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.134.

IHARA SAIKAKU
VITA DI UNA DONNA
LICENZIOSA
A CURA DI LYDIA ORIGLIA
CON UNO SCRITTO DI IVAN MORRIS

ES

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Titolo originale: Kōshoku ichidai onna

Per lo scritto di Ivan Morris


© NEW DIRECTIONS

© 2004 ES SRL
VIA SAN CALIMERO 11 - 20122 MILANO
ISBN 9788898401055

In copertina: Kitagawa Utamaro, Giovane donna con gabbia di lucciole, 1795 circa.

Prima edizione e-book luglio 2013.

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VITA DI UNA DONNA LICENZIOSA

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Le illustrazioni che corredano questa edizione di Kōshoku ichidai onna sono dovute a Yoshida
Hanbei. Per ulteriori notizie si rimanda allo scritto di Ivan Morris.

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CAPITOLO PRIMO

IL RIFUGIO DELLA VECCHIA DONNA

«Una bella donna è un’ascia che tronca la vita»1 dicevano gli antichi. È
naturale che prima o poi il corpo sfiorisca e diventi secco come legna da
ardere. Molti sono però gli stolti che si lasciano travolgere dal turbine delle
passioni e si consumano anzitempo fino a morirne. Questa specie di uomini,
purtroppo, è dura a estinguersi. Dovendo recarmi a Saga,2 a occidente della
capitale, il giorno dell’uomo del primo mese,3 mi accingevo ad attraversare
il fiume Mumezu,4 dalle correnti profumate di petali di fiori, un
inequivocabile annuncio dell’imminente primavera,5 quando incontrai due
uomini. Il primo era di bell’aspetto, vestito all’ultima moda, ma come
logorato nel fisico e con il volto pallido, alterato dalle passioni amorose: si
capiva che gli rimanevano ben poche speranze, e che sarebbe probabilmente
morto prima del padre.
«Non posso proprio lamentarmi. L’unica cosa che vorrei è che il liquido
dell’amplesso non si estinguesse mai, come la corrente di questo fiume»
disse. Al che l’amico, stupito, rispose: «Io invece vorrei che ci fosse un
paese assolutamente privo di donne. Andrei subito ad abitarvi, se esistesse,
così la mia vita, che tanto mi è preziosa, durerebbe più a lungo e potrei
contemplare a mio agio le cose di questo mondo che incessantemente
mutano e si trasformano».
Quei due uomini esprimevano opinioni contrastanti sulla vita e sulla
morte, ma che la vita sia breve o lunga dipende solo dal destino:
camminando e discorrendo con passione parevano inseguire, incantati, un
sogno non ancora svanito. La strada si trasformò in un sentiero serpeggiante
alle falde di un monte e finalmente, dopo aver implacabilmente calpestato
piantine di hōfu6 e cardi selvatici appena spuntati, giungemmo all’ombroso
versante settentrionale di una montagna solitaria. Davanti a noi si stendeva
un boschetto di pini femmina in mezzo a cui s’intravedeva un recinto di
lespedeze secche e una capanna la cui porta era difesa da una cortina di esili
bambù intrecciati, con una apertura per lasciar passare il cane.

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Avvicinandoci, notammo che la capanna era quasi completamente ricavata
da un anfratto naturale della roccia con la semplice aggiunta di un tetto di
rampicanti ancora cosparso di foglie d’edera del passato autunno. Sulla
sinistra, sotto un salice, un tubo di bambù convogliava con fresco rintocco7
la limpida acqua di un piccolo ruscello. Mi stavo chiedendo chi fosse mai il
santo eremita che viveva in un simile luogo quando mi accorsi, con stupore,
che si trattava di una donna, ormai consunta dagli anni, i capelli bianchi
come brina pettinati alti sul capo in tre ciocche rigonfie, gli occhi velati
come l’ombra della luna al suo svanire, e con una vecchia veste dalle
maniche non molto ampie, di colore azzurro con crisantemi bianchi a otto
petali, un obi8 corniolo di Palazzo9 di media lunghezza allacciato sul
davanti: nell’insieme un abbigliamento ancora elegante e grazioso. Su una
sporgenza, davanti a quella che sembrava la stanza da letto, era appesa una
tavoletta di legno bagnato con la scritta: «Romitaggio di una libertina». La
vecchia somigliava in qualche modo a quel tipo d’incenso chiamato
hatsune,10 che lascia una persistente fragranza anche dopo aver finito di
ardere. Provai una così viva curiosità che il cuore, potendo, mi avrebbe
preceduto volando là dentro attraverso la finestra. Ero ancora fermo sulla
soglia quando quei due, con modi disinvolti e senza neppur chiedere
permesso, entrarono nella capanna. Vedendoli la vecchia sorrise.
«Siete dunque tornati! Perché mai voi che siete ancora giovani sacrificate
gli inebrianti piaceri del mondo per venire a trovare una vecchia? Siete
come il vento sonoro quando visita alberi secchi. Le mie orecchie sono
tarde a sentire, la mia lingua è pesante a parlare. Sono già trascorsi sette
anni da quando mi sono rifugiata qui, lontano dalle avversità del mondo.
Quando sbocciano i fiori di susino capisco che è primavera, quando il verde
delle montagne scompare sotto il manto bianco della neve capisco che è
tornato l’inverno. Non accade mai che qualcuno venga a trovarmi. Perché
voi siete venuti?».
«Perché siamo travolti e torturati dalle passioni amorose senza esser
riusciti a conoscerne l’autentico volto. Una persona ci ha parlato di te e ci
ha insegnato la strada per raggiungerti. Narraci, te ne supplichiamo, la tua
vita di un tempo». Così dicendo l’uomo trasse una borraccetta di bambù e
una tazza laccata d’oro e, versatovi del sake,11 la porse con gesto risoluto
alla vecchia. Il liquore sortì il suo effetto perché ben presto lei prese a
cantare antiche canzoni d’amore, accompagnandosi abilmente con le corde
di uno strumento. Poi incominciò a narrare episodi della sua vita libertina.

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«Io non sono di umili natali. Mia madre non era nobile, ma mio padre
discendeva da un dignitario della corte dell’imperatore Go Hanazono.12
Purtroppo la mia famiglia, travolta dalle vicissitudini di questo mondo,
decadde a tal punto che non avevamo quasi più di che vivere. Io avevo
lineamenti gentili ed ero di leggiadro aspetto, così potei entrare a far parte
del seguito di una dama e stabilirmi a corte. Lì ammirai e appresi costumi
eleganti e raffinati. Se fossi rimasta a corte non mi sarebbe accaduto nulla di
male, come purtroppo poi accadde. Compiuti gli undici anni, agli inizi
dell’estate presi infatti a provare strani turbamenti, e non mi appagavo più
di come mi acconciavano i capelli, e volevo pettinarmeli gonfi e laccati con
la nuca nuda, oppure a coda di cavallo trattenuta da un nastro invisibile,
foggia che divenne poi di moda. In quell’epoca incominciai anche ad
abbigliarmi con lo sfarzo di una bambola, con kimoni di seta dai motivi del
tipo a tinte di Palazzo,13 allora molto in voga. I nobili a quel tempo si
dedicavano alla poesia e al gioco del kemari14 con modi e intenti a tal punto
libertini che, vedendoli e ascoltandoli, provavo un profondo turbamento e
finii per desiderare io stessa l’amore, così m’abbandonai alle passioni.
Ricevetti allora innumerevoli lettere d’amore, tutte scritte in tono
terribilmente ardito, e non trovando il modo di sbarazzarmene le affidai a
una guardia particolarmente discreta affinché le bruciasse. Costui poi mi
riferì che un foglio con i nomi di tutti gli dèi era stato miracolosamente
risparmiato dalle fiamme ed era volato via in direzione del tempio di
Yoshida. Niente è così misterioso come l’amore. Quasi tutti i miei
spasimanti erano giovani, belli e seducenti. Uno solo di loro, un samurai
celeste15 al servizio di un signore, era volgare d’aspetto e inviso a tutti: la
prima lettera che mi scrisse era struggente, e poi continuò a tempestarmi di
missive. Finii così per contraccambiare il suo amore, lo incontrai
segretamente e gli feci dono del mio corpo. Purtroppo non riuscimmo a
evitare le maldicenze e così un mattino ci scoprirono insieme. Fummo
scacciati da corte, e ci abbandonarono nelle vicinanze del ponte di Uji16
dopo averci inflitto una severa pena corporale. Il mio sfortunato amante ne
morì. Per alcuni giorni non riuscii né a dormire né a sognare, ma la sua
immagine silenziosa continuava ad apparirmi accanto al guanciale: ero
talmente atterrita e angustiata che meditavo di uccidermi.

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Così dicendo l’uomo trasse una borraccetta di bambù e una tazza laccata d’oro e, versatovi del
sake, la porse con gesto risoluto alla vecchia. Il liquore sortì il suo effetto perché ben presto lei prese
a cantare antiche canzoni d’amore, accompagnandosi abilmente con le corde di uno strumento. Poi
incominciò a narrare episodi della sua vita libertina.

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Passarono altri giorni e finii per dimenticarlo. Da questo si può giudicare
quanto terribilmente incostante sia il cuore di una donna. La cosa strana era
che allora avevo solo tredici anni e che nessuno, vedendomi, poteva prestar
fede alle mie disavventure. Un tempo le fanciulle, quando lasciavano la
casa dei genitori per raggiungere quella dello sposo, si rattristavano e
bagnavano di pianto le maniche della veste, ora invece sono più scaltrite,
tollerano a malapena la presenza del paraninfo, si preparano in gran fretta e
attendono con impazienza la portantina, su cui salgono rapide e con
impudente soddisfazione. Solo fino a una quarantina d’anni fa, invece, le
ragazze di diciotto e diciannove anni giocavano ancora davanti alla porta di
casa a cavalcioni di rami di bambù e per i ragazzi la cerimonia di
iniziazione al mondo degli adulti era fissata a venticinque anni. Come tutto
cambia in fretta in questo mondo! A quel mio primo amore che tinse le

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acque profumate di spirea17 ne seguirono altri che finirono per distruggermi
l’anima e il corpo.

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I PIACERI DELLA MUSICA E DELLA DANZA

Una persona particolarmente informata mi disse un giorno che Kyōto


superiore e Kyōto inferiore18 differivano per un’infinità di particolari. L’ho
potuto verificare io stessa in occasione della danza di Komachi,19 che si
svolge quando sono già appassite le tinte floreali degli yukata:20 il ritmo dei
tamburi delle fanciulle dalle lunghe e ampie maniche e dai capelli divisi in
due bande arrotolate sulle orecchie è cadenzato e solenne fino a Shijōdori,21
come si addice all’atmosfera di una capitale; più in giù, invece, le strade
risuonano di urla esagitate e di passi concitati, al punto che si stenta a
credere si tratti della medesima città. Tra la gente, poi, quasi nessuno sa
battere le mani con giusta cadenza.
Era già iniziata l’era di Manji22 quando un musico di nome Shuraku, che
viveva presso il fiume Abegawa nel paese di Suruga,23 si recò a Edo24 per
esibirsi al capezzale di un grande signore, dietro la zanzariera di carta,
suonando contemporaneamente con grande abilità ben otto strumenti.25 In
seguito si stabilì a Kyōto e si perfezionò componendo musica squisita, che
insegnava a diverse giovani allieve affinché perpetuassero la sua arte. In
realtà intendeva istruire quelle belle fanciulle non per formare una
compagnia di kabuki femminile,26 ma per offrirle ai nobili come trastulli di
una notte; per questo curava molto anche il loro aspetto. Erano infatti
abbigliate elegantemente, con sottovesti di seta rossa dal collo rivoltato,
vesti candide con ricami di lamine d’oro e d’argento e sottili stole
damascate. Indossavano inoltre obi annodati sul dietro,27 di un tessuto a rete
con fili di tre colori in cui erano infilati lo spadino di legno, il portaoggetti28
e il borsellino, tutti ugualmente dorati. Inoltre alcune avevano i capelli
rasati alla sommità del capo, proprio come gli uomini; altre invece si
limitavano a pettinarseli rigonfi sulla nuca come i ragazzi. Il loro compito
era cantare, danzare, servire il sake nei banchetti. In occasione di quelli che
si tenevano nelle locande di Higashiyama,29 a cui partecipavano samurai e
uomini anziani convenuti da tutto il paese, bastava invitare sei o sette di
queste fanciulle per creare un’atmosfera elegante e spensierata. Ma tutto
questo non sarebbe bastato se i convitati fossero stati giovani nel fulgore
della loro virilità invece che uomini anziani; d’altronde non si sarebbe

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onestamente potuto pretender di più da fanciulle a cui si dava una sola
moneta d’oro.
Erano quasi tutte graziose e giovanissime, di un’età variabile dagli undici
ai tredici anni, ma già così ben istruite da aver assimilato appieno lo spirito
e i costumi della capitale e da saper trattare i clienti ancor più abilmente
delle apprendiste cortigiane30 del quartiere dei piaceri di Naniwa.31
Divenute più adulte, non potevano più rifiutare di concedersi ai clienti.
Agivano però con astuzia, ignorando volutamente qualsiasi imposizione,
mostrando con civetteria di volersi offrire spontaneamente. Così, mentre si
liberavano dagli abbracci troppo insistenti, si affrettavano a sussurrare: “Se
veramente mi desiderate, recatevi da solo a casa del mio maestro e offritegli
del sake. Non appena si sarà addormentato in preda all’ebbrezza, offrite
qualche moneta32 alle mie compagne: baderanno loro a vigilare e noi
potremo stare insieme”. In tal modo riuscivano a adescare i clienti e a
estorcer loro parecchio denaro, soprattutto se si trattava di provinciali.
Sebbene sia un segreto che la gente per bene ignora, anche la danzatrice più
fortunata e famosa si vende per un po’ di argento.33 Allora anch’io ero
giovane, e pur non avendo in animo di esercitare quel mestiere, me ne
sentivo attratta. Così tutti i giorni partivo da Uji per andare in quella scuola
e imparare le arti allora più in voga. Appresi a danzare così abilmente che
tutti mi lodavano, per cui cedetti alle lusinghe e decisi di condividere il
mestiere di quelle fanciulle, sebbene vi fosse chi fervidamente me lo
sconsigliava. Così incominciai anch’io a partecipare a feste e a banchetti.
Tuttavia ero sempre accompagnata da mia madre e non mi comportavo
liberamente come le altre; proprio per questo vi fu chi s’innamorò di me e,
disperando di potermi mai possedere, si uccise. A quel tempo una signora
delle province occidentali34 aveva preso alloggio a Kawaramachi35 per
trascorrervi un periodo di convalescenza, dai giorni della brezza serotina36
fino all’apparire delle bianche nevi sui monti a nord. Non doveva esser stata
una malattia particolarmente grave, perché si limitava a bere qualche
medicina e a compiere tutti i giorni in portantina lunghe escursioni in
montagna. Così un giorno l’incontrai presso il Takasegawa:37 dovetti
piacerle subito perché da allora mi mandò a chiamare tutti i giorni e sia lei
che il marito mi colmavano di continue gentilezze. Un giorno mi dissero
che il mio comportamento non era quello di una ragazza ordinaria, per cui
avrei potuto divenire la moglie del loro unico figliolo che li attendeva al
paese. Era un’opportunità meravigliosa. La signora era così brutta che non

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se ne sarebbe trovata una uguale, e non solo nella capitale. Il marito, invece,
era persino più bello dei nobili di corte. Certamente pensavano che non
avessi esperienza alcuna delle cose del mondo perché mi facevano dormire
insieme a loro, e in tal modo ero testimone dei loro piaceri. Io vi assistevo
turbata, pensando che li avevo gustati anch’io, e già da tre anni, e stringevo
i denti cercando di mantenermi calma. Una notte m’accadde di svegliarmi
in preda a una profonda tristezza, quando all’improvviso sentii una gamba
del marito sfiorarmi il corpo: dimentica di ogni convenienza e rassicurata
dal respiro profondo della signora, mi infilai sotto la sua veste e finii col
sedurlo. Purtroppo il nostro amore venne scoperto e fui scacciata, tra il
dileggio generale, con un: “Davvero ci si può aspettar di tutto dalle donne
della capitale! Da noi le ragazze della sua età giocano ancora davanti alla
porta a cavalcioni di un ramo!”.
Così dovetti far ritorno dai miei genitori.

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LA BELLA CONCUBINA DEL GRAN SIGNORE

Il vento tra i pini non risuona a Edo.38


Negli anni dei Tōgokuzume39 abitava in questa città un daimyō che da
poco era divenuto vedovo. I suoi famigliari, dispiaciuti che non avesse un
erede, scelsero quaranta giovani, belle e di buona famiglia, e gliele
presentarono per capire quale preferisse: gliel’avrebbero poi fatta trovare in
camera, per cui non si sarebbe potuto esimere dall’amarla. Erano tutte
bellissime, come boccioli di ciliegio che una sola goccia di pioggia schiude,
e non ci si sarebbe mai stancati di ammirarle. Invece nessuna di loro
piacque al daimyō. E, a ben pensarci, effettivamente le ragazze di Azuma40
hanno sempre avuto difetti: piedi piatti, collo grosso, pelle ruvida, poco
tatto e scarso fascino sensuale, nessuna ambizione, nessun timore, una
grande sincerità; tutte caratteristiche, codeste, che difficilmente sono
propizie nella vita amorosa. In nessun altro luogo è possibile trovar donne
come quelle della capitale. Innanzi tutto non ve n’è nessuna che possa
vantare un linguaggio aggraziato come il loro: per nulla artefatto,
tramandato naturalmente di madre in figlia, e tipico della regione.41 In
quella delle Otto nuvole,42 invece, non esiste quasi diversità tra il
linguaggio degli uomini e quello delle donne, mentre nella lontana Oki43 la
gente, nonostante l’aspetto piuttosto umile, usa un linguaggio non dissimile
da quello della capitale. Questo è certamente retaggio degli anni trascorsi lì,
in esilio, dal secondo principe imperiale,44 che era anche esperto cultore
delle arti femminili del koto,45 del go,46 dei profumi e della poesia. Nella
certezza, dunque, che nella capitale avrebbero potuto trovare una donna che
piacesse al daimyō, i suoi famigliari vi inviarono un vecchio servitore, da
anni adibito alla sorveglianza delle donne di casa. Costui aveva settant’anni:
per vedere doveva mettersi gli occhiali, aveva pochi denti, per cui aveva
dimenticato persino il sapore dei polpi, e anche i sottaceti non li poteva
mangiare se non tritati. Era dunque costretto a trascorrere i suoi giorni senza
alcun piacere; riguardo poi alla vita amorosa, nonostante portasse il
fundoshi,47 era meno maschio di quanto potrebbe esserlo una serva:
insomma, l’unica cosa che poteva fare era sbizzarrirsi nel dire oscenità. Per
quell’incarico l’avevano però vestito come un samurai, con hakama48 e
kataginu,49 ma senza concedergli lo spadino infilato nella cintola, e gli

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avevano affidato le monete d’argento necessarie. Mandare proprio lui nella
capitale a scegliere una donna era una cosa insulsa, come un buddha di
pietra per un gatto,50 ma era l’unico che potesse dare una rassicurante
garanzia di serietà. Se fosse stato giovane, anche se santo, non si sarebbero
certamente fidati di lui. Quando giunse nella paradisiaca capitale, si recò
alla Casa di Bambù, un negozio di kimono nel quartiere di Muromachi.51
Non appena entrato, disse: “Si tratta di una faccenda delicata: non posso
confidarmi con voi commessi, perché siete troppo giovani; ne devo
discutere privatamente con i vecchi padroni”. Ottenuto il colloquio, dopo i
convenevoli pose fine all’attesa degli ospiti con un compunto: “Sono in
cerca di una concubina per il mio signore”. Gli fu risposto: “È normale,
trattandosi di un daimyō. Orsù, diteci come la desidera”. Al che il vecchio,
estraendo un dipinto di donna da una custodia per pitture su rotolo di
paulonia venata, sentenziò: “Ne vuole una da ‘abbracciare’ che somigli a
questa” e aggiunse: “Innanzi tutto deve essere di un’età compresa tra i
quindici e i diciotto anni, inoltre deve avere un viso moderno e un po’
rotondeggiante, un incarnato del rosato biancore dei fiori di ciliegio, i
quattro tratti salienti del viso52 regolari, il taglio degli occhi non troppo
sottile, le sopracciglia folte, il naso modesto alla radice ma ben conformato
nelle altre parti, la bocca piccola, i denti di un bianco splendente, le
orecchie un po’ lunghe ma con lobi sottili, lievemente discoste in modo che
se ne veda l’attaccatura, la fronte di una spaziosità perfettamente naturale, il
collo lungo, l’attaccatura dei capelli regolare, le dita delle mani morbide,
piuttosto lunghe e con unghie di scarso spessore, i piedi lunghi esattamente
venti centimetri con l’alluce così incurvato53 che si possa vedere il
polpastrello, il tronco più lungo della media, i fianchi sodi e non troppo
abbondanti, le cosce prosperose ma che non stonino con la linea delle vesti,
infine una figura elegante, un carattere mite, una conoscenza profonda delle
arti femminili, e neppure un neo sul corpo. Ecco come il mio signore la
desidera”. Allora gli dissero: “Sebbene la capitale sia grande e il numero
delle donne quasi infinito, sarà difficile trovarne una con tutti questi
requisiti; comunque, dato che è un così gran signore a volerla e dato che
non bada a spese, la cercheremo e, qualora esista, la troveremo”. Si
rivolsero dunque a un esperto, un certo Hanaya Kakuemon, un tenutario di
case di piacere di Takeyamachi.54 In genere il compenso di chi procura una
concubina è di cento monete d’oro, con un anticipo di dieci. Di queste dieci
monete d’oro, dieci d’argento vanno alla donna incaricata di compiere la

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commissione. Se la prescelta non ha di che vestirsi per il giorno della
presentazione, può facilmente prendere in affitto quanto le necessita, ossia
una veste candida dalle maniche di lunghezza normale, oppure una nera
damascata, un obi largo, tessuto alla cinese,55 biancheria di crespo rosso,
persino un manto come quelli che si usano a corte e un tappeto per la
portantina. Tutto questo lo si può affittare per un giorno intero con venti
monete d’oro, con l’aggiunta di un pezzo d’argento qualora la ragazza
venga prescelta. Se la sua famiglia è povera, si cercano dei genitori fittizi
che s’impegnino a prestare il loro nome e l’occorrente somma di denaro.
Questi hanno così la possibilità di guadagnare, oltre al compenso pattuito
per la ragazza, anche un successivo invio di riso qualora partorisca un
bambino. I preparativi si complicano se la giovane pretende di esser
presentata con il massimo decoro. Il costo della veste sale allora a venti
monete, a cui ne vanno aggiunte tre e mezzo per la lettiga e i due portatori,
spesa che è uguale in qualsiasi zona della capitale. Vanno poi calcolati i sei
bu56 per l’assistente giovane e gli otto bu per quella anziana, inoltre bisogna
considerare il costo della colazione e del pranzo. E tutte queste spese vanno
completamente perse se la giovane non riesce gradita al committente.
Quanto è difficile stare al mondo! Tra i cittadini di Ōsaka c’è poi chi,
nell’intervallo tra una notte di piacere a Shimabara57 e un’altra a Shijō
Kawara, traveste un giovane commediante da ricco possidente delle regioni
occidentali, e con intenzioni equivoche fa poi radunare tutte le ragazze della
capitale che aspirano a diventare concubine. Trovatane una di suo
gradimento, si accorda con il padrone del locale per trascorrervi insieme la
notte. Quando lei si accorge di esser stata scelta per una sola notte, delusa
vorrebbe andarsene, ma irretita da parole suadenti e conquistata dalla
passione amorosa, finisce per acconsentire e vende se stessa per due soli bu.
E tutto ciò accade perché quell’infelice è povera.

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Il loro compito era cantare, danzare, servire il sake nei banchetti. In occasione di quelli che si
tenevano nelle locande di Higashiyama, a cui partecipavano samurai e uomini anziani convenuti da
tutto il paese, bastava invitare sei o sette di queste fanciulle per creare un’atmosfera elegante e
spensierata…
Erano quasi tutte graziose e giovanissime, di un’età variabile dagli undici ai tredici anni…

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Gli intermediari di cui parlavo prima presentarono al vecchio ben
centosettanta bellissime ragazze, ma nessuna di loro risultò di suo
gradimento. Allora, disperati, decisero di chiamare me, di cui avevano
sentito parlare, e mi mandarono a prendere fino a Uji, nel paese di Kohata,
in cui vivevo nascosta. Mi mostrarono senza alcun impegno al vecchio e
risultò che ero ancor più bella della donna del dipinto che si era portato da
Edo, per cui interruppero ogni altra ricerca e si impegnarono a esaudire ogni
mia richiesta. Mi diedero subito il titolo di Dama del Paese.58 In seguito il
vecchio mi condusse in quel lontano paese di Musashi59 in cui trascorsi, in
un’atmosfera d’eleganza e di lusso, come neppure in sogno avrei osato
sperare, un periodo incantevole, indimenticabile. Mi era stata assegnata una
villa60 ad Asakusa e qui vivevo tra i piaceri, quasi mi trovassi in Cina tra i
fiori del monte Yoshino.61 Di sera, poi, facevano venire da Sakaichō

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un’intera compagnia di attori a esibirsi in una recita e si trascorreva la notte
piacevolmente fino a che albeggiava. In quelle dimore di feudatari vigono
però regole severissime, militaresche, e alle donne di casa è pressoché
impossibile vedere uomini e, naturalmente, ancor di più sentire l’odore dei
loro fundoshi; così non possono fare a meno di eccitarsi guardando i loro
guanciali adorni di dipinti di Hishikawa,62 e dimentiche di sé si tormentano
con il calcagno o con il dito medio della mano, per poi, deluse da questo
gioco solitario, vagheggiare anelanti un vero amore. In genere, infatti, i
daimyō, trattenuti come sono dai loro impegni mondani, finiscono per
dilettarsi con i paggi che stanno accanto a loro da mattina a sera, e talvolta
giungono ad amarli più intensamente di qualsiasi donna e sacrificano loro la
legittima sposa. Questo generalmente accade perché lei non è gelosa, come
invece lo sono spesso le donne di umili origini. E nulla è più temibile di una
donna gelosa, sia nobile o plebea. Per quanto mi riguarda, nonostante la
fragilità del mio corpo e del mio destino, fui amata dal mio signore con un
inestinguibile fervore, e al colmo della felicità condivisi con lui
innumerevoli guanciali. Purtroppo tutto ciò doveva finire: nonostante la sua
ancor giovane età dovette ricorrere alle pillole di jiō,63 ma anche queste non
sortirono effetto alcuno. Nulla avrebbe potuto esser più triste di una
situazione simile; ma io non volli rivelarla a nessuno e trascorrevo i miei
giorni tormentata dal dispiacere. Intanto il mio signore dimagriva a vista
d’occhio e diveniva sempre più pallido e sciupato, per cui i vecchi di casa,
sebbene ormai avessero ben poca dimestichezza con l’amore, con mio
grande stupore accusarono me, sostenendo che la colpa di tutto era mia,
della “lussuria delle donne della capitale”. Così venni allontanata e dovetti
far ritorno dai miei genitori. A guardar bene le cose del mondo, si scopre
che la più grande sventura che possa colpire una donna è l’impotenza del
suo uomo.

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Mi mostrarono senza alcun impegno al vecchio e risultò che ero ancor più bella della donna del
dipinto che si era portato da Edo, per cui interruppero ogni altra ricerca e si impegnarono a esaudire
ogni mia richiesta.

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CORTIGIANA DI ALTO RANGO

Un giorno mi trovavo presso la porta occidentale del tempio di Kiyomizu


quando udii cantare sulle note di un samisen:64 “Crudele è questo Mondo
Fluttuante,65 infelice questo mio corpo, effimera la vita, come la rugiada”.
La dolce voce che cantava apparteneva a una mendicante, una di quelle che
neppure d’estate si tolgono la veste imbottita di cotone e che
all’approssimarsi dell’inverno sono, invece, coperte di una sola veste
sfoderata. Aveva un aspetto sconvolto, come se fosse in balia del turbinare
dei venti montani; eppure c’era qualcosa in lei d’insolito che mi incuriosì.
Volli sapere chi fosse; mi dissero che ai tempi in cui ancora esisteva il
quartiere dei piaceri di Rokujō,66 quella donna era una tayū67 famosa, di
nome Katsuragi.68 Il destino è davvero strano e insondabile. Quel giorno
d’autunno che per caso l’incontrai ero in gita con amiche per ammirare le
foglie rosse degli aceri: ce l’additammo e ne ridemmo tutte assieme. Non
sapevo che anch’io sarei stata costretta dagli eventi a percorrere la sua
stessa strada. In seguito, infatti, mio padre venne a trovarsi in gravi
difficoltà finanziarie perché, per compiacere un amico, si era fatto garante
in un affare, ma poi l’altro era fuggito. Per far fronte all’impegno assunto
dovette vendermi in cambio di cinquanta monete d’oro a una casa di
Shimabara di nome Kanbayashi. Quando iniziai il mestiere della cortigiana,
che non avrei mai pensato di dover esercitare, ero come la luna del
sedicesimo giorno, nessuna nella capitale era tanto bella da poter competere
con me, per cui i miei genitori pensavano felici che avrei avuto il futuro
assicurato. Divenni un’abile cortigiana senza bisogno di alcuna particolare
istruzione, grazie a quanto avevo già appreso quand’ero in quella
compagnia di danzatrici. Fui io anzi a creare la moda “allo sbaraglio”,
differente da tutte quelle allora in voga negli altri quartieri: mi depilavo
completamente le sopracciglia e le rifacevo molto più in alto con
l’inchiostro; mi pettinavo con una acconciatura gonfia e laccata69 senza
alcun bisogno di imbottiture e con una parte dei capelli raccolti a foggia di
coda di cavallo, e trattenendola con un invisibile nastro lungo e sottile
mantenevo perfetta l’attaccatura sulla nuca, strappando ogni capello
superfluo; indossavo vesti dalle maniche lunghe quasi ottanta centimetri
con la cucitura ampia, senza imbottitura di cotone ai fianchi, affinché

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apparissero piatti come un ventaglio aperto, e un obi molto largo, non
rigido, annodato con studiata noncuranza; mi stringevo i lacci delle tre
fasce70 più in alto di quanto si usasse fare. Studiavo ogni particolare:
indossavo tre vesti sovrapposte; quando uscivo camminavo con i piedi
scalzi sugli alti zoccoli, con andatura ondeggiante, sollevando bene le
punte; entravo nelle locande con passo leggero e allegro, nei saloni dei
conviti camminavo silenziosa, quasi scivolando, salivo le scale con passo
sicuro e rapido; infilavo i sandali senza chinarmi e senza neppure guardarli;
non mi scansavo quando qualcuno camminava verso di me e, se vedevo
qualcuno fermo a fissarmi, dopo averlo superato mi voltavo e gli lanciavo
uno sguardo appassionato, come se ne fossi innamorata, anche se non
l’avevo mai veduto prima. La sera rimanevo sulla soglia della casa
d’appuntamenti e se vedevo un uomo che conoscevo gli lanciavo lunghi
sguardi; mi sedevo con noncuranza al suo fianco, se non c’era nessuno a
osservarci, e anche se si trattava di un semplice commediante da banchetto
ponevo le mie mani tra le sue e lodavo lo stemma della sua veste oppure la
sua pettinatura o il suo ventaglio alla moda, insomma qualsiasi particolare
elegante potessi scoprire in lui. Se faceva atto di alzarsi per andarsene gli
sussurravo: “Uomo avvincente! Chi ti ha pettinato così bene?” e gli battevo
leggermente la mano sulla spalla, un’astuzia, questa, che riusciva a
incantare anche il più smaliziato. Un’altra astuzia consisteva
nell’approfittare dell’infatuazione del ricco cliente per lasciargli credere che
ci si preoccupava maggiormente dei suoi interessi che dei nostri. E non
c’era atto più apprezzato dell’accartocciare una lettera, di cui ci si voleva
già sbarazzare, e gettarla via. Entrambe le cose sono facilissime per chi non
ha bisogno di denaro, impossibili a una povera cortigiana. A volte accadeva
che una ragazza, sia pur piacevole di aspetto, si vedesse costretta, nei giorni
festivi,71 a dichiarare al padrone della casa di voler pagare la penale72
facendo credere che fuori c’era un uomo che l’attendeva e fermarsi, invece,
alla casa di appuntamenti, essere trattata con indifferenza, rimanere
rassegnata in un canto e, approfittando dell’oscurità, mangiare gli avanzi
del banchetto: melanzane ormai fredde con un po’ di salsa di soia e, per di
più, senza neppure il piatto. Una volta tornata a casa, le era persino
increscioso guardare in viso la padrona ed era con voce stentata che riusciva
a chieder l’acqua per le abluzioni. Quelle ragazze che hanno trovato un
cliente generoso e lo trascurano per vivere una vita di monotona indolenza,
sono delle sciocche che non conoscono il valore del proprio corpo. Inoltre,

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anche in occasione di un banchetto dove si beve sake, a parte qualche
commento vivace e appropriato, è meglio rimanere silenziose in
atteggiamento distaccato e dignitoso. In tal modo i clienti novellini, non
certo i più esperti, proveranno soggezione, e una volta a letto rimarranno
immobili a sospirare, risponderanno tremanti alle domande, si
preoccuperanno che il loro denaro possa bastare, si comporteranno,
insomma, come chi, ignaro dell’arte del tè, sia invitato a compierne il rito.
Naturalmente non ci comportavamo così in odio a un particolare giovane,
ma solamente perché fin dal principio ne avevamo notato l’espressione
presuntuosa; così anche noi ostentavamo un gran sussiego, non ci
scioglievamo neppure l’obi, ci mostravamo molto formali e riservate
fingendo di addormentarci subito. Allora, in genere, quel giovane ci veniva
vicino, appoggiava una gamba sulle nostre, ma noi restavamo mute a
osservarlo mentre, tutto sudato e tremante, ascoltava quanto accadeva nel
letto vicino, dove c’era un suo amico, un novellino come lui. La donna che
l’intratteneva gli aveva dato subito confidenza, come se si trattasse di un
abituale frequentatore, e infatti la si udiva esclamare: “Siete più magro di
quanto non sembriate” e poi il fruscio di un abbraccio, quindi l’uomo, senza
alcun riguardo per il semplice paravento divisorio, si agitava sempre più
violentemente, fino a che la donna, con un gemito spontaneo, buttava via il
cuscino e si distingueva il secco rumore dei pettini dell’acconciatura che si
spezzavano. Dal primo piano, invece, si sentiva qualcuno esclamare: “Fino
a tal punto!” e lo stropiccio dei fazzoletti di carta. Si udiva più tardi la
donna svegliare l’uomo che le dormiva accanto e dirgli: “Che peccato! La
notte si sta rischiarando”, e la voce dell’uomo che ripeteva sonnolenta: “Ti
prego, ancora un po’…”. Evidentemente non era un’altra coppa di sake che
desiderava, perché subito si distingueva il fruscio dei lacci della veste che
venivano sciolti: doveva trattarsi di un sorprendente amatore, un buon
soggetto per una cortigiana. Il nostro uomo stava ad ascoltare quel che
felicemente gli accadeva intorno, e non riusciva a prender sonno.
Finalmente si decideva a svegliarci e ci dichiarava in tono accattivante: “La
festa del nono mese73 è ormai prossima, ma immagino che avrete già un
appuntamento”. Noi capivamo al volo dove intendeva mirare e gli
rispondevamo: “Per settembre74 e per capodanno sono già impegnata”. Il
giovane, allora, non trovava neppure le parole per replicare alla nostra
categorica risposta e, pur riluttante, si alzava e si scioglieva i capelli
arrotolati a foggia di frullino di bambù per il tè, si riaggiustava l’obi e, sotto

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i nostri occhi divertiti, cercava di comportarsi come se fosse realmente
giaciuto con noi. Certamente in cuor suo ci odiava e meditava di scegliere
un’altra cortigiana, di frequentarla più giorni consecutivi, per provocare la
nostra invidia, oppure di smettere completamente di frequentare la nostra
casa e di andare qua e là, come un vagabondo. Infine chiamava forte e
insistentemente l’amico: “Sbrigati che andiamo”, e se ne stava davvero
andando senza neppure salutarci. Ma noi conoscevamo il modo per indurlo
a restare. Bastava accarezzargli le guance in presenza dell’amico e
sussurrargli all’orecchio: “Quale tracotanza! Non mi hai neppure chiesto di
sciogliermi l’obi. Ti odio!” e poi dargli un colpetto sulla schiena e correre in
cucina. Allora tutti quelli che avevano assistito alla scena si
complimentavano con lui dicendo: “Ehi! Ma allora non è la prima volta…”.
Quello, felice, esclamava: “È una amante meravigliosa!” e poi: “Mi si è
concessa con tale abbandono, che anche quel mal di schiena che mi
tormentava è svanito d’incanto. Non capisco perché si sia mostrata tanto
appassionata. Certamente dovete averle raccontato che sono una persona
facoltosa”. “Ma no, neppure una cortigiana si comporta così solo per
avidità. Sta’ attento a non perderla”. E così quello sempre più
s’infiammava, vittima della nostra ingegnosa tattica. Se un’abile cortigiana
anche in un caso così infelice è in grado di trarsi d’impaccio, è facile
immaginare come riesca a ottenere da un cliente i più grandi sacrifici,
persino quello della vita. Se proprio non si tratta di un uomo odioso,
bisogna cercare di trattarlo bene anche se è la prima volta e di non mostrarsi
sprezzanti anche se è impacciato; altrimenti non si troverà un argomento di
conversazione fino al mattino e prenderà congedo di mala grazia. Questa
nostra condizione “alla deriva” non ci consentiva di sceglierci il cliente che
più ci piaceva. Se si trattava di una persona influente a Kyōto dovevamo
accettarlo, foss’anche un bonzo o un vecchio. Inutile dire che il massimo
dei voti sarebbe stato un giovane, generoso in tutti i sensi e per di più di
bell’aspetto. Purtroppo nella realtà è difficile trovare un cliente che
riassuma in sé tutte queste doti. Comunque, se dovessi descrivere il tipo
ritenuto ideale dalle cortigiane di quel tempo, immaginerei un uomo con la
sottoveste di seta color canarino a mille righe, una doppia veste ala di corvo
con stemma di famiglia e maniche non molto lunghe, un obi stemmi di
drago75 di un tenue arancione, un haori76 color mattone di seta doppia
hachijō e, per finire, i piedi nudi infilati con naturalezza nei sandali di
paglia. Me lo immagino anche seduto confortevolmente, con il pugnale un

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po’ scostato dall’obi in modo che non dia fastidio, a sventolarsi con un
ventaglio l’apertura della manica per poi alzarsi e andare a rinfrescarsi le
mani. A tal proposito, anche se nella vaschetta di pietra c’è già dell’acqua,
dovrebbe esigere che gliene venga versata di nuova e con questa sciacquarsi
accuratamente la bocca. Ritornato in camera dovrebbe chiedere
all’assistente di andargli a prendere il tabacco avvolto in carta bianca che ha
in consegna il suo servo, e una volta avutolo cominciare a fumare.
Dovrebbe anche tenersi vicino alle ginocchia dei fazzoletti di carta e usarli
e gettarli via con gran disinvoltura. Me lo immagino anche chiedere a una
cortigiana di grado inferiore di concedergli un attimo la mano e, avutala,
guidarla attraverso la manica perché gli massaggi il punto della schiena su
cui gli è stata bruciata la moxa77 contro i reumatismi. Dovrebbe poi pregare
un’altra cortigiana, esperta in musica, di cantargli e suonargli la canzone
kagabushi,78 ma stancarsi subito di ascoltare e, a metà canzone, rivolgere la
parola all’animatore lodando il waki79 della Raccolta delle alghe80 del
giorno precedente, dicendo: “È stato più bravo di Takayasu”,81 oppure
asserendo: “Ho chiesto al dainagon82 di chi fosse questa antica poesia e mi
ha detto che è proprio di Ariwara no Motokata,83 come avevo supposto”.
Un cliente che sapesse conversare così piacevolmente e variamente, che
non indulgesse subito in lepide osservazioni, ma che si comportasse con
grande naturalezza e dignità, non avrebbe potuto non suscitare il nostro
interesse. Finivamo immancabilmente per esserne affascinate, per
considerare perfetta qualsiasi cosa facesse, dimenticavamo persino la nostra
posizione di tayū e gli stavamo accanto pronte a servirlo. D’altronde è il
cliente che decide dell’avvenire e della posizione di qualsiasi cortigiana. Al
tempo in cui i quartieri dei piaceri di Edo erano ancora in pieno fulgore, un
vecchio libertino di nome Sakakura aveva preso a frequentare la tayū
Chitose. Questa era una gran bevitrice di sake e aveva una particolare
predilezione per i “granchi fiori” sotto sale che si pescano solo nel fiume
Mogami84 nella regione di Azuma. Un giorno Sakakura incaricò un artista
della scuola dei Kanō85 di dipingere con polvere d’oro, sul guscio di questi
granchi, uno stemma di foglie di bambù in un cerchio, dietro compenso di
un quarto di moneta d’oro al granchio, e li inviò giornalmente a Chitose,
affinché non ne rimanesse priva per tutto l’anno. A Kyōto, invece, un certo
Ishiko, cliente affezionato della tayū Nokaze, le inviava tutte le novità di
moda perché le potesse sfoggiare prima di chiunque altra. Così in autunno

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Nokaze indossava una veste di colore consentito,86 del tipo pelle di
cerbiatto con i punti in cui l’increspatura formava una croce bruciati dallo
shisoku,87 in modo che s’intravedesse il rosso di cui era tinto il cotone
dell’imbottitura. Era una veste raffinatissima che, a quanto si diceva, era
costata tre kan88 d’argen to. E ancora, a Ōsaka al Nagasakiya,89 la tayū
Deha, che ora è morta, aveva un cliente fisso soprannominato Nisan.90
Questi, in una malinconica giornata d’autunno, ingaggiò tutte le cortigiane
di Kuken91 che non avevano clienti, perché distraessero l’amata. Un giorno
che questa, vedendo le siepi di lespedeze fiorite nel giardino tutte bagnate, e
non per la brina perché era mezzogiorno, ma per l’acqua che qualcuno vi
aveva maldestramente gettato, sospirò dicendo: “È all’ombra di questi fiori
che i cervi in cerca di una sposa fanno il loro giaciglio. Non ci starebbero
male delle corna lì. Come vorrei poterne vedere di vivi!”. Nisan le disse: “È
la cosa più facile del mondo”, e subito fece abbattere un padiglione e
piantare al suo posto mille siepi di lespedeze, facendo di quel luogo un
campo, e quindi mandò ad avvertire dei montanari di Tanba92 che gli
radunassero e gli inviassero, entro quella notte stessa, un certo numero di
cervi maschi e femmine. La mattina del giorno seguente li mostrò all’amata
e poi, a quan,to si dice, le fece ricostruire il padiglione com’era prima. A
ben riflettere era naturale che il cielo mi punisse, perché anch’io, sebbene
non avessi alcuna particolare dote, indulgevo in un lusso che neppure un
nobile avrebbe potuto concedersi. E inoltre spesso mi vendevo agli uomini
rifiutandomi poi di conceder loro il mio corpo e pareva che facessi di tutto
per apparire fredda e insolente. Così andò a finire che nessuno più mi
richiedeva, per cui a poco a poco perdetti la mia posizione di tayū e
cominciai a rimpiangere il passato. Non potevo più mostrarmi sprezzante
con gli uomini e dovetti imparare ad accontentarmi persino di servi,
mendicanti, uomini con una gamba più corta o con il labbro leporino. A
pensarci bene, non c’è al mondo niente di più triste del mestiere della
cortigiana.

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Se faceva atto di alzarsi per andarsene gli sussurravo: «Uomo avvincente! Chi ti ha pettinato così
bene?» e gli battevo leggermente la mano sulla spalla, un’astuzia, questa, che riusciva a incantare
anche il più smaliziato.

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CAPITOLO SECONDO

CORTIGIANA DI GRADO MEDIO

Un giorno camminavo per la stretta e nuova strada di Suzaku1 diretta alla


porta di Shimabara, quando mi accadde di vedere un insolito spettacolo.
M’imbattei infatti in un uomo che montava un cavallo di Ōtsu2 con appesi
alla sella due barilotti di settantadue litri3 di sake: aveva una veste di lino
rigata, un pugnale senza custodia alla cintola, un largo copricapo di bambù
in testa, e cavalcava disinvoltamente reggendo con la mano destra le briglie
e agitando con la sinistra un frustino. Quando giunse alla casa di
appuntamenti Maruya Shichisaemon, nel quartiere dei piaceri, scese da
cavallo e consegnò una lettera di presentazione. C’era scritto: “Questa
persona è partita dalla contrada di Murakami nell’Echigo4 per un viaggio di
piacere. Trattatelo con riguardo e offritegli un pranzo. Quando si sarà
divertito, vorrà andare a Ōsaka: fatelo accompagnare da qualcuno che lo
presenti al Sumiyoshiya o all’Izu tsuya.5 Desidero che lo trattiate con tutta
la sollecitudine che usereste per me”. L’autore della lettera era un cliente
della precedente tayū Yoshino,6 chiamato da tutti “l’Eminenza di Echigo”,
un ricco libertino, eccezionale per quei tempi, alla cui esclusiva
magnanimità si doveva la costruzione del primo piano di quella casa, per
cui tutti si ricordavano ancora di lui. “Con questa presentazione voi siete il
benvenuto!” gli dissero, afferrando la cavezza del suo cavallo, e presero a
esaminarlo con la scaltrezza degli uomini di città abituati per giunta a
giudicare i clienti. Notarono con stupore che non aveva affatto l’aspetto di
un ricco gaudente e gli chiesero se realmente fosse in cerca di piaceri. Quel
signorotto campagnolo, allora, con una smorfia di disappunto rispose: “È
con questo che me li compro”, e indicò una borsa di cuoio da cui tolse tre
rotoli di quelle monete con la foglia di paulonia, e senza indugio le distribuì
a tutti i presenti, che si affrettarono a scusarsi e vi fu chi, nonostante il cielo
gelido della sera, corse in giro per procurargli compagnia. Poi lui ordinò:
“Una coppa!” e prese a bere il sake che si era portato, disdegnando quello
che gli veniva offerto. “Questi due barilotti di sake me li sono portati da

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tanto lontano per berli. Mi divertirò sin quando non li avrò vuotati. Lasciate
dunque che me li beva da solo”. “Ma, se non vi piace il sake di Kyōto,
allora anche le ragazze di qui saranno troppo morbide per i vostri gusti. Che
tipo di tayū possiamo presentarvi?”. Al che lui, ridendo, rispose: “A letto
non m’interessano i complimenti. Portatemi la più bella delle tayū di questa
città”. “Compiacetevi almeno di guardarle”, e gli mostrarono le cortigiane
che affollavano la strada nel loro tragitto serale verso le varie case. Ognuna
teneva in mano un uchiwa7 d’oro o d’argento su cui era scritto il suo nome.
Erano ovviamente le tayū ad averlo d’oro e le tenshoku d’argento, secondo
uno dei tanti accorgimenti di questo mestiere.
Quando io avevo ancora diritto al rango di tayū, mi vantavo stoltamente
di appartenere a una stirpe illustre. Eppure nessuno mostrava di curarsi del
mio passato: che fossi figlia di un nobile o di uno spazzino, era del tutto
indifferente. Ma soprattutto andavo orgogliosa della mia bellezza: non
rivolgevo quasi la parola ai clienti che sapevo disporre di redditi limitati;
mostravo di sentirmi superiore a tutti e, al mattino, non mi curavo di
accompagnare alla porta il cliente che al canto del gallo mi lasciava. Ero
così superba da mostrare a tutti un viso sprezzante, e così acquistai una
cattiva fama e fui lasciata sempre più in disparte: venni richiesta sempre più
raramente e alla fine i tenutari si stancarono e, dopo essersi consultati tra
loro, decisero di declassarmi a tenjin. Da quel giorno non ebbi più assistenti
hikifune al mio seguito; anche il mio corredo per la notte cambiò e non
potei disporre di più di due futon;8 fui umiliata in tutto, dovevo chiamare
“signoria vostra” i clienti a cui prima mi rivolgevo con un semplice
“signore”, non mi fu più permesso di sedermi al posto d’onore nei
banchetti, e ogni giorno dovevo tollerare più di un’umiliazione. Quand’ero
ancora tayū non m’accadeva di passare un sol giorno ozioso nell’alloggio,
ed ero così richiesta che i clienti, per avermi, dovevano mandare un
messaggero a prenotarmi venti giorni prima; lavoravo in quattro e persino
in cinque case al giorno, ricevevo richieste in continuazione e avevo
un’infinità di gente al seguito, sia all’andata che al ritorno. Ora, invece, mi
facevo strada tra la folla camminando silenziosa, accompagnata soltanto da
una piccola kaburo.
Nonostante questo, l’uomo di cui ho parlato all’inizio s’innamorò di me a
prima vista, ed esclamò: “È lei che voglio!”. Subito gli dissero che proprio
quel giorno ero stata declassata al grado di tenjin, al che lui rispose: “Quello
che mi sta più a cuore è ben figurare al mio paese. Non posso quindi

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scegliere che una tayū. Costei è la più bella, ma deve avere qualche segreto
difetto se l’avete declassata a tenjin”, e non seppi più niente di lui.
Da allora dovetti intrattenermi con uomini che in precedenza avrei
rifiutato, mi comportavo maleducatamente nei banchetti, lasciavo cadere le
coppe che una volta riuscivo a porgere con disinvoltura, sbagliavo sia
agendo che parlando. Ormai prendevo terribilmente sul serio i clienti e il
fatto di dover giacere con loro; cercavo di conquistarmi la loro simpatia, mi
preparavo in fretta, risparmiavo l’incenso d’aloe e bastava che “l’uomo di
sopra”9 gridasse: “Al primo piano è tutto pronto”, perché io
immediatamente salissi. Poi la “mamma”10 si affacciava alla porta e
chiedeva al cliente: “Siete già a letto?” e quindi mi lasciava con un
frettoloso: “Su, va’ a raggiungerlo”, e ridiscendendo la scaletta dava
un’occhiata stizzosa alle serve, dicendo ad esempio: “Spegnete le candele e
accendete le lampade a olio. E a chi è venuta la bella idea di portare qui il
pesce su quel vassoio dipinto a rilievo invece di riservarlo al salone?”.
Erano cose del tutto normali, ma il fatto che le dicesse senza preoccuparsi
se il cliente stesse ad ascoltare dimostrava mancanza di riguardo nei miei
confronti. Ma ormai ero rassegnata a tutto e riuscivo a addormentarmi
anche con quelle spiacevoli parole nell’orecchio. Ma subito il cliente mi
scuoteva, e io adempivo con abbandono i miei obblighi.

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«È con questo che me li compro», e indicò una borsa di cuoio da cui tolse tre rotoli di quelle
monete con la foglia di paulonia, e senza indugio le distribuì a tutti i presenti, che si affrettarono a
scusarsi…

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Una volta vi fu chi gentilmente mi domandò quale fosse il mio paese
natale: io gli raccontai tutto con sincerità e infine ebbi l’ardire di chiedergli
se voleva provvedere per me ai preparativi di capodanno11 e, felice perché
approvava quasi tutte le mie richieste, nonostante fosse solo la seconda
volta che ci incontravamo, lo accompagnai alla porta e rimasi in piedi a
guardarlo finché anche la sua ombra non scomparve, quindi gli inviai una
triplice lettera12 con un messaggio. Invece, quand’ero una tayū non scrivevo
neppure a quei clienti che mi avevano già fatto visita più volte. La hikifune,
che fungeva da messaggera, attendeva che fossi nella condizione di spirito
più propizia per esortarmi: “Su, scrivetegli almeno una volta!”, quindi
sfregava il bastoncino dell’inchiostro e mi porgeva la carta su cui tracciavo
poche frasi di convenienza, gliela facevo piegare e legare, vi scrivevo il
nome del destinatario e gliela gettavo. E lui consegnava subito alla hikifune

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una lettera di risposta: “Ho letto il tuo messaggio. La mia adorazione per te
non è mutata”, e inoltre le dava tre grosse monete d’oro perché si
comperasse una veste. A quell’epoca ero abituata ad avere oro e argento a
profusione e ne donavo a tutti sconsideratamente. A pensarci bene, le tayū
sperperano il denaro con la stessa facilità dei giocatori. Ora invece che,
abbandonato ogni ritegno, ero costretta a chiederne, non trovavo chi mi
ascoltasse. In genere i frequentatori abituali delle cortigiane finiscono per
spendere più di quanto sia nelle loro possibilità. Chi dispone di più di
cinquecento kan d’argento può procurarsi una tayū, chi ne ha duecento una
tenjin, chi non ne ha più di cinquanta una kakoi. Naturalmente chi non
possiede simili cifre, ma ha solo il sufficiente per vivere, non dovrebbe
neppur sognare cose simili. Di questi tempi accade invece, purtroppo, di
veder abbandonarsi a una vita dispendiosa gente a cui il denaro non basta
neppure per metà anno e che sarà costretta a farselo prestare, con interessi
pari al doppio e persino al triplo della somma, causando così al padrone o ai
genitori grandi angustie. Non capisco come simili individui possano
abbandonarsi ai piaceri. Com’è strano il mondo! Quand’ero tenshoku avevo
tre clienti in cui riponevo ogni mia speranza. Uno era di Ōsaka e importava
partite di betel,13 ma fallì e dovette privarsi persino della casa. Un altro era
impresario di un teatro di kyōgen,14 ma non ebbe successo e perse forti
somme. L’altro investì, con esito disastroso, il suo denaro in una miniera.
Insomma, nel breve spazio di ventiquattro giorni fallirono tutti e tre e nel
mio quartiere non si seppe più nulla di loro.
Ero già triste e avvilita quando, nel mese in cui si deposita la brina,15 mi
si formò sotto l’orecchio uno strano rigonfiamento dello spessore di un
grano di miglio e, come se ciò non bastasse, subito dopo fui così sfortunata
da ammalarmi e i miei capelli neri divennero così sottili e radi che i clienti
non mi degnavano più di uno sguardo, e io passavo il mio tempo
maledicendo tutto e tutti e non volevo più guardarmi allo specchio.

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PROSTITUTA NEL QUARTIERE DEI PIACERI

È proprio perché gli abitanti delle città vanno in giro con un pugnale al
fianco che non scoppiano mai risse o litigi. Se ottemperassero alla legge,16
che concede solo ai samurai di uscire armati, accadrebbe che gli uomini più
deboli verrebbero sempre sopraffatti dalla forza di quelli più imponenti.
Invece, grazie al timore che un pugnale incute, anch’essi possono
tranquillamente inoltrarsi da soli nelle più oscure tenebre della notte. Alle
cortigiane piacciono gli uomini turbolenti, per questo spesso scoppiano liti
sanguinose, irragionevoli, e c’è chi finisce col perderci la vita. Nonostante
fossi una cortigiana, pensavo di continuo che se mi fossi trovata in una
situazione simile non sarei fuggita, giungendo a sacrificar la vita per un
senso di lealtà; ma purtroppo nessuno era disposto a imitarmi e io,
nonostante la mia triste condizione, non avevo il coraggio di morire sola.
Il passaggio da tayū a tenjin mi aveva rattristato, figuratevi poi quello da
tenjin a kakoi a cui fui costretta in quel periodo: mi riempì di costernazione.
Le condizioni in cui dovevo esercitare il mio mestiere erano totalmente
cambiate e, quel che più mi sgomentava, il mio spirito ne era terribilmente
influenzato. Quando mi chiamarono per il primo cliente pensai che, se
volevo far fortuna, non dovevo perdere nessun appuntamento e così, senza
neppure chiedere che tipo di uomo fosse, per il timore che cambiasse idea
lasciandomi inattiva, corsi a riceverlo. E nonostante questo il tenutario mi
criticò ugualmente: “Una kakoi dovrebbe presentarsi subito, insieme con
chi è andata a chiamarla. Una semplice prostituta non deve stare ad
agghindarsi facendo aspettare i clienti. In tal caso, chi volete che le dia le
diciotto monete pattuite? Non gliene daranno neppure nove…” e mi
redarguiva a voce alta con mia grande vergogna. Anche la padrona faceva
finta di non vedermi e non mi rivolgeva neppure la parola. Non sapendo che
fare andai in cucina; lì trovai ad attendermi un ruffiano che parlava il
dialetto di Tanba, e che, con la stessa mano con cui mi faceva segno di
salire al primo piano, mi diede un pizzicotto nelle natiche. Così entrai nel
salone del banchetto già delusa e irritata. Vi era una tayū per ogni ospite di
riguardo, una tenjin accanto a ognuno del seguito e rimanevano quattro o
cinque giovani senza compagnia, in mezzo ai quali andai a sedermi, senza
ben capire a chi fossi destinata. Il mio era l’ultimo posto e il recipiente del

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sake si fermava davanti a me solo quando non aveva di meglio dove andare.
Me ne stavo lì davanti alla mia tazza piena, ma nessuno mostrava di
accorgersene, nessuno mi rivolgeva la parola, e così, sfiduciata, finii per
offrirla alla suonatrice di samisen che mi stava accanto. Attendevo con
impazienza che calasse la sera; finalmente, quando mi coricai sotto il mio
futon, vidi che il mio cliente era un giovanotto fin troppo borioso, con ogni
probabilità un parrucchiere.17 Di certo aveva frequentato solo Kopporichō18
e le case da tè di Uehachikenya,19 perché si comportava in modo davvero
strano. Si slacciò l’obi, tirò fuori i fazzoletti di carta e, forse perché lo
ammirassi, si avvicinò alla lampada che era accanto all’alcova, trasse dalla
borsa un bu alla volta fino a raggiungere la somma di trenta monete, li
contò più volte perché li vedessi bene. L’impressione che mi fece fu così
penosa che non appena cercò di attaccar discorso gli dichiarai di aver male
al ventre e non dissi altro. Giacevo voltandogli volutamente le spalle, ma lui
si comportò con imprevedibile cortesia: dicendo che le sue mani erano
dotate di una virtù prodigiosa20 in grado di guarirmi, rimase fino all’alba a
massaggiarmi. Alla fine, impietosita, l’attirai vicino a me con l’intenzione
di concedergli quel che era convenuto, ma proprio nel momento in cui si
girava verso di me, si udì la voce di un ospite di riguardo che diceva:
“Manca poco all’alba. Su, alzati. Staranno già aspettando il parrucchiere”.
Queste parole non solo ci costrinsero a separarci senza indugi, ma mi
rivelarono anche che avevo indovinato la professione di quel giovane, per
cui, preoccupata per il mio buon nome,21 lo lasciai andar via senza
protestare.
Quand’ero una tayū o anche una tenjin, pur non amando il mio mestiere
non lo trovavo particolarmente sgradevole, ma ora mi sentivo così infelice
che incessantemente mi chiedevo come avessi potuto ridurmi in quello
stato. Non potevo sopportare gli zotici, ma purtroppo non trovavo mai un
cliente passabile; le poche volte che mi accadeva d’incontrarne uno decente,
non faceva in tempo ad accomodarsi nell’alcova che mi diceva, senza la
minima galanteria: “Su, sciogliti l’obi”, al che io: “Ma che fretta! Avete pur
pazientato dieci lune nel ventre di vostra madre!” e cercavo di ammansirlo,
ma quello replicava: “E ora voglio sistemarmi nel ventre di un’altra. E fin
dal tempo degli dèi non esiste una buona prostituta a cui questo dispiaccia”,
e senza attender oltre mi abbracciava. Se cercavo di fermarlo con qualche
scusa: “Ma perché fai la preziosa? Vattene via, e mandami su un’altra” mi
diceva sgarbatamente, lasciandomi chiaramente intuire le sue intenzioni. Io

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ero così atterrita all’idea di dover pagare un’ammenda che, se mi piaceva
appena un poco, gli rispondevo subito in tono accattivante: “Ma che
accadrà se la vostra amante prediletta verrà a sapere che avete agito così
avventatamente? Non voglio assumermi questa responsabilità”. Questa è
una frase di grande effetto che ogni kakoi conosce. Di grado inferiore a
queste ultime ci sono solo le hashitsubone,22 e potrei continuare a parlarvi
senza fine delle mie disavventure, ma non sono cose degne di interesse. Mi
limiterò a dire che, a seconda del grado, hanno un modo di comportarsi e un
frasario decisamente artefatto. Quelle che vengono pagate tre monete non
hanno poi un aspetto troppo meschino; quando arriva il cliente lo accolgono
con signorilità; è una kaburo, vestita di cotone, a preparare l’alcova accanto
a un futon di seta rossa di media qualità, a disporre i fazzoletti di carta
graziosamente piegati, a ridurre il lume della lucerna, ad avvicinare due
guanciali a scatola23 e quindi, con un: “Ecco fatto, mettetevi a vostro agio”,
se ne esce da una porticina laterale. Queste hashitsubone sono frequentate
da uomini non rozzi e volgari. Si tratta, in genere, di persone che hanno
dilapidato il loro patrimonio e che sono costrette a passare davanti alle case
d’appuntamenti solo di notte col favore delle tenebre, oppure di segretari di
qualche ricco commerciante o di qualche samurai chūgoshō.24

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Si slacciò l’obi, tirò fuori i fazzoletti di carta e, forse perché lo ammirassi, si avvicinò alla lampada
che era accanto all’alcova, trasse dalla borsa un bu alla volta fino a raggiungere la somma di trenta
monete, li contò più volte perché li vedessi bene.

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Una hashitsubone, dunque, appena coricata indugiava a sciogliersi l’obi e
quindi batteva le mani per chiamare la kaburo e le diceva: “Provvedi a
questo kimono”. In seguito rivolgeva con grazia l’attenzione al ventaglio e
chiedeva: “Questo nobile che si fa schermo con le maniche, si riferisce alla
sera nevosa del passaggio di Sano?”.25 Del che l’uomo approfittava per
andarle vicino e dirle: “Posso sfiorare questo incarnato di neve che le
maniche tentano di riparare?”, e subito si dedicava all’amore. Il cliente che
al momento di congedarsi non chiedeva il nome della hashitsubone era
immancabilmente uomo di buon lignaggio; per farlo ritornare era
sufficiente salutarlo con un: “Certamente questa è l’ora in cui vi recate in un
kōshi”,26 quindi fermarsi a lungo sulla soglia a guardarlo: così lusingato,
avrebbe trovato qualche scusa per riprendere il discorso, e lo si aveva in
pugno! Nel caso, poi, di un impiegato, le hashitsubone usavano dirgli:

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“Come mai stasera non avete nessuno al vostro seguito?27 State attento in
strada, tutto solo come siete!”. Nessuno era così sincero da rispondere:
“Non ho nessun seguito”. Per cui non c’era pericolo che, una volta in
confidenza, si rifiutasse di inviarle il hasamibako28 promesso adducendo a
scusa di non aver nessuno che glielo potesse recapitare. Quelle invece che
venivano pagate due monete riducevano da sole il lume della lucerna,
stendevano della carta sui guanciali, canticchiavano come meglio potevano
i brani più salienti di una canzone di Gidayū29 e subito, cambiando tono:
“Di solito con quale donna vi incontrate? Siete gentile a volervi intrattenere
in questa mia indegna stanza. Dove siete alloggiato?”. Naturalmente era un
discorso studiato e usuale. Quelle infime, che valevano un solo monme,
canticchiando una canzone in voga toglievano una stuoia da dietro un
paravento, si scioglievano di nascosto l’obi e, senza neppure voltarsi a
guardare le reazioni del cliente, in ossequio a quanto era stato loro
raccomandato, si toglievano subito il kimono e persino la biancheria,
gettavano tutto per terra, in disordine, e dicevano frettolosamente: “Pensavo
fosse ancora sera, invece le campane hanno scandito le quattro. È lontano il
vostro alloggio?”. Appena adempiuto il loro obbligo, chiamavano una
servetta e si facevano versare il tè in due tenmoku30 e quindi, sempre
frettolosamente, ne offrivano una al cliente dicendo: “Su, prendetelo”.
Quelle, poi, che valevano cinque bu, si chiudevano da sole la porta, con una
mano trascinavano una stretta stuoia Toshima,31 raddrizzavano con i piedi il
posacenere e traevano a sé l’uomo dicendo: “L’uomo che è venuto prima
era avanti negli anni, ma portava indumenti di seta. E voi, che lavoro fate?
Volete che indovini? Se per venire qui avete scelto questa notte di luna
senza un soffio di vento, vuol dire che siete un guardiano notturno”. “Ma
no, sono un commerciante: vendo agar-agar”. “Non dite assurdità! Com’è
possibile che un venditore di agaragar scelga una notte calda come questa
per divertirsi? E poi, stanotte c’è il kagura32 d’estate a Kōtsu. Anche se
foste sfortunato, di certo guadagnereste almeno ottanta monete”. Questi e
altri erano i discorsi con cui le hashitsubone mostravano la loro scaltrezza.
Anch’io, scaduta al rango di kakoi, fui venduta a Shinmachi, dove trascorsi
due anni esercitando questo mestiere e dove fui costretta a vedere i più vari
aspetti di questo mondo fino a che, all’inizio del tredicesimo anno,33 non
avendo più un gallo su cui poter contare, m’imbarcai su un battello del
fiume Yodo e ritornai al mio paese.

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CONCUBINA IN UN TEMPIO MALFAMATO

Finalmente potei scucirmi le maniche34 e tornare com’ero un tempo, al


punto che la gente diceva che ero una maga, non pensando che era tutto
merito della mia minuta e aggraziata costituzione. Anche a quell’epoca nei
templi buddhisti vivevano ragazzini che neppure di giorno dovevano
sottrarsi a sguardi indiscreti.35 Sia pur con riluttanza, decisi di fingermi uno
di loro, mi rasai i capelli alla sommità del capo, cercai di assumere un tono
di voce virile e, grazie alla mia conoscenza delle abitudini maschili, riuscii
ad annodarmi l’obi inferiore, sopra a questo ne posi un altro sottile, mi
sistemai al fianco una spada, e indossai, profondamente divertita, un haori e
un copricapo di bambù intrecciato. Mi feci accompagnare da un servo con
baffi finti che mi portava i sandali di paglia e da un esperto anfitrione, e mi
diressi a un tempio famoso per la sua opulenza; vi entrai dalla porta
centrale, come se avessi intenzione di ammirarvi i ciliegi. Il mio anfitrione
si diresse subito al parlatorio, dove bisbigliò qualcosa all’abate, che se ne
stava ozioso. Lui ci fece prontamente entrare nel salone riservato agli ospiti,
e l’anfitrione mi presentò dicendo: “Questo è un giovane rōnin36 che ha
interrotto il suo servizio per venir qui a purificarsi lo spirito. Abbiatene
cura, ve ne prego”. Al che l’abate, soprappensiero, borbottò: “Ieri sera ho
capito come dosare quella pozione per abortire che mi hai chiesto”, per poi
tapparsi subito la bocca, con mio grande divertimento. Venne poi allestito
un banchetto, ben presto sconvolto dall’ebbrezza del sake, mentre dalla
cucina soffiava un vento olezzante di crudo.37 Stabilirono che avrei avuto
due bu per ogni notte di piacere. Dato che le Otto Sètte38 sembravano
favorire quest’unica setta,39 non c’era da stupirsi se quasi non esisteva
bonzo che non avesse strappato il proprio rosario.40 In seguito strinsi una
relazione con un abate di quel tempio e accettai di divenirne la concubina
per tre anni in cambio di una somma di tre kan d’argento.
Con il passar del tempo presi ad apprezzare la vita che si conduceva nel
tempio. In antico vi si radunavano bonzi che ogni mese, nei giorni di
Rokusai,41 a meno che ricorresse la festività dei fondatori o di tutti i
buddha, infrangevano il voto del silenzio, mangiavano carne e pesce, si
dilettavano con donne nella Koiya di Sanjō,42 ma nel resto dell’anno si

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comportavano come veri monaci e forse per questo Buddha li perdonava e
non li puniva.
Ma nel periodo di cui sto parlando i templi erano diventati troppo ricchi, e
sempre più sconvolti da dissolutezze di ogni genere: i bonzi di giorno
ostentavano la veste monacale, ma di sera se la toglievano per indossare un
haori; inoltre ognuno teneva una donna nascosta in un anfratto scavato nel
muro della loro stanza, con un solo finestrino per la luce, e affinché rumori
e voci non trapelassero, ricoprivano il tetto con un compatto strato di terra e
rendevano le pareti più spesse di una sessantina di centimetri. Il giorno
bisognava passarlo rincantucciate lì, ma la notte si poteva uscire nella
camera. In principio stentai ad abituarmici, perché non lo facevo per amore
ma per procacciarmi di che sopravvivere. Continuando a concedere il mio
corpo a quel detestabile bonzo, di notte e di giorno, senza pausa alcuna,
ogni interesse, ogni piacere ben presto svanì, la mia salute finì per risentirne
e divenni sempre più magra. Quel che più mi sgomentava, però, era
l’espressione con cui l’abate mi guardava: come se fossi stata un oggetto
usato, come per dirmi: “Quando morirai, ti seppelliremo qui davanti”.
Eppure mi abituai anche a questo, e incominciai ad attendere con
impazienza la sera nei giorni di esequie,43 a rattristarmi per la separazione
nei mattini della ricerca delle ossa.44 Mi divenne anche familiare
quell’odore, tipico di un bonzo, della sua veste bianca,45 che mi rimaneva
addosso. A poco a poco dimenticai ogni tristezza e anche il suono dei gong,
che all’inizio mi costringeva a tapparmi le orecchie, non solo non
m’infastidiva più, ma mi procurava anzi un godimento strano. Neppure il
fumo delle pire mi irritava più il naso, e l’ammonizione ricorrente
all’impermanenza delle cose era per me divenuta una delle più piacevoli
attrattive della mia vita al tempio. Al tramonto attendevo il venditore di
pesci per acquistare piccoli piccioni puliti e disossati,46 zuppa di pesce
palla, arrosto al cedro giapponese47 e mettevo un coperchio sul braciere
dentro cui li riscaldavo, perché il profumo non si effondesse all’esterno e gli
altri non se ne accorgessero. Anche i novizi finirono per imparare simili
raffinatezze e nascondevano acciughe rosse nelle maniche della veste per
poi cuocerle al cartoccio, usando i fogli su cui si erano esercitati a scrivere i
nomi dei buddha, per cui divennero lucenti e floridi e potevano adempiere
con lena le loro funzioni. Invece il volto degli eremiti che abbandonano il
mondo per rifugiarsi tra i boschi montani e che si cibano di frutti e d’erbe,
oppure i bonzi mendichi che si impongono una rigorosa dieta vegetariana,

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immancabilmente assumono l’aspetto di un legno marcescente. Prestai
servizio in questo tempio dalla primavera al principio dell’autunno: nei
primi tempi l’abate non si fidava di me e serrava, uscendo, la porta col
chiavistello, ma poi mi concesse persino di affacciarmi alle stanze dei
bonzi, e diventai quasi impudente e non fuggivo più all’arrivo dei fedeli.
Una sera in cui il vento faceva risuonare i rami degli alberi e scompigliava
le foglie dei platani, e io me ne stavo tutta sola, presso il recinto di bambù, a
riflettere sui repentini mutamenti di questo mondo, all’improvviso vidi quel
che non m’era mai apparso neppure nei sogni, quando dormivo sola
facendomi cuscino con le braccia: era un fantasma dalla testa incanutita
senza un capello nero, dal viso inondato di lacrime, dalle mani e dalle
gambe consunte e ossute come attizzatoi, dai fianchi sporgenti e traballanti,
e con voce tremante e a stento udibile disse: “Vivo da gran tempo in questo
tempio fingendomi madre dell’abate. Non sono la sventurata che sembro.
Faccio apposta a conciarmi così. Tra l’abate e me ci sono vent’anni di
differenza. È vergognoso, lo so, eppure sono cose che accadono in questo
mondo: di notte, all’insaputa di tutti, ci siamo uniti in ardenti amplessi. Ma
poi lui ha tradito tutte le sue promesse, e da quando sono ridotta così mi ha
respinta nell’ombra, mi dà solo gli avanzi dei cibi offerti al Buddha,48 mi
scruta con odio perché tardo a morire. Sì, lui è crudele, ma non per causa
sua; giorni di odio si sommano a giorni di odio. Tu non lo sai, ma quando
ascolto i vostri discorsi tra i guanciali, sento che anche alla mia età, anche
con il corpo così ridotto, non è possibile rinunciare a questa via.49 Per
questo ti odio e ho deciso che placherò il mio animo divorandoti stanotte”.
Io ne fui così atterrita che decisi di fuggire da quel tempio ed escogitai un
sistema ingegnoso per farlo. Imbottii di bambagia la veste all’altezza del
ventre, fingendo di esser gravida, e dissi all’abate: “Sino ad ora ve l’ho
tenuto nascosto, ma sono passati alcuni mesi da quando mi sono accorta di
essere incinta. Non so però quando nascerà”; al che lui, stupefatto: “Va’
subito al tuo paese, ma ritorna non appena avrai partorito”. Raccolse quindi
tutte le elemosine rimaste, preoccupato per come avrei vissuto finché il
bimbo fosse nato, e mi diede come corredino una vestina con le maniche
che parevano ancora intrise di lacrime, certo un doloroso ricordo di qualche
bambino che fece piangere i genitori.50 Poi, ancor prima che nascesse, volle
dargli un nome. Scelse Ishichiyo.51 Ero ormai stanca di quel tempio e me ne
andai dopo neppure un anno. Che tristezza la vita monacale! Ma, in fondo,
non posso lamentarmi di come vissi in quel periodo.

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… mi sistemai al fianco una spada, indossai, profondamente divertita, un haori e un copricapo di
bambù intrecciato. Mi feci accompagnare da un servo con baffi finti che mi portava i sandali di
paglia e da un esperto anfitrione, e mi diressi a un tempio famoso per la sua opulenza; vi entrai dalla
porta centrale, come se avessi intenzione di ammirarvi i ciliegi. Il mio anfitrione si diresse subito al
parlatorio, dove bisbigliò qualcosa all’abate, che se ne stava ozioso.

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SCRIVANA E MAESTRA D’ETICHETTA

“Contemplo gioiosa gli iris stupendi che avete voluto donarmi”. Questo e
altro sanno scrivere le maestre di calligrafia di Kyōto. In genere, dopo aver
prestato servizio presso una persona importante a corte e aver imparato
l’etichetta e le varie formalità in uso durante l’anno, esse lasciano la corte e
si sistemano definitivamente insegnando in una scuola dove anche le
persone ragguardevoli mandano le figlie. Poiché anch’io, un tempo, avevo
avuto la fortuna di prestar servizio a corte, mi fu facile trovare chi mi
aiutasse ad aprire una scuola di calligrafia. Ero felice di poter vivere in un
alloggio interamente mio; avevo appeso alla colonna dell’entrata uno
striscione con la scritta: “Maestra di calligrafia” e avevo assunto al mio
servizio una donna di campagna. Non avevo a mia disposizione che una
cameretta, ma vi vivevo con il massimo decoro. Seguivo scrupolosamente
le allieve che mi venivano affidate, ogni giorno correggevo diligentemente i
loro saggi calligrafici e insegnavo quelle nozioni di etichetta che anche una
donna è in grado di apprendere. Avevo ormai rinunciato a qualsiasi
riprovevole proposito. Ma un giorno venne da me un giovane nel pieno
fulgore della passione, perché gli insegnassi a scrivere una lettera d’amore.
L’arte delle cortigiane, a cui un tempo mi ero dedicata, mi riusciva anche
ora di grande utilità, forse perché mi aveva rivelato le radici dei rami
intrecciati e del hiyoku.52 Avrei saputo trovare le parole adatte a incantare
qualsiasi donna. Vedevo chiaramente nell’animo delle fanciulle, e anche se
si fosse trattato di una donna esperta delle cose del mondo, avrei trovato il
modo di circuirla. Niente è altrettanto rivelatore dei sentimenti di una
persona quanto una lettera. Anche trovandosi isolati in un paesino di
montagna si può far raccontare dal pennello ciò che si pensa. Una lettera sia
pur elaborata e lunghissima, ma falsa e bugiarda, verrà facilmente
riconosciuta come tale e gettata via senza rimpianto. Invece i tratti di un
pennello veritiero s’imprimono nel fegato53 e suscitano il desiderio
d’incontrare subito l’autore della lettera. Quando lavoravo nei quartieri dei
piaceri, tra i numerosi miei clienti ve n’era uno particolarmente prestante,
che non mi dispiaceva affatto: quando l’incontravo, mi sembrava che il mio
corpo non fosse più quello di una cortigiana, mi concedevo con autentico
abbandono e con la massima naturalezza. Anch’egli non sarebbe stato

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disposto a perdermi. Purtroppo, per una serie di avversità, dovemmo
separarci; ogni giorno, però, ci scambiavamo messaggi in segreto. Una
notte, aprendo una mia lettera, gli parve di vedermi, per cui la rilesse più
volte e poi, coricatosi da solo, si addormentò stringendola sul petto nudo.
Nel sogno quella lettera assunse le mie sembianze e per tutta la notte
sussurrò parole d’amore, colmando di stupore gli amici che gli dormivano
vicino. Mi riferì questo episodio quando, superate quelle avversità, riprese a
frequentarmi. Appresi anche che era riuscito a cogliere, giorno per giorno, i
miei reali sentimenti dai miei messaggi. Ma questo è naturale: se nel
momento in cui si scrive si riesce a dimenticare ogni altra cosa per
concentrarsi su un unico pensiero, non è possibile fallire.
Tornando al giovane che era venuto da me perché l’aiutassi a scrivere una
lettera d’amore, gli dissi: “Se mi assumo l’incarico di scriverla è perché
sono sicura che, per quanto insensibile sia la destinataria, riuscirò a ridurla
schiava del vostro amore”, e mentre mi sforzavo di trovare le parole più
adatte, incominciai a provare uno strano turbamento e m’innamorai di quel
giovane. Così un giorno smisi di scrivere, e rimanendo con il pennello in
mano come se stessi riflettendo, vinsi ogni reticenza e gli dissi: “Chi vi fa
soffrire e non mostra di assecondare i vostri sentimenti è una donna crudele
che non ha uguali al mondo. Perché, invece di persistere in questa vana
passione, non rivolgete a me i vostri pensieri? Non sarò forse il vostro
ideale, ma almeno con me potete discorrere. Credo sia meglio per voi
approfittare di questa mia disposizione d’animo e della possibilità che avete
di soddisfare subito il vostro desiderio”.
Il giovane si stupì e rimase silenzioso; dovette però concludere che il
futuro con l’altra donna era incerto e che quella da me indicata era la via più
breve e conveniente, e soprattutto dovette accorgersi che avevo capelli ricci,
piedi con l’alluce ricurvo e bocca piccola,54 perché alla fine rispose: “Non
voglio nascondertelo: anche quando sono io a far proposte non penso di
dover elargire oro o argento. Dunque, non aspettarti da me neppure un obi,
e se anche in futuro, quando ci conosceremo meglio, tu mi chiedessi se c’è
un negozio di sete e di kimono nelle vicinanze, non ti comprerei neppure
due metri di seta, neppure mezzo metro di crespo rosso. Non ti prometto
niente, ricordatelo, e ciò che non è convenuto in anticipo non ha valore”.
Queste sue così scortesi parole, in risposta alla mia gentile proposta, mi
fecero sembrare quel giovane odioso e tracotante e pensai che certamente
non era uno degli uomini migliori di quella grande capitale e che avrei fatto

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bene a cercarne un altro, ma all’improvviso incominciò a cadere, con suono
dolcissimo, la pioggia del quinto mese e dalla finestra entrò volando un
passero che andò a urtare contro la lampada, spegnendola. Approfittando di
quel buio improvviso, lui mi abbracciò strettamente, respirando con affanno
e scompigliando tutti i fazzoletti di carta di Sugihara posati accanto al
guanciale. In seguito, battendo leggermente sui miei deboli fianchi,
esclamò: “Cento anni!”;55 io non risposi, ma in cuor mio mi dissi:
“Sconsiderato! Pensa piuttosto a te, perché non permetterò di certo che tu
viva fino a novantanove anni. Per le scortesi parole che mi hai detto, in
meno di un anno dovrai appoggiarti a un bastone, ti ridurrò sottile e
macilento, e alla fine sarai costretto a congedarti dal mondo”. E infatti lo
indussi a giacere con me incessantemente, di giorno e di notte: quando
s’indeboliva troppo gli offrivo un brodo di ghiozzo, uova e patate dolci, e
così, come avevo previsto, la sua vita a poco a poco si affievolì e nel mese
della lepre56 dell’anno seguente, quando tutti mutavano di veste, lui doveva
ancora indossare una veste doppia invernale imbottita di cotone; alla fine,
abbandonato come inguaribile da numerosi medici, se ne stava sdraiato con
la barba incolta e le unghie lunghe, e se nel discorso accennavo a qualche
piacevole ragazza, si portava la mano all’orecchio per sentir meglio e poi
scrollava il capo rabbiosamente.

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… e mentre mi sforzavo di trovare le parole più adatte, incominciai a provare uno strano
turbamento e m’innamorai di quel giovane. Così un giorno smisi di scrivere, e rimanendo con il
pennello in mano come se stessi riflettendo…

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CAPITOLO TERZO

CAMERIERA DI UN COMMERCIANTE

Era un anno di diciannove doyō1 e tutti soffrivano terribilmente il caldo e


vanamente si domandavano se non esistesse un paese privo di estate, o una
città dove non si sudasse. Un giorno udii all’improvviso risuonare un
rintocco di gong e vidi un corteo che seguiva un feretro. Ma quelle persone
non apparivano particolarmente afflitte, e tra loro non sembrava vi fossero i
parenti del defunto. Erano tutti cittadini, e pur indossando la veste del lutto,
con hakama e kataginu, e pur tenendo in mano un rosario, discutevano tra
loro sul prezzo del riso, oppure parlavano dell’incidente del Tengu
Sanshakubō;2 i giovani, poi, in coda al corteo, parlottavano a bassa voce sul
menù delle case da tè di montagna, o su come recarsi direttamente dal luogo
delle esequie a qualche casa malfamata. Chiudeva il corteo un gruppetto di
persone, probabilmente dei fittavoli, e c’era chi indossava un hakama di
canapa sopra una veste sfoderata ma senza pugnale al fianco, chi calze di
cotone, chi un haori imbottito sopra un’elegante veste sfoderata di seta a
righe tessuta a mano. Parlavano tra loro a voce alta, chi della bontà o della
mediocrità dell’illuminazione a olio di balena,3 chi di quei ventagli rotondi
con sopra dipinti indovinelli, e nessuno mostrava il sia pur minimo
cordoglio. Non sapevo chi fossero, ma pur essendo una semplice spettatrice
sentivo di detestarli. A un tratto riconobbi uno a me noto e, chiestogli chi
fosse quella gente, mi rispose che abitava nella via Gokōmachi, nel
quartiere a nord del tempio di Seiganji.4 Dal che dedussi che il defunto
doveva essere il padrone di quel negozio sul lato destro della strada,
chiamato Casa dell’Arancio Selvatico. Ne avevo già sentito parlare perché
la moglie del padrone aveva fama di essere bellissima e c’erano degli stolti
che andavano a comperare carta cinese,5 di cui non avevano affatto
bisogno, solo per poterla ammirare.
“Una donna troppo bella è, purtroppo, funesta”, soleva dire il famoso
Jinta di Gion.6 Potrebbe sembrare un semplice luogo comune da paraninfo,
invece è una sentenza saggia, su cui ogni uomo dovrebbe meditare. Il

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compito di una moglie è principalmente quello di badare alla casa: non c’è
dunque ragione per sceglierla in base a motivi estetici. Inoltre una bella
donna, come un bel paesaggio, dopo un po’ che la si guarda finisce per
stancare. Un anno andai a Matsushima7 e, in principio, battevo le mani per
la gioia e pensavo quanto sarebbe stato bello se fossero stati lì con me, ad
ammirare quello spettacolo, poeti giapponesi e cinesi; ma poi, a furia di
guardarlo, mi sembrava che i pivieri avessero un odore salmastro e mi
divenne fastidioso anche il rumore delle onde sulla spiaggia di Sue no
Matsuyama,8 e così i fiori dei ciliegi di Shiogama9 appassirono senza che io
li vedessi, l’alba in cui cadde la neve sul monte dei Fiori d’Oro10 mi colse
immersa in un sonno profondo; anche le notti di luna non mi attraevano più:
finii per andare sulla spiaggia della baia a cercar sassolini neri e bianchi, per
poter così ingannare il tempo giocando con i bambini.11 Come, ad esempio,
la gente che vive da lungo tempo a Naniwa, le rare volte che si reca a Kyōto
desidera vedere il monte Higashiyama e per la gente di Kyōto è un insolito
piacere poter vedere il mare, così accade con una moglie: nei primi tempi,
finché si mostra ancora complimentosa e pudibonda davanti al marito, tutto
va bene; ma quando non si cura più di acconciarsi i capelli, si mostra nuda
lasciando, ad esempio, apparir la voglia che ha sotto l’ascella, oppure,
camminando sbadatamente, rivela di avere il piede sinistro un po’ più lungo
dell’altro, finisce per deludere il marito. Lo spoetizzerà poi definitivamente
mettendo al mondo un figlio. Sarebbe dunque il caso di dire che se c’è una
cosa da rifuggire, questa è una moglie; ma purtroppo, dato che si vive in
questo mondo, è necessario averla.
Un giorno mi avventurai nei luoghi più remoti del monte Yoshino in un
periodo in cui non c’erano fiori e non si vedevano ombre umane, all’infuori
di quelle dei rari pellegrini che compivano il loro giro delle cime.12 Al
termine di una ripida salita m’imbattei in una misera capanna dal tetto
spiovente da cui non si poteva godere altro spettacolo se non quello della
bufera tra le cryptomerie di giorno e della luce delle torce di pino la notte,
per cui, incuriosita, chiesi al proprietario: “Il mondo è così grande! Perché
avete scelto questo posto invece di vivere nella capitale?”; al che lui,
ridendo di gusto: “Basta una donna a far passare ogni malinconia!”. È vero,
perché a tutto si può rinunciare fuorché all’amore.
Anch’io, benché donna, ero stanca di vivere sola; congedai le mie allieve
di calligrafia e presi servizio come cameriera al Daimonjiya, un negozio di
sete e kimono. Un tempo l’età più adatta per una cameriera variava tra i

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dodici, tredici e i quindici anni. Ma in quel periodo venivano scelte di
preferenza giovani di età media, per risparmiare e anche perché si pensava
che tanto nel disporre e togliere il necessario per la notte, quanto nello
scortare la portantina facessero miglior figura le cameriere di età compresa
tra i diciannove e i ventiquattro anni. A me non piaceva l’obi annodato sul
dietro, eppure dovetti rassegnarmi; mi avvolsi strettamente i fianchi con uno
color tè cinese a riflessi indaco con intessuti motivi di piccoli fulmini, mi
pettinai i capelli in una acconciatura gonfia e laccata di medio volume, con
il sottile nastro che pendeva dietro. Fingevo un ingenuo stupore riguardo a
tutto. Una volta chiesi alla vecchia che governava la casa: “Perché la neve
cade così?”, al che lei mi rispose: “Eppure hai già una certa età! Senza
dubbio i tuoi genitori ti hanno allevata nella bambagia”, ma da allora fui
sempre trattata con grande condiscendenza. Se mi prendevano la mano
simulavo una grande eccitazione, se mi toccavano la manica mostravo di
stupirmi, se mi accadeva di ascoltare una barzelletta audace mi indignavo,
per cui nessuno mi chiamava più per nome, e sebbene la mia bellezza fosse
quella di un fiore in boccio, mi diedero il nomignolo di “Scimmietta
selvaggia sul ramo”: decisamente ero tornata a essere una novizia! Quant’è
stupida e incomprensibile la gente! E pensare che avevo già abortito ben
otto volte! Comunque, pur vergognandomi della mia finzione, continuai a
prestar servizio in quella casa. Tutte le notti la padrona si dilettava con il
marito che era di natura molto ardente e scuoteva guanciali e paravento;
perfino porte e finestre gemevano, al punto che una notte, non riuscendo più
a sopportare tutto quel frastuono, mi alzai e, libera com’ero di fare quel che
più mi piacesse, andai in cucina, ma fui delusa non trovandovi alcun uomo.
In un angolo del contiguo corridoio c’era solo un vecchio, in servizio in
quella casa da parecchi anni, incaricato di provvedere al pesce; se ne stava
sdraiato lì tutto solo. Sperando che almeno lui potesse farmi rivivere il
passato, passai volutamente sul suo petto. Quello allora incominciò a
invocare il Buddha Amida13 e mi redarguì: “Ma se c’è la lampada accesa!
Vergogna, far del male a un vecchio!”. Al che io: “Ti ho sfiorato per errore,
ma se non sei neppur capace di sopportare una cosa simile…! Del resto la
colpa non è mia, ma del piede”, e intanto cercavo d’intrufolarmi sotto la sua
veste. Quello allora, sbalordito, si mise a tremare e a ripetere
concitatamente: “Dea Kannon,14 salvami da questo pericolo!”. Così quel
mio tentativo amoroso non fu coronato da successo, e me ne andai tutta
tremante ad attender che albeggiasse, non prima però di averlo

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schiaffeggiato. Accadde il ventotto del mese:15 splendevano ancora le stelle
in cielo quando mi dissero di pulire l’altarino del Buddha. La padrona,
stanca per la notte precedente, non si era ancora alzata dai guanciali, mentre
il padrone, di costituzione robustissima, stava rompendo il ghiaccio per
lavarsi il viso. Subito dopo, infilatosi solo il kataginu, mi si avvicinò con
l’O-fumi16 in mano per chiedermi: “Hai preparato le offerte?”. Al che io gli
dissi: “Avete intenzione di disporre l’O-fumi secondo i dettami della via
bagnata?”.17 Il padrone, stupito, rimase a lungo silenzioso; allora io,
sforzandomi di sorridere: “A nessuno dispiace il diritto”18 aggiunsi e mi
sciolsi disinvoltamente l’obi, offrendomi languidamente ai suoi sguardi.
Non resistette più e, toltosi il kataginu, si diede da fare con tanta
sconsideratezza e con tale impeto che spostò la statua di Amida19 e fece
cadere il candelabro con la scritta “Gru e tartaruga”.20 Così gli feci
dimenticare persino Buddha e da quel giorno lo dominai segretamente,
finché mi ritenni tanto potente da riuscire a far assegnare a un’altra le mie
incombenze riguardo alla padrona e giunsi anche alla spaventosa abiezione
di volerlo indurre al divorzio.21 Feci fare a un eremita un incantesimo, ma
senza risultato. Bruciavo anima e corpo per la rabbia, senza concluder nulla.
Alla fine mi tinsi i denti di nero e con uno stuzzichino di bambù cinese in
bocca22 recitai a lungo le formule di maledizione. Fui invece io a esserne
colpita perché, durante il sonno, raccontai a voce alta tutte le mie infamie,
in modo particolareggiato e con spudoratezza, e così la mia relazione con il
padrone divenne nota a tutti e oltre a essa vennero alla luce le turpitudini di
tutta la mia vita.

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… infilatosi solo il kataginu, mi si avvicinò con l’O-fumi in mano per chiedermi: «Hai preparato le
offerte?». Al che io gli dissi: «Avete intenzione di disporre l’O-fumi secondo i dettami della via
bagnata?». Il padrone, stupito, rimase a lungo silenzioso; allora io, sforzandomi di sorridere: «A
nessuno dispiace il diritto» aggiunsi e mi sciolsi disinvoltamente l’obi…

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Da allora divenni oggetto del disprezzo generale e, come impazzita o in
sogno, correvo un giorno a sporgermi dal ponte di Gojō23 e quello
successivo a nascondermi nel Campo dell’Erba Porporina.24 Un giorno in
cui, come per far rivivere il ritornello della danza di Komachi,25 cantavo a
squarciagola: “Voglio un uomo, voglio un uomo”, dominata dalla passione
amorosa, sentii come una leggera brezza di ventagli e delle voci che
sussurravano: “Ecco la fine di una misera cameriera che ha sperimentato le
passioni”, e mi ritrovai nuda accanto agli archi del tempio di Inari, davanti a
un bosco di cryptomerie. Allora rinsavii, purificai il mio cuore da ogni
malvagità, compresi che maledire gli altri significava punire se stessi, e
dopo essermi pentita di tutti i miei peccati tornai finalmente a casa. Non v’è
nessuno che sia più debole e infelice di una donna: è per questo che il
mondo le fa paura.

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UNA DONNA ELEGANTE E SFORTUNATA

Pensavo che il kemari fosse un gioco riservato ai soli uomini, ma


tornando un giorno da una visita a una misera casa di Asakusa, al seguito di
un daimyō presso cui avevo preso servizio come messaggera esterna, vidi
nell’ampio giardino dove le azalee Kirishima26 cominciavano a fiorire, un
folto gruppo di dame che, con hakama di quel color rosso di cui i monti e i
campi s’andavano tingendo, con silenziose calzature27 e con maniche
fluttuanti, eseguivano nel recinto del campo da gioco, con abilità ed
eleganza, la Veste fior di ciliegio e il Valico di monte.28 Era la prima volta
che assistevo a uno spettacolo simile: le contemplavo con meraviglia, quasi
non fossero donne. D’altronde avevo sempre considerato un divertimento
eccessivamente eccentrico persino il tiro con l’arco, a cui si dedicavano le
dame di corte della capitale. E questo sebbene sapessi che anche Yōkihi29
l’aveva praticato, e che non era affatto disdicevole alla natura femminile.
Per il kemari, invece, da quando il principe Shōtoku30 l’aveva inventato,
non conoscevo esempi di partecipazione femminile, eppure la sposa del
daimyō lo giocava con molta eleganza. Quel giorno calarono presto le
tenebre, e una bufera di vento imperversava tra gli alberi, per cui la palla
non arrivava mai a segno, facendo perdere a tutte le dame ogni entusiasmo.
A un tratto la signora si tolse tutte le vesti e, chissà per quale subitaneo
pensiero, mutò repentinamente d’umore; non sapendo come rasserenarla, le
dame rimasero immobili e silenziose, senza quasi osar respirare; solo una
certa Kasai no Tsubone, che da lungo tempo prestava servizio in quella
casa, scuotendo la testa e con le ginocchia tremanti, osò proporle in tono
confidenziale: “Stanotte staremo alzate per un congresso della gelosia,31 sin
quando una lunga candela non sarà consumata”. Immediatamente la signora
si rasserenò e propose con entusiasmo d’incominciare subito. La più
influente delle dame, una certa Yoshioka no Tsubone, tirò un cordone con
un campanello decorato di grappoli intrecciati: accorsero tutte le donne
della casa, persino le serve e le vivandiere, senza distinzione; erano
trentaquattro, forse trentacinque, e si sedettero tutte in circolo attorno a lei.
Anch’io mi unii a loro, curiosa di vedere quel che sarebbe accaduto. Allora
Yoshioka no Tsubone disse: “Non abbiate reticenze, confidate le vostre
vicissitudini, dichiarate il vostro odio verso le donne, ingiuriatele, e gridate

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la vostra gelosia verso gli uomini, e insultateli”. Pensai che era
un’ingiunzione ben strana, ma essendo quella la volontà della signora non
osai sorriderne. Aprirono poi una porticina di legno di cedro su cui era
dipinto un salice piangente e ne trassero una bambola così perfetta da
sembrare viva: non so di chi fosse opera, ma era di proporzioni armoniose,
meravigliosa nel volto ancor più bello di un fiore: era così splendida che
anche una donna, ammirandola, avrebbe finito per innamorarsene. Poi, una
dopo l’altra, si confessarono. Una dama di nome Iwahashi, dal volto e dalla
figura tali da attirar sventura,32 così tremendamente brutta da non poter più
aspirare agli amplessi mattutini, né agli incontri notturni, e che forse non
aveva mai conosciuto un uomo, si fece risolutamente avanti per prima e
disse: “La mia terra natale è lo Yamato, il mio paese è Tōchi. Ero sposata
con un uomo che un giorno se ne andò a Nara, e lì cominciò a frequentare la
bellissima figlia di un sacerdote di Kasuga.33 Il cuore mi balzò orribilmente
nel petto quando li raggiunsi e mi posi a spiare fuori dalla sua casa: lei aprì
una porticina laterale e si rivolse a mio marito dicendogli: ‘Stanotte ho un
terribile prurito alla radice delle sopracciglia.34 È un segno fausto’. Gli si
stava avvicinando facendo ondeggiare impudicamente le natiche quando io,
urlando: ‘Questo è il mio uomo’, spalancai la bocca dai denti tinti di nero35
e la morsicai”. Così dicendo si mise a mordere la bambola, rievocando con
tanta vivezza quell’orribile scena che ne fui atterrita. Questo fu l’inizio del
congresso della gelosia. Dopo di lei si fece avanti un’altra che, come
dimentica di sé, barcollando, prese a narrare della fragilità del cuore
femminile e disse: “Quand’ero giovane e abitavo ad Akashi,36 nel territorio
di Harima,37 mia nipote andò sposa. Suo marito, purtroppo, era un
impenitente donnaiolo, non ne lasciava in pace una e giaceva con loro di
giorno e di notte, indistintamente. Mia nipote era così stupida da non
prendere alcun provvedimento, per cui decisi di intervenire io e presi
l’abitudine di accompagnare tutte le notti gli sposi nell’alcova,
raccomandando loro di dormire insieme, di far combaciare i rinforzi della
porta38 dal di fuori e infine di applicare il chiavistello. Purtroppo in poco
tempo mia nipote s’indebolì spaventosamente e diceva che non avrebbe più
potuto sopportare neppure la vista di un uomo e, tremando in tutto il corpo,
gemeva che non sarebbe durata in vita a lungo. E pensare che era una donna
Cavallo del fuoco maggiore.39 Invece finì con l’essere mangiata lei da un
uomo, facendo così una brutta fine; ma ora voglio che sia codesta bambola

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a soggiacere a quel corpo robustissimo, sin quando non ne venga uccisa!” e
così dicendo fece rotolare la bambola e si mise a percuoterla con un
insopportabile frastuono di colpi. Un’altra dama, chiamata Sodegaki,
proveniente da Kuwana, un paese del territorio di Ise,40 raccontò di esser
stata di indole terribilmente gelosa ancor prima del matrimonio, al punto da
costringere le donne al suo servizio a pettinarsi senza l’ausilio di uno
specchio e di proibire loro d’incipriarsi, affinché anche quelle dai
lineamenti aggraziati sembrassero brutte e trascurate. Ma la voce si sparse,
per cui tutti presero a odiarla, e fu così costretta a lasciare il paese per
prestare servizio come “dama illibata”. Dopo averci raccontato la sua storia,
si scagliò contro quell’innocente bambola urlando: “È proprio questo il tipo
di donna che irretisce gli uomini e li fa giacere con lei tutta la notte!”. Altre
ancora si presentarono, l’una dopo l’altra, facendo quel che era stato loro
comandato, ma sembrava che quel congresso della gelosia non riuscisse a
soddisfare la signora. Quando fu il mio turno diedi un colpo in testa alla
bambola facendola cadere a terra e, salitale sopra a cavalcioni: “Tu, che hai
usurpato il posto alla legittima sposa e godi in sua vece di interminabili
guanciali, non sperare di passarla liscia!” e così dicendo la fissavo con odio,
tanto che i denti mi battevano e pareva che l’ira mi salisse lungo la spina
dorsale. La signora, poiché avevo rettamente interpretato il suo pensiero
dominante, si degnò di dirmi: “Ma sì, ma sì! Questa bambola è colpevole. Il
mio signore non si cura più di me e ha fatto giungere dal suo paese una
splendida fanciulla con cui si diletta da mattina a sera. E a noi, infelici
donne, non è lecito manifestare il nostro risentimento. A me è rimasta solo
la soddisfazione di farmi costruire una bambola con le fattezze di quella
donna, e torturarla”. Aveva appena pronunciato quelle parole che,
misteriosamente, la bambola aprì gli occhi, sollevò le mani, girò lo sguardo
sul nostro gruppo e accennò ad alzarsi: nessuna dama osò rimaner lì oltre e
fu un fuggi fuggi generale. La bambola si aggrappò allora a un lembo della
veste della signora, che solo a gran fatica riuscì a staccarla, evitando il
peggio. Il giorno dopo stava male e delirava spaventosamente. Le dame,
dopo essersi a lungo consultate tra loro, conclusero che la cagione di tutto
fosse quella bambola, e dissero: “Se la lasciamo intatta, lo spirito che è
entrato in lei non l’abbandonerà mai più. Riduciamola dunque in cenere e
seppelliamola”. Così la trascinarono in un angolo della casa e la bruciarono,
poi raccolsero accuratamente le ceneri e le seppellirono. Ma ben presto tutti
cominciarono a temere quel cumulo di terra, perché ogni sera ne uscivano,

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senza possibilità di dubbio, gemiti e urla. La gente commentava
sfavorevolmente questi fatti, che alla fine trapelarono anche negli
appartamenti del padrone, il quale, stupefatto, volle sapere cosa fosse
realmente accaduto e ordinò che si chiamasse una messaggera esterna per
interrogarla. Venni scelta io, e non potei rifiutarmi, essendo un ordine.
Quando fui alla sua presenza non riuscii a mentire e riferii con esattezza la
storia della bambola. Alla fine tutti batterono le mani per lo stupore ed
esclamarono: “Non c’è nulla di più tortuoso di una mente femminile. La
gelosia continuerà a tormentare la signora, e la condurrà alla morte. Sarebbe
dunque opportuno rimandare l’altra al paese da cui è giunta”. Lei era una
giovane leggiadra, soprattutto quando rimaneva immobile in ginocchio, e
mi parve assai più bella della stessa bambola. Io ero orgogliosa delle mie
fattezze, ma osservando lei dovetti riconoscere la sua superiorità, e pur
essendo donna non potei fare a meno di distogliere lo sguardo, come
abbagliata. È triste pensare che una donna così bella, solo per un
incantesimo voluto dal capriccio della signora, avrebbe potuto morire
durante quel congresso della gelosia! Il padrone da allora prese a temere le
donne, e smise completamente di frequentare gli appartamenti interni; e la
signora, benché lo sposo vivesse, divenne praticamente vedova. Vista la
situazione, decisi che non era più opportuno continuare a prestar servizio in
quella casa e, ottenuto il congedo, feci ritorno a Kyōto superiore con
l’intenzione di farmi monaca. Veramente terribile è la gelosia, uno dei tanti
biasimevoli difetti femminili.

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… vidi nell’ampio giardino dove le azalee Kirishima cominciavano a fiorire, un folto gruppo di
dame che, con hakama di quel color rosso di cui i monti e i campi s’andavano tingendo, con
silenziose calzature e con maniche fluttuanti, eseguivano nel recinto del campo da gioco, con abilità
ed eleganza, la Veste fior di ciliegio e il Valico di monte.

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IL BATTELLO DELLE CANZONI E DEI TRATTENIMENTI

Sta scritto che “più numerosi sono e meglio è”,41 ma non c’è niente di più
squallido di una casa piena di polvere e di rifiuti.
A poco a poco la baia e il porto di Naniwa sparirono, quasi fossero
sprofondati, e non si videro più neppure i pali di profondità. La spiaggia
dove gli uccelli della capitale,42 in cerca della terra ferma, catturano le
corbicule era divenuta un campo d’erba. Desiderosi di goderci lo spettacolo
del tramonto sullo Shingawa,43 salimmo tutti e quattro sul battello ancorato
presso lo Shakadō di Tetsugen: eravamo appena usciti di teatro, poco dopo
mezzogiorno. Cominciammo a bere allegramente sake, mentre il battello
oltrepassava lentamente il ponte Ebisu44 e si dirigeva a occidente lungo la
corrente.
Aveva percorso solo una cinquantina di metri quando d’improvviso si
arenò e nessuno sforzo valse a disincagliarlo, facendo così sfumare parte
del divertimento con nostra grande desolazione. Decidemmo di attendere
l’alta marea, e, poiché anche i nostri progetti per il pranzo erano sconvolti,
ci mettemmo a contare con disappunto il numero delle nostre teste e quello
del vasellame a disposizione, a preparare vassoi con vento di valle,45 senza
neppure il condimento di avannotti di pesce gatto, e a distribuirli dicendo:
“Chissà quando arriveremo alle locande di Sangen!46 Ci conviene mangiare
qui”.
Quando le ombre della sera si assottigliarono, vedemmo sopraggiungere
veloci innumerevoli imbarcazioni scoperte a remi. Pensai che dovevano
esser quelle adibite al trasporto dei rifiuti. Era davvero un’ottima cosa, così
si evitava di insozzare il fiume e si favorivano le gite di piacere. Ero assorta
in questi gradevoli pensieri quando mi accorsi che tra i rifiuti di una piccola
imbarcazione affiorava la minuta di una lettera, forse interessante. Tesi la
mano e fortunatamente riuscii ad afferrarla: era stata scritta a Kyōto e
conteneva una buffa richiesta di un prestito in denaro. Lessi: “Ho bisogno di
ottanta monete d’argento e vorrei che me le prestaste in segreto. In cambio
vi consegnerò, fino al saldo del mio debito, la statua del Buddha, opera di
Kōbō Daishi,47 davanti a cui prego mattina e sera. Gli amori mondani
hanno un esito davvero imprevedibile. Dopo aver ingannato così a lungo
quella donna, ho finito per giacerle insieme. Ora ha concepito un bambino e

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per la gravidanza ha bisogno della suddetta somma, che vi prego di volermi
inviare. Per Densaemon di Hiranoya. Da parte di Hachibei di Kamoya. Per
questa lettera ho pagato al portatore di pesce48 dieci monete, in conformità
al prezzo fissato in questa regione per la posta”. Doveva avere proprio
un’assoluta necessità di quel denaro, se si era dato la pena di scrivere in
caratteri ben chiari a una persona distante tredici leghe. La commentammo
tutti insieme dicendo: “Chissà se avrà ottenuto quel prestito? L’unica cosa
che, quando manca, manca anche a Kyōto, è il denaro!” e ci tenevamo il
ventre per il gran ridere, senza riuscire a riprender fiato. Ma osservando i
miei compagni che, con in mano una coppa dorata di sake e la tazza della
minestra davanti, deridevano quel poveretto che scriveva da Kyōto per
ottenere un prestito, pensai che tra loro v’era qualcuno che si trovava in
condizioni ben peggiori delle sue. A uno di loro, infatti, la scadenza di
un’ipoteca avrebbe portato via a fine mese la casa, l’altro offriva appalti a
prezzi bassissimi, il terzo commerciava con il sistema di Vendita bandiera49
a Kitahama.50 Mi udirono dire a voce bassa, come a me stessa: “Hanno un
bel coraggio costoro a consumar la vita immersi nelle menzogne e nelle
passioni. Ma perché mai non sanno abbandonare la via del piacere?” e tutti,
in fondo al cuore, provarono vergogna e si riproposero di rinunciare ai
piaceri di cui i loro corpi erano schiavi. Ma questa, purtroppo, è la via più
difficile da abbandonare.

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… entrò chiassosamente in porto un’imbarcazione carica di quelle cortigiane denominate
utabikuni. Esse approfittavano delle lacrime che i marinai versavano sui guanciali solitari pensando
alle mogli lasciate a casa, offrendo loro le maniche da bagnare col pianto.

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Intanto una nave dei paesi occidentali51 aveva gettato l’ancora alla foce
del fiume e nello stesso momento entrò chiassosamente in porto
un’imbarcazione carica di quelle cortigiane denominate utabikuni.52 Esse
approfittavano delle lacrime che i marinai versavano sui guanciali solitari
pensando alle mogli lasciate a casa, offrendo loro le maniche da bagnare col
pianto. A poppa c’era un uomo avanti negli anni che reggeva il timone. La
maggior parte delle utabikuni indossava una veste di cotone imbottita color
giallo paglierino, un obi Porta del Drago annodato sul davanti, aveva la
testa coperta di un doppio manto ala di corvo e di un copricapo di paglia di
Fukae alla O-nana,53 e non ve n’era una che non portasse calzini di cotone
increspato. Indossavano inoltre una sottoveste di seta a maniche strette.
Erano dunque abbigliate tutte allo stesso modo. Avevano una scatola per
documenti con dei portafortuna di Kumano,54 un nicchio di orecchia marina

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e inoltre quattro rumorosi bastoncini di bambù.55 Ogni bikuni portava poi
una borraccetta di uno shō;56 non smettevano mai di cantare, specialmente i
motivi più in voga, salivano sulla loro imbarcazione senza preoccuparsi
degli sguardi indiscreti della gente e, dopo aver concesso ciò che era stato
convenuto, si buttavano nella sacca delle maniche i cento soldi guadagnati.
Oppure al posto di quelli ricevevano un poco di legna o due fette di
sgombro salato. Tra le tante esistenze alla deriva questa era sicuramente una
delle più misere, ma quando ci si faceva l’abitudine non sembrava più tanto
sventurata. Com’è difficile indovinare il destino degli uomini!
Anch’io un giorno, dopo altre sconsiderate avventure, fui costretta a
sacrificare i miei capelli neri e me ne andai con la testa rasa a nord del
palazzo di Takatsu,57 in un quartiere di nome Takahara58 dove, in una
solitaria casa dal tetto ricoperto di foglie di bambù, abitava la direttrice
delle utabikuni, una donna invecchiata in quel mestiere, e da quel giorno
anche la mia vita divenne miserabile. Non mi permetteva di rimanere in
casa neppure quando pioveva o c’era una bufera di vento, e ogni giorno
dovevo consegnare uno shō di riso bianco e cinquanta soldi alla direttrice e
cinque gō59 persino alle altre utabikuni molto più giovani, per cui la mia
situazione diveniva sempre più miserevole: semplicemente quella di una
prostituta, mentre un tempo era stata assai diversa. Le più graziose tra noi si
avventuravano nei quartieri eleganti di Ōsaka, quelle meno belle
vagabondavano per la campagna di Tsu, nel Kawachi,60 dove mietevano
amori al tempo della raccolta del grano e in quello autunnale del cotone.
Quei tre m’avevano invitata su quel battello probabilmente perché m’era
rimasta qualche traccia della bellezza antica. Dopo quell’incontro
occasionale prendemmo l’abitudine d’incontrarci in qualche locanda:
certamente pensavano che tre monete per una notte fossero solo un po’ di
brina,61 ma l’erba dell’amore s’infoltì e in poco tempo li feci fallire tutti, e
poi si lamentarono come nei ritornelli delle canzonette: “Che dolore! Che
crudele!”. Ed è effettivamente così, perché le spese per dissolutezze sono
così numerose e varie che ben presto raggiungono una somma enorme. E si
finisce come s’è detto. Hai capito, o uomo62 infedele?

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LO CHIGNON63 DI CARTA DORATA

In un camerino per l’acconciatura femminile regna il più indescrivibile


disordine: mucchietti di capelli corvini, scatole sparse ovunque, lucidi
specchi rovesciati o diritti. Effettivamente quel che più conta nell’aspetto di
una donna è la sua acconciatura. Io, quasi inavvertitamente, solo osservando
le altre, avevo imparato a pettinare i capelli come si usava allora, ossia nella
shimada64 bassa con pettine sospeso, così potei facilmente trovare impiego
a corte come pettinatrice presso una dama. Un tempo le dame avevano un
autentico senso del dovere e della fedeltà ai costumi, mentre in quel periodo
niente andava più bene per loro: l’acconciatura hyōgomage65 era troppo
antiquata, quella godanmage66 era troppo brutta e così via. Di questi tempi,
poi, persino le novelle spose non sono più modeste e remissive come una
volta, ma vogliono imitare le cortigiane e gli attori di kabuki67 e indossano
vesti dall’apertura delle maniche larga come quella degli uomini,
passeggiano a busto eretto scostando a ogni passo le falde della veste:
incessantemente desiderose di essere ammirate, non sono quasi più padrone
del loro corpo. Nascondere con il trucco la voglia sulla guancia, allungare le
falde della veste per non mostrare le caviglie troppo grosse, serrare le labbra
così che non si noti la bocca troppo grande, sacrificarsi a non proferir
parola: ecco gli accorgimenti a cui ricorrono le donne moderne.
Naturalmente questo Mondo Fluttuante è popolato anche di donne brutte:
l’importante è che riescano a sopportarle gli uomini che a loro si
accompagnano. Però è indubbio che, potendo scegliere, tutti vorrebbero una
donna piacevole d’aspetto. È difficile trovarne una che riassuma in sé tutti i
nove punti;68 tuttavia, se una ragazza è sufficientemente graziosa non vedo
per qual motivo si debba assegnarle una dote da portare al futuro sposo.
Non so a quale epoca una tale convenzione risalga, ma è comunque
irragionevole e insulsa. È dall’uomo che si dovrebbe pretendere oro e
argento.
Mi venne fissata una ricompensa annuale di quattro vesti e di ottanta
monme. Il quinto giorno del secondo mese presi servizio. Mi recai in quella
casa all’alba, ma la signora stava facendo il bagno mattutino e dovetti
attendere. Finalmente venni introdotta in un vestibolo interno e potei
vederla: non doveva avere ancora vent’anni, era d’aspetto soave e di modi

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incantevoli, al punto che mi domandai con invidia, essendo anch’io donna,
se potesse esistere al mondo un’altra dama di pari leggiadria. Un giorno,
dopo avermi fatto svariate confidenze, mi disse: “È da tempo che desidero
confessarti una cosa, ma devi promettermi che manterrai il segreto, che non
ne parlerai con nessuno, per nessuna ragione al mondo, e devi giurarlo per
iscritto, su tutti gli dèi del Giappone”. Non sapevo cosa sarebbe potuto
nascere da quello, ma era un ordine della padrona a cui avevo affidato la
mia vita e non potevo ricusare, così l’assecondai, e mentre scrivevo quanto
mi aveva ingiunto pregavo in cuor mio gli dèi di non volermi punire per
quell’irriverenza, perché in quel periodo ero pura e non avevo legami con
uomini. “Adesso posso confidarti il mio segreto. Non sono certo inferiore
alle altre donne, ma purtroppo ho un difetto su cui non smetto mai di
piangere, ossia i capelli troppo radi. Guarda!” e così dicendo se li sciolse:
caddero innumerevoli posticci e di capelli suoi ne rimasero ben pochi.
Quindi, bagnando le maniche di amare lacrime: “Sono già quattro anni che
vivo con il mio signore, ma le rare volte che rincasa tardi io, ingelosita, per
fargli dispetto allontano il guanciale e fingo di dormire, ma non appena lo
sento parlarmi in tono suadente, mi rialzo subito per il terrore che mi
sciolga i capelli e che il suo amore per me svanisca. Quanto sono infelice! È
un segreto che serbo da gran tempo e con profonda angoscia! Non rivelarlo
a nessuno, l’hai giurato! Siamo donne entrambe” e così dicendo mi donò la
veste senza fondo,69 di cui era ammantata. Conquistata dal pudore di
quell’accorata confessione, da allora la seguii come se fossi la sua ombra e
mi prodigai in tutti i modi per servirla; ma ben presto, senza alcun
ragionevole motivo, incominciò a essere gelosa di me, a odiare i miei
capelli incredibilmente lunghi e belli, fino a ingiungermi di tagliarli, per
cui, trattandosi di un ordine della mia padrona, me li accorciai tanto da far
pietà, ma non le bastava ancora perché mi disse: “Ma ti cresceranno subito
come prima! Devi strapparteli sulla fronte”. Era un ordine troppo crudele,
per cui decisi di chiederle il congedo, ma non volle accordarmelo e
continuava a tormentarmi, al punto che la mia salute finì per risentirne e
presi a odiarla profondamente, a tramare propositi di vendetta, svelando al
padrone il suo segreto. Costrinsi allora il gatto di casa ad assistere alle
sedute notturne durante le quali pettinavo la signora, finché si abituò a
saltarle sulla spalla e a strusciarsi contro la sua testa. Una notte in cui
cadeva una pioggia malinconica e il padrone, di eccellente umore, se ne
stava piacevolmente seduto in numerosa compagnia femminile ad ascoltare

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la musica dei koto, diedi un calcio al gatto che corse a rifugiarsi sulla spalla
della mia padrona, e le si aggrappò ai capelli strappandoglieli con gli
spilloni e la komakura:70 quel viso, sino ad allora così bello, apparve
completamente trasformato e l’amore del suo sposo, che durava immutato
da cinque anni, si dileguò all’istante. La dama si era affrettata a sollevar la
veste fino a coprirsi il capo, ma ormai era troppo tardi. Da allora il suo
rapporto col padrone divenne sempre più freddo, finché lui, con un pretesto,
la rimandò alla casa di suo padre. Dopo qualche tempo, una sera in cui la
pioggia cadeva incessante e la casa era pressoché deserta, il padrone se ne
stava tutto solo nell’alcova con la testa appoggiata su un guanciale, forse
immerso in qualche dolce sogno. Ritenni che fosse il momento propizio per
sedurlo e, senza aspettare che mi chiamasse, andai da lui e lo risvegliai,
dicendogli: “Mi avete chiamato? In cosa posso servirvi?”. “Non ti ho
chiamata…” rispose lui. “Perdonatemi, ho udito male” gli dissi, ma non
accennai ad andarmene, e con gesti suadenti e civettuoli lo ricoprii con il
piumino, gli feci appoggiar la testa sul guanciale, per cui finì per chiedermi:
“C’è qualcuno in casa?”, al che risposi: “No, stasera stranamente non c’è
nessuno”, e lui mi prese le mani nelle sue. Ma, in verità, da quella sera fui
io a tenerlo in pugno e a raggirarlo come più mi piacque.

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… presi a odiarla profondamente, a tramare propositi di vendetta, svelando al padrone il suo
segreto. Costrinsi allora il gatto di casa ad assistere alle sedute notturne durante le quali pettinavo la
signora…

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CAPITOLO QUARTO

I LUNGHI GUANCIALI DI UNO SCAMBIO DI PERSONA

In quei tempi anche i più miseri abitanti delle città e persino delle
campagne, volendo imitare nei matrimoni lo sfarzo della gente nobile e
ricca, ostentavano un lusso che non corrispondeva alle loro possibilità reali,
e ambivano a un corredo con vesti e suppellettili stupende. Ma queste
usanze dimostravano soltanto che non si riconoscevano più i limiti della
propria condizione. Le madri, poi, con scarso buon senso, si mostravano
fiere delle loro comunissime figlie e insegnavano loro, fin dall’età più
tenera, a truccarsi e a curarsi scrupolosamente, per cui la loro pelle diveniva
di grana più sottile, il loro corpo più liscio e bello, e così ben presto
riuscivano ad attrarre l’attenzione della gente. Era quindi facile che,
incantate dai pettegolezzi sulle compagnie teatrali oppure dalle scene
maliziose di qualche kyōgen, si sentissero infinitamente turbate e
indulgessero in pensieri non del tutto casti. Il che si rispecchiava,
ovviamente, nel loro abbigliamento e pretendevano di portare un obi lungo
un to e due shaku, benché fosse così difficile da annodare. Mentre una volta
la lunghezza di un obi femminile era fissata a sei shaku e cinque sun, in
quei tempi non c’erano più limiti e ci si poteva sbizzarrire con gli obi più
lunghi e appariscenti. Anche le stoffe a stemmi delle vesti a maniche non
troppo ampie erano mutate: si coprivano le macchie bianche della seta
crespata color fiore di ciliegio con bellissimi fili di cento colori, in modo
che sembrasse, almeno da lontano, una raffinata tintura; il che veniva a
costare cinque monete d’oro. Il mondo diveniva così preda del lusso più
sfrenato.
A quel tempo accadde che nel quartiere di Shitateramachi si radunasse
una gran folla per ascoltare la lettura della Cronaca1 del Daibutsu2 del
tempio Tōdaiji di Nara. In quell’occasione vidi, tra le misere maniche,3 una
donna che aveva da tempo oltrepassato l’età del massimo fulgore, di cui
non rimanevano più né fiore né profumo, e che oltre tutto aveva un viso
cavallino e storto: a osservarla bene, di normale non aveva che le orecchie,
perché per il resto era di una bruttezza davvero straordinaria. Però doveva

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aver avuto la fortuna di nascere in una casa ricca, perché era abbigliata con
raffinata eleganza: indossava, a contatto della pelle, una sottoveste di seta
candida, una doppia veste di seta violetta, una sopravveste di seta hachijō
color iris con i punti nascosti della fodera di seta rossa, un largo obi a righe
orizzontali, e inoltre portava tutti i possibili ornamenti di una donna. Un
giovane commerciante in stoffe e kimono che mi stava vicino commentò,
con competenza, che un abbigliamento di quel genere doveva esserle
costato un kan e trecentosettanta monme. “Quanto dispendio al mondo! Con
quei soldi si potrebbe comperare una casa di sei o sette locali sul lato sud”.4
“Che eleganza!” diceva invece la gente. Finita la stagione estiva, presi
congedo dal padrone e affittai un alloggio vicino al porto di Naniwa, presso
Yokobori, ma non vi abitavo quasi mai, perché ero chiamata ora a questo
ora a quel matrimonio in qualità di accompagnatrice della sposa.

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…ora a questo ora a quel matrimonio in qualità di accompagnatrice della sposa.
A Ōsaka la gente amava l’ostentazione più di quanto avrei mai supposto e organizzava matrimoni
lussuosi senza preoccuparsi che il loro costo superasse quello messo in preventivo.

A Ōsaka la gente amava l’ostentazione più di quanto avrei mai supposto e


organizzava matrimoni lussuosi senza preoccuparsi che il loro costo
superasse quello messo in preventivo. I genitori della giovane speravano
che lo sposo fosse di posizione sociale più elevata della loro, e quelli del
giovane si auguravano che i futuri parenti possedessero una casa il cui tetto
fosse più alto del loro. E più che del matrimonio vero e proprio ci si
preoccupava dei commenti della gente. Si stabiliva così che la famiglia
dello sposo avrebbe provveduto alle spese per la nuova casa, e quella della
sposa al corredo. Tutte le donne si radunavano in consiglio, ma con opposti
pareri; si mettevano a disposizione tutte le risorse della famiglia, e di un

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patrimonio di cento kan, dieci andavano per la dote in denaro, altri quindici
per le spese varie; inoltre bisognava prevedere i doni da inviare durante
l’anno, e così si prenotavano i più bei pesci gialli di Tango,5 i migliori
sgombri di Noto6 e ci si preoccupava dei minimi particolari. Quando poi
veniva il turno della figlia minore, pur non potendo organizzarle un
matrimonio sfarzoso come quello della sorella, si provvedeva comunque
con larghezza, e poi giungeva il turno del fratello più piccolo, e poi
bisognava mandare una vestina e una spada per la nascita del primogenito, e
poi si dovevano affrontare nuove spese di rappresentanza per i parenti e così
finiva che, occupati com’erano, neppure si accorgevano che l’oro e
l’argento sparivano a vista d’occhio. Le spese per il matrimonio delle figlie
hanno in tal modo rovinato un numero infinito di famiglie. Anche la madre
dello sposo ci teneva a ostentare uno sfarzo superiore alle loro possibilità, e
permetteva che nel giorno del matrimonio si facesse quello per cui
normalmente avrebbe protestato, che ad esempio si sostituisse la lucerna
con le candele, che non si coprisse il kotatsu7 con la coperta di cotone. A
causa di ciò lo sposo era indotto a considerare l’arrivo della compagna della
sua intera vita quasi come un fuggevole incontro con una cortigiana, e così
si dava anch’egli da fare a coprire ciò che non si dovrebbe nascondere e,
dimentico dei suoi reali interessi, si affannava stoltamente a mostrarsi il più
virile possibile, dicendo di voler fare una bella figura davanti alla sua
donna. Prestando la mia opera di accompagnatrice, ebbi occasione di
assistere a molti matrimoni e dovetti concludere che, nella maggior parte
dei casi, avvenivano non a causa dell’amore, ma per ben più futili motivi.
Solo una volta, in una casa di Naka-no-shima,8 mi accadde di trovare un
giovane sposo che non fece mai alcun tentativo di sedurmi, che agì sempre
con grande serietà, senza preoccuparsi delle apparenze, e che non aveva
preteso alcun festeggiamento neppure per la notte del primo guanciale.
Questa casa fu l’unica da me conosciuta in cui le consuetudini riguardanti il
matrimonio non erano mutate, mentre nelle altre divennero sempre più
miserevoli, al punto che si dovette abolire persino la portantina per la sposa.

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PITTURE A INCHIOSTRO SU MANICHE LICENZIOSE

Le regole sulla confezione delle vesti femminili furono fissate per la


prima volta al tempo dell’imperatrice Kōken,9 la quarantaseiesima della
dinastia, e da allora i costumi del nostro paese divennero veramente
eleganti. Soprattutto accurata era la confezione delle kosode10 dei nobili: si
doveva contare il numero degli aghi del puntaspilli, affinché al momento di
riporre il lavoro non ne mancasse neppure uno; le donne, nel periodo
d’impurità, erano severamente escluse dalla camera di cucito. Le mie mani
avevano appreso quasi spontaneamente questo mestiere, così un giorno
decisi di lavorare come aiuto sarta: mi dedicavo al lavoro con impegno, a
cuor sereno avevo sacrificato alla mia tranquillità una vita licenziosa,
godevo della luce della finestra, a meridione, gioivo alla vista degli iris di
pietra,11 gustavo il tè di Abe12 acquistato assieme alle altre donne, e le
polpette dolci13 della Casa della Gru di Iidachō.
I giorni trascorrevano per me sereni e casti, in compagnia di sole donne;
non c’erano nubi a oscurare la luna sui monti e neppure il mio cuore, per
cui mi sentivo in quello stato di purezza e di eterno godimento di cui parla il
Buddha. Ma purtroppo un giorno dovetti dare alcuni punti a una sottoveste
di un giovane signore: era di seta battuta a righe, e aveva dipinti sul
rovescio gli amplessi di un uomo e di una donna nudi. Lei aveva una pelle
luminosa, i calcagni alzati, le dita dei piedi ricurve. Non riuscii quasi a
tollerar la vista dei giochi amorosi di quei due, così realistici da non
sembrare semplici figure. Si sarebbe detto che dalle loro bocche immote
trapelassero chissà quali amorosi sussurri. Fui vinta da una tale emozione
da dover appoggiarmi alla scatola da cucito per non cadere. Era ormai
rinato in me il desiderio di un uomo, le mie mani non riuscivano più a
reggere neppure il rocchetto e, dimentica delle vesti che dovevo cucire,
rimasi a lungo pensierosa. Mi dicevo che era un peccato lasciare che le mie
notti passassero in quel modo, che era triste dormire sola, rievocavo a uno a
uno i miei antichi amori e mi affliggevo. Capivo che i miei dispiaceri di un
tempo erano sinceri, mentre era falsa la serenità in cui ora vivevo; ma
esclusivamente mia era la colpa. Gli uomini con cui avevo stretto una
relazione erano così numerosi da non poterli quasi ricordare, mentre
esistevano donne che in tutta la loro vita conoscevano un unico uomo e che,

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se costui moriva, non ne cercavano un altro ma, colpite profondamente dal
dolore della separazione dalla persona amata,14 lasciavano la loro casa per
divenire monache. Passai quella notte insonne, pensando che i miei
sentimenti erano vergognosi, che avevo avuto troppe avventure, che dovevo
diventar paziente e forte, e quando le tenebre si schiarirono anche la mia
compagna di guanciale si svegliò, si mise a ripiegare le coltri e, per
ingannare l’attesa del gō di riso, prese a rovistare tra i mozziconi della sera
precedente e incominciò a fumare: uno spettacolo che personalmente non
avrei mai voluto offrire. Nel frattempo io, dopo aver raccolto i capelli
scompigliati e averli legati frettolosamente con un vecchio nastro senza
neppure preoccuparmi di fissarlo al centro, spiai attraverso le grate di
bambù della finestra per vedere se potevo gettar fuori la lozione dei capelli.
Così vidi uno degli attendenti della Casa Lunga,15 probabilmente un “uomo
di mezzo”,16 che tornava con la spesa del mattino: una cesta di pesci di
Shiba17 in una mano e una bottiglia di sake e degli stoppini18 nell’altra. Non
si accorse che lo stavo osservando, e all’improvviso si fermò, si rimboccò la
veste blu a maniche strette e, aiutandosi con il palmo della mano,
soddisfece un piccolo bisogno: il getto si proiettò sulla ghiaia del fossato
con l’impeto della cascata di Otowa,19 e la scavò al punto da formare un
buco. “Che uomo!” pensai. Era davvero un peccato che non avesse usato
quella sua lancia nella guerra di Shimabara20 e fosse destinato a invecchiare
senza gloria.
Colpita dallo spettacolo, mi riuscì sempre più difficile continuare in
quella vita, e sebbene fossi ancora a metà del periodo del mio servizio,
chiesi il congedo fingendo di essere ammalata e mi trasferii nel retrobottega
di un negozio del sesto isolato di Hongō, ponendo sulla colonna del
corridoio un cartello con la scritta: “Qui si confeziona ogni tipo di veste”.
Pensavo, avendo ormai conquistato una certa indipendenza, di poter
accogliere ogni uomo che si fosse presentato. Purtroppo vennero solamente
alcune dame che volevano cucissi loro vesti nella foggia allora di moda:
richieste che dovetti, sia pur a malincuore, accettare. Ero così giunta a un
punto cieco. Mattina e sera non facevo che pensare all’amore, ma avevo
vergogna di confessarlo, finché un giorno, con una servetta che mi reggeva
il sacchetto,21 mi diressi a Motomachi in un negozio di sete e kimono
chiamato Echigoya,22 i cui impiegati venivano spesso nella casa in cui ero
stata a servizio prima. Appena entrata dissi: “Vivo ormai tutta sola come

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un’eremita, senza neppure la compagnia di un gatto, e i vicini di sinistra
sono sempre fuori, a destra c’è un vecchio di settant’anni e per di più sordo,
e di fronte ho solo un cancello di rovi, e non c’è ombra d’uomo. Se avrete
occasione di passare da quelle parti, fermatevi a riposare un po’ da me”, e
poi scelsi della seta di Kaga23 a doppio filo, una sottoveste di seta rossa e un
obi Porta del Drago. In quel negozio era proibita la vendita al minuto, ma
l’impiegato era così giovane che, irretito dai miei discorsi, non osò dirmi di
no e mi consegnò la merce senza neppur pretendere il pagamento
anticipato. Poco tempo dopo, l’ottavo giorno del nono mese, quattordici o
quindici impiegati presero a litigar tra loro per contendersi il privilegio di
venire alla mia casupola per riscuotere quanto dovevo. Tra loro c’era un
uomo già in età avanzata chiamato Topo bianco24 dal suo padrone di
Kyōto:25 non conosceva né l’amore né un qualsiasi altro sentimento, e
neppure in sogno dimenticava il soroban26 e da sveglio non lasciava un
attimo la scatola per scrivere portatile.27 Stava sempre appoggiato a una
grande colonna a sorvegliare il lavoro altrui. Irritato, dunque, dal concitato
confabulare dei subalterni, intervenne: “Lasciate che mi occupi io del debito
di quella donna. Se si mostrerà restia, le torcerò il collo finché non mi avrà
dato il denaro”, e così dicendo si allontanò con espressione truce. Giunto a
casa mia prese a redarguirmi aspramente, ma io, impassibile, gli dissi: “Mi
spiace di avervi arrecato tanto disturbo, costringendovi a venire da così
lontano per una faccenda di così poco conto”, e mi spogliai del kimono
rosso fior di prugno e glielo gettai, aggiungendo: “L’ho indossato solo due
volte e così anche l’obi”, e quindi, accorata, conclusi: “Poiché non ho
denaro da darvi, degnatevi di accettarli a saldo del mio debito”, e rimasi
nuda, a parte la sottoveste rossa.

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… un giorno dovetti dare alcuni punti a una sottoveste di un giovane signore: era di seta battuta a
righe, e aveva dipinti sul rovescio gli amplessi di un uomo e di una donna nudi.

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Quell’uomo così severo vedendo il mio corpo luminoso e candido, ben
proporzionato, sodo senza neppure l’impronta di un’applicazione di moxa,
mi restituì tutto tremante il mio kimono dicendo: “Ma no, ma no! Come
potrei privarvi anche di questo? Prendereste freddo!”. Ormai l’avevo in
pugno e con un: “Siete generoso come un dio”, mi avvicinai a lui con
abbandono. Quello allora, emozionatissimo, chiamò il suo aiutante e, fattosi
aprire il hasamibako, ne tolse cinque monete e gliele diede dicendo: “Tieni,
attraversa Getanidori e va’ a divertirti a Yoshiwara.28 Ti concedo un giorno
di vacanza”. L’aiutante, stupito, non osava credere che parlasse seriamente
e, tutto rosso in viso, non riusciva a risponder nulla. Finalmente capì
d’essere d’impaccio negli affari amorosi del superiore, e che era l’occasione
propizia per strappare il più possibile a quel taccagno, per cui disse: “Ma
non posso frequentare il quartiere dei piaceri con questo fundoshi di

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cotone!”. L’altro allora tagliò un largo pezzo di seta di Hino29 e glielo
diede, e quello, senza neppure cucirlo, se lo avvolse intorno ai fianchi e se
ne andò di corsa, quanto più velocemente gli fu possibile. Allora misi il
chiavistello alla porta, un ampio copricapo di carici per occultare la finestra
e strinsi tranquillamente un nodo amoroso senza l’egida del paraninfo. In
seguito quell’uomo perse ogni ritegno, e benché non fosse certamente nel
fiore della giovinezza si abbandonò a una vita tanto sregolata da venire
licenziato dal negozio di Edo e da essere costretto a trasferirsi a Kyōto.
A me toccò invece offrire i miei servigi ora in questa ora in quella casa
dietro compenso di un bu al giorno. Andavo al lavoro seguita da una
ragazzina con la scatola del cucito, che però non adoperavo mai; proprio
quello che si usa definire: “Arrangiarsi con un filo che non cuce le
natiche”.30

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PELLACCIA SPORCA DI UNA SGUATTERA

Sebbene fosse di moda, non potevo soffrire le donne con l’obi annodato
sul dietro e tinto di viola a chiazze bianche solo da un lato.
Purtroppo gli anni passavano anche per me, il mio corpo decadeva e così
mi ridussi a prestar servizio, con un contratto di un anno, come donna di
una saletta da tè.31 Indossavo abitualmente una veste che era già stata
lavata, dalle maniche non molto ampie, e un kimono di cotone, e avevo
l’incarico di sovrintendere alla mensa dei padroni. Non mi davano da
mangiare che riso nero e brodo, per cui a poco a poco la mia pelle perse il
suo primitivo splendore e il mio aspetto divenne decisamente miserevole.
Il mio unico trastullo era entrare nel boschetto,32 di primavera e
d’autunno, quando potevo uscire per incontrarmi con il mio amante segreto.
Mi pareva d’essere come quella Orihime33 nel suo unico giorno. Che
felicità nell’attraversare il ponticello d’assi di fronte al portone di servizio!
Uscivo a passi veloci, insolitamente elegante, con una veste di seta gialla e
un’altra di seta monjima34 indossate ben aderenti l’una sopra l’altra, un obi
imaori a fondo blu annodato sul dietro, e su questo una stretta fascia viola, e
con i capelli acconciati nella foggia hanemotoyui, la fronte depilata a forma
di lanterna,35 le sopracciglia disegnate in alto con decisione, uno zukin36 di
seta nera che mi lasciava scoperti solo gli occhi, ed ero seguita da un
vecchio servo che mi portava la sacca da viaggio.37 Dentro vi mettevo le
porzioni risparmiate di riso, tre shō e quattro o cinque gō, pezzetti di coscia
di gru salata,38 una scatola di legno di cedro con dolci.
Un giorno di quelli, non appena oltrepassammo la porta di Sakurada,39
trassi dalle maniche alcuni spiccioli e li diedi al vecchio per ricompensarlo
del suo servizio, dicendogli: “Sono pochi, ma forse basteranno per qualche
boccata di fumo”; al che lui: “Vi ringrazio, ma non posso accettare, nel
modo più assoluto. Vi accompagno perché me l’hanno ordinato. Se fossi
rimasto a casa, avrei dovuto andare ad attingere l’acqua. Non
preoccupatevi” e, con cortesia insolita in un servo, li rifiutò. Ci lasciammo
alle spalle le case di Marunouchi e ci dirigemmo verso il centro: io lo
seguivo quanto più velocemente le mie gambe di donna me lo
permettevano, tutta trafelata, ma il vecchio servo, invece di dirigersi alla
locanda di Shinbashi,40 mi fece fare quattro o cinque volte il giro degli

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stessi isolati, ora a sinistra ora a destra, approfittando del fatto che non
conoscevo la città. Quel girovagare durò così a lungo che all’improvviso,
guardando il cielo, constatai con stupore che il sole stava già tramontando a
ovest del palazzo,41 e osservando il vecchio mi accorsi, dalle rughe che gli
si arricciavano sul naso, che voleva parlarmi. Attesi che non ci fossero
passanti e, fermatami presso una porta, gli sussurrai all’orecchio: “Avete
qualcosa da dirmi?”. Allora il vecchio, illuminandosi in volto, prese a
tormentare il fodero scucito dello spadino, poi quella sua bocca sovrastata
da baffi si aprì e incominciò, con mio grande divertimento, un lungo
discorso: “Per te sacrificherei volentieri la vita, e neppure le maledizioni
della vecchia che ho lasciato al paese mi spaventerebbero. Ho settantadue
anni, e alla mia età non si può mentire. Penserai che sono audace, ma non
importa. Gli dèi e Buddha mi puniranno e il nenbutsu42 che ho recitato sino
ad ora non avrà più valore. Eppure sono un vecchio che non ha mai toccato
neppure uno stuzzicadenti altrui”. Allora io: “Non potevi semplicemente
dirmi che ti sei innamorato di me?”. E lui, piangendo: “Quanto sei crudele!
Pur conoscendo i miei sentimenti, mi hai lasciato parlare per divertirti alle
mie spalle”. Il rimprovero di quell’onesto vecchietto mi commosse. Alla
locanda avremmo potuto fare quel che volevamo; ma non potevo attendere
oltre e, abbandonato ogni ritegno, entrai in un niuriya43 a Sukiyabashi, dalla
parte del fiume, dicendo: “Un po’ di udon”.44 Il padrone capì
immediatamente e con lo sguardo m’indicò la scala. Mentre salivamo al
primo piano la padrona ci gridò: “La testa, la testa!”, e infatti il soffitto era
così basso che non si poteva stare ritti. Era una stanzetta con due tatami45
ricoperti di carta sporca, con una finestrella in un angolo e due guanciali di
legno: certamente non era la prima volta che quei due strambi padroni
l’affittavano. Mi sdraiai accanto al vecchietto e gli raccontai quante più cose
piacevoli potessi e quando mi accorsi che tremava, tutto eccitato,
incominciai a sciogliergli il suo rigido obi. E lui, giubilante: “Non pensare
che la mia biancheria sia sporca, l’ho lavata quattro o cinque giorni fa”:
un’osservazione davvero inopportuna. Me l’attirai vicino prendendolo
dolcemente per le orecchie, gli massaggiai i fianchi fino a fargli male, ma fu
tutto inutile, e non accadde nulla. Ne ero molto dispiaciuta, e dicendogli che
il sole era ancora alto, gli infilai le mani tra le cosce e vedendo che reagiva
attesi speranzosa, ma quello: “Lo spadone di un tempo ormai è uno spadino,
entra nella montagna dei tesori e ne esce deluso” e così, con quel vecchio
proverbio, incominciò a riannodarsi l’obi. Stavamo ancora discutendo se

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rimanere o andarcene quando il padrone, salendo le scale a due gradini per
volta, ci gridò concitatamente: “Ehi, i vostri udon durano troppo a lungo!”,
al che il vecchietto si rassegnò definitivamente. Lanciai uno sguardo alle
scale e vidi salire un servo con la testa rasata accompagnato da uno scudiero
di ventiquattro o venticinque anni pettinato secondo la foggia dei
giovanetti: evidentemente avevano anch’essi bisogno della camera. Tolsi
alcuni spiccioli dal fazzoletto e li deposi nell’angolo di un vassoio; non
eravamo ancora usciti dalla porta che si udì una gran risata e il commento:
“Che avrà sognato quel vecchietto per essere così felice? Davvero Edo è
una gran città!”. Mi dispiaceva di aver perso così inutilmente del tempo, ma
non era colpa del vecchio che, poveretto, ormai vicino alla tomba, non
poteva più essere quello di un tempo.

Uscivo a passi veloci, insolitamente elegante, con una veste di seta gialla e un’altra di seta
monjima indossate ben aderenti l’una sopra l’altra, un obi imaori a fondo blu annodato sul dietro, e

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su questo una stretta fascia viola, e con i capelli acconciati nella foggia hanemotoyui, la fronte
depilata a forma di lanterna, le sopracciglia disegnate in alto con decisione, uno zukin di seta nera
che mi lasciava scoperti solo gli occhi, ed ero seguita da un vecchio servo che mi portava la sacca da
viaggio.

Giunta finalmente alla locanda di Shinbashi, chiesi a colui che mi


aspettava: “Niente di nuovo?”, al che lui, piangendo, rispose: “Quella O-
Kame, che tu tanto amavi, quest’inverno si è ammalata e in due o tre giorni
è morta. Non ha fatto che invocare: ‘Dov’è la zia, dov’è la zia?’ fino a
quando ha esalato l’ultimo respiro”. Io risposi: “Almeno non ha avuto il
tempo di conoscere il cuore degli uomini. Ma non voglio perdere il mio
tempo in simili tristezze. Piuttosto, non c’è un uomo più giovane di quel
kachi46 dell’altra volta?”.

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UN UOMO DESIDEROSO DI GLORIA

Anche per una donna nulla è più divertente del cambiare continuamente
lavoro. Avevo prestato servizio per lungo tempo a Edo, a Kyōto e a Ōsaka,
ma dall’inizio della stagione di settembre mi trasferii a Sakai,47 nel Senshū,
pensando che in quel luogo avrei potuto sperimentare qualcosa di nuovo.
Mi rivolsi dunque a un procacciatore di nome Zenkuro, che abitava sul lato
destro di una strada chiamata Nakabama, nel quartiere di Nishiki no chō.
Gli pagavo una pensione di sei bu al giorno; finalmente si presentò una
vecchia serva in cerca di una cameriera per la camera da letto di un signore
che abitava nella strada principale della città, con l’esclusivo compito di
preparare e poi riporre il necessario per la notte. Non appena mi vide
esclamò: “Ma costei ha esattamente l’età richiesta, ed è di una bellezza
fuori del comune, senza il minimo difetto; è proprio la cameriera che
speravo di trovare!”, e senza neppure pretendere un anticipo mi portò via
con sé. Per tutta la strada mi fu prodiga di preziosi consigli. Aveva un brutto
viso, ma doveva essere di sentimenti gentili e io l’ascoltavo con la massima
attenzione, pensando che in questo mondo non tutti erano malvagi. Mi
disse: “La prima signora è gelosissima e non vuole che noi si parli neppure
con i garzoni dei negozi; naturalmente non si deve mai accennare ad
argomenti amorosi, e anche se le gru fanno qualcosa di strano, bisogna
fingere di non averle viste. E poiché appartiene alla setta hokkeshū,48 non si
deve mai recitare in sua presenza il nenbutsu. Ha un gatto bianco con un
collarino prezioso a cui è molto affezionata e che non bisogna rincorrere
neppure se ruba il pesce. La seconda signora è sfacciata e prepotente. Si
chiama Shun ed era la cameriera della prima moglie defunta. Solo quando
lei morì per una polmonite il signore l’elevò al grado che attualmente
detiene. Nonostante le sue umili origini è oltremodo capricciosa, e quando
va in portantina pretende che la si copra con una trapunta. È strano che
nessuno le abbia ancora detto il fatto suo”. E continuò imperterrita con altre
maldicenze che io ascoltavo con rassegnazione. “In genere in tutti gli altri
posti si mangia riso rosso49 mattina e sera, da noi invece si mangia riso
della riserva celeste50 di Banshū, e possiamo avere quanta salsa vogliamo,
perché il figlio del signore ha un negozio di sake.51 In casa c’è sempre
acqua calda per il bagno, per cui è un peccato non approfittarne. Il primo

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dell’anno, poi, la quantità di pesce e di dolcetti che si accumula in questa
casa è incredibile. Sakai è grande, ma nella zona sud, in quei quartieri divisi
da Oshōji,52 non c’è persona che non si sia fatta imprestare denaro da noi.
Anche il padiglione Porta del Diavolo,53 a due isolati da qui, appartiene a
vecchi servi della nostra casa. Penso che non avrai ancora visto la festa di
Sumiyoshi,54 è ancora lontana; si parte tutti insieme, fin dalla vigilia, per
andarla a vedere. Subito dopo si va in gita ad ammirare i glicini del porto,
con grandi vassoi ricoperti di foglie di nanten55 con sopra montagne di
sekihan.56 Anche una serva può essere felice nella nostra casa: hai trovato
un’ottima sistemazione, stanne certa. Devi solamente cercare di riuscir
gradita al signore, non rifiutarti mai, qualsiasi cosa chieda, e non andare in
giro a raccontare i fatti della casa. Essendo anziano, è facile che si arrabbi;
ma è come un acquazzone, torna subito di buon umore. Cerca di entrare
nelle sue grazie. Tiene nascosta a tutti una forte somma di denaro, e se un
domani dovesse capitargli qualcosa potresti averne un grande beneficio. Ha
già settant’anni, è tutto una ruga, ne avrà ancora per poco; non ti
preoccupare, dunque, qualsiasi cosa dica. Se ho confidato queste cose a te
che sei un’estranea l’ho fatto solamente perché mi piaci”. Capii subito quel
che intendeva dire. Se il padrone era proprio vecchio come lo descriveva,
tutto dipendeva da me. Se fossi riuscita a rimanere in quella casa per
qualche anno, avrei potuto procurarmi un amante e, una volta gravida, avrei
finto d’aspettare un figlio dal vecchio, gli avrei fatto fare testamento in mio
favore, ed ereditando tutto il suo patrimonio avrei potuto condurre una vita
sicura e felice. Mi trastullavo in questi pensieri quando la vecchia serva
disse: “Siamo arrivate, entra”, e varcò la soglia per prima. Lasciai i sandali
davanti alla porta interna e, passando per il corridoio intorno alla cucina,
venni condotta in una camera e lì mi sedetti in attesa. Dopo poco mi
raggiunse una vecchia signora di circa settant’anni dall’aspetto ancora
vigoroso; dopo avermi osservato così a lungo che avrei voluto sprofondare
per la vergogna, disse: “Va bene, mi piaci”. Non era precisamente quello
che speravo: se dovevo servire lei tutti i miei progetti sfumavano;
comunque, conquistata dalle sue benevole parole e pensando che una mezza
stagione sarebbe trascorsa in un lampo, conclusi che era bene calpestare il
sale di quella spiaggia e decisi di fermarmi. L’andamento della casa, visto
dal di fuori, non era diverso da quello abituale a Kyōto, e invece all’interno
c’era una grande animazione. I servi erano occupati a far girare mortai alla
cinese57 e le serve a confezionare calze pieghettate. Vigeva una regola

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molto severa; v’erano forse cinque, o forse sette cameriere che adempivano
a qualche particolare funzione, e io sola me ne stavo oziosa. Calata la notte,
mi dissero di preparare il letto; un ordine più che naturale, diversamente da
quello che poi mi venne dato di dormire sullo stesso guanciale della vecchia
dama. Ma era un ordine, e dovetti ubbidire. Pensavo che avrei dovuto
massaggiarle la schiena, invece pretese che mi comportassi da donna
mentre lei si fingeva uomo, e così per l’intera notte dovetti assecondarla in
quel gioco così inaudito e sgradevole. Ma il mondo è grande, e a me è
accaduto di prestar servizio nei posti più strani. Si sarebbe detto che il più
grande desiderio di quella vecchia fosse di poter rinascere uomo.

L’andamento della casa, visto dal di fuori, non era diverso da quello abituale a Kyōto, e invece
all’interno c’era una grande animazione. I servi erano occupati a far girare mortai alla cinese e le
serve a confezionare calze pieghettate.

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CAPITOLO QUINTO

AMORE INFRANTO A ISHIGAKI1

Ero ormai stanca della mia vita licenziosa, ma in assenza di un’altra


soluzione tornai sui miei passi e, dopo aver appreso i costumi e le usanze di
Niboku2 della Casa delle Nocciole,3 diventai anch’io una donna di una casa
da tè della capitale. Mi vergognavo a indossare ancora vesti da ragazza, ma
fortunatamente, grazie alla mia minuta costituzione, pur essendo passati
tanti anni sembravo esser tornata quella di una volta. Sia in Cina che in
Giappone si prediligono le giovani. Come ha scritto Tōba4 nella sua poesia
Ventotto bellezze che leggiadramente si truccano, “due belle mani
serviranno da guanciale a mille uomini”; infatti in questo mestiere l’alcova
è occupata ininterrottamente, senza distinzione tra giorno e notte. Per una
donna licenziosa può anche essere piacevole. In realtà era un mestiere
piuttosto monotono perché, pur variando il genere dei clienti, impiegati,
artigiani, bonzi, attori, la cosa in se stessa non diveniva per questo più
divertente. Poiché il tempo di stare insieme era veramente breve, si finiva
per considerare allo stesso modo sia quelli che piacevano sia quelli che si
detestavano, con la stessa sensazione che si prova quando la barca dopo un
breve tragitto tocca la sponda opposta. Se si trattava di una persona
piacevole si cercava un argomento di conversazione, sempre però
superficiale, se invece era un individuo odioso non lo si guardava neppure
in viso e sin quando non aveva terminato si rimaneva a contare
sovrappensiero le travi del soffitto. La mia vita, in quel periodo, era alla
deriva come l’acqua che scorre intorbidita dal Mondo Fluttuante. Durante il
mio soggiorno a Ishigaki mi capitò di essere invitata a una festa
nell’elegante quartierino di un giovane d’incarnato pallido e nel suo pieno
fulgore. La sua pelle, bella come la seta più preziosa, mi aveva colpito per
cui, in seguito, volli sapere chi fosse; mi risposero che era famoso nella
capitale per la sua ricchezza, al che tacqui confusa. C’erano altri giovani di
bell’aspetto, ma probabilmente appartenevano tutti a una classe ugualmente
privilegiata. In quella casa da tè lavoravano sette o otto donne, ma io

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riuscivo ugualmente ad accaparrarmi i clienti migliori. A poco a poco
divenni famosa, nei banchetti c’era una gran profusione di coppe intorno a
me, e s’incominciò a dire che molti signori di Kyōto superiore mi
consideravano piacevole e divertente. Appresi molto da Gansai,5 da Kagura
imparai a intrattenere gli ospiti, da Ranshū il modo per versare il tè e da
Ōmu l’arte della conversazione; finii, insomma, per divenire abile in tutto
ciò che poteva servire in quel mestiere. Ma quando ogni mia attrattiva
scomparve venni licenziata e fui così costretta a constatare quante diverse
sfumature vi siano in una stessa condizione alla deriva.
Nei pressi di Yasaka,6 nel quartiere di Gion, c’era sempre una grande
animazione e si udivano graziose voci dal tono carezzevole che al di là delle
cortine sussurravano: “Entrate, prego!”. Una gran folla andava su e giù con
passo strascicato per la salita di Kiyōmizu alla ricerca della casa
d’appuntamenti migliore: erano argentieri in cerca di evasione, carpentieri
addetti alla copertura dei tetti in riposo forzato per la pioggia, uomini che al
momento di uscire di casa avevano deciso, dopo lunghe esitazioni, di
sacrificare due monete in quell’unica pazzia annuale, come i fiori che
crescono tra le rocce. Per ogni due donne c’erano cinque clienti. Appena
entrati in camera si estraevano a sorte le coppie, si mangiavano ostriche
salate prima di bere il sake, e nonostante ci fosse, presso il guanciale, la
sputacchiera, si gettavano le bucce dei frutti di Miscanthus nel posacenere,
si mettevano a bagno i pettini nell’acqua dell’ikebana, e dopo aver bevuto si
riportava la coppa nella posizione di prima, come a capodanno.
Frequentando gente così noiosa non si riusciva a trattenere gli sbadigli, in
attesa di esser chiamate in un’altra stanza, mentre la padrona avvertiva gli
ospiti: “Ehi, voi che vi assiepate là, entrate pure”. Intanto un altro gruppo si
sedeva vicino alla teiera esclamando: “Che ressa, qui!”, al che si diceva
loro: “Ma no, non è il caso di preoccuparsi. Su, fatevi avanti” e li si
accompagnava al primo piano. Alcuni invece si avviavano all’uscita,
avvertendo: “Andiamo a Ryōzen,7 passeremo al ritorno”. Era un lavoro
davvero travolgente: una volta girato il paravento a disegni impressi8 si
disponevano due guanciali e intanto, sciogliendo l’obi, si canticchiava un
brano del [celebre] jōruri:9 “Si lavora nonostante il dolore” e poi, dopo
qualche sapiente moina, tirando per un orecchio il cliente: “Su, datti da fare,
che tanto non è che ci guadagni. Vieni qui. Oh, ma che piedi freddi!” e poi,
quando il cliente stava per andarsene, si annunciava con voce sonnacchiosa:
“Entri chi vuole”, e fra uno sbadiglio e l’altro bisognava assecondare il

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nuovo cliente. Quando finalmente si riusciva a prendere un bagno, si veniva
interrotte e spinte verso un altro cliente che aspettava e, finito con lui, si
sentiva battere le mani al primo piano e una voce che gridava: “Non posso
bere il sake tutto solo, possibile che non venga nessuno? Volete forse che
me ne vada? Ho pagato e ho diritto che qualcuno mi tenga compagnia. In
qualsiasi delle centodiciannove case da tè, non ce n’è una dove io abbia
bevuto sake, ho sempre bevuto solo zuppe di corbicule o di meduse cinesi,
non ho mai pagato con denaro falso e neppure mi è mai capitato di non
restituire un ombrello imprestato e, se volete giudicarmi dalla veste,
guardatela bene: è di puro cotone imbottito, non ne ho mai indossato una
usata”. Ed esibiva, incollerito, l’apertura della manica dall’ampiezza alla
moda.10 Si doveva andare subito a calmarlo, mentre qualcuna gridava: “O-
Kame, è caduta la biancheria che hai messo ad asciugare” e qualcun’altra
gemeva: “Il gatto ha rubato il sushi11 di carassio che stavo servendo”.
Intanto il cliente di prima se ne andava lasciando un involucro. Ci si
affrettava a toglierne il denaro e a metterlo sulla bilancia, ancor prima che la
sagoma del cliente fosse scomparsa, per poi andare subito a mostrarlo, tutte
trafelate, ai vicini di camera.

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… riuscivo ugualmente ad accaparrarmi i clienti migliori. A poco a poco divenni famosa, nei
banchetti c’era una gran profusione di coppe intorno a me, e s’incominciò a dire che molti signori di
Kyōto superiore mi consideravano piacevole e divertente.

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Dovevo in qualche modo arrangiarmi per vivere, ma quello era
certamente il mestiere più ingrato che avrei potuto scegliere. Riuscivo a
guadagnare fino a trecento monete,12 a volte anche cinquecento o ottocento,
ma con quei soldi dovevo provvedere alle vesti, all’obi con il laccio interno,
alla biancheria, ai fazzoletti, ai pettini per l’acconciatura, agli stuzzicadenti,
all’olio per i capelli, per cui non rimaneva quasi niente per me. E inoltre
dovevo inviarne una parte ai miei genitori, pagarmi le sere in cui non
trovavo clienti e far fronte a mille altre spese. Non ero neppure riuscita a
mettere da parte il denaro occorrente alla dote e fui così costretta a passare
mesi e anni dimentica di me stessa, nel disordine e nelle gozzoviglie.
Quando la mia bellezza sfiorì acconsentii a prestar servizio per trenta giorni
nella casa di un cliente la cui moglie era ammalata. Cercavo di nascondere i
miei difetti col trucco, ma ero così magra che mi spuntavano tutte le ossa e

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inoltre avevo sempre la pelle d’oca. Per cui, vedendomi, qualcuno diceva,
senza preoccuparsi d’essere sentito: “Quella donna non la vorrei neppure se
mi pagassero”, colmandomi il cuore di tristezza. Mi chiedevo, irata contro
Aizen Myōō, se non vi fosse un’altra strada per me. Alla fine divenni
un’erba d’amore appassita, eppure ci sono anche insetti a cui piacciono le
foglie amare della sanguinaria,13 perché vi fu chi s’innamorò di quel mio
vecchio corpo e mi regalò vesti di seta leggera nera, donandomi una felicità
insperata. E mi fece smettere quel mio mestiere e mi sistemò in una casetta
nel quartiere di Monzen,14 per cui divenni la sua mantenuta. Era un uomo
famoso anche in quella vasta Kyōto, straordinariamente ricco, che ora
frequenta Takahashi;15 a quel tempo soleva farsi massaggiare dalle tayū,
togliendosi ogni capriccio. Io ero colma di felicità: mi dicevo che se lui
aveva voluto intrecciare una relazione con me, era perché aveva apprezzato
qualche mia virtù. Kyōto era una città in cui una donna poteva ottenere tutto
quel che voleva, e se io ero stata tanto sfortunata la colpa era solo mia,
perché non avevo saputo trovar prima l’uomo adatto. Ero felice di stare in
quella casa e di ricevere l’occorrente per la cerimonia del tè di nuova
fabbricazione,16 e dipinti di nuovo pennello.
Le donne che vendono il proprio corpo dovrebbero esser studiate a fondo,
e io mi accingo a farlo.

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LE CANZONETTE17 DELLE DONNE DEI BAGNI PUBBLICI

Quelle che chiedevano sei monete d’argento per notte erano chiamate
yobukodori e quindi denjūjo.18 Una volta chiesi perché avessero dato loro
quel soprannome e mi fu risposto che era perché le donne addette ai bagni
venivano chiamate scimmie. Le loro abitudini e i loro costumi erano
pressoché uguali in tutto il paese. Si lavavano tutti i giorni, si pettinavano
secondo l’acconciatura shimada bassa, con un largo nastro annodato a
quadrifoglio, dalle estremità incurvate e con un pettine grosso come un
tagliere. Si preparavano per la sera coprendo con la cipria le imperfezioni
della pelle, applicando il rossetto senza parsimonia, annodandosi
frettolosamente da sole i lacci di seta di Kaga ormai color topo, indossavano
poi una veste estiva increspata a cinque disegni, oppure con le maniche a
scacchi, così stretta da fasciar le gambe, con un obi Porta del Drago piegato
due volte: e così agghindate sostavano a turno nei corridoi. Non appena
entrava un cliente si precipitavano a salutarlo con un suadente: “Entrate”,
chiamandolo per nome se lo conoscevano; lo accompagnavano nel bagno, si
sedevano su una stuoia, mentre un’altra donna, che stava sull’orlo della
vasca, si avvicinava a lui e gli chiedeva, anche se non l’aveva mai veduto
prima: “Siete andato a teatro oggi? Oppure venite dal quartiere dei piaceri?”
affinché tutti sentissero. Quello allora, per stolta vanità, estraeva dal
portafazzoletti alcune lettere di cortigiane affermando che lo stile delle tayū
aveva qualcosa di eccezionale. Secondo lui erano state scritte dalle tayū
Ogino (Prato di Giunchi), Yoshida (Buon Campo), Fujiyama (Montagna di
Glicini), Izutsu (Orlo del Pozzo), Musashi,19 Kayohiji (Stradina
Frequentata), Nagahashi (Lungo Ponte), Sanshu (Tre Barchette), Kotayū
(Piccola Tayū), Mikasa (Tre Cappelli), Tomoe (Vortice), Sumino, Toyora,
Yamato, Kasen, Kiyohara (Pianura di Purezza), Tamakazura (Rampicante
Preziosa), Yaegiri (Densa Nebbia), Kiyohashi (Ponte di Purezza),
Komurasaki (Erbetta Porporina), Shiga: invece erano senza dubbio opera di
una qualsiasi hashitsubone Yoshino; ma era come dar da fiutare dell’aloe a
un cane, nessuna sarebbe stata in grado di capire. Anche l’esibire spilloni
con stemmi di tayū e di tenjin del tutto sconosciute era un’astuzia
vergognosa; scusabile, però, se si pensa che per un giovane era difficile
procurarsi il denaro per soddisfare la propria lussuria, per cui tutti

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ricorrevano a quello stratagemma. Se un giovane era senza seguito,
mostrava con vanto la biancheria nuova, ripiegava la veste estiva e la dava
in consegna all’addetta prescelta in un’atmosfera allegra e spensierata.
Uscito dalla vasca, veniva trattato con grande cortesia, se era un cliente
conosciuto: con una mano gli si porgeva il portacenere, con l’altra gli si
versava il brodino, lo si sventolava con un ventaglio di Yūzen,20 poi gli si
toglieva la moxa dalla schiena, gli si lisciavano le basette. I nuovi venuti
erano invece trattati quasi con disprezzo, arricciando il naso, affinché
desiderassero diventare clienti abituali per essere trattati con maggior
considerazione. A volte le denjūjo venivano invitate in una casa di convegni
amorosi e allora si affrettavano a lavarsi con l’acqua rimasta, si truccavano,
si preparavano un po’ di riso e di verdure piccanti che toccavano appena, e
subito indossavano frettolosamente le vesti prese in prestito e, precedute da
un servo munito di lanterna, uscivano rumorosamente dalla porta principale.
Se era sera usavano un copricapo di cotone, se era notte andavano a capo
scoperto. Camminavano a passi leggeri nel buio, ma una volta entrate nella
casa abbandonavano ogni ritegno e quand’erano in camera si spogliavano
fino a restare con la sola biancheria intima dicendo: “Scusate, ma con tre
kimono fa troppo caldo”, e quindi aggiungevano, senza il minimo pudore:
“Su, datemi da bere, qui manca proprio il fiato” e si comportavano in tutto
con la più grande impudicizia; una cosa davvero incresciosa. Però non
allungavano le mani verso i dolci, reggevano con leggerezza la coppa e,
nonostante ci fossero pesce, ostriche crude e uova fritte, non facevano che
spilluzzicare bucce di fagioli e di pepe giapponese, un grazioso vezzo delle
ragazze del quartiere dei piaceri. Si scambiavano le coppe con gli abituali
convenevoli, “ancora un po’”, “l’assaggio volentieri”, certamente gli stessi
che si dicevano in cento altri convegni, ma per chi non aveva denaro
sufficiente per frequentare una casa più elegante, era più che tollerabile.

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Uscito dalla vasca, veniva trattato con grande cortesia, se era un cliente conosciuto: con una mano
gli si porgeva il portacenere, con l’altra gli si versava il brodino, lo si sventolava con un ventaglio di
Yūzen, poi gli si toglieva la moxa dalla schiena, gli si lisciavano le basette.
La gente di Ōsaka, quand’era stanca di mangiare il pagello di Mae,21
andava a Kumano a gustare, nel nono mese, lo sgombro dell’O-Bon.22 Così
ci si dovrebbe recare ai convegni amorosi, con uno spirito diverso,
dimenticando tutto ciò che si è veduto prima, anche se i luoghi di piacere,
dove ci si purifica dagli affanni quotidiani, sono in definitiva tutti uguali.
Le inservienti rimaste sul posto di lavoro, invece, si raccontavano le
novità del giorno, gareggiando nello sfoggiare il frasario di moda e
finalmente, al rintocco della campana di mezzanotte: “Su, è ora di andare a
dormire. Io lavoro tutte le sere e non son fatta di ferro” dicevano, e dopo
essersi preparate il sobakiri23 con un grande acciottolio, finalmente si
coricavano come la povera gente: tre donne sullo stesso materasso a righe,

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con due sole vesti di cotone imbottite come coperta, senza neppure
guanciali di legno sufficienti, e prima di addormentarsi discorrevano di tutto
fuorché d’amore. Parlavano dei fatti di cronaca, dell’inaugurazione degli
scavi per il grande canale,24 del paese natale, della loro famiglia e poi,
immancabilmente, dei pettegolezzi sugli attori. Finalmente si
addormentavano, le mani e i piedi freddi, russando terribilmente,
abbandonate l’una contro l’altra in una posa che ricordava quella poesia25
che dice che il piacere dell’uomo e della donna è l’abbraccio di due corpi
olezzanti. Anch’io divenni una di loro, avvilendo così i miei sentimenti.

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BREZZA AMOROSA DI UN BEL VENTAGLIO

A Shijōdori, dalle parti di Shinmachi, viveva una donna che esercitava la


professione di medico e aveva appeso sul portone un’insegna con il disegno
di due occhi e con la scritta: “Cerusico”. La casa aveva delle grate
all’entrata e l’interno era vasto e buio. Vi era sempre una gran folla di
malati che se ne stavano tutto il giorno seduti contro le pareti perché non
avevano il permesso di dormire sdraiati e dovevano anche rinunciare al
piacere del sake; passavano il tempo guardando le verdi foglie dell’iris di
pietra dei paesaggi in miniatura26 graziosamente contornati di montagne di
sassolini di Nachi. Era inoltre permesso loro di cantare a bassa voce le
canzoni di Kakutayū27 e quella di Sayōnosuke,28 ma non potevano alzarsi,
né litigare e dovevano sopportar tutto con pazienza. Nei momenti di
malinconia si raccontavano le loro vicende.
Una era una venditrice ambulante di Muromachi, che portava le sue stoffe
nelle case affittate da gente venuta da altri paesi per trascorrervi un periodo
di svago o di convalescenza: se vi trovava un uomo cercava, potendo, di
sedurlo e approfittava della sua debolezza per divenirne compagna di
bevute di sake e di altre intemperanze. Naturalmente non trascurava i suoi
affari e un obi da allacciarsi sul davanti, del valore di nove monete e cinque
soldi lo vendeva a quindici monete con il sottinteso beneplacito del
compratore.
Un’altra lavorava in una merceria di cui era diventata ben presto
l’attrazione maggiore: i clienti erano in genere samurai e in alcuni casi
veniva mandata con la merce nei loro alloggi. A volte le toccava di vendere
ben altro che gli obi nagoyauchi29 o i cordoni di seta per le spade. C’era
anche un’artigiana di una fabbrica di tessuti del tipo a pelle di cerbiatto; non
era particolarmente licenziosa e sfacciata, e pur avendo temperamento e
bellezza conservava l’aspetto di una donna onesta, dote che doveva attrarre
gli uomini poiché venivano di continuo a trovarla di nascosto e le inviavano
denaro e vesti di stagione. Le altre erano tutte donne che per aver abusato
del proprio corpo erano state contagiate da una brutta malattia: avevano
cercato di celarla a lungo curandosi con infusi di china,30 ma nei tempi di
doyō e hassen31 si faceva più fastidiosa, si aggravava con gli anni e causava
umidità agli occhi. Si consolavano raccontandosi a vicenda le loro sventure.

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A Shijōdori, dalle parti di Shinmachi, viveva una donna che esercitava la professione di medico e
aveva appeso sul portone un’insegna con il disegno di due occhi e con la scritta: «Cerusico». La casa
aveva delle grate all’entrata e l’interno era vasto e buio. Vi era sempre una gran folla di malati che se
ne stavano tutto il giorno seduti contro le pareti…

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Anch’io mi ero rifugiata lì per la stessa ragione, ma nonostante avessi i
capelli frettolosamente acconciati, il viso senza cipria, la veste del tipo
hayakawaori32 dal collo tagliato di sbieco, e nonostante mi asciugassi di
continuo gli occhi, non ancora peraltro troppo gravemente ammalati, con
una pezzuola di seta gialla, a testa lievemente china, potevo ancora attrarre
l’attenzione maschile. In quel periodo c’era nella strada del ponte di Gojō
un gran negozio di ventagli. Il padrone era una persona un po’ strana, che
non aveva voluto una moglie con dote e non aveva neppure preso in
considerazione una delle tante belle ragazze di Kyōto, ma era giunto a
cinquant’anni dissipando grandi ricchezze in libertinaggi, dicendo che per
lui il denaro scaturiva come acqua da una sorgente. Costui, non appena mi
vide, s’innamorò a tal punto da chiedermi tremando di diventar sua moglie,
sebbene non avessi neppure una scatola per pettini né un bauletto di vimini

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per le vesti. Continuava a pregarmi con grande insistenza, e poiché non
acconsentivo si rivolse a un paraninfo e così riuscì a farmi accettare il
mastellino rituale della domanda di matrimonio.33 Quale fortuna può
capitare a una donna!
Venivo chiamata la Signora della Casa dei Ventagli e spesso mi recavo al
negozio in mezzo alle pieghettatrici34 e la mia figura attirava a tal punto
l’attenzione che numerosi uomini mi pagavano, senza discussioni, ventagli
di un numero di stecche superiore a quelle richieste, e c’erano persino bonzi
che mi spiavano con il pretesto di esaminare ventagli di ringraziamento.35
Nessuno più voleva ventagli di Mieidō36 e anche quelli con le pitture yuzen
erano ormai antiquati, perciò ne inventai uno con un bel disegno che si
mutava37 in una scenetta segreta da guardare, sorridendo, da soli: così il
negozio divenne uno dei più in voga. Nei primi tempi mio marito si
mostrava indulgente e fingeva di non vedere quando qualcuno mi sfiorava
una mano o mi toccava le natiche. C’era però un bel giovane che veniva
ogni giorno a comperare un ventaglio da un bu. Quel che era stato in
principio un gioco divenne ben presto una cosa seria e io, da mane a sera,
mi rammaricavo in segreto di essermi sposata perdendo così la mia libertà,
finché venni scoperta e scacciata. Andai in cerca di quel giovane, ma non
riuscii a trovarlo e non potei far altro che dolermi della mia sventatezza. Mi
rifugiai allora, come una vagabonda, in una casupola di Oikedōri,38 vivendo
alla giornata, con il ricavato delle mie vesti che andavo vendendo, come un
albero che si lasci a poco a poco scorticare. Speravo sempre di trovare una
buona sistemazione, purtroppo quasi impossibile perché quel che abbonda a
Kyōto, a parte i templi, sono le donne. Ma grazie alla mia esperienza del
mondo riuscii ugualmente a trovar lavoro in una filanda di Nishijin39 e a
organizzare segreti, ma non certo entusiasmanti, incontri con uomini nelle
notti di Rokusai. Nel quartiere di Kamichōja c’era un uomo che vestiva
come un monaco e viveva senza far niente grazie agli affitti che riscuoteva
per sette o forse otto case. Ne suddivideva scrupolosamente il ricavato
calcolando le varie spese di tutto l’anno, per sake, salse e altri piaceri. Non
mangiava che pesce secco e trascorreva il tempo in piacevole ozio. Abitava
con una donna e un gatto; quando lei morì, mi assunse al suo servizio con
due incarichi: di giorno sarei dovuta andare a prender l’acqua e avrei
preparato il tè, e di notte sarebbe bastato che gli massaggiassi i piedi. Non
mi si prospettava alcun compito ingrato. Non avevo rivali e, per colmo di

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fortuna, quel finto bonzo aveva solo quarant’anni. Così, per poter
dimenticare la tristezza della notte, il mio cuore di donna escogitò un
progetto peccaminoso. Il padrone soleva portare il watabōshi40 attorno al
collo e, d’inverno, non si toglieva mai lo zucchino, impiegava un’ora41 a
scendere le scale, non riusciva a stare in piedi a lungo per cui, intenerita
dalle sue condizioni, pensai che era triste invecchiare così e una sera gli
annunciai risolutamente: “Cercate di non prender freddo mentre dormite, se
vi assaliranno le vertigini svegliatemi, io dormirò qui”. Ero decisa a
conquistarlo, e in ogni caso l’avrei dovuto sopportare solo fino al quinto
giorno del nono mese. Purtroppo aveva un apparato vigorosissimo e non mi
lasciò chiuder occhio fino al mattino e, in seguito, mi tormentava mattina e
sera e diceva sempre di non capire di quale strana natura fossero fatti i
giovani e non si curava delle mie recriminazioni. E così in neppure venti
giorni mi ridussi al punto di non riuscir più a sollevarmi dai guanciali al
mattino, ero tremendamente pallida e tenevo sempre un fazzoletto intorno
alla fronte. Solo allora si decise a congedarmi, e potei tornarmene al mio
alloggio portata a spalla e ancora tremante di paura per il pericolo a cui era
stata esposta la mia vita.
Un giorno raccontai questo episodio a un giovane che beveva un infuso di
jiō, e lui ne fu a tal punto colpito che presero a battergli i denti.

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È SEMPRE BAGNATA LA BACINELLA D’INCHIOSTRO DELLE LOCANDE

La baia di Naniwa, con i negozi pavesati di ogni merce, è il porto più


importante del Giappone e vi convengono mercanti da tutto il paese. Ai
miei tempi vi erano un gran numero di locande superiori e inferiori dove
lavoravano, con l’incarico di intrattenere i clienti, donne chiamate Foglie di
loto.42 Erano scelte tra le più graziose inservienti di cucina e indossavano
una kosode di cotone leggero, una veste blu a tinta unita, un largo obi nero e
un grembiule rosso; i capelli li avevano acconciati rigonfi ai lati, trattenuti
da uno spillone di quelli in voga a Kyōto, e induriti con olio di aloe. Inoltre
calzavano sandali dal passante sottile e sfoggiavano fazzoletti di carta del
tipo nobe.43 Si capiva subito che genere di donne fossero, tanto più che
erano talmente sfacciate da camminare facendo ancheggiare i fianchi; erano
capricciose e vanesie ed era forse per questo che venivano chiamate Foglie
di loto. Ancora più impudenti delle prostitute, osavano, persino in casa del
padrone, farsi leccare la pelle levigata dai clienti, e quando si trovavano nel
segreto della loro camera, in una qualche locanda di Ukiyoshōji,44
scambiavano un numero infinito di guanciali. Avevano un amante che
donava loro le vesti per capodanno, un altro che si era impegnato a
procurare quelle sfoderate dell’O-Bon, un altro che provvedeva alle piccole
spese, un altro ancora che forniva la cipria per l’intero anno. Dai giovani
della loro età esigevano biancheria di seta. Non lasciavano in pace neppure i
servi e s’impadronivano della loro pipa laotiana, oppure della tabacchiera di
stoffa di kappa.45 Erano dunque molto avide ed esigevano regali del valore
minimo di due bu, e però non si curavano di metter da parte oro e argento
per la vecchiaia. Nonostante esercitassero il loro infelice mestiere in
locande di second’ordine, amavano i cibi raffinati, come le manjū di
Tsuruya, la soba al vapore di Kawaguchi,46 il sake medicato di Kobama,47 il
mochi48 al Grande Buddha di Tenma,49 il sushi alla secchia di
Nihonbashi,50 il kamaboko di Wanya,51 le scatolette con la colazione pronta
di Senda no Kisuji.52 Inoltre erano solite prendere in affitto battelli per
organizzarvi festicciole, e usavano la portantina anche solo per recarsi a
teatro, ove affittavano un intero palco e, dopo lo spettacolo, si divertivano
con gli attori. Sfoggiavano poi stemmi con l’ideogramma di “piccolo”
racchiuso in un quadrato, oppure quello della “gru danzante”, o quello di

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“profumo”, tutti copiati da quelli degli attori. Non si curavano che
dell’esteriorità e consumavano nel modo più futile la loro esistenza.
Indugiavano nei divertimenti, senza preoccuparsi di nascondere la loro
cattiva condotta neppure agli occhi dei genitori e, sempre occupate in
frivolezze, non trovavano neppure il tempo, ad esempio, di accorrere al
letto di morte dei fratelli e manifestavano in tutto la massima noncuranza
dei doveri famigliari.

…vi erano un gran numero di locande superiori e inferiori dove lavoravano, con l’incarico di
intrattenere i clienti, donne chiamate Foglie di loto. Erano scelte tra le più graziose inservienti di
cucina e indossavano una kosode di cotone leggero, una veste blu a tinta unita, un largo obi nero e un
grembiule rosso…
Era un giorno tiepido e sereno, uno di quei giorni in cui anche i cuori
degli uomini sembrano schiudersi alla primavera. Io, dopo aver attraversato

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il ponte di Yodoya, mi stavo dirigendo verso Naka-no-shima: le nubi si
erano diradate e il vento aveva cessato di soffiare, nel fiume Fukushima le
rane gracidavano in coro, si era esaurita anche la pioggerellina, tanto sottile
da non riuscire quasi a bagnarmi l’ombrello. Era una magnifica giornata. Il
valore di tutte le qualità di riso era già stato fissato e non rimaneva più
nessuno al mercato, tranne un gruppetto di giovani che se ne stavano
sdraiati con il capo appoggiato al soroban e con la scatola per scrivere al
fianco. Per ingannare la noia, tenendosi davanti un kodakeshū,53 battevano
le mani sui fianchi e cantavano: “Non c’è nulla di più bello dell’amore”. A
questo ritornello facevano seguire paragoni improvvisati sulle donne che
lavoravano nelle varie case e definizioni satiriche davvero divertenti, di
quel tipo che viene volgarmente chiamato “due stemmi”, tra le quali:
facce buffe: quelle del vecchio di mille anni delle recite in riva al fiume54
e quella della Kichi di Yatsubashi;55
belle quando dormono: la figuretta di quella Tama venuta da Kyōto56 e le
rose selvatiche del tempietto interno;57
cose ineluttabili: la sifilide di Kinpira no Hatsu58 e le case da tè di
Kōzu,59 famose per la loro frescura;
cose preziose che brillano di notte: gli occhi della “gatta” Rin60 e il
lampioncino attaccato al bastone;
cose sgargianti ma che subito intristiscono: Kume dalla testa del
Buddha,61 e i gioielli falsi della processione del tempio di Zama;
spiacevoli quando piangono: il letto della Koman di Tokuri62 e gli uccelli
sui pini di Imamiya;63
sono lunghi, ma si ascoltano se gratuiti: i discorsi nel letto delle donne di
Echigo64 e il Taiheiki di Dōkyū;65
si vendono al minuto fingendo che siano graziose: i capricci di Murasaki
no Satsu66 e i grappoli di glicine di Tanimachi;
aprendole si allibisce: le vecchie fodere di Gōryokuno Shun67 e le buste
con il testo del Matsubayashi;68
tremendamente puzzolenti: il fiato della Koyoshi “bocca di coccodrillo”69
e la zona occidentale di Nagamachi.70
A questi seguivano altri versi dedicati alle Foglie di loto in servizio nelle
varie locande e ad altre, un centinaio, che non ritengo opportuno ricordare.
Una volta vecchie, però, tali donne diventavano inutili come zoccoli di

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legno di paulonia logorati dall’uso: sparivano e nessuno sapeva dove
fossero andate a marcire.
Lasciato il negozio di ventagli di Kyōto, trascorsi molte notti in
solitudine: quando, esasperata, raggiunsi questo porto e trovai lavoro in una
locanda, divenni subito famosa per la mia abilità nel conquistare i cuori
maschili, al punto che mi chiamarono Smeraldo delle tombe solitarie. Nei
primi tempi mi comportavo bene, cercavo di compiacere in ogni modo il
cliente e stavo attenta a non rovesciare la coppa di sake; ma a poco a poco
diventai insolente e trasandata, lasciavo che il candeliere cadesse sulle vesti,
spaccavo il guscio delle nocciole dei pasticcini sulle assi lucide del letto,
rompevo vassoi senza il minimo rammarico, strappavo e riducevo a festoni
la carta delle finestre e delle porte scorrevoli e mi asciugavo nella
zanzariera.
Uno o due anni dopo, mentre prestavo ancora servizio in quella locanda,
riuscii con continue moine ad accaparrarmi il favore di un cliente di Akita71
e a farmi comperare tutte le vesti di cui potevo aver bisogno. Una notte, poi,
approfittando della sua ubriachezza, mi procurai carta e inchiostro e,
guidandogli la mano, gli feci vergare un vero e proprio giuramento in cui
dichiarava che non mi avrebbe mai abbandonata. Riuscii ad abbindolare
così bene quel sempliciotto che gli dissi di volerlo seguire quando fosse
tornato al suo paese, ma lui mi supplicò di non farlo temendo una cattiva
accoglienza da parte dei suoi compaesani; io non volli sentir ragioni e anzi,
dopo qualche tempo, finsi di ospitare nel ventre un suo bambino e gli dissi
con volto radioso: “Sono certa che sarà maschio. Vorrei che tu gli dessi il
primo ideogramma di Shinsaemon, il tuo nome. Desidererei infatti
chiamarlo Shintarō. Alla festa di maggio72 innalzerò sul tetto della casa lo
striscione di seta e gli regalerò la spada d’iris”.73 Quello allora, impaurito,
si accordò con il suo amministratore di fiducia perché mi fosse assegnata
una somma di denaro sufficiente a tutte le mie necessità.

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CAPITOLO SESTO

LE DONNE DELL’OSCURITÀ SONO I FANTASMI DEL GIORNO

Il sole dell’equinozio d’autunno s’immergeva a occidente nella distesa del


mare, mentre contemplavo dalla città superiore le onde tingersi di purpureo.
Anche i glicini erano appassiti, ed era una visione davvero triste. A tratti si
sentiva la voce delle campane che ricordava l’impermanenza del mondo:
era il taiko nenbutsu,1 e le nuvole serotine si scioglievano a occidente quasi
che lì vi fosse il paradiso della Pura Terra, in uno spettacolo meraviglioso.
La folla venuta ad ascoltare i hyō shi2 d’accompagnamento e i battiti dello
shumoku3 era folta e compatta come una montagna. Da uno stretto sentiero
vidi scendere, per unirsi agli spettatori, una donna che abitava da quelle
parti in una casa in affitto: pur non essendo di sgradevole aspetto, cercava di
non farsi notare. Il volto era incipriato, le sopracciglia rifatte e rialzate con
l’inchiostro, i capelli, trattenuti da un lungo nastro con un ampio nodo,
erano profumati con essenza di fior di prugno e ornati di un pettine
d’avorio. Aveva curato molto i particolari, ma l’insieme del trucco e
dell’acconciatura contrastava con le vesti, così da farla sembrare una
gattenkubi.4 Incuriosita, domandai chi fosse e mi risposero che era una
donna dell’oscurità che si nascondeva al mondo.
In principio provavo vergogna solo a sentirne il nome, ma in seguito, non
trovando più un alloggio, finii con l’entrare in una casa di queste prostitute
e a iniziare il loro mestiere. Non dovevano andare in giro, ma ricevevano i
clienti in casa, ottenendo così un doppio compenso: per la prestazione e per
l’ospitalità. Gli uomini con abbonamento mensile pagavano un bu d’oro,
mentre per i clienti occasionali non c’era una tariffa fissa. A volte venivano
chiamate in qualche casa di convegni amorosi e ricevevano per un breve
piacere la ricompensa di due monete d’argento, ma una donna di particolare
bellezza, valorizzata da un elegante kimono, pretendeva un compenso di un
ryō. Gli uomini che le frequentavano abitualmente erano vecchi ormai
ritiratisi dagli affari, che uscivano di casa con la scusa di far visita alla
tomba della moglie, oppure giovani adottati,5 che temevano ogni

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maldicenza: non ve n’era uno che non si preoccupasse delle critiche della
gente. Era strana questa mania di nascondersi in una Ōsaka così grande.
L’unica ragione plausibile era l’avarizia.

Anche i glicini erano appassiti, ed era una visione davvero triste. A tratti si sentiva la voce delle
campane che ricordava l’impermanenza del mondo: era il taiko nenbutsu, e le nuvole serotine si
scioglievano a occidente quasi che lì vi fosse il paradiso della Pura Terra…

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La casa in cui presi a lavorare era normale, con le camere affacciate sulla
strada, una vetrinetta a due ante e una cortina di bambù in cui erano esposti
un’elsa di spada non molto antica, un rivettino di metallo di bassa lega,
lacci pettorali per haori, vecchie carte di ventagli, un netsuke6 con figure di
leoni, il tutto per un valore di non più di duecento soldi. Il padrone e la
padrona indossavano vesti decorose e avevano i mezzi per poter vivere
comodamente con altre cinque o sei persone. Prima del quinto mese
ammucchiammo le trapunte invernali su un cassone e anche alcuni debiti
vennero pagati due giorni prima della scadenza; prima delle feste
riuscimmo pure ad avvolgere alcuni rotoli di dolci e, poiché la carta della
bandiera7 era macchiata, incaricammo un pittore dilettante di dipingervi
l’“uccisione di mille uomini”; ma quello sbagliò tutto raffigurando un
Benkei8 dagli occhi sottili e un Ushiwaka dal volto terrificante. Il rimanente

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però fu preparato con cura: su un lato della mensola disponemmo un
vassoio per coppe, uno scalda-sake, un vaso di Horie colmo di pesci
rondine salati, tazze da tè con coperchio piene di fagioli bolliti e pesce
sempre fresco per la gioia dei clienti. Chiedevano tutti la stessa cosa: erano
ancora nel giardino e già gridavano: “Padrona, non c’è nessuna donna
speciale?”. “Ce n’è una venuta da Kyōto, dal quartiere Ishigaki; c’è poi la
figlia di un rōnin; e c’è una cortigiana che faceva la tenjin a Shinmachi;
forse voi ne conoscete già qualcuna”. Naturalmente erano tutte menzogne,
il cliente lo sapeva, eppure, incuriosito, finiva per chiedere: “Che età ha
quella figlia di rōnin? Ha il collo bianco? Non importa se non è veramente
bella, mi basta che sia graziosa”. “Se non vi piacerà vi indennizzerò con un
ryō d’argento”, e poi subito, in un orecchio, alla figlia, una ragazzina di
undici o dodici anni: “Vai dalla dama O-Hana e dille di prepararsi e di
venire qui subito; se c’è qualcuno con lei, fermati al di qua dalla tenda e
gridale che ho bisogno di lei. Capirà. Aspetta, c’è dell’altro. Tornando va’ a
comperare del sake”. Il padrone prese in braccio il figlio che piangeva e se
ne andò nella casa vicina a giocarsi quattro o forse otto bu a sugoroku.9 La
padrona, invece, mise ordine in una camera interna, vi sistemò un modesto
paravento con attaccati fogli di calendario, dispose due materassi di cotone
e due nuovi guanciali di legno, con cura particolare a causa dell’indennizzo
di un ryō d’argento a cui s’era impegnata. Dopo un po’ si sentì in prossimità
della porta di servizio un incalzante ticchettio di sandali, e la padrona si
allontanò con una strizzatina d’occhi per andare ad aiutare la ragazza a
vestirsi. Questa indossava una semplice veste di cotone di un giallo pallido,
con l’apertura delle maniche cucite, e aveva in mano un involto che aprì
traendone una sottoveste sfoderata di seta bianca, una furisode10 rossa con
un motivo riproducente le carrozze imperiali, un obi da annodarsi sul
davanti, con un ricamo d’oro di peonie e arabeschi, che venne invece
meticolosamente annodato sul dietro perché la ragazza doveva fingersi
figlia di un rōŽ nin. Calzò quindi un paio di calze pieghettate di cotone
misto con fili di seta e lacci alla campagnola, prese alcuni fazzoletti piegati
in due e un ventaglio dalle stecche nere placcate di oro falso; assunse
un’espressione dignitosa: una volta in presenza del cliente si mise a parlare
con inflessione dialettale e, chissà dove l’aveva imparato, si sedette
allargando le falde della veste, mostrando però con impudenza i lacci
bianchi della sottoveste. Beveva il sake con precauzione, quasi fosse la
prima volta; anche nell’alcova mostrava una grande inesperienza, si

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limitava ad accogliere lo spadone dell’uomo, e anche in questo si
comportava come una vera figlia di samurai. A un tratto prese a parlare
senza esser stata neppure interrogata, dicendo d’aver mandato un odoshi11
di pelle a fiorellini di ciliegio a Kyōto per farlo ritingere e altre cose
insignificanti come questa. Il cliente, non potendo esimersi dal rivolgerle la
parola, le domandò: “Come ti chiami?”; “Jodoshū” rispose. Indossava la
furisode, ma doveva avere ventiquattro o forse venticinque anni ed era
stolta se sperava di non dimostrarli. Non aveva fretta, perché le spettava un
compenso di quattro monete.
Invece quelle pagate due monete indossavano una semplice veste di
cotone sbiancato a righe e un obi color guscio d’uovo chiaro, annodato
frettolosamente. Appena entrate esclamavano, con un sussulto: “Che caldo
oggi! Pensavo di fare un bagno e stavo accendendo il carbone sotto il
pentolone quando è arrivata una persona. Scusate, ma prima di andare in
camera voglio farmi una bella sudata” e si denudavano completamente sotto
gli occhi allibiti dei clienti. Delle due monete, otto bu andavano al padrone
della locanda e quattro alla ragazza. Le donne ricompensate con otto bu
erano invece vestite miseramente, con la biancheria intima piena di
rammendi che tentavano invano di nascondere. Facevano discorsi orribili a
sentirsi, del tipo: “Sono stanca di filare la iuta, non ci sono clienti, non
mangio e la pancia mi diventa molle”, e quindi, dando un’occhiata al
mortaio: “Non mangerete quell’aglio, vero? È veleno per il ventre! Oh, i
meloni bianchi! È la prima volta che li vedo quest’anno. Costeranno ancora
cinque bu l’uno, vero?”. Queste donne avevano imparato a piangere anche
quando non erano tristi, e cercavano di accattivarsi la simpatia del cliente
dicendogli, al momento di lasciarlo, mentre lui si stava ancora annodando
l’obi: “Vi prego, se ne avrete l’occasione, tornate!” per poi correre,
petulanti, a chiedere alla padrona il compenso.

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ADESCATRICE DI PELLEGRINI

I viaggi sono faticosi, ma fermarsi in una locanda e diventare per una


notte la compagna di un uomo allevia la nostalgia del paese, e ancor prima
d’intrecciare un sogno ci si riposa dalla fatica del cammino. Ero già da
lungo tempo alla deriva, tutti i buddha mi avevano abbandonata e fui
costretta a cercar rifugio in una locanda di piacere in una località chiamata
Naka-no-jizō, a Furuichi,12 nella sacra Ise. Le ragazze che vi lavoravano
erano ritenute oneste e invece intrattenevano i clienti del luogo.
Indossavano le vesti una volta in voga13 nella capitale tra le tayū di
Shimabara e usavano cantare tutte con lo stesso tono la canzone di Ai no
yama:14 “Che tristezza! Tra i passanti è famoso il mio nome”. In primavera
si tenevano recite affinché potessero imparare i gesti degli attori e divenire
così buone compagne di sake. Io ebbi l’opportunità di mettere a frutto le arti
imparate un tempo, adulavo i clienti e cercavo di accattivarmene la
simpatia, ma le rughe del mio volto erano troppo evidenti, e in quel mondo
che amava la giovinezza e la definiva il fiore della vita, ebbi solo qualche
raro visitatore e non ebbi più, con mia profonda tristezza, incontri amorosi.
Anche in quei paesi di campagna la gente si era fatta più esigente nei
rapporti amorosi, e neppure le tenebre potevano celare la mia vecchiaia.
Così presi a vagare per i campi e, vestita come una donna da casa da tè, con
un kimono di tinta cupa a imitazione di quella ottenuta con erba porporina e
un alto colletto scomposto color robbia – un abbigliamento che mi colmava
di vergogna –, riuscii, con il trucco del wakiake,15 ad adescare i pellegrini.

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… correvo fuori, con quel mio volto bianco, a trattenere per la cavezza i cavalli che passavano,
dicendo ai cavalieri: «Ah, voi siete di Harima! Venite dal Bingo!» e li adulavo usando il loro dialetto,
senza mai sbagliare. Così, dimentichi del tempo, si fermavano a lungo da me, quasi si fossero loro
spezzate le gambe.

In seguito dovetti lasciare Furuichi, e sempre andando alla deriva, trovai


un lavoro in un alloggio per viaggiatori di Matsuzaka.16 Di giorno potevo
dormire a mio piacimento; alle due cominciavo a prepararmi: mi
cospargevo di cipria d’Ise17 di produzione locale, mi ungevo d’olio la
sommità della testa, e non appena dalla porta rocciosa del cielo18 calavano
le prime tenebre, correvo fuori, con quel mio volto bianco, a trattenere per
la cavezza i cavalli che passavano, dicendo ai cavalieri: “Ah, voi siete di
Harima! Venite dal Bingo!”19 e li adulavo usando il loro dialetto, senza mai
sbagliare. Così, dimentichi del tempo, si fermavano a lungo da me, quasi si

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fossero loro spezzate le gambe. Io li aiutavo, con estrema gentilezza, a
trasportare il bagaglio; ma una volta entrati nella locanda li trattavo
sgarbatamente, come fa il vento con i pini, e non rispondevo alla maggior
parte delle loro domande. Se qualcuno chiedeva un po’ di fuoco per
accendersi la pipa rispondevo: “Avete la lanterna davanti al naso”. Se si
lamentavano: “Quanto tempo impiegate per preparare il bagno!”, ridendo
rispondevo: “Avete pazientato in un ventre ben dieci lune!”. Se mi
chiamavano in camera, dicendomi: “Ho una cosa da chiederti”, e poi si
denudavano le spalle pregando: “Ho i reumatismi. Non puoi applicarmi la
moxa?”, facevo finta di non vedere e mi limitavo a rispondere: “Da alcuni
giorni mi fanno male le mani”. Se, mostrandomi le maniche delle vesti
estive scucite, dicevano: “Imprestami ago e filo”, manifestavo irritazione,
quasi mi fosse scoppiato il fegato, e dirigendomi alla porta rispondevo: “Il
mestiere che faccio è vile, ma non sono certo una che abbia a che fare con
aghi e filo!”. Quelli però mi trattenevano: “Fermati almeno un poco a bere
del sake”, e mi offrivano le specialità del loro paese e varie qualità di pesce
salato. Allora mutavo atteggiamento e, approfittando della loro ubriachezza,
infilavo la mano nello scollo di uno di loro, e dicendo: “Povero caro, chissà
come sarai stanco per il viaggio!”, gli accarezzavo il solco lasciatogli dal
laccio del copricapo, gli massaggiavo gli alluci segnati dai passanti dei
sandali di paglia, per cui non ve n’era uno che non dimenticasse quanto
aveva previsto di spendere quel giorno e non togliesse dalla cordicella cento
soldi bucati, infilandomeli nella manica avvolti nella carta. Anche chi non
voleva noleggiare un cavallo per risparmiare tre soldi era, nei miei riguardi,
di una generosità inusitata. Tutte le donne che, come me, adescavano gli
uomini non erano tenute a dare una percentuale al padrone della locanda,
bastava che in cambio del vitto gratuito gli procurassero clienti. Quelle però
che vi lavoravano solo occasionalmente avevano un padrone a cui andava
ogni loro guadagno. Tutto ciò di cui avevano bisogno, oltre alle vesti,
riuscivano a farselo regalare dai clienti. Anche le inservienti di cucina,
vedendoci all’opera, imparavano a imitarci e, tutte truccate, approfittavano
dei giorni di maggior affluenza per attirare i clienti nelle stanze di servizio;
per questo venivano chiamate donne doppie.20
I giorni e i mesi scorrevano veloci, finché non mi fu più possibile celare,
neppure di notte, il mio aspetto miserevole, per cui fui licenziata e mi
rifugiai sulla spiaggia di Kuwana, in quella stessa provincia. Lì rimanevo
ore e ore sulla banchina, cercando di vendere aghi e rossetti. Non andavo

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però dove vedevo donne, ma salivo sulle imbarcazioni ricoperte di stuoie di
giunco, in cui commerciavo senza neppure aprire i miei fagotti e i miei
sacchetti, tanto varie sono le qualità delle erbe amorose!

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IL CANTO DI RICHIAMO DI UN’ADESCATRICE NOTTURNA

Ormai avevo esaurito tutti i mestieri possibili per una donna, così mi
ritirai nel mare dell’amore in cui si levano le onde della vecchiaia, a Tsu no
Kuni,21 nel quartiere dei piaceri di Shinmachi, dove, grazie a una persona
amica a cui avevo dimostrato la mia esperienza in materia, riuscii a trovar
lavoro come sorvegliante di cortigiane; una condizione davvero indecorosa,
se paragonata al mio antico stato. Dal mio abbigliamento era facile intuire
quale fosse la mia condizione: indossavo un grembiule rosa, un obi di
media grandezza annodato sul fianco sinistro da cui pendeva un mazzo di
chiavi, tenevo la parte posteriore della veste sollevata infilando una mano
attraverso l’apertura dello scollo e portavo uno scialle annodato in testa.
Camminavo silenziosamente, severa in volto, più di quanto in realtà non
fossi, per incutere soggezione a tutti. Avevo una grande autorità sulle tayū e
riuscivo a scaltrire anche le più ingenue, che così riuscivano a adescare e a
piacere ai clienti; lavoravo instancabilmente nell’interesse dei padroni.
Conoscevo fin troppo bene i trucchi delle cortigiane e non c’era un incontro
segreto che mi sfuggisse; le tayū mi temevano e incutevo soggezione anche
ai clienti, che si premuravano di darmi due monete senza neppure attendere
la fine dell’anno, con lo stesso sentimento di chi lascia i soldi al diavolo per
il Traghetto.22 Era però naturale che, così invisa a tutti, non potessi durare a
lungo. Mi odiavano, ed era per me veramente gravoso rimanere in quella
casa, per cui mi trasferii in un retrobottega alla periferia di Tamatsukuri,23
un agglomerato di casupole, un luogo isolato e solitario, dove anche di
giorno volavano i pipistrelli. Avevo venduto anche l’ultima veste rimastami,
per cui ero costretta a rompere le assi delle mensole per farne legna da
ardere, e non avevo da metter sotto i denti che fagioli bolliti nel brodo
avanzato dal giorno precedente. E quando di notte, fra gli scrosci di pioggia,
cadeva uno spaventoso fulmine, mi auguravo che avesse la pietà di
colpirmi. Avrei rinunciato alla vita senza alcun rimpianto, essendo ormai
stanca di questo Mondo Fluttuante. Avevo sessantacinque anni, ma ne
dimostravo solo una quarantina, grazie alla finezza della pelle e all’esilità
della corporatura, eppure non ero affatto compiaciuta di me stessa. E poi, un
giorno in cui, affacciata alla finestra della mente, ricordavo tutte le vicende
amorose della mia vita, vidi apparire delle figure infantili con foglie di loto

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come copricapo, grondanti sangue dai fianchi, in numero di novantacinque
o novantasei, e piangevano incessantemente dicendo: “Portaci sulle
spalle!”. Le guardavo atterrita, pensando fossero i fantasmi, di cui avevo
sentito parlare, di donne morte durante il parto,24 finché una dopo l’altra mi
gridarono con rabbia: “Cattiva mamma!”. Mi rattristai perché capii che
erano bambini senza genitori: i miei antichi aborti. Se non avessi fatto loro
del male e li avessi allevati, avrebbero formato un casato più numeroso di
quello degli Wada:25 sarebbe stata una grande gioia per me, mi dicevo
pentita. E dopo un po’ scomparvero senza lasciar traccia. Quell’apparizione
mi indusse a pensare che era giunta per me l’ora di congedarmi dal mondo;
ma la notte trascorse e al mattino non ebbi più la forza di togliermi la vita.
M’informai sulle mie vicine di casa: erano tre vecchie, che però non
dimostravano più di una cinquantina d’anni; dormivano fino a mezzogiorno
e sembrava che non facessero alcun lavoro. La loro situazione era così
strana che m’incuriosì e incominciai a osservarle con maggiore attenzione:
consumavano pasti più prelibati di quelli che avrebbero potuto permettersi,
facevano grande consumo di pesciolini di scoglio che i venditori portavano
loro da Sakai, acquistavano con la massima noncuranza grandi quantità di
sake, e tra un pettegolezzo e l’altro dicevano: “Per il capodanno prossimo ci
faremo confezionare dei kimono color tuorlo d’uovo chiaro, con stemmi
nascosti, tinti a motivi d’imbarcazioni a vela e di ventagli cinesi, con un obi
color topo con un motivo a spirale sulla sinistra in cinque differenti tinte, in
modo che risalti bene anche di notte”, dimostrando così di avere delle
entrate segrete. Una sera le osservai: dopo il pasto si prepararono per uscire,
truccandosi più volte con una cipria scadente e terrosa, ritoccandosi
l’attaccatura dei capelli sulla fronte con l’inchiostro, spalmandosi il rossetto
sulle labbra fino a farle brillare e poi imbiancandosi di cipria il collo, il
petto e le mammelle, dove più fitte erano le rughe; aggiunsero dei posticci
ai radi capelli e li acconciarono in una stretta shimada, tenuta ferma da tre
nastri nascosti e sormontata da un lungo foglio di carta spiegata.
Indossarono poi una furisode blu e si annodarono sul dietro un obi di cotone
bianco, indossarono calze cucite a filo grosso, calzarono sopra queste i
sandali, presero fazzoletti di carta, si allacciarono i lacci della sottoveste, si
riaggiustarono la ventriera e aspettarono la notte perché solo allora
s’intravedono a malapena i volti delle persone. Finalmente arrivarono tre
giovani vigorosi in haori, chi con un copricapo ben calzato e chi con un
lungo zukin calato sugli occhi, un grosso bastone di bambù e lunghi

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fundoshi, le gambe avvolte nelle fasce e ai piedi sandali di paglia.
Portavano lunghe stuoie arrotolate e dissero: “È ora”. I vicini della casa
dietro la mia erano due coniugi che vivevano fabbricando fibbie per
impermeabili. Venuta la sera, la moglie si truccava, poi comperava un dolce
per la bambina di cinque anni e glielo porgeva dicendo: “Papà e mamma
vanno fuori, fai la brava”. Il marito, presosi in braccio il bambino di due
anni, usciva correndo, quasi temesse gli sguardi dei vicini, seguito dalla
moglie che indossava una vecchia veste. Io non capivo che cosa mai
facessero. Verso l’alba rincasarono le tre vecchie, molto più stanche di
quanto non fossero la sera, con il petto anelante per il respiro trafelato, e
quei tre giovani le accompagnavano. Bevvero subito dell’acqua salata, si
affaccendarono a preparare un brodo di riso bianco, fecero un lungo bagno,
si rivestirono lasciando libero il seno, quindi i giovani tolsero dalle maniche
la percentuale pattuita, ossia cinque monete ogni dieci, la consegnarono alle
donne e se ne andarono. Dopo un po’ le tre vecchie si riunirono a
raccontarsi le avventure della notte: “Sono stata davvero disgraziata. Non
ho incontrato neppure un uomo che possedesse dei fazzoletti di carta”. “Io
ho incontrato solo giovani nel pieno delle forze; al quarantaseiesimo ho
pensato che sarei morta e già m’irrigidivo dalla paura, ma non c’è limite al
desiderio, subito mi sono ripresa e, felice che ce ne fossero altri ad
aspettare, ne ho fatti ancora sette o otto”. L’ultima si mise a ridacchiare,
riluttante a confidarsi, per cui le altre le chiesero: “Ma cos’hai?”. “Non mi
sono mai trovata tanto in imbarazzo come questa notte. Me ne stavo davanti
al mercato di Tenma,26 al mio solito posto, quando vidi arrivare
un’imbarcazione di contadini di Kawachi. Mi avvicinai e vidi un giovanetto
di sedici o diciassette anni, probabilmente il terzo figlio del capo del suo
villaggio; non aveva neppure i capelli rasati agli angoli, era molto bello per
essere un provinciale e inoltre indossava abiti eleganti. Mi osservava,
stupito di vedere una donna, mentre il vecchio contadino che era con lui
continuava a criticarmi dicendo che per dieci monete si sarebbe potuto
avere ben altro. Ma il giovanetto disse che gli piacevo e mi si avvicinò
suadente, mi condusse sulla sua imbarcazione scoperta dove, cullati dalle
onde, dividemmo innumerevoli guanciali. Alla fine con le sue morbide
mani si mise a massaggiarmi i fianchi e mi chiese quanti anni avessi.
Questa domanda mi colmò di vergogna, ma cercai di rimaner calma e
lentamente gli risposi, in falsetto, che avevo diciassette anni, al che lui,
felice, esclamò che avevo la sua stessa età. Ero riuscita a ingannarlo grazie

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alle tenebre che mi celavano, perché, in verità, ho cinquantanove anni e
gliene avevo dunque taciuti ben quarantadue, per cui certamente il demone
nell’altro mondo mi strapperà la lingua. Ma in cuor mio pregavo che
volesse perdonarmi perché l’avevo fatto per necessità. In seguito me ne
andai a gironzolare dalle parti di Nagamachi, finché venni chiamata in una
locanda di pellegrini. Lì c’erano quattro o cinque uomini in fila, come se
pregassero, sul nenbutsu. Entrai a capo chino nella stanza illuminata e tutti
rimasero muti per lo stupore, il che mi parve strano anche se si trattava di
gente di campagna. Chiesi allora, inquieta, chi volesse divertirsi con me e
aggiunsi che non potevo fermarmi troppo alla locanda, che avevo fretta.
Udendo la mia voce si spaventarono ancor di più e si ritrassero atterriti.
Solo allora da quel pavido gruppo si fece avanti risoluto un vecchio che,
puntando tre dita verso di me, disse: ‘Donna licenziosa, non stupirti se
questi giovani sono tanto spaventati; lo sono perché ricordano la storia del
gatto27 tramutato in vecchia che ho appena narrato loro. È stata la dea
Kannon che ti ha chiamata qui, per punirli della loro incoscienza giovanile
che li induce a perdersi con le donne senza pensare all’altro mondo e ai
trentatré luoghi della via.28 Qui non c’è né amore né odio per te, vattene
dunque in pace’. Io ero inferocita di rabbia, ma per non perderci
andandomene via così, diedi un’occhiata in giardino e portai via un
copricapo di Kaga per risarcirmi delle dieci monete della mia ricompensa
che non avevo avuto”.

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E poi, un giorno in cui, affacciata alla finestra della mente, ricordavo tutte le vicende amorose
della mia vita, vidi apparire delle figure infantili con foglie di loto come copricapo, grondanti sangue
dai fianchi, in numero di novantacinque o novantasei, e piangevano incessantemente dicendo:
«Portaci sulle spalle!». Le guardavo atterrita, pensando fossero i fantasmi, di cui avevo sentito
parlare, di donne morte durante il parto…

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La compagna allora soggiunse: “Nel nostro mestiere l’importante è esser
giovani. Ma a ben riflettere, anche le giovani istruite e quelle che hanno un
aspetto tale da gareggiare con le tenshoku sono sventurate. In fondo per noi
non c’è un alto, un medio e un basso, siamo tutte pagate dieci monete e
dunque più si è belle e meno conviene. Vi pare? Però, per quel che mi
riguarda, vorrei essere nata in un mondo senza notti di luna”.
Udendo i loro discorsi, finalmente capii che si trattava di quelle donne di
strada29 di cui mi avevano parlato. Esercitare quel mestiere alla loro età, sia
pure per poter vivere, mi sembrava una cosa orribile e anche ridicola, per
cui, con un sorriso, mi dissi che al posto loro avrei preferito morire. Ma in
realtà mi era molto difficile trovar la forza di abbandonare questa vita. Nella
casa d’affitto in cui vivevo abitava anche una vecchia di più di settant’anni,
il cui forno non fumava quasi mai perché non aveva nulla da cuocervi, e che

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si lamentava da mattina a sera perché le gambe non la reggevano più. Un
giorno mi disse in tono suadente: “Perché mai, con la tua avvenenza, te ne
stai qui stoltamente senza far nulla? Dovresti uscire di sera come fanno
tutte”. Io le risposi: “Ma chi volete che mi voglia alla mia età?”. Al che la
vecchia, fattasi rossa in viso: “Se solo le gambe mi reggessero mi metterei
dei posticci sui capelli bianchi, fingerei di essere una vedova e andrei a
farmi una bella bevuta. E invece, purtroppo, non posso. Ma tu che puoi,
fallo!”. Mi lasciai convincere dalle sue parole, anche perché pensavo che
era meno triste che morir d’inedia. “Va bene,” le dissi “farò come mi dite,
però così vestita mi è impossibile”. “Ho io quel che fa per te” rispose. E in
seguito mi presentò un vecchio di non sgradevole aspetto che, dopo avermi
osservata a lungo, disse: “Ma certo, col buio può rendere ancora”.
E, tornato al suo alloggio, mi inviò un fagotto con dentro una furisode, un
obi, della biancheria e un paio di calzini di cotone. Mi diede tutto in
prestito, esigendo che lo ricompensassi con tre bu per notte per la veste, un
bu e cinque ri per l’obi, un bu per la biancheria e un altro per le calze,
dodici monete per un ombrello necessario nelle notti di pioggia, cinque
monete per dei pokkuri30 laccati; così potei avere da lui tutto quanto mi
occorreva.
In tal modo potei opportunamente trasformare il mio aspetto e ben presto
appresi tutti i segreti di quel mestiere. Avevo provato anche a cantare: “La
tua veste notturna”, ma stonavo troppo e così incaricai un gifu31 di farlo per
mio conto. Ero triste e avvilita, avevo paura ad attraversare i ponti nelle
notti nebbiose. Inoltre i clienti si erano fatti furbi e sceglievano una
prostituta con la stessa cura con cui un ricco sceglieva una tayū, prendevano
in prestito la lanterna di carta di un passante per scrutarla meglio, oppure la
conducevano sotto quella di un posto di polizia: erano molto esigenti e non
si trovavano più i mille ciechi32 di una volta che non s’accorgevano se la
donna fosse brutta o vecchia. Sin quando apparivano le nubi nel cielo
orientale e le campane risuonavano i sette o gli otto rintocchi e si udiva lo
scalpiccio dei cavalli, sin quando aprivano la bottega del fabbro e il negozio
di tōfu, io continuavo ad aggirarmi per le strade. Ma il mio aspetto non
doveva essere gradito, perché nessuno mi rivolgeva la parola, per cui
conclusi che quello era il mio ultimo tentativo amoroso in questo Mondo
Fluttuante, e trovai finalmente il coraggio di cambiare vita.

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TUTTI MIEI AMANTI, I CINQUECENTO RAKAN33

D’inverno la moltitudine degli alberi dorme e di sera si vede la neve sui


rami del ciliegio. Ma presto si concretizza l’attesa del mattino primaverile.
Solo gli uomini trascorrono gli anni senza speranza alcuna. Io provavo
vergogna ricordando il tempo passato. Desiderando che almeno fossero
esaudite le mie preghiere per il mondo futuro, tornai alla capitale e nel
giorno dei nomi dei buddha34 li recitai anch’io, facendo visita ai principali
templi. Al ritorno m’imbattei nel tempietto dei cinquecento rakan35 e,
incuriosita, mi avvicinai per osservarli: non so di chi fossero opera, ma tutti
avevano un volto diverso l’uno dall’altro; si diceva che ogni fedele riuscisse
a ritrovare, fra tanti volti, quello di una persona conosciuta, così
incominciai a scrutarli. Il primo su cui si posò il mio sguardo era l’esatta
riproduzione di un uomo con cui avevo condiviso il guanciale nel fulgore
della mia giovinezza. Guardai con più attenzione e scoprii che il successivo
assomigliava a quel Yoshi di Chōjamachi con cui – dipingendoci
reciprocamente un neo sul dorso della mano – avevo scambiato solenni
promesse al tempo in cui ero ancora cortigiana, e così mi tornarono alla
mente vicende del passato. Un altro che se ne stava seduto in un angolo
della grotta mi parve il padrone presso cui avevo prestato servizio nella
Kyōto superiore, e con cui avevo avuto una relazione così appassionata da
non poterla più dimenticare. Al lato opposto ce n’era un altro che mi
ricordava, per il suo naso pronunciato, Gohei, con cui avevo vissuto per
qualche tempo, e così fui colta da una struggente nostalgia per quei giorni
di sincero amore. Proprio di fronte a me ne vidi un altro piuttosto
grassoccio, con una spalla scoperta e una veste giallo pallido. Mi chiedevo a
chi somigliasse: finalmente scoprii che era il ritratto di Enbei di Kojichō, il
mio amante segreto nei giorni di Rokusai, al tempo in cui prestavo servizio
a Edo. Sulle rocce, all’interno della grotta, vidi poi una statua dal volto
pallido e bello che mi ricordò un avvenente giovane, un attore di Shijō
Kawaramachi che, quando lavoravo in una casa da tè, venne un giorno a
trovarmi: fui la prima donna che conobbe. Variammo a tal punto la
rappresentazione amorosa che il suo fisico ne risentì: si spense come un
lampioncino e a soli ventiquattro anni dovetti accompagnarlo al “campo
degli uccelli”. Aveva il mento piccolo e gli occhi un po’ infossati, per

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questo era impossibile confonderlo. Ne vidi poi un altro con la testa rasa, le
guance arrossate e i baffi. Se non fosse stato per quest’ultimo particolare,
l’avrei senz’altro scambiato per il bonzo che mi aveva fatto tanto penare
quand’ero la sua concubina. Ero preparata a qualsiasi tortura, ma non a
quelle che il bonzo m’infliggeva, instancabilmente, per cui divenni piena di
artrosi e quasi tubercolotica; ma la vita di ogni essere umano ha un limite e
anche il robustissimo bonzo era ormai ridotto in cenere. Ne vidi un altro
sotto un albero secco, con un’espressione furba sul volto, rappresentato
nell’atto di radersi la sommità della fronte e che sembrava muovere braccia
e gambe: assomigliava a un uomo conosciuto in passato, un addetto a un
magazzino di riso dei paesi occidentali che mi frequentava quando facevo
l’utabikuni e con cui avevo intrecciato legami profondi. Osservando i volti
dei cinquecento rakan mi accorsi che non ce n’era uno che non
assomigliasse ai miei antichi amanti. Ripensando alla corrente fluttuante da
cui mi ero lasciata travolgere, compresi che nulla è più penoso del mestiere
di cortigiana. Che fare di quel mio corpo che aveva conosciuto più di
diecimila uomini?

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Osservando i volti dei cinquecento rakan mi accorsi che non ce n’era uno che non assomigliasse ai
miei antichi amanti. Ripensando alla corrente fluttuante da cui mi ero lasciata travolgere, compresi
che nulla è più penoso del mestiere di cortigiana. Che fare di quel mio corpo che aveva conosciuto
più di diecimila uomini?

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Provai una profonda vergogna per esser vissuta tanto a lungo. Ero
tormentata e oppressa, come se una carrozza infuocata mi passasse sul
petto, e calde lacrime mi bagnavano le guance. Dimenticai persino che mi
trovavo in un tempio e mi gettai d’impeto a terra. Piangevo senza più
ritegno quando sopraggiunsero bonzi in gran numero e, fattimisi intorno, mi
dissero: “Il sole sta tramontando”, quindi si misero a battere sulla campana.
A quel suono tornai in me e riuscii a calmarmi. Allora i bonzi mi chiesero
gentilmente: “Perché piangi, vecchia? Hai forse scoperto tra questi rakan un
volto che somiglia a tuo figlio o al marito morto?”. Ma io provavo troppa
vergogna a rispondere, e uscii rapidamente dal portone. Così mi risvegliai
dal mio sogno del mondo: di me non sarebbe rimasto che un vuoto nome
quando le mie forme si fossero corrotte e le mie ossa divenute cenere in
mezzo alle erbe dei campi.

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Giunta alle falde del monte Narutaki,36 non avendo più legami che mi
trattenessero dal salire sulla montagna della bodhi,37 sciolsi gli ormeggi e
decisi di giungere, attraverso il mare delle passioni, alla sponda della vita.
Stavo già per gettarmi nello stagno, quando una persona che conoscevo mi
vide e mi trattenne. Così mi costruii questa capanna di canne e di foglie di
bambù, dove vivo in fiduciosa attesa della morte e dove, abbandonata la
menzogna in cui sono vissuta, ho finalmente potuto tornare alla verità. Fu
per consiglio di quella venerabile persona che scelsi la via del Buddha. Ho
trascorso tutti i giorni nella recitazione del nenbu tsu; solo per l’emozione
suscitata in me dalla vostra inattesa venuta e per il sake che mi ha sconvolto
l’animo, ho potuto narrarvi a lungo la mia breve vita. E le nubi del mio
cuore si dissolvono se penso che tutto questo può avere il valore di una
confessione e di un’accusa dei miei peccati. Sono una donna sola, perché
dovrei nascondervi qualcosa? Questo mio corpo durerà il tempo sufficiente
perché il loto del mio cuore si schiuda e appassisca. Mi sono abbandonata
alla corrente, ma il mio cuore non ne è stato intorbidato».

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NOTE

CAPITOLO PRIMO

1 Massima tratta dal Lü-shih ch’un-ch’in (Primavere e autunni del signor Lü), antologia cinese
compilata durante la dinastia Ch’in (249-207 a.C.) da un gruppo di studiosi diretto dallo statista Lü
Pu-wei (morto nel 235 a.C.).
2 Pianura che si estende a sud-ovest di Takao, famosa per i suoi templi e per il bellissimo,
malinconico paesaggio. Vi si rifugiarono, in suggestivi romitaggi, i poeti Fujiwara-no Sadaie (1162-
1241) e Abutsuni (?-1283), l’autrice del Diario della sedicesima notte. Nel tempio di Nonomiya,
ricordato nella Storia di Genji e nel dramma omonimo, si ritiravano, per tre anni di «purificazione»,
le principesse di stirpe imperiale designate dalla sorte a divenire sacerdotesse del tempio shintoista di
Ise. Nella medesima pianura di Saga trovò rifugio, in una casa nascosta dai pini, la bellissima Kogō,
infelice favorita dell’imperatore Takakura (1161-1181), come è descritto in un famoso episodio del
romanzo epico Heike monogatari.
3 Settimo giorno del primo mese del calendario lunare, così come Shuo Tung-fang (autore del ii
secolo d.C.) decretò in un libro sull’arte divinatoria: «Il primo giorno si traggono auspici dai volatili,
il settimo giorno dagli uomini e l’ottavo dai cereali». In questo giorno si celebrava in Giappone una
delle cinque grandi feste stagionali (gosekku).
4 Appellativo del fiume Katsura nel tratto in cui attraversa il villaggio di Mumezu, all’inizio della
pianura di Saga. In questa località, nel XII secolo, entrò nella vita religiosa il diciannovenne
Takiguchi Tokiyori, discendente di una famiglia di nobile tradizione guerriera, per amore della dama
Yokobue, che il padre e il suo signore feudale gli avevano proibito di sposare.
5 Il capodanno, secondo il calendario lunare cinese, ricorreva sovente nel nostro mese di febbraio e
segnava l’inizio della primavera. Nel quinto giorno del quinto mese di ogni anno veniva celebrata
con grande solennità la festa della Primavera, che era dedicata ai bambini. Iris, infatti, si pronuncia
«shōbu», che significa anche «spirito marziale».
6 Erba della famiglia del prezzemolo, che cresce generalmente nella sabbia; si adorna, in estate e
in autunno, di fiori bianchi e di gemme commestibili. Le radici hanno proprietà medicinali.
7 In Giappone si è soliti incanalare l’acqua di piccole sorgenti o di ruscelli in canne di bambù
tagliate a metà e sostenute da un perno al centro. Quando l’acqua ha riempito il recipiente terminale,
la canna si abbassa, colpendo la pietra sottostante, e in tal modo il recipiente si svuota e torna nella
posizione primitiva.
8 È la tipica larga fascia di seta pesante annodata all’altezza della vita, la parte più decorativa e più
preziosa del kimono femminile. Viene usata anche dagli uomini, ma in dimensioni più ridotte e con
poche decorazioni. Ai tempi di Saikaku, però, coloro che volevano dimostrare eleganza ne
ostentavano di assai vistose, come le stampe dell’epoca testimoniano.
9 Obi di tessuto con disegni di fiori di corniolo cinese.
10 Letteralmente: «nuovo suono». È un bastoncino di legno profumato da bruciare, così chiamato
per analogia con i versi di una poesia dell’antologia Kinyōshū: «Meraviglioso è l’uccello che
subitamente canta: ogni volta che l’odo, la sensazione ho di un nuovo suono». Anticamente i

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giapponesi non conoscevano l’uso dei profumi. La tradizione vuole che durante il regno
dell’imperatrice Suiko (554-628 d.C.) le onde del mare lasciassero sulla spiaggia dell’isola di Awaji
un tronco profumato di aloe che, presentato alla corte di Nara, fu donato dal principe Shōtoku al
grande tempio del Hōryūji. I bastoncini di hatsune erano ricavati da un legno simile.
11 È il classico vino giapponese che si ottiene da un processo di fermentazione del riso.
12 Centoduesimo imperatore del Giappone: nacque nel 1419, salì al trono nel 1429, abdicò nel
1464 e morì nel 1471.
13 Kimono bianco dipinto con paesaggi di fiumi, campi, crisantemi e cancelletti di legno di
cipresso. La moda, iniziata a Palazzo, si diffuse anche tra il popolo sul principio del XVII secolo.
14 Specie di pallavolo, giocata però con i piedi invece che con le mani; l’unica regola del gioco era
quella di evitare che la palla, di pelle di cervo e del diametro di venti centimetri, toccasse terra. Vi
partecipavano otto giocatori.
15 I samurai di rango inferiore al sesto grado indossavano divise composte da amplissimi
pantaloni, che nascondevano un’arricciatura all’altezza delle caviglie, e una corta sopravveste celeste
senza motivi di stemmi, decorazione riservata ai samurai di sesto grado.
La nobiltà del Giappone ai tempi di Saikaku si suddivideva in due grandi categorie: quella della
corte imperiale, ristrettissima nel numero ed estremamente esclusiva, suddivisa in varie categorie a
seconda del rango, e quella militare, assai numerosa. Quest’ultima si suddivideva in daimyō, grandi
nomi, che erano veri e propri signori feudali, e in samurai in senso stretto che erano loro gregari o
vassalli. Al sommo della gerarchia militare stava lo shōgun, il più potente dei daimyō, la cui famiglia
era di fatto la sovrana del paese nonostante l’investitura alla carica fosse, ma solo formalmente, fatta
dall’imperatore. Ai tempi di Saikaku i daimyō si suddividevano poi in altre categorie secondo il loro
grado di parentela e di fedeltà con la famiglia shōgunale dei Tokugawa.
16 Cittadina situata a quindici chilometri a sud di Kyōto. Il significato originale del nome pare sia
«il sentiero della lepre». Secondo la leggenda, infatti, quando il principe Uji no Wakairakko (IV
secolo) fu costretto a rinunciare al trono in favore del fratello, si rifugiò in quei luoghi e, smarritosi in
una distesa di cespugli spinosi, fu miracolosamente aiutato da una lepre che gli indicò un sentiero.
Uji, passaggio obbligato per chi volesse entrare in Kyōto dalle province orientali, fu teatro di molte
sanguinose battaglie. Al principio del XIII secolo il bonzo Myōe Shōnin piantò sulle colline di Uji i
primi semi del tè, portati dalla Cina, ancor oggi considerato il più squisito tè del Giappone.
17 Espressione poetica ricorrente nelle poesie antiche. Gli yamabuki (spirea giapponese) fiorivano
sulla sponda di un’ansa del fiume Uji, un tempo località famosissima.
18 La strada Sanjō divideva Kyōto in due zone: la superiore, a nord, comprendeva i quartieri
abitati dai nobili, l’inferiore, a sud, era invasa dalle botteghe dei commercianti e dalle case dei
popolani.
19 La notte del settimo mese e il capodanno del calendario lunare, fanciulle vestite da dame di
Palazzo attraversavano i vicoli di Kyōto danzando, cantando e percuotendo un piccolo tamburo.
20 Leggera veste di cotone, tinta con motivi di color indaco, che i giapponesi usavano per recarsi
al bagno, sia pubblico sia domestico, o per andare a riposare. Con la stagione calda viene spesso
indossata per tutto il corso del giorno. La frase «sono già appassite le tinte floreali degli yukata» è un
gioco di parole. «Tinta floreale», infatti, è anche il nome di una sfumatura di indaco: la frase significa
quindi anche «già si erano smessi gli yukata di indaco pallido».
21 Lunga strada molto animata a sud della Sanjōdori: ospita i quartieri dei commercianti, i negozi
di Kawaramachi, il quartiere di Gion con il teatro di kabuki Minamiza.
22 Periodo storico compreso tra il 1658 e il 1661.
23 Odierna prefettura di Shizuoka.

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24 Antico nome dell’odierna Tōkyō.
25 Hachiningei. Letteralmente: «abilità di otto uomini». Era un’esibizione virtuosistica
particolarmente apprezzata. Il musico suonava contemporaneamente otto strumenti: con una mano il
tamburo, con la bocca il flauto, con un piede il liuto, e così via.
26 Spettacolo di canto, danza e recitazione creato dalla famosa danzatrice Izumo no Okuni. Alla
fine del XVI secolo ella si esibiva in rappresentazioni di un realismo sconosciuto a quell’epoca, che
incontrarono un grande favore presso il pubblico e diedero origine al kabuki. Le attrici che vi
danzavano e vi recitavano furono però accusate di dare scandalo sulla scena e in privato, e un decreto
del 1629 vietò alle donne di esibirsi nel kabuki. Nacquero in tal modo gli onnagata, chiamati anche
oyama, attori che, analogamente a quanto avveniva nel teatro elisabettiano e in quello cinese,
interpretavano esclusivamente parti femminili. La finzione non si limitava alle scene e i più famosi
attori concedevano in privato il loro corpo a ricchi ammiratori. Nel 1652 per porre freno a tanta
corruzione le autorità li obbligarono a rasarsi la sommità del capo, com’era costume dei maschi
adulti, tuttavia l’ambiguo commercio continuò, accresciuto anche dal concorso dei giovanetti che
frequentavano come spettatori o inservienti i teatri.
27 Le donne delle famiglie di samurai e le donne di integra virtù usavano annodarsi l’obi sulla
schiena, mentre le cortigiane, costrette a sciogliere e a rifare il nodo più volte durante la giornata, lo
portavano allacciato sul davanti. Gli obi confezionati con tessuto a rete di fili gialli, azzurri e rossi
erano prediletti dalle fanciulle e dalle cortigiane.
28 Scatolette a più scomparti di preziosa lacca lavorata, in cui si conservava il sigillo personale o
le medicine e che venivano portate appese alla cintura.
29 Collina situata nella zona orientale di Kyōto, da cui si gode il più celebre panorama della città.
Alle sue falde sorgono i templi di Chion’in e di Kiyomizu, frequentati anche in antico da folle di
pellegrini e circondati da alberghi e locande. Sulla collina sorge il famoso Shōgunzuka o «tumulo del
generale», sotto al quale nell’viii secolo l’imperatore Kanmu avrebbe sepolto una statua, alta due
metri e mezzo e raffigurante un generale con elmo e armatura, rivolta verso occidente per proteggere
la città. Si dice che il tumulo abbia sempre annunciato con strani lamenti le catastrofi incombenti su
Kyōto.
30 Fanciulle chiamate kaburo, che scortavano ai banchetti le tayū, cortigiane di rango superiore.
Nel termine cortigiane si comprendono tutte le categorie di donne la cui attività consista nel tenere
compagnia agli uomini, dal mero intrattenimento a prestazioni sessuali specifiche. Ai tempi di
Saikaku erano generalmente inquadrate in categorie precise, ed esercitavano il loro mestiere in
quartieri ben circoscritti, essendo la prostituzione libera assai rara. Le due categorie principali erano
costituite dalle agejorō, le cortigiane più elevate, e le misejorō, le inferiori. Si distinguevano fra loro
come condizioni di vita in quanto le prime vivevano insieme alla famiglia del padrone che le aveva
acquistate da bambine, mantenendole e istruendole con ogni cura. Passavano il tempo esercitandosi
nella musica, nella danza, nella poesia, nell’arte dei fiori, nell’arte della conversazione e, ovviamente,
in quella amatoria. Lavoravano in appositi locali, detti ageya, da dove venivano chiamate dai clienti.
Le misejorō, invece, ricevevano i clienti nello stesso luogo dove vivevano. Le agejorō si
suddividevano in tre ulteriori categorie. La prima, quella delle tayū (più tardi chiamate oiran)
comprendeva le cortigiane di grado più elevato. In numero limitatissimo, si potevano trovare in sole
cinque località di piacere: Shimabara a Kyōto, Yoshiwara a Tōkyō, Shinmachi a Ōsaka, Maruyama a
Nagasaki e Aikawa nell’isola di Sado. Vendute ancora bambine ai proprietari delle case di
collocamento, okiya, venivano educate alla professione nei modi più raffinati fino alla pubertà
quando, con una cerimonia chiamata mizuage, offrivano la loro verginità a un cliente facoltoso e
influente. Non erano costrette a darsi a clienti che non fossero di loro gradimento e il più delle volte
venivano riscattate e anche sposate regolarmente. Il secondo gruppo, immediatamente al di sotto, ma
ancora assai elevato come rango, comprendeva a Shimabara le tenjin, dette anche tenshoku, che a

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Yoshiwara si chiamavano kōshi. Le appartenenti al terzo, chiamate tsubone a Yoshiwara, a
Shimabara formavano il più complesso gruppo delle kakoi. In questo erano infatti comprese anche le
hanya, che potevano essere impiegate anche di giorno, le hikifune (traina battello) e le taiko
(tamburo) la cui funzione precipua era quella di assistere le tayū nei ricevimenti aiutandole ad
animare la conversazione e accompagnandole nella danza con un piccolo tamburo o con altri
strumenti, e le loro prestazioni non includevano, di solito, attività sessuali. Esisteva poi una serie di
altri sottogruppi.
31 Antico nome di Ōsaka.
32 La valuta nel Giappone dei Tokugawa era complessa e particolarmente articolata. Essendo la
carta-moneta pressoché inesistente (aveva un uso limitatissimo e si cominciò a stamparla solo nel
1661) si usavano monete d’oro, d’argento e di rame. Vi furono numerose variazioni nel tempo
soprattutto rispetto alla maggiore o minore purezza dei metalli pregiati impiegati (l’oro e l’argento) e
ai tassi di scambio tra i coni diversi. Per quanto riguarda le monete di rame, ne esisteva un solo tipo
circolante, il mon. Erano bucate nel centro e venivano infilate lungo una cordicella chiamata kanzashi
che ne raccoglieva novecentosessanta divise in dieci tratti da novantasei, ciascuno dei quali aveva il
valore di un monme d’argento (gr 3,75) e l’insieme di un koban d’oro.
33 Letteralmente: «per una chōgin», uno dei due tipi di monete d’argento in uso; l’altro era la
mameita, detta anche kotsubo, di minor valore.
34 Province dell’isola del Kyūshū.
35 È una lunga strada, parallela al fiume Kamo, che attraversa il centro di Kyōto da nord a sud. Vi
si trovavano negozi, locande, case da tè e teatri.
36 Periodo compreso tra il settimo e il diciottesimo giorno del sesto mese, durante il quale si
svolgevano festeggiamenti nel quartiere di Gion, e nelle case da tè di Shijō Kawaramachi si
organizzavano trattenimenti sulle terrazze prospicienti il fiume Kamo.
37 Canale, costruito nel 1611, convogliante parte dell’acqua del fiume Kamo che in antico
straripava causando rovinose inondazioni. Il canale attraversa il centro di Kyōto, raggiunge la
cittadina di Fushimi e confluisce nel fiume Uji. Ha una profondità non superiore ai sei metri, ma
all’epoca ospitava un intenso traffico fluviale.
38 Gioco di parole tra Edo (Tōkyō) e eda (ramo). Può intendersi quindi anche: «Il vento tra i pini
non risuona sui rami».
39 La famiglia dominante dei Tokugawa, per indebolire la potenza economica dei feudatari ed
evitare ribellioni e guerre, aveva escogitato lo stratagemma di obbligarli a risiedere a turno a Edo e a
ostentarvi un dispendioso lusso. I feudatari alloggiavano a Edo con un ampio seguito e dimoravano in
ville che occupavano aree di molti ettari. Tōgokuzume significa «prigionia nei paesi orientali». Edo,
infatti, si trova a oriente rispetto a Kyōto, l’antica capitale.
40 Nome dato in antico alle regioni nordorientali del Giappone, comprendenti l’odierna Tōkyō e
contrapposto a Yamato che designava, invece, le regioni sud-occidentali di più antica e squisita
civiltà, con al centro Nara.
41 Letteralmente: «dello Ōjō», castello del sovrano. Designava la regione di Kyōto.
42 Isoletta del Mar del Giappone, antistante la prefettura di Shimane.
43 Izumo, odierna prefettura di Shimane.
44 L’autore si riferisce, probabilmente, al secondo figlio dell’imperatore Go Uda. Nato nel 1287,
salì al trono nel 1318 con il nome di Go Daigo. Dopo un lungo dissidio con il governo militare di
Kamakura venne esiliato a Oki, dal 1332 al 1333.

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45 Sorta di arpa importata dalla Cina nel vi secolo. Lunga centoventi centimetri, ha tredici corde e
si appoggia a terra orizzontalmente.
46 Gioco con scacchiera e pedine simile a quello della dama, della quale, però, è molto più
complesso.
47 Lunga fascia di seta o di cotone che gli uomini si avvolgevano tra le gambe e intorno ai fianchi
e che fungeva da mutande.
48 Ampi pantaloni, con una spaccatura su entrambi i fianchi, portati sopra la veste: abbigliamento
tradizionale di nobili, guerrieri e funzionari governativi, usato dai comuni cittadini soltanto in
occasioni particolarmente solenni.
49 Letteralmente: «seta per le spalle». Corta mantellina di seta rigida che copriva la schiena e
terminava sul davanti in due sottili bande che s’infilavano nello hakama. Era indossato soprattutto dai
samurai, ma anche dai guerrieri, dai cittadini e dai fedeli della setta shinshū in occasione di visite ai
templi.
50 Espressione idiomatica.
51 Antica strada di Kyōto che un tempo attraversava la città da nord a sud. Nel tratto a nord,
l’unico rimasto, lo shōgun Ashikaga Yoshimitsu fece costruire nel 1378 un palazzo, chiamato
Muromachi, nome che designò l’epoca dell’egemonia degli Ashikaga.
52 Occhi, naso, bocca, orecchie.
53 Era considerato segno d’inesauribile sensualità.
54 Strada di Kyōto antistante il castello di Nijō.
55 Broccato e damasco lavorati a Nishijin (il più importante complesso di tessiture del Giappone
dell’epoca) secondo metodi importati dalla Cina e successivamente modificati dal gusto nazionale a
partire dal XVI secolo.
56 Scritto con ideogramma «camminare» indica una moneta d’oro, del peso di 4,5 grammi circa,
del valore di un quarto di ryō, che invece appunto equivale a 18 grammi.
57 Quartiere dei piaceri di Kyōto trasferito nel 1641 nella zona compresa tra le strade Ōmiya Gojō
e Shijō Ōmiya. Ospitava raffinate case da tè e cortigiane di lusso.
58 Nome onorifico della prima concubina di un daimyō, qualora la moglie legittima fosse
deceduta. La ragazza veniva portata a Edo per sostituirla. Kunijōrō era invece il nome onorifico con
cui veniva chiamata la prima concubina di un daimyō. Essa rimaneva nel castello feudale mentre la
moglie legittima doveva risiedere, come ostaggio del governo, nella villa di Edo.
59 Regione pianeggiante in cui sorse Edo. Dopo varie vicissitudini nel corso dei secoli, nel 1457 il
ventitreenne Ōta Mochisuke, edificò un castello vicino al fiume Edogawa, intorno al quale si andò
formando un borgo abitato da samurai e commercianti, che si estese e divenne la città di Edo dove,
nel 1603, il governo militare dei Tokugawa stabilì la sua sede. Nel secolo successivo si sviluppò
impetuosamente, sino a divenire, con un milione di abitanti, la città più popolosa del mondo. Fu la
capitale amministrativa del paese, e lo divenne a tutti gli effetti a partire dal 1868, quando
l’imperatore vi stabilì la sua corte e le diede il nome di Tōkyō.
60 Shimoyashiki. Letteralmente: «dimora inferiore». Designava i palazzi privati che i daimyō
possedevano nei vari quartieri di Edo oltre alla loro residenza ufficiale, chiamata ueyashiki o dimora
superiore.
61 Allusione alla famosa poesia dell’imperatore Go Saga (1220-1272): «Come fioriranno i ciliegi
di Yoshino in Cina, che mai neppure in sogno vidi?». Anche in Giappone, nella regione di Nara, vi è
una collina ugualmente famosa per la fioritura dei ciliegi e a cui fu dato il medesimo nome. Alta

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quattrocentocinquantacinque metri, nel 1336 ospitò l’imperatore Go Daigo e la sua corte. La nuova
corte, nominata «capitale del sud», resistette per cinquantasette anni agli eserciti inviati da Kyōto,
dov’era salito al trono un nuovo imperatore che godeva del favore del governo militare.
62 Hishikawa Moronobu, nato nella provincia di Awa (odierna Chiba) nel 1618, morì a Edo nel
1694. È considerato il caposcuola dell’ukiyo-e, e in particolar modo della xilografia.
63 Pillole o infusi afrodisiaci ottenuti con polvere di radice di Rehmannia glutinosa.
64 Strumento musicale a forma di mandolino a tre corde. Accompagna il canto nel kabuki e nei
melodrammi (jōruri) del teatro dei burattini e si suona in tre diversi stili, Gidayū, Tokiwazu e
Kiyomoto. Al contrario dell’arpa e del flauto era molto diffuso tra il popolo e accompagnava, nelle
case da tè, la danza e i canti delle cortigiane. I più eleganti avevano il manico d’ebano o di sandalo
rosso, i meno pregiati di legno di gelso o di quercia.
65 Ukiyo. Espressione che in origine esprimeva un principio fondamentale della filosofia
buddhista: la transitorietà del mondo e di tutti i suoi fenomeni. All’epoca di Edo, invece, aveva
assunto significati che indicavano quanto di meno permanente v’è nell’esistenza e in particolar modo
la vita mondana.
66 Il quartiere dei piaceri di Shimabara, originariamente situato a Nijō, nel 1602 fu trasferito nella
più popolare zona di Rokujō, dove rimase fino al 1642.
67 Nella corte imperiale, il titolo assegnato ai dignitari di quarto e di quinto rango e ai massimi
cultori della musica e della danza. All’epoca di Edo, tuttavia, divenne la denominazione delle
cortigiane della classe più elevata: donne di gusto squisito, versate in tutte le arti e particolarmente
nella danza, nella musica, nella poesia, nella calligrafia, nelle composizioni floreali. A Kyōto esse
vivevano a Shimabara, il quartiere dei piaceri più antico del Giappone, già esistente all’epoca in cui
lo shōgun Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) fece erigere il suo celebre Padiglione d’Oro, il
Kinkakuji, nel 1397. Il quartiere di Shimabara venne poi trasferito nell’attuale località nel 1641, a sud
della strada di Gojō e a ovest di quella di Ōmiya. Si veda anche la nota 30.
68 La più famosa tayū Katsuragi diede il suo nome a un tessuto di damasco di trama marrone
chiaro con motivi in verde pallido, marrone e oro che formavano un disegno stilizzato di gusci di
tartaruga.
69 Pettinatura ideata dalle cortigiane della cittadina di Shimada. Si veda la nota 65 del capitolo
terzo.
70 La biancheria intima consisteva unicamente in un ampio taglio di tessuto, chiamato «due
fasce», che le donne si avvolgevano intorno ai fianchi. La tayū, per distinguersi, aveva adottato una
fascia di seta più ampia di quelle solitamente usate.
71 A causa della grande affluenza dei clienti, la tariffa delle cortigiane era più alta.
72 Le cortigiane dovevano consegnare al tenutario una somma giornaliera, e se per una qualsiasi
ragione, tra cui la mancanza di clienti, non lavoravano, erano costrette a pagare una penalità.
Potevano così recarsi, anche se non chiamate, alla casa di appuntamenti, nella speranza di trovarvi un
cliente.
73 Nel nono giorno del nono mese ricorreva la festa del «multiplo yang», celebrazione taoista
fondata sulla credenza che il numero nove esprima potenziata la natura dello yang. Il quartiere di
Shimabara festeggiava la ricorrenza con particolare solennità.
74 I nomi dei mesi, secondo l’antico calendario giapponese, hanno significati caratteristici e in
certi casi intraducibili. Eccone alcuni: Mutsuki, mese dell’armonia; Uzuki, mese delle lepri;
Minazuki, mese senza acqua; Fuzuki, mese delle lettere; Hazuki, mese delle foglie; Nagatsuki, mese
lungo; Kaminazuki, mese senza dèi; Shimotsuki, mese della brina.

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75 Obi confezionato con un tipo di damasco rigido e opaco, importato dalla Cina.
76 Corta sopravveste che s’indossa sul kimono o con gli hakama e ha la funzione del nostro
soprabito.
77 La moxa è costituita da polvere di radice di artemisia, pressata in coni, che vengono posti
direttamente sulla pelle, nei punti stabiliti dall’antica medicina cinese, affini a quelli dell’agopuntura.
I coni si accendono con un bastoncino d’incenso, e alla fine si massaggia la pelle con il sale per lenire
il bruciore.
78 Canzone popolare, in voga a quel tempo, le cui parole sono state in seguito annotate nel Matsu
no ha (Aghi di pino), raccolta di canzoni per samisen, stampata nel 1703.
79 Attore che funge da «spalla» del protagonista dei drammi nō.
80 Mekari, titolo di un famoso dramma nō.
81 Famoso attore di nō: Takayasu Ijūrō, della scuola Kongō.
82 Antico titolo di corte corrispondente alla carica di primo sottosegretario di stato.
83 Nipote del famoso poeta Ariwara no Narihira. Una sua composizione è la prima delle poesie
riportate nell’antologia Kokin-waka-shū.
84 Fiume che nasce nei paesi di Michinoku e si getta nel Mar del Giappone presso la città di
Sakata.
85 Scuola di pittori che fusero la tecnica sumi-e dei dipinti a inchiostro di Cina, di origine cinese,
con quella nazionale dello yamato-e. Ne fu il fondatore Kanō Masanobu (1434-1530), che ricevette il
titolo ereditario di «pittore di corte» degli shōgun Ashikaga. Gli succedette il figlio Motonobu (1476-
1558) e quindi il pronipote Eitoku (1543-1590), che dipinse i paraventi del castello di Oda Nobunaga
e quelli del castello di Toyotomi Hideyoshi. Successivamente la scuola dei Kanō si divise in due
rami: il primo, sotto la guida di Tanyū (1602-1674), nipote di Eitoku, si trasferì a Edo dove godette
del favore dei Tokugawa, mentre il secondo, diretto da Sanraku (1559-1635), figlio adottivo di
Eitoku, rimase a Kyōto. Sia i Kanō di Edo sia quelli di Kyōto godettero del costante favore dei
potenti fino a metà dell’Ottocento e si suddivisero in una ventina di scuole minori.
86 Rosa o lilla. Il rosso scuro e il viola erano infatti un privilegio delle vesti dei nobili.
87 Torcia lunga cinquanta centimetri ottenuta ungendo e avvolgendo della carta a un’estremità di
un ramo di pino.
88 Misura di peso equivalente a 1000 monme (3750 grammi circa). Il kan di mon equivaleva circa
a 1000 mon.
89 Casa d’appuntamenti di Shinmachi.
90 «Due tre», soprannome dato ai clienti che avevano nel loro nome l’ideogramma di cinque.
91 Nome di una zona famosa del quartiere dei piaceri di Shinmachi.
92 Regione attigua a Kyōto, nell’odierna prefettura di Hyōgo.

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CAPITOLO SECONDO

1 Detta anche Shūjaku: strada costruita nel sesto mese del 1670 per mettere in comunicazione la
strada provinciale di Tanba con la porta del quartiere di Shimabara.
2 Capoluogo della provincia di Ōmi sul lago Biwa, distante pochi chilometri da Kyōto. Era famosa
per i suoi allevamenti di cavalli da carico e per la produzione pittorica popolare nota come ōtsu-e.
3 Letteralmente: «quattro to», misura corrispondente a 18 litri circa.
4 Località a settanta chilometri dall’odierna città di Niigata.
5 Erano famose case di appuntamenti di Shinmachi.
6 Nome di famose tayū. La prima tayū di nome Yoshino nacque nel 1601 e morì nel 1631. Il suo
vero nome era Matsuda Tokuko: figlia di un samurai del Kyūshū, rimase orfana in tenera età e fu
allevata da un tenutario di Shimabara. Dotata di grande intelligenza, eccelleva nella poesia, nell’arte
del tè e nella composizione dei fiori. Suscitò una immensa passione nel giovane, ricco e colto Haiya
Jōeki (1610-1691), il quale pagò il suo riscatto e la volle sposare. La cortigiana a cui si accenna è,
tuttavia, la seconda Yoshino; in suo onore ogni anno, in aprile, quando fioriscono i ciliegi, le tayū che
ancora vivono a Shimabara sfilano davanti alla sua tomba custodita nel recinto del tempio di Jōshōji,
e compiono il rito della cerimonia del tè.
7 Ventaglio rotondo formato da un manico di legno laccato o d’avorio e da novanta sottilissime
stecche di bambù su cui è incollata una carta dipinta, spesso nello stile della scuola dei Kanō.
8 Trapunta che si stende direttamente sul pavimento di stuoie. D’inverno se ne usano due, una
come materasso e una come coperta. Le tayū avevano diritto a tre futon, le tenjin solo a due, le kakoi
solo a uno.
9 Inserviente incaricata di sorvegliare le camere, preparare i letti e portare il tè.
10 Anche oggi si usa l’espressione stranamente omofona di «mama-san».
11 Era giorno di festa e di riposo per le cortigiane che ricevevano doni dai clienti abituali.
12 Si avvolgeva il testo in una carta con disegni stabiliti dall’etichetta e quindi in un foglio grande.
Era il sistema usato per le lettere ufficiali.
13 Oltre che per masticarne le foglie aromatiche, era anche acquistato per tisane corroboranti dello
stomaco, diuretiche e vermifughe.
14 Farse che si recitavano negli intervalli dei drammi nō.
15 Novembre.
16 Nel 1668 fu promulgato un decreto che riservava ai soli samurai la facoltà di portare le due
spade e ne faceva veto a tutti gli altri cittadini. In seguito, però, fu permesso di girare con una corta
spada alla cintola.
17 Le persone di rango si recavano nei quartieri dei piaceri in compagnia di attori del teatro nō, la
gente comune insieme al parrucchiere.
18 Vicolo malfamato di Kyōto, vicino alla porta occidentale del tempio di Yasaka.
19 Altra zona frequentata da prostitute, al confine con la strada Shijōdori.
20 Letteralmente: «nigate», mani amare. Si pensava che le mani di alcune persone avessero il
potere di rendere amaro il sapore delle patate che toccavano, di immobilizzare i serpenti e di curare i

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dolori del ventre.
21 La professione di parrucchiere era a quel tempo esercitata da gente di umile origine.
22 Corrisponde alla tsubone. Si veda la nota 30 del capitolo primo.
23 Semplici posatesta di legno.
24 Samurai di rango inferiore, che percepivano uno stipendio annuo di soli tre ryō.
25 Allusione alla poesia di Fujiwara-no Sadaie, appartenente all’antologia Shin Kokin-waka-shū:
«Per fermare il cavallo e scuotere le maniche neppure l’ombra v’è nella sera nevosa del passaggio di
Sano».
26 Termine che indicava alcuni quartieri dei piaceri a Edo, frequentati da cortigiane di classe
superiore.
27 I ricchi e i nobili si recavano ai quartieri dei piaceri con un seguito di servi recanti la biancheria,
le vesti di ricambio, la tabacchiera, i sandali, le medicine e tutto quanto fosse indispensabile al
conforto del loro signore.
28 Scatola stretta nella morsa. Anticamente era formata da due fogli di compensato in mezzo ai
quali si ponevano gli indumenti, premuti fra due bastoni legati, che si portavano tenendone le
estremità appoggiate alle spalle. In seguito si evolvette in una scatola collocata all’estremità di un
solo bastone, in cui si riponevano le vesti in occasione di viaggi.
29 Musico di Ōsaka. Takemoto Gidayū (1651-1714) cominciò a comporre canzoni (definite
Gidayūbushi) del teatro dei burattini (bunraku), su testi del famoso drammaturgo Chikamatsu
Monzaemon, nel 1684, che cantava, con l’accompagnamento del suonatore di samisen Takesawa e di
alcuni discepoli azionanti i burattini, davanti al pubblico di adulti che gremiva il teatro di Dōtonbori.
30 Tazza da tè di porcellana, montata su un caratteristico piedistallo. Originaria del Fukien, venne
introdotta in Giappone, nell’epoca di Kamakura (1185-1333), da un monaco zen che aveva studiato
in un monastero del monte Tian Mu, il giapponese Tenmoku.
31 Stuoia di paglia prodotta artigianalmente a Toshima, nell’odierno dipartimento di Hyōgo.
32 Letteralmente: «musica degli dèi». Il kagura è un insieme di danze e musiche sacre di origine
antichissima. La musica, maestosa, è suonata esclusivamente da arpe di stile giapponese (wagon) e
flauti (yoko-bue, shakuhachi e hichiriki), e accompagna lenti e solenni movimenti di danzatori e
danzatrici indossanti gli antichi costumi di corte. Le danze del kagura vengono eseguite ogni anno, il
giorno diciotto del sesto mese, nel tempio di Kōtsu a Ōsaka e anche, durante particolari festività, in
un apposito padiglione dei templi shintoisti, e inoltre di notte alla luce delle torce, nei cortili del
palazzo imperiale.
33 Generalmente le cortigiane esercitavano il loro mestiere per dieci anni; solo quelle che non
avevano guadagnato abbastanza erano costrette a lavorare più a lungo.
34 Wakifusagi. Letteralmente: «copertura di lato». Si tratta una veste dalle maniche cucite.
35 Le relazioni omosessuali tra bonzi e giovani erano tollerate dai fedeli, mentre le donne, che
talvolta vivevano nei templi, non dovevano mostrarsi in pubblico, tranne che nei templi della setta
shinshū, la quale consentiva il matrimonio ai bonzi.
36 Samurai erranti, detti «guerrieri onda», che avevano perduto la protezione del loro feudatario e
che passavano al servizio ora dell’uno ora dell’altro signore o si davano addirittura al brigantaggio.
37 Così si definiva l’odore del pesce e della carne il cui consumo, tranne che in particolari
occasioni, era severamente vietato dalle regole dei monasteri buddhisti.
38 Le otto antiche sètte del buddhismo giapponese: kusha, jōjitsu, ritsu, hossō, sanron, kegon,
tendai, shingon.

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39 Ossia quella della lussuria.
40 Significa infrangere le regole.
41 L’otto, il quattordici, il quindici, il ventitré, il ventinove e il trenta di ogni mese erano i giorni di
Rokusai. In antico si temeva che in questi giorni i demoni fossero più malvagi e potenti, per cui si
evitava di mangiar carne di animali e di commettere atti impuri. Nel corso dei secoli la credenza si
rovesciò e si incominciò a scegliere proprio questi giorni per abbandonarsi ai piaceri.
42 La Casa della Carpa, casa da tè presso il quartiere di Ishigaki, sulla riva del fiume Kamo,
all’altezza della strada Sanjō.
43 Taiya è il giorno successivo al decesso e precedente il funerale, in cui i bonzi vengono chiamati
a recitare i sūtra davanti alla salma.
44 Dopo la cremazione si cercano tra le ceneri le ossa rimaste e le si consegnano ai parenti.
45 Aroma d’incenso di cui sono impregnate le vesti dei bonzi. La veste bianca è indossata sotto la
tonaca, generalmente nera o blu.
46 Piccioni disossati, liberati dalle interiora, farciti di uova e arrostiti.
47 Si faceva bollire un impasto di fagioli, riso e grano lasciato fermentare con l’aggiunta di sale e
lievito. Si versava il tutto in una scatola di legno di cedro giapponese, aggiungendo pesce, ostriche e
verdure e si metteva sul fuoco. Era molto apprezzato il particolare aroma conferito al cibo dal legno
di cedro.
48 Cibi offerti dai fedeli alla statua di Buddha. Di solito vengono destinati ai mendicanti o portati
sul tetto del tempio per gli uccelli.
49 La via della lussuria.
50 Perché morì prematuramente. Le vesti dei bambini morti venivano donate ai templi.
51 «Mille anni di roccia». Era un nome augurante forza e longevità.
52 Simboli di rapporto amoroso, frequenti nella letteratura cinese. Erano famosi i versi del poeta
cinese Po Chü-i (772-846): «In cielo vogliamo essere uccelli uniti, in terra vogliamo essere rami
intrecciati» declamati anche in Giappone, come giuramento, dagli innamorati.
Hiyoku è il leggendario uccello ermafrodito della mitologia cinese: in un solo corpo sono fusi il
maschio e la femmina della specie, che mantengono distinte solo le teste. Rappresenta l’intima
unione dell’amore coniugale.
53 I giapponesi, come i cinesi, ritenevano che il fegato si trovasse accanto al cuore e ne
condividesse i sentimenti.
54 Tutti segni, in una donna, di sensualità.
55 Parole del ritornello di una canzone in voga a quel tempo: «Tu fino ai cento anni, io fino ai
novantanove, finché insieme avremo bianchi i capelli».
56 Quarto mese del calendario lunare, corrispondente alla fine di maggio.

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CAPITOLO TERZO

1 Periodo rituale del calendario cinese d’ispirazione taoista, che segnava il cambiamento di
stagione. Vi erano quattro doyō durante l’intero anno e ognuno durava diciotto giorni, tranne nei casi
in cui vi fosse un giorno infausto (un «giorno del cane» nel quinto mese, un «giorno della tigre» nel
sesto, settimo, ottavo e nono mese, un «giorno del bue» e un «giorno del cavallo» nel decimo mese),
per cui il periodo durava diciannove giorni. Secondo una tradizione popolare un doyō di diciannove
giorni annunciava un’estate caldissima.
2 La tradizione vuole che sul monte Togakushi (odierna prefettura di Nagano) vivesse un asceta
della setta buddhista kegon, chiamato Kyūhōbō, il quale esercitava la levitazione e poteva sollevarsi a
circa un metro da terra. Aveva insegnato il metodo a un suo discepolo, conosciuto con il soprannome
di Sanshakubō (bonzo di tre shaku) che, dopo la sua morte, fu venerato dagli abitanti dei villaggi del
monte Akiba, nell’odierna prefettura di Shizuoka, come un Tengu (Genio dal lungo naso e dalle ali di
pipistrello). Il principale fautore di questo nuovo culto fu giustiziato nell’estate del 1686 per atti di
stregoneria. Lo shaku equivale a circa un terzo di metro.
3 Costava poco, ma emanava un odore sgradevole.
4 Tempio al centro di Kyōto, nell’animata strada Shinkyōgoku. Il tempio originale fu trasferito da
Nara a Fukakusa, da qui a Muromachi, in Kyōto, e da ultimo, per ordine di Toyotomi Hideyoshi, in
quella che è la sua sede attuale. Gli edifici principali furono distrutti da più di dieci incendi e oggi
non ne rimangono che la foresteria, il padiglione delle udienze e la campana.
5 Carta ottenuta dalla bollitura della scorza di tenero bambù e di gelso. Era particolarmente spessa
e pesante e veniva usata per dipinti, rilegature e finestre scorrevoli.
6 Fu probabilmente un animatore di banchetti abitante a Gion, quartiere di Kyōto situato in
prossimità del tempio shintoista di Yasaka. In antico era un luogo solitario, in seguito, però, alla
costruzione dei vicini templi di Chion’in e di Kiyomizu vi sorsero numerose case da tè nelle quali
giovani ragazze, vestite con il kimono dalle lunghe maniche (furisode), che indossavano anche le
fanciulle di buona famiglia, e con un grembiule rosso, offrivano il tè agli avventori e li intrattenevano
suonando il samisen (hikiko) o danzando (maiko). Il compito di rallegrare più intimamente i clienti
era invece affidato a donne più mature. Mentre il quartiere di Shimabara, col passare del tempo, ha
perso molto del suo primitivo prestigio, quello di Gion, grazie anche al turismo, è in attività sempre
crescente.
7 Uno dei più celebri paesaggi presso Sendai, nel nord-est del Giappone. Famosa per la baia
disseminata di innumerevoli isolotti ricoperti di pini.
8 Montagna coperta di pini ricordata nella poesia della raccolta Kokinwaka-shū: «Se il mio
sentimento è falso, se ti abbandonerò, che le onde sommergano Sue no Matsuyama».
9 Località tra Sendai e Matsushima. Vi sorgeva un famoso tempio shintoista abbellito da Date
Masamune nel 1607.
10 Monte di un’isoletta antistante la penisola di Ojika, non lontano dalla baia di Matsushima.
11 Specie di gioco della dama.
12 Ogni anno, da aprile a settembre, alcuni ferventi buddhisti compiono un pellegrinaggio a piedi
dal monte Kumano al monte Kazuraki e dalla vetta Ōmine del monte Yoshino. L’usanza, di origine
cinese, fu inaugurata in Giappone da un eremita noto con il nome di En no Gyōja, fondatore
nell’epoca di Nara (710-784) della setta degli yamabushi, gli eremiti erranti delle montagne. In antico

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questi pellegrinaggi erano molto stimati e vi partecipavano anche membri della corte imperiale o,
come accadde nel 1087, l’imperatore stesso Shirakawa, che aveva abdicato per ritirarsi alla vita
monacale.
13 Una delle diverse manifestazioni del Buddha (in sanscrito Amitabha), Signore del Paradiso
Occidentale e divinità principale della setta della Pura Terra.
14 Divinità della Misericordia. È il termine giapponese con cui viene indicata la cinese Kwan Yin
(in sanscrito Avalokitevara). Risiederebbe nel Paradiso Occidentale, la Pura Terra del Buddha Amida.
Le viene per lo più attribuito il sesso femminile ed è raffigurata in molteplici forme e con diversi
attributi. Originariamente rappresentata in semplice forma umana, assunse poi undici teste
(Jūichimen Kannon; in sanscrito Edasamukha), a simboleggiare gli undici stadi da raggiungere per
ottenere l’illuminazione, e mille braccia per significare l’onnipresenza della misericordia buddhica
(Senjū Kannon, in sanscrito Sahasrabujashasranetra).
15 Ventottesimo giorno dell’undicesimo mese del calendario lunare. Festa dedicata alla memoria
di Shinran (1173-1262), fondatore della Nuova Setta della Pura Terra (jōdoshinshū).
16 Lettere ai fedeli scritte da Rennyō (1415-1499), ottavo abate del tempio Honganji.
17 Via dell’amore.
18 Gioco di parole. Si definiva «diritto» tanto il ramo della setta shinshū che aveva come centro il
tempio di Nishi Honganji, quanto la passione per le donne, in contrapposizione con «rovescio»,
rappresentato dal tempio Higashi Honganji e dall’omosessualità.
19 Mamuki-sama è il nome dato dai fedeli della setta shinshū alla statua del Buddha Amida.
20 Figure auguranti longevità. Si pensava che la gru vivesse mille anni e la tartaruga diecimila.
21 All’epoca di Edo soltanto il marito aveva il diritto di chiedere il divorzio, che gli era facilmente
concesso in sette casi: disubbidienza della moglie ai genitori, sterilità, dissolutezza, gelosia, malattie
contagiose, petulanza, dispendio del patrimonio famigliare. La donna poteva ottenerlo solo qualora il
marito avesse commesso un delitto grave o fosse scomparso da lungo tempo. La donna che
abbandonava di sua iniziativa il tetto coniugale, veniva imprigionata. Le era tuttavia concesso di
lasciare il marito per farsi monaca buddhista. Dopo tre anni di vita monastica poteva far ritorno dai
genitori e ottenere il divorzio.
22 Faceva parte del cerimoniale delle streghe.
23 Ponte di Kyōto all’incrocio del fiume Kamo con la strada Gojōdori.
24 Murasakino, nelle vicinanze del tempio Daitokuji.
25 Episodio del dramma nō, Sotoba Komachi, in cui la protagonista, l’antica poetessa Ono no
Komachi, danza invasata dallo spirito di un antico amore.
26 Azalee di Kirishima, nell’isola del Kyūshū.
27 Scarpette di pelle usate per giocare al kemari.
28 Figure speciali tracciate dalla palla nel gioco del kemari.
29 Yang Kuei-fei, la bellissima concubina dell’imperatore cinese Hsüan Tsung. La sua vita
splendida e raffinata e la sua commovente morte (fu uccisa da un eunuco per ordine dell’imperatore,
che fu costretto a sacrificarla allo scopo di placare un ammutinamento del suo esercito) erano famose
anche tra i giapponesi, che ne avevano letto il suggestivo racconto dei poeti e degli scrittori cinesi.
30 Conosciuto come Shōtoku Taishi (574-622). Dotato di grande talento, fu il primo legislatore del
Giappone; fervente buddhista, si occupò di letteratura, di arte e anche di molti particolari della vita
pratica. Egli avrebbe ideato le regole del kemari per il divertimento dei principi di corte. Tuttavia la

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prima partita, attestata dalle cronache ufficiali, fu giocata nel 645, nei recinti del tempio Hōkōji dopo
la sua scomparsa.
31 Rinkikō. A quell’epoca le donne sposate usavano riunirsi per biasimare i tradimenti dei mariti
nella convinzione che, mediante una confessione pubblica dei loro sentimenti, la gelosia che le
tormentava si sarebbe mitigata.
32 È antica credenza in Giappone che la bellezza porti fortuna e aiuti a «salire su una portantina
gemmata», mentre la bruttezza porti sventura non solo a chi ne è afflitto, ma anche a chi gli vive
accanto.
33 È il tempio shintoista più famoso di Nara. Fu costruito nel 778 per ospitare le tombe della
famiglia Fujiwara, già allora potente.
34 Sarebbe presagio di un felice incontro amoroso.
35 Le donne sposate si annerivano i denti con un liquido ottenuto lasciando ossidare del ferro e
delle noci di galla nel sake. La consuetudine di annerirsi i denti per mettere in risalto il rosso delle
labbra e impedire la carie si era già diffusa da diversi secoli, dopo essersi affermata a corte nell’epoca
di Heian.
36 Località costiera alla periferia dell’odierna città di Kōbe.
37 Il territorio di Harima fa ora parte della prefettura di Hyōgo, confinante a ovest con Ōsaka.
38 Erano di metallo, fatti a incastro.
39 Denominazione di uno degli anni del ciclo sessagesimale del calendario cinese. Le bambine
nate in quest’anno trovavano difficilmente un marito perché v’era la credenza che sarebbero rimaste
più volte vedove. Il cavallo e il fuoco sono infatti, per il taoismo, i simboli di una prorompente
energia virile.
40 Penisola sul Pacifico a sud di Nagoya, dove si trova il celebre santuario omonimo, massimo
tempio dello shintō, la religione primigenia dei giapponesi, i cui fedeli si ritengono in dovere di
compiervi un pellegrinaggio almeno una volta nella vita. Situato nell’odierna provincia di Mie, nella
penisola di Kii, il complesso di templi è considerato l’archetipo della casa tradizionale giapponese.
Viene interamente demolito e riedificato ogni vent’anni, utilizzando il legno di cryptomeria delle
foreste in cui è immerso.
41 Riferimento al passo dello Tsurezuregusa: «I libri nelle biblioteche e i rifiuti nell’immondezzaio
più numerosi sono e meglio è».
42 Piccoli gabbiani con becco e zampe rosse.
43 Grande canale artificiale inaugurato nel 1684. Nel 1698 mutò nome in Ajigawa.
44 Dio dei commercianti e uno dei sette dèi della felicità. Viene raffigurato con una lenza nella
mano destra e una trota nella sinistra.
45 Specialità della cucina dell’epoca: carpe tagliate a fettine sottili e spesso cosparse di salsa di
avannotti di pesce gatto bolliti.
46 Luogo di ristoro situato alla confluenza del fiume Kizu con lo Yodogawa, celebre per le sue
locande.
47 Attribuzione assolutamente fantastica, ovviamente.
48 Esisteva un servizio giornaliero di corrieri tra Ōsaka e Kyōto, e viceversa, per la consegna di
pesce fresco. Era possibile approfittarne per il recapito della posta.
49 Hata akinai. Letteralmente: «vendita bandiera». Nome dato a un tipo di speculazione sul riso: si
fissavano i prezzi in base alla domanda, senza alcuna preoccupazione della reale disponibilità della
merce.

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50 Si trova nel quartiere orientale di Ōsaka, ove fino alla fine del secolo era situata la borsa del
riso, il prodotto principale dell’economia giapponese, parametro di tutte le transazioni commerciali.
51 Regioni occidentali del Giappone, in particolare l’isola del Kyūshū.
52 Bikuni o, più correntemente, utabikuni, significa «monaca delle canzoni», e indicava in origine
monache vaganti di paese in paese che cantavano una nenia religiosa di origine indiana e mostravano
pitture rappresentanti il paradiso e l’inferno. In seguito presero ad abbandonare i canti religiosi in
favore delle canzonette in voga e si mutarono in donne di strada, non conservando del loro ordine
altro che la testa rasata.
53 Largo copricapo di carici intrecciati. Prodotto artigianale della cittadina di Fukae, nei dintorni
di Ōsaka, famosa fin dall’antico per l’eleganza dei suoi manufatti.
54 Sacchettini di raso contenenti una targhetta di carta su un lato della quale erano scritti i quattro
ideogrammi magici di «bue», «re», «tesoro», «vita» e sull’altro un’invocazione agli dèi. Kumano era
il monte sacro a sud di Nara, da cui le utabikuni provenivano.
55 Si credeva che lo stringerli in mano facilitasse il parto.
56 Il cheng cinese, introdotto in Giappone nel vii secolo. Si tratta di una sorta di organo a bocca.
57 Nel quartiere sud di Ōsaka.
58 Quartiere di Ōsaka famoso per le sue ceramiche.
59 Razione di riso. La razione giornaliera di riso per le persone di servizio era fissata in tre gō, uno
per pasto. Un gō equivale a centottanta grammi.
60 Antico nome dell’odierna prefettura di Ōsaka.
61 Allusione a una frase dell’Ise monogatari: «Quando mi chiese che fossero quelle candide
gemme, risposi ch’era brina».
62 Letteralmente: «hachisuke». Nome molto diffuso che, in questo caso, non designa una persona
particolare ma la generalità degli uomini.
63 Hanemotoyui. Specie di chignon imbottito di carta e tenuto fermo da un nastro.
64 Complessa pettinatura, gonfia e laccata, con una parte inferiore dello chignon morbidamente
abbandonata per coprire la nuca. La sua moda si diffuse durante il periodo di Tenna (1681-1683) tra
le cortigiane di Shimada, una stazione della lunga strada del Tōkaidō, e venne ben presto adottata
dalle dame più eleganti. Attualmente è l’acconciatura tipica delle geisha.
65 Acconciatura creata dalle cortigiane di Hyōgo, il cui quartiere dei piaceri si chiamava Iso no
machi (quartiere degli scogli); venne distrutto da un incendio il terzo mese del 1664 e non fu più
ricostruito.
66 Pettinatura in cui i capelli erano divisi in cinque parti.
67 A quell’epoca le compagnie di kabuki erano già formate da soli uomini tra cui alcuni,
specializzati in ruoli femminili, erano ancora più leziosi e fantasiosi delle stesse donne e spesso
dettavano la moda con le loro vesti, il loro linguaggio e i loro comportamenti.
68 Gambe, mani, occhi, bocca, testa, carattere, figura, colorito, voce.
69 Veste laminata d’oro e d’argento, tranne che nel motivo ricamato.
70 Specie di struttura di carta rigida e legno di bosso che si nascondeva tra i capelli per dare
volume e sostenere l’acconciatura.

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CAPITOLO QUARTO

1 Engi. Cronache in cui erano annotati tutti i particolari riguardanti avvenimenti di portata socio-
religiosa.
2 Colossale statua di bronzo ricoperta d’oro di Roshanabutsu (in sanscrito Vairocana), alta circa
sedici metri ed eretta nell’viii secolo.
3 Significa misere vesti.
4 Era ritenuto dalla geomanzia cinese la direzione più fausta verso cui orientare i locali più
importanti della casa.
5 Regione a nord di Kyōto, sul Mar del Giappone, a nord della provincia di Tanba. I pesci di Tango
si regalavano a capodanno.
6 Odierna prefettura di Ishikawa, nel nord del Giappone. Gli sgombri ivi pescati venivano
consumati specialmente durante le feste dell’O-Bon. Si veda la nota 22 del capitolo quinto.
7 Incavo del pavimento in cui d’inverno si sistema un braciere sopra cui si dispone un basso
tavolino, in modo da potersi sedere allungando le gambe verso il calore.
8 Isola compresa tra due bracci del fiume Yodo, che in quel punto prende i nomi di Tosabori e
Dōjima.
9 Regnò dal 749 al 758. Probabilmente Saikaku fa riferimento a un’erronea tradizione popolare. Il
codice dell’abbigliamento femminile fu redatto nel 719 dalla quarantaquattresima imperatrice
Genshō e riveduto nel 725 dal quarantacinquesimo imperatore Shōmu.
10 Letteralmente: «piccole maniche». Si trattava di vesti con maniche non più larghe di trenta
centimetri. Erano generalmente di seta e decorate a motivi pittoreschi o ricamate o trapuntate di
sottilissime lamine d’oro o d’argento. Con gli anni questo costume andò evolvendosi nell’attuale
kimono.
11 Pianticella simile a quella dell’iris, ma senza un fiore ugualmente vistoso, che cresce tra le
pietre sulle sponde dei fiumi. Si usava conservarne i bulbi in un vassoio colmo d’acqua per poter
godere, in estate, della vista delle loro foglie di un verde intenso.
12 Tè verde delle colline intorno al fiume Abe, nell’odierna prefettura di Shizuoka.
13 Polpettine dolci di farina di riso e sake dolce con ripieno di marmellata di fagioli rossi. A Edo
erano la specialità della pasticceria Tsuruya (La Casa della Gru), situata in prossimità del popolare
tempio della dea Kannon, nel quartiere dei piaceri di Asakusa.
14 È una delle sette verità sul dolore dell’insegnamento del Buddha, le altre sei sono: nascita,
vecchiaia, malattia, morte, incontro con una persona o una cosa aborrita, desiderio non soddisfatto.
15 Costruzione rettangolare situata a un lato della dimora del daimyō e fungente da caserma per i
samurai.
16 Così si chiamava chi aveva una carica inferiore a samurai e superiore a inserviente.
17 Pesci pescati in una baia di Shibaura, a Edo.
18 Letteralmente: «tsukegi». Bastoncini di legno di cipresso con la punta cosparsa di zolfo. Non
servivano come zolfanelli, ma semplicemente come stoppini.
19 Sgorga dalla collina Otowa, nel recinto del tempio di Kiyomizu a Kyōto.

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20 Sanguinosa rivolta popolare dei cristiani del Kyūshū contro i feudatari di Shimabara e Amakusa
che li opprimevano con una tassazione feroce: durò dall’inverno del 1637 alla primavera del 1639. Il
nome di Shimabara del quartiere dei piaceri di Kyōto (che fu trasferito nel 1641 da Misujimachi a
Rokujō, nel luogo in cui ancora si trova) era stato scherzosamente coniato dai reduci della guerra che
vi convenivano per i combattimenti amorosi.
21 Generalmente di seta. Fungeva da borsetta.
22 Nome di un famoso negozio di sete e kimono inaugurato a Edo nel 1674, e che diede origine
agli attuali grandi magazzini Mitsukoshi. Fu fondato da Mitsui Takatoshi (1622-1694), il quale
abbandonò le tradizioni militari della famiglia per trasferirsi a Matsuzaka, nel territorio di Ise, e
divenire un semplice commerciante. Produceva sake, salsa di soia e prestava denaro a interesse; la
sua ditta si chiamava Echigoya in onore del padre, conosciuto come governatore dell’Echigo. Nel
1673 aprì un negozio di sete e kimono a Kyōto, nella strada Nijō Horikawa, e in seguito una filiale a
Edo, a Surugadai, dove il suo commercio prosperò. Nel 1683 fondò un’agenzia di cambio e di
credito, l’antenata della banca e della società commerciale Mitsui, inaugurate nel 1876.
23 Seta di qualità pregiata originaria della provincia di Kaga, odierna prefettura di Ishikawa.
24 Nomignolo dato ai servi fedeli. Si credeva che i topi fossero i messaggeri di Daikokuten, il
genio dell’abbondanza.
25 Padrone del negozio di Nijō Horikawa, a Kyōto.
26 Abaco. Strumento di calcolo usato in Cina già nel XIII secolo, importato in Giappone alla fine
del sedicesimo, lievemente modificato nel diciannovesimo e tuttora molto adoperato sia in Cina sia in
Giappone.
27 Contiene pennello, bastoncini d’inchiostro e bacinella per l’acqua.
28 Quartiere dei piaceri di Edo. Fondato nel 1617 vicino a Nihonbashi, fu trasferito a Asakusa
dopo l’incendio del 1657 assumendo il nome di Shin Yoshiwara o Nuova Yoshiwara. Occupato da
prostitute chiamate sancha e umecha perse gran parte dell’antico prestigio.
29 Manufatto del villaggio di Hino, nell’attuale prefettura di Shiga.
30 Significa cucire con un filo a cui non si è fatto il nodo. È un’espressione popolare equivalente a
«fare un buco nell’acqua».
31 Così veniva chiamata nelle case dei samurai quel genere di governante che, nelle case dei
mercanti, assumeva il nome di nakai.
32 Festa dei servitori che ricorreva nel sedicesimo giorno del primo mese e nel settimo mese del
calendario lunare, subito dopo la celebrazione del capodanno e dell’O-Bon, in cui più gravoso era il
lavoro per la servitù. Nei giorni di «entrata nel boschetto» era loro concessa libertà per l’intera
giornata.
33 Antica e famosa leggenda cinese dei due amanti, la principessa tessitrice e il bovaro, che furono
tramutati nelle stelle Vega e Altair e condannati a incontrarsi solo una notte all’anno, la settima del
settimo mese, quando il cielo però fosse sereno, perché una sola goccia di pioggia sarebbe bastata a
disperdere le gazze che uniscono le loro ali per formare un ponte (la Via Lattea) tra i due amanti.
Questo giorno rappresenta per gli innamorati giapponesi il san Valentino degli occidentali.
34 Pesante seta cinese a motivi floreali.
35 Larga ai lati e stretta alla sommità.
36 Fascia drappeggiata sulla testa e intorno al viso come una cagoule.
37 Sacca da viaggio formata di vari sacchetti cuciti insieme.

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38 La porzione di coscia di gru salata e carbonizzata era ritenuta una medicina miracolosa per i
disturbi femminili.
39 Porta a sud del palazzo di Edo, ora dimora dell’imperatore e un tempo degli shōgun Tokugawa.
40 Zona vicina alla Ginza, celebre strada di Edo.
41 Ora palazzo imperiale di Tōkyō. Fino al 1868 si chiamava Palazzo di Edo e ospitava lo shōgun
Tokugawa.
42 Nome della giaculatoria buddhista, ripetuta per lo più con l’aiuto di un rosario, Namu Amida
Butsu (Lode al Buddha Amitabha), in uso presso le sètte amidiste. Secondo le più popolari di queste,
la semplice ripetizione del nenbutsu garantirebbe al fedele la salvazione nel Paradiso o Pura Terra del
Buddha Amida. Viene anche recitato in suffragio dei defunti.
43 Trattoria in cui si preparavano spaghetti cinesi di frumento (udon) o di grano saraceno (soba)
fritti o in brodo.
44 Pasta di farina di grano simile agli spaghetti, che richiede un’abile operazione di sbattimento a
mano perché abbia la giusta lunghezza e leggerezza.
45 Stuoie di paglia di riso che ricoprono i pavimenti di terra battuta delle camere. Anticamente
erano un lusso dei palazzi dei nobili e la gente comune si limitava a usarle come giaciglio, ma
all’epoca di Edo erano universalmente diffuse.
46 Samurai di basso rango, che aveva il compito di scortare come scudiero i cortei dei signori
feudali, allontanando la folla.
47 Fiorentissimo porto vicino a Ōsaka. Vi prosperava soprattutto il commercio della seta: le navi
di Sakai si spingevano fino nel Kyūshū per caricare le matasse giunte dalla Cina che poi
trasportavano sino Kyōto per venderle alle tessiture locali. Fin dal Medioevo godette di una
particolare autonomia, e nel XVI secolo fu definita da un missionario cattolico «una città libera,
governata da un consesso come Venezia».
48 Setta buddhista fondata nel 1253 dal bonzo Nichiren (1222-1282), il cui insegnamento si basa
sul Hokkekyō (Sūtra del Loto della legge). Nichiren entrò in contrasto con il contemporaneo Shinran,
il fondatore della setta jōdoshinshū (Nuova setta della Pura Terra).
49 Riso di qualità inferiore.
50 Così chiamato perché della stessa qualità di quello dei magazzini del castello del feudatario
delle regioni di Banshū.
51 Vi si vendeva anche il miso.
52 Strada che attraversa da est a ovest il centro di Sakai.
53 Rashōmon. Luogo situato in direzione nord-est. Si riteneva che i diavoli usassero entrare nelle
case da questa direzione.
54 Festa dedicata ai tre dèi protettori della navigazione, venerati nel tempio di Sumiyoshi a Ōsaka.
Ancor oggi, il 31 luglio e il 1° agosto, vi è una lunga processione di giovani che reggono sulle spalle
il palanchino, contenente il sacrario di Sumiyoshi, attraverso le strade della città.
55 Nandina domestica, varietà di bambù.
56 Riso rosso messo a bollire in brodo di speciali fagioli rossi (azuki), scolato e mescolato ai
fagioli. Lo si serve nei giorni di festa perché il rosso in Giappone, come in tutto l’Oriente, è il colore
della gioia e della vitalità.
57 Daikarausu. Mortai il cui pestello si azionava con i piedi.

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CAPITOLO QUINTO

1 Zona del quartiere di Higashiyama. Il nome, muro di pietra, deriva dai lavori per ricostruire gli
argini del fiume Kamo effettuati tra il 1668 e il 1670. Vi si trovavano molte case da tè.
2 Probabilmente nome di una cortigiana che lavorava in una casa da tè di Ishigaki.
3 Kurumiya, nome di una casa da tè.
4 Il poeta cinese Su Tung-p’o. I versi riferiti, però, non gli appartengono.
5 Fu uno dei quattro più famosi animatori di banchetti dell’epoca. Gli altri tre, Kagura
Atsuzaemon, Ranshū Yozaemon, Ōmu Kichibei vivevano anch’essi a Kyōto.
6 Tempio shintoista situato alle pendici di una collina della catena dei monti Orientali, nel
quartiere di Gion. Fondato nel IX secolo, vi si venera una divinità che avrebbe in antico debellato
numerose epidemie.
7 Tempio alle falde del monte Higashiyama, vicino al parco Maruyama e al quartiere di Gion. Ora
è completamente distrutto e al suo posto sorge una gigantesca statua di cemento della dea Kannon, in
memoria dei caduti dell’ultima guerra.
8 Paraventi di qualità scadente, i cui disegni erano stampati.
9 La frase è tratta dal famoso jōruri, Yotsugi Soga di Chikamatsu Monzaemon: «Volenti o nolenti,
mattino e sera si lavora nonostante il dolore dei tristi guanciali che ogni notte mutano».
Jōruri è un tipo di ballata per lo più a sfondo tragico all’origine del teatro popolare (sia il kabuki
sia quello dei burattini). Pare sia stato iniziato da Sugiyama Shichirōzaemon, funzionario provinciale
di Tango, il quale divulgò le sue composizioni fino al 1661. Nel 1672 gli succedette il figlio, che
continuò l’attività paterna fino al 1682.
10 Letteralmente: «otto sun e cinque bun». Misure di manica di moda a quei tempi.
11 Polpette di riso bollito e condito con aceto, contenenti pesce crudo e verdure e sovente avvolte
da una striscia di alga secca, specialità ancor molto apprezzata dai giapponesi.
12 Letteralmente: «trecento moku».
13 Proverbio significante che non tutti i gusti sono uguali.
14 Letteralmente: «di fronte alla porta». Quartiere di case, abitate da concubine, che sorgeva di
fronte alla porta del tempio di Chion’in, a Kyōto, sede della setta della Pura Terra. La porta, la più
grande del Giappone, fu eretta nel 1619 dal secondo shōgun Tokugawa.
15 Famosa tayū comprata da Ōsakaya Tarōbei.
16 Tazze di porcellana, di terracotta, teiera di bronzo, scatolette per conservare il tè e innumerevoli
altri oggetti fabbricati a imitazione di quelli antichi.
17 Canzoni cantate con accompagnamento di samisen.
18 Gioco di parole: lo yobukodori (uccello che richiama i piccoli) era uno dei tre uccelli della
tradizione (denjū). C’era chi lo identificava con il cuculo e chi invece con la scimmia, la quale,
abitando e dormendo sui rami, era considerata dagli antichi quasi un uccello. Da qui il nome denjūjo
(donna della tradizione) riferito alle donne che lavoravano nei bagni e grattavano lo sporco dei clienti
come fanno le scimmie.
19 Questo e gli altri nomi che non hanno un significato particolare designavano la località da cui la
cortigiana proveniva e da cui era contraddistinta.

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20 Miyazaki Yūzen, famoso pittore di ventagli che dal 1684 al 1703 lavorò a Kyōto, nella zona di
Gojō, dedicandosi anche alla pittura su tessuto.
21 Pescato nella baia davanti al tempio shintoista di Hirota, a Nishinomiya, nell’attuale prefettura
di Hyōgo.
22 Festa dei morti. Forma abbreviata di urabon, dal sanscrito ullambarla. Durante il periodo della
commemorazione dei defunti, si accendevano fuochi dinanzi alle case per onorarli e accoglierne le
anime. Alla fine della festa dei morti, che dura ancor oggi quindici giorni, le anime venivano
riaccompagnate verso l’aldilà con una fiaccolata o con processioni di lanterne e con danze.
23 Sorta di spaghetti di grano saraceno.
24 Probabilmente lo Shingawa.
25 Poesia dei nove aspetti di Su Tung-p’o.
26 Bonsan. Riproduzione stilizzata di paesaggi con sabbia e sassi artisticamente disposti su un
vassoio.
27 Canzoni del teatro dei burattini (bunraku) composte dal musico Yamamoto Kakutayū.
28 Nakayama Sayōnosuke, famoso giovane attore dedito all’omosessualità, che cantava kouta
(canzoni accompagnate da samisen) e danzava con un suo stile particolare assai apprezzato. Fu molto
in auge verso il 1680.
29 Tipo di obi tessuto a Nagoya, che si annoda con grossi lacci.
30 Smilax china, pianta aromatica, la cui radice viene ancora usata nella medicina cinese contro la
sifilide.
31 Periodo di otto giorni che ricorreva sei volte l’anno nel calendario cinese. In questo periodo
erano frequenti le piogge.
32 Veste realizzata con un tipo particolare di tessuto.
33 Tanomitaru. Mastellino rituale. Secchio quadrangolare di legno laccato, contenente sake, che lo
sposo inviava alla famiglia della sposa quale pegno di matrimonio.
34 Piegavano la carta da applicare ai ventagli.
35 Ventagli di poco prezzo che venivano regalati dal tempio ai fedeli in occasione delle feste.
36 Bellissimi ventagli fabbricati dalle monache di Mieidō, padiglione del tempio Shinzenkōji,
sulla strada di Gojōdori, a Kyōto.
37 Il ventaglio aperto mostrava un disegno normale che si mutava, però, in una scena licenziosa a
mano a mano che veniva chiuso in un modo particolare.
38 Strada parallela alla Sanjōdōri, che giunge fino al castello di Nijō.
39 Letteralmente: «esercito occidentale». Gruppo di famose tessiture di Kyōto sorte nel luogo
dov’era accampato «l’esercito occidentale» durante le guerre di Ōnin (1467-1477), nella zona a nord
di Imadegawadōri. Lavoravano la seta cinese che le navi dei commercianti di Kyōto e di Sakai
trasportavano da Nagasaki. Nel 1568, quando il famoso condottiero Oda Nobunaga entrò
trionfalmente in Kyōto, le fabbriche di Nishijin lavoravano a pieno ritmo e si erano disseminate nel
quartiere di Muromachi, dove ancora prosperano.
40 Detto anche okiwaka. Specie di berretto molle di flanella di cotone che talvolta giungeva fino
alle spalle. In principio lo usavano solo le donne anziane per ripararsi dal freddo, in seguito venne
adottato anche dalle giovani e dalle spose nel giorno del matrimonio, per nascondere parte del viso.
41 Le ore in Giappone si calcolavano tradizionalmente in modo diverso dal nostro: erano dodici,
duravano per un periodo di tempo variabile e prendevano il nome da uno dei dodici animali del

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calendario cinese.
42 Erano ragazze incaricate, da parte delle toiya, della cura dei viaggiatori che venivano a Ōsaka,
ed erano di costumi assai liberi.
43 Carta molto elegante di venti centimetri per ventisette.
44 Vicolo del quartiere orientale di Ōsaka, tra Koraibashi e Imabashi.
45 Il kappa era un impermeabile così chiamato per la forma simile alla «capa» portoghese. Le
tabacchiere venivano fabbricate con tessuto impermeabile o con pelle o carta oleata per preservare il
tabacco dall’umidità.
46 Spaghetti di grano saraceno della bottega di Kawaguchi Kiyobei, a Shinsaibashi.
47 La distilleria Kobamaya a Oriyamachi vendeva famosi liquori di uva, sake con aggiunta di
frutta cinese longan, sake medicato con jinseng.
48 Focaccette tonde di farina di riso, pestato a capodanno. Nel giorno della festa del nirvana
venivano appese agli alberi, affinché sembrassero fiori.
49 Mochi di farina di riso cotti al vapore, specialità di una bottega di Tenma Naniwabashi. Tenma
è il quartiere settentrionale della periferia di Ōsaka.
50 Polpette di riso, bollito con aceto e pesce crudo, specialità di una bottega vicino al ponte di
Nihonbashi, a Dōtonbori.
51 Pasticcio di farina di pesci vari, venduto a Wanya, nel negozio di Bingochō, anch’esso a Ōsaka.
52 Strada al centro di Ōsaka, di fronte a Naka-no-shima.
53 Raccolta di testi di jōruri stampata nel 1685.
54 Negli spettacoli dei drammi nō, rappresentati a capodanno o in altre importanti occasioni,
all’inizio appariva sulla scena un attore con una maschera di vecchio che eseguiva lentamente la
danza del «vecchio di mille anni». In riva al fiume, nel quartiere di Dōtonbori, si allineavano molti
teatri.
55 Soprannome di una cortigiana Foglia di loto.
56 Probabilmente un’altra cortigiana.
57 Del tempio di Higashi Honganji. Si usava definire una bella donna assonnata «una rosa
selvatica del tempietto interno che non ha dormito a sufficienza».
58 Altro soprannome di cortigiana.
59 Nome di un quartiere nel distretto Minami-ku (meridionale) di Ōsaka.
60 Soprannome di cortigiana.
61 Nome di una cortigiana con i capelli ricci come quelli della statua di Buddha.
62 Altra cortigiana.
63 Tempio shintoista a Hirotachō, a Ōsaka.
64 Cortigiane provenienti dall’omonima località dell’odierna provincia di Niigata.
65 Dōkyū era probabilmente il nome di un cantastorie che recitava brani del Taiheiki, raccolta in
quaranta volumi di aneddoti e cronache sulla guerra tra le capitali del sud e del nord, composta nel
XIV secolo.
66 Altra cortigiana.
67 Probabilmente una cortigiana che cercava d’impietosire i clienti mostrando la fodera consunta
delle proprie vesti.

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68 Festival canoro che si svolgeva il sesto giorno dell’anno nuovo.
69 Altra cortigiana.
70 Quartiere di capanne abitate da povera gente.
71 Regione del nord del Giappone.
72 Festa del 5 maggio dedicata ai bambini, durante la quale i genitori alzano sul tetto della casa
un’asta con festoni di seta dipinti con figure di carpe. Le carpe, infatti, sono forti e longeve e non
temono di risalire la corrente, così come dovrebbe comportarsi un vero uomo.
73 Spada di legno con l’elsa ornata di foglie di iris che si regalava ai bambini in occasione della
festa a loro dedicata.

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CAPITOLO SESTO

1 Processione di monaci che giravano per città e paesi percuotendo il tamburo e recitando il
nenbutsu, secondo una consuetudine iniziata dal monaco itinerante Ippen (1239-1289).
2 Bacchette di legno che segnano il ritmo della musica.
3 Campanelle che si percuotevano con una verga.
4 Bambolotto di legno in cui solo la testa era accuratamente lavorata e rifinita.
5 In Giappone vige ancora il sistema dell’adozione di persone adulte, frequente nel caso di mariti
di figlie uniche di grandi famiglie. L’uomo assume il cognome della moglie ed entra a far parte della
nuova famiglia non solo come genero, ma come figlio.
6 Grosso bottone che trattiene all’obi gli oggetti che si usa appendervi, quali la scatola per il
sigillo, la tabacchiera, il pennello portatile, la scarsella. È spesso artisticamente intagliato in materiali
preziosi: corallo, ambra, agata, avorio o legno pregiato.
7 Pavesava la casa nei giorni di festa.
8 Uno dei nomi del celebre personaggio Minamoto no Yoshitsune, eroico condottiero della storia
giapponese, vincitore dei Taira nella famosa guerra di Genpei (1181-1185). Le sue gesta sono state
celebrate in romanzi, drammi e jōruri, una ballata generalmente di carattere tragico.
9 Specie di tavola reale: su una scatola su cui sono dipinte dodici righe su un lato e dodici su un
altro si dispongono dodici pedine bianche e dodici pedine nere. Si buttano i dadi per sapere quanto
debbano avanzare. Chi entra per primo nel territorio dell’avversario vince.
10 Letteralmente: «maniche ondeggianti». Veste elegante indossata dagli adolescenti, con lunghe e
ampie maniche interamente scucite da un lato. A diciannove anni i ragazzi e le fanciulle, fossero
scapoli, nubili o sposati, dovevano cucirle. Si veda anche la nota 15 di questo capitolo.
11 Lacci che tenevano unite le lamelle delle armature.
12 L’Ise jingu, immerso in un bosco secolare, è diviso in geku (tempio esterno), dedicato alla dea
delle messi Toyouke no kami, e in naiku (tempio interno) in cui si conserva lo specchio sacro,
simbolo della dea del sole Ama-terasu-ō-mi-kami. Tra i due templi, distanti circa sei chilometri,
erano sparpagliate le locande e le case da tè di Furuichi, destinate a ristorare i pellegrini.
13 Vesti appartenenti alle tayū che vivevano a Shimabara prima del 1641, quando il quartiere era
ancora situato a Rokujō Misujimachi.
14 Ai no yama è il nome di una collina che sorge tra il tempio esterno (geku) e il tempio interno
(naiku). La canzone di Ai no yama (ainoyama bushi) è una triste melodia che i mendicanti cantavano,
accompagnandosi con il samisen e il sasara.
15 Letteralmente: «apertura di lato». Così si definiva la scucitura delle lunghe maniche della veste
che caratterizzava l’età giovanissima di chi la indossava. A diciannove anni, infatti, le maniche
venivano cucite.
16 Cittadina a pochi chilometri dai templi di Ise.
17 Nella preparazione delle ciprie dell’epoca venivano generalmente usati anche il mercurio o il
piombo, che causavano pericolose intossicazioni.
18 Nome di una grotta della collina Takakurayama, a sud del tempio esterno, così chiamata in
ricordo della mitica grotta in cui si nascose, gettando il mondo nelle tenebre, la dea del Sole Ama-

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terasu-ō-mi-kami, offesa dal comportamento del fratello.
19 Antica provincia del Giappone occidentale attualmente compresa nella prefettura di Hiroshima.
20 Futaseonna. Con questo vocabolo si definivano le donne che fungevano da cameriere di giorno
e da concubine di notte.
21 Settsu, odierna prefettura di Hyōgo.
22 Rokudōsen. Sei monete da un mon che s’infilavano nella bara affinché il defunto potesse
pagare il demone incaricato di traghettarlo di là dal fiume Sanzu, in analogia con il nostro mito
dell’obolo a Caronte.
23 Nome del quartiere che si estendeva a sud del castello di Ōsaka.
24 Ubume. Temuti fantasmi che, per il loro strenuo attaccamento al mondo che sono stati costretti
a abbandonare brutalmente, tornerebbero a tormentare i vivi.
25 Il casato del generale Wada Yoshimori (1147-1213) era composto da novantatré famiglie. Dopo
aver assunto alte cariche nel governo militare di Kamakura, egli osò sfidare Hōjō Yoshitoki (1163-
1224) e fu annientato insieme a tutto il suo clan.
26 Mercato di verdure vicino al ponte Tenma, sul fiume Yodo.
27 In Giappone si credeva che alcuni gatti, invecchiando, assumessero una forza prodigiosa e, con
la coda stranamente divisa in due, si dedicassero alla caccia degli uomini attirandoli con
innumerevoli e innocue forme che tali creature, chiamate nekomata, sarebbero state capaci di
evocare.
28 Trentatré statue della dea Kannon, disseminate sulla strada del pellegrinaggio dal monte Nachi
al monte Tanikumi.
29 Sōka, mogli di tutti. Le prostitute che si aggiravano di notte in cerca di clienti venivano
chiamate sōka a Ōsaka, tsujigimi (signore della strada) a Kyōto, yotaka (falchi notturni) a Edo.
30 Caratteristici zoccoli di legno.
31 Uomo che accompagnava la cortigiana sulla strada per proteggerla dai malintenzionati.
32 Proverbio: «Per mille che ci vedono, se ne trovano mille ciechi».
33 Nome dei cinquecento discepoli del Buddha storico.
34 Dal diciannovesimo giorno del dodicesimo mese del calendario lunare, per tre giorni
consecutivi, i bonzi si riunivano a leggere i nomi di tutti i buddha. La gente che ascoltava, credeva di
ottenere la remissione di tutti i peccati.
35 Tempietto della setta buddhista Tendai a Iwakura, nella zona orientale di Kyōto, in cui sono
collocate le statue dei cinquecento rakan. Vi si venera soprattutto una statua della dea Kannon. La
leggenda narra che il nobile Chūnagon Hino scorse nuvole violette che sembravano ferme sul monte
Iwakura: avventuratosi su per il pendio, vide stupito una vecchia monaca seduta su una pietra. Costei
gli rivelò che quel luogo era sacro alla dea Kannon e che egli avrebbe dovuto edificarvi un tempio.
36 Collina a nord-ovest del tempio Ninnaji, con una famosa piccola cascata.
37 La via della bodhi (risveglio) è l’insieme di discipline che conducono il fedele del buddhismo
all’illuminazione e al distacco da tutti i legami terreni, e che lo preparano alla rinascita nel paradiso
del Buddha.

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POSTFAZIONE
DI IVAN MORRIS

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IL PERIODO

Quando Ihara Saikaku nacque a Ōsaka nel 1642, la carica di shōgun era
detenuta dalla famiglia Tokugawa da quasi mezzo secolo e si erano ormai
configurati modelli essenziali che avrebbero dominato il Giappone fino alla
«rivoluzione imperiale» del 1868.
Alla metà del XVII secolo, mentre in Occidente potenti monarchie erano
succedute alle istituzioni feudali, in Giappone una forma centralizzata di
feudalesimo stava raggiungendo la sua fase culminante. Dopo quasi
trecento anni di lotte politiche e di ricorrenti guerre civili, la famiglia
shōgunale dei Tokugawa riuscì a creare e a mantenere un sistema che donò
al Giappone due secoli e mezzo di pace pressoché ininterrotta.
Il governo Tokugawa realizzò l’unità del paese con un potere
centralizzato nel contesto di un sistema feudale in cui i vari signori
(daimyō) conservarono l’autonomia all’interno dei loro feudi. La sovranità
restava nelle mani dell’imperatore, considerato di origine divina e fonte
spirituale di ogni potere, e la capitale era ancora Kyōto. Il ruolo
dell’imperatore era tuttavia puramente formale, e Kyōto era il centro
dell’aristocrazia, dell’eleganza e delle raffinatezze artistiche tradizionali,
ma non del potere. La vera autorità era nelle mani dello shōgun Tokugawa,
il supremo signore feudale, che aveva il suo castello a Edo; e fu Edo
(l’odierna Tōkyō) a dare il proprio nome al periodo compreso tra l’inizio
del XVII e la metà del XIX secolo.
La vita di Saikaku (1642-1693) coincise con la crescente affermazione del
potere centralizzato del governo feudale dei Tokugawa. Come si è detto,
questo governo mantenne a lungo il paese nella stabilità e nella pace, sia
pur ricorrendo a spie, informatori, censura, leggi intimidatorie, ossia a tutto
l’apparato su cui si reggono i moderni stati polizieschi. Quasi tutti gli
aspetti più significativi della politica dei Tokugawa si basavano sulla
precisa volontà di preservare la situazione esistente, perpetuando così la
propria supremazia. Il principale pericolo consisteva nella possibilità che
signori feudali dissidenti si coalizzassero tra loro, ma il governo centrale
riuscì a evitarlo preservando le proprie forze, isolando e indebolendo quelle
dei potenziali rivali.

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Un’ulteriore fonte di disgregazione poteva essere rappresentata
dall’ambizione di alcuni stati stranieri di conquistare un avamposto in
Giappone, soprattutto per mezzo dei mercanti o dei missionari cristiani. Nel
1623 il commercio con l’Inghilterra venne sospeso, l’anno successivo gli
spagnoli furono espulsi dal Giappone, e gli editti anticristiani, che per un
certo periodo erano caduti in prescrizione, vennero ripristinati. Il timore che
il governo nutriva nei confronti di infiltrazioni straniere fu accentuato dalla
rivolta cristiana di Shimabara nel 1637; da allora le autorità Tokugawa
adottarono una politica isolazionista di estremo rigore. In quello stesso anno
fu infatti decretato che nessun giapponese, pena la morte, potesse lasciare il
paese, o rientrarvi qualora se ne fosse allontanato; fu inoltre proibita la
costruzione di vascelli d’alto mare. Due anni dopo il governo vietò ogni
forma di commercio con l’estero, fatta eccezione per l’attività svolta da un
esiguo gruppo di cinesi e olandesi che avevano il permesso di vivere, sotto
stretta sorveglianza, in una piccola isola al largo di Nagasaki. Non si
devono sottovalutare gli effetti di questa politica di isolamento, durata circa
duecento anni, non solo sulla vita politica e intellettuale del periodo Edo,
ma anche sulla storia più recente del Giappone. Il nuovo ordine venne
ulteriormente rafforzato dai princìpi del confucianesimo che furono
reinterpretati secondo le esigenze della società giapponese feudale, e
ratificati ufficialmente dal governo Tokugawa. I princìpi fondamentali della
moralità nazionale erano la lealtà al proprio superiore e la pietà filiale, in
quest’ordine di priorità. Il confucianesimo Tokugawa era un’ortodossia
pratica e conservatrice, che poneva l’accento sull’accettazione dell’ordine
esistente e del proprio status ereditario. Scarso peso veniva attribuito
all’individuo e ai suoi diritti; si conferiva sempre la preminenza al gruppo e
in particolar modo alla famiglia. Le relazioni verticali, tipiche di una società
feudale, prevalevano a ogni livello ed erano regolamentate da un codice di
regole ferree. Il destino degli uomini era necessariamente determinato dalla
loro nascita e dal loro ruolo sociale, e si compiva ogni sforzo per congelare
il sistema delle classi nella sua forma esistente. La legge era dunque
particolarmente severa nel giudicare reati che infrangessero un tale sistema,
come l’adulterio compiuto da membri di classi diverse, o da uomini e donne
appartenenti a diversi livelli della stessa classe.
La società Tokugawa consisteva in una rigida gerarchia composta da
quattro categorie: i guerrieri samurai, i contadini, gli artigiani e i mercanti
(chōnin). I samurai, che rappresentavano meno dell’otto per cento della

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popolazione e che, con il protrarsi dei periodi di pace, divennero sempre più
burocratizzati, avevano un effettivo monopolio del potere politico e
amministrativo. La loro posizione privilegiata fu chiaramente sancita dal
presunto Lascito di Ieyasu, il fondatore della dinastia Tokugawa:
I samurai sono i signori delle quattro classi. Agricoltori, artigiani e mercanti non possono
comportarsi in modo offensivo nei loro confronti. Uomo male educato è «colui che si comporta in
modo diverso da come è lecito attendersi»; e non si può impedire a un samurai di uccidere un
individuo che si sia comportato con lui in modo diverso da come era lecito attendersi. [Murdoch, A
History of Japan, vol. iii, p. 802.]

Alla sommità di questa scala gerarchica si trovava dunque una classe


improduttiva di guerrieri che monopolizzavano il diritto di possedere nomi
e insegne famigliari, mentre al gradino più basso si trovavano i chōnin, i
disprezzati affaristi borghesi, privi sia di potere che di diritti, almeno
teoricamente. Infatti, con il trascorrere degli anni, alcuni fattori economici
contribuirono a rendere sempre più astratta questa gerarchia.
L’instaurazione di un regime stabile aveva posto le basi per il passaggio
da un’economia di tipo agricolo a una di tipo mercantile. Il XVII secolo vide
il rapido sviluppo del capitalismo commerciale in Giappone. Poco dopo il
1600, il governo stabilì un sistema finanziario nazionale basato su un’unica
moneta in oro e in argento (a cui, nel 1636, si aggiunse il rame), che sostituì
rapidamente il riso come normale mezzo di scambio. Vaste aree di terreno
furono bonificate e la produzione agricola aumentò in modo considerevole.
Nell’epoca in cui visse Saikaku si verificò un costante miglioramento delle
comunicazioni all’interno del Giappone, un notevole aumento della
popolazione e l’espansione del mercato nazionale. Tutto ciò fu
accompagnato dalla crescita dei grandi centri, come Edo e Ōsaka.
Questa situazione favorì l’ascesa di una nuova classe di mercanti
indipendente, non più legata strettamente agli interessi dei signori feudali,
concentrata nelle città e dedita principalmente alla produzione e al libero
scambio delle merci. Durante il XVII secolo questa nuova classe crebbe in
modo costante, sia in numero che in importanza. Alla fine del secolo aveva
raggiunto l’apice del suo potere e i mercanti delle grandi città superavano in
ricchezza la maggior parte dei signori feudali.
La loro ascesa fu accompagnata da un graduale aggravarsi delle
condizioni materiali dei samurai, che venivano pagati ancora in riso ed
erano sempre più dipendenti dai prestiti di denaro ad alto interesse praticati
dai mercanti. Contemporaneamente, il dissesto dell’economia del riso

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aggravò la situazione agraria e peggiorò le sorti degli agricoltori, la seconda
classe di quella scala gerarchica ormai solo teorica. Risultato di questi
sconvolgimenti economici furono i crescenti passaggi da una classe all’altra
e il parziale indebolirsi delle distinzioni tra le classi. Il governo cercò di
frenare l’ascesa dei chōnin con provvedimenti artificiosi, quali leggi
suntuarie, svalutazione del denaro ed espropriazioni, ma questi tentativi di
rendere la realtà economica conforme alla scala gerarchica fallirono
inevitabilmente.
L’immensa ricchezza dei facoltosi borghesi traspare ripetutamente
nell’opera di Saikaku. In uno dei suoi libri egli fa riferimento al fatto che
nella sola Kyōto numerosi mercanti possedevano inaudite ricchezze. Le
spese esorbitanti per frequentare le case di appuntamento e le cortigiane più
famose costituivano un’ulteriore dimostrazione della loro opulenza.
Ovviamente non tutti i mercanti erano ricchi. Nel corso del XVII secolo il
divario tra ricchezza e povertà si fece enorme, e in alcune delle ultime opere
di Saikaku viene vividamente rappresentata la miseria dei cittadini più
poveri in un mondo in cui, come egli stesso afferma, «solo il denaro genera
denaro».
La prosperità della classe dei chōnin era intimamente legata alla nascita
dei grandi centri urbani. Alla morte di Saikaku, Edo era probabilmente la
città più grande del mondo, con una popolazione di circa un milione di
abitanti, e rappresentava il centro politico della nazione, mentre Ōsaka (città
natale di Saikaku) era il maggior centro commerciale. Con lo sviluppo di
un’economia fondata su un sistema monetario nazionale, il ruolo di questa
città divenne sempre più importante e la sua popolazione raggiunse i
400.000 abitanti, mentre Kyōto, la capitale ufficiale e il centro della cultura
tradizionale, ne contava circa mezzo milione.
Sebbene il ruolo dei chōnin fosse per alcuni versi analogo a quello dei
loro omologhi europei, essi non riuscirono a evolversi in una classe media
sul modello occidentale. Lo spirito individualista di libera impresa e libera
concorrenza fece scarsi progressi e l’organizzazione in corporazioni dei
chōnin rimase pressoché statica, a somiglianza di quella della stessa
gerarchia feudale. Vivendo all’interno di una comunità basata su una rigida
divisione in classi e su un’economia nazionale ripiegata su se stessa, questa
borghesia non riuscì o non volle prendere l’iniziativa di convertire la
propria economia mercantile in capitalismo industriale. Negli ultimi anni

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della vita di Saikaku ci furono così segni di stagnazione economica che
divennero sempre più evidenti nel XVIII secolo.
Un altro aspetto importante che distingueva i chōnin dalle emergenti
classi medie dell’Occidente è rappresentato dall’incapacità di convertire in
potere politico la loro supremazia economica. Incanalarono piuttosto la loro
forza verso la cultura e l’edonismo. Gli interessi culturali e edonistici dei
cittadini trovarono un terreno fertile in alcuni ambienti, come il teatro
kabuki e i quartieri di piacere, da cui i membri della classe guerriera erano
teoricamente banditi. Si trattava del cosiddetto ukiyo, che diede il suo nome
al famoso genere pittorico ukiyo-e, e alla caratteristica prosa di Saikaku,
l’ukiyo-zōshi. Il termine ukiyo esprimeva in origine il principio
fondamentale buddhista della «transitorietà del tutto», ma in seguito passò a
designare il «Mondo Fluttuante» del piacere e dello stile, i cui protagonisti
erano l’attore e la cortigiana e i cui princìpi guida erano – secondo un
famoso detto – l’amore e il denaro. Nell’ukiyo del XVII secolo gli abitanti
ricchi delle città trovarono una quantità e una varietà di piaceri che in
precedenza nessuno aveva mai goduto, in Giappone, al di fuori della
nobiltà.
Dato il ruolo importante che i quartieri di piacere svolgono in molte delle
opere di Saikaku, è necessario soffermarsi, sia pur brevemente, su di essi.
Nelle prime decadi del secolo vennero istituiti in molte città del Giappone,
con l’approvazione del governo Tokugawa, dei quartieri in cui la
prostituzione era autorizzata. Il famoso quartiere Yoshiwara di Edo fu
fondato nel 1617, lo Shinmachi di Ōsaka nel 1620 circa e lo Shimabara di
Kyōto nel 1641. Alcuni anni dopo in tutto il paese si contavano più di cento
di questi quartieri e all’epoca in cui Saikaku li descrisse si trovavano per lo
più in fiorenti condizioni. Lo Yoshiwara, ad esempio, contava circa 150
case e quasi 3000 cortigiane, attorniate da una schiera di servitori, ballerine,
musicisti, ruffiani, buffoni e specifici commercianti. Essi costituivano un
mondo a parte: erano piccole, autosufficienti «città del piacere» (yūri)
all’interno dei grandi centri urbani. In esse vigeva un protocollo formale, un
rituale elaborato di ordine estetico, una propria gerarchia rigida e
complessa, perché in una società strutturata in caste come quella giapponese
del XVII secolo, anche le cortigiane erano rigidamente classificate,
inquadrate in categorie precise. Per alcuni aspetti, i quartieri di piacere
corrispondevano alle coffee-houses della Londra del XVIII secolo, come
centri di eleganza e di intelligenza brillante, ma oltre a ciò erano immersi in

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un’atmosfera di galanteria, di fascino, di sensualità. Le cortigiane d’alto
rango, molte delle quali venivano reclutate tra le figlie dei samurai decaduti,
erano dotate di bellezza fisica, di raffinatezza artistica e di una cultura che,
pur rigidamente circoscritta, era più ampia di quella della maggior parte
delle donne di città di quel periodo. Dei loro favori, nella maggior parte dei
casi, poteva godere qualunque uomo fosse in grado di pagare l’esorbitante
cifra richiesta. Va peraltro detto che le qualità note come iki e hari
(approssimativamente, «vivacità d’ingegno» e «orgoglio») erano molto
apprezzate nelle cortigiane e che talvolta, ad esempio, una di loro poteva
respingere un cliente indesiderato o perfino abbandonare i quartieri di
piacere con qualche amante privo di mezzi. Si trattava comunque di rare
eccezioni, e l’idealizzazione dei quartieri di piacere a opera dei
contemporanei, come appare nei kabuki e anche in alcune delle prime opere
di Saikaku, non deve farci dimenticare il loro carattere essenzialmente
sordido, e i metodi violenti utilizzati per reclutare e trattenere le donne
prigioniere di quell’elegante forma di schiavitù.
Proprio in questo mondo, dominato dal denaro, il ricco mercante poteva
primeggiare e sfuggire alle frustrazioni della società esterna. Perché il
denaro, come sottolinea lo stesso Saikaku, costituiva l’unico attestato di
nobiltà del mercante. Nei quartieri di piacere le distinzioni di classe
avevano ben poca importanza di fronte alla ricchezza, e il samurai che
dipendeva dalla sua modesta paga in riso, con il suo valore monetario
costantemente fluttuante, o su prestiti ottenuti da mercanti usurai,
scompariva di fronte al chōnin facoltoso e in grado di spendere a suo
piacimento. Come recitano le parole di un verso del XVIII secolo:
Nello Yoshiwara
I modi del guerriero
Non possono vincere.

Ma in realtà il denaro non era l’unica chiave del successo che un uomo
poteva riscuotere nei quartieri di piacere. Il gusto estetico, una forma di
raffinatezza mondana nota come sui o tsū, la prodezza sessuale e una
profonda conoscenza del cerimoniale erano qualità altrettanto importanti.
Questi erano tutti campi in cui il chōnin rivaleggiava con chi stava al di
sopra di lui in linea teorica, e nelle «città senza notte» era in grado di
realizzare un’uguaglianza sociale impossibile altrove.

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I quartieri di piacere offrivano inoltre una via di fuga licenziosa al
grigiore del buddhismo, ai rigidi codici del confucianesimo ufficiale e alle
leggi draconiane che regolavano la morale sessuale. Erano luoghi in cui gli
uomini, attraverso il piacere sensuale e l’indiretta partecipazione alle arti,
potevano trovare riscatto dalle tensioni di una società feudale oppressa dal
sistema gerarchico – un riscatto che le loro famiglie, essendo parte
integrante di quella società, normalmente non erano in grado di offrire. In
un’epoca in cui l’aspetto conviviale della vita famigliare non era ancora
sviluppato e gli abitanti delle città avevano scarse opportunità di partecipare
alle attività pubbliche, il «mondo del fiore e del salice», come veniva
chiamato, aveva una funzione sociale estremamente importante per chi
poteva permettersi i piaceri che offriva.
Analizzando il ruolo dei quartieri di piacere nei libri di Saikaku,
dobbiamo ricordare l’importanza che essi ebbero nel vivacizzare la cultura
borghese del XVII secolo. I cittadini che si riunivano nelle case alla moda di
Shinmachi, di Shimabara, di Yoshiwara e di altri quartieri, fornirono gran
parte del sostegno materiale e dello spirito creativo che portò
all’eccezionale rinascita artistica del periodo Genroku. In senso stretto,
questo periodo durò dal 1688 al 1703, ma in effetti si trattò di un’intera fase
culturale che ebbe il suo culmine negli anni novanta del XVII secolo. L’arte
Genroku si concentrava nelle città e rappresentava l’apice della cultura in
espansione dei cittadini benestanti. Per la prima volta nella storia del
Giappone, gli esponenti culturali più eminenti appartenevano a una classe
dominata più che dominante, e il fatto che i cittadini in ascesa fossero
frustrati dai rigidi modelli del regime Tokugawa può averli indotti a
rivolgere le loro energie alla creazione e al sostegno di una nuova cultura.
Significativamente, proprio una grande città commerciale come Ōsaka
diventò il centro letterario della fine del XVII secolo, e proprio Saikaku,
poeta haikai e cittadino di Ōsaka, portò la letteratura borghese alla sua
massima espressione nel periodo Genroku.
La cultura Genroku era ovviamente tributaria di quella dei secoli
precedenti. Ci sono comunque alcune qualità salienti che la distinguono
dalla cultura classica e da quella medievale, e che si ritrovano nel suo teatro
come nelle sue stampe a colori e nella sua prosa narrativa. Tra l’altro, la
cultura Genroku rifletteva la stravaganza, la frivolezza e l’edonismo
mondano del «Mondo Fluttuante». L’aspetto frivolo e edonistico diede
spesso origine all’oscenità e all’erotismo, come si osserva, ad esempio,

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nelle «immagini della primavera» (shunga) degli artisti dell’ukiyo-e, nei
libretti pornografici dei secoli XVII e XVIII e nella generale atmosfera
licenziosa che prevaleva nel teatro.
Inoltre, la cultura borghese del periodo Genroku era caratterizzata dalla
sua relativa indipendenza. Non solo era ampiamente svincolata da
convenzioni artistiche prestabilite, ma era anche notevolmente lontana
dall’influenza cinese. Il suo stretto collegamento con una nuova classe
sociale in ascesa le conferì inoltre un carattere spontaneo e sperimentale,
assente nella cultura aristocratica ufficiale.
Queste caratteristiche generali si trovano appieno nella narrativa Genroku,
i cosiddetti «appunti del Mondo Fluttuante» (ukiyo-zōshi), di cui Saikaku fu
il creatore e il maggiore esponente. Si trattava di una nuova letteratura
borghese scritta principalmente per il divertimento e l’istruzione degli
abitanti dei grandi centri commerciali e che parlava di loro e del mondo in
cui vivevano. Questo non significa che la prosa Genroku fosse esente da
influenze della letteratura precedente: i romanzi brevi dell’XI secolo, e in
particolar modo la letteratura narrativa del XIII secolo, spesso riecheggiano
negli scritti di Saikaku. Tuttavia la grande tradizione letteraria del Genji
monogatari era stata irrimediabilmente soffocata da secoli di micidiali
conflitti, e i principali modelli di Saikaku erano molto più recenti,
soprattutto i «libretti in kana» (kana-zōshi), opere eterogenee, generalmente
brevi, che divennero popolari nella prima parte del XVII secolo. Essi erano
scritti nella popolare grafia kana (fonetica) e potevano quindi esser letti dai
comuni cittadini più facilmente rispetto alla maggior parte delle opere del
tempo, affollate di complessi caratteri cinesi e strutturate secondo la
grammatica e la sintassi tradizionali, anch’esse sul modello cinese.
Come molti generi letterari in Giappone, i kana-zōshi hanno un immenso
campo d’azione: includono storie e aneddoti riguardanti attori famosi,
critiche sulle cortigiane più in vista, romanzi frivoli, testi pratici di consigli
e istruzioni, manuali per la stesura di lettere, raccolte di storie tradizionali
provenienti da diverse località, racconti picareschi e libri scritti in forma
epistolare. Tutte queste opere erano accomunate dal fatto che gli autori, i
destinatari e i soggetti principali appartenevano alla classe dei chōnin, che
fino ad allora aveva avuto un ruolo del tutto trascurabile nella letteratura
giapponese.
Quando nacque Saikaku, i kana-zōshi suscitavano scarso interesse e anche
la narrativa era tra le arti che godevano di minor favore. Il genere

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lentamente si perfezionò e soprattutto si approfondì il loro contenuto
realistico. Saikaku, comunque, fu il primo scrittore a dare a questa
produzione la forma di un importante genere letterario.
L’originalità di Saikaku, quindi, non sta nell’aver creato un nuovo genere;
sia nella forma che nel contenuto, i suoi ukiyo-zōshi appartengono
all’affermato ambito della composizione di kana-zōshi. Saikaku ha avuto il
merito di comprendere le potenzialità letterarie di un genere già esistente;
infondendogli nuova linfa, diede vita a una letteratura borghese di rilevanza
artistica e di ampia diffusione. Il suo pubblico era infatti assai più vasto di
quello raggiunto da qualsiasi tipo di letteratura giapponese precedente.

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L’AUTORE

Considerando la fama e la popolarità che Saikaku raggiunse presso i


contemporanei, sia come poeta che come narratore, è sorprendente la
scarsità di informazioni affidabili sulla sua vita. Non sappiamo neppure con
certezza all’interno di quale classe sia nato. È opinione condivisa che i suoi
genitori appartenessero alla classe dei mercanti, e in ogni caso non v’è
alcun dubbio che Saikaku si considerasse un chōnin. Essendo nato a Ōsaka
nel 1642, fu dunque contemporaneo di alcune tra le personalità più eminenti
della storia culturale del periodo Tokugawa, e basterà ricordare l’artista
ukiyo-e Moronobu (1645-1715), il poeta Bashō (1644-1694) e il
drammaturgo Chikamatsu (1653-1724). Saikaku iniziò a scrivere all’età di
quattordici anni. Pur essendo divenuto in seguito celebre come autore di
prosa, nei primi ventisei anni della sua attività artistica Saikaku si dedicò
interamente alla poesia, in particolar modo all’haikai, una forma poetica
altamente condensata, scritta in una serie che alternava 17 e 14 sillabe, e
normalmente era composta da serie di 36, 50 o 100 versi. Nel corso della
sua vita pubblicò circa dodici volumi di poesia e di critica letteraria.
Nel 1675 la moglie, che sembra fosse una sua amica d’infanzia, morì
prematuramente, lasciandolo con tre figli, tra cui una bambina cieca.
Saikaku non si risposò. Due anni dopo la morte della moglie prese la
tonsura, una pratica piuttosto diffusa tra gli scrittori e i pittori del tempo,
simboleggiante la loro volontà di consacrarsi all’arte; secondo alcuni
biografi, tuttavia, il ritiro di Saikaku dal mondo fu anche ispirato dal dolore
per la perdita della moglie.
Nel 1682, a quarant’anni, Saikaku compose il suo primo romanzo, Vita di
un libertino, che precorse il genere ukiyo-zōshi e riscosse un notevole
successo. Due anni dopo scrisse un’altra opera in prosa, e
contemporaneamente componeva haikai, con un’intensità sconosciuta in
precedenza. Gli anni dal 1685 al 1688 rappresentano il punto culminante
della sua carriera di autore di prosa e la maggior parte dei suoi lavori più
importanti venne scritta in questo periodo di intensissima attività. La sua
produzione narrativa raggiunse il suo apogeo nel 1688, anno in cui pubblicò
non meno di cinque opere di ampio respiro. In seguito Saikaku scrisse con
un ritmo meno febbrile. Questo fatto, insieme al tono più sobrio delle sue
opere, ha fatto supporre che lo scrittore si sia ammalato alla fine del 1688.

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L’anno successivo Saikaku riprese a comporre haikai, pur senza
abbandonare la narrativa. Nel 1692 morì la figlia cieca, e forse anche per
questo, e per la malattia, le sue ultime opere esprimono un crescente senso
di tristezza, sebbene non sia scomparsa la vitalità di un tempo.
Morì nel 1693 a cinquantun anni (cinquantadue secondo il conteggio
giapponese) e le sue ceneri sono state sepolte nel tempio Seigan a Ōsaka.
Le sue ultime parole furono: «Il termine della vita di un uomo è fissato a
cinquant’anni, e anche questo mi sembra un periodo fin troppo lungo. Tanto
più così…», e aggiunse il suo ultimo haikai:
Ormai la osservo
Da due anni, da troppo tempo –
La Luna del Mondo Fluttuante.

Il ritratto più conosciuto di Saikaku giunto fino a noi è del poeta della
scuola Danrin Haga Isshō. Mostra lo scrittore negli ultimi anni della sua
vita: un uomo tozzo, dalla testa rasata, vestito con abiti formali e seduto
cerimoniosamente sul pavimento. Si è subito colpiti dalle sue enormi
orecchie, dallo sguardo intenso, dalle sue mani minuscole; ma l’impressione
principale che suscita è quella di un uomo intelligente, dal carattere forte,
un uomo dall’espressione pronta e cinica, e al tempo stesso pieno di vita,
dotato di uno spirito e di un’acutezza eccezionali.

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L’OPERA

Considerando che Saikaku fu innanzitutto un poeta haikai e che la poesia


ebbe un’influenza molto grande sulle sue successive opere di narrativa,
un’analisi, sia pur breve, della sua produzione letteraria deve iniziare con
una breve premessa sulla scuola Danrin di haikai, di cui l’autore fece parte.
Questa scuola raggiunse il suo massimo splendore negli anni settanta del
XVII secolo, e lo stesso Bashō vi appartenne per diversi anni: essa fu la
prima a rivelare il pieno significato moderno di haikai, forma che sarebbe in
seguito culminata nello haiku. Mentre i poeti del Teimon si erano
particolarmente dedicati all’osservanza di complesse convenzioni poetiche,
la scuola Danrin pose particolare attenzione all’osservazione e alla
descrizione della vita reale. I tipici haikai della scuola Danrin erano poesie
di costume che traevano ispirazione dalle attività quotidiane dei chōnin.
Saikaku è stato senza dubbio il poeta che ha portato caratteristiche tipiche
dell’haikai Danrin al loro punto più alto. Per quanto possiamo giudicare
dalle sue poesie, Saikaku intese affrancare totalmente l’haikai dalle rigide
convenzioni e restrizioni che stavano condannando questa forma poetica
alla sterilità. Gli haikai più rappresentativi di Saikaku sono poesie di
costume realistiche, piene di una sorta di umorismo distaccato e con un
senso vivido della vita realmente vissuta dai cittadini del tempo.
L’approccio è più narrativo che lirico; l’attenzione è rivolta agli eventi più
che ai sentimenti, agli esseri umani più che alla natura, alla vita quotidiana
della gente reale più che alle tematiche imposte dall’estetica letteraria.
Leggendo l’opera poetica di Saikaku si è spesso colpiti dalla sensazione che
quel genere molto restrittivo non si adattasse al suo genio particolare. Lui
stesso sembra essersi reso conto che il suo talento era più narrativo che
lirico, e i suoi splendidi risultati nel campo dello yakazu (maratona poetica;
letteralmente: «numerose frecce») possono essere considerati come uno
sforzo per sfuggire agli ostacoli imposti dalla laconica forma dell’haikai e
per affrontare un genere a lui più congeniale, in cui fosse possibile
conciliare prosa solenne e tematiche profondamente realistiche.
Due anni prima di raggiungere l’apogeo del successo nel campo dello
yakazu, tuttavia, Saikaku aveva già risolto la contraddizione tra forma e
contenuto rivolgendosi alla narrativa, e da quel momento il suo interesse
principale si spostò dalla poesia alla prosa. Ora l’autore era finalmente

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svincolato dalle restrizioni convenzionali dell’haikai e poteva dedicare le
sue energie a descrivere liberamente la vita che lo circondava.
Nell’analizzare questa svolta nella carriera di Saikaku, è bene ricordare che
egli stava abbandonando una forma letteraria rispettata per una che godeva
di una pessima considerazione. Durante la maggior parte del periodo Edo,
gli autori di narrativa furono sottopagati e sottovalutati. All’interno della
classe dei mercanti, haikai, haiku e jōruri erano le forme letterarie più
popolari e la narrativa era diffusamente ritenuta adatta solo a donne e
bambini. È tanto più degno di nota, quindi, il fatto che gli ukiyo-zōshi di
Saikaku furono in grado di riscuotere un così vasto successo presso i suoi
contemporanei.
La prosa narrativa di Saikaku può essere suddivisa in tre periodi: «scritti
erotici» o kōshokubon (1682-1686), opere varie (1685-1689) e «scritti
sull’uomo di città» o chōninmono (1688-1693). Queste ripartizioni sono
abbastanza arbitrarie; alcuni testi si trovano cronologicamente al di fuori
della categoria a cui appartengono e, come vedremo in seguito, gli stessi
periodi si sovrappongono. Generalmente, comunque, questa suddivisione
rappresenta un utile quadro di riferimento per esaminare brevemente alcuni
dei testi rappresentativi di Saikaku e l’evoluzione della sua opera narrativa.
Le opere in prosa del primo periodo traggono il loro nome da kōshoku,
termine intraducibile che racchiude l’intera gamma di galanteria, amore
romantico e passione sensuale, e il cui significato specifico varia a seconda
del contesto. Lo stesso termine, del resto, appare diffusamente in molti dei
titoli. In Kōshoku ichidai otoko (Vita di un libertino) il termine kōshoku si
focalizza sulla galanteria, la dissolutezza e il mero godimento sessuale. Il
libro è composto da cinquantaquattro episodi della vita amorosa del
protagonista, Yonosuke, un elegante libertino seicentesco appartenente alla
classe degli uomini di città. A ogni anno della sua vita è dedicato un
episodio, a partire dall’età di otto anni, quando Yonosuke intraprende la sua
carriera amorosa (rivolgendo le sue precoci attenzioni a una cameriera),
fino ai sessantun anni, quando l’infaticabile eroe, dopo aver sperimentato
l’amore di ogni tipo di donna in Giappone, parte alla volta di un’isola
leggendaria, abitata soltanto da rappresentanti del gentil sesso. I
cinquantaquattro episodi corrispondono chiaramente, in numero, ai
cinquantaquattro libri del celebre romanzo del XVII secolo, Genji
monogatari, e lo stesso Yonosuke può essere considerato il contraltare
borghese di «Genji, il principe splendente». L’atmosfera del testo è

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ottimista, fresca e vivace, e l’attenzione è quasi completamente rivolta agli
aspetti piacevoli dell’amore. Si può affermare che Vita di un libertino
rappresenti i romantici sogni a occhi aperti del medio rappresentante della
classe dei chōnin. Questo senza dubbio fu uno dei motivi della popolarità
riscossa presso i contemporanei. La prima edizione apparve a Ōsaka nel
1682 con calligrafia e illustrazioni a opera dello stesso Saikaku; due anni
più tardi, a Edo, fu pubblicata un’altra edizione, illustrata dal grande
antesignano dell’ukiyo-e, Moronobu.
Benché Yonosuke frequentasse donne di ogni classe sociale,
l’ambientazione principale dei suoi amori era costituita dai quartieri di
piacere, che nel libro sono descritti nei toni più accattivanti. Questo
particolare mondo fa da sfondo anche all’opera successiva, Shoen ōkagami
(Il grande specchio delle bellezze), una raccolta di storie indipendenti tra
loro riguardanti la vita nelle «città senza notte», ed è generalmente
considerato il culmine del genere della «critica sulle cortigiane» dei kana-
zōshi.
In Kōshoku gonin onna (Cinque donne amorose), del 1686, per la prima
volta Saikaku cerca le sue eroine al di fuori dei quartieri di piacere. Il testo
si compone di cinque storie indipendenti, basate su vicende realmente
avvenute all’epoca, ognuna delle quali ha come protagonista una giovane
donna passionale appartenente a una classe diversa da quella dei samurai.
Kōshoku in questo caso ha il senso di amore romantico, più che di
galanteria, e ognuna delle cinque eroine sacrifica la propria rispettabilità per
una relazione amorosa. Ogni storia, tranne l’ultima, ha un epilogo tragico.
Tema comune è il conflitto tra la passione e i doveri sociali. L’atmosfera
dominante è completamente mutata rispetto alle opere precedenti: le
protagoniste non si muovono più all’interno dei confini isolati e lievemente
irreali dei quartieri di piacere, ma vengono messe direttamente a confronto
con i codici severi della società feudale esterna, che esse violano a rischio
della loro stessa vita.
Kōshoku ichidai onna (Vita di una donna licenziosa) fu pubblicato nel
1686, solo quattro mesi dopo le Cinque donne amorose ed è l’opera più
rappresentativa del kōshokubon di Saikaku. In questo testo kōshoku indica
erotismo e sensualità, del tutto privi di quegli aspetti romantici o
sentimentali dell’amore che ispiravano le precedenti eroine. Il libro descrive
la progressiva degradazione della protagonista a causa della sua ricerca del
piacere sessuale e per vivere dal punto di vista economico come donna sola

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in una dura società feudale. Oltre a una natura altamente erotica, l’eroina è
dotata di notevole bellezza fisica, e il suo ambiente naturale è rappresentato
dai quartieri di piacere, all’interno dei quali si svolge la maggior parte della
vicenda. La vita della cortigiana, tuttavia, non è più descritta con le tinte
rosee dei lavori precedenti ma con perfetto realismo, e si rivela come
un’esistenza dura, spietata, dominata dalla ricerca del denaro, in cui il
desiderio sensuale raramente lascia il posto alla tenerezza. Quando, con
l’avanzare dell’età, la bellezza comincia a sfiorire, la protagonista
sprofonda nelle zone più sordide del commercio sessuale, per diventare alla
fine una comune prostituta di strada. In questo romanzo Saikaku evoca
dunque l’aspetto oscuro e nefasto del kōshoku descritto nelle sue prime
opere.
Nel 1685 Saikaku realizzò una serie di lavori che trattano un’ampia
gamma di temi, dalle leggende locali alle storie di samurai. In molti degli
scritti di questo periodo possiamo rilevare l’influenza della precedente
narrativa, come la famosa raccolta lo Uji Shūi monogatari del XIII secolo.
Le storie narrate rivelano peraltro l’approccio concreto, realistico, di un
moderno uomo di città, che spesso volge in forma satirica le antiche
leggende, e che tratta con un certo scetticismo l’etica samurai. L’anno
successivo, il 1686, vide la pubblicazione della famosa opera di Saikaku
sull’omosessualità, il Danshoku ōkagami (Il grande specchio dell’amore
maschile). Il testo è suddiviso in due parti, corrispondenti ai due ambienti in
cui questa pratica era più diffusa: i circoli dei samurai e il teatro kabuki.
Successivamente, tra il 1687 e il 1688, compose tre opere imperniate sui
samurai: Budō Denraiki (Cronache e tradizioni dei guerrieri), Buke Giri
monogatari (Racconti del codice d’onore cavalleresco) e Shin Kashōki
(Nuove cronache di eventi bizzarri). Sono raccolte di storie indipendenti tra
loro, che trattano principalmente i temi tradizionali di lealtà, onore e
vendetta, sia pur presentati in un modo moderno e realistico, descrivendo
non solo il lato nobile dell’etica del guerriero, ma anche i suoi aspetti futili
e perfino patetici. Nel 1689 Saikaku produsse una delle più antiche raccolte
giapponesi di storie di investigazione, Honchō ōin hiji (Sentenze
pronunziate sotto i fiori di ciliegio in questo paese).
Il terzo periodo della narrativa di Saikaku inizia nel 1688 con Nippon
eitaigura (Il magazzino eterno del Giappone). L’interesse si sposta sulla
vita pratica ed economica degli uomini di città. L’approccio distaccato e
obiettivo del secondo periodo, in cui Saikaku aveva assunto essenzialmente

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l’atteggiamento dell’osservatore imparziale, nel chōninmono lascia il posto
a un maggiore coinvolgimento, trattando un tema che lo riguarda molto da
vicino, ossia come vivono o come dovrebbero vivere gli uomini di città. Il
tono didattico che caratterizza molte di queste opere non le trasforma però
in trattati moralistici; a prevalere sono sempre il vivido ritratto dei singoli
caratteri e la storia in sé.
In questo periodo Saikaku scrisse altre due raccolte di racconti su questo
tema, pubblicate solo dopo la morte. Nel 1694 infatti apparve Saikaku
Oridome (L’ultimo lembo della veste di Saikaku), che riunisce due opere
scritte nel 1688: Honchō Chōnin kagami (Uno specchio degli uomini di
città di questa terra) e Yo no Hitogokoro (I cuori della gente di questo
mondo). Emerge chiaramente una nuova tendenza nella descrizione che
Saikaku fa dei chōnin. Il suo atteggiamento iniziale nei confronti del
capitalismo mercantile del suo tempo sembra esser stato contraddistinto da
un sincero entusiasmo. Ad esempio, ne Il magazzino eterno del Giappone
egli mostra gli aspetti favorevoli e ottimisti dell’ascesa di nuovi gruppi
commerciali, ma al tempo stesso mette in guardia i suoi lettori sulla facilità
con cui l’imprudenza e la pigrizia possono privare gli uomini di quelle
ricchezze che loro stessi o i loro padri hanno accumulato. Successivamente,
Saikaku sembra aver nutrito dubbi crescenti sulla positività del sistema. Le
ultime opere di Saikaku descrivono il lato più cupo della vita dei chōnin.
Per la prima volta egli distoglie la sua attenzione dall’alta borghesia, per
rivolgerla agli strati medi e bassi della società cittadina. Saikaku fornisce in
tal modo una delle rare cronache del XVII secolo sulla vita degli abitanti
indigenti delle città che, lungi dal trarre profitto dall’ascesa della classe
mercantile, erano impegnati in una lotta incessante per soddisfare le
necessità primarie della vita. Il nuovo approccio raggiunge il punto
culminante nell’ultima opera di Saikaku pubblicata in vita: Seken
Munesanyō (I calcoli del mondo, 1692). Si tratta di una raccolta di storie
basate sul tema della fine d’anno, periodo critico per i poveri della città che
sono obbligati a saldare tutti i debiti contratti. Saikaku evoca qui le vite
oscure e angosciate dei piccoli chōnin e descrive le varie astuzie da loro
messe in opera per eludere gli esattori.
Il realismo di Saikaku sembra dunque, sia nel kōshokubon che nel
chōninmono, passare dall’ottimismo delle prime opere a un crescente
pessimismo man mano che focalizza la sua attenzione sugli aspetti più cupi
e negativi dell’amore e del denaro. Nella sua ultima opera, Saikaku Oki-

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Miyage (Il regalo d’addio di Saikaku), scritta nel 1693 quand’era ormai
ammalato e pubblicata poco dopo la sua morte, esamina fin nei recessi più
profondi il tema del declino e della povertà.
Questo aspetto relativamente cupo delle opere più tarde non deve indurci
a considerare Saikaku come uno scrittore essenzialmente malinconico e
pessimista. Al contrario, se consideriamo complessivamente le sue opere in
prosa, in esse predomina il senso dell’umorismo e l’amore per la vita.
L’umorismo di Saikaku assume diverse forme, ad esempio quella della
parodia e dei giochi di parole, che deriva in parte dalla tradizione haikai, e
che ci ricorda che la poesia di Saikaku si distingue per la sua arguzia. Ma
Saikaku eccelle soprattutto in quella forma di umorismo che nasce
dall’osservazione degli uomini e delle loro debolezze. Alcune delle
descrizioni più divertenti di Saikaku riguardano gli avari. Le sue sono
popolate di personaggi divorati dall’ossessione dell’accumulo di denaro e di
beni. Come Molière, Saikaku è ben conscio delle implicazioni tragiche
dell’avarizia, ma non ne ignora mai gli aspetti comici.
Saikaku amava profondamente la vita ed era affascinato dal mondo reale,
il mondo degli oggetti concreti, delle persone viventi. Ma l’aspetto più
importante dell’amore di Saikaku per la vita consiste nell’immensa gamma
dei suoi interessi, e si riflette sia nelle forme che nelle tematiche della sua
opera. Abbiamo già rilevato la portata e la varietà dell’attività artistica di
Saikaku. Poesie haikai, racconti, topografie, illustrazioni, testi per il teatro
jōruri, bozzetti su attori e cortigiane, opere epistolari, storie di
investigazione, romanzi lunghi: tutti usciti dalla sua penna instancabile. E in
molti di questi campi Saikaku si dimostrò un innovatore.
La versatilità dei suoi interessi e delle sue esperienze emerge dal
multiforme contenuto delle sue opere. Come il suo contemporaneo Daniel
Defoe, Saikaku era affascinato da luoghi lontani ed esotici: sembra sia stato
un grande viaggiatore, e infatti i suoi scritti sono ambientati non solo nelle
grandi città, ma anche nelle province più remote. I suoi spostamenti erano
ovviamente limitati dalla politica di isolamento instaurata dal governo
Tokugawa, ma le distanze vanno misurate non in termini di spazio, ma di
accessibilità, e da questo punto di vista il Giappone all’epoca di Saikaku era
immenso. Il viaggio da Kyōto a Edo richiedeva allora quasi due mesi, e
province come Ezo (Hokkaidō) erano remote quasi quanto le regioni polari
per noi oggi. In una scala del genere, anche le città erano enormi: per
spostarsi in portantina dal centro di Edo al distretto di Yoshiwara, ad

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esempio, occorrevano quasi due ore. A causa della sua struttura politica e
geografica, il Giappone dell’epoca di Saikaku era immensamente vario, e
l’interesse di Saikaku non era tanto rivolto al loro aspetto paesaggistico o
esotico, quanto alle persone che vivevano o avevano vissuto in quei luoghi,
alle loro usanze, alle loro tradizioni, al loro modo di pensare e di agire. Nei
personaggi delle sue opere sono così rappresentate quasi tutte le tipologie
umane del Giappone del XVII secolo, dai solenni mercanti con le loro
famiglie ai mendicanti, ai ruffiani, ai preti depravati, agli attori omosessuali
e alle inservienti dei bagni pubblici. Sebbene molte delle sue opere abbiano
come protagonisti i samurai e il loro mondo, Saikaku era naturalmente
interessato alla classe a cui apparteneva e per questo viene ricordato come il
primo grande scrittore borghese del Giappone.
Saikaku e Defoe furono i grandi esponenti dello spirito borghese nelle
loro rispettive società. In Giappone, Saikaku fu il primo scrittore a conferire
forma letteraria allo «stile di vita del mercante» (chōnindō), che durante il
XVII secolo era emerso in contrasto con lo «stile di vita del guerriero»
(budō). Come abbiamo già avuto occasione di notare, egli era un grande
ammiratore dell’approccio sicuro di sé, indipendente, dei chōnin, e in molte
sue opere troviamo affermazioni orgogliose come questa: «L’uomo di città
non si cura della famiglia o del lignaggio, perché è nell’oro e nell’argento
che egli trova il suo attestato di nobiltà». Nell’ottica di Saikaku, il mercante
ideale era dotato, in primo luogo, della qualità nota – per curiosa
coincidenza – con il nome di saikaku, una forma di spirito brillante e al
tempo stesso spontaneo. Altri attributi essenziali erano un buon carattere,
intelligenza, operosità, parsimonia e talento negli affari.
Saikaku era ben consapevole che molte di queste qualità, se portate
all’estremo, potevano portare al vizio. Spesso presenta esempi significativi
di come un’eccessiva parsimonia possa trasformarsi in avarizia.
Analogamente, l’abilità nel trarsi d’impaccio può, se priva si scrupoli
morali, diventare sfacciata disonestà.
L’accumulare ricchezze era la prova del successo del mercante, ma
l’interesse di Saikaku riguardo al denaro non si limita a questo: si direbbe
affascinato dalla moneta in sé, da quell’unione di oro, di argento e di rame
che aveva esercitato immensi effetti sulla vita dell’intero Giappone.
Come abbiamo visto, il denaro e l’amore erano i due grandi temi del
«Mondo Fluttuante», ed è dunque inevitabile che Saikaku abbia posto anche
l’amore – o, più precisamente, kōshoku – al centro dei suoi ukiyo-zōshi.

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Ancora una volta Saikaku si distingue come scrittore rappresentativo della
classe degli uomini di città, poiché il suo interesse per l’amore rientrava nel
piacere più generale che egli traeva dagli aspetti fisici della vita, aspetti che
in gran parte erano stati negati da quattro secoli di guerre civili in cui i
severi codici militari e il grigiore del buddhismo avevano distolto le menti
degli uomini dalle potenzialità del piacere sensuale. L’energia e il denaro
che i mercanti dell’epoca destinavano alle loro attività amorose possono, in
tal senso, essere considerati sia come una reazione a un passato austero, sia
come una sorta di resistenza ai rigori del feudalesimo militare. Il mondo
piuttosto irreale dei quartieri di piacere, scenario di molte opere di Saikaku,
era il centro di questo edonismo borghese. L’interesse di Saikaku per
l’amore era rivolto alla molteplicità delle sue manifestazioni. Come sempre,
egli era affascinato dalla complessità delle emozioni umane e i suoi primi
testi celebrano la galanteria, il romanticismo, la lussuria e tutti i molteplici
aspetti del kōshoku: ad esempio, come abbiamo visto, dedicò un’intera
opera all’amore omosessuale, all’epoca assai diffuso.
Il modo schietto in cui trattava questi argomenti sta alla base della
reputazione di scrittore lascivo che gli fu attribuita in seguito. Saikaku
scrisse in un’epoca in cui il comune senso del pudore non esisteva. Le opere
pornografiche, sia nel campo della letteratura che dell’arte figurativa, erano
estremamente popolari tra gli abitanti delle città. Molti degli imitatori di
Saikaku scrissero testi deliberatamente osceni, che gli venivano spesso
attribuiti. Ma lui non mirava mai alla morbosità. Il suo intento era
descrivere i vari effetti dell’amore sugli esseri umani (proprio come il
chōninmono descriveva i multiformi effetti esercitati dal denaro), e poiché
viveva in un’epoca non puritana, in cui l’amore raramente era separato dalle
sue manifestazioni fisiche, non c’è da stupirsi che le sue opere abbiano
spesso un contenuto altamente sessuale. L’erotismo presente nel
kōshokubon non è lascivia; può esser piuttosto considerato come
un’affermazione delle potenzialità fisiche della vita, un aspetto di quella
joie de vivre che caratterizza gran parte della sua opera.
L’osservanza dei precetti buddhisti era comunemente riconosciuta e
accettata nella vita sociale, ma per gli abitanti delle città dell’epoca di
Saikaku aveva ampiamente perduto le motivazioni religiose originarie. Va
peraltro detto che la concezione buddhista della vita che stava alla base di
quei precetti aveva penetrato profondamente la coscienza nazionale. I
personaggi di Saikaku (e senza dubbio lo stesso autore) accettavano i

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fondamentali concetti buddhisti di karma, di castigo, di reincarnazione, e
anche la possibilità della salvezza tramite il Buddha Amida. Non sembra
comunque che tali idee rappresentassero una grande forza ispiratrice nella
loro esistenza quotidiana.
Per quanto riguarda le stesse istituzioni buddhiste, la vita che si
conduceva nei templi non era gradita a gran parte della gente comune ed era
disprezzata dagli uomini colti. Al tempo di Saikaku i monaci buddhisti
erano sprofondati in uno stato di letargia e di improduttività, e avevano da
tempo cessato di essere una fonte di ispirazione per la vita artistica o
intellettuale del paese. Insediati agiatamente nei loro «templi mondani»
(sekendera), molti monaci non solo consumavano carne, ma violavano il
loro voto di castità intrattenendosi in segreto con donne e uomini: non sono
asceti idealisti, ma uomini legati ai piaceri terreni, mercenari, lussuriosi, fin
troppo umani. Visti in quest’ottica, essi rappresentavano un bersaglio
perfetto per la sua satira, che può evocare scrittori europei come Boccaccio,
Rabelais e Balzac.
Per quanto riguarda la morale Tokugawa, abbiamo già detto che non era
ispirata dalla dottrina buddhista, ma da una forma ufficiale di
confucianesimo basata sui princìpi di lealtà e di servizio. Nel complesso,
sembra che Saikaku accettasse il codice fondamentale di quest’etica.
Quando nei suoi testi i personaggi lo violano, quasi sempre vanno incontro
a un destino funesto. I suoi eroi e le sue eroine che permettono alle
emozioni personali di prendere il sopravvento sui doveri sociali, il più delle
volte finiranno i loro giorni sul patibolo, o nella solitudine di una cella da
eremita, o negli orrori della follia. Questo non significa che Saikaku fosse
un moralista. L’elemento didattico era sempre secondario rispetto al suo
interesse per la realtà delle emozioni umane.
Alcuni studiosi sono stati indotti a credere che Saikaku si opponesse
decisamente alle dure condizioni economiche e sociali del suo tempo, e in
particolar modo alla mancanza di rispetto per l’individuo. La tendenza a
considerare Saikaku uno scrittore riformista si è affermata soprattutto in
tempi recenti. Vari aspetti dell’opera di Saikaku tendono, effettivamente, ad
apparire vagamente «moderni». Il suo interesse per la ricerca della felicità
individuale, la sua rivendicazione delle gioie fisiche, la sua difesa dello
«stile di vita del mercante», l’affermazione secondo cui solo la doppia
spada distingue il samurai dagli altri uomini – tutto questo ci porta a
ritenere Saikaku il precursore di un’età più liberale. Nell’opinione di chi

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scrive, comunque, è azzardato considerare l’autore come un grande
umanista, e i suoi ukiyo-zōshi come una letteratura di protesta.

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LO STILE

Un aspetto importante della scrittura di Saikaku, che emerge dall’analisi


finora condotta, è il suo realismo. Sotto questo punto di vista la sua opera
appartiene a una tradizione che si era già affermata nell’XI secolo con il
grande capolavoro della narrativa realistica giapponese, il Genji
monogatari. Ma come abbiamo visto, le principali influenze letterarie su
Saikaku erano molto più recenti.
Qual è, allora, la caratteristica principale del realismo di Saikaku?
Innanzitutto il rifiuto degli elementi del soprannaturale e del fantastico.
Questo non significa che fantasmi, spiriti e magia siano completamente
assenti nelle sue opere, ma sono presenze estremamente rare, e non
svolgono mai un ruolo centrale nella vicenda narrata.
Il realismo di Saikaku è un tentativo di descrivere in modo chiaro e onesto
la società che ben conosceva e le persone reali che lo circondavano. Per il
lettore moderno uno degli aspetti più apprezzabili della sua opera è
rappresentato dal suo realismo sociale, che soprattutto emerge nel modo in
cui Saikaku tratta i due temi gemelli dell’amore e del denaro, entrambi
centrali, come abbiamo visto, nel Mondo Fluttuante e nelle motivazioni di
chi, come lui, apparteneva alla classe degli uomini di città. Nei suoi primi
scritti si manifesta ancora una certa tendenza a idealizzare i quartieri di
piacere e la vita di chi li frequenta, ma questo atteggiamento si fa sempre
più raro, e le sue ultime opere forniscono un quadro desolato delle effettive
condizioni economiche e sociali in cui vive la maggior parte degli abitanti
delle città suoi contemporanei.
La scrittura di Saikaku mostra anche un deciso sviluppo in rapporto al
realismo psicologico. Nel complesso egli ritrae i suoi personaggi ad ampi
tratti, ponendo particolare attenzione alle loro caratteristiche più peculiari
ed eccentriche. Nonostante questo aspetto «premoderno» del realismo di
Saikaku, la sua conoscenza della natura umana e la sua capacità di
osservazione erano tali che la maggior parte dei protagonisti e non poche
delle figure minori delle sue opere rimangono impressi nella mente del
lettore come personaggi vivi e convincenti. Eccezionale è la sua abilità nel
comprendere la psicologia femminile. Vita di una donna licenziosa, in
particolare, rappresenta uno straordinario esempio del realismo psicologico
dell’autore. Qui egli si immedesima completamente nella mente di una

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donna e raramente si trova una nota falsa in tutto il libro. Nonostante la sua
natura quasi ossessiva, l’eroina si staglia come un personaggio singolare e
compiuto.
Un ulteriore aspetto del realismo di Saikaku consiste nella sua insistenza
sui dettagli fisici, in particolar modo delle vesti e delle acconciature
femminili. Pur apparendo a volte piuttosto gratuiti, nel complesso finiscono
per creare un’atmosfera di realtà. Anche questo era un aspetto, come
abbiamo già evidenziato, del suo amore per il mondo reale e sensuale.
La principale debolezza dello stile di Saikaku consiste nella scarsa
costruzione dell’intreccio. Questo aspetto risulta particolarmente evidente
nelle sue opere più lunghe, che spesso sono simili a raccolte di racconti, e in
questo possiamo rilevare l’influenza della narrativa medievale tradizionale.
Mentre la maggior parte delle opere di Saikaku presenta una certa unità
tematica, i singoli capitoli o le singole sezioni generalmente sono
indipendenti dal punto di vista della struttura. La costruzione di Saikaku è
indebolita ulteriormente dalla tendenza dell’autore a deviare dal nucleo
tematico con passi lunghi e inessenziali.
Dobbiamo naturalmente evitare di giudicare le opere di Saikaku secondo i
parametri del romanzo moderno. Egli scrisse in un’epoca in cui il genere
non era assolutamente sviluppato, e rispetto ai precursori nel campo del
kana-zōshi, i suoi scritti rappresentano un grande passo in avanti dal punto
di vista della costruzione del testo. Nel considerare la debolezza strutturale
delle opere di Saikaku, dobbiamo ricordare anche l’incredibile velocità con
cui scriveva. Negli ultimi undici anni della sua vita, il «Vecchio dei
ventimila versi» produsse non meno di venticinque volumi di prosa
narrativa – oltre due libri l’anno, senza tener conto della grande quantità di
versi scritti nello stesso periodo. Questo ha inevitabilmente conferito un
carattere incompiuto, non uniforme, a molti dei suoi testi. Scrivendo con
una tale febbrile intensità, Saikaku non poteva certo conferire alle sue opere
la costruzione accurata che avrebbe potuto ottenere lavorando in modo più
lento e metodico.
La sua scrittura è un’insolita commistione di stile classico e colloquiale, e
questo è uno degli aspetti che rende la lettura delle sue opere così ardua per
il lettore moderno. Ciò rivela l’influenza della scuola Danrin di haikai, ma
al tempo stesso si collega all’intento di Saikaku di dare un ritratto realistico
della classe cittadina della sua epoca.

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Il linguaggio di Saikaku è, nel complesso, profondamente personale. I
periodi, insolitamente lunghi (a volte occupano una pagina o più), sono
generalmente composti da frasi brevi della stessa lunghezza. Anche in
questo caso rileviamo l’influenza dell’haikai: le varie frasi all’interno dei
periodi, infatti, sono collegate tra loro in modo molto simile al
concatenamento di haikai all’interno di una serie. La caratteristica
principale del linguaggio consiste nell’essere conciso e sintetico, qualità
nota in Giappone come stile shōryaku (abbreviato). Non solo Saikaku
eliminava all’interno di una frase tutte le parole superflue (e spesso perfino
alcune che sembrerebbero necessarie), ma raramente inseriva parole o
gruppi di parole per collegare una frase alla successiva. Un’altra peculiarità
dello stile di Saikaku consiste nello spezzare la frase con una parola non
declinabile, ad esempio un nome, lasciando così che fosse il lettore a
stabilire la connessione logica tra le diverse parti. La notevole economia di
parole, combinata con la lunghezza e la complessità delle frasi, rendono
ardua la lettura di molte delle sue opere. Eppure, generalmente, se ne ricava
un senso di dinamicità, specialmente se vengono lette a voce alta.

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LE ILLUSTRAZIONI

Tutte le opere in prosa di Saikaku sono riccamente illustrate da disegni in


bianco e nero. L’inserimento di questi disegni non è una novità introdotta da
Saikaku. Le illustrazioni sono un elemento comune dei testi kana-zōshi e
riflettono lo stretto legame esistente tra letteratura, pittura e calligrafia, già
presente nelle opere del periodo Heian come Ise monogatari e Genji
monogatari. I dipinti su rotoli di seta, in particolare lo splendido Genji
monogatari Emaki del XII secolo, furono realizzati come illustrazioni di
romanzi epici o d’amore. Inoltre, molti dei grandi calligrafi misero a
disposizione il loro talento per copiare le relative porzioni di testo su fogli
di carta colorata decorati in modo elaborato; e i rotoli del Genji monogatari
forniscono un esempio straordinario anche di questa tecnica.
Questa tradizionale connessione fra le tre arti proseguì nel periodo
Tokugawa, durante il quale trovò la sua manifestazione principale nello
stretto collegamento tra ukiyo-zōshi e ukiyo-e. Questi ultimi in particolare
sono rappresentati dalle xilografie del «Mondo Fluttuante» che fecero molta
sensazione in Europa alla fine del XIX secolo. Il professor Hibbett ha
sottolineato che gli ukiyo-e, che raggiunsero il loro apice nel XVIII secolo
con le stampe a colori di Harunobu, Sukenobu, Utamaro, Kiyonaga e altri
grandi maestri, furono una diretta conseguenza dello sviluppo delle
illustrazioni di libri noti, come nel caso delle opere di Saikaku. Molti dei
più raffinati artisti delle stampe a colori (tra cui quelli sopra citati)
produssero illustrazioni per libri in aggiunta alle loro opere singole. Il
legame tra scrittura e pittura era talmente stretto che è praticamente
impossibile trovare opere di narrativa di questo periodo che non contengano
illustrazioni. Non erano considerate una decorazione estrinseca, ma parte
integrante dell’opera.
L’artista più famoso che dipinse le illustrazioni per le opere di Saikaku fu
il celebre Hishikawa Moronobu, suo contemporaneo. L’influenza che
questo pittore ebbe sullo sviluppo della xilografia fu pari almeno a quella di
Saikaku sulla prosa del periodo Tokugawa. Nella sua epoca Moronobu era
conosciuto principalmente come illustratore e incisore, e gran parte della
sua produzione era costituita da illustrazioni per opere di narrativa
contemporanea. Tra queste ricordiamo i suoi disegni per l’edizione illegale
del periodo Edo del primo ukiyo-zōshi, Vita di un libertino di Saikaku.

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Ma il principale illustratore di Saikaku fu Yoshida Hanbei, che operò
nella regione di Ōsaka-Kyōto nel periodo compreso tra il 1665 e il 1690.
Scrisse e illustrò due testi sui quartieri di piacere, tema costante dell’ukiyo;
illustrò inoltre metà degli ukiyo-zōshi di Saikaku, una ventina in totale.
Alcuni dei suoi disegni più notevoli furono eseguiti per Vita di una donna
licenziosa. Benché ora il nome di Hanbei raramente venga ricordato, se non
in relazione a Saikaku, durante la sua vita la sua fama nella parte
occidentale del Giappone uguagliava quella di Moronobu nella zona di Edo.
È difficile comprendere le ragioni di una tale popolarità: nei disegni di
Hanbei è presente un piacevole nitore, ma alla sua opera mancano la forza e
l’originalità che resero Moronobu uno dei grandi nomi dell’arte giapponese.
L’altro illustratore di Saikaku è Makieshi Genzaburō, un contemporaneo –
più giovane e più dotato – di Yoshida Hanbei.
Un breve sguardo alle illustrazioni di Saikaku suggerisce l’idea che esse
non abbiano una funzione puramente informativa. Molti dei suoi disegni,
come quelli di Hanbei, servono ad arricchire la nostra visione del mondo
immaginativo dell’autore. In particolare, accrescono la dimensione comica
che abbiamo precedentemente analizzato come un aspetto saliente della
scrittura di Saikaku. Le illustrazioni di Saikaku, come lo stesso testo, erano
riprodotti con il procedimento del cliché in legno; generalmente, nelle
stampe del XVII secolo il colore non veniva utilizzato.
I kōshokubon di Saikaku potrebbero essersi benissimo prestati alle stampe
erotiche, molto popolari alla sua epoca e realizzate dalla maggior parte dei
grandi artisti, come Moronobu. In realtà, nessuna di queste illustrazioni
mostra alcun dettaglio erotico, benché le situazioni ritratte siano spesso
allusive. […]

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LA FORTUNA

La posizione di Saikaku all’interno della letteratura giapponese è stata


individuata in modo definitivo solo in tempi relativamente recenti.
Nonostante il notevole successo riscosso in vita e i numerosi imitatori,
Saikaku non ebbe nessun successore importante nel campo della narrativa
fino a Ueda Akinari, quasi un secolo più tardi – e Akinari, con il suo
interesse per il soprannaturale, era un tipo di autore completamente diverso.
Per gran parte dei secoli XVIII e XIX Saikaku fu totalmente oscurato dagli
altri due grandi scrittori dell’epoca: il drammaturgo Chikamatsu e il poeta
Bashō. I circoli letterari generalmente disprezzavano Saikaku perché non
era stato un vero letterato.
La «riscoperta» di Saikaku, avvenuta verso la fine del XIX secolo, fu
ampiamente ispirata dal carattere realistico della sua scrittura. Sebbene gli
studi su Saikaku siano assiduamente continuati durante i primi decenni del
secolo, fino al 1945 non fu possibile pubblicare le edizioni complete della
sua opera. Negli anni trenta il governo, e in particolar modo i militari,
guardavano con sospetto a Saikaku a causa delle sue presunte tendenze
immorali. L’eliminazione della censura letteraria nel 1945 aprì la strada a
una profusione di ricerche su Saikaku. Tra i fattori che hanno contribuito al
rinnovato interesse per la sua opera, possiamo ricordare l’orientamento
realistico della narrativa giapponese del dopoguerra. Il fatto che la sua
opera riguardasse principalmente la borghesia (contrariamente a quella di
Chikamatsu, incentrata essenzialmente sui samurai), contribuì ulteriormente
a diffonderla in un periodo in cui la democrazia era in auge; abbiamo del
resto già rilevato la propensione piuttosto eccessiva a considerare Saikaku
come uno scrittore antifeudale ed ugualitario.
Sebbene Saikaku sia ora riconosciuto da tutti come uno dei più grandi
scrittori di prosa, la sua opera è ancora poco conosciuta dai giapponesi, in
parte a causa della straordinaria difficoltà della sua lingua e in parte
dell’attenzione continua degli intellettuali giapponesi allo studio della
letteratura europea. Nonostante l’appartenenza a un paese lontano e isolato,
e decisamente ai propri tempi, è prevedibile che la conoscenza dell’opera di
Saikaku, grazie al suo assoluto valore, aumenterà considerevolmente in
futuro.

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(Traduzione di Monica Martignoni)

Il presente scritto è apparso nel 1963 in The Life of an Amorous Woman di Ihara Saikaku, a cura di
Ivan Morris, presso New Directions, che ringraziamo per la cortese autorizzazione a riprodurlo.

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Indice
Copertina
Frontespizio
Colophon
VITA DI UNA DONNA LICENZIOSA
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
Note
POSTFAZIONE di Ivan Morris

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