, si mantenne
sotto la superficie, sollevando la testa solo quanto bastava per respirare.
Come sempre, Adonai era inginocchiato al vertice della pozza. Accanto a
lui c’erano una dozzina di Luminatii sporchi di sangue, i randelli di
legnoferro in mano. Il cuore di Mia accelerò i battiti quando lei percepì
un’ombra familiare alle spalle dell’Oratore.
“Osrik…”
Il ragazzo era accovacciato sulla pietra, con una lunga lama seghettata in
mano. Ai suoi piedi, Mia vide un’altra figura, spoglia delle sue tradizionali
vesti nere. Distorta e patetica, la pelle spaccata e marcia, avvinta nelle corde
come un suino pronto per il macello. Aveva le mani legate, tutte le dita
rotte, gli occhi rosa chiusi. Ma il petto della sua ombra che si alzava e
abbassava in modo costante rivelò a Mia che la Tessitrice non era morta…
ed era la minaccia della lama di Osrik sulla gola di Marielle che stava
costringendo Adonai a questa follia.
“L’Oratore è dalla nostra parte. Questo è già qualcosa, almeno…”
La mente della ragazza era in subbuglio, nel tentativo di sbrogliare
l’enigma.
Anche se in seguito il senso di colpa l’avrebbe perseguitata, sapeva che
sarebbe stato stupido precipitarsi di sopra: qualunque cosa stesse
succedendo all’Altare del Cielo, era già accaduta. Almeno il veleno che Ash
e Osrik stavano usando era solo Deliquio: nessuno sarebbe stato ucciso
subito. Era evidente che i Luminatii volevano prigionieri. Tortura.
Interrogatori. Crocifissione pubblica. Questo era ciò che attendeva la
gerarchia della Chiesa Rossa. Ma in questo momento, lord Cassius e il
Culto erano tutt’altro che morti. Questo voleva dire che anche Tric poteva
non esserlo…
Guardò Adonai, che cantava sopra la pozza ribollente. Si rese conto che
avrebbe potuto ucciderlo. Le sarebbe bastato recidergli la gola lì e avrebbe
fermato l’afflusso di truppe nella montagna, tagliando fuori le altre. Ma ciò
avrebbe eliminato la risorsa più preziosa che la Chiesa Rossa aveva nel
proprio arsenale. Senza il Cammino del Sangue, la Chiesa sarebbe stata
sventrata, le sue Cappelle isolate.
Tuttavia, la cosa avrebbe dovuto importarle?
Salvare Tric e Naev non valeva quella perdita?
Sotto il sangue, allungò la mano nella manica ed estrasse il pugnale di
necrosso. Osservò quando Adonai si irrigidì, lanciando un’occhiata nella
sua direzione.
“Sa che sono qui.”
Continuando con la sua canzone per trasferire altri di quei Luminatii
sputacchianti e terrorizzati, Adonai riportò gli occhi sulla pozza. Ma Mia
giurò di averlo visto scuotere il capo. E con un piccolo gesto della mano che
lei riconobbe come Senzalingua, l’Oratore mise in chiaro i suoi pensieri.
“Non provarci” le segnalò.
Questo chiudeva la questione. Mia non aveva la possibilità di ucciderlo
in modo furtivo, e se Adonai era intenzionato a combattere, poteva tradirla
nell’attimo stesso in cui avesse agito contro di lui. Fedele a se stesso,
l’Oratore reputava la propria pelle più importante di quella di chiunque altro
all’interno della Montagna.
“D’accordo, allora. Non è un’alternativa.”
Mia si accovacciò nel sangue, osservando altre dozzine di legionari
attraversare il Cammino. Quando il gruppo fu riunito, cento uomini in
totale, il centurione Alberius ordinò loro di sparpagliarsi per il piano.
Mettere in sicurezza scale, porte, passaggi. Con i suoi uomini in
movimento, il centurione si rivolse a una delle sue reclute più giovani.
«Riferisci al tribuno che tutto è sicuro.»
Sotto lo scarlatto che si seccava, Mia vide il ragazzo sbiancare al
pensiero di tornare in quella pozza orrenda. Ma si immerse di nuovo nel
rosso e scomparve nel flusso. Mia lo osservò andar via e tornò a volgere lo
sguardo verso Adonai. Questa era la sua ultima possibilità di tagliare la
testa di ponte. Se l’Oratore fosse morto prima dell’attraversamento della
prima centuria…
Il sangue si sollevò attorno a lei, con un risucchio che le aspirava i
talloni. Annaspò, afferrandosi al bordo della pozza, il marmo reso scivoloso
dal sangue. Adonai scosse di nuovo il capo, appena appena, muovendo
rapidamente le mani.
“Non pensarci nemmanco.”
Mia strinse i denti. Osservò la prima centuria iniziare a effettuare il
Cammino. Un uomo dopo l’altro, un minuto dopo l’altro, trascinati fuori dal
sangue dai loro compagni. E infine, sollevandosi dal rosso, Mia vide
l’uomo che aveva sognato di uccidere per sei lunghi anni. Cacciando via i
soldati che cercarono di aiutarlo, l’uomo uscì dalla pozza colando grossi
rivoli di sangue sulla pietra. Il liquido scuro si raggrumava sulla sua barba e
gli scorreva copioso lungo la schiena. Spalle ampie quanto la Montagna
stessa.
Il tribuno delle legioni dei Luminatii torreggiava sopra l’Oratore Adonai,
la bocca arricciata dal disgusto.
«Empietà» ringhiò lui. «Empietà ed eresia.»
Adonai non disse nulla, incontrando lo sguardo del tribuno senza
trasalire. Un sorriso debole increspò le sue labbra graziose. Remus si
asciugò il sangue dalla faccia, poi si girò verso il suo secondo quando un
aiutante iniziò a fissargli addosso un bellissimo completo di armatura di
necrosso.
«Centurione, rapporto.»
«Il piano è nostro, tribuno. La prima e la seconda centuria sono
arrivate.»
«Eccellente.» Fece un cenno verso Adonai. «Legate per bene questo
bastardo apostata.»
I soldati vennero avanti, stringendo tra le mani lunghi rotoli di corda
intrisa di sangue. Spintonarono a terra Adonai e gli legarono mani e piedi
dietro la schiena come un vitello in attesa di essere macellato. Gli ficcarono
uno straccio in bocca e gliene legarono un altro attorno agli occhi. Uno dei
soldati gli premette addosso uno stivale tanto per essere sicuro, ma Remus
lo fermò sollevando una mano.
Il tribuno guardò verso Osrik e parlò con tono conciso.
«Il Culto?»
«Ashlinn conosceva bene il suo compito» rispose Osrik. «Saranno legati
come maiali per il Gran Tributo quando arriverete all’Altare del Cielo. Non
temete.»
«Aspetta qui finché non saremo tornati con il decantato Signore delle
Lame e il suo gregge di senzadio.» Fece un cenno verso Adonai. «Se questo
eretico dovesse muovere un muscolo in un modo che non ti piace, comincia
a tagliare pezzi di sua sorella finché non si comporta bene.»
Osrik annuì. Adonai si tese a quella minaccia, ma per il resto rimase
immobile.
Ora completamente rivestito dell’armatura, Remus si guardò attorno in
direzione dei suoi uomini, il viso coperto di sangue e l’espressione torva. Si
portò una mano alla cintura ed estrasse una bellissima spada lunga di
necrosso finemente intagliata, con dei corvi in volo lungo pomello ed elsa.
Mia strinse gli occhi quando la riconobbe: era stata appesa alle pareti dello
studio di suo padre accanto alla collezione di mappe.
“Quanto altro può portarmi via quest’uomo?”
«Fratelli virtuosi» esordì Remus. «Stasera sferriamo un colpo contro una
blasfemia che ha macchiato per decenni la nostra gloriosa Repubblica. I
ministri di questa empia Chiesa devono essere riportati vivi a Godsgrave
per essere interrogati. Ma qualunque altro bastardo adoratore della notte
incrociate tra queste mura non merita alcuna pietà. Siamo la mano destra di
Aa, e stasera metteremo in ginocchio questa dimora di eretici.»
Il tribuno si portò la lama rubata alla fronte e abbassò il capo. I legionari
attorno alla stanza lo imitarono, le labbra che si muovevano all’unisono.
«Ascoltami, Aa. Ascoltami, Padre. La tua fiamma, il mio cuore. La tua
luce, la mia anima. Per il tuo nome, la tua gloria e la tua giustizia, io
marcio. Splendi su di me.»
Remus alzò la testa. Annuì ai suoi uomini.
«Luminus Invicta.»

a. Anche se buona parte del suo entroterra adesso è più simile a un deserto, le regioni costiere di
Ashkah sono ancora tra le più belle al mondo. Lasciando da parte il naturale splendore di siti come
le Mille Torri, le Cascate di Polvere di Nuuvash o il Grande Sale, c’è ancora qualcosa di
semplicemente mozzafiato nel guardare i soli sorgere sopra un paesaggio infernale inquinato dalla
magika.
Naturalmente, kraken delle sabbie, pulvispettri e altre mostruosità delle Frusciaride tendono a
far rimanere senza fiato in altri sensi, vista la mancanza di una vera e propria industria del turismo
ad Ashkah.
CAPITOLO 33
PASSI

Mia attendeva.
Anche se nella sua mente si susseguivano immagini di ciò che forse
stava accadendo in cima a quelle scale, anche se le ribolliva il sangue al
pensiero del tradimento di Ashlinn, anche se la sua vendetta contro Remus
era alla sua portata eppure non poteva assaggiarla, attendeva. Se i Luminatii
avevano Cassius e la Reverenda madre nelle loro grinfie, ogni discepolo
della Chiesa Rossa era in pericolo. I suoi amici. Anche Mercurio. Il suo
primo passo doveva essere impedire la fuga di Remus. Cassius e Drusilla
non potevano cadere nelle mani del Confessionato.
E così restava in agguato nel sangue. Si malediceva per essere stata una
sciocca. Adesso lo sapeva per certo. Ash aveva ucciso Lotti. Poi aveva
cercato di incastrare lei per l’omicidio. Ogni momento, ogni parola che
aveva pronunciato era stata una menzogna. Anche Zitto l’aveva avvisata,
quella sera nell’Aula di Verità.
tu hai un solo amico dentro queste mura
non carlotta
non tric o ashlinn
e non me
Quell’amico era appostato nelle ombre della stanza, e la guardava con i
suoi non-occhi. Remus e le sue truppe erano usciti. Ma rimanevano una
dozzina di Luminatii nella camera dell’Oratore, ora vestiti con cuoio
elaborato su cui era sbalzato il simbolo di Aa. L’armatura era spessa, le
fibbie fatte di legno, niente rivetti né viti da nessuna parte: senza dubbio
erano state foggiate appositamente per l’assalto. Mezza dozzina di uomini
montavano la guardia su Adonai e Marielle. Ce n’erano altri sei sulla soglia,
a controllare il corridoio. La Tessitrice era ancora svenuta, con Osrik
accovacciato accanto a lei, la lama posata sulla sua gola.
“Comincia dall’inizio…”
Mia non riusciva comunque a vedere molto sotto il suo manto, così
chiuse gli occhi. Allungò la mano verso le ombre nella stanza. Proprio
come aveva fatto con i fantocci impagliati nell’Aula di Canti, poteva
percepire quelle ombre nello stesso modo in cui poteva percepire se stessa.
Si ricordò com’era stato quando aveva avuto quattordici anni.
Quando aveva fatto a pezzi la statua di Aa fuori dalla Basilica Grande.
Quando era passata tra le ombre come uno spettro. Ma soprattutto, si
ricordò dell’uomo che aveva dato inizio a tutto ciò, che aveva fatto
impiccare suo padre, aveva messo in catene sua madre, aveva causato la
morte del suo fratellino prima ancora che sapesse camminare.
Allargò le braccia sotto il sangue. Stese le dita. Si protese attraverso la
penombra tremolante, fino alle ombre ai piedi di ciascun legionario. Le
incurvò in uncini, conficcandole nelle suole degli stivali dei soldati, tutti
quanti. E, più silenziosa che poteva, si sollevò dalla pozza di Adonai.
Si rese conto subito del suo errore: anche se era ancora nascosta sotto il
manto d’ombra, il sangue di cui era inzuppata no. Mentre si issava sul
bordo, il liquido scarlatto schizzò sulla pietra e impronte insanguinate
apparvero sotto i suoi palmi. I legionari lì presenti si voltarono a quel suono
e Osrik aggrottò la fronte.
Confusione. Esitazione.
Era sufficiente.
Mia entrò nell’ombra sotto di lei

uscì

dall’ombra

sulla parete

dietro Osrik.

Uno dei legionari vide un movimento con la coda dell’occhio e lanciò un


grido d’allarme, ma per allora il coltello di Mia era già conficcato fino
all’elsa nella giuntura tra il collo e il braccio del ragazzo, recidendogli i
tendini. Osrik urlò e la lama gli cadde dalle dita inerti, poi Mia gli diede una
ginocchiata alla mascella e lo mandò lungo disteso sul pavimento. Raccolse
il suo pugnale e poi

fece

un passo

nel buio

ai suoi piedi e uscì dalle ombre dietro un altro legionario, tagliandogli i


tendini del ginocchio con la sua lama e mettendolo al tappeto. L’uomo
accanto a lui cercò di colpirla con un randello e lei ondeggiò all’indietro;
l’arma le passò fischiando vicino al mento e lei avanzò all’interno della
guardia del legionario e gli vibrò una ginocchiata all’inguine tanto forte da
far sussultare ogni uomo nella stanza per empatia. I soldati urlarono, ma
quando provarono a caricare quell’orrore ricoperto di sangue uscito dalla
pozza dello stregone, scoprirono che i loro stivali erano attaccati alla pietra.
Mia poteva percepirlo. Il potere della notte che le scorreva sotto la pelle.
La tenebra affamata. La Madre in persona, la dea che l’aveva marchiata,
che fissava con occhi neri questi uomini che avevano invaso il suo territorio
sacro.
Ed era furibonda.
Mia ne abbatté uno, poi un altro, raccogliendo un randello e sbattendolo
contro mascelle e nuche, saltando da una chiazza di oscurità all’altra e
lasciandosi alle spalle solo orme insanguinate. Erano membri della migliore
coorte della legione: Remus non era stato tanto sciocco da portare con sé
alla Montagna ragazzi midollani o figli di senatori. Ma di fronte a questo
orrore ricoperto di sangue, con gli occhi neri, un sorriso feroce e mani
rosse, rossissime, presto la paura ebbe il sopravvento su di loro.
«Gli stivali!» urlò uno di loro. «Toglietevi gli stivali!»
Le ombre ghermirono i loro randelli e soffocarono le loro grida mentre
lei li eliminava a uno a uno. I compagni lì vicino che li avevano sentiti
urlare ed erano venuti a indagare subirono lo stesso destino: abbattuti da
colpi violenti o atterrati con la gola tagliata. Finché non ne rimase uno solo.
Un uomo con i riccioli scuri intrisi di sangue, che cadde sul sedere mentre
scalciava via gli stivali e indietreggiò fino al muro, gli occhi sgranati dal
terrore mentre questo demone dell’abisso usciva dalle ombre davanti a lui.
Con un coltello insanguinato in una mano e un randello insanguinato
nell’altra. I capelli erano appiccicati come alghe nere al sangue sulla faccia.
Allora il demone aprì la bocca. E parlò con la voce di una ragazza.
«Mi dispiace.»
La lama calò.
Sollevandosi dal caos insanguinato che aveva creato, Mia udì un gemito
e guardò verso il punto dove Osrik stava cercando di alzarsi dal pavimento.
Dirigendosi verso il ragazzo vaaniano, gli assestò un calcio alla testa,
facendolo crollare di nuovo contro il pavimento. Inginocchiandosi accanto a
Marielle, Mia controllò che la Tessitrice stesse ancora respirando, poi le
coprì la pelle torturata con i resti sbrindellati della sua veste. Quindi si
accovacciò accanto alla testa di Adonai, parlando con cautela.
«Oratore, sono Mia. Ora vi slegherò. Vostra sorella è viva e sta bene.
Qualunque cosa possiate vedere, ho bisogno che non uccidiate nessuno per
un minuto o due, d’accordo?»
Adonai grugnì in risposta e annuì. Mia tagliò i suoi legacci, poi gli tolse
bavaglio e benda. L’Oratore fu in piedi in un lampo, il volto contorto e le
mani sollevate. Viticci di sangue si levarono dalla pozza, contorcendosi
come serpenti e appuntiti come lance. Gli occhi dell’albino caddero sulla
sorella e sul ragazzo accanto a lei che aveva minacciato la sua vita…
Osrik stava riprovando ad alzarsi, grugnendo e tenendosi la mascella.
Adonai sollevò le braccia sopra la testa, le dita incurvate come un
burattinaio sopra una marionetta. Spire sanguinose si sollevarono sferzando
dalla pozza, afferrando Osrik per i polsi e per i piedi, poi trascinandolo
lungo il pavimento e dentro il sangue.
«Vi ho detto di non ucciderlo!»
Mia prese l’Oratore per il braccio e lo fece voltare per guardarla.
Agitando le dita, l’Oratore avvolse un’altra frusta di sangue attorno alla
gola di Mia e la sollevò dal terreno. La ragazza rantolò soffocando, le
gambe che scalciavano l’aria. Una dozzina di ombre attorno alla stanza
ghermirono gli arti di Adonai, le loro estremità appuntite come aghi che
tremolavano soltanto a un pollice o due dai suoi occhi.
«Lasciatemi andare» gracidò Mia. «Ho appena salvato la vostra vita e
quella di vostra sorella. Siamo dalla stessa dannata parte. E ci serve Osrik
vivo per scoprire cosa sta succedendo di sopra.»
«Non è ovvio?» ringhiò Adonai. «I Luminatii sono giunti per lord
Cassius. Che altro necessitiamo sapere?»
«Lasciami. Andare. Stronzo.»
Adonai ghignò, ma la stretta sulla sua gola si allentò e il viticcio la posò
delicatamente sulla pietra prima di scivolare di nuovo nella pozza.
L’Oratore agitò una mano e Osrik riemerse, il respiro affannoso, sangue che
gorgogliava sulle sua labbra quando sussurrò:
«Mia, per favore…»
prima di essere strattonato nuovamente sotto la superficie.
«Adonai, tu e Marielle dovete andarvene da qui.»
«E dove mai andremo?» sbraitò lui. «Un traditore è emerso in mezzo a
noi. È probabile che i Luminatii siano al corrente di qualunque Cappella da
quivi a Godsgrave, oramai.»
«Questo non significa che le stiano assalendo tutte. Probabilmente non
l’hanno fatto per non scoprire il loro gioco. Lord Cassius è il trofeo, e non
possiamo permettere che lo riportino a Godsgrave. Se ve ne andrete,
avranno solo una strada per tornare alla civiltà.»
«Le Frusciaride» disse Adonai.
«Esattamente. Perciò smettetela di cazzeggiare e andatevene da qui.»
«E tu cosa farai, piccola tenebris? Debellerai un esercito tutto da sola?»
«Questo è un mio problema, giusto?»
«… un nostro problema…»
Gli occhi di Adonai non lasciarono mai quelli di Mia. La sua voce era
fredda e dura come pietra.
«Questo infame ha minacciato la mia amata sorella, sorella mia, piccola
tenebris. Se fossi in te e abbisognassi del suo sapere, sulla mia vita, gli
porrei le mie domande celermente.»
Adonai agitò pigramente la mano. Osrik riaffiorò dalla pozza di sangue,
tossendo e gorgogliando, a malapena cosciente.
«Osrik, riesci a sentirmi?»
«Mia, per pia…»
«Chiudi il becco, pezzo di merda» ringhiò lei. «Hai solo una possibilità
di vivere, e consiste nel dirmi quello che voglio sapere, capito?»
«Io…» sputacchiò il ragazzo, tra conati e colpi di tosse. «Sì.»
«Avete avvelenato il banchetto dell’iniziazione. Cassius, il Culto e gli
iniziati?»
Il ragazzo annuì, i capelli che gli colavano sangue sugli occhi. «Sì.»
«Nessuno di loro è morto?»
«N-no. Abbiamo usato una specie di Deliquio. Abbiamo fatto preparare
a Carlotta una dose particolare che avrebbe agito più rapidamente del
normale. Remus voleva il Culto vivo per i-interrogarli.»
«E Tric? Lui avrebbe fiutato il Deliquio nel pasto a un miglio di
distanza. Come avete impedito che lo notasse?»
Osrik non disse nulla. Le labbra si muovevano in silenzio.
«… Osrik?»
«Ashlinn, lei…»
Allora Mia lo seppe. Lo udì nella sua voce. Le crollò lo stomaco fino ai
piedi. Ricordò il modo in cui si era sentita nelle sue braccia. Il modo in cui
lui l’aveva baciata.
Lei non lo aveva amato, ma…
No.
Lei non lo aveva amato.
Mia aprì gli occhi. Guardò Adonai. Respirò a fondo.
«È tutto ciò che mi occorreva sapere.»
«Mia, n…»
Il lamento di Osrik fu inghiottito dalla pozza, e il ragazzo fu strattonato
giù verso il suo destino.
«… mia, dobbiamo muoverci…»
Mia annuì al non-gatto e si concesse un momento per radunare i pensieri.
«Adonai, dovete andarvene da qui. Ora.»
L’Oratore la fissò per un lungo momento, il debole sciabordio della sua
pozza come unico suono. Ma alla fine si portò una mano al collo, prese una
fiala d’argento su una cordicella di cuoio e la strappò. Mia la riconobbe: era
identica a quella che Naev aveva indossato nel deserto. Come quelle che
riempivano le nicchie nelle stanze della Reverenda madre.
«La mia vitae» disse Adonai. «Se non dovessi trionfare, spandila sul
pavimento, scrivi come se il vermiglio fosse una tavoletta e il tuo dito il
pennello. Io lo saprò.»
Mia riannodò la fiala attorno al collo, poi si tolse del sangue che si stava
coagulando sulle ciglia. Poteva sentirlo seccarsi sulla pelle, creparsi sulle
labbra mentre parlava.
«Andate.»
Adonai prese sua sorella tra le braccia, scese per i gradini di marmo ed
entrò nel flusso vorticoso. Il sangue parve attaccarsi a lui mentre
camminava, minuscoli viticci che si levavano dalla superficie e lo
accarezzavano al suo passaggio. Si voltò verso Mia e annuì una volta.
«Che la fortuna ti arrida, piccola tenebris. Ne abbisognerai.»
«Quando si sveglierà, dite a Marielle cos’è successo qui. Ditele che è in
debito con me.»
Adonai scosse il capo e sorrise. «I morti non hanno debiti.»
Poi parlò rapidamente, canticchiando note discordanti alla pozza, come
un padre con un infante addormentato. Il sangue cantò in risposta e, con un
afflusso di piena dall’odore di ferro, i due scomparvero sotto quell’onda
lunga. La superficie rimase immobile come una gora. Nemmeno
un’increspatura contrassegnava il loro passaggio.
Mia si strizzò i capelli. Rovesciò gli stivali per svuotarli del sangue
meglio che poteva, poi nascose la lama seghettata di Osrik contro lo stinco.
Messer Cortese la osservò per tutto il tempo, immobile e silenzioso. Alla
fine sussurrò.
«… mi dispiace per tric…»
«Non hai nulla di cui dispiacerti.»
«… provavi quello che provavi, mia. non c’è bisogno di negarlo…»
«Non lo sto negando.»
Una pausa, piena di un sospiro silenzioso.
«… non c’è nemmeno bisogno di mentire…»

Il coro era silenzioso.


Fu la prima cosa che Mia notò quando uscì di soppiatto dalle camere
dell’Oratore, nel buio della Montagna. La melodia spettrale che l’aveva
accompagnata in ogni momento dentro queste sale era svanita. Per questo i
suoi passi parevano ancora più forti e il suo respiro le strideva nelle
orecchie. Le sembrava sbagliato. Come una scheggia sotto la pelle. Un
silenzio così fragoroso da essere assordante.
All’altra estremità del piano, due Luminatii erano posizionati presso le
scale che portavano di sopra. Ma i loro occhi erano fissi verso l’alto,
naturalmente, in attesa che il loro tribuno e i suoi uomini tornassero. Mia si
mosse furtiva verso di loro, tanto silenziosa che Mercurio e Mouser
sarebbero stati raggianti per l’orgoglio. Fu meno di un sussurro mentre si
sollevava dietro di loro. Poco più di una forma sfocata quando la sua lama
di necrosso tagliò la gola di un uomo da un orecchio all’altro, poi perforò il
cuore del secondo quando si voltò per guardar cadere il suo commilitone.
Il soldato barcollò e crollò all’indietro contro le scale, la mano sul petto.
I suoi occhi scrutarono l’oscurità in cerca di che cosa l’avesse ucciso.
Allora lei gettò da parte il suo manto, solo per consentirgli di vedere.
Vedere la ragazzina pallida impregnata di rosso e nero, la maschera di
sangue secco, gli occhi dentro di essa. Vedere l’ombra di un ragazzo morto
nelle sue pupille mentre lei allungava una mano per coprirgli la bocca,
tagliandogli la gola mentre sussurrava.
«Ascoltami, Niah. Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo banchetto.
Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio dono per te.
Tienilo stretto.»
Il non-gatto ai suoi piedi si gonfiò e si increspò, bevendo a fondo il
terrore del soldato. E tutt’attorno a lei, Mia riuscì a percepirla. La tenebra.
Che sussurrava. Che la spronava ad andare avanti.
Era compiaciuta.
Mia aprì le braccia e impose alle ombre di alzarsi, avvolgere i corpi e
trascinarli nell’oscurità. Desiderò quasi poter rimanere per vedere i loro
commilitoni tornare e trovare solo macchie di sangue come segno del loro
trapasso. Osservare come i primi semi della paura attecchivano, e come
questi uomini si rendessero conto di quanto si trovavano lontano da casa.
Che la tenebra attorno a loro non era solo adirata. Era affamata.
Scattò su per le scale e in cima incontrò altri due soldati, a cui donò la
stessa fine di quelli da basso. Sembravano così piccoli, qui nel ventre della
Montagna. Senza le loro solilame, le cotte bianche e i mantelli come fiumi
cremisi. Solo uomini minuscoli, la cui fede nel Semprevigile non era
sufficiente a proteggerli dalla sua sposa. Da colei che la dea aveva
marchiato. Colei che aveva prescelto qui, nella sua casa. Il suo altare. Il suo
tempio.
Mia era quasi arrivata alla Sala degli Elogi quando la individuarono.
Mentre uccideva in silenzio due legionari, non si accorse di altri due che
arrivavano da sopra. Udì ruggiti di allarme e si voltò in tempo per vedere i
Luminatii accorrere verso di lei. Scivolò in basso e ne tagliò uno dal
ginocchio alle parti intime, tranciandogli l’arteria femorale e lasciandolo sul
pavimento a dissanguarsi. Il secondo la centrò sulla tempia col suo randello
e lei barcollò, poi gli avvolse i piedi nell’oscurità e scivolò dietro di lui,
conficcandogli la lama mezza dozzina di volte nella schiena. Ma ora udiva
altre urla, altri piedi in corsa.
Mezza dozzina di Luminatii si stavano precipitando giù dalle scale verso
di lei. Tra loro c’era Alberius, il capo della centuria in persona. Avrebbe
potuto gettarsi addosso il suo manto d’ombra e forse superarli non vista. Ma
il pensiero del tradimento di Ashlinn, di quello che aveva fatto a Tric, di
questi bastardi che avevano invaso il luogo che era arrivata a considerare
come casa… tutto ciò le bruciava nel petto con un’intensità tale che quasi la
spaventava.
Basta correre. Basta nascondersi.
«D’accordo, bastardi» sussurrò. «Seguitemi.»
I legionari la videro e lanciarono grida d’avvertimento. Lei estrasse il
pugnale di necrosso. La lama di Osrik era nella mano secondaria. Il sangue
secco sulle sue labbra si incrinò quando Mia ringhiò, le ombre attorno a lei
si contorsero mentre la ragazza correva su per le scale per andare loro
incontro. Alberius e il legionario accanto a lui erano entrambi larghi come
case, randelli e scudi alzati. Il centurione la guardò a occhi stretti
nell’oscurità, poi vide che impugnava la lama che gli aveva portato via
l’occhio. Finalmente sul suo volto impallidito mostrò di riconoscerla.
«Tu…» mormorò.
Il centurione si toccò la fronte con tre dita, poi le indirizzò verso Mia.
«Luminus Invicta!» ruggì.
Mia urlò senza parlare, il suo cuore che cantava mentre sollevava le
lame. I Luminatii ruggirono in risposta, precipitandosi giù dalle scale verso
quel demone striato di sangue e sollevando i randelli, ma strabuzzarono gli
occhi quando la ragazza entrò

nell’ombra

ai suoi piedi

e uscì dalle ombre dietro di loro

e continuò a correre.
I Luminatii slittarono fino a fermarsi e il soldato più arretrato la guardò
scomparire su per le scale. Alberius urlò e l’inseguimento ebbe inizio, lungo
i corridoi più ampi e dentro la Montagna vera e propria. Mia vide altri
quattro Luminatii più avanti, che scattavano verso di lei. Aumentò
l’andatura, le lame che scintillavano. E proprio quando l’ebbero raggiunta,
mostrando i denti e alzando i randelli, di nuovo lei saltò

attraverso le ombre

e uscì dal buio alle loro spalle.

Quelli si voltarono e la guardarono stupefatti mentre Mia si piegava in


due, facendo una pausa per riprendere fiato. Le grida furiose di Alberius
risuonavano in lontananza. Raddrizzandosi, Mia fece il gesto delle nocche,
soffiò loro un bacio e riprese a correre.
C’erano trenta uomini che la inseguivano quando arrivò. Altre urla
riecheggiavano per la montagna, il suono di altri piedi in avvicinamento.
Mia si guardò alle spalle e vide furia e omicidio nei loro occhi, poi si fermò
davanti a un’enorme coppia di porte, si intrufolò dentro e le sigillò dietro di
sé, si voltò e corse.
Nel buio dell’Ateneo.
I Luminatii irruppero nella stanza, spalancando i battenti che colpirono il
carrellino di legno con scritto RESI piazzato – in modo piuttosto incauto,
all’apparenza – proprio sul percorso della porta.
Il carrello si rovesciò e sbatté contro la pietra, sparpagliando in giro
dozzine di tomi. Un Alberius rosso in viso fece irruzione nella stanza e
scostò il carrello con un calcio: altri libri furono lanciati per il piano
ammezzato mentre i suoi soldati si aprivano a ventaglio attorno a lui.
Esaminò l’oscurità con un cipiglio nero in viso.
E da qualche parte in quella foresta di pagine e scaffali,
giunse un rombante,
raggelante
ruggito.
«… Nel nome del Semprevigile, cos’era quello?» chiese un soldato.
«Sparpagliatevi!» ordinò il centurione. «Trovate quella cagna eretica e
sbudellatela!»
Ventinove saluti risuonarono contro ventinove petti. I Luminatii scesero
le scale tra gli scaffali, le armi alzate. Senza parlare, si divisero in piccole
colonne di sei uomini l’una e si sparpagliarono, passando in rassegna
corridoio dopo corridoio. Alberius guidò un gruppo dei suoi uomini
migliori, perlustrando a occhi stretti ogni angolo e anfratto. Aveva dovuto
convivere sei anni con quella menzogna. Illuminotti insonni passate a
preoccuparsi se l’indomani sarebbe stato il cambio in cui Scaeva avrebbe
scoperto che la figlia di Corvere era ancora viva. E adesso aveva non solo
l’opportunità di vendicare la perdita del suo occhio, ma anche quella di
mettere a tacere qualunque timore che il suo fallimento venisse alla luce.
Si domandò se ritenersi fortunato per quello.
Nel buio risuonò un altro ruggito.
Ora più vicino.
«Centurione?» chiese uno dei suoi uomini. «Cos’è quello?»
Alberius si fermò, scrutando l’oscurità. Alzò la voce per farsi sentire
oltre gli scaffali.
«Graccus? Belcino? Rapporto!»
«Nessun segno, signore!»
«Nulla, signore!»
Un altro ruggito. Il suono di qualcosa di pesante che si avvicinava.
Ancora di più.
Il buon centurione ora sembrava turbato. Forse qualche ripensamento
stava avendo la meglio sul suo fervore iniziale. E proprio mentre apriva la
bocca per parlare, udì dei passi lievi, l’incresparsi di una brezza, un urlo di
dolore. Si voltò e vide uno dei suoi legionari che si teneva una ferita da
coltello alla schiena, e una ragazza minuta dai capelli scuri che lo fissava da
una maschera di sangue secco.
«Buon cambio, centurione» disse lei.
«Lei è qui!» urlò Alberius.
La ragazza sorrise, lanciandogli qualcosa verso il petto, con un gesto
gentile. «Un dono per te.»
Il centurione alzò lo scudo, sbattendo via l’oggetto in volo. Si rese conto
che era solo un vecchio libro polveroso rilegato in cuoio; la rilegatura si
ruppe e dozzine di pagine si sparpagliarono. Il tomo slittò sul pavimento,
perdendo altri fogli.
«… non è stato saggio…» giunse un sussurro.
«Uccidete quella fottu…»
Qualcosa emerse oltre la sommità degli scaffali. Qualcosa di enorme,
multicefalo e mostruoso, tutto musi arrotondati, pelle coriacea e palati
ricoperti da numerosissimi denti. I Luminatii urlarono – bisognava
riconoscere che non fu un grido allarmato, ma di avvertimento – e
sollevarono i loro piccoli scudi e i loro stuzzicadenti, gridando ai compagni
negli altri corridoi. Poi il Qualcosa colpì, divorando il centurione Alberius
con i suoi mille denti e scuotendolo come avrebbe fatto un cane con un
misero e sanguinolento osso.
I soldati arrivarono di corsa, poi fuggirono urlando. Altri Qualcosa si
sollevarono sopra gli scaffali, enormi e ciechi, schioccando le fauci,
ruggendo e facendo a pezzi quegli omiciattoli, senza mai disturbare una
singola pagina su un singolo scaffale.
Tornata sul mezzanino, Mia uscì dalle ombre della balaustra. Si accostò
a un vecchio con la schiena curva come un punto interrogativo, poi si
sporse contro la ringhiera a osservare lo spettacolo.
«Una ragazza con una storia da raccontare» sorrise Aelius.
«Così dicono.»
«Paglia?»
«Forse dopo.»
E se ne andò.
CAPITOLO 34
INSEGUIMENTO

Mia si introdusse nell’Aula di Verità e la trovò vuota, una debole luce che
scintillava su pareti di vetro verde. Ma dopo aver cautamente scassinato la
serratura e aver frugato nella scrivania di Ammazzaragni, li trovò: i tre
sacchetti di mutavitrum. Gran parte dei globi di onice erano stati usati, ma i
borselli che contenevano il mutavitrum di perla e rubino erano quasi pieni.
Due involti colmi di Deliquio e del fuoco arkemico di Ammazzaragni.
“Basterà.”
Poi si diresse all’Aula di Canti, fermandosi solo per uccidere
silenziosamente altri due Luminatii che trovò nella Sala degli Elogi.
Schizzò oltre le tombe senza nome, cercando di non immaginare Tric steso
in una di quelle. Trasformò in rabbia la tristezza che aveva nel petto. A
metà delle scale, trovò i corpi di Mani uccise, a pugni e a randellate. Vicino
alla cima, trovò un’altra dozzina di cadaveri, tra cui Marcellus e Petrus, gli
occhi spalancati che non vedevano più nulla.
Non c’era tempo di pregare.
Non c’era tempo di curarsene.
Scattò dentro l’aula di Solis e si gettò un pesante farsetto di cuoio da
addestramento sulla camicia intrisa di sangue. Passò in rassegna le
rastrelliere e si riempì gli stivali di pugnali, poi si assicurò un ottimo gladio
affilato alla cintura e si infilò una bandoliera di coltelli da lancio attorno al
petto e una balestra con faretra sulla schiena.
«Denti della Mannaia…»
Si girò a quel sussurro sollevando la balestra, le ombre attorno a lei che
si allargavano. Lì, in cima alle scale, scorse delle figure abbigliate di nero,
appena una mezza dozzina in totale. Tra loro intravide capelli a caschetto
rossi, un viso grazioso e occhi verdi da cacciatrice.
«… Jessamine?»
«Corvere» sibilò la ragazza. «Nel nome della Madre, cosa ci fai qui?»
Una figura velata si fece largo tra il gruppo, un sorriso negli occhi.
«Naev è lieta di vederla» disse.
«Dea, stai bene!»
Mia attraversò di corsa la stanza e gettò le braccia attorno alla donna. Ma
Naev sussultò e la spinse via con un gemito. Guardandosi attorno, Mia notò
che molti del gruppo erano feriti: Jessamine sanguinava copiosamente da
una lacerazione sopra l’occhio e aveva il braccio immobilizzato in una
tracolla improvvisata, mentre altri si tenevano costole o polsi rotti. Ora
Naev stava respirando a fatica, stringendosi il fianco.
«Cos’è successo? State bene?»
«Quei bastardi ci sono arrivati addosso come una piena.» Jessamine
trasalì, pulendosi il sangue dagli occhi. «Nessun preavviso. Hanno
ammazzato ogni Mano e accolito che riuscivano a trovare. Come ’bisso
sono riusciti a entrare? Dov’è il Culto?»
«Probabilmente in catene, a quest’ora» disse Mia. «Ashlinn e Osrik ci
hanno traditi. Hanno avvelenato il banchetto dell’iniziazione. Hanno ucciso
Tr…»
Mia si rimangiò le parole. Scosse il capo.
«Ashlinn?» mormorò Jessamine. «Osrik? Ma sono discepoli di sangue.»
«Per vendicare loro padre.» Mia scosse il capo. «Non ha importanza. Il
tribuno Remus è qui con due centurie di uomini. Hanno catturato lord
Cassius e il Culto. Intendono riportarli a ’Grave per torturarli e giustiziarli.»
«Allora sono degli sciocchi a sfidare i discepoli di Niah nella sua casa.»
Naev si voltò verso le altre Mani. «Radunate le armi. Lame e archi.»
«Vuoi che combatta al suo fianco?» Jessamine guardò torvo Mia. «Dopo
che ha ucciso Diamo? Non ci sperare.»
«Dobbiamo stare uniti, in questo.»
«Io non devo stare da nessuna parte vicino a questa puttana.»
«Non abbiamo tempo per le nostre stronzate, Jess» disse Mia. «Qui
stiamo parlando del tribuno Marcus Remus. Ha contribuito a porre fine alla
Ribellione degli Incoronatori. Probabilmente ha calpestato il cranio di tuo
padre ogni cambio per sei anni entrando nella Casa del Senato. Tutta la
merda che mi hai tirato addosso? Tutto l’odio? Questo è l’uomo che se li
merita davvero.»
La ragazza scrutò Mia negli occhi; nei suoi, era evidente il ricordo di
Diamo. Secondi che non avevano scorsero nella clessidra. L’odio per Mia
lottava con l’odio per coloro che avevano distrutto la sua familia. Ma la
verità era che lei e Jess in realtà erano fatte della stessa pasta. Entrambe
orfane della Ribellione degli Incoronatori. Entrambe derubate della loro
familia. Tenute assieme dal genere di legame che solo l’odio può forgiare.
In definitiva, la scelta era una sola.
«Allora cos’hai intenzione di fare?»
«Adonai se n’è andato.» Mia vide Naev irrigidirsi a quelle parole e mise
una mano rassicurante sul braccio della sua amica. «Ha preso Marielle.
Sono al sicuro. Ma senza accesso al Cammino del Sangue, Remus è tagliato
fuori. Ha un solo modo per tornare a Godsgrave.»
«Le Frusciaride» disse Naev.
Mia annuì. «Oramai devono sapere che il Cammino del Sangue non è
più praticabile. Ma Ashlinn è con loro. Può portarli alle stalle. Saranno
diretti lì, per condurre uno dei nostri convogli di cammelli fino a Ultima
Spes.»
«Allora li colpiremo nelle stalle» disse Jessamine. «Li fermeremo lì.»
«Lo spazio è ristretto» concordò Naev. «La loro superiorità numerica
conterà di meno.»
«Siete feriti» disse Mia. «Tutti quanti. Lì dentro sarà un mattatoio e non
voglio…»
«Ricordami quando ha cominciato a fregarmene un cazzo di quello che
vuoi, Corvere» sbottò Jessamine. «Tu puoi credere di essere il regalo della
Madre al mondo, ma non sei la metà della spadaccina che ti ritieni. Se vuoi
una possibilità di eliminare questi bastardi, avrai bisogno del nostro aiuto.»
Mia guardò verso Naev, ma trovò occhi duri e freddi.
«Lei dice il vero.»
«D’accordo» sospirò Mia. «Hai ragione.»
Le Mani si armarono fino ai denti, si coprirono le vesti con farsetti di
cuoio e impugnarono balestre, spade e coltelli. Mia distribuì il mutavitrum
fra tutti loro, tenendo una bella manciata di quello rubino e perla per sé.
Non aveva idea di come avrebbero portato a termine questa missione. Non
sapeva se qualcuno di loro sarebbe sopravvissuto per vedere l’indomani.
Non c’era tempo.
Nessuna possibilità.
Nessuna paura.
Guardò i discepoli attorno a lei. Annuì una volta.
«Andiamo.»

Pareva che il tribuno Remus non fosse tipo da essere ingannato due volte.
Aveva lasciato la schiena scoperta mentre assaliva la Montagna e la sua
presunzione era stata ripagata con il massacro della sua retroguardia e la
perdita dell’Oratore. Ora che la sua via di fuga era stata compromessa, il
tribuno si era diretto verso le stalle, proprio come previsto da Mia. Ma
bisognava riconoscergli che sembrava aver imparato dagli errori passati.
Purtroppo per lui, il tribuno non aveva messo in conto Messer Cortese.
Il non-gatto scese le scale precedendo Mia e i suoi compagni, scivolando
nella Sala degli Elogi e percependo immediatamente il tremito della paura
nell’aria. Notò le figure nascoste, appostate in nicchie o in agguato nelle
anticamere. Sulle loro labbra c’erano preghiere sussurrate al Semprevigile.
Corse di nuovo su per le scale e prese forma sulla spalla di Mia,
bisbigliandole all’orecchio.
«Ci sono legionari nella Sala degli Elogi» ripeté Mia. «Quasi quaranta.»
«Quaranta» sussurrò Naev, guardando la loro misera mezza dozzina.
Mia tirò fuori una manciata di mutavitrum bianco dal borsello alla
cintura e sorrise.
«Credo di poter pareggiare i conti. Non appena sentite il trambusto,
venite di corsa.»
La ragazza si avvolse nel suo manto d’ombra e si accorse che Jessamine
e le altre Mani sobbalzarono per lo stupore quando scomparve alla vista. Il
mondo piombò in un’oscurità quasi completa sotto il velo e lei dovette
procedere lungo la scale a tentoni. Ma presto toccò un’arcata e percepì
l’ampio spazio della sala che si trovava oltre. I nomi dei morti sul
pavimento. Le tombe senza alcun segno alle pareti. Riusciva a vedere la
sagoma vaga della statua di Niah che torreggiava, stagliata contro la luce
sfocata dei vetri colorati.
Procedendo lentamente, quasi cieca, si accovacciò dietro un pilastro lì
vicino. Gettò via il suo manto per un tempo sufficiente a dare una bella
occhiata intorno a sé, poi entrò nelle ombre ai suoi piedi e riapparve a
quaranta piedi da terra, rannicchiata nelle ombre profonde del cappuccio
ripiegato di Niah.
Uno dei Luminatii vide del movimento in alto e urlò un avvertimento.
Ma ormai Mia stava già facendo piovere mutavitrum dalla sua posizione, e
dense nubi di Deliquio esplosero per la sala. Almeno una dozzina di uomini
crollò dopo averlo inalato, mentre altri fuggirono dai loro anfratti per
cercare un riparo migliore.
Mentre i Luminatii uscivano dalla copertura, Naev, Jessamine e le altre
Mani corsero nella stanza, nere, rapide e mortalmente silenziose. I soldati
non si accorsero nemmeno che stavano affrontando più di un aggressore
finché altri cinque di loro non furono morti. I discepoli si gettarono sugli
invasori con una furia che li lasciò impressionati: le lame di Jessamine
erano un turbine, Naev combatteva come un demone malgrado le sue
costole rotte. Forse era la rabbia per la violazione della loro casa. Forse era
la presenza della dea, spada e bilancia sospese sopra di loro, quei freddi
occhi di pietra che seguivano il massacro. Ma entro pochi istanti
l’imboscata dei Luminatii si era trasformata in una carneficina, e il nero si
tinse di rosso per il sangue dei fedeli di Aa.
Mia si mise in piedi sul suo trespolo, balestra in mano, centrando quelli
che fuggivano ed eliminando chiunque provasse a colpire un discepolo alle
spalle. Dieci quadrelli più tardi, estrasse le sue lame e uscì dall’ombra della
statua quaranta piedi più in basso, conficcando un pugnale nella schiena di
un povero sciocco e abbattendone un altro con una manciata di coltelli da
lancio. Combattendo schiena contro schiena con Naev, crearono un muro di
acciaio letale: il canto delle loro lame riempiva lo spazio vuoto lasciato dal
coro della Madre e le urla degli uccisi riecheggiarono nel buio anche dopo
che l’ultimo uomo era caduto.
Naev barcollò, tenendosi le costole e ansimando. Jessamine era ricoperta
di sangue e senza fiato. Altre due Mani – un ragazzo di nome Pietro, non
molto più grande di Mia, e un uomo più vecchio chiamato Neraius – erano
caduti sotto i colpi dei Luminatii.
«… mia…»
La ragazza era in piedi sopra il corpo di Pietro, il capo chino.
Fissava i suoi occhi privi di vista.
«… mia, sono alle stalle…»
Lei rimase ferma lì, nella penombra silenziosa. Cercando di non
ricordare.
Provando e fallendo.
«Era solo un ragazzo, Messer Cortese.»
Scosse il capo.
«Solo un ragazzo.»
«… non è questo il momento di piangere, mia. questo ragazzo o
chiunque altro…»
La ragazza allora lo guardò, la sofferenza che scintillava nei suoi occhi.
«… vendicali invece…»
Mia annuì lentamente.
Pulì il sangue sulle sue lame.
E si rimise a correre.

Le stalle erano un brulicare di uomini, animali e polvere. La puzza di


sudore, sangue e merda, lo sbraitare di centurioni, i mormorii squillanti di
cammelli agitati e, sopra tutto quanto, il tribuno Remus. Che urlava.
Mia aveva nascosto un’altra persona sotto il suo manto solo in un’altra
occasione, ma Tric era stato un gigante, mentre Naev e Jessamine erano
ciascuna la metà rispetto a lui. Perciò, lasciando indietro le altri Mani ferite,
le tre erano scese di soppiatto lungo le scale fino ad arrivare alle stalle.
Guardando tra la calca, Jessamine sospirò.
«’Bisso e sangue, siamo arrivate troppo tardi.»
I Luminatii erano già riusciti ad aprire le mura della Montagna: luce
abbagliante e dita di sabbia soffiavano all’interno dalle Frusciaride. I soldati
avevano agganciato due convogli di carri a file di cammelli e li stavano
guidando fuori tra le colline pedemontane; altri Luminatii stavano sellando
singoli animali per trascinarli fuori. Molti dei soldati non avevano mai
posato gli occhi su un cammello prima d’ora, e quel procedimento stava
richiedendo più tempo del dovuto, da cui le urla del suddetto tribuno.
Tuttavia, entro pochi istanti i Luminatii sarebbero fuggiti.
Mia riuscì a vedere sette figure legate con dei sacchi sulla testa che
venivano caricate nel carro più avanti. Perfino con le facce nascoste, li
riconobbe immediatamente. Il Culto, un ragazzo snello che doveva essere
Zitto, e infine una figura racchiusa in un bozzolo di corda e manette,
trasportata da uno dei Luminatii più grossi che Mia avesse mai visto.
«Lord Cassius» mormorò.
«Madre Nera» sibilò Jessamine. «Hanno ucciso gli altri cammelli.»
Mia guardò nei recinti e vide che Jessamine aveva ragione; qualunque
animale non fosse attualmente agganciato a un convoglio o stesse per essere
sellato da un soldato era stato ucciso. Imprecò piano, guardando in
direzione delle alture ai piedi della Montagna.
«Naev, la prima volta che siamo arrivati qui, c’era una specie di magika
sulla Montagna. Una confusione, una sorta di…»
«La Discordia» disse Naev.
«Sì, proprio quella. Avrà effica…»
«No» sospirò la donna. «Colpisce solo coloro che cercano di entrare
nella Montagna senza essere invitati. Questi uomini cercano di lasciarla. La
Discordia non li influenzerà.»
«Merda» sibilò Mia. «Come li inseguiamo?»
«Facci intrufolare nei convogli con i tuoi venefici delle ombre» disse
Jessamine.
«Sono già usciti. I miei poteri sono intensi all’interno della Montagna
perché la soliluce non ha mai toccato queste sale. Ma là fuori… non credo
di essere abbastanza forte per nasconderci tutte. Se ci avvistano, saremo
morte quanto quei cammelli non necessari. Inoltre i carri sono pieni. Non
c’è comunque abbastanza spazio per nasconderci lì dentro.»
Mia aveva detto il vero: anche se il loro numero era stato sfoltito nella
biblioteca e nella Sala degli Elogi, c’erano oltre cento Luminatii ancora vivi
e solo sei carri. Tra i loro compagni e le provviste necessarie per
sopravvivere a un viaggio lungo settimane fino a Ultima Spes, gli uomini di
Remus erano ammassati assieme come strisce di maiale salato in un barile.
«Cazzo» sospirò Jessamine.
«Già» concordò Mia. «Cazzo è la parola giusta.»
I Luminatii stavano trascinando gli ultimi cammelli ancora vivi tra le
colline e stavano salendo in groppa. Remus era già a bordo del primo
convoglio e, tra la polvere che si sollevava, Mia vide Ashlinn che, furiosa e
con gli occhi rossi, in piedi su un carro, osservava l’ingresso della
Montagna. Quella mezza dozzina di soldati a cui Mia aveva tagliato i
tendini nella camera di Adonai dovevano aver fatto capire alla ragazza
cos’era successo a suo fratello. Ashlinn sapeva che Osrik era morto. E
sapeva anche che la responsabile era Mia.
La ragazza ringhiò qualcosa a Remus, ma lui in tutta risposta le sbraitò
contro. Per quanto lei avesse contribuito a smantellare la Chiesa, pareva che
il tribuno dei Luminatii non fosse dell’umore adatto per subire una
ramanzina da un’eretica diciassettenne.
“Lieta di essere la tua spina nel fianco, puttana…”
Gli ultimi cammelli erano usciti. I carri venivano coperti, gli agganci
controllati. Naev borbottò una preghiera, pronta a caricare, ma Mia l’afferrò
per il braccio.
«Non puoi andare là fuori.»
«Non possiamo lasciarli scappare» sibilò la donna.
«Sono in troppi, Naev. Ci massacreranno prima che percorriamo dieci
piedi.»
«Non possiamo starcene qui e basta!» strepitò Jessamine.
Mia si morse il labbro. Fissò la distanza di cento iarde fino al carro più
arretrato.
«Posso farcela» disse Mia. «Non mi vedranno. Posso salire a bordo.»
«Per fare cosa? Eliminare cento Luminatii da sola?»
L’ombra di Mia si increspò. Un gelo fece rabbrividire l’aria.
«… lei non è mai sola…»
Mia abbassò lo sguardo sul non-gatto che stava scodinzolando. E lì nelle
ombre, accovacciato tra la polvere e il buio, l’enigma prese forma nella
mente di Mia. Il pezzo finale, l’ultimo pensiero, la risposta definitiva andò
al suo posto.
Clic.
«So come fermarli» mormorò. «Sei con me?»
Messer Cortese inclinò la testa con aria interrogativa.
«… sempre…»
Prima che Naev o Jessamine potessero parlare, Mia scattò via,
strappando le ombre e gettandosele attorno alle spalle, attraversando le
stalle e uscendo all’aria aperta. I convogli erano già in movimento,
facendole finire terra e sabbia nella bocca e negli occhi, e lei corse quasi
cieca, solo una macchia che si muoveva contro la nuvola di polvere.
Procedette nella luce fioca verso la sagoma indistinta dei Luminatii che si
trovavano sull’ultimo carro, traboccante di soldati bofonchianti e incrostati
di sangue. Muovendosi a tentoni, scivolò sotto il pianale, strisciando in
avanti per poi lanciarsi sull’assale anteriore e rimanere in attesa.
Il carro scricchiolava e sobbalzava per il pendio friabile mentre i
conducenti frustavano con forza i cammelli. Era evidente che Remus voleva
allontanarsi il più possibile dalla Montagna assieme al suo trofeo; il tribuno
poteva mostrarsi coraggioso quando uccideva gattini e gettava bambini nei
canali, ma pareva che, quando i suoi piani si sgretolavano
irrimediabilmente, al suo desiderio di battersi accadesse la stessa cosa.
O forse Scaeva voleva semplicemente lord Cassius più di quanto Mia
potesse immaginare.
La ragazza si aggrappò al ventre del carro come una sanguisuga. Per il
momento era al sicuro fuori vista, così gettò da parte il suo manto d’ombra
e si concentrò solo sul mantenere la stretta. Fu scossa e sbatacchiata, tra urti
e sobbalzi, con schiena e sedere che protestarono per tutto il tempo. La
polvere le incrostava la lingua, le seccava gli occhi e le faceva raggrumare
il sangue secco tra i capelli. Andò vicina a scivolare una mezza dozzina di
volte, ma chiuse gli occhi e pregò per avere la forza. La corsa parve andare
avanti per un’eternità.
A cinque o sei ore buone di distanza dalla Montagna, le colline
pedemontane cominciarono a digradare in una pianura e la corsa assomigliò
un po’ meno a una tortura. La sabbia divenne morbida e i conducenti ci
diedero sotto con le fruste. I cammelli passarono a un rapido galoppo, con i
carri che procedevano dietro di loro più velocemente possibile.
“Ora la vedremo…”
Anche se solo Saan era sospeso nel cielo, la luce era quasi abbagliante,
se paragonata al ventre della Montagna, e Mia sentiva che il suo potere era
flebile e sottile. Tuttavia, si protese verso il buio sul lato inferiore del carro,
se lo tirò di nuovo attorno alle spalle e lo tenne stretto. Chiamò le ombre più
forte che poteva, sperando che rispondesse qualcos’altro.
«… credo tu mi abbia chiesto di ricordarti di non chiamare mai più la
tenebra in questo deserto…»
«Ritengo che cambiare idea sia la prerogativa di una donna.»
Messer Cortese cercò di fare le fusa e la sua voce si increspò di
divertimento.
«… credo tu abbia ragione…»
Passò qualche altro minuto prima che lei udisse un grido d’allarme dal
carro più avanti. Rumore di passi sulle assi sopra di lei, voci di Luminatii.
«Claudius, l’hai visto?»
«Cos’è?»
«Ne vedo un altro! Altri due!»
«No, tre!»
Sotto il raggelante cigolio del legno, lo sbatacchiare delle ruote, le urla
da sopra, a Mia parve di udire un rombo distante. Un grido dal convoglio di
fronte.
«Kraken delle sabbie!»
La ragazza magra e incrostata di sangue si aggrappò al suo posatoio e
sorrise. Non si curò di guardare: anche se non fosse stata quasi cieca sotto il
suo manto, tra la polvere dalle ruote e la moltitudine di cavalieri, non
avrebbe avuto alcuna possibilità di vederli, per il momento. Ma ascoltando
attentamente, poteva sentirli, proprio come li aveva uditi il cambio in cui
aveva affrontato Naev su queste stesse sabbie. Il rimestare di corpi enormi
che si muovevano nelle profondità del deserto. I deboli echi di ruggiti
tonanti e lontani.
“Sono grossi.”
Stavano arrivando verso di loro.
Procedendo a tentoni, Mia strisciò lungo il ventre del carro, fino alle
travi a Y che tenevano attaccato il suo a quello davanti. Ora i conducenti
stavano facendo schioccare forte le loro fruste, cercando disperatamente di
seminare i colossi che avevano alle calcagna. Mia sapeva che Ashlinn
doveva conoscere gli orrori delle Frusciaride e come tenerli a bada, e infatti,
di lì a poco, le arrivò alle orecchie l’orrendo ritmo del cantaferro. I
Luminatii cominciarono a percuotere quei dannati tubi con quanta forza
avevano e Mia sussultò per il frastuono proprio sopra la sua testa. Non
aveva idea se quel rumore avesse realmente qualche effetto sui kraken più
grossi, ma quel musicista da strapazzo non voleva correre rischi. Quella
cacofonia faceva sanguinare le orecchie e Mia era già fuori di sé dalla
rabbia. Come a riecheggiare il suo umore, udì un altro orrendo verso
rombante.
Sempre più vicino.
«… li stai facendo arrabbiare parecchio…»
Mia sputò: aveva così tanta polvere in bocca da riuscire a stento a
parlare.
«Allora mi farò perdonare.»
«… e come, dimmi…?»
Un sorriso candido scintillò su un volto incrostato di sangue.
«Gli preparerò la cena.»
Scossa e sballottata mentre i carri rimbalzavano sulle sabbie, strisciò
fuori dall’assale e si mise sulla sbarra di aggancio. Attraverso l’oscurità che
velava i suoi occhi, riuscì a distinguere forme fioche nella polvere
mulinante. C’erano una quindicina di Luminatii che cavalcavano attorno ai
convogli. Forse venti soldati su ciascun carro, tutti in piedi a fissare dietro
di loro. Mia riusciva a sentire un brontolio nella terra, sempre più vicino.
«Un altro!» giunse l’urlo.
«A ovest! A ovest!»
«Luce di Aa, guardate quanto è grosso!»
Mia sogghignò tra sé, togliendosi la sabbia dagli occhi. Aveva sperato
che, così in profondità nel deserto, chiamare la tenebra potesse far venire
fuori a giocare alcuni tra i kraken più grossi. Ma da quello che sentiva,
aveva agganciato un paio di mostri veri e propri.
Alla vista del quarto ospite indesiderato, il Luminatii al cantaferro iniziò
a battere sui tubi come la porta di una latrina al vento. Mia imprecò di
nuovo e si coprì le orecchie. Quel frastuono non era solo irritante: era
dannatamente doloroso.
“Facciamo suonare la campana del mediopasto, invece.”
Balzò sull’aggancio del secondo carro, cercando di capire esattamente
come fossero collegati. Sporgendosi più vicino e stringendo gli occhi, notò
una sbarra di metallo infilata in un occhiello tondo, e fissata con una corda
spessa. Velocissima, Mia estrasse un coltello dallo stivale e cominciò a
segare, lanciando ogni tanto un’occhiata in alto verso i Luminatii sul carro
lì sopra.
Come ci si poteva aspettare, gli uomini erano focalizzati completamente
sulle mostruosità tentacolate intente a divorare le loro facce preferite:
nessuno notò la macchia tremolante appollaiata sulla sbarra dell’aggancio lì
sotto. Le funi erano dure, ma con tatto e olio di gomito, Mia riuscì ad
allentarle, lasciando solo il gancio e l’occhiello a collegare i carri.
“Un bello scossone…”
Scivolò sotto la sbarra e si trascinò lungo il ventre del carro centrale. Il
convoglio colpì una roccia nella sabbia e sobbalzò forte. Mia trattenne il
fiato, aspettando che l’accoppiamento saltasse. Ma sia la fortuna dei
Luminatii sia il gancio riuscirono a reggere, così, sputando una boccata di
terra rossa, Mia strisciò più avanti. Non riusciva a vedere quasi nulla, ma il
boato adesso era vicino. Sopra il fragore di ruote, zoccoli e cantaferro, udì
un pesante schiocco e si rese conto che i Luminatii stavano sparando al
kraken più vicino con le balestre ai lati del carro. A denti stretti, con le
unghie conficcate nel legno, strisciò su fino all’accoppiamento tra il primo
carro e quello centrale. Usando la sua lama come una sega, staccò le funi.
Le uniche cose a tenere assieme il convoglio adesso erano la fortuna e
alcuni pezzi di metallo logoro.
E la fortuna prima o poi si esaurisce sempre.
I carri deviarono a ovest, diretti verso il terreno più roccioso dove per i
kraken sarebbe stato difficile seguirli. Mia si aggrappò con tutta la forza che
aveva in corpo all’aggancio del carro di testa mentre il terreno diventava
più sconnesso; le ruote scrocchiavano e gli assali sfregavano mentre i
convogli rimbalzavano sopra buche e grumi di pietra. Sormontarono una
collinetta, i cammelli che schiumavano sotto le frustate del conducente. Il
convoglio si tuffò verso il basso e colpì una depressione profonda sull’altro
lato. Gli accoppiamenti gemettero. I soldati imprecarono. E in un turbinio di
polvere, ghiaia e ferro stridente, l’ultimo carro si staccò.
Quando il legno si ruppe, la sbarra d’aggancio si conficcò nel terreno e il
carro si ribaltò, restando dritto e in equilibrio sulla parte anteriore per pochi,
angosciosi secondi prima di capovolgersi del tutto. La ventina di uomini
all’interno fu scagliata in giro come giocattoli, urlando e precipitando uno
sopra l’altro, sbalzati via attraverso i teli strappati o schiacciati sotto casse
di provviste ruzzolate a terra. Il carro continuò il suo capitombolo, slittando
fino a fermarsi sul tettuccio, una rovina di schegge e legno rotto.
Urla di allarme si levarono dal carro centrale. Grida d’orrore quando
qualcosa di enorme si sollevò dalla sabbia vicino al relitto e si mise al
lavoro, spalancando le fauci e agitando i tentacoli. Uomini e cammelli
correvano o morivano, la sabbia già rossa lo diventava ancora di più,
mentre i loro compagni sul convoglio in fuga non potevano far altro che
osservare e pregare. Ma come capita con la malasorte, uno dei Luminatii
ebbe il buonsenso di domandarsi come si fosse staccato il carro posteriore,
si sporse oltre il pianale e vide che l’accoppiamento tra carro anteriore e
centrale era stato segato. Si accigliò, certo che dovesse trattarsi di uno
scherzo della luce, notando a occhi stretti la strana… macchia che pareva
appollaiata sopra l’aggancio. Si domandò cosa stava guardando per i pochi,
brevi secondi che occorsero alla macchia per alzarsi, sporgersi in avanti e
conficcargli uno stiletto di necrosso dritto nell’occhio.
L’uomo fu percorso da spasmi e crollò dal pianale a faccia avanti. I
Luminatii urlarono quando il corpo ruzzolò sotto il ventre del carro e fu
spappolato dalle ruote. Il carro centrale sobbalzò con forza mentre gli
uomini all’interno urlavano. Caddero uno sull’altro, spostando il centro di
gravità, e il carro sbandò di lato con uno schiocco netto di legno che si
spezzava prima di staccarsi dall’altro mezzo.
Polvere e uomini volavano. Assali e ossa si spezzavano. Mia allungò una
mano nella borsa che aveva alla cintura e tirò fuori una manciata di globi
rossi scintillanti. E mentre mezza dozzina di forme indistinte scrutava oltre
il pianale del carro per vedere cosa stesse succedendo all’aggancio nel
nome delle Figlie, lei li lanciò su, oltre il parapetto, facendoli finire nel
carro.
Boati scoppiettanti risuonarono per le Frusciaride, esplosioni che si
diffondevano all’interno del carro strappando la copertura e facendo a pezzi
gli uomini all’interno. Gettando da parte il suo manto d’ombra, Mia
volteggiò all’interno di quella carneficina.
Lame impugnate. Denti snudati. Si mosse tra uomini accecati e
barcollanti come un serpente nell’acqua. Acciaio lampeggiò, soldati
caddero, urlando e agitando i loro randelli verso la forma sfocata in mezzo a
loro: era una macchia sporca di sangue che si muoveva attraverso il fumo,
facendo guizzare lame affilatissime. Alcuni credettero che lei fosse una
cosa dell’Abisso, un qualche servitore demoniaco di Niah sguinzagliato al
loro inseguimento. Altri la scambiarono per un orrore delle Frusciaride, una
mostruosità generata da magika corrotta. Ma mentre zigzagava e
ondeggiava, tra sibili di lame e respiri, i più rapidi tra loro si resero conto
che non era un demone. Né un orrore. Ma una ragazza. Solo una ragazza. E
quel pensiero li terrorizzò più di qualunque demone od orrore a cui
sapessero dare un nome.
Lei poteva percepirli. Perfino quelli che non riusciva a vedere. Più
brillante è la luce, più cupa è l’ombra. E lei li avvertiva proprio come le
ombre dei fantocci di paglia nell’Aula di Canti. Attaccò con tutta l’abilità
che Naev le aveva donato, con tutta la furia di quella quattordicenne sui
gradini della Basilica Grande. Ora non c’erano cardinali né Trinità ardenti
ad aiutarli. Niente solacciaio che bruciava nelle loro mani o armature
bianche e lucidate sui loro petti. Solo cuoio sulla loro pelle e polvere nei
loro occhi, i cadaveri anneriti dei loro compagni sul pianale attorno a loro,
l’eco delle esplosioni a risuonargli nelle orecchie. E lei, armata di tutto
l’odio accumulato negli anni, figlia di genitori assassinati, sorella di un
fratello ucciso, marchiata da una madre ancora più cupa.
E uno a uno, tutti quanti, li diede in pasto alla Mannaia.
I cammelli che tiravano il carro continuavano a galoppare, tanto
terrorizzati dai kraken da proseguire la loro corsa anche senza un
conducente a frustarli. Una volta morti i suoi avversari all’interno del carro,
Mia si tolse la balestra dalla schiena. Si mise su un ginocchio e mirò
all’uomo più vicino in groppa a un cammello. Gli perforò il cuore con un
quadrello, ne caricò un altro e con esso trafisse la gola di un secondo.
Alcuni Luminatii virarono mettendosi fuori portata, ma bisognava dare atto
che molti di loro urlarono in segno di sfida e frustarono più forte i loro
animali, dirigendosi verso il carro e la ragazza all’interno. Erano uomini
della prima e della seconda centuria, dopotutto: le truppe migliori che
Godsgrave aveva da offrire. Non si sarebbero fatti battere da una piccola
eretica.
Ma la sua balestra cantava e il mutavitrum volava, e gli uomini
ruzzolavano giù di sella o venivano semplicemente sbalzati via. Un
gigantesco uomo brizzolato riuscì ad arrivare al parapetto del carro, ma un
coltello da lancio alla laringe lo zittì per sempre. Un altro balzò dal suo
cammello al retro del carro, ma mentre cercava faticosamente di salire, lei
gli ficcò un globo di mutavitrum di rubino in bocca e gli fece mollare la
presa con un calcio: l’esplosione che ne risultò spazzò via le zampe di un
altro cammello e fece volar via il suo cavaliere, malgrado la mancanza di
ali.
Esaminando il deserto, Mia notò che i kraken avevano desistito
dall’inseguimento: tra lei che aveva smesso di chiamare la tenebra e il
banchetto che si era lasciata nella sua scia, quegli esseri colossali
sembravano appagati, contorcendosi mentre inseguivano Luminatii urlanti
sulle sabbie. Rinfoderando le sue lame, Mia balzò al posto di guida, ora
concentrata sui carri più avanti.
In tutto quel massacro, il convoglio di Remus aveva ottenuto un buon
vantaggio. Ma ora che lei si era sbarazzata dei suoi indesiderati compagni, i
cammelli di Mia viaggiavano più veloci, sputando, sbuffando e facendo i
versi che i cammelli emettono quando corrono, in qualunque modo si
chiamino. aIl suo carro sobbalzò sopra dune rocciose, zigzagando tra
giardini di monoliti ashkahi spezzati, guadagnando lentamente terreno.
Riusciva a vedere Remus nel carro di testa, ma solo perché quell’uomo era
talmente enorme: tutti gli altri erano semplicemente forme indistinte tra la
polvere e la sabbia. Tuttavia era decisamente consapevole che almeno
sessanta tipi grandi e grossi, fanatici e ben addestrati la attendevano più
avanti, se fosse riuscita a raggiungerli con il suo carro. Soppesando le
probabilità poco favorevoli, si domandò cos’avrebbe fatto con esattezza
quando fosse arrivata lì.
Per fortuna, non dovette mai conoscere la risposta.
I Luminatii nel convoglio di Remus l’avevano appena osservata uccidere
oltre sessanta loro compagni, dopotutto, e anche se era degno di nota che
nessuno di loro si fosse effettivamente fermato ad aiutare, gli uomini
migliori di Itreya erano inclini a portare rancore. Mentre il carro di Mia si
avvicinava rapidamente a loro, i soldati che maneggiavano le balestre
aprirono il fuoco. Mia non poteva esattamente nascondersi sotto il suo
manto d’ombra: tanto per cominciare, non sarebbe stata in grado di vedere e
pertanto sterzare, ma cosa più importante, non sarebbe stato necessario lo
studioso migliore del Gran Collegio per capire dov’era seduto il conducente
di un carro, invisibile o no. Il tribuno Remus, però, non poco impressionato
dal fatto che questo fuscello di ragazza fosse appena riuscita a uccidere da
sola mezza centuria dei suoi uomini migliori, pareva più preoccupato di
fuggire che di vendicarsi. Così, invece di ordinare ai suoi di sparare alla
pazza che stava frustando i suoi poveri cammelli fino a farli schiumare,
comandò loro di mirare alle povere bestie.
E quelli così fecero.
Il primo dardo colpì il cammello di testa nel petto, abbattendolo come un
albero. L’animale incespicò fino a cadere in ginocchio, si impigliò nelle sue
briglie e fece inciampare la bestia alle sue spalle. Un altro dardo sbucò dalla
cortina di polvere, seguito da un terzo, e tra il nauseante scrocchio di ossa e
le urla dei cammelli in agonia, il carro di Mia andò a sbattere contro quel
misero groviglio che l’aveva trainato fino a poco prima, si ribaltò e scivolò
per poi fermarsi tra il sangue e le urla.
Mia fu scagliata lontano e volò in aria per venti piedi buoni prima di
finire a terra di faccia. Riuscì a piegare la spalla subito prima dell’impatto;
rimase senza fiato mentre ruzzolava immersa nel sibilo della sabbia e uno
dei suoi stivali saltava via, rotolando tra imprecazioni ansimanti a una
quarantina di piedi dai resti del suo convoglio.
Cercò di alzarsi, ma le fischiavano le orecchie e le girava la testa. Si
rimise in ginocchio barcollando mentre altri quadrelli sbucavano dalla
sabbia e osservò il carro di Remus allontanarsi al galoppo, sempre più
lontano, assieme a lord Cassius, il Culto e la sua vendetta.
Crollò carponi. Vomitò. Sentiva le costole incrinate, la bocca piena di
polvere e bile. Finì pancia a terra, artigliando la sabbia.
Alla fine fu incapace perfino di strisciare.
Era giunta così vicino.
Così vicino.
Ma di nuovo, all’ultimo ostacolo, aveva vacillato. Ed era caduta.
«La storia della mia vita» borbottò.
I suoi occhi si chiusero sfarfallando.
Sospirò.
E l’oscurità calò.

a. Mi viene in mente che non esiste una parola per descrivere il verso emesso da un cammello. I cani
abbaiano, i leoni ruggiscono, gli ubriaconi borbottano.
Cosa ’bisso fanno i cammelli?
CAPITOLO 35
KARMA

Colpetto.
Mia gemette, non osando aprire gli occhi.
Si sentiva rintronata, le dolevano le costole, ogni respiro era una
battaglia.
Non aveva idea di quanto tempo fosse stata stesa lì.
Minuti?
Ore?
Poteva percepire i soli sopra di lei, che ardevano appena oltre le sue
palpebre.
Sapeva cosa la attendeva se avesse osato aprire gli occhi.
Fallimento.
Il suo carro un rottame. I suoi cammelli uccisi. La Montagna Silente si
trovava a un cambio di distanza a est, ma ferita com’era, sarebbe stata
fortunata ad arrivarci in due, sempre presumendo che nel frattempo non la
mangiassero i kraken o i pulvispettri. Arrivare a Ultima Spes a piedi da qui
era impossibile, ma comu…
Colpetto.
Qualcosa di morbido, umido e peloso. Le stava macchiando le labbra
con una sostanza calda e densa. Una minuscola parte del suo cervello urlava
fortissimo che quel Qualcosa era piuttosto grosso ed evidentemente molto
vivo, e ora la stava annusando, probabilmente come preludio per poi
mangiarla.
Aprì gli occhi sfarfallando, il dolore che la attendeva appena oltre. Sibilò
e si ritrovò davanti un paio di grosse froge, che le diedero un nuovo colpetto
e le inumidirono le labbra con – oh, gioia delle gioie – altro moccio.
Un’enorme lingua rosa colpì enormi denti gialli e Mia si svegliò del tutto,
indietreggiando in una nube di impalpabile polvere rossa finché non si rese
conto con esattezza di cosa stava cercando di mangiarla.
Era un cavallo.
Nero, lucido e alto venti spanne.
Un cavallo di cui era stata lieta di vedere il posteriore mesi addietro, a
dire la verità.
Tuttavia, non poté fare a meno di sorridere. Trascinandosi in piedi e
barcollando fino ad accostarsi all’animale, gli passò la mano lungo il fianco
mentre lui emetteva un suono che assomigliava in modo sospetto a una
risata.
Gli mise le braccia attorno al collo.
Lo baciò sulla guancia.
«Salve, Bastardo» disse.
CAPITOLO 36
TRAMONTO

Daniio il grasso cominciava a pensare che il Semprevigile lo odiasse.


Quando Lem era entrato al Vecchio Imperiale e aveva affermato che un
convoglio di carri a pieno carico stava arrivando a Ultima Spes, Daniio
aveva immaginato che forse quei Kephiani idioti fossero tornati dalla loro
folle ricerca senza ottenere nulla. Ma poi Scupps era entrato, grattandosi le
palle e togliendosi la polvere dagli occhi, dichiarando che quegli stronzi
erano troppi per essere Kephiani. Secondo l’opinione esperta di Scupps,
assomigliavano più a giovani soldati. Uscendo sulla strada principale di
Ultima Spes con i ragazzi al seguito, Daniio il grasso aveva esaminato il
convoglio di carri malconcio dalla testa alla coda.
«Soldat» aveva dichiarato Scupps. «Soldat oppur son il figl di una puttan
da due mendicant.»
Lem si era accigliato. «Kephian, te lo dic io.»
«Vi sbagliat entramb.» Sul volto paffuto di Daniio era comparso un
sorriso. «Son client.»
La casa della guarnigione non era abbastanza grande da ospitare settanta
corpi e, come previsto, quel cazzone midollano di Garibaldi (che era ancora
affranto per il furto del suo dannato cavallo: dal modo in cui ne parlava,
sembrava che gli avessero fregato la moglie) si era presentato al Vecchio
Imperiale circa un’ora dopo l’arrivo della carovana a Ultima Spes e, veloce
come uno sputo, aveva prenotato ogni camera rimasta nel locale. Doveva
passare almeno un’altra settimana prima che Mangialupi tornasse per
trasportare i nuovi arrivati alla civiltà, e Daniio aveva iniziato a sognare la
piccola fortuna che avrebbe guadagnato nel frattempo.
Finché non aveva scoperto che i bastardi non avevano denaro,
naturalmente.
Tra tutti quanti non facevano nemmeno un paio di mendicanti
arrugginiti.
Allora si era diretto alla casa della guarnigione, aveva bussato con forza
alla porta e aveva preteso di parlare con il coglione al comando. Un uomo
sfregiato delle dimensioni di una piccola taverna si era avvicinato con passo
lento e si era presentato come il tribuno – tribuno, si badi bene – dell’intera
legione dei Luminatii. Aveva detto a Daniio che il Vecchio Imperiale e tutte
le provviste che conteneva dovevano essere requisiti per “il bene e la
sicurezza della Repubblica itreyana”. Il centurione Baciacavalli aveva
rivolto a Daniio un sorriso tronfio, una biondina che sembrava tanto
giovane da poter essere la figlia di questo coglione di Remus aveva fatto
spallucce e Daniio si era ritrovato con la porta sbattuta in faccia.
E così era diventato un fottuto ente di beneficenza. Si spaccava la
schiena di lavoro. La sua sala comune e ogni camera da letto erano piene
zeppe di bastardi Luminatii ingrati che borbottavano e scoreggiavano.
Mangiavano come inchiostrambi strafatti. Bevevano come pesci affamati.
Puzzavano come una latrina esposta alla veraluce. E il povero Daniio non
vedeva un soldo per nulla di tutto ciò.
Adesso erano passati tre cambi da quando quei cani erano arrivati a
Ultima Spes. La Spasimante di Trelene distava ancora quattro illuminotti, se
i venti fossero stati benevoli, e da come andava la fortuna di Daniio, non
sarebbe rimasto sorpreso di apprendere che Mangialupi e l’intero
equipaggio avessero fatto naufragio sulla mitica Isola di vino e puttane e
avessero deciso di fermarsi lì per un po’.
La dispensa dell’Imperiale era svuotata dopo aver nutrito tutti quei
soldati tre pasti al cambio per quattro cambi, e Daniio era stato costretto a
servire perlopiù zuppa e stufato. Quella sera il cibo era un brodo fatto con le
lische del baritonno che aveva servito il cambio prima, e l’aveva lasciato a
bollire sul fornello mentre usciva nella sala comune a servire un altro giro
di bevande. Ogni soldato che alloggiava nella taverna era ammassato dietro
i tramezzi oppure stravaccato ai tavoli a gruppi di otto. Non c’era verso di
fare appello “al bene e alla sicurezza della Repubblica itreyana” per
convincere Domina Amile e le ballerine dei Sette sapori a elargire
prestazioni gratuite, perciò i bastardi non avevano nulla da fare tutto il
cambio tranne bere, bighellonare e intimidire i clienti abituali di Daniio.
Dopo aver servito da bere, Daniio andò in cucina e, ringhiando, chiuse la
porta con un calcio. Dirigendosi ai fornelli, diede una bella annusata al
brodo. Aveva un odore un po’ strano; forse aveva lasciato troppo a mollo i
pezzi. Ma alla malora, questi cani stavano mangiando gratis, e se qualcuno
di loro aveva voglia di lamentarsi, lui ne aveva avuto abbastanza da
risputargli tutto quanto in faccia.
Servì la cena e rispose alle grida di altro vino. Dopo aver corso avanti e
indietro per mezz’ora, riuscì a prendersi qualche minuto per uscire nel
vicolo a fumarsi una paglia.
«Bastard» borbottò. «Accatton e bastard fanatici religios, tutt quant.»
Daniio si appoggiò contro il muro del vicolo, imprecando. Riceveva le
sue paglie da Mangialupi, importate proprio da ’Grave. Erano davvero di
lusso, carta zuccherata e tutto quanto. Si mise un sigaretto alle labbra, poi
protesse l’acciarino con il palmo e fece balenare la fiamma.
«Dovresti essere alla torre della guarnigione, Daniio» disse una voce.
«Cazz di Aa» imprecò lui.
L’acciarino gli cadde dalle mani, sferragliando sul pavimento del vicolo.
Una ragazza vestita completamente di nero uscì dalle ombre, silenziosa
come sussurri. Venti di tempesta soffiavano dalla baia, sollevando una lunga
frangia attorno a occhi duri e cupi. Abbassandosi lentamente, lei raccolse
l’acciarino. Lo lanciò in aria e lo riprese con un pugno sporco.
«’Biss e sang, quasi mi facevi venir un colp, ragazz» imprecò il
taverniere. «Cos cazz vai in gir così di soppiatt…»
La guardò sbattendo le palpebre, l’occhio sinistro che percorreva il suo
corpo un po’ più lento di quello destro.
«Ehi, ti conosc? Mi par… familiar.»
La ragazza si sporse in avanti con un sorriso e gli prese il sigaretto dalle
labbra. Se lo mise in bocca, poi si appoggiò contro la parete opposta e
sospirò, inspirando il fumo come se la sua vita dipendesse da quello. A dire
la verità, sembrava piuttosto sudicia, i capelli incrostati e la pelle lercia. Ma
le sue curve erano una rara delizia, e avresti venduto tua madre per
assaggiare labbra come quelle.
«Dovresti essere alla torre della guarnigione, Daniio» ripeté lei.
«… E perché?»
«Tu servi gli ultimipasti lì, se ben ricordo.»
Daniio squadrò la ragazza, accigliato. Era solo un fuscello. Aveva la
metà dei suoi anni. Ma c’era qualcosa nel suo aspetto. Negli occhi, forse.
Qualcosa che lo rendeva non poco nervoso senza nemmeno sapere
perché…
«Non li serv più» disse lui. «Garibald ha pers le staff dop che lui e i suoi
ragazz hann avut un assagg della merd ruggent. La stess illuminott che gli
hann fregat il cavall. Ora cucinan il cib da sol alla torre. Ordini del
centurion.»
La ragazza esalò fumo grigio.
«Mi sta bene, suppongo. Ma questo ci lascia con un problema.»
Daniio guardò su e giù per il vicolo, ben consapevole di essere da solo
con questa ragazza. E lei era armata in modo più pesante di quanto
chiunque avesse il diritto di essere fuori da un’arena di gladiatorii. E lo
stava osservando come lui immaginava una vipera potesse guardare un
topo.
E non aveva ancora sbattuto le palpebre.
«E qual problem sarebb?» riuscì a dire.
«Cosa senti, Daniio?» chiese la ragazza.
«… Eh?»
«Ascolta» sussurrò lei. «Cosa senti?»
Credendo che si trattasse di un gioco bizzarro, ma ora decisamente a
disagio, Daniio inclinò la testa, ascoltando come voleva lei. Ultima Spes era
mortalmente silenziosa, ma di solito era così durante l’illuminotte. Molta
gente a quell’ora era già tornata a casa e se ne stava davanti al focolare con
un bicchiere in mano. Udì il borbottio dei cammelli nelle stalle della
guarnigione. Un cane abbaiò in lontananza. Il ruggito del vento della sera e
il rumore della risacca.
Scrollò le spalle. «Non molt.»
«Hai sessanta uomini nella tua sala comune, Daniio. Saranno anche
devoti servitori del Semprevigile, ma non dovrebbero essere un po’ più
chiassosi?»
Daniio si accigliò. Ora che lei lo faceva notare, la taverna era
decisamente più silenziosa del normale. Non aveva sentito nessuno urlare
per avere altro da bere né una singola lamentela da quando era uscito fuori
per la sua paglia…
Be’, la paglia della ragazza…
Lei succhiò l’ultima vita dal sigaretto, lo fece cadere ai suoi piedi e lo
schiacciò sotto il tacco dello stivale. Mettendosi una mano dentro la manica,
estrasse un lungo stiletto, intagliato da quello che poteva essere necrosso. A
Daniio si rizzarono i peli sulle mani, e passò da nervoso a completamente
terrorizzato. La ragazza si avvicinò mentre lui si faceva piccolo contro il
muro. Portandosi una mano alla cintura, lei tirò fuori un’unica palla di
vetro, piccola, liscia e di un bianco perfetto.
«Cos’è quell?» chiese Daniio.
«Deliquio. Ieri ne avevo una borsa mezza piena. Ora me ne resta uno.»
«E dov son gli altr?»
«Li ho dissolti nel brodo che hai cucinato come ultimopasto.»
Daniio arrischiò un’occhiata alle spalle, verso la taverna. Silenziosa
come tombe.
«Ora, ecco il nostro problema» disse la ragazza. «Tu avresti dovuto
servire l’ultimopasto alla torre della guarnigione dopo averlo servito qui.
Dopodiché saresti dovuto tornare qui per trovare ogni soldato sotto il tuo
tetto con la faccia spalmata nel brodo.»
«… Li hai mess a dormir?»
La ragazza guardò il suo coltello. Poi di nuovo negli occhi di Daniio.
«Non per molto.»
Daniio provò a parlare e si ritrovò la lingua attaccata al palato.
«Ma dato che non servi più i pasti lì, mi servirà un diversivo» disse la
ragazza. «Perciò potresti voler andare di sopra e raccattare ogni oggetto di
valore che tu possa tenere nel tuo… sicuramente raffinato locale.»
Daniio staccò la lingua dal palato.
«Perché?» riuscì a dire.
La ragazza tenne il suo acciarino sul palmo aperto. L’occhio pigro di
Daniio lo colse prima del resto di lui e si sgranò notevolmente. Le parole gli
uscirono come un gracidio.
«Oh, no…»
«Se vivrò, farò in modo che la Chiesa Rossa ti compensi per le tue
perdite. Altrimenti…» La ragazza scrollò le spalle e gli elargì un sorriso
beffardo. «Be’, hai le mie scuse.»
Fissò Daniio, usando l’acciarino che aveva in mano.
«Meglio sbrigarti, ora. I secondi non saranno l’unica cosa a bruciare tra
un momento.»

L’aureovino nelle cantine di Daniio non era quello che si poteva definire
un’ottima annata. Per la verità, era più simile a diluente per vernice che a
liquore. All’insaputa di tutti i suoi clienti, Daniio lo usava per pulire le
pentole una volta all’anno, e ne uscivano sempre scintillanti. Ma c’è una
cosa meravigliosa sugli spiriti, per quanto di produzione scadente o dal
sapore tremendo.
Bruciano magnificamente.
Il fumo si stava già levando dal tetto del Vecchio Imperiale quando Mia
raggiunse la torre della guarnigione, intrufolandosi dietro dalle stalle e
salendo su per la parete posteriore. La torre si innalzava per trenta piedi e
non c’erano finestre ai piani superiori; era quasi certa che il Culto e lord
Cassius dovessero essere lì. Supponeva che fossero nelle stesse condizioni
in cui erano stati tenuti nel viaggio dalla Montagna, imbavagliati e
incatenati stretti, ma doveva accertarsene con i propri occhi. Era in
tremenda inferiorità numerica e non conosceva la configurazione di
quell’ambiente. Bruciare vive molte delle truppe di Remus per creare un
diversivo le era sembrato un ottimo modo per prendere due piccioni con
una fava.
O meglio, sessanta piccioni.
Per la verità, non era nemmeno certa che il Deliquio si sarebbe dissolto
nel brodo di Daniio, ma provarci sembrava un’idea migliore rispetto a
marciare dentro l’Imperiale e tirare in giro manciate di mutavitrum. La
puzza di carne bruciata aleggiava pesante sui venti e il fumo si innalzava in
una colonna contorta nel cielo bruciato dai soli, ma se provò qualche senso
di colpevolezza sul destino che aveva inflitto ai Luminatii, fu annullato
rapidamente al pensiero di Tric e degli altri che erano morti nel ventre della
Montagna.
Era a metà della scalata lungo la parete della torre quando il legionario in
cima suonò l’allarme, percuotendo una pesante campana di bronzo e
urlando: «Al fuoco! Al fuoco!». Gli abitanti di Ultima Spes uscirono dalle
loro porte, il centurione Garibaldi si precipitò in strada e imprecò, mentre
Mia scivolò oltre i bastioni e tagliò la gola della vedetta, una striscia di
sangue da un orecchio all’altro.
Gettandosi addosso le ombre, aprì la botola sul pavimento prima che il
corpo dell’uomo toccasse terra. Si lasciò cadere al piano inferiore, dove
trovò cuccette, armadi e un unico legionario intontito che si alzò dal
materasso per vedere cosa fosse quel trambusto. Il suo gladio lo rimise a
letto e Mia gli coprì la faccia con coperte insanguinate, mormorando una
preghiera a Niah. Scivolando giù per le scale fino al piano inferiore,
sussurrò un’imprecazione sommessa nel trovarlo vuoto, così come la sala
comune più in basso. Scrutando tra le finestre del pianterreno, riuscì a
vedere quattro legionari appostati fuori dalla porta principale: Remus,
Garibaldi e gli altri sembravano essere andati all’Imperiale. Con un unico
posto rimasto dove cercare, Mia aprì la porta della cantina e scese di
soppiatto nell’oscurità.
Due globi arkemici lanciavano un fioco bagliore su barili di vino e
scaffali, pilastri di legno e figure rannicchiate. Tre Luminatii erano seduti
attorno a una cassa rovesciata, mugugnando sopra un mazzo di carte. Tutti e
tre alzarono lo sguardo quando lei entrò. Lì sotto c’era troppo buio per
permetterle di vedere qualcosa sotto il suo manto d’ombra, così lo gettò da
parte e lanciò uno dei suoi pochi globi rimasti di mutavitrum d’onice. Fumo
nero esplose al centro del tavolo di carte, facendo volare birra e mendicanti.
Mia si lasciò cadere dalle scale con le spade sguainate, attaccando l’uomo
più vicino senza un sussurro.
Anche se la luce era fioca, poteva comunque percepire le loro ombre,
che si allungarono e fissarono i loro stivali al pavimento, uno a uno. Il
primo soldato combatté con foga malgrado la sorpresa, maledicendola come
eretica e promettendole che presto avrebbe incontrato la sua madre oscura.
Ma nonostante tutte le sue smargiassate, cadde con la spada di Mia in
pancia, afferrandosi la cotta di maglia perforata e chiamando la propria, di
madre, il suo sangue rosso sulla pietra. Mia lanciò una manciata di coltelli
al secondo uomo: due delle lame centrarono il bersaglio e lo fecero finire al
tappeto. Il terzo provò a fuggire, strattonando gli stivali e armeggiando con
le fibbie quando lei si sollevò alle sue spalle e gli conficcò la spada tra le
costole: la lama gli ruppe la cotta di maglia e gli spuntò dal petto. Cadde
senza un suono, gli occhi aperti e accusatori.
Mia glieli chiuse con un’altra preghiera sussurrata.
In mezzo al fumo turbinante e alla puzza di sangue, le vide. Sette figure
legate per bene in un angolo. La Shahiid Aalea, stretta nelle corde e
imbavagliata. Ammazzaragni, ammaccata e priva di sensi. Solis, quasi
malmenato a morte, la sua faccia una massa di segni violacei. Zitto, Mouser
e Drusilla, tutti svegli, le bocche serrate da un drappo di stoffa. E per ultimo
Cassius, gli occhi scuri infuriati, colmi di dolore. Il Principe Nero. Il
Signore delle Lame. Guardandolo, Mia provò la stessa sensazione di nausea
che aveva avvertito quando si erano incontrati in passato. Vertigini. Paura.
Un dolore quasi fisico. Una sagoma scura prese forma accanto a lui,
mostrando zanne nere in un ringhio.
“Eclissi.”
L’umbralupo avanzò verso Mia, il pelo ritto. Messer Cortese comparve
nella sua ombra, ululando e soffiando. Le creature si fissarono a vicenda
quando Mia sibilò.
«Rimettetelo nei pantaloni, tutti e due.»
«… SCIOCCA FANCIULLA, IO NON PORTO PANTALONI …»
«… oh, allora tu saresti l’intelligente dei due…»
«Messer Cortese, basta.»
Il non-gatto si chiuse in un silenzio imbronciato e un’occhiata da parte di
lord Cassius fu sufficiente a imporre lo stesso a Eclissi. Accucciandosi
accanto al Culto, Mia tagliò il bavaglio di Drusilla e lo tolse dalla bocca
della donna.
«Accolita Mia» sussurrò. «Una… sorpresa davvero piacevole.»
Mia si mise a tagliare i bavagli di Mouser e Aalea e, per ultimo, quello di
lord Cassius. Sembrava che quell’uomo fosse stato usato come un fantoccio
da addestramento: aveva le labbra gonfie, gli occhi neri, la guancia ferita.
Ma perfino quando gli tolse il bavaglio, il Signore delle Lame non disse
nulla.
Mia cercò di ignorare il senso di nausea crescente in presenza dell’uomo,
il martellare del suo cuore contro le costole. Controllò le manette e le corde
che legavano ciascuno di loro, poi cominciò a segare i legacci di Cassius
con la sua lama di necrosso.
«Devo farvi uscire di qui» sussurrò Mia. «Li ho distratti, ma non per
molto. Potete camminare? Meglio ancora, correre?»
«È evidente che i Luminatii volevano catturarci vivi» ansimò Drusilla.
«Ma Solis è in pessime condizioni, e dopo che ieri Mouser è sfuggito ai
suoi legacci, il buon tribuno si è assicurato che non fosse in grado di correre
da nessuna parte per un bel po’.»
Mia esaminò lo Shahiid di Tasche e notò l’angolo strano dei suoi stinchi.
«Madre Nera» mormorò. «Vi ha rotto le gambe.»
«E le dita.» Mouser trasalì. «Piuttosto… antisportivo, ritengo.»
Mia tagliò le loro corde, ma le manette della guarnigione erano un
discorso più complicato. Erano di ferro pesante, chiuse con una chiave che
nessuno dei tre soldati che aveva testé eliminato pareva possedere. Ognuno
dei membri del Culto era incatenato a polsi e caviglie: se non fosse riuscita
a liberarli, sarebbero stati costretti a camminare trascinando i piedi.
«Merda» mormorò lei. «Non ho grimaldelli con me.»
«Nei miei stivali» sussurrò Mouser con l’accenno di un sorriso. «Tacco
sinistro.»
Mia ruppe il tacco dello stivale di Mouser come lui le aveva detto e
bisbigliò delle scuse quando gli mosse lo stinco e lui sibilò di dolore.
Dentro trovò alcuni grimaldelli e una piccola barra di torsione, quindi si
mise al lavoro sui ferri di Cassius. Pur malconcio com’era, il Signore delle
Lame sarebbe riuscito comunque a trasportare Solis, e Aalea,
Ammazzaragni e Zitto potevano fare lo stesso con Mouser. La domanda
era: dovevano mettere la coda tra le gambe e fuggire oppure rimanere e
combattere? Solis e Mouser non erano in condizioni di cavalcare, e lei non
aveva alcuna possibilità di sellare il convoglio di cammelli senza che i
Luminatii lo notassero. Ma un corpo a corpo contro una dozzina di uomini
armati di solacciaio? Da un momento all’altro uno di loro poteva tornare
qui per controllare…
«’Bisso e sangue…»
Mia si guardò alle spalle a quel sussurro e vide una figura in cima alle
scale della cantina. Stivali polverosi. Pugnali alla cintura. Bellitrecce
bionde. Grandi occhi azzurri.
«Ashlinn…»
Mia allungò il braccio, provando ad afferrare l’ombra ai piedi della
ragazza. Ma senza una parola, la giovane si girò e scattò su per le scale,
fuori vista, i suoi stivali che saltellavano leggeri sulle assi sopra le loro teste
mentre schizzava verso la porta della torre.
«Merda, li avvertirà…»
Mia lanciò i grimaldelli in grembo a Cassius, scattò in piedi e corse
dietro Ashlinn. Salendo le scale tre gradini alla volta, sbucò alla soliluce
appena in tempo per vedere i quattro Luminatii posizionati alla porta della
casa della guarnigione fare irruzione, mentre Ashlinn lasciava una scia di
polvere lungo la strada che portava al Vecchio Imperiale, urlando mentre
correva.
I Luminatii erano ragazzi del luogo e, a differenza dei rifugiati della
scorreria, tutti armati con il loro solacciaio. Anche se erano ricoperti di
polvere dal deserto, indossavano anche un’armatura di piastre, e i pennacchi
sui loro elmi erano di un rosso sporco. Estrassero le loro lame con un urlo e
l’acciaio si infiammò mentre si precipitavano nella stanza. Spazio ristretto.
Avversari pesantemente armati e corazzati. Niente elemento sorpresa e
spade che l’avrebbero tranciata come burro grazioso.
A Mia non piacevano le carte in tavola.
Lanciò il suo ultimo mutavitrum di onice sul pavimento, si voltò e scattò
su per le scale. Tossendo e sputacchiando in quella foschia densa, i
Luminatii la inseguirono, intimandole di fermarsi. Mia scagliò una manciata
di mutavitrum di rubino quando schizzò al secondo piano e i globi
scoppiarono sul petto del primo Luminatii, sparpagliando i suoi pezzi per la
stanza. Bruciacchiati e schizzati di sangue, i tre soldati rimasti procedettero
con maggiore cautela, rannicchiati dietro gli scudi mentre raggiungevano il
secondo piano. L’ultimo globo di mutavitrum di Mia fuse quegli scudi in
metallo inservibile, l’ultimo coltello da lancio centrò l’uomo più avanti alla
gola e lo fece finire in ginocchio a tenersi la giugulare trapassata. Mia
lanciò un’occhiata alla scala di corda che portava al tetto, domandandosi se
potesse farcela prima che i due soldati rimasti la abbattessero. Alla fine,
però, decise di protendersi verso le ombre degli uomini che strisciavano
lungo il pavimento…
Il Luminatii di retroguardia cadde con un’espressione stupefatta, e
quattro piedi di solacciaio spento gli spaccarono quasi la testa in due.
Cervella e sangue schizzarono sulle pareti quando il corpo ruzzolò in avanti
e versò tutto ciò che rimaneva sul pavimento. Lord Cassius comparve dietro
di lui, il volto gonfio e ammaccato, gli occhi scuri stretti in una furia fredda.
E mentre Mia osservava stupefatta, Cassius piegò le dita della mano sinistra
e le ombre della stanza presero vita, contorcendosi come serpenti davanti
all’incantatore. Con un cenno, il Signore delle Lame strappò l’arma
dell’ultimo legionario dalla sua stretta e, senza un suono, vibrò con forza la
stessa spada lunga di solacciaio contro il collo del soldato.
Malgrado ciò che possano raccontare i vostri poeti, gentili amici, serve
un fendente poderoso e un braccio ancora più forte per decapitare di netto
un uomo. E ovviamente il Signore delle Lame non era nelle condizioni
migliori. Tuttavia, c’era solo una striscia sfilacciata di carne e poche
schegge di osso frantumato a tenere attaccata la testa del Luminatii al collo
quando cadde a terra, il corpo percorso da spasmi sul pavimento finché non
si rese conto della triste verità della sua morte.
Mia lanciò un’occhiata alle ombre, che ondeggiavano secondo il volere
di Cassius. Avvertiva ancora quella nausea viscida e dolorosa nella pancia,
mentre Messer Cortese tremava ai suoi piedi.
«Bel trucchetto» disse lei.
«Trucchetto?» Il Signore delle Lame inarcò un sopracciglio. «È così che
lo chiami?»
«Quando vi ho incontrato a Godsgrave… quando siete vicino a me…»
Mia scosse il capo. «Vi sentite come mi sento io quando siamo vicini?
Nauseato? Spaventato?»
Cassius attese un lungo momento prima di rispondere.
«Mi sento affamato.»
Mia annuì. Aveva la bocca secca. «Sapete perché?»
Il Signore delle Lame guardò esplicitamente i cadaveri sul pavimento.
Le pareti attorno a loro. «Forse questo non è il luogo migliore per parlarne.»
«Mi dovete delle risposte» affermò Mia. «Credo di essermele
guadagnate, ormai.»
Come se fosse stato evocato, Eclissi si materializzò vicino ai piedi di
Cassius. Messer Cortese sibilò piano quando l’umbralupo parlò: la sua voce
sembrava giungere da sotto il pavimento.
«… ARRIVANO, CASSIUS. IL PORTATORE DI LUCE E I SUOI SGHERRI …»
Il Signore delle Lame guardò Mia. Fece cenno verso i piani inferiori.
«Andiamo» disse Cassius. «Sbarazziamoci di questi cani. Ti donerò le
risposte che possiedo dopo l’iniziazione.»
«Iniziazione?» Mia si accigliò. «Ma ho fallito la prova finale.»
Un sorriso accennato incurvò le labbra di Cassius. «La tua prova finale ti
aspetta da basso, sorellina.»
«… Sorellina?»
Cassius era già scomparso giù per le scale, senza un suono. Mia si
precipitò dietro di lui, sentendosi come un ubriacone barcollante malgrado
tutto il suo addestramento. Perfino picchiato a sangue, torturato e lasciato
senza mangiare, Cassius si muoveva come un’ombra. I suoi stivali non
emettevano il minimo suono sulla pietra. Ogni suo movimento era preciso,
nulla andava sprecato, nessun guizzo o gesto plateale. I capelli si agitavano
dietro di lui come se soffiasse una brezza, la spada rubata gli scintillava
nella mano quando aprì la porta principale e uscì in strada.
Una dozzina di Luminatii erano in attesa. Il centurione Garibaldi, che
guardò Mia a occhi stretti: forse gli sembrava di riconoscerla. Un drappello
di legionari pesantemente armati con solacciaio che ardeva nelle loro mani.
Il tribuno Remus, un uomo sfregiato e imponente come una montagna nella
sua armatura di necrosso, che fissava Cassius con occhi stretti da lupo. E,
dietro, Remus, a osservare Mia con qualcosa a metà tra odio e
ammirazione…
«Ashlinn» sussurrò Mia.
Remus venne avanti, la spada alzata e increspata di fiamme. Era stato un
gigante l’ultima volta che Mia l’aveva visto nella soliluce: allora aveva
avuto solo dieci anni ed era aggrappata alle gonne di sua madre. Ora lui
sembrava solo un po’ più vecchio. Un po’ più piccolo.
Ma solo un po’.
«Non ho alcun desiderio di ucciderti, miscredente» ringhiò il tribuno.
«Parla per te» sbraitò Mia.
Remus sollevò un sopracciglio, come sorpreso di scoprire che la ragazza
aveva una lingua. Cassius lanciò un’occhiata in tralice a Mia e parlò con
l’angolo della bocca.
«Credo che stesse parlando con me.»
«E io credo che non me ne frega un cazzo.» Mia si voltò verso Remus,
passando la sua lama avanti e indietro da una mano all’altra. «È bello
rivederti, tribuno. La puttana traditrice al tuo fianco ti ha detto chi sono?»
Remus lanciò un’occhiata ad Ashlinn, poi squadrò Mia dall’alto in basso
con un sogghigno. «So chi sei, ragazza. E non sono minimamente sorpreso
di vedere una come te accompagnarsi a un covo di eretici e omicidi. La
mela non cade mai lontano dall’albero.»
Mia strinse gli occhi e i capelli soffiarono attorno al suo volto quando il
vento cominciò ad alzarsi. I Luminatii si guardarono i piedi, tremando un
po’ nel rendersi conto che le loro ombre si muovevano e pulsavano,
allungandosi verso la ragazza come se bramassero toccarla.
«Tu hai impiccato mio padre come divertimento per una fottuta folla»
sbraitò lei. «Hai gettato mia madre in un buco senza soliluce e l’hai lasciata
divorare dalla pazzia. Mio fratello era solo un bambino e l’hai lasciato
morire al buio. E tu parli a me di omicidio?»
Dagli occhi di Mia sgorgavano lacrime. Il suo volto era distorto dalla
rabbia.
«Ogni illuminotte da quando ho dieci anni sogno di ucciderti. Te, Scaeva
e Duomo. Ho rinunciato a tutto. A qualunque possibilità avessi di essere
felice. Ogni cambio, mi immaginavo la tua faccia e tutto ciò che ti avrei
detto per farti sapere quanto ti odio. È tutto ciò che sono, ormai. È tutto ciò
che resta dentro di me. Tu mi hai ucciso, Remus. Proprio come hai ucciso la
mia familia.»
Mia alzò la spada e la puntò verso la testa di Remus.
«E ora, io ucciderò te.»
Remus ringhiò agli uomini accanto a lui. «Uccidete la ragazza. Portatemi
Cassius vivo.»
Bisognava riconoscerlo a quegli uomini: l’ordine di catturare vivo
l’uomo più letale della Repubblica itreyana non li sbalordì molto. Forse
farlo precedere dal comando di uccidere una sedicenne lo rendeva più facile
da digerire. Ashlinn rimase indietro, ma i legionari – una dozzina in tutto –
vennero avanti, il centurione Garibaldi in testa. Con preghiere ad Aa e
suppliche alla Luce che tutto vede di dar loro la forza, alzarono gli scudi e
caricarono. E, senza un suono, il Signore delle Lame andò loro incontro.
Mia aveva visto alcuni combattenti muoversi come ballerini, flessuosi e
aggraziati. Altri si muovevano come tori, tutti forza bruta e spacconate. Ma
Cassius si muoveva come un coltello. Semplice. Diretto. Letale. Non c’era
alcun guizzo nel suo stile. Nessuna eleganza. Tagliava semplicemente fino
all’osso. Le ombre si sollevavano al suo richiamo e, con un gesto della
mano, disarmò il primo legionario che gli arrivò addosso, seppellendogli la
lama nel petto. Il secondo cadde lungo disteso sulla pancia, la sua carica
interrotta quando un intrico di ombre lo fece inciampare. Cassius si
sbarazzò di lui con un rapido colpo alla nuca, quasi come un ripensamento.
Mia era stupefatta dalla facilità con cui l’uomo maneggiava le tenebre.
Qua fuori, perfino alla luce di un unico sole, con un secondo che stava quasi
sorgendo, lei era in difficoltà a trattenere pochi di quei legionari in corsa.
Tuttavia, riuscì a fissare gli stivali dei due tipi più grossi a terra e lanciò il
suo ultimo mutavitrum di rubino contro la faccia di un altro, facendogli
esplodere la testa dalle spalle. Una spada ardente fendette l’aria, sibilando.
Mia si chinò all’indietro e avvertì il calore sul mento. Rotolò accucciata,
facendo un salto mortale tra la polvere e scagliando il suo ultimo coltello da
lancio in risposta. Quello si conficcò tremando nel collo del Luminatii,
lasciandolo a terra a soffocare e zampillare sangue.
Mia si alzò dalla polvere. Posò gli occhi su Ashlinn. Le due si
fronteggiarono sulle sabbie mutevoli, i fantasmi di due ragazzi uccisi che
aleggiavano nell’aria fra loro. Tric. Osrik. Entrambi senza risposta. Ma per
qualche motivo Ashlinn rimase indietro, ciondolando ai margini della
mischia mentre altri Luminatii caricavano Mia, le spade sollevate.
«Hai paura di me, Ash?»
Parata. Finta. Affondo.
«Non volevo che andasse così, Mia» urlò la ragazza. «Ti avevo detto che
questo non era il tuo posto.»
«Non avevo mai immaginato che fossi una codarda. Tuo fratello mi ha
dato più filo da torcere.»
«Cerchi di provocarmi a un piccolo corpo a corpo?» Ash scosse il capo
tristemente. «Credi che sia così che finisce, amore? Io che mi lascio
trascinare in uno scontro che non posso vincere?»
«Che male c’è a sognare?»
«Continua a farlo, allora. Anch’io ho studiato con Aalea.»
Mia parò un colpo diretto alla sua gola, poi gettò della polvere negli
occhi del suo aggressore con un calcio. L’uomo la percosse con lo scudo,
mandandola lunga e distesa nella polvere. Lei scivolò di lato quando la
spada ardente del soldato andò a impattare nella sabbia accanto alla sua
testa e scalciò ferocemente contro il ginocchio dell’uomo. Udì un impatto
molle e un urlo strozzato. Si rimise in piedi mentre tutte le lezioni di Naev
le cantavano nella testa. Acciaio fiammeggiante fendeva l’aria, la polvere si
incrostava sulla sua lingua.
Arrischiando un’occhiata, vide che Cassius era davvero lo spadaccino
che la sua reputazione lasciava intendere. Il terreno attorno a lui era
disseminato di mezza dozzina di cadaveri e altri due uomini giacevano feriti
e gementi al suolo. Come molti generali, Remus era rimasto indietro per
lasciare che fosse la sua fanteria a combattere, ma con i suoi uomini che
cadevano come foglie, l’uomo sputò nella polvere e si gettò nella mischia.
Il Signore delle Lame indietreggiò, effettuando una serie di finte con le sue
ombre, l’oscurità che guizzava davanti alla lama ardente di Remus.
Ora che tutti erano concentrati su Cassius, a Mia restava un solo
avversario da affrontare: il centurione Garibaldi. L’uomo era implacabile,
agitava lo scudo e assestava un colpo dopo l’altro contro la guardia di Mia.
La ragazza era veloce, ma l’uomo era ricoperto da un’armatura pesante e i
pochi colpi che lei riusciva a portare a segno erano deviati dalla piastra di
lui. Garibaldi le sbatté lo scudo contro il petto, lanciandola in aria. Lei
rotolò appena in tempo per non ritrovarsi con la testa fracassata, si rialzò in
posizione accucciata e scagliò il suo ultimo globo di onice contro lo scudo
dell’uomo. Il vetro arkemico scoppiò, sollevando una nube turbinante di
fumo nero. Il centurione barcollò e tossì, e Mia raccolse quello che
rimaneva delle sue forze, serrò i pugni e afferrò l’ombra ai piedi di
Garibaldi, intralciando i suoi stivali quando lui caricò di nuovo. L’uomo
vacillò e roteò le braccia, sforzandosi di rimanere in equilibrio, ma invano.
Garibaldi cadde in avanti, i talloni ancora incollati alla strada e gli stinchi
che si spezzarono quando il peso fece crollare a terra il resto del suo corpo.
L’uomo urlò, tenendosi le gambe mentre Mia lo liquidava e si toglieva la
polvere dagli occhi. Cassius stava ancora combattendo contro i Luminatii, i
loro corpi un groviglio di bianco e nero, fiamma e ombra. La partecipazione
di Remus alla mischia aveva riequilibrato le sorti: il Signore delle Lame
adesso era sulla difensiva, la sua spada una forma indistinta, l’oscurità che
cantava.
Mia guardò il tribuno, la cui faccia era distorta dalla furia. L’uomo che
aveva contribuito a uccidere la sua familia. Che aveva distrutto la sua
vecchia vita. Ma poi si voltò verso Ashlinn. La ragazza che aveva preso la
sua nuova vita e l’aveva strappata in tanti pezzetti sanguinanti. Ashlinn la
fissò a sua volta, la spada in mano, gli occhi azzurri assottigliati. Voltare le
spalle alla ragazza non sembrava la mossa più intelligente. Così Mia inclinò
il collo finché non schioccò e fece un passo verso di lei.
«Non farlo, Mia» la ammonì Ash.
Mia la ignorò, sollevando la mano e avvolgendo la tenebra attorno ai
piedi della ragazza.
«Non farà male» disse Mia. «Non molto.»
Ash prese un respiro profondo. Sospirò. Poi infilò una mano nelle brache
e tirò fuori una manciata di fiamme ardenti, che roteavano al termine di una
catena dorata.
“La Trinità.”
La luce avvampò, più brillante di tutti e tre i soli. La vista del
medaglione fu come una randellata alla nuca per Mia, che la fece finire in
ginocchio. Con la coda dell’occhio, vide Cassius barcollare e alzare
l’avambraccio per schermarsi gli occhi. Remus stava menando un fendente
quando il Signore delle Lame abbassò la guardia. Volendo disperatamente
mantenere in vita il suo trofeo, il tribuno girò la lama e colpì Cassius con la
parte piatta ardente. Ma il legionario accanto a lui – fuori di sé dal terrore
per la morte dei suoi compagni, la caduta del suo centurione, il silenzio
mortale di questo demone vestito di nero che evocava le ombre dall’Abisso
per fare a pezzi i suoi commilitoni – non mostrò lo stesso controllo.
Mentre Remus urlava un avvertimento, il legionario colpì Cassius, già
barcollante per la luce della Trinità e il colpo di piatto del tribuno. Una
spada fiammeggiante penetrò tra le costole dell’uomo, conficcata fino
all’elsa. Il legionario strappò via l’arma e il Signore delle Lame lanciò un
urlo di dolore, tenendosi il petto trafitto. Cadendo in ginocchio, tossì rosso e
si raggomitolò in posizione fetale, un braccio ancora alzato per proteggersi
da quella terribile luce ardente.
«Dannato idiota!» tuonò Remus, girandosi verso l’uomo e assestandogli
un gancio devastante alla mascella. La testa del legionario fu sferzata da
una parte e gli saltarono i denti mentre si afflosciava come carta. «Lo
volevo vivo!»
Mia era carponi, il capo chino, gli occhi chiusi per tenere a bada l’odio
fiammeggiante del Semprevigile nella mano di Ashlinn. La ragazza
attraversò la distanza che la separava da Mia, tenendo in alto la Trinità. Mia
rotolò sulla schiena, indietreggiando con i talloni che scalciavano contro la
strada. Agonia. Terrore. Messer Cortese si raggomitolò nella sua ombra e si
contorse, inerme quanto lei.
«Mi dispiace, Mia» sospirò Ash.
Remus stava guardando torvo Ashlinn, incredulo. «Ce l’hai avuta
addosso per tutto il tempo? Avresti potuto mettere fine a tutto questo in
qualunque momento? Infida, piccola…»
«Oh, fottiti, fanatico religioso» ringhiò Ashlinn. «Non sono coinvolta in
questa storia per la tua gloriosa Repubblica e non me ne frega un cazzo di te
e dei tuoi uomini. Se volevo tenermi un asso nella manica, sono affari miei.
E nel caso ti sia sfuggito, ho appena salvato la tua miserabile vita. Perciò,
invece di blaterare, forse dovresti ammazzare la ragazza che ha appena
cercato di ucciderti, poi andare ad assicurarti che il resto del Culto sia
ancora sotto chiave. A meno che tu e la tua allegra banda di idioti non
vogliate sbudellare accidentalmente anche loro?»
Benché fosse alta forse un piede meno di Remus, Ashlinn costrinse il
tribuno ad abbassare lo sguardo. Con un ringhio, Remus sollevò la sua lama
e si diresse verso Mia, le fiamme che si increspavano lungo il bordo.
Mia strisciò all’indietro nella polvere. Dilaniata dal dolore, incapace
perfino di mettersi in piedi. Adesso il terrore le correva nelle vene, le
ruggiva nelle tempie, facendole temere che sarebbe finita così. Tutte le
miglia e tutti gli anni, solo perché terminasse qui? Stesa nella polvere di un
buco dimenticato, incapace perfino di sollevare la sua spada?
“Così?”
Digrignò i denti. Gli occhi si riempirono di lacrime cariche d’odio.
“Proprio così?”
La luce era accecante; ovunque guardasse, era come fissare i soli.
Riusciva a vedere solo sagome vaghe. Ashlinn in piedi di fronte a lei, la
Luce che si irradiava ardente nella sua mano. Remus, che torreggiava dietro
la ragazza, una luce più fioca che bruciava nel suo pugno. Luminatii feriti,
che gemevano nella polvere. Lord Cassius, il cui terrore si protese verso il
suo.
“Mai tirarsi indietro. Mai avere paura.”
Scosse il capo. Fissò la sagoma di Remus. Era decisa a guardarlo negli
occhi. Voleva mostrare che, malgrado tutto il dolore, malgrado il suo cuore
la definisse bugiarda…
«Io non ho paura di te» sibilò.
Udì una debole risatina. La luce più fioca che si sollevava.
«Luminus Invicta, eretica» disse Remus. «Porterò a tuo fratello i tuoi
saluti.»
Quelle parole colpirono Mia con forza maggiore della luce della Trinità.
Le tramutarono il sangue in acqua. Cosa stava dicendo? Jonnen era morto.
Lo aveva detto la madre di Mia. Quel verobuio in cui aveva fatto a pezzi la
Pietra Filosofale, poi aveva combattuto sui gradini della Basilica Grande ed
era caduta davanti a questo stesso bastardo, davanti a questa stessa
maledetta luce. Quindi era andata sui bastioni a piangere, sopra il luogo in
cui suo padre era morto. Con Mercurio al suo fianco mentre lei sussurrava.
“Era così luminoso” sussurrò. “Troppo luminoso.”
Il vecchio sorrise. Le diede una pacca sulla mano.
“Più brillante è la luce, più cupa è l’ombra.”
Ashlinn era in piedi di fronte a lei, la Trinità che risplendeva nella sua
mano. Remus incombeva alle sue spalle, la spada alzata. Dietro entrambi,
che si estendeva lungo la sabbia e in quella del tribuno, c’era l’ombra di
Mia. Nera. Che si contorceva. Ma di fronte a quella luce tremenda, era più
cupa di quanto non fosse mai stata.
Si protese verso di essa. Strinse i denti. Chiuse gli occhi. Percepì le
tenebre fuori e quelle dentro. E, serrando i pugni, con il pugnale stretto in
mano

si calò

nella sua stessa ombra

e uscì da quella dietro il tribuno.

Il corpo dell’uomo bloccava la luce della Trinità, e quel bagliore


accecante lo rendeva una sagoma gigantesca. Mia vibrò la sua lama: la lama
che sua madre aveva tenuto contro la gola di Scaeva, la lama che Messer
Cortese le aveva donato nell’oscurità, la lama che le aveva salvato la vita in
precedenza e ora di nuovo, quando la conficcò fino all’elsa nel collo di
Remus.
Il tribuno si tenne il buco che lei aveva scavato e un fiotto di sangue gli
zampillò tra le dita. Mia indietreggiò barcollando, inzuppata di rosso. La
luce la bruciava ancora. Teneva gli occhi stretti. I capelli le caddero davanti
alla faccia in cumuli aggrovigliati quando incespicò e cadde.
Remus barcollò; mollò la stretta sulla spada, che cadde rimbalzando
sulla sabbia. Adesso l’uomo aveva entrambe le mani sul collo. Il fiotto
arterioso gli sibilava tra le dita. Nei suoi occhi si leggeva che aveva capito –
mi ha ucciso, oh, Dio, mi ha ucciso –, e quella comprensione si trasformò in
furia quando ruotò verso la ragazza, le mani protese e le dita incurvate in
artigli. Il sangue zampillò liberamente, colando per quel petto simile a un
barile mentre le sue fattezze lupesche perdevano tutto il colorito. Il tribuno
della legione dei Luminatii fece un passo traballante, poi due, poi tre. Crollò
in ginocchio. Tenne lo sguardo fisso sulla ragazza, che faceva del suo
meglio per strisciare via lungo la sabbia.
Remus gorgogliò mentre la luce abbandonava i suoi occhi. E con un
tonfo pesante, il suo cadavere finì di faccia contro il terreno mentre gli
ultimi, deboli battiti del suo cuore tingevano la strada di una tonalità più
scura di rosso. Proprio come lei aveva sempre sognato. Proprio come aveva
sempre voluto.
“Morto.”
Ashlinn rimase immobile, l’orrore dipinto in volto. Alle spalle di Mia,
avvertì altre ombre radunarsi, assiepate attorno ai loro possessori presso la
porta della torre di guardia.
La Reverenda madre.
Solis appoggiato alla sua spalla, sanguinante e ammaccato.
Zitto, silenzioso come la morte, una lama caduta stretta nel pugno.
Aalea e Ammazzaragni dietro di lui, che assieme sostenevano Mouser.
Anche se erano malconci e coperti di sangue, nessuno di loro era un
tenebris. Nessuno si spaventò per la Trinità che Ashlinn aveva in mano. E
trovandosi di fronte cinque degli assassini più esperti di tutta la Repubblica
itreyana, la ragazza fece ciò che chiunque avrebbe fatto nella sua
posizione… e che fosse dannata la sete di vendetta.
Girò i tacchi e scappò.
Zitto e il Culto si allontanarono barcollando dalla torre: nessuno di loro
era nelle condizioni di inseguirla. Ma ora che la Trinità stava scomparendo
lungo la strada, Mia scoprì che il dolore svaniva, così rotolò sulla pancia e
vomitò in silenzio. Girandosi verso Cassius, strisciò al suo fianco,
artigliando la polvere con le dita. Il Signore delle Lame giaceva
raggomitolato, tenendosi il petto, il volto distorto. Mia mormorò piano, gli
staccò le mani insanguinate e impallidì nel vedere la ferita. Eclissi stava
uggiolando, camminando avanti e indietro, le orecchie premute contro il
cranio. Mostrò denti neri.
«… STUPIDA BAMBINA, AIUTALO …!»
«… IO …»
«… AIUTALO …!»
Cassius provò a parlare. Non riusciva nemmeno a respirare. Tossì, rosso
appiccicoso sulle sue labbra, prendendo la mano di Mia e tenendola stretta.
Drusilla barcollò al suo fianco e gli altri membri del Culto si
inginocchiarono per terra attorno a lui.
«Non potete morire» lo implorò Mia. «Mi avete promesso risposte!»
Cassius fece una smorfia di dolore; ogni muscolo del suo corpo si tese e
inarcò la schiena. Tenne lo sguardo fisso negli occhi di Mia e lei lo percepì
fino alle ossa. Qualcosa di primordiale: una solennità schiacciante, un gelo
straziante, una rabbia sconfinata e terribile. Qualcosa che andava oltre la
fame e la nausea che Mia provava quando lui le era vicino. Qualcosa di
prossimo a desiderio. Come amanti separati. Come una persona senza un
arto. Come un puzzle che cercava il suo stesso pezzo mancante.
Voleva chiedergli chi era. Chi era lei. Se lui sapeva qualcosa delle
tenebre dentro o di quelle fuori. Era così vicina. Aveva aspettato così tanto.
Le domande si agitavano dietro i suoi denti, aspettando che lei le
pronunciasse, ma Mia scoprì che il suo respiro si mozzava nei polmoni.
Cassius allungò le mani scarlatte e premette il palmo contro la guancia di
Mia. Le macchiò la pelle con il suo sangue. Era ancora caldo, e l’odore di
sale e rame riempì i polmoni della ragazza. L’uomo le segnò una guancia,
poi l’altra, tracciando infine una lunga scia lungo le labbra e il mento.
Consacrandola, proprio come avrebbe potuto fare nella Sala degli Elogi, se
questo momento, questo finale, questo racconto fosse stato diverso.
Consacrandola come una Lama.
E con un ultimo sospiro, silenzioso com’era stato in vita, il Principe
Nero la lasciò.
Portando con sé le risposte di Mia.
L’umbralupo smise di andare avanti e indietro. Sollevò il capo e riempì
l’aria con un ululato straziante. Si stese per terra accanto a Cassius e cercò
di leccargli la faccia con una lingua che non poteva avvertire i sapori. Gli
toccò la mano con zampe che non avevano tatto.
Messer Cortese osservò l’intera scena in silenzio. Non aveva occhi che
potessero riempirsi di pietà.
I venti di tempesta spiravano dalla baia, freddi e pungenti. Gli assassini
di quel malconcio manipolo chinarono il capo. Mia prese la mano di
Cassius, e il calore della pelle dell’uomo scemò nella sua.
E nel vento, lei sussurrò.
«Ascoltami, Niah» mormorò. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo
banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il nostro
dono per te.»
Sospirò.
«Tienilo stretto.»
EPILOGO

Spezzaspada era nella sua sala a osservare la pioggia giungere nella Baia di
Farrow.
Era scoccata l’illuminotte e la sua città era quasi completamente
silenziosa, il suo popolo rannicchiato presso i focolari mentre all’esterno
infuriavano Trelene e Nalipse. Le signore degli oceani e delle tempeste
avevano litigato parecchio, di recente. L’inverno era stato rigido, le gemelle
continuamente l’una alla gola dell’altra. C’era da sperare che questa sarebbe
stata l’ultima grossa tempesta prima di terzalba: Spezzaspada riusciva a
vedere il bagliore giallo di Shiih spuntare all’orizzonte oltre le nuvole, e
l’arrivo del terzo sole annunciava il lento avanzare verso l’estate.
A dire la verità, non vedeva l’ora. Gli inverni erano più pungenti qui a
Dweym che in qualunque altro posto della Repubblica, e il gelo sempre più
doloroso per le sue vecchie ossa ogni anno che passava. Stava
invecchiando. Avrebbe dovuto già farsi da parte come Bara dei Tredrachi,
ma le sue figlie avevano sposato un paio di idioti, entrambi più muscoli che
cervello. Spezzaspada detestava il pensiero di dare la corona di corallo a
uno di quei due promessi-figli. Se Camminaterra fosse stata ancora qui…
Ma no. Non aveva senso ripensare alla sua figlia più giovane.
Quel tempo era passato, e lei con esso.
Spezzaspada voltò le spalle alla baia e procedette zoppicando per i
lunghi corridoi di pietra della sua fortezza. I servitori si inchinavano al suo
passaggio, gli occhi bassi. Il tuono rimbombava fra le travi sopra la sua
testa. Arrivato nella sua camera, si chiuse la porta alle spalle e guardò il
letto vuoto. Si interrogò sulla crudeltà della vita: sul fatto che un marito
sopravvivesse alla moglie, e a maggior ragione a una figlia. Si tolse la
corona di corallo dalla fronte e la mise da parte, arricciando le labbra.
«Ultimamente è diventata pesante» borbottò. «Fin troppo.»
Sollevando una caraffa di cristallo canterino dweymeri, riempì un
bicchierino con mani tremanti. Se lo portò alle labbra con un sospiro. Fissò
fuori dalla finestra mentre le piogge bersagliavano il vetro, poi si diresse al
focolare ruggente e sospirò quando il calore gli lambì le ossa. La sua ombra
danzava alle sue spalle, tremolando sulle pietre del pavimento e sulle
pellicce.
Si accigliò. Socchiuse le labbra.
Si rese conto che la sua ombra si stava muovendo. Arricciandosi e
contorcendosi. Serpeggiando lungo la pietra, ritirandosi su se stessa e poi –
somma Trelene, ci avrebbe giurato – allungandosi verso la luce del fuoco.
«Nel nome della Signora, cosa…»
La paura fece sbiancare Spezzaspada in volto quando le mani della sua
ombra si mossero per volontà propria. Si protesero verso la gola dell’ombra
stessa, come per strozzarsi da sola. Il vecchio Bara guardò le proprie mani,
l’aureovino nel suo bicchiere, e un brivido lo percorse malgrado il calore
del fuoco.
E allora cominciò il dolore.
Sulle prime fu solo un debole bruciore nello stomaco. Una fitta, come
per un ultimopasto troppo speziato. Ma presto sbocciò, diventando più
forte, più calda, e il vecchio trasalì portandosi una mano all’addome. Attese
che il dolore passasse. Attese che…
«Dea» rantolò, crollando in ginocchio.
Adesso il dolore era come fuoco. Caldo e incandescente. Si piegò in due
e la coppa di cristallo gli scivolò di mano, slittando lungo la pietra,
l’aureovino versato che scintillava al bagliore del fuoco. Ora la sua ombra
era percorsa da spasmi, come dotata di volontà propria. La faccia del
vecchio si contorse mentre una lenta agonia gli artigliava le viscere. Aprì la
bocca per chiamare i servitori, i suoi uomini di fiducia. C’era qualcosa di
sbagliato.
“Qualcosa di sbagliato…”
Una mano scivolò sulle sue labbra, smorzando il suo urlo. Strabuzzò gli
occhi quando udì un sussurro freddo all’orecchio. Fiutò odore di chiodi di
garofano bruciati.
«Salve, Spezzaspada.»
Le parole del vecchio erano ovattate dalla mano. Il suo intestino era in
fiamme.
«Non vedevo l’ora di avere una possibilità di trovarti da solo» disse la
voce. «Per parlare.»
Una donna, si rese conto. Una ragazza. L’uomo sgroppò, cercando di
liberarsi dalla stretta, ma lei tenne duro, forte come necrosso. L’ombra
dell’uomo continuava a deformarsi, a piegarsi, come se lui fosse sdraiato ad
artigliare il cielo. E mentre l’intensità del dolore raddoppiava, scoprì che era
esattamente ciò che stava facendo, girato a pancia in su a fissare la figura
che lo sovrastava tra le lacrime di agonia nei suoi occhi.
Una ragazza, proprio come aveva pensato. Tutta pelle bianco latte, curve
snelle e labbra arcuate. Vide una sagoma prendere forma dall’oscurità ai
piedi della giovane. Piatta come carta e semitrasparente, nera come la
morte. La sagoma avvolse la coda attorno alla sua caviglia, con fare quasi
possessivo. E anche se non aveva occhi, seppe che lo stava osservando, con
lo stesso rapimento di un bambino davanti a uno spettacolo di burattini.
«Ora toglierò la mano. A meno che tu non abbia intenzione di urlare…»
Il vecchio gemette mentre il fuoco gli bruciava nella pancia. Ma fissò la
ragazza con occhi pieni d’odio. Urlare? Lui era il Bara del clan Tredrachi.
Che fosse dannato se avrebbe dato a questa stronzetta furtiva la
soddisfazione…
Spezzaspada scosse il capo. La ragazza ritirò la mano. Poi si inginocchiò
accanto a lui.
«C…» provò a dire. «C…»
«Chi sono?» chiese la ragazza.
Il vecchio annuì, trattenendo un altro gemito di dolore.
«Temo che non saprai mai il mio nome» disse lei. «Ho intrapreso la
strada dell’ombra. Sono una diceria. Un sussurro. Il pensiero che fa
svegliare sudati nell’illuminotte i bastardi di questo mondo. E tu sei un
bastardo, Spezzaspada del clan Tredrachi. Un bastardo su cui ho fatto una
promessa a una persona a cui tenevo, non molto tempo fa.»
Il volto del vecchio si contorse mentre le dita artigliavano il petto. I suoi
intestini erano in ebollizione, bruciavano, tutti acido e vetri rotti. Scosse il
capo e cercò di sputare, ma gli uscì solo un lamento. La ragazza guardò la
coppa di aureovino rovesciata. Il fuoco scintillava nei suoi occhi neri.
«È Cattiveria» disse lei, indicando il bicchiere. «Una dose pura. Ha già
fatto un buco corrodendo il tuo stomaco. Nei prossimi minuti si mangerà i
tuoi intestini. E nel corso dei prossimi cambi, la tua pancia sanguinerà, si
gonfierà e si infetterà. E alla fine morirai, Spezzaspada del clan Tredrachi.
Morirai come ho promesso.»
Sorrise.
«Morirai urlando.»
Un’altra sagoma prese forma accanto alla ragazza. Un’altra ombra, che
fissò Spezzaspada con i suoi non-occhi. Si rese conto che era un lupo.
Ringhiò con una voce che sembrava arrivare da sottoterra.
«… ARRIVANO DEI SERVITORI. DOVREMMO ANDARCENE …»
La ragazza annuì. Si alzò in piedi. Le due ombre osservavano lui. La vita
nei suoi occhi. Tutte le cose giuste e le cose sbagliate che aveva fatto. Tutti i
fallimenti, i trionfi e ciò che c’era in mezzo.
«Se dovessi vederlo nei tuoi vagabondaggi per il Focolare, salutami
Tric.»
Spezzaspada sgranò gli occhi.
La voce della ragazza era delicata come le ombre.
«Digli che mi manca.»
L’oscurità si increspò e il vecchio si ritrovò da solo.
Con le sue urla come unica compagnia.

Il coro stava cantando di nuovo.


La melodia spettrale era tornata quando Mia e il Culto erano giunti dal
viaggio per le Frusciaride, con Naev, Jessamine e la loro squadra di ricerca
al seguito. Le viscere della Montagna si erano tinte di rosso per il sangue di
dozzine di Mani e accoliti sepolti in tombe senza nome nella Sala degli
Elogi, il Signore delle Lame accanto a loro. I nomi del tribuno Remus e del
centurione Alberius erano stati intagliati nel pavimento assieme alle altre
vittime della Chiesa e Mia provò non poco piacere nello stare in piedi sopra
di essi durante la funzione. Le uniche tombe che avrebbero mai conosciuto.
La Reverenda madre aveva pronunciato l’elogio funebre, onorando
coloro che erano caduti per difendere la Montagna e lodando coloro che
avevano salvato la Chiesa Rossa dalla catastrofe. Il Culto era radunato
attorno a lei, solenne e silenzioso. Le poche Mani sopravvissute al massacro
cantarono il ritornello, le loro voci più flebili che nei cambi passati.
Mia aveva fissato una delle nuove tombe per tutto il tempo. Era solo una
lastra come tante nella parete, non diversa dal resto. Non riportava alcun
segno, ed era vuota: dopotutto il suo corpo non era mai stato ritrovato. Ma
quando la funzione era terminata e ciò che rimaneva della congregazione si
era allontanato nell’oscurità, lei si era inginocchiata presso la sua pietra,
aveva estratto il pugnale di necrosso e aveva inciso quattro lettere nella
roccia.
TRIC.
Si era premuta le dita alle labbra, poi le aveva usate per toccare la pietra.
L’Oratore aveva tenuto fede alla propria parola ed era tornato alla
Montagna non appena aveva saputo che il luogo era sicuro. Adonai era
ricomparso con Marielle al suo fianco. Le dita rotte della Tessitrice erano
fasciate e steccate. C’erano voluti mesi prima che guarissero e Marielle
riacquistasse le sue capacità. Ma quando era successo, il suo primo compito
era stato ripagare il debito che aveva con Mia per aver salvato la sua vita e
quella di Adonai.
Lei aveva scelto di ridare a Naev la sua faccia.
La donna attendeva fuori dalle camere dell’Oratore il ritorno di Mia
dalla sua visita al Bara del clan Tredrachi. Dopo che la ragazza si fu lavata
via tutto il rosso nel bagno pubblico, Naev la abbracciò con affetto e la
baciò su entrambe le guance. Poi, senza un’occhiata alla camera o
all’Oratore lì accanto, la donna scortò Mia alla sua stanza. Naev indossava
ancora il suo velo: forse c’era abituata, dopo anni passati a nascondere il
viso, o forse, al pari di Mia, sapeva che alla fine non aveva importanza il
loro aspetto, ma quello che avevano fatto.
O forse le piacevano semplicemente i veli.
Le due si fermarono fuori dalla camera da letto di Mia. Naev aprì la
porta con un sorriso. Le stanze nell’ala della Montagna dedicata alle Lame
erano più grandi, più intime e avvolte nell’eternotte. Il letto di Mia era
abbastanza ampio perché lei potesse perdercisi. A dire la verità, odiava
dormirci: era troppo facile sentirsi sola. Ma era stata consacrata da Cassius
davanti all’intero Culto: nonostante i dubbi di Drusilla o di Solis, adesso era
una Lama. E sarebbe stata qui finché il Culto non l’avesse assegnata a una
Cappella. Lei aveva chiesto Godsgrave, naturalmente, ma nessuno sapeva
dove sarebbe potuta finire.
«Prima che Naev dimentichi…»
Naev indicò col capo il suo comodino. Sul legno era posato un tomo
avvolto in cuoio nero, rilegato con una fibbia argentea.
«L’ha mandato il Cronista per te. Ha detto che avresti saputo cosa voleva
dire.»
A Mia sobbalzò il cuore nel petto. Ringraziò di nuovo Naev, si chiuse la
porta alle spalle e si lasciò cadere sul materasso. Messer Cortese apparve
sulla testiera, ed Eclissi ai piedi del letto. Le due ombre si fissarono con i
loro non-occhi, l’aria che sfrigolava di sfiducia. Messer Cortese aveva
insistito con Mia a lungo che Eclissi non aveva alcun ruolo al suo fianco.
Ma la lupa d’ombra era sembrata completamente sperduta dopo la morte di
lord Cassius. Aveva passato cambi a vagare per il ventre della Montagna,
ululando la sua disperazione. Infine Mia l’aveva rintracciata su richiesta di
Drusilla e aveva chiesto a Eclissi di camminare con lei, dato che non aveva
nessun altro con cui farlo. La lupa l’aveva fissata a lungo senza dire nulla e
Mia aveva pensato che avrebbe rifiutato. Ma quando la ragazza aveva
abbassato lo sguardo sull’oscurità ai suoi piedi, aveva scoperto che era
diventata ancora più cupa.
Abbastanza per tre.
Mia raccolse il libro dal comodino e fissò la copertina. Strani simboli
erano sbalzati sul cuoio, e guardarli le faceva dolere gli occhi. Aprendo la
fibbia, vide un messaggio, scritto con la calligrafia finissima del Cronista.
Otto parole.
“Un’altra ragazza con una storia da raccontare.”
Mia sfogliò le pagine, scricchiolanti e segnate dall’età, studiando le
meravigliose illustrazioni all’interno. Forme umane, con le ombre di bestie
differenti ai loro piedi. Lupi e uccelli. Vipere e ragni. Altre cose, mostruose
e oscene. Si accigliò nel vedere gli strani emblemi, che si muovevano e si
deformavano davanti ai suoi occhi.
«Non conosco questa scrittura.»
«… dubito che esistano molti a questo mondo in grado di leggerla…»
«Ma tu ci riesci?»
Messer Cortese annuì.
«… non so come. ma le lettere… mi parlano…»
Eclissi si alzò sulle zampe e attraversò il materasso per mettersi accanto
a Mia. Messer Cortese soffiò e la lupa ringhiò di rimando, scrutando le
pagine tra le mani di Mia.
«… ANCH’IO RIESCO A LEGGERLO …»
«Come si intitola?»
Il non-gatto si lasciò cadere sulla spalla di Mia ed esaminò gli strani
simboli mutevoli.
«… la tenebra affamata…»
Mia fece scorrere le dita sulle pagine. Le ombre inchiostrate in nero, il
testo strisciante e semovente. Poteva essere questa. La risposta a tutte le sue
domande. Chi era. Cosa era. Oppure potevano essere semplici sciocchezze.
Un libro che era morto perché non avrebbe mai dovuto esistere; solo un
altro guscio senza vita dalla biblioteca dei morti di Niah.
«Volete leggermelo?»
«… desideri davvero sapere…?»
«Come puoi chiederlo? Ci occorre comprendere cosa siamo, Messer
Cortese.»
«… mi piacciono le cose come sono ora…»
«… TE LO LEGGERÒ IO …»
«… torna nella tua cuccia, cagnaccio…»
«… STAI ATTENTO, PICCOLO AILURO. SOLO I VERI GATTI HANNO NOVE
VITE …»
«… lei apparteneva a me prima di essere tua…»
«… SE DEV’ESSERE DI QUALCUNO,È DI SE STESSA …»
Mia diede una manata sulle pagine, poi fissò le ombre attorno a lei.
«Leggete.»
Il non-gatto sospirò. Si sistemò sulla spalla di lei ed esaminò il testo
ondeggiante. L’inchiostro era più nero del nero, sfocato e turbinante davanti
agli occhi di Mia. Se fissava quella scrittura troppo a lungo, cadeva preda di
uno strano senso di vertigini, perciò si concentrò sulle illustrazioni,
bellissime e mostruose. Sfogliò una pagina dopo l’altra, mentre la coda del
non-gatto si muoveva da un lato all’altro e la non-lupa se ne stava
completamente immobile.
«… si tratta perlopiù di sciocchezze, le farneticazioni degli
squilibrati…»
«Dev’esserci qualcosa.»
«… IL NOME DELL’AUTRICE ERA CLEO. VISSE NELL’EPOCA CHE
PRECEDETTE LA REPUBBLICA. PARLA DELLA SUA INFANZIA. SPOSÒ UN UOMO
CRUDELE PRIMA ANCORA CHE FOSSE SBOCCIATA. LE OMBRE ERANO LE SUE
UNICHE AMICHE …»
«… quando calò il verobuio l’anno in cui ebbe il suo primo sangue,
strozzò suo marito con le tenebre quando lui venne a prenderla. fuggì e
viaggiò per tutta liis in cerca di… credo che la parola sia “verità”…?»
«… VERITÀ, SÌ …»
«… non l’ho chiesto a te, cagnaccio…»
Eclissi ringhiò e Mia sorrise, facendo scorrere la mano sul collo
dell’umbralupa.
Le parti successive del tomo erano perlopiù illustrazioni: disegni
mutevoli di nero, una forma femminile con una moltitudine di ombre
differenti. Intere pagine ricoperte di indecifrabili scarabocchi, come un cielo
di verobuio con tutte le stelle evidenziate in chiazze di bianco spoglio.
«… QUESTO NON È CHIARO. LEI PARLA DELL’AMORE DELLA MADRE. DEI
PECCATI DEL PADRE. DEL BAMBINO DENTRO DI LEI …»
«Era incinta?»
«… è piuttosto chiaro che fosse pazza…»
«Trovò la verità che cercava?»
Messer Cortese passò all’altra spalla di Mia e scrutò con attenzione la
pagina.
«… dice di percepire altri come lei. è attratta da loro come il ragno con
la mosca…»
L’immagine di una donna ammantata di nero. Ombre si srotolavano dalla
punta delle sue dita.
«… scrive di fame…»
Una pagina nera, ricoperta da centinaia di bocche, piena di denti aguzzi.
«… FAME INSAZIABILE …»
Ampie pennellate, nere e violente.
«… oh cielo…»
«Cosa?»
«… parla di incontri con altri come lei. coloro che parlavano alla
tenebra. dice di averli incontrati e…»
«… E?»
Eclissi ringhiò piano in fondo alla gola.
«… DI AVERLI MANGIATI …»
«’Bisso e sangue…»
«… i molti erano uno…» lesse Messer Cortese «… e lo saranno ancora;
una sotto i tre, per elevare le quattro, liberare la prima, accecare il secondo
e il terzo. o madre, madre nera, cosa sono diventata…»
«Denti della Mannaia.»
«… proprio così…»
«Qualcosa di tutto questo ti sembra o ti suona familiare, Eclissi? Questi
disegni? Questa storia? Tu o Cassius avete mai visto nulla del genere?»
«… NON ABBIAMO MAI CERCATO …»
«Mai?»
«… CASSIUS NON METTEVA IN DISCUSSIONE LA SUA NATURA. NON GLI
IMPORTAVA COSA FOSSE, SOLO DI ESISTERE …»
Mia sospirò. Scosse il capo.
«Che ne fu di lei? Di Cleo?»
«… continuo a leggere…»
Le ombre tacquero quando Mia voltò la pagina. Lì sulla pergamena c’era
una mappa che delineava il mondo conosciuto. Le nazioni di Itreya e Liis,
di Vaan e della vecchia Ashkah. Lontano nel mezzo delle Frusciaride
ashkahi, circondata dalle forme mutevoli di quelli che potevano essere solo
kraken delle sabbie, c’era una X segnata in inchiostro rosso.
«… parla di un viaggio…»
«… “IN CERCA DELLA CORONA DELLA LUNA ”…»
Mia sbatté le palpebre. «Luna?»
«… è quello che dice…»
Mia si morse il labbro. Girò pagina e le si mozzò il fiato in gola.
«Guardate questo…»
La pagina era un’altra mappa del mondo conosciuto, disegnata dalla
stessa mano. Ma, sulla costa occidentale di Itreya, la baia che ospitava la
città di Godsgrave era sparita. Al suo posto c’era un territorio, una penisola
che sporgeva nel Mare del Silenzio. E nel cuore di quella penisola, dove ora
era situata la grande metropoli, era segnata un’altra X, con uno
scarabocchio in movimento vergato con inchiostro rosso lì accanto.
«Cosa dice?»
Messer Cortese guardò la pagina.
«… “qui precipitò”…»
«Luna?»
«… presumibilmente…»
Mia fissò la mappa.
Il punto dove ci sarebbe dovuta essere la città di ponti e ossa.
“Godsgrave…”
«Chi o cosa è Luna?» chiese Mia.
Ma le ombre non risposero.
DICTA ULTIMA

Suppongo che ora pensiate di conoscerla.


La ragazza che alcuni chiamavano Figlia Pallida. O Incoronatrice. O
Corvo. La ragazza che stava all’omicidio come i maestri alla musica. Che
riservava al lieto fine lo stesso trattamento di un seghetto all’epidermide.
Guardate ora le rovine nella sua scia. Mentre la luce pallida scintilla
sulle acque che hanno inghiottito una città di ponti e ossa. Mentre le ceneri
della Repubblica danzano nel buio sopra le vostre teste. Fissate muti il
cielo infranto, sentite il sapore di ferro sulla vostra lingua e ascoltate
mentre venti solitari sussurrano il suo nome come se anche loro la
conoscessero.
Pensate che riderebbe o piangerebbe nel vedere il mondo che la sua
stessa mano ha creato?
Pensate che sapesse che si sarebbe giunti a questo?
Pensate di conoscerla affatto?
Non ancora, piccoli mortali. Nemmeno della metà.
Ma dopotutto questo racconto è solo uno di tre.
Nascita, vita e morte.
Perciò ora prendete la mia mano.
Chiudete gli occhi.
E camminate con me.
RINGRAZIAMENTI

Ringraziamenti profondi come la tenebra vanno alle seguenti persone:


Amanda, Peter, Emma, Paul, Justin, Allison, Nancy, Kim, Young, Mike,
Melissa, e tutti quanti alla Thomas Dunne/SMP, Emma, Kate e tutti quanti
alla Harper Voyager UK, Mia, Matt, Lindsay, Josh, Tracey, Samantha,
Stefanie, Steven, Steve, Jason, Megasaurus, Kat, Stef, Wendy, Marc, Vilma,
Molly, Tovo, Orrsome, Tsana, Lewis, Shaheen, Soraya, Amie, Jessie,
Caitie, Louise, Marc, Tina, Maxim, Zara, Ben, Clare, Jim, Weez, Sam, Eli,
Rafe, AmberLouise, Caro, Melanie, Barbara, Judith, Rose, Tracy, Aline,
Louise, Anna, Adele, Jordi, Ineke, Kylie, Julius, Antony, Antonio, Emily,
Robin, Drew, William, China, David, Aaron, Terry (RIP), Douglas (RIP),
George, Margaret, Tracy, Ian, Steve, Gary, Mark, Tim, Matt, George,
Ludovico, Philip, Randy, Oli, Corey, Maynard, Zack, Pete (RIP), Robb, Ian,
Marcus, Trent, Winston, Tony, Kath, Kylie, Nicole, Kurt, Jack, Max e
Poppy.
Agli abitanti e alla città di Roma.
Agli abitanti e alla città di Venezia.
E a te.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
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Nevernight. Mai dimenticare


di Jay Kristoff
Copyright © 2016 by Neverafter PTY LTD
All rights reserved
Titolo originale dell’opera: Nevernight
© 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi ed eventi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore o usati in modo fittizio.
www.jaykristoff.com
Ebook ISBN 9788852096648

COPERTINA || PROGETTO GRAFICO: CHERIE CHAPMAN © HARPERCOLLINSPUBLISHERS LTD 2016 |


ILLUSTRAZIONE © KERBY ROSANES E IMMAGINI © SHUTTERSTOCK
INDICE

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
NEVERNIGHT. MAI DIMENTICARE
CAVEAT EMPTOR
LIBRO 1. QUANDO TUTTO È SANGUE
CAPITOLO 1. PRIMI
CAPITOLO 2. MUSICA
CAPITOLO 3. DISPERATA
CAPITOLO 4. GENTILEZZA
CAPITOLO 5. COMPLIMENTI
CAPITOLO 6. POLVERE
CAPITOLO 7. PRESENTAZIONI
CAPITOLO 8. SALVEZZA
CAPITOLO 9. TENEBRA
LIBRO 2. FERRO O VETRO
CAPITOLO 10. CANTO
CAPITOLO 11. RICREATA
CAPITOLO 12. DOMANDE
CAPITOLO 13. LEZIONE
CAPITOLO 14. MASCHERE
CAPITOLO 15. VERITÀ
CAPITOLO 16. CAMMINO
CAPITOLO 17. ACCIAIO
CAPITOLO 18. FLAGELLO
CAPITOLO 19. MASCHERATA
CAPITOLO 20. FACCE
CAPITOLO 21. PAROLE
CAPITOLO 22. POTERE
CAPITOLO 23. SCAMBIO
CAPITOLO 24. FRIZIONE
CAPITOLO 25. PELLE
CAPITOLO 26. CENTO
CAPITOLO 27. VEROBUIO
LIBRO 3. NERO SCORRE ROSSO
CAPITOLO 28. VELENO
CAPITOLO 29. DIVISIONE
CAPITOLO 30. FAVORI
CAPITOLO 31. DIVENTARE
CAPITOLO 32. SANGUE
CAPITOLO 33. PASSI
CAPITOLO 34. INSEGUIMENTO
CAPITOLO 35. KARMA
CAPITOLO 36. TRAMONTO
EPILOGO
DICTA ULTIMA
RINGRAZIAMENTI
Copyright

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