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IHARA SAIKAKU
VITA DI UNA DONNA
LICENZIOSA
A CURA DI LYDIA ORIGLIA
CON UNO SCRITTO DI IVAN MORRIS
ES
© 2004 ES SRL
VIA SAN CALIMERO 11 - 20122 MILANO
ISBN 9788898401055
In copertina: Kitagawa Utamaro, Giovane donna con gabbia di lucciole, 1795 circa.
«Una bella donna è un’ascia che tronca la vita»1 dicevano gli antichi. È
naturale che prima o poi il corpo sfiorisca e diventi secco come legna da
ardere. Molti sono però gli stolti che si lasciano travolgere dal turbine delle
passioni e si consumano anzitempo fino a morirne. Questa specie di uomini,
purtroppo, è dura a estinguersi. Dovendo recarmi a Saga,2 a occidente della
capitale, il giorno dell’uomo del primo mese,3 mi accingevo ad attraversare
il fiume Mumezu,4 dalle correnti profumate di petali di fiori, un
inequivocabile annuncio dell’imminente primavera,5 quando incontrai due
uomini. Il primo era di bell’aspetto, vestito all’ultima moda, ma come
logorato nel fisico e con il volto pallido, alterato dalle passioni amorose: si
capiva che gli rimanevano ben poche speranze, e che sarebbe probabilmente
morto prima del padre.
«Non posso proprio lamentarmi. L’unica cosa che vorrei è che il liquido
dell’amplesso non si estinguesse mai, come la corrente di questo fiume»
disse. Al che l’amico, stupito, rispose: «Io invece vorrei che ci fosse un
paese assolutamente privo di donne. Andrei subito ad abitarvi, se esistesse,
così la mia vita, che tanto mi è preziosa, durerebbe più a lungo e potrei
contemplare a mio agio le cose di questo mondo che incessantemente
mutano e si trasformano».
Quei due uomini esprimevano opinioni contrastanti sulla vita e sulla
morte, ma che la vita sia breve o lunga dipende solo dal destino:
camminando e discorrendo con passione parevano inseguire, incantati, un
sogno non ancora svanito. La strada si trasformò in un sentiero serpeggiante
alle falde di un monte e finalmente, dopo aver implacabilmente calpestato
piantine di hōfu6 e cardi selvatici appena spuntati, giungemmo all’ombroso
versante settentrionale di una montagna solitaria. Davanti a noi si stendeva
un boschetto di pini femmina in mezzo a cui s’intravedeva un recinto di
lespedeze secche e una capanna la cui porta era difesa da una cortina di esili
bambù intrecciati, con una apertura per lasciar passare il cane.
È proprio perché gli abitanti delle città vanno in giro con un pugnale al
fianco che non scoppiano mai risse o litigi. Se ottemperassero alla legge,16
che concede solo ai samurai di uscire armati, accadrebbe che gli uomini più
deboli verrebbero sempre sopraffatti dalla forza di quelli più imponenti.
Invece, grazie al timore che un pugnale incute, anch’essi possono
tranquillamente inoltrarsi da soli nelle più oscure tenebre della notte. Alle
cortigiane piacciono gli uomini turbolenti, per questo spesso scoppiano liti
sanguinose, irragionevoli, e c’è chi finisce col perderci la vita. Nonostante
fossi una cortigiana, pensavo di continuo che se mi fossi trovata in una
situazione simile non sarei fuggita, giungendo a sacrificar la vita per un
senso di lealtà; ma purtroppo nessuno era disposto a imitarmi e io,
nonostante la mia triste condizione, non avevo il coraggio di morire sola.
Il passaggio da tayū a tenjin mi aveva rattristato, figuratevi poi quello da
tenjin a kakoi a cui fui costretta in quel periodo: mi riempì di costernazione.
Le condizioni in cui dovevo esercitare il mio mestiere erano totalmente
cambiate e, quel che più mi sgomentava, il mio spirito ne era terribilmente
influenzato. Quando mi chiamarono per il primo cliente pensai che, se
volevo far fortuna, non dovevo perdere nessun appuntamento e così, senza
neppure chiedere che tipo di uomo fosse, per il timore che cambiasse idea
lasciandomi inattiva, corsi a riceverlo. E nonostante questo il tenutario mi
criticò ugualmente: “Una kakoi dovrebbe presentarsi subito, insieme con
chi è andata a chiamarla. Una semplice prostituta non deve stare ad
agghindarsi facendo aspettare i clienti. In tal caso, chi volete che le dia le
diciotto monete pattuite? Non gliene daranno neppure nove…” e mi
redarguiva a voce alta con mia grande vergogna. Anche la padrona faceva
finta di non vedermi e non mi rivolgeva neppure la parola. Non sapendo che
fare andai in cucina; lì trovai ad attendermi un ruffiano che parlava il
dialetto di Tanba, e che, con la stessa mano con cui mi faceva segno di
salire al primo piano, mi diede un pizzicotto nelle natiche. Così entrai nel
salone del banchetto già delusa e irritata. Vi era una tayū per ogni ospite di
riguardo, una tenjin accanto a ognuno del seguito e rimanevano quattro o
cinque giovani senza compagnia, in mezzo ai quali andai a sedermi, senza
ben capire a chi fossi destinata. Il mio era l’ultimo posto e il recipiente del
“Contemplo gioiosa gli iris stupendi che avete voluto donarmi”. Questo e
altro sanno scrivere le maestre di calligrafia di Kyōto. In genere, dopo aver
prestato servizio presso una persona importante a corte e aver imparato
l’etichetta e le varie formalità in uso durante l’anno, esse lasciano la corte e
si sistemano definitivamente insegnando in una scuola dove anche le
persone ragguardevoli mandano le figlie. Poiché anch’io, un tempo, avevo
avuto la fortuna di prestar servizio a corte, mi fu facile trovare chi mi
aiutasse ad aprire una scuola di calligrafia. Ero felice di poter vivere in un
alloggio interamente mio; avevo appeso alla colonna dell’entrata uno
striscione con la scritta: “Maestra di calligrafia” e avevo assunto al mio
servizio una donna di campagna. Non avevo a mia disposizione che una
cameretta, ma vi vivevo con il massimo decoro. Seguivo scrupolosamente
le allieve che mi venivano affidate, ogni giorno correggevo diligentemente i
loro saggi calligrafici e insegnavo quelle nozioni di etichetta che anche una
donna è in grado di apprendere. Avevo ormai rinunciato a qualsiasi
riprovevole proposito. Ma un giorno venne da me un giovane nel pieno
fulgore della passione, perché gli insegnassi a scrivere una lettera d’amore.
L’arte delle cortigiane, a cui un tempo mi ero dedicata, mi riusciva anche
ora di grande utilità, forse perché mi aveva rivelato le radici dei rami
intrecciati e del hiyoku.52 Avrei saputo trovare le parole adatte a incantare
qualsiasi donna. Vedevo chiaramente nell’animo delle fanciulle, e anche se
si fosse trattato di una donna esperta delle cose del mondo, avrei trovato il
modo di circuirla. Niente è altrettanto rivelatore dei sentimenti di una
persona quanto una lettera. Anche trovandosi isolati in un paesino di
montagna si può far raccontare dal pennello ciò che si pensa. Una lettera sia
pur elaborata e lunghissima, ma falsa e bugiarda, verrà facilmente
riconosciuta come tale e gettata via senza rimpianto. Invece i tratti di un
pennello veritiero s’imprimono nel fegato53 e suscitano il desiderio
d’incontrare subito l’autore della lettera. Quando lavoravo nei quartieri dei
piaceri, tra i numerosi miei clienti ve n’era uno particolarmente prestante,
che non mi dispiaceva affatto: quando l’incontravo, mi sembrava che il mio
corpo non fosse più quello di una cortigiana, mi concedevo con autentico
abbandono e con la massima naturalezza. Anch’egli non sarebbe stato
CAMERIERA DI UN COMMERCIANTE
Sta scritto che “più numerosi sono e meglio è”,41 ma non c’è niente di più
squallido di una casa piena di polvere e di rifiuti.
A poco a poco la baia e il porto di Naniwa sparirono, quasi fossero
sprofondati, e non si videro più neppure i pali di profondità. La spiaggia
dove gli uccelli della capitale,42 in cerca della terra ferma, catturano le
corbicule era divenuta un campo d’erba. Desiderosi di goderci lo spettacolo
del tramonto sullo Shingawa,43 salimmo tutti e quattro sul battello ancorato
presso lo Shakadō di Tetsugen: eravamo appena usciti di teatro, poco dopo
mezzogiorno. Cominciammo a bere allegramente sake, mentre il battello
oltrepassava lentamente il ponte Ebisu44 e si dirigeva a occidente lungo la
corrente.
Aveva percorso solo una cinquantina di metri quando d’improvviso si
arenò e nessuno sforzo valse a disincagliarlo, facendo così sfumare parte
del divertimento con nostra grande desolazione. Decidemmo di attendere
l’alta marea, e, poiché anche i nostri progetti per il pranzo erano sconvolti,
ci mettemmo a contare con disappunto il numero delle nostre teste e quello
del vasellame a disposizione, a preparare vassoi con vento di valle,45 senza
neppure il condimento di avannotti di pesce gatto, e a distribuirli dicendo:
“Chissà quando arriveremo alle locande di Sangen!46 Ci conviene mangiare
qui”.
Quando le ombre della sera si assottigliarono, vedemmo sopraggiungere
veloci innumerevoli imbarcazioni scoperte a remi. Pensai che dovevano
esser quelle adibite al trasporto dei rifiuti. Era davvero un’ottima cosa, così
si evitava di insozzare il fiume e si favorivano le gite di piacere. Ero assorta
in questi gradevoli pensieri quando mi accorsi che tra i rifiuti di una piccola
imbarcazione affiorava la minuta di una lettera, forse interessante. Tesi la
mano e fortunatamente riuscii ad afferrarla: era stata scritta a Kyōto e
conteneva una buffa richiesta di un prestito in denaro. Lessi: “Ho bisogno di
ottanta monete d’argento e vorrei che me le prestaste in segreto. In cambio
vi consegnerò, fino al saldo del mio debito, la statua del Buddha, opera di
Kōbō Daishi,47 davanti a cui prego mattina e sera. Gli amori mondani
hanno un esito davvero imprevedibile. Dopo aver ingannato così a lungo
quella donna, ho finito per giacerle insieme. Ora ha concepito un bambino e
In quei tempi anche i più miseri abitanti delle città e persino delle
campagne, volendo imitare nei matrimoni lo sfarzo della gente nobile e
ricca, ostentavano un lusso che non corrispondeva alle loro possibilità reali,
e ambivano a un corredo con vesti e suppellettili stupende. Ma queste
usanze dimostravano soltanto che non si riconoscevano più i limiti della
propria condizione. Le madri, poi, con scarso buon senso, si mostravano
fiere delle loro comunissime figlie e insegnavano loro, fin dall’età più
tenera, a truccarsi e a curarsi scrupolosamente, per cui la loro pelle diveniva
di grana più sottile, il loro corpo più liscio e bello, e così ben presto
riuscivano ad attrarre l’attenzione della gente. Era quindi facile che,
incantate dai pettegolezzi sulle compagnie teatrali oppure dalle scene
maliziose di qualche kyōgen, si sentissero infinitamente turbate e
indulgessero in pensieri non del tutto casti. Il che si rispecchiava,
ovviamente, nel loro abbigliamento e pretendevano di portare un obi lungo
un to e due shaku, benché fosse così difficile da annodare. Mentre una volta
la lunghezza di un obi femminile era fissata a sei shaku e cinque sun, in
quei tempi non c’erano più limiti e ci si poteva sbizzarrire con gli obi più
lunghi e appariscenti. Anche le stoffe a stemmi delle vesti a maniche non
troppo ampie erano mutate: si coprivano le macchie bianche della seta
crespata color fiore di ciliegio con bellissimi fili di cento colori, in modo
che sembrasse, almeno da lontano, una raffinata tintura; il che veniva a
costare cinque monete d’oro. Il mondo diveniva così preda del lusso più
sfrenato.
A quel tempo accadde che nel quartiere di Shitateramachi si radunasse
una gran folla per ascoltare la lettura della Cronaca1 del Daibutsu2 del
tempio Tōdaiji di Nara. In quell’occasione vidi, tra le misere maniche,3 una
donna che aveva da tempo oltrepassato l’età del massimo fulgore, di cui
non rimanevano più né fiore né profumo, e che oltre tutto aveva un viso
cavallino e storto: a osservarla bene, di normale non aveva che le orecchie,
perché per il resto era di una bruttezza davvero straordinaria. Però doveva
Sebbene fosse di moda, non potevo soffrire le donne con l’obi annodato
sul dietro e tinto di viola a chiazze bianche solo da un lato.
Purtroppo gli anni passavano anche per me, il mio corpo decadeva e così
mi ridussi a prestar servizio, con un contratto di un anno, come donna di
una saletta da tè.31 Indossavo abitualmente una veste che era già stata
lavata, dalle maniche non molto ampie, e un kimono di cotone, e avevo
l’incarico di sovrintendere alla mensa dei padroni. Non mi davano da
mangiare che riso nero e brodo, per cui a poco a poco la mia pelle perse il
suo primitivo splendore e il mio aspetto divenne decisamente miserevole.
Il mio unico trastullo era entrare nel boschetto,32 di primavera e
d’autunno, quando potevo uscire per incontrarmi con il mio amante segreto.
Mi pareva d’essere come quella Orihime33 nel suo unico giorno. Che
felicità nell’attraversare il ponticello d’assi di fronte al portone di servizio!
Uscivo a passi veloci, insolitamente elegante, con una veste di seta gialla e
un’altra di seta monjima34 indossate ben aderenti l’una sopra l’altra, un obi
imaori a fondo blu annodato sul dietro, e su questo una stretta fascia viola, e
con i capelli acconciati nella foggia hanemotoyui, la fronte depilata a forma
di lanterna,35 le sopracciglia disegnate in alto con decisione, uno zukin36 di
seta nera che mi lasciava scoperti solo gli occhi, ed ero seguita da un
vecchio servo che mi portava la sacca da viaggio.37 Dentro vi mettevo le
porzioni risparmiate di riso, tre shō e quattro o cinque gō, pezzetti di coscia
di gru salata,38 una scatola di legno di cedro con dolci.
Un giorno di quelli, non appena oltrepassammo la porta di Sakurada,39
trassi dalle maniche alcuni spiccioli e li diedi al vecchio per ricompensarlo
del suo servizio, dicendogli: “Sono pochi, ma forse basteranno per qualche
boccata di fumo”; al che lui: “Vi ringrazio, ma non posso accettare, nel
modo più assoluto. Vi accompagno perché me l’hanno ordinato. Se fossi
rimasto a casa, avrei dovuto andare ad attingere l’acqua. Non
preoccupatevi” e, con cortesia insolita in un servo, li rifiutò. Ci lasciammo
alle spalle le case di Marunouchi e ci dirigemmo verso il centro: io lo
seguivo quanto più velocemente le mie gambe di donna me lo
permettevano, tutta trafelata, ma il vecchio servo, invece di dirigersi alla
locanda di Shinbashi,40 mi fece fare quattro o cinque volte il giro degli
Uscivo a passi veloci, insolitamente elegante, con una veste di seta gialla e un’altra di seta
monjima indossate ben aderenti l’una sopra l’altra, un obi imaori a fondo blu annodato sul dietro, e
Anche per una donna nulla è più divertente del cambiare continuamente
lavoro. Avevo prestato servizio per lungo tempo a Edo, a Kyōto e a Ōsaka,
ma dall’inizio della stagione di settembre mi trasferii a Sakai,47 nel Senshū,
pensando che in quel luogo avrei potuto sperimentare qualcosa di nuovo.
Mi rivolsi dunque a un procacciatore di nome Zenkuro, che abitava sul lato
destro di una strada chiamata Nakabama, nel quartiere di Nishiki no chō.
Gli pagavo una pensione di sei bu al giorno; finalmente si presentò una
vecchia serva in cerca di una cameriera per la camera da letto di un signore
che abitava nella strada principale della città, con l’esclusivo compito di
preparare e poi riporre il necessario per la notte. Non appena mi vide
esclamò: “Ma costei ha esattamente l’età richiesta, ed è di una bellezza
fuori del comune, senza il minimo difetto; è proprio la cameriera che
speravo di trovare!”, e senza neppure pretendere un anticipo mi portò via
con sé. Per tutta la strada mi fu prodiga di preziosi consigli. Aveva un brutto
viso, ma doveva essere di sentimenti gentili e io l’ascoltavo con la massima
attenzione, pensando che in questo mondo non tutti erano malvagi. Mi
disse: “La prima signora è gelosissima e non vuole che noi si parli neppure
con i garzoni dei negozi; naturalmente non si deve mai accennare ad
argomenti amorosi, e anche se le gru fanno qualcosa di strano, bisogna
fingere di non averle viste. E poiché appartiene alla setta hokkeshū,48 non si
deve mai recitare in sua presenza il nenbutsu. Ha un gatto bianco con un
collarino prezioso a cui è molto affezionata e che non bisogna rincorrere
neppure se ruba il pesce. La seconda signora è sfacciata e prepotente. Si
chiama Shun ed era la cameriera della prima moglie defunta. Solo quando
lei morì per una polmonite il signore l’elevò al grado che attualmente
detiene. Nonostante le sue umili origini è oltremodo capricciosa, e quando
va in portantina pretende che la si copra con una trapunta. È strano che
nessuno le abbia ancora detto il fatto suo”. E continuò imperterrita con altre
maldicenze che io ascoltavo con rassegnazione. “In genere in tutti gli altri
posti si mangia riso rosso49 mattina e sera, da noi invece si mangia riso
della riserva celeste50 di Banshū, e possiamo avere quanta salsa vogliamo,
perché il figlio del signore ha un negozio di sake.51 In casa c’è sempre
acqua calda per il bagno, per cui è un peccato non approfittarne. Il primo
L’andamento della casa, visto dal di fuori, non era diverso da quello abituale a Kyōto, e invece
all’interno c’era una grande animazione. I servi erano occupati a far girare mortai alla cinese e le
serve a confezionare calze pieghettate.
Quelle che chiedevano sei monete d’argento per notte erano chiamate
yobukodori e quindi denjūjo.18 Una volta chiesi perché avessero dato loro
quel soprannome e mi fu risposto che era perché le donne addette ai bagni
venivano chiamate scimmie. Le loro abitudini e i loro costumi erano
pressoché uguali in tutto il paese. Si lavavano tutti i giorni, si pettinavano
secondo l’acconciatura shimada bassa, con un largo nastro annodato a
quadrifoglio, dalle estremità incurvate e con un pettine grosso come un
tagliere. Si preparavano per la sera coprendo con la cipria le imperfezioni
della pelle, applicando il rossetto senza parsimonia, annodandosi
frettolosamente da sole i lacci di seta di Kaga ormai color topo, indossavano
poi una veste estiva increspata a cinque disegni, oppure con le maniche a
scacchi, così stretta da fasciar le gambe, con un obi Porta del Drago piegato
due volte: e così agghindate sostavano a turno nei corridoi. Non appena
entrava un cliente si precipitavano a salutarlo con un suadente: “Entrate”,
chiamandolo per nome se lo conoscevano; lo accompagnavano nel bagno, si
sedevano su una stuoia, mentre un’altra donna, che stava sull’orlo della
vasca, si avvicinava a lui e gli chiedeva, anche se non l’aveva mai veduto
prima: “Siete andato a teatro oggi? Oppure venite dal quartiere dei piaceri?”
affinché tutti sentissero. Quello allora, per stolta vanità, estraeva dal
portafazzoletti alcune lettere di cortigiane affermando che lo stile delle tayū
aveva qualcosa di eccezionale. Secondo lui erano state scritte dalle tayū
Ogino (Prato di Giunchi), Yoshida (Buon Campo), Fujiyama (Montagna di
Glicini), Izutsu (Orlo del Pozzo), Musashi,19 Kayohiji (Stradina
Frequentata), Nagahashi (Lungo Ponte), Sanshu (Tre Barchette), Kotayū
(Piccola Tayū), Mikasa (Tre Cappelli), Tomoe (Vortice), Sumino, Toyora,
Yamato, Kasen, Kiyohara (Pianura di Purezza), Tamakazura (Rampicante
Preziosa), Yaegiri (Densa Nebbia), Kiyohashi (Ponte di Purezza),
Komurasaki (Erbetta Porporina), Shiga: invece erano senza dubbio opera di
una qualsiasi hashitsubone Yoshino; ma era come dar da fiutare dell’aloe a
un cane, nessuna sarebbe stata in grado di capire. Anche l’esibire spilloni
con stemmi di tayū e di tenjin del tutto sconosciute era un’astuzia
vergognosa; scusabile, però, se si pensa che per un giovane era difficile
procurarsi il denaro per soddisfare la propria lussuria, per cui tutti
…vi erano un gran numero di locande superiori e inferiori dove lavoravano, con l’incarico di
intrattenere i clienti, donne chiamate Foglie di loto. Erano scelte tra le più graziose inservienti di
cucina e indossavano una kosode di cotone leggero, una veste blu a tinta unita, un largo obi nero e un
grembiule rosso…
Era un giorno tiepido e sereno, uno di quei giorni in cui anche i cuori
degli uomini sembrano schiudersi alla primavera. Io, dopo aver attraversato
Anche i glicini erano appassiti, ed era una visione davvero triste. A tratti si sentiva la voce delle
campane che ricordava l’impermanenza del mondo: era il taiko nenbutsu, e le nuvole serotine si
scioglievano a occidente quasi che lì vi fosse il paradiso della Pura Terra…
Ormai avevo esaurito tutti i mestieri possibili per una donna, così mi
ritirai nel mare dell’amore in cui si levano le onde della vecchiaia, a Tsu no
Kuni,21 nel quartiere dei piaceri di Shinmachi, dove, grazie a una persona
amica a cui avevo dimostrato la mia esperienza in materia, riuscii a trovar
lavoro come sorvegliante di cortigiane; una condizione davvero indecorosa,
se paragonata al mio antico stato. Dal mio abbigliamento era facile intuire
quale fosse la mia condizione: indossavo un grembiule rosa, un obi di
media grandezza annodato sul fianco sinistro da cui pendeva un mazzo di
chiavi, tenevo la parte posteriore della veste sollevata infilando una mano
attraverso l’apertura dello scollo e portavo uno scialle annodato in testa.
Camminavo silenziosamente, severa in volto, più di quanto in realtà non
fossi, per incutere soggezione a tutti. Avevo una grande autorità sulle tayū e
riuscivo a scaltrire anche le più ingenue, che così riuscivano a adescare e a
piacere ai clienti; lavoravo instancabilmente nell’interesse dei padroni.
Conoscevo fin troppo bene i trucchi delle cortigiane e non c’era un incontro
segreto che mi sfuggisse; le tayū mi temevano e incutevo soggezione anche
ai clienti, che si premuravano di darmi due monete senza neppure attendere
la fine dell’anno, con lo stesso sentimento di chi lascia i soldi al diavolo per
il Traghetto.22 Era però naturale che, così invisa a tutti, non potessi durare a
lungo. Mi odiavano, ed era per me veramente gravoso rimanere in quella
casa, per cui mi trasferii in un retrobottega alla periferia di Tamatsukuri,23
un agglomerato di casupole, un luogo isolato e solitario, dove anche di
giorno volavano i pipistrelli. Avevo venduto anche l’ultima veste rimastami,
per cui ero costretta a rompere le assi delle mensole per farne legna da
ardere, e non avevo da metter sotto i denti che fagioli bolliti nel brodo
avanzato dal giorno precedente. E quando di notte, fra gli scrosci di pioggia,
cadeva uno spaventoso fulmine, mi auguravo che avesse la pietà di
colpirmi. Avrei rinunciato alla vita senza alcun rimpianto, essendo ormai
stanca di questo Mondo Fluttuante. Avevo sessantacinque anni, ma ne
dimostravo solo una quarantina, grazie alla finezza della pelle e all’esilità
della corporatura, eppure non ero affatto compiaciuta di me stessa. E poi, un
giorno in cui, affacciata alla finestra della mente, ricordavo tutte le vicende
amorose della mia vita, vidi apparire delle figure infantili con foglie di loto
CAPITOLO PRIMO
1 Massima tratta dal Lü-shih ch’un-ch’in (Primavere e autunni del signor Lü), antologia cinese
compilata durante la dinastia Ch’in (249-207 a.C.) da un gruppo di studiosi diretto dallo statista Lü
Pu-wei (morto nel 235 a.C.).
2 Pianura che si estende a sud-ovest di Takao, famosa per i suoi templi e per il bellissimo,
malinconico paesaggio. Vi si rifugiarono, in suggestivi romitaggi, i poeti Fujiwara-no Sadaie (1162-
1241) e Abutsuni (?-1283), l’autrice del Diario della sedicesima notte. Nel tempio di Nonomiya,
ricordato nella Storia di Genji e nel dramma omonimo, si ritiravano, per tre anni di «purificazione»,
le principesse di stirpe imperiale designate dalla sorte a divenire sacerdotesse del tempio shintoista di
Ise. Nella medesima pianura di Saga trovò rifugio, in una casa nascosta dai pini, la bellissima Kogō,
infelice favorita dell’imperatore Takakura (1161-1181), come è descritto in un famoso episodio del
romanzo epico Heike monogatari.
3 Settimo giorno del primo mese del calendario lunare, così come Shuo Tung-fang (autore del ii
secolo d.C.) decretò in un libro sull’arte divinatoria: «Il primo giorno si traggono auspici dai volatili,
il settimo giorno dagli uomini e l’ottavo dai cereali». In questo giorno si celebrava in Giappone una
delle cinque grandi feste stagionali (gosekku).
4 Appellativo del fiume Katsura nel tratto in cui attraversa il villaggio di Mumezu, all’inizio della
pianura di Saga. In questa località, nel XII secolo, entrò nella vita religiosa il diciannovenne
Takiguchi Tokiyori, discendente di una famiglia di nobile tradizione guerriera, per amore della dama
Yokobue, che il padre e il suo signore feudale gli avevano proibito di sposare.
5 Il capodanno, secondo il calendario lunare cinese, ricorreva sovente nel nostro mese di febbraio e
segnava l’inizio della primavera. Nel quinto giorno del quinto mese di ogni anno veniva celebrata
con grande solennità la festa della Primavera, che era dedicata ai bambini. Iris, infatti, si pronuncia
«shōbu», che significa anche «spirito marziale».
6 Erba della famiglia del prezzemolo, che cresce generalmente nella sabbia; si adorna, in estate e
in autunno, di fiori bianchi e di gemme commestibili. Le radici hanno proprietà medicinali.
7 In Giappone si è soliti incanalare l’acqua di piccole sorgenti o di ruscelli in canne di bambù
tagliate a metà e sostenute da un perno al centro. Quando l’acqua ha riempito il recipiente terminale,
la canna si abbassa, colpendo la pietra sottostante, e in tal modo il recipiente si svuota e torna nella
posizione primitiva.
8 È la tipica larga fascia di seta pesante annodata all’altezza della vita, la parte più decorativa e più
preziosa del kimono femminile. Viene usata anche dagli uomini, ma in dimensioni più ridotte e con
poche decorazioni. Ai tempi di Saikaku, però, coloro che volevano dimostrare eleganza ne
ostentavano di assai vistose, come le stampe dell’epoca testimoniano.
9 Obi di tessuto con disegni di fiori di corniolo cinese.
10 Letteralmente: «nuovo suono». È un bastoncino di legno profumato da bruciare, così chiamato
per analogia con i versi di una poesia dell’antologia Kinyōshū: «Meraviglioso è l’uccello che
subitamente canta: ogni volta che l’odo, la sensazione ho di un nuovo suono». Anticamente i
1 Detta anche Shūjaku: strada costruita nel sesto mese del 1670 per mettere in comunicazione la
strada provinciale di Tanba con la porta del quartiere di Shimabara.
2 Capoluogo della provincia di Ōmi sul lago Biwa, distante pochi chilometri da Kyōto. Era famosa
per i suoi allevamenti di cavalli da carico e per la produzione pittorica popolare nota come ōtsu-e.
3 Letteralmente: «quattro to», misura corrispondente a 18 litri circa.
4 Località a settanta chilometri dall’odierna città di Niigata.
5 Erano famose case di appuntamenti di Shinmachi.
6 Nome di famose tayū. La prima tayū di nome Yoshino nacque nel 1601 e morì nel 1631. Il suo
vero nome era Matsuda Tokuko: figlia di un samurai del Kyūshū, rimase orfana in tenera età e fu
allevata da un tenutario di Shimabara. Dotata di grande intelligenza, eccelleva nella poesia, nell’arte
del tè e nella composizione dei fiori. Suscitò una immensa passione nel giovane, ricco e colto Haiya
Jōeki (1610-1691), il quale pagò il suo riscatto e la volle sposare. La cortigiana a cui si accenna è,
tuttavia, la seconda Yoshino; in suo onore ogni anno, in aprile, quando fioriscono i ciliegi, le tayū che
ancora vivono a Shimabara sfilano davanti alla sua tomba custodita nel recinto del tempio di Jōshōji,
e compiono il rito della cerimonia del tè.
7 Ventaglio rotondo formato da un manico di legno laccato o d’avorio e da novanta sottilissime
stecche di bambù su cui è incollata una carta dipinta, spesso nello stile della scuola dei Kanō.
8 Trapunta che si stende direttamente sul pavimento di stuoie. D’inverno se ne usano due, una
come materasso e una come coperta. Le tayū avevano diritto a tre futon, le tenjin solo a due, le kakoi
solo a uno.
9 Inserviente incaricata di sorvegliare le camere, preparare i letti e portare il tè.
10 Anche oggi si usa l’espressione stranamente omofona di «mama-san».
11 Era giorno di festa e di riposo per le cortigiane che ricevevano doni dai clienti abituali.
12 Si avvolgeva il testo in una carta con disegni stabiliti dall’etichetta e quindi in un foglio grande.
Era il sistema usato per le lettere ufficiali.
13 Oltre che per masticarne le foglie aromatiche, era anche acquistato per tisane corroboranti dello
stomaco, diuretiche e vermifughe.
14 Farse che si recitavano negli intervalli dei drammi nō.
15 Novembre.
16 Nel 1668 fu promulgato un decreto che riservava ai soli samurai la facoltà di portare le due
spade e ne faceva veto a tutti gli altri cittadini. In seguito, però, fu permesso di girare con una corta
spada alla cintola.
17 Le persone di rango si recavano nei quartieri dei piaceri in compagnia di attori del teatro nō, la
gente comune insieme al parrucchiere.
18 Vicolo malfamato di Kyōto, vicino alla porta occidentale del tempio di Yasaka.
19 Altra zona frequentata da prostitute, al confine con la strada Shijōdori.
20 Letteralmente: «nigate», mani amare. Si pensava che le mani di alcune persone avessero il
potere di rendere amaro il sapore delle patate che toccavano, di immobilizzare i serpenti e di curare i
1 Periodo rituale del calendario cinese d’ispirazione taoista, che segnava il cambiamento di
stagione. Vi erano quattro doyō durante l’intero anno e ognuno durava diciotto giorni, tranne nei casi
in cui vi fosse un giorno infausto (un «giorno del cane» nel quinto mese, un «giorno della tigre» nel
sesto, settimo, ottavo e nono mese, un «giorno del bue» e un «giorno del cavallo» nel decimo mese),
per cui il periodo durava diciannove giorni. Secondo una tradizione popolare un doyō di diciannove
giorni annunciava un’estate caldissima.
2 La tradizione vuole che sul monte Togakushi (odierna prefettura di Nagano) vivesse un asceta
della setta buddhista kegon, chiamato Kyūhōbō, il quale esercitava la levitazione e poteva sollevarsi a
circa un metro da terra. Aveva insegnato il metodo a un suo discepolo, conosciuto con il soprannome
di Sanshakubō (bonzo di tre shaku) che, dopo la sua morte, fu venerato dagli abitanti dei villaggi del
monte Akiba, nell’odierna prefettura di Shizuoka, come un Tengu (Genio dal lungo naso e dalle ali di
pipistrello). Il principale fautore di questo nuovo culto fu giustiziato nell’estate del 1686 per atti di
stregoneria. Lo shaku equivale a circa un terzo di metro.
3 Costava poco, ma emanava un odore sgradevole.
4 Tempio al centro di Kyōto, nell’animata strada Shinkyōgoku. Il tempio originale fu trasferito da
Nara a Fukakusa, da qui a Muromachi, in Kyōto, e da ultimo, per ordine di Toyotomi Hideyoshi, in
quella che è la sua sede attuale. Gli edifici principali furono distrutti da più di dieci incendi e oggi
non ne rimangono che la foresteria, il padiglione delle udienze e la campana.
5 Carta ottenuta dalla bollitura della scorza di tenero bambù e di gelso. Era particolarmente spessa
e pesante e veniva usata per dipinti, rilegature e finestre scorrevoli.
6 Fu probabilmente un animatore di banchetti abitante a Gion, quartiere di Kyōto situato in
prossimità del tempio shintoista di Yasaka. In antico era un luogo solitario, in seguito, però, alla
costruzione dei vicini templi di Chion’in e di Kiyomizu vi sorsero numerose case da tè nelle quali
giovani ragazze, vestite con il kimono dalle lunghe maniche (furisode), che indossavano anche le
fanciulle di buona famiglia, e con un grembiule rosso, offrivano il tè agli avventori e li intrattenevano
suonando il samisen (hikiko) o danzando (maiko). Il compito di rallegrare più intimamente i clienti
era invece affidato a donne più mature. Mentre il quartiere di Shimabara, col passare del tempo, ha
perso molto del suo primitivo prestigio, quello di Gion, grazie anche al turismo, è in attività sempre
crescente.
7 Uno dei più celebri paesaggi presso Sendai, nel nord-est del Giappone. Famosa per la baia
disseminata di innumerevoli isolotti ricoperti di pini.
8 Montagna coperta di pini ricordata nella poesia della raccolta Kokinwaka-shū: «Se il mio
sentimento è falso, se ti abbandonerò, che le onde sommergano Sue no Matsuyama».
9 Località tra Sendai e Matsushima. Vi sorgeva un famoso tempio shintoista abbellito da Date
Masamune nel 1607.
10 Monte di un’isoletta antistante la penisola di Ojika, non lontano dalla baia di Matsushima.
11 Specie di gioco della dama.
12 Ogni anno, da aprile a settembre, alcuni ferventi buddhisti compiono un pellegrinaggio a piedi
dal monte Kumano al monte Kazuraki e dalla vetta Ōmine del monte Yoshino. L’usanza, di origine
cinese, fu inaugurata in Giappone da un eremita noto con il nome di En no Gyōja, fondatore
nell’epoca di Nara (710-784) della setta degli yamabushi, gli eremiti erranti delle montagne. In antico
1 Engi. Cronache in cui erano annotati tutti i particolari riguardanti avvenimenti di portata socio-
religiosa.
2 Colossale statua di bronzo ricoperta d’oro di Roshanabutsu (in sanscrito Vairocana), alta circa
sedici metri ed eretta nell’viii secolo.
3 Significa misere vesti.
4 Era ritenuto dalla geomanzia cinese la direzione più fausta verso cui orientare i locali più
importanti della casa.
5 Regione a nord di Kyōto, sul Mar del Giappone, a nord della provincia di Tanba. I pesci di Tango
si regalavano a capodanno.
6 Odierna prefettura di Ishikawa, nel nord del Giappone. Gli sgombri ivi pescati venivano
consumati specialmente durante le feste dell’O-Bon. Si veda la nota 22 del capitolo quinto.
7 Incavo del pavimento in cui d’inverno si sistema un braciere sopra cui si dispone un basso
tavolino, in modo da potersi sedere allungando le gambe verso il calore.
8 Isola compresa tra due bracci del fiume Yodo, che in quel punto prende i nomi di Tosabori e
Dōjima.
9 Regnò dal 749 al 758. Probabilmente Saikaku fa riferimento a un’erronea tradizione popolare. Il
codice dell’abbigliamento femminile fu redatto nel 719 dalla quarantaquattresima imperatrice
Genshō e riveduto nel 725 dal quarantacinquesimo imperatore Shōmu.
10 Letteralmente: «piccole maniche». Si trattava di vesti con maniche non più larghe di trenta
centimetri. Erano generalmente di seta e decorate a motivi pittoreschi o ricamate o trapuntate di
sottilissime lamine d’oro o d’argento. Con gli anni questo costume andò evolvendosi nell’attuale
kimono.
11 Pianticella simile a quella dell’iris, ma senza un fiore ugualmente vistoso, che cresce tra le
pietre sulle sponde dei fiumi. Si usava conservarne i bulbi in un vassoio colmo d’acqua per poter
godere, in estate, della vista delle loro foglie di un verde intenso.
12 Tè verde delle colline intorno al fiume Abe, nell’odierna prefettura di Shizuoka.
13 Polpettine dolci di farina di riso e sake dolce con ripieno di marmellata di fagioli rossi. A Edo
erano la specialità della pasticceria Tsuruya (La Casa della Gru), situata in prossimità del popolare
tempio della dea Kannon, nel quartiere dei piaceri di Asakusa.
14 È una delle sette verità sul dolore dell’insegnamento del Buddha, le altre sei sono: nascita,
vecchiaia, malattia, morte, incontro con una persona o una cosa aborrita, desiderio non soddisfatto.
15 Costruzione rettangolare situata a un lato della dimora del daimyō e fungente da caserma per i
samurai.
16 Così si chiamava chi aveva una carica inferiore a samurai e superiore a inserviente.
17 Pesci pescati in una baia di Shibaura, a Edo.
18 Letteralmente: «tsukegi». Bastoncini di legno di cipresso con la punta cosparsa di zolfo. Non
servivano come zolfanelli, ma semplicemente come stoppini.
19 Sgorga dalla collina Otowa, nel recinto del tempio di Kiyomizu a Kyōto.
1 Zona del quartiere di Higashiyama. Il nome, muro di pietra, deriva dai lavori per ricostruire gli
argini del fiume Kamo effettuati tra il 1668 e il 1670. Vi si trovavano molte case da tè.
2 Probabilmente nome di una cortigiana che lavorava in una casa da tè di Ishigaki.
3 Kurumiya, nome di una casa da tè.
4 Il poeta cinese Su Tung-p’o. I versi riferiti, però, non gli appartengono.
5 Fu uno dei quattro più famosi animatori di banchetti dell’epoca. Gli altri tre, Kagura
Atsuzaemon, Ranshū Yozaemon, Ōmu Kichibei vivevano anch’essi a Kyōto.
6 Tempio shintoista situato alle pendici di una collina della catena dei monti Orientali, nel
quartiere di Gion. Fondato nel IX secolo, vi si venera una divinità che avrebbe in antico debellato
numerose epidemie.
7 Tempio alle falde del monte Higashiyama, vicino al parco Maruyama e al quartiere di Gion. Ora
è completamente distrutto e al suo posto sorge una gigantesca statua di cemento della dea Kannon, in
memoria dei caduti dell’ultima guerra.
8 Paraventi di qualità scadente, i cui disegni erano stampati.
9 La frase è tratta dal famoso jōruri, Yotsugi Soga di Chikamatsu Monzaemon: «Volenti o nolenti,
mattino e sera si lavora nonostante il dolore dei tristi guanciali che ogni notte mutano».
Jōruri è un tipo di ballata per lo più a sfondo tragico all’origine del teatro popolare (sia il kabuki
sia quello dei burattini). Pare sia stato iniziato da Sugiyama Shichirōzaemon, funzionario provinciale
di Tango, il quale divulgò le sue composizioni fino al 1661. Nel 1672 gli succedette il figlio, che
continuò l’attività paterna fino al 1682.
10 Letteralmente: «otto sun e cinque bun». Misure di manica di moda a quei tempi.
11 Polpette di riso bollito e condito con aceto, contenenti pesce crudo e verdure e sovente avvolte
da una striscia di alga secca, specialità ancor molto apprezzata dai giapponesi.
12 Letteralmente: «trecento moku».
13 Proverbio significante che non tutti i gusti sono uguali.
14 Letteralmente: «di fronte alla porta». Quartiere di case, abitate da concubine, che sorgeva di
fronte alla porta del tempio di Chion’in, a Kyōto, sede della setta della Pura Terra. La porta, la più
grande del Giappone, fu eretta nel 1619 dal secondo shōgun Tokugawa.
15 Famosa tayū comprata da Ōsakaya Tarōbei.
16 Tazze di porcellana, di terracotta, teiera di bronzo, scatolette per conservare il tè e innumerevoli
altri oggetti fabbricati a imitazione di quelli antichi.
17 Canzoni cantate con accompagnamento di samisen.
18 Gioco di parole: lo yobukodori (uccello che richiama i piccoli) era uno dei tre uccelli della
tradizione (denjū). C’era chi lo identificava con il cuculo e chi invece con la scimmia, la quale,
abitando e dormendo sui rami, era considerata dagli antichi quasi un uccello. Da qui il nome denjūjo
(donna della tradizione) riferito alle donne che lavoravano nei bagni e grattavano lo sporco dei clienti
come fanno le scimmie.
19 Questo e gli altri nomi che non hanno un significato particolare designavano la località da cui la
cortigiana proveniva e da cui era contraddistinta.
1 Processione di monaci che giravano per città e paesi percuotendo il tamburo e recitando il
nenbutsu, secondo una consuetudine iniziata dal monaco itinerante Ippen (1239-1289).
2 Bacchette di legno che segnano il ritmo della musica.
3 Campanelle che si percuotevano con una verga.
4 Bambolotto di legno in cui solo la testa era accuratamente lavorata e rifinita.
5 In Giappone vige ancora il sistema dell’adozione di persone adulte, frequente nel caso di mariti
di figlie uniche di grandi famiglie. L’uomo assume il cognome della moglie ed entra a far parte della
nuova famiglia non solo come genero, ma come figlio.
6 Grosso bottone che trattiene all’obi gli oggetti che si usa appendervi, quali la scatola per il
sigillo, la tabacchiera, il pennello portatile, la scarsella. È spesso artisticamente intagliato in materiali
preziosi: corallo, ambra, agata, avorio o legno pregiato.
7 Pavesava la casa nei giorni di festa.
8 Uno dei nomi del celebre personaggio Minamoto no Yoshitsune, eroico condottiero della storia
giapponese, vincitore dei Taira nella famosa guerra di Genpei (1181-1185). Le sue gesta sono state
celebrate in romanzi, drammi e jōruri, una ballata generalmente di carattere tragico.
9 Specie di tavola reale: su una scatola su cui sono dipinte dodici righe su un lato e dodici su un
altro si dispongono dodici pedine bianche e dodici pedine nere. Si buttano i dadi per sapere quanto
debbano avanzare. Chi entra per primo nel territorio dell’avversario vince.
10 Letteralmente: «maniche ondeggianti». Veste elegante indossata dagli adolescenti, con lunghe e
ampie maniche interamente scucite da un lato. A diciannove anni i ragazzi e le fanciulle, fossero
scapoli, nubili o sposati, dovevano cucirle. Si veda anche la nota 15 di questo capitolo.
11 Lacci che tenevano unite le lamelle delle armature.
12 L’Ise jingu, immerso in un bosco secolare, è diviso in geku (tempio esterno), dedicato alla dea
delle messi Toyouke no kami, e in naiku (tempio interno) in cui si conserva lo specchio sacro,
simbolo della dea del sole Ama-terasu-ō-mi-kami. Tra i due templi, distanti circa sei chilometri,
erano sparpagliate le locande e le case da tè di Furuichi, destinate a ristorare i pellegrini.
13 Vesti appartenenti alle tayū che vivevano a Shimabara prima del 1641, quando il quartiere era
ancora situato a Rokujō Misujimachi.
14 Ai no yama è il nome di una collina che sorge tra il tempio esterno (geku) e il tempio interno
(naiku). La canzone di Ai no yama (ainoyama bushi) è una triste melodia che i mendicanti cantavano,
accompagnandosi con il samisen e il sasara.
15 Letteralmente: «apertura di lato». Così si definiva la scucitura delle lunghe maniche della veste
che caratterizzava l’età giovanissima di chi la indossava. A diciannove anni, infatti, le maniche
venivano cucite.
16 Cittadina a pochi chilometri dai templi di Ise.
17 Nella preparazione delle ciprie dell’epoca venivano generalmente usati anche il mercurio o il
piombo, che causavano pericolose intossicazioni.
18 Nome di una grotta della collina Takakurayama, a sud del tempio esterno, così chiamata in
ricordo della mitica grotta in cui si nascose, gettando il mondo nelle tenebre, la dea del Sole Ama-
Quando Ihara Saikaku nacque a Ōsaka nel 1642, la carica di shōgun era
detenuta dalla famiglia Tokugawa da quasi mezzo secolo e si erano ormai
configurati modelli essenziali che avrebbero dominato il Giappone fino alla
«rivoluzione imperiale» del 1868.
Alla metà del XVII secolo, mentre in Occidente potenti monarchie erano
succedute alle istituzioni feudali, in Giappone una forma centralizzata di
feudalesimo stava raggiungendo la sua fase culminante. Dopo quasi
trecento anni di lotte politiche e di ricorrenti guerre civili, la famiglia
shōgunale dei Tokugawa riuscì a creare e a mantenere un sistema che donò
al Giappone due secoli e mezzo di pace pressoché ininterrotta.
Il governo Tokugawa realizzò l’unità del paese con un potere
centralizzato nel contesto di un sistema feudale in cui i vari signori
(daimyō) conservarono l’autonomia all’interno dei loro feudi. La sovranità
restava nelle mani dell’imperatore, considerato di origine divina e fonte
spirituale di ogni potere, e la capitale era ancora Kyōto. Il ruolo
dell’imperatore era tuttavia puramente formale, e Kyōto era il centro
dell’aristocrazia, dell’eleganza e delle raffinatezze artistiche tradizionali,
ma non del potere. La vera autorità era nelle mani dello shōgun Tokugawa,
il supremo signore feudale, che aveva il suo castello a Edo; e fu Edo
(l’odierna Tōkyō) a dare il proprio nome al periodo compreso tra l’inizio
del XVII e la metà del XIX secolo.
La vita di Saikaku (1642-1693) coincise con la crescente affermazione del
potere centralizzato del governo feudale dei Tokugawa. Come si è detto,
questo governo mantenne a lungo il paese nella stabilità e nella pace, sia
pur ricorrendo a spie, informatori, censura, leggi intimidatorie, ossia a tutto
l’apparato su cui si reggono i moderni stati polizieschi. Quasi tutti gli
aspetti più significativi della politica dei Tokugawa si basavano sulla
precisa volontà di preservare la situazione esistente, perpetuando così la
propria supremazia. Il principale pericolo consisteva nella possibilità che
signori feudali dissidenti si coalizzassero tra loro, ma il governo centrale
riuscì a evitarlo preservando le proprie forze, isolando e indebolendo quelle
dei potenziali rivali.
Ma in realtà il denaro non era l’unica chiave del successo che un uomo
poteva riscuotere nei quartieri di piacere. Il gusto estetico, una forma di
raffinatezza mondana nota come sui o tsū, la prodezza sessuale e una
profonda conoscenza del cerimoniale erano qualità altrettanto importanti.
Questi erano tutti campi in cui il chōnin rivaleggiava con chi stava al di
sopra di lui in linea teorica, e nelle «città senza notte» era in grado di
realizzare un’uguaglianza sociale impossibile altrove.
Il ritratto più conosciuto di Saikaku giunto fino a noi è del poeta della
scuola Danrin Haga Isshō. Mostra lo scrittore negli ultimi anni della sua
vita: un uomo tozzo, dalla testa rasata, vestito con abiti formali e seduto
cerimoniosamente sul pavimento. Si è subito colpiti dalle sue enormi
orecchie, dallo sguardo intenso, dalle sue mani minuscole; ma l’impressione
principale che suscita è quella di un uomo intelligente, dal carattere forte,
un uomo dall’espressione pronta e cinica, e al tempo stesso pieno di vita,
dotato di uno spirito e di un’acutezza eccezionali.
Il presente scritto è apparso nel 1963 in The Life of an Amorous Woman di Ihara Saikaku, a cura di
Ivan Morris, presso New Directions, che ringraziamo per la cortese autorizzazione a riprodurlo.