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DISTOPIA

Le distopie, come la fantascienza, immaginano un mondo diverso da quello reale e


dunque rientrano nell’ambito della fiction speculativa di cui abbiamo parlato. Rispetto alla
fantascienza la distopia segue degli schemi diversi nell’immaginare un mondo narrativo
alternativo a quello reale ma come fa la fantascienza stessa, attraverso questo
meccanismo della costruzione di un mondo alternativo, cerca di far riflettere il lettore sulle
domande presenti nel mondo reale. Guarda altrove, spesso al futuro, per condurre
comunque un discorso sul presente. È un genere letterario positivo: nasce dal
ribaltamento di un genere letterario precedente che è l’utopia. La parola nasce e ha
diffusione con l’opera di Thomas More, Utopia del 1516, il senso di questa parola è
ambiguo: non luogo/ luogo bello. Come nel caso di Utopia e altri testi di questo genere si
immagina di solito un protagonista che viene dal mondo reale che compie un viaggio in un
mondo alternativo che rappresenta una sorta di versione perfezionata
dell’organizzazione sociale da cui prendere esempio per apportare migliorie nel
mondo reale. Se vogliamo cercare le origini del pensiero utopico e dell’utopia come forma
letteraria possiamo risalire alla repubblica di Platone: questi testi, dalla repubblica di
Platone a More alle utopie successive, hanno in comune l’immaginazione di luoghi, di
società in cui un’attenta organizzazione sociale ha permesso di risolvere i conflitti e
rimuovere gli ostacoli al benessere, in cui i rapporti di produzione sono organizzati
secondo principi razionali, in cui la tecnologia è al servizio del miglioramento della vita e in
cui -elemento più interessante- fra progresso e felicità individuale e progresso e felicità
comune non c’è distinzione. Il mondo utopico è quasi sempre organizzato secondo principi
collettivi, gli individui ricevono dei compiti, distribuiti secondo principi razionali che hanno
come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita della società, dal quale deriva
anche un miglioramento della vita individuale-metafora dell’alveare in ottica positiva nei
testi precedenti-. L’elemento su cui si concentra la narrativa distopica è il ribaltamento
gerarchico tra collettivo e individuale. Nell’utopia il progresso della collettività si può
ottenere solamente tramite un capillare e rigido controllo sociale, all’interno del quale la
volontà dell’individuo è sottomessa ai bisogni e alle decisioni del collettivo: la comunità è
un valore superiore rispetto alla libertà dell’individuo.
Spessissimo questo elemento è al cuore del ribaltamento distopico. Sebbene vi siano
tracce di distopia in precedenza (Il viaggio di Niels Klim: viene descritta una società
perfetta ma vengono anche descritte società da non imitare affatto, il romanzo si conclude
in un’ottica abbastanza negativa sull’effettiva capacità del personaggio di aver appreso
qualcosa da questo viaggio, ci sono elementi che virano verso il pessimismo distopico) il
grande sviluppo della distopia si ha nel XX secolo.
Ci sono varie proposte sul perché questo genere abbia trovato ampio sviluppo nel corso
del ‘900.
1. Moylan : vede una diretta dipendenza dell’esplosione distopica dagli eventi tragici
del ‘900 stesso, dopo le guerre mondiali, i genocidi, disastri ecologici, economici, la
presa di coscienza dei rapporti di sfruttamento cui sono assoggettati milioni di
persone, tutto questo ha lasciato segni così profondi da scatenare il bisogno di
ribaltare la proiezione utopica nel suo contrario. Il presente è talmente pieno di
disastri che immaginare una società futura alternativa diventa molto molto difficile: il
futuro non può che andare peggio se non si prende coscienza del presente e del
passato, delle ragioni per cui le cose sono andate così male. Si somma la
disillusione seguita al crollo delle grandi narrazioni, rientra la teoria Leotardiana
della condizione postmoderna, gli ideali rivoluzionari che sembravano a inizio ‘900
promettere la realizzazione di società utopiche crollano e lasciano un’amara
disillusione e la consapevolezza di quanto sia facile passare da un progetto utopico
a una realtà distopica.

Kallocaina deriva in parte dalla disillusione dell’autrice e della sua generazione nei
confronti della rivoluzione russa e della realizzazione degli ideali utopici russi nella
dittatura Stanlinista. A questi eventi che segnano l’immaginazione, alcuni autori accostano
anche una riflessione sugli sviluppi tecnologici tra fine ‘800 e inizio ‘900 che di nuovo
ribalta la prospettiva utopica illuminista e positivista, l’idea che la scienza e la tecnologia
siano strumenti che inevitabilmente porteranno a un miglioramento della vita umana.
Sempre più forte si fa la sensazione che la scienza applicata rischi di non avere un ruolo
completamente emancipatorio nei confronti dell’essere umano , come dice il critico
Booker. Egli sostiene che l’applicazione della tecnica alla produzione di beni durante la
rivoluzione industriale abbia schiavizzato i lavoratori piuttosto che liberarli all’interno di un
sistema di produzione alienante: piuttosto che andare verso la progressiva liberazione
degli esseri umani, la conoscenza tecnica ha meccanizzato la vita degli individui, agendo
inoltre come strumento di controllo sulla loro esistenza. Questo è un tratto che ricorre
molto spesso: idea che il sapere scientifico che agisce non per liberare ma per controllare.
In aggiunta a questi fatti relativi alla sfera della storia del cambiamento nelle condizioni di
vita materiali e degli eventi che si sono susseguiti nel corso del ‘900, a spingere verso la
maggior produzione di testi distopici, secondo alcuni c’è anche la rivoluzione nella
concezione dell’essere umano scatenata dalle nuove scoperte psicologiche e dalle teorie
psicanalitiche di Freud, in cui l’interiorità dell’essere umano viene presentata come
tutt’altro che buona. Diventa difficile seguendo la scia di Freud credere in un essere
umano completamente buono in maniera innata, al contrario lo si vede sempre più come
un difficile equilibrio da pulsioni positive e pulsioni distruttive e sadiche. Anche la diffusione
di una nuova concezione della interiorità umana e della natura umana avrebbe aiutato la
diffusione di una visione più pessimista nei confronti del futuro dell’umanità. Alcuni di
questi elementi -analisi dell’impatto della tecnologia, la trasfigurazione letteraria di
eventi storici e l’idea mutata della natura umana- costituiscono le strategie narrative
tipiche dei romanzi distopici.
All’interno di questi testi possiamo ricercare e ritrovare una serie di elementi comuni e
ricorrenti. Uno degli elementi centrali è l’idea del controllo sociale capillare: le distopie di
solito mettono in scena società in cui gli individui non sono liberi ma capillarmente
controllati da strutture di potere e in cui lo Stato o comunque la comunità è considerato più
importante dell’individuo. Quindi in un certo senso ritroviamo nelle distopie
un’estremizzazione degli elementi che nelle utopie garantivano la progressione e
l’evoluzione verso un maggior benessere della società.
Stevenson dice che nelle distopie il male spesso trova incarnazione in una struttura
generalizzata, anonima, senza volto che può essere una struttura statale, la burocrazia o
una serie di valori o credenze che limitano il più possibile la capacità di chi vi è sottoposto
di realizzare pienamente le proprie potenzialità. Non di rado il potere, che sia entità statale
o altra forma di potere, acquista una sorta di carattere divino, pensiamo alla figura del
Grande Fratello in 1984 di Orwell, la figura del dittatore, del GF, paternalista e autoritaria
funziona come una sorta di incarnazione semidivina che riassume in sé un potere che in
realtà si manifesta attraverso una complessa rete di meccanismi sociali. Altro elemento
che deriva dall’idea di un’invasione di campo del potere esterno all’interno dell’esistenza
individuale, è che in questi mondi spesso non esiste più un confine chiaro tra ciò che è
pubblico e ciò che è privato, l’intera esistenza degli individui va vissuta in accordo
con le impostazioni che derivano da fuori e va vissuta in pubblico per testimoniare
la propria lealtà e adesione al progetto comune. Da qui l’insistenza su temi quali:
1. la sorveglianza di ogni minimo angolo della esistenza individuale
2. totale assenza di privacy e di interiorità individuale
3. il conformismo (uguaglianza forzata che non significa parità ma essere identici
interscambiabili senza traccia di volontà, desideri o progetti personali).
L’altro tema importante è quello della tecnologia che viene rappresentato spesso in due
versioni:
a. Mondo distopico ipertecnologico dove lo Stato usa un massiccio dispiegamento di
elementi tecnologici per esercitare il più possibile il potere
b. Mondo ripiombato indietro nel tempo a seguito di eventi drastici in cui la tecnologia
è assente e questo causa una forma di deprivazione, di risorse fisiche e mentali nei
cittadini.
Nella parte distopica di Storia delle api abbiamo un elemento di questo tipo: l’intero
sistema tecnologico mondiale crolla in seguito a cataclismi naturali. Sia che la tecnologia
si sovrabbondante sia che sia assente, lo Stato la utilizza comunque per controllare i
cittadini. Li tiene sottocchio come fa il Grande Fratello oppure lasciandoli vivere in una
situazione di costante privazione di fonti energetiche per manipolarli e controllarli meglio.
Altro tema importante: controllo della capacità riproduttiva degli esseri umani.
Molti distopici affrontano in maniera più o meno evidente il tema del controllo delle nascite
(eugenetica). Di nuovo c’è l’idea che lo Stato utilizza i sudditi non considerandoli come
individui ma come risorse per la propria sussistenza e quindi deve garantire la
riproducibilità nella quantità giusta e nella modalità corretta. Più in generale, in maniera più
o meno esibita, affrontano anche il tema della natura in chiave metaforica per indicare il
tema del controllo della sessualità: il mondo naturale è un mondo ostile al mondo del
potere, quindi o va controllato e neutralizzato o totalmente separato dalla vita quotidiana.
Molte di queste storie si svolgono in mondi iperartificiali totalmente costruiti dall’uomo in
cui non vi è più contatto con il mondo naturale.
Linguaggio : manipolato cinicamente e consciamente dal potere per manipolare la mente
dei cittadini, il linguaggio diventa non un modo per parlare del mondo reale ma un modo
per costruire una realtà alternativa -visione postmodernista-. Il potere distopico utilizza il
linguaggio per costruire la propria versione della realtà e per impedire ai sottoposti di
vedere la realtà oggettiva.
Anche a livello di plot questi testi mostrano elementi ricorrenti.
Ad esempio il protagonista che inizialmente è pienamente aderente al progetto collettivo
dello Stato ma pian piano iniziano a insorgere in lui dei dubbi finché non vede la realtà
vera oltre la facciata artificiale della propaganda e cerca un modo per cambiare la
situazione e ribellarsi, di solito la ribellione fallisce. Questa ribellione tipicamente agisce in
due modi che sono una reazione agli elementi di controllo: o tramite una riappropriazione
dell’individualità -di solito del corpo e della sessualità che freudianamente rappresenta
l’energia primordiale impossibile da controllare- o attraverso l’utilizzo della parola e quindi
del racconto per contrastare la versione manipolatoria dello stato e creare un nuovo senso
di identità individuale non più controllata dall’esterno attraverso l’utilizzo di una voce
propria che non sia un mero eco del linguaggio del potere.

I tre testi prendono ispirazione da elementi differenti.

Il primo è un chiaro prodotto della sollecitazione di cui parla Moylan dell’immaginazione


distopica a partire dagli eventi storici del ‘900, tratta dei totalitarismi del ‘900 e dei timori
per il futuro nel caso dovessero radicarsi nelle società contemporanee.

Il secondo testo è un po’ particolare perché reagisce in chiave antiutopica a uno sviluppo
sociale presentato e solitamente accolto se non utopico quanto meno positivo, è una
critica in chiave distopica del modello del Welfare danese. Reagisce ad eventi del ‘900
peculiari della società danese.

Il terzo utilizza la distopia per condurre una critica a uno degli elementi fondamentali della
società e del pensiero occidentale: il rapporto tra uomo e donna.

KARIN BOYLE
Autrice svedese nata nel 1900 e morta suicida nel 1941. È nota per l’attività poetica anche
se ha scritto diversi romanzi ma a parte il romanzo distopico di cui parliamo la qualità degli
altri è piuttosto inferiore rispetto ai grandi romanzi del primo novecento svedese. Il vero
contributo innovativo della Boyle è all’interno della poesia, tutta segnata dagli esiti di una
crisi religiosa profondissima che investe l’autrice in gioventù. Per un certo periodo diventa
una cristiana quasi fanatica ma questa fede viene minata da una serie di problematiche tra
cui la percezione della propria omosessualità. C’è quindi un conflitto tra la morale esterna
della religione e gli impulsi istintivi personali. Tutta la sua poesia anche nel momento in cui
la crisi religiosa viene superata in realtà affronta il dissidio tra la parte istintiva di sé
impossibile da non prendere in considerazione e quello che ci viene richiesto dagli altri.
Fa anche da veicolo per introdurre in Svezia tutta una serie di nuovi impulsi che
provengono dall’estero. È una delle prime poetesse pienamente moderniste. Ricordiamo
“spraaket bortom logiken”, la lingua oltre la logica, in cui applica le teorie psicanalitiche al
linguaggio poetico che serve ad entrare in contatto con l’inconscio. È una delle prime a
diffondere le idee di Freud in Svezia e anche personalmente sarà legata alla psicanalisi
perché sarà uno dei canali tramite cui proverà a conoscersi meglio.
In gioventù è molto vicina a un movimento internazionalista francese “Clarté” che ha idee
socialiste, inizialmente guarda con favore quello che succede in Russia e all’URSS. Alcuni
persistono per lungo tempo nel considerare l’URSS un modello da seguire, altri come
Martinson e la Boyle comprendono la natura dello Stanlinismo e si allontanano, restando
disillusi. Gran parte della riflessione che fa sui totalitarismi deriva da una riflessione sul
modello sovietico, anche se conosceva benissimo anche la Germania nazista in cui passa
anche alcuni periodi osservando da vicino lo strutturarsi del regime.
Collabora ed è tra le fondatrici della rivista Spektrum che è un importantissimo canale di
rinnovamento culturale in Svezia in cui entrano vari impulsi non solo letterari ma anche
relativi ad altre arti con la volontà di rinnovare la scena culturale svedese in tutti i suoi
ambiti. Tradusse The Waste Land di Eliot.
KALLOCAINA
1940. Situazione politica particolare, seconda guerra mondiale, espansione dei nazisti
verso la Scandinavia con la Svezia che si barcamena cercando di comprarsi con forme di
collaborazione la neutralità. La storia preme sull’immaginazione di Boyle che in questi anni
ha una relazione con una tedesca di origine ebraica che porta in Svezia per sottrarla al
pericolo nazista. Oltre alle vicende politiche su questo romanzo si riflettono anche le
questioni personali: il tema del controllo sull’individuo è sviluppato sul piano politico ma
diventa anche un’esplorazione dei meccanismi psicologici della personalità, il contrasto tra
inconscio e superio.
La vicenda del romanzo mostra diversi punti di contatto con il racconto
fantascientifico perché il punto attorno a cui ruota la trama del racconto è una di quelle
innovazioni che, tornando alla definizione di fantascienza, potremmo definire un novus,
qualcosa di assente nel mondo reale, prodotto dell’innovazione tecnica che fa da motore
alla trama.
Il protagonista e narratore è Leo Kall che è un chimico cittadino del cosiddetto Stato
Mondiale, perfetta realizzazione dell’impostazione totalitaria, un mix tra nazismo e URSS.
È un perfetto rappresentante di questo Stato, totalmente convinto dell’ideologia
collettivistica dello Stato Mondiale, in cui ciò che conta è la sopravvivenza dello Stato, che
è costantemente in guerra con lo Stato Universale, che per sopravvivere ha bisogno di
controllare in ogni piccolo dettaglio la vita degli individui. Proprio perché convinto della
necessità di sacrificarsi per il benessere e la sopravvivenza del collettivo porta a
compimento un’invenzione che secondo lui sarà lo strumento definitivo per garantire allo
Stato il totale controllo sugli individui: la droga Kallocaina, che è una sorta di siero della
verità che permette di rivelare i pensieri più nascosti degli individui, cioè di andare a
stanare l’eventuale presenza di pensieri antisociali e dunque di punire i crimini di pensiero.
Seguiamo la sperimentazione e l’utilizzo di questa droga messa a servizio dello Stato. La
vediamo testata su una serie di cavie umane che volontariamente mettono la propria vita a
servizio di test scientifici. In parte però la storia del racconto riguarda anche la sfera
privata di Leo Kall che da buon cittadino dello Stato Mondiale non ritiene affatto privata.
Tutti questi personaggi vivono in un mondo in cui sono costantemente sorvegliati, in ogni
nucleo familiare c’è una domestica che agisce da spia per le autorità. Leo Kall è sposato
con Linda, ha dei figli, la sua vita è quella del buon cittadino ma nutre qualche sospetto
riguardo alla moglie: la sente non più tanto convinta che quella vita sia quella giusta da
vivere, teme che vi sia una relazione nascosta tra lei e il suo capo -di Leo-. Parte del
racconto è una sorta di resa dei conti tra Kall e la moglie all’interno di questo presunto
triangolo amoroso.
Ci interessa sì la trama, ma anche come viene raccontato questo mondo totalitario
distopico e anche come pian piano il germe del dubbio e della ribellione nasce in Kall.
Il mondo dello Stato Mondiale è del tutto artificiale, Kall vive in un una città chimica
identificata da un numero quindi spersonalizzata e slegata dalla storia. Gli edifici sono
quasi totalmente sotteranei e del tutto nascosti dall’ambiente circostante, come spesso
succede in questi mondi non c’è alcun contatto con la natura che è esclusa dall’ambiente
artificiale totalmente disciplinato in ogni suo aspetto. Questo Stato vive in una costante
condizione di allerta militare per reagire ad eventuali attacchi dei nemici. È uno stato
totalitario e militarizzato, ogni individuo oltre a svolgere il proprio lavoro a servizio dello
Stato deve essere anche pronto a combattere, tanto che i cittadini tra loro si chiamano
“medsoldat” (trad. italiana “camerato”, richiamo fascista). I cittadini sono allevati allo scopo
di diventare soldati, ritorna il tema delle nascite e della riproduzione: ogni famiglia fa figli
per fornire carne fresca allo stato. I bambini vengono educati al di fuori della famiglia e
vengono programmati per diventare futuri soldati -immagine dei bambini che all’asilo
giocano con delle bombe giocattolo- . Suddivisione dei ruoli, dei tempi e degli spazi di vita.
L’idea dell’esistenza di una sfera individuale che ognuno sottrae agli occhi della comunità
è una vera e propria eresia. Le persone che si presentano come cavie per la droga sono la
realizzazione estrema di questo ideale: tutta la vita è vissuta in quanto si può dare allo
Stato.
Lo Stato agisce da super ego collettivo che controlla ogni parola e atteggiamento degli
individui e che grazie alla droga inventata da Kall riesce anche controllare i pensieri e le
emozioni. La kallocaina funziona come il perfetto strumento che il potere dominante
ottiene per diventare effettivamente un vero e proprio super ego che controlla persino le
pulsioni.
Questo siero, arma potentissima che viene immediatamente utilizzata e che sortisce i
propri effetti, è però anche lo strumento attraverso il quale viene scoperto il germe della
rivoluzione. Somministrando questa droga alle cavie e ai sospetti Kall viene a scoprire che
la resistenza al potere è molto più diffusa di quanto pensasse e che nel profondo delle
persone esiste un nucleo individuale insopprimibile che conserva il principio di libertà
individuale e di non conformismo. Accecato poi dalla gelosia, in una scena che sembra
quasi uno stupro mentale, Kall somministra la droga anche alla moglie, che gli rivela istinti
di odio nei suoi confronti ma anche di essere una ribelle e questo lo scuote ancora più nel
profondo. È la moglie che in realtà, anche se ha un ruolo inizialmente marginale, si fa
portavoce della ribellione.
Saggio critico che commenta il mondo ideale del romanzo: spesso capita che nelle
distopie la ribellione sia dettata da motivi politici, qui è solo in parte così. Il meccanismo
che crea una possibile ribellione è un meccanismo interiore, psicologico. Grazie all’utilizzo
della kallocaina è il ritorno dell’inconscio che emerge a contrastare lo spropositato superio
dello Stato. Qui ritorna l’interesse della Boyle per le teorie analitiche.
Attraverso la Kallocaina viene fuori la presenza nel profondo dei personaggi di questo
nucleo duro di resistenza, questo ostinato attaccamento alla propria individualità, e il
personaggio che più lo manifesta è la moglie di Kall, che dopo la somministrazione della
droga fa un discorso, una sorta di orazione, pro individualismo e pro libertà in cui viene
fatta una sorta di chiamata alla liberazione. Linda racconta il processo di messa in dubbio
dell’ideologia dello Stato, che lei stessa aveva condiviso in precedenza, da cui però ha
iniziato ad allontanarsi e il fattore che l’ha spinta ad allontanarsi è stata l’esperienza della
maternità. È consapevole della dimensione sessista che regola i rapporti uomo/donna.
Apparentemente sono uguali sulla carta al servizio dello Stato, anche le differenze fisiche
sono nascoste dalle uniforme identiche, ma c’è una diversità di ruoli: gli uomini sono forza
bruta da usare in guerra, le donne sono una riserva per produrre nuovi soldati. Linda
partorisce il primo figlio totalmente nello spirito della donna al servizio dello Stato, con le 2
figlie successive, con le quali si identifica di più, riscopre il proprio istinto materno. Lo
descrive come bestiale, animalesco, una voglia di possesso istintiva. Attraverso questa
relazione così intensa, relazione occultata, riscopre la propria voglia di indipendenza e
individualità. Non la sa spiegare in maniera articolata, logica, non è un manifesto politico
ma un movimento di liberazione psichica. Linda procede a parlare della propria
liberazione con una serie di associazioni e immagini confuse che possono ricordare
immagini che vengono dall’inconscio durante una seduta psicanalitica: parla di una
profondità verde all’interno dell’essere umano, di un mare di forza vegetativa intonso che
distrugge ogni resto morto nella sua enorme conca e cura e crea nell’eternità. Come
sostiene Svanberg Linda trova in sé la fonte della propria resistenza, tramite un recupero
del legame con la natura che nel mondo in cui vive è invece negata.
Il mondo esterno è sterile, ostile alla creatività individuale. Questa idea di una forza
vegetale che Linda sente è un simbolo di qualcosa indipendente e di libero che
nasce rispondendo solo a regole proprie e non alle leggi dello Stato. Attraverso la
maternità la donna viene vista come più vicina a questa fonte di vita nascosta. Su questo
tema si potrebbero muovere alla Boyle troppe critiche, enfatizzare troppo la biologia,
creare ruoli sessuali un po’ rigidi. Aveva delle posizioni femministe per la sua epoca
abbastanza spinte, credeva però nella filosofia della differenza, l’idea di una differenza
essenziale fra uomo e donna. Il recupero dell’idea della vicinanza tra donna e natura che
nel pensiero occidentale ha avuto dei risvolti negativi e ha giustificato anche una serie di
oppressioni, ha un valore positivo e attraverso la riscoperta della forza naturale interiore
può avvenire la ribellione. Questa forza è l’elemento che aiuta Linda a non voler più
essere strumento dello Stato.

Altrove, in un altro discorso, anche Rissen, il capo di Kall che poi viene sottoposto alla
kallocaina e si scopre avere pensieri ostili allo Stato, fa una sorta di orazione simile in cui
sostiene la necessità di agire tutti per abbattere questo mondo distopico come madri. La
Boyle adotta l’archetipo materno come cura, protezione, interesse affettivo che applica
non solo alle donne ma intende come modello del giusto atteggiamento da avere nei
confronti degli altri.
“Quando Maryl nacque io ero un animale, una bestia femmina egoista e avare che
partoriva per sé stessa e credeva di avere un diritto su quello che aveva partorito”
riscoperta dell’individualità grazie alla percezione di questo istinto interiore non
controllabile da fuori e alla pretesa di possesso quasi unico sulla propria figlia che Linda
non vuole consegnare agli altri.
La scrittrice mette in scena un’architettura del mondo narrativo che risponde ad alcune
realtà politiche dell’epoca e quindi elabora una sua versione di quelli che possono essere i
meccanismi disumanizzanti del totalitarismo. La risposta che dà come possibile soluzione
è una risposta individuale: combattere dentro di sé il principio totalitario per riscoprire
questa forza primaria che è una spinta creativa istintiva che si traduce in una cura materna
nei confronti degli altri.
A un certo punto del racconto si parla della presenza di una setta di rivoltosi, ci si potrebbe
aspettare che siano in qualche modo una schiera militarizzata, in realtà sono uomini e
donne che esercitano questa cura materna tra di loro, sono descritti come una setta che si
incontra fuori dai confini urbani, in più stretto contatto con il mondo naturale e non fa altro
che radunarsi in una stanza e dormire con un coltello al centro, dando una dimostrazione
pratica di rispetto e fiducia. Questo rituale incarna l’ideale della cura e della fiducia
nell’altro, che va contro l’idea dell’altro come mero strumento per l’esercizio del potere e
come potenziale nemico da sospettare.
Il processo di liberazione passa per la riscoperta della propria verità interiore
attraverso questa droga che da strumento di controllo diventa simbolo della
psicanalisi che scava nella persona per portare alla luce ciò che era stato soppresso e
riscoprire una vita nei rapporti umani, basati sulla reciproca fiducia fra individui e non nella
relazione meccanica fra membri del collettivo.
Linda scappa per raggiungere questa setta “la sua gente”, abbandona la dittatura. Il
marito, timoroso, rimane e viene arrestato durante un attacco dalle forze nemiche.
Il racconto è un reso conto che in un tempo successivo fa della sua esperienza durante la
prigionia in mano dei nemici.
La liberazione avviene o attraverso l’esperienza del corpo (Linda, gravidanza) o
attraverso la parola (Kall che racconta gli eventi, con una voce indipendente e
libera) .
Il finale non è dei migliori: il censore dei nemici lo bolla come pericoloso e lo censura. Il
gesto di ribellione della parola di Kall non arriverà mai ad altre orecchie ma comunque c’è
la liberazione individuale anche attraverso il rifiuto di lasciarsi definire dal potere e il
raccontarsi con la propria voce.

HENRIK STANGERUP
Non siamo più nella dimensione novecentesca dei totalitarismi ma nell’ambiente nordico
con le sue specificità.
È un importante scrittore danese (1937-1998). Studioso di teologia. Fu un critico
cinematografico, poi anche regista. I suoi primi romanzi negli anni ’60 sono tipicamente
socialrealisti in cui si osserva attraverso la lente narrativa del realismo la società
contemporanea e in particolare il ruolo dell’intellettuale e del giornalista, spesso sono
autobiografici in cui si mette in scena anche la responsabilità del narratore che deve
raccontare la realtà sociale.
Partecipa ai movimenti del ’68, sebbene non legato a particolari raggruppamenti politici è
attivo in politica. Dagli anni ’70 inizia a essere parecchio critico sia degli sviluppi della
social democrazia sia delle frange più estrema della sinistra. Si considera di sinistra ma
viene bollato spesso come uomo di destra, cosa che l’ha lasciato spesso ai margini del
dibattito pubblico. Il romanzo di cui parliamo si inserisce in questa fase, essendo una
critica alla politica culturale della social democrazia e dell’idea dell’essere umano che la
social democrazia ha. Per il resto è un grande studioso di Kierkegaard, legato
filosoficamente alla scuola esistenzialista, di cui Kierkegaard fu precursore.
Ricordiamo la trilogia di romanzi storici basati sulle idee filosofiche di Kierkegaard.

L’UOMO CHE VOLEVA ESSERE COLPEVOLE


Romanzo breve, quasi un pamphlet pubblicato nel 1973. È una reazione al clima politico e
sociale degli anni precedenti.
Ambientato in una Copenaghen riconoscibile anche se un po’ alterata rispetto a quella
contemporanea, industrializzata con poca natura nell’ambiente urbano, spostata un po’
avanti negli anni, ambientazione non chiara, forse verso gli anni ’80. L’immaginazione
fantascientifica lo proietta in un futuro non completamente diverso dal presente in cui vive.
In Kallocaina invece siamo in un futuro molto lontano in un mondo che non è pienamente
riconoscibile. Stangerup, sebbene questo romanzo venga considerato una distopia, dice
che si tratta di un romanzo che parla del presente in cui è stato scritto, quindi le alterazioni
funzionano come estremizzazione di tendenze che Stangerup vede già radicate nel
presente.
Il mondo che mette in scena è una Danimarca in cui il progetto politico di rinnovamento
sociale della corrente del Partito Social Democratico di seguire gli individui, di cercare il
bene comune dalla culla alla tomba -come recita un celebre slogan- ha trovato piena
realizzazione. La società deve essere riorganizzata per garantire il meglio a tutti gli
individui, per garantire la sicurezza, l’assenza di ogni male. I meccanismi sociali devono
svolgersi in totale armonia per eliminare gli ostacoli e sviluppare uno sviluppo
positivo degli individui. Al contrario di quello che accade in Kallocaina, in cui abbiamo
l’immagine di un potere militare violento e chiaramente oppressivo, qui il potere è morbido,
benevolo, volto umano anche se un po’ paternalista. Non si utilizza la violenza, le armi,
almeno apparentemente neanche la coercizione. Utilizza un potere morbido di
convincimento, una fitta rete di esperti psicologi e sociologici che studiano i
meccanismi sociali e psicologici individuali e decidono come riorientarli per il
meglio della comunità. Lo Stato agisce non con la coercizione ma con la
burocratizzazione di ogni livello decisionale e di ogni livello dell’esistenza dei cittadini. Ci
sono esperti che consigliano come comportarsi in ogni frangente della vita, la società è
pianificata nei minimi dettagli. I cittadini sono sostenuti e incoraggiati ad ottenere quello
che lo stato ritiene essere uno sviluppo armonico ma devono svilupparsi in armonia con il
dettame dello stato, altrimenti perdono il diritto di essere veri e propri cittadini e soprattutto
vengono considerati inadatti ad essere genitori.
Abbiamo elementi ricorrenti nelle distopie declinati in maniera diversa allo scopo di far
vedere la disumanità di un’impostazione che a prima vista è positiva, umana e benevola
ma la ricerca di questo bene comune procede attraverso un controllo della sfera
individuale che è pervasivo come quello di Kallocaina anche se meno violento.
Bisogna garantire la sicurezza e quindi eliminare i pericoli, che però comprendono anche
gli elementi che possono scaturire pensieri contrari all’armonica ideologia statale e dunque
la letteratura è controllata: non si possono scrivere romanzi asociali, tutti i romanzi devono
mettere in scena la bontà dello Stato. Anche la tradizione culturale non può contenere idee
pericolose, soprattutto quella che è rivolta alle menti più fragili e manipolabili come i
bambini, le fiabe di Andersen vanno censurate perché contengono elementi che
potrebbero turbare l’animo dei piccoli. Non siamo in una dittatura come in Kallocaina ma in
uno Stato che ha altrettanta voglia di controllare il nutrimento intellettuale, la mente e la
cultura dei suoi cittadini e che ha il potere di riscrivere la storia e addirittura un monumento
come Andersen.
La società va riorganizzata in base a principi razionali e scientifici, in base alle conoscenze
degli esperti che studiano i meccanismi sociali e psicologici e come questi meccanismi
possono essere influenzati per influenzare il funzionamento degli individui. L’individuo
non è concepito come entità dotato di una propria capacità decisionale e una
propria volontà ma è interpretato come un prodotto influenzabile di questi
meccanismi e dunque l’azione degli individui non nasce mai da una loro volontà
interiore, non è mai espressione di interiorità individuali, è sempre l’effetto di
circostanze esterne e controllabili. Non esiste l’idea di responsabilità individuale,
ma solo gli effetti delle circostanze. Lo stato non è più uno stato di diritto con una legge
che sancisce quali sono i comportamenti sbagliati e quali permessi, ma in uno stato tecno-
pratico, in cui gli individui sono ridotti a parti di un macchinario. È da qui che nasce il
conflitto del protagonista. Il protagonista è un ex scrittore, Torben, il cui passato è molto
simile a quello di Stangerup, un sessantottino con ideali rivoluzionari e una vicinanza alle
idee social democratiche, che pian piano ha visto virare la società nella direzione di questa
dittatura morbida. Torben non è più uno scrittore perché la libera creatività è vietata e
lavora per un organismo statale che controlla il linguaggio eliminando parole ed
espressioni che possano suscitare idee sbagliate. È stato emblema della creatività e
individualità come uno scrittore può essere trasformato in un ingranaggio del meccanismo
collettivo. Ha nutrito dubbi nei confronti di questa organizzazione statale e anche sua
moglie. I due sono uniti dal senso di essere due nemici dello stato, due congiurati, Edith
aveva preso anche apertamente parola contro la decisione di introdurre il Barnecertifikat
ovvero un certificato con cui lo stato decide chi può essere genitore e chi no. Il romanzo
inizia con questa coppia che torna da un incontro con degli psicologici per il controllo
dell’aggressività, in cui tutti vengono spinti a sfogarsi con dei pupazzi sotto il controllo di
esperti e i due hanno una discussione durante la quale Edith mostra di aver abbandonato
le sue posizioni critiche e di aver ormai aderito all’ideologia dello stato. Torben si sente
tradito, Edith lo minaccia velatamente di lasciarlo e farsi dare custodia del figlio, Torben la
picchia e la uccide. Atto tremendo di violenza. Torben è consapevole di aver commesso
una cosa grave e si aspetta di essere punito ma questa punizione non arriva: se le azioni
individuali non sono prodotto delle decisioni individuali ma sono frutto delle circostanze
esterne l’individuo non ha responsabilità sulle proprie azioni e quindi non può avere colpa.
Da qui inizia l’Odissea del personaggio che vuole essere dichiarato colpevole, non
soltanto per un proprio senso di giustizia ma perché veder riconosciuta la propria
colpevolezza diventa certificazione del suo libero arbitrio. Nel corso del romanzo vediamo
questo personaggio che cerca di contrastare l’azione di questi esperti “aiutanti” che invece
lo vogliono convincere che il suo comportamento non è frutto delle sue decisioni e quindi
non è sua le responsabilità. I veri nemici del protagonista sono questi esperti, sono
l’incarnazione grigia e burocratica del potere. Il critico Kistrup dice che i veri nemici del
romanzo sono i funzionari, quelli a cui la società ha dato l’incarico di decidere quello che è
meglio per le persone.
Questi individui non solo vogliono convincere Torben che si sbaglia ma attivamente
cancellano le tracce del suo gesto. Dopo un primo periodo in una clinica psichiatrica, dove
viene ricoverato perché squilibrato e quindi da riequilibrare come fosse un meccanismo,
Torben torna a casa e non trova nessuna traccia della moglie, tutto è stato cancellato. Il
suo gesto violento ma di ribellione e affermazione della sua libertà è stato eliminato e
anche il figlio gli è stato portato via. Torben dunque aggiunge alla ricerca della propria
colpevolezza anche la ricerca del figlio che gli viene portato via. Dopo questa prima
cancellazione del fattaccio iniziale, gli aiutanti riscrivono la sua storia. Torben in un primo
momento pensa che solo il fatto che gli abbiano portato via il figlio sia indirettamente
un’ammissione della sua colpevolezza, i funzionari si accorgono di questo elemento e
riscrivono di nuovo la sua storia e sostengono che lui non ha mai ucciso la moglie ma che
lei è caduta in bagno sbattendo la testa. Lo stato riscrive le fiabe di Andersen ma anche la
memoria del protagonista, cercando di adattare la verità alla propria ideologia. Il figlio non
glielo rendono perché ritenuto squilibrato. Torben cerca degli alleati nella sua lotta contro il
sistema. Incontra una donna a cui è stato rifiutato il certificato per diventare genitore e
sembra aver percepito l’ingiustizia del sistema ma che in realtà è perfettamente anche lei
convinta della ideologia comune che propone a Torben di fare un figlio con lei non come
atto di ribellione ma per soddisfare un suo bisogno egoistico. Torben conosce poi un
giornalista televisivo che lo invita a partecipare a un programma durante il quale gli darà la
possibilità di raccontare la propria storia e dunque fare una sorta di denuncia pubblica ma
questo programma si trasforma in una sorta di finzione di processo che va nella direzione
opposta rispetto a quella che vorrebbe Torben. Varie persone appartenenti alla vita di
Torben vengono convocati per raccontare la loro versione, che è quella ufficiale, e Torben
viene condannato e le sua verità viene negata pubblicamente. L’atto di ribellione,
attraverso i canali di comunicazione di questo regime morbido e la connivenza di tutti con
l’ideologia comune, si trasforma nella riaffermazione di questa stessa ideologia.
Lo vediamo vagare semiubriaco per le strade urlando “condannatemi”.
Passa del tempo, ultimo capitolo. Torben sta in una casetta, parla con la moglie morta di
cui ha avvertito la presenza da lungo tempo sentendola al proprio fianco nella ricerca della
verità e scrive dei romanzi in cui racconta del ritorno dell’individualità e della libertà e del
superamento del sistema oppressivo entro cui si è ritrovato. Abbiamo l’impressione che
qualcosa sia cambiato e che Torben diventi una sorta di testimone della vittoria della
libertà individuale sul collettivo opprimente. Le sue ultime parole infatti sono “abbiamo
vinto”.
Finale:
parco della felicità > eufemismo come molti dei termini utilizzati nel linguaggio pubblico di
questo mondo per indicare l’ospedale psichiatrico.
C’è la parvenza di una liberazione ma il sistema che è stato più furbo lo rinchiude in un
manicomio che viene concepito anche in questo caso come paternalisticamente umano,
un villaggio dove i matti possono vivere credendo nelle loro follie. Dunque in realtà il piano
di ribellione è finito in un fallimento, non solo: ci dice l’ultimo paragrafo che Torben è stato
soggetto ad un sperimento che è riuscito e questo ci spinge a rivedere la storia letta per
capire quando esattamente questo esperimento è iniziato, trasformandolo da cittadino a
cavia.
Protagonista che fallisce come ribelle ed è stato utilizzato come strumento di propaganda
per giustificare un ampliamento delle politiche del regime che voleva combattere: la storia
di Torben è il mezzo attraverso il quale ottengono i nuovi finanziamenti per implementare
la loro attività.
Finale in cui la ribellione individuale viene spenta e in cui abbiamo un’espansione del
potere dittatoriale: anche Kall diventa prigioniero dello Stato Universale mentre prima era
cittadino prigioniero dello Stato Mondiale.
La storia finisce con poca speranza ma c’è un elemento interessante nel processo di
ribellione che di nuovo passa attraverso la lingua. Il racconto è in terza persona ma
come Kall scrive la propria testimonianza per dare corpo a una propria nuova individualità
anche Torben torna a scrivere, seppure in maniera neutralizzata nel manicomio, ma si
riappropria della capacità creativa della lingua. È interessante che la parabola lavorativa di
Torben passi per la libertà dello scrittore - sudditanza dello stato in cui manipola il
linguaggio a servizio dello stato – riappropriazione della propria libertà.
Altra cosa interessante: Copenaghen è abbastanza riconoscibile ma per rappresentare
ancora meglio la condizione di alienazione dalla propria interiorità Stangerup sceglie di
trasformare la città in senso industriale e artificiale.
Uno dei consigli dati dagli esperti è di tenere un piccolo bonsai da curare: simbolo di come
la natura individuale è piegata e manipolata al servizio del collettivo; il bonsai da albero
libero è trasformato e manipolato in una piantina ornamentale.

GRET BRATENBERG
(1941- in vita)
È una scrittrice letterariamente meno interessante rispetto a Stangerup o Boyle ma che ha
una posizione rilevante in Norvegia come femminista e come sostenitrice dei diritti degli
omosessuali. È considerata una delle principali esponenti della seconda ondata di
femminismo -la prima era quella delle suffragette- la generazione della Bratenberg è
rappresentata da una più attento e approfondito studio delle dinamiche della disparità fra i
sessi, attenzione accademica, filosofica alla concettualizzazione dell’idea di uomo e
donna, del rapporto tra sesso e genere.
Il primo romanzo è Oppe alle jordens homofile del 1973, è un romanzo
sull’omosessualità, uno dei più diretti e schietti della letteratura norvegese. Questi temi -
femminismo e omosessualità- li affronta in romanzi satirici, storici, autobiografici. Tuttavia il
suo romanzo più noto è Egalias Dotre del 1977. In parte può essere considerato
distopico ma è interessante dal punto di vista letterario perché gioca con il rapporto fra
utopia e distopia: l’utopia di alcuni potrebbe essere la distopia di altri.
È un romanzo satirico, per certi versi comico, che mira oltre a risvegliare il lettore su alcuni
temi che le stanno a cuore anche a farlo ridere. Non ha un’atmosfera cupa e opprimente
come Kallocaina e L’uomo che voleva essere colpevole.
Opera attraverso un’estremizzazione degli elementi che vuole criticare nella società e
attraverso un loro ribaltamento: il romanzo racconta una storia che si svolge all’interno di
una società matriarcale dove il rapporto fra i sessi in tutti gli ambiti è invertito. In parte
potrebbe sembrare un’utopia femminista. Ovviamente per un lettore uomo si tratta di un
mondo distopico. Attraverso il meccanismo dell’estremizzazione e del ribaltamento il testo
mira a rendere evidente la discriminazione del sessismo e i meccanismo attraverso i quali
discriminazione e sessismo operano. Le donne sono considerate il sesso forte,
reggono la vita politica ed economica del paese, sono razionali, libere da canoni estetici
rigidi e restrittivi, sono libere di vivere la propria sessualità in maniera libera, la biologia dei
sessi non è ribaltata ma tutto quello che riguarda la sfera intima della femminilità sono
elementi di cui non bisogna vergognarsi e che vengono vissuti accompagnati da riti
pubblici per glorificare la femminilità. Anche in questo caso abbiamo un’esaltazione
positiva del rapporto fra donna e natura, malgrado i tratti distopici il mondo di Egalia è
un mondo pacifico in armonia con la natura. Gli uomini sono considerati privi di
logica, di forza e di tempra per avere incarichi importanti, si occupano quindi della vita
domestica, devono stare attenti a non uscire tardi la sera, a vestirsi in un certo modo per
compiacere le donne, sono loro soprattutto a doversi occupare della gestione della casa e
della prole.
Tutti gli elementi del rapporto fra i due sessi vengono ribaltati.
Romanzo di formazione di Petronius, viene messo in diverse situazioni in cui la
disparità si fa evidente e quindi si rende manifesto -tramite il ribaltamento- il
funzionamento dell’ordine sessista. Petronius deve subire delle molestie, non può fare il
lavoro che vorrebbe fare perché considerato tipicamente femminile e così via. Attraverso
l’incontro con tutta una serie di situazioni discriminatorie si risveglia in lui una coscienza di
ribellione e insieme ad altri maschi oppressi fonda un’associazione la lega degli uomini,
un’associazione maschilista per la rivendicazione dei diritti degli uomini.
Uno degli elementi più importanti per il mantenimento dell’ideologia dominante è l’utilizzo
del linguaggio: chi controlla il linguaggio ha potere sugli altri perché riesce a creare
una realtà.
Dietro questo romanzo c’è l’idea tipica, della seconda ondata di femminismo e di quelli che
diventeranno gli studi di genere, della distinzione fra sesso e genere e che i generi siano
ruoli costruiti socialmente e non essenze naturali e che siano costruiti soprattutto
attraverso il linguaggio.
In vari episodi la storia passata, la biologia, tutti gli elementi della realtà vengono descritti
attraverso un linguaggio manipolatorio che costruisce una realtà alternativa al servizio del
principio ideologico per cui le donne sono superiori agli uomini. Ci sono scene in cui
vengono mostrate lezioni di biologia o di storia e si fa vedere come la prospettiva
attraverso cui si raccontano alcuni fatti serve a trasmettere in maniera occulta alcuni valori
ideologici. Questo mostra anche quanto le spiegazioni naturalistiche siano delle fallace, “è
così perché è naturale che sia così”, il sistema sessista che governa questo mondo e per
riflesso quello che vuole denunciare la scrittrice, viene presentato come sostenuto dallo
strumento dell’abuso linguistico. La lingua in cui è scritto il romanzo fa vedere anche come
nelle minuzie si nascondano giudizi sessisti: tutte le parole, tutti i morfemi che possano
avere una qualche relazione nel norvegese corrente con il mondo maschile e dunque
implicare l’idea che il maschio sia il prototipo dell’essere umano mentre la donna sia un
caso a parte, vengono manipolate per sortire nella lingua romanzesca nel senso opposto.
Man viene trasformato in Dam. Anche nel suo tessuto linguistico, non soltanto nelle scene,
viene fuori come la lingua funzioni per costruire una particolare percezione della realtà che
è sempre ideologica.
Di nuovo come negli altri casi il processo di liberazione del protagonista passa attraverso
la riappropriazione della lingua, capacità di passare a oggetto a soggetto del proprio
linguaggio. La costituzione di questo gruppo di ribelli maschilisti riscopre la letteratura
maschile che il canone femminile vigente aveva occultato e dunque riscoprono uno
sguardo diverso sul mondo, un modo diverso di parlare del mondo affine alla loro
esperienza. Attraverso la riscoperta di questa tradizione letteraria e dell’uso della lingua e
della possibilità di utilizzare la lingua per descrivere la propria condizione Petronius arriva
al termine della propria liberazione e scrive un libro “Demokratins soner” in cui attraverso il
procedimento della satira e dell’inversione dell’esistente crea una sorta di utopia
maschilista.
Ci ritroviamo di fronte alla stessa scena con cui iniziava il romanzo ma a ruoli invertiti, con
gli uomini che hanno il potere e che ovviamente ha un effetto straniante: dopo aver fatto
questo viaggio ci troviamo di fronte ad un mondo che è opposto a quello del romanzo ma
identico in realtà a quello reale, si avvertono le discrepanze e l’arbitrarietà delle distinzione
fra maschile e femminile e si avvertono tutti i meccanismi di potere, anche i più sottili.
La promessa della liberazione passa attraverso l’utilizzo della scrittura.
La vicenda personale di Petronius è una sorta di giocosa riscrittura della storia del
femminismo: si parte dalla presa di coscienza dei diritti negati, fase di rivendicazione dei
diritti -prima ondata femminismo-, maggiore fase di comprensione dei meccanismi
dell’oppressione.
Denuncia del sessismo + denuncia della cosiddetta eternormatività: presunzione
dell’eterosessualità come fatto naturale e esclusione dell’omosessualità. Nella fase finale
c’è l’esplorazione del mondo omosessuale in cui i protagonisti trovano un ambiente di
resistenza alle pressioni esterne.

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