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FILOSOFIA DEL DIRITTO:

Nella Polis nascono la filosofia, la politica, l’argomentazione, la discussione, la teoria intorno alle
istituzioni che organizzano le norme che regolano la vita. La Polis quindi conosce norme e
istituzioni, anche se nel greco antico non c’è un termine tecnico che indichi le norme e le istituzioni
giuridiche. Parlando di diritto, possiamo individuare gli elementi che distinguono il diritto da altri
ordinamenti normativi (come morale, religione, costume); per molti l’elemento discriminante e la
combattività e (esistenza di sanzioni socialmente organizzate).
 Naturalismo Arcaico:
Nella società arcaica di minoici e micenei (III e II millennio), di cui parla Omero nei suoi poemi, la
legge viene concepita come Themis, una legge di carattere sacrale trasmessa dagli dei, una legge in
buona misura arbitraria. Successivamente si ha un periodo (fra VIII e VI secolo) di decadenza con
l’invasione dei dori, proprio in questo scenario i poemi di Esiodo, propongono una concezione
della giustizia come Dike, ovvero la visione della legislazione umana come prodotto della ragione e
dell’esperienza. Si condanna la Hybris, ovvero la prepotenza dei più forti.
1. I presocratici:
I primi filosofi, detti presocratici, tendono o immettere concetti dal mondo umano a quello della
natura, l’universo è un kosmos retto da un ordine. Anassimandro sostiene che le cose sono
l’indefinito, e che dai fattori da cui nascono le cose, allo stesso modo loro si estinguono. Poiché
pagano l’una verso l’altra le giuste pene, ingiustizie ed ammende. Secondo Eraclito la giustizia dà
ordine allo stesso mondo fisico: tutte le leggi umane si basano sull’unica legge divina. La legge
divina si identifica con il logos, il principio di tutta la filosofia. Parmenide vede la giustizia come
molto punitiva; Empedocle parla di una legge per tutti, una legalità dell’universo. Quindi per i
primi filosofi possiamo dire che “ciò che è” viene equiparato a “ciò che deve essere”.
 La critica dei sofisti nella Polis democratica:
Sulla base della tragedia di Sofocle, viene a presentarsi una contrapposizione tra leggi non scritte
degli dei e leggi degli umani. Atene nel V secolo rappresenta il paradigma della demokratia
(popolo e governo); dove il kratos significava partecipare a tutti i processi amministrativi, e dove il
Demos comprendeva solo i maschi maggiorenni, liberi, nati da due ateniesi. La Polis è uno spazio
pubblico di relazioni, dove si svolgono le attività legate alla produzione dei beni necessari al
sostentamento della specie. Nell’agorà operano i sofisti. Con questo termine si indicava una
categoria professionale, quella di quei sapienti che facevano del loro sapere un mestiere retribuito
e insegnavano l’arte dell’argomentazione. Sono proprio loro a mettere in discussione l’idea della
naturalità dell’ordine e delle norme. I sofisti distinguono fra “giusto per natura e giusto per legge”.
Callicle sostiene: la natura dimostra che è giusto che il migliore prevalga sul peggiore e il più
capace sul meno capace, e questo il criterio della giustizia. Al contrario Ippia sostiene che la legge
degli uomini fa molte volte violenza alla natura. Per Antifone, per natura in tutto tutti gli umani
sono fatti ugualmente. Infatti la maggior parte di ciò che è giusto secondo la legge si trova ad
essere ostile alla natura. In questi sofisti si afferma quindi l’idea di un’eguaglianza tra gli uomini.
Nella filosofia di Protagora abbiamo una visione democratica della Polis, secondo lui la filosofia
non può raggiungere una verità assoluta. Sostiene che l’uomo è misura di tutte le cose e che la
verità è il risultato della discussione, il criterio del giusto e dell’ingiusto viene stabilito attraverso il
confronto tra soggetti. Protagora narra il mito di Prometeo, dove si esplica che ad ogni uomo viene
attribuita una capacità specifica. Gli uomini diventano così produttori specializzati, che hanno
bisogno di vivere in comune e scambiarsi i prodotti. I termini chiave sono Nomos (legge, regola) e
Dikaion.
Socrate condivide lo stesso spazio di attività dei sofisti, ma è cittadino ateniese e non si fa
retribuire. Ma lui fu accusato di aver corrotto la gioventù e di aver introdotto nuovi dei, fu così

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condannato e nonostante ebbe la possibilità di sottrarsi e fuggire, non lo fece. Questo poiché
credeva che violare la legge (ciò che ci ha generato e nutrito) è ingiustizia, ed è meglio subire
quest’ingiustizia che compierla.
 Il naturalismo idealistico di Platone:
Con Platone abbiamo il ritorno di una concezione naturalistica. La natura viene vista come più
profonda, più vera, più giusto: il mondo delle idee di cui gli oggetti sensibili, sono delle copie. La
verità consiste nel disvelamento di questa realtà. Platone ha un rapporto con la politica, infatti da
giovane voleva dedicarsi ad essa, ma poi lascia perdere perché la vede come sbagliato nella sua
stessa struttura. Il sofista Trasimaco identifica il giusto della Polis con il giusto per legge e ricollega
il potere di dare legge alla forza. Per lui i governanti pensano al proprio bene, a danno di chi
obbedisce. Socrate cerca dimostrare che cos’è il giusto attraverso un disegno della Polis che fa
comprendere anche che cosa è giusto per l’individuo. La Polis è giusta quando vengono svolte
determinate funzioni da chi è adatto a svolgerle. Questa ha 3 funzioni fondamentali: 1. La
produzione e il commercio dei beni primari; 2. La difesa dall’esterno e il mantenimento
dell’ordine; 3. Il governo. Per Platone bisogna far credere ai cittadini che il trovarsi nelle differenti
classi esprime la loro natura. I filosofi devono governare perché conoscono le idee e dunque il
bene. Nel mito della caverna i filosofi hanno visto la luce e dunque hanno il compito di tornare ad
illuminare gli uomini nella caverna, alternandosi al governo. I filosofi devono individuare una
natura che va oltre all’esperienza ingannatrice dei sensi. Solo loro possono conoscere questa
natura e di conseguenza conoscere il bene.
 Aristotele:
Aristotele, più grande discepolo di Platone, è l’autore di una critica articolata verso la teoria delle
idee del suo insegnante. Lui contesta la duplicazione della realtà e, pensa che alla conoscenza delle
forme si giunge a partire dall’esperienza. Aristotele crede che bisogna esaminare le Polis per
individuare la loro natura, è solo nella Polis che l’individuo umano può svilupparsi compiutamente
come soggetto morale. L’uomo infatti è per definizione zoon politikon, ovvero animale sociale che
tende ad associarsi costruendo Polis a partire dalla visione comune dei cittadini greci.
Per Aristotele l’uomo è definito da due caratteristiche essenziali: egli è l’essere dotato di parola ed
è l’animale che tende ad associarsi e costruire città. L’uomo compie determinate attività in cui
adopera il linguaggio, che è lo strumento fondamentale per una convivenza pienamente ‘umana’
ed è l’attività comune di governo e controllo della città. Fuori dalla Polis ci sono gli dei o gli animali;
la Polis esiste per natura, ha per fine la vita felice. Nel giusto politico è presente l’elemento per
natura e l’elemento legale; Aristotele riconosce che il giusto è mutevole. Invece per Platone il
giusto civile è costituito da una parte per natura, l’altra per legge. Aristotele distingue la giustizia
distributiva, che consiste nell’attribuzione a ciascuno secondo il suo valore e la giustizia
sinallagmatica, che ha funzione rettificatrice nei rapporti di scambio.
-Metodo della filosofia pratica: Aristotele distingue:
1. Scienza speculativa: si riferisce all’attività teoretica, che ha per scopo la verità.
2. Scienza pratica: si riferisce all’attività pratica, che ha per scopo l’azione.
3. Tecniche produttive, hanno un oggetto il cui principio risiede in chi agisce o produce.
Le scienze teoretiche si occupano di cose i cui principi non possono essere differenti, ma ad un
livello superiore stanno le scienze pratiche, ad un livello inferiore le discipline della produzione
materiale. Da un lato c’è l’agire pratico (praxis), E dall’altro il linguaggio articolato (logos).
Secondo Aristotele l’anima si divide in tre parti: la parte vegetativa che non partecipa alla ragione,
la parte concupiscibile che invece partecipa alla ragione, insieme alle virtù etiche. Una è quella con
cui vediamo le cose così come sono, l’altra con cui possiamo vedere le cose diversamente da
quello che sono. Aristotele crede che lo scopo della politica non è la teoria, ma l’azione. Per lui la

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conoscenza del bene risiede in principi morali che sono espressione del senso comune e dei valori
delle Polis.
-L’antropologia politica:
Nel primo libro della politica, la costituzione della Polis è presentata come un’aggregazione
naturale di gruppi sociali. Aristotele parte da una concezione dell’uomo come diseguale per
natura: gli uomini sono diversi fra loro e per questo sono complementari, reciprocamente
dipendenti. L’individuo è intelligente è per natura padrone, quello fisicamente forte è per natura
schiavo: l’insieme di questi rapporti costituisce il nucleo comunitario: l’oikos (famiglia). L’insieme
di più famiglie costituisce il villaggio, quindi la Polis. Aristotele critica l’idea che esistono per legge
le categorie di schiavo e di libero. Gli strumenti animati, lavoratori subordinati e schiavi, sono
tuttavia necessari perché gli strumenti inanimati non sono in grado di eseguire automaticamente
un comando. Aristotele sostiene che l’individuo intelligente, capace di prevedere, è per natura
padrone, e quello dotato fisicamente è per natura schiavo. Quindi si tratta di una differenza che
sta nel corpo. L’essere schiavo non è contro natura, infatti Aristotele sostiene che la schiavitù
secondo la legge è rimandata alla schiavitù naturale.
-Forme della polis:
Aristotele fa ricorso a quanti sono i governanti e a quale classe sociale appartengono, per
delineare i vari tipi di Polis. La Polis giusta è quella con monarchia, aristocrazia, politia. Questi
possono degenerare in tirannide, oligarchia, democrazia. Dal punto di vista sociologico la Polis
migliore è quella dove prevalgono i cittadini medi. Infatti il prevalere del ceto medio permette la
migliore forma di ordinamento e garantisce il bene comune. Aristotele pronuncia il principio del
governo della legge per cui: “quando gli agricoltori o i proprietari di una ricchezza sono sovrani
della Polis, governano secondo le leggi”; il governo della legge sembra dunque implicare una
limitazione dei poteri del popolo, una riduzione della sua capacità di autogoverno.
Dopo Aristotele, la filosofia assume il compito di indicare la strada per la felicità individuale. Il
mondo è un kosmos ordinato perché retto da una ragione universale, nomos e logos. La necessità
naturale si identifica con l’obbligo morale, per la felicità si deve vivere secondo natura, secondo il
logos, secondo il nomos. Epicuro riproporrà che la giustizia non è qualcosa di esistente per sé, ma
solo nei rapporti reciproci: e laddove si faccia un patto allo scopo di non recare o ricevere danno.
2. L’esperienza Romana:
A Roma nasce il diritto in senso stretto, amministrato da magistrati laici. Si suppone che Roma
viene fondata il 753 a.C. e che nelle zone dei colli alla sinistra del Tevere si stabilizza
l’insediamento umano: un insieme di gentes. In queste comunità si riscontra un unico ordine, che
teneva insieme il divino e lo ius. Questo ius non è ancora il diritto. E’ nella prima Roma monarchica
che si riconosce già un ruolo chiave del pontefice massimo, “giudice di tutte le cose divine e
umane”. A lui si aggiungono le assemblee del popolo: i comizi centuriati. Lo ius è qualcosa di
analogo al sapere ora colare greco che esprime la Themis. Nella Roma repubblicana, coi conflitti
fra i Patrizi e i plebei si redassero le 12 tavole. Si tratta di una Lex scritta e laica. Il contenuto era di
diritto privato e queste furono custodite dai pontefici, che le interpretavano. Una particolare
funzione venne assunta dalla magistratura dei pretori che producevano lo ius honorarium, che
andava a regolamentare i rapporti fra cittadini. I pretori scrivono il proprio editto annuale
organizzando e sistemando la materia del diritto.
 Diritto e filosofia:
Nel II secolo a Roma avviene l’importazione della filosofia greca, che influenza la giurisprudenza.
Cicerone può essere considerato il primo “filosofo del diritto”. Costui fonda il discorso occidentale
sulla neutralità di diritto, ricollegandosi al discorso greco su fisis e nomos. Inoltre Cicerone
stabilisce il nesso ius/iustitia, intendendo la giustizia come una disposizione dell’animo mantenuto

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nell’interesse comune. Per Cicerone la legge si identifica con la ragione suprema insita nella
natura, la natura è l’unica legge vera e a questa non è possibile che si tolga valore. Dunque la legge
di natura è insieme legge della ragione, legge divina, legge umana. In Cicerone troviamo l’ideale
della certezza del diritto e il principio del governo della legge: “noi siamo tutti schiavi delle leggi
per poter essere liberi”. Quasi contemporaneo di Cicerone, vi è Tito Lucrezio Caro, che espone una
teoria dell’origine contrattuale della società e del diritto. All’inizio vi era una società senza
abitazioni e senza tecniche produttive. In seguito con la stabilizzazione dei rapporti familiari e di
amicizia, vi è lo stabilimento di patti. Per tutelare questi patti si istituirono magistrature e leggi
sulla base delle esperienze umane.
3. Legge divina e città dell’uomo
La diffusione del cristianesimo nell’impero romano configura una situazione nuova e pone nuove
questioni alla filosofia pratica. Infatti il cristianesimo è una religione rivelata, basata su un
“messaggio” raccolto in testi sacri (basato sulla fede per Gesù di Nazareth, c’è la testimonianza dei
sensi, l’esperienza, il sapere accumulato negli anni. Agostino sostiene che se la legge di natura si
identifica con una legge razionale che esprime la natura umana è pressoché inutile l’intervento
divino, peccato è solo ciò che è vietato da Dio.); è una religione dell’amore, anti-legalistica (a al
centro della sua predicazione l’amore fra i fratelli. I cristiani diventano i decisivi alleati di
Costantino nell’ascesa al trono fino a quando questo, con l’editto di Teodosio, diventa religione
ufficiale dell’impero. Agostino sostiene che è legittima solo la comunità politica che realizza la
giustizia e tutti i cristiani, sono sudditi dell’imperatore, e costoro devono obbedienza al Papa.);
propone un messaggio non violento e pacifista.
Tommaso d’Aquino, propone nella sua opera soluzioni che cercano di garantire alla religione, al
potere spirituale e al potere temporale la propria autonomia. Lui sostiene che il rapporto fra fede
e ragione è di distinzione e conciliazione. La legge è una regola delle azioni secondo la quale si è
indotti ad agire oppure ci si astiene dall’agire. Tommaso distingue quattro tipi di legge: Lex
aeterna, la ragione stessa di dio che è ordinatrice del cosmo; Lex naturalis, cioè quella parte di lex
aeterna che gli uomini vengono a conoscere; lex divina, l’altra parte di lex aeterna che viene
conosciuta tramite la rivelazione; Lex humana, il diritto positivo degli uomini.
Tommaso afferma che il potere spirituale del pontefice è superiore a quello temporale e propone
la teoria della “guerra giusta”. Infatti Tommaso sostiene che nonostante combattere sia sempre
peccato, non è lecito combattere agli esponenti del clero, nei giorni di festa (dove si devono curare
le malattie) e che non bisogna mentire.
4. Stato di natura e contratto sociale:
A partire dall’umanesimo italiano si afferma una cultura laica, infatti “chierico” era sinonimo di
intellettuale, di cultore di humane litterae. Laica perché interessata alla vita terrena degli uomini e
perché aveva sviluppato contenuti non in funzione della vita ultraterrena. I giuristi francesi
applicano i metodi della filologia al diritto romano. Con l’avvio della rivoluzione scientifica, la
nuova scienza non si limita più a contemplare, ma a dimostrare i vari fatti dell’universo attraverso
la scoperta: solo scoprendo ed utilizzando le leggi che regolano la natura, è possibile intervenire su
di essa per sottometterla ai bisogni dell’uomo.
Fra i destinatari della produzione letteraria umanistica vi è la borghesia, protagonista
dell’affermazione dell’economia mercantile. Con la grande scoperta di Cristoforo colombo si ha
l’inizio dell’età moderna sia in senso economico sia in senso culturale.
Con le 95 tesi di Lutero si avvia un processo irreversibile: l’unità della Repubblica dei cristiani è
rotta per due motivi: l’autorità del Papa non è più riconosciuta, si formano chiese cristiane
differenti; l’autorità dell’imperatore è contestata, i principi e le repubbliche si considerano
autonomi dal suo potere, l’Europa si articola in una serie di Stati che rivendicano la loro sovranità.
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Si ha una svolta con la pace di Westfalia alla fine della guerra dei trent’anni, quando si riconobbe
l’esistenza degli Stati sovrani e si afferma il principio cuius regio eius religio. Nicolò Machiavelli
aveva elaborato un nuovo metodo per la teoria politica, basato sulla ricerca della verità effettuale.
Thomas Moore aveva mostrato la potenzialità teorico politica insita nell’immaginazione di un
luogo ideale. Tuttavia né Machiavelli nè Moore fanno riferimento al diritto naturale o alla legge di
natura.
 Thomas more:
Ha ricoperto importanti cariche politiche, si dedicò alla pratica legale e divenne avvocato e poi
giudice. Ha combattuto la riforma luterana e fu accusato di alto tradimento, condannato a morte
nel 1535. Scrive Utopia (termine coniato da More, che significa buono/non luogo), diviso in due
libri, il primo è un dialogo fra lo stesso More, un suo amico, Pietro e un personaggio inventato,
Raffaele. E’ la Repubblica ideale ma anche la Repubblica inesistente, More lascia intendere che la
comunità politica ideale che viene tratteggiata non è reale. Nel primo libro infatti, Raffaele
racconta di un pranzo a cui ha partecipato nel quale un uomo di legge loda l’applicazione della
pena di morte ai rei di furto. Qua More propone una teoria critica del diritto penale, secondo la
quale le pene hanno funzione di prevenire i delitti. Alla fine la pena di morte viene vista come
illegittima e controproducente. Nel secondo libro poi Moore descrive il suo sistema sociale,
politico e giuridico. Utòpia sorge su un’isola, è inaccessibile dall’esterno e un’ampia laguna interna
favorisce la comunicazione fra città. Utopia è retto da una costituzione repubblicana e
democratica. La cellula base della società è la famiglia, ogni 30 famiglie si elegge un Filarco. I
Filarchi costituiscono un consiglio ed eleggono il consiglio più ristretto dei protofilarchi e il
principe, con carica a vita. Non c’è proprietà privata e tutti svolgono un lavoro manuale. Nessuno
sta fermo senza fare nulla, ma allo stesso tempo nessuno è costretto a lavorare in maniera
eccessiva. Si avevano 6 ore di lavoro più lo studio e gli svaghi; era garantita l’istruzione. Le leggi
hanno il consenso del popolo, sono poche e chiare, non c’è bisogno di avvocati perché ognuno è
“esperto di legge”. Gli Utopiani vincono nella maniera con cui nessuno animale potrebbe, eccetto
l’uomo con la sua forza dell’ingegno. Vige la tolleranza religiosa e ciascuno può praticare il culto
che preferisce. I culti avvengono nei templi che sono aperti a tutte le religioni. Utopia porta
ufficialmente il legittimamente il nome di res pubblica.
Abbiamo delle notevoli differenze fra Platone e Moore. Platone disegna la Polis nell’idea, Moore
delinea un modello ideale, immaginato. In Utopia la famiglia continua ad esistere ed è la base della
società. La Polis platonica è basata su una attribuzione dei ruoli e sulla netta separazione fra le
classi: in more le classi non esistono, sono tutti uguali. Nella Polis platonico la politica è
caratterizzata dai filosofi che conoscono il bene; Utòpia è una Repubblica democratica dove si
elegge e si partecipa.
 Niccolò Machiavelli:
Nella pratica dell’“arte dello stato” machiavelli elabora il criterio della verità effettuale. Il principe
è stato considerato “scritto dal dito di Satana”. Nel 900 si sono confrontate le visioni di Machiavelli
come pioniere di una “scienza politica” empirica e quelli che loro hanno inserito nella tradizione
del pensiero politico repubblicano. Machiavelli reinterpreta il concetto di virtù: queste infatti si
riferiscono a ogni genere di qualità necessaria a “mantenere lo Stato” e quindi ad ottenere grandi
cose. Vale per il principe ma anche per il leader repubblicano. Machiavelli ridefinisce la relazione
fra etica e politica. L’azione politica è ispirata da principi e valori, ad esempio la parola buono in
Machiavelli può assumere vari significati, riferendosi ai valori morali, virtuosi, o politici. Machiavelli
sostiene che ci sono due modi di combattere: con le leggi (Uomo) o con la forza (bestia). Il principe
nuovo deve essere un centauro, mezzo uomo e mezza bestia, e deve anche condividere la natura
del leone e della volpe, dunque usare se necessario sia la violenza che l’inganno. In Machiavelli
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inoltre si ritrova anche l’idea della costruzione consapevole del male necessario: infatti un leader
politico deve imparare ad “entrare nel male”.
Nell’agire politico ci sono comportamenti appropriati, o “virtuosi” poiché si conformano a certi
valori politici, accompagnati da altri comportamenti immorali, che possono essere giustificati nella
misura in cui si conformano a determinati valori morali. Machiavelli vede la dimensione politica
come autonoma da quella morale, orientata da un codice parzialmente differente: seguire sempre
i valori morali potrebbe portare alla rovina.
A Machiavelli è chiaro che perché una società funzioni in modo ordinato, il diritto non è
sufficiente. Occorrono risorse di consenso, di fiducia reciproca, al limite di conformismo o di
obbedienza senza particolari motivazioni. Su questo tema, lui affronta la questione della
costruzione politica del diritto e della morale: i primitivi identificarono un corpo come “il più
robusto e con più cuore” da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone. Per
Machiavelli ogni comunità politica è divisa in gruppi. Ci sono due umori: il popolo (la moltitudine)
e l’elite sociale e politica (i grandi) il popolo desidera non essere comandato e soppresso dai
grandi, e questi invece desiderano proprio questo. Tuttavia questi due devono cooperare; inoltre
identifica il conflitto fra questi come dato fisiologico. È proprio attraverso il conflitto politico che il
popolo assume un ruolo attivo, viene incluso nella cittadinanza e si realizzano i cambiamenti
istituzionali. Il conflitto quindi non è solo fisiologico, ma è salutare per la Repubblica. Anche per
Machiavelli il conflitto diviene patologico e pericoloso, proprio a partire da questo con la paura
reciproca, si formano le sette. Machiavelli infatti precisa che anche la via della tirannide si apre
quando il popolo fa ricorso a “rimedi privati” e affida la protezione dei suoi interessi a un
personaggio potente. Per Machiavelli le forme pubbliche, sono semplici e mai pericolose; le forme
private invece sono pericolosissime e del tutto nocive. Inoltre lui distingue il conflitto che si origina
dalla divisione fra gruppi sociali e il conflitto che sorge dalla ricerca del potere personale. Il primo è
virtuoso e promuove la libertà (con innovazione giuridica), il secondo è patologico e conduce alla
tirannide.
 Repubblicanesimo e democrazia:
Tra il 400 e il 500 gli studiosi rivelano l’esistenza di un linguaggio politico repubblicano che
ripropone il modello costituzionale del “governo misto”. Con Pocock viene elaborato un vero e
proprio paradigma interpretativo. L’idea di fondo è che la materia dello Stato si trova soggetta ad
un processo di progressiva corruzione. La virtù civica è la forza che si oppone a questo processo:
solo con il governo repubblicano si può permettere alla virtù di consolidarsi ed espandersi, infatti
solo se la materia umana è virtuosa, è possibile che la Repubblica si mantenga. Per Pocock le idee
chiave della tradizione repubblicana non sono che una riformulazione di fondamentali concetti
aristotelici.
Secondo Skinner nell’Italia del XIII secolo la partecipazione politica è un mezzo per difendere le
libertà civili, e la virtù ha un significato strumentale, dato che consiste nell’insieme delle
disposizioni e delle capacità necessarie per un’efficace attività politica. Gli individui hanno
molteplici fini, ma la condizione per realizzarli è il vivere libero, col governo libero. La concezione
Machiavelliana della libertà, viene distinta da Skinner sia dalla libertà positiva degli antichi, sia
dalla moderna libertà negativa. La concezione di Machiavelli della libertà è negativa, poiché
consiste nell’assenza di costrizioni e impedimenti. Se nell’antichità la democrazia era vista come ‘il
governo della canaglia’, Machiavelli non è di questo parere; lui dichiara esplicitamente la sua
appartenenza al popolo e sostiene che questo gli permette di guadagnare un punto di vista
privilegiato. Questa dichiarazione di appartenenza si ricollega ad una valutazione positiva del ruolo
politico del popolo. E’ proprio con la Repubblica che si ha controllo sull’azione dei governanti per
sanzionare la corruzione. La moltitudine è più saggia e più costante che un principe. Un testo
molto importante (capitolo 55 del primo libro dei discorsi) parla del concetto di “qualità” per
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Machiavelli: questa viene vista come la condizione necessaria della Repubblica. I “gentiluomini”
sono definiti in termini economici come precettori di rendite che vivono in ozio: la presenza di tali
individui rende impossibile l’istituzione di una repubblica. Machiavelli infatti distingue la ricchezza
mobile (innocua) dal patrimonio immobiliare, che configura i veri e propri gentiluomini. Qui
abbiamo il concetto di inequalità, che genera la corruzione di materia. Gli uomini tendono ad
ampliare i propri beni, perché i loro desideri sono illimitati. Gli arricchimenti privati sono pericolosi
poiché rendono possibile la formazione di clientele e di esercizi privati. Nell’ideale classico di
governo della legge troviamo forme radicali di democrazia con i poveri al governo. Tra le forme
radicali di democrazia del governo misto abbiamo il monarca, i migliori e i molti; dove ognuno ha il
ruolo politico più adatto. Gli uomini appaiono per natura diseguali: I pochi, i migliori, deliberano; i
molti scelgono fra le alternative già deliberate. Il senso del governo misto sta nel cambiare questo,
poiché attraverso la divisione del lavoro permette una ordinata concordia del corpo politico.
Nelle opere di Machiavelli possiamo intendere che la cittadinanza è scissa in componenti diverse,
attraversata da differenti “umori”. Gli umori sono componenti sociali in conflitto potenziale ed
attuale: il conflitto può assumere forme differenti, virtuose o degenerative. Machiavelli allora
teorizza l’eguaglianza anche sul piano politico, dove oltre ai popolari, anche la plebe deve avere il
potere di proporre e discutere le leggi. Per Machiavelli il pericolo maggiore per la comunità politica
è rappresentato dalla tendenza dei gentiluomini ad imporre il proprio dominio. Il governo misto
così non esprime un ideale organico, ma piuttosto l’idea dei controlli e dell’articolazione dei poteri
in modo tale che “l’uno guarda l’altro”. Machiavelli ha un ruolo di protagonista politico: le leggi
che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione fra i due umori principali della
Repubblica.
 Aristotele nelle indie:
Dopo la conquista dell’America, gli occidentali entrarono in contatto con una nuova popolazione
che fu definita in vari modi: ad esempio come “perro” che sta ad indicare la bestialità dei nativi. La
teoria aristotelica è stata applicata alla questione delle Indie nel 1510 da John Mair: secondo
Tolomeo i popoli che vivono al di sotto dell’equatore sono ferini e vivono bestialiter; dunque, in
base all’autorità di Aristotele gli indiani sono servi per natura e possono vivere legittimamente
sottomessi e governati. La formulazione più radicale di questi argomenti è stata elaborata
dall’umanista Juan Ginès, formato dall’università di bologna, fu traduttore ufficiale di Aristotele
per il Papa e poi cronista e cappellano dell’imperatore. Ancora, Sepulveda, ritiene che la guerra,
per essere giusta, occorra un’autorità legittima e un animo retto da parte di chi la fa e una retta
ragione nel condurlo. La giusta causa si identifica con la risposta ad una iniuria. Nel caso delle Indie
però esistono altre cause di guerra ingiusta: 1. La condizione di servitù naturale dei barbari; 2. La
punizione dei peccati contro natura che essi commettono; 3. La difesa delle vittime innocenti dei
sacrifici umani. Pertanto i principi evangelici costituiscono ammonimenti ed esortazioni che
impegnano solo chi aspira alla perfezione apostolica. Sepulveda definisce i nativi americani come
omuncoli nei quali a stento potrai trovare vestaglia di umanità. E’ proprio lui a distinguere livelli
differenti di humanitas.
Francisco de Vitoria, un maestro parigino di teologia e filosofia, è stato l’iniziatore della seconda
scolastica, introducendo una teoria del diritto soggettivo: “il diritto è un potere o una facoltà che
perviene a chiunque in base alle leggi”. Solo gli esseri umani possono essere titolari di questo
diritto. I barbari delle Indie sono esseri razionali, anche se la loro è una forma di razionalità
minore; pertanto i diritti di proprietà e il potere politico esercitati dai barbari erano legittimi. Il
principio aristotelico della umana socievolezza diviene, con Vitoria, il fondamento di una serie di
diritti soggettivi universali, che rimanda al diritto naturale: lo ius peregrinandi, commercii,
communicationis, il diritto di diventare cittadini. Se questi diritti vengono negati, si commette una

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iniuria, che è giusta causa di guerra. Il termine iniuria ha appunto lo specifico significato della
violazione di uno ius. E’ proprio la possibilità di subire una iniuria che rende titolari di uno ius. La
guerra quindi è giusta in quanto condotta per reagire alla violazione di diritti naturali e universali.
Condizione necessaria dell’autosufficienza è la possibilità dell’autodifesa e della vendetta per le
ingiustizie subite. Quindi i sovrani spagnoli hanno la responsabilità di governare i barbari nativi
“allo stesso modo che si trattasse di bambini”.
Anche Bartolomè De Las Casa, innesta una teoria dei diritti soggettivi, continuando ad utilizzare la
teoria della guerra giusta e ereditata dal Juss naturalismo medievale. La prospettiva però è
rovesciata: sono stati gli indiani a subire iniuria e, dunque sono loro i titolari della giusta causa.
Infatti questo autore ha l’idea che tutte le guerre di resistenza degli indiani sono state giustissime
e tutte le guerre di conquista degli spagnoli sono state illegittime. Gli indiani sono giustificati non
solo quando si difendono dai conquistatori, ma anche in tutti i casi in cui hanno ucciso civili
innocenti, religiosi compresi. Infatti come stabilisce lo ius gentium, per coloro che cadono
prigionieri di chi combatte una guerra, i nativi hanno tutti i diritti di vendicare l’ingiustizia subita e
di ridurre in servitù tutti i prigionieri. Inoltre Las Casas riprende da Vitoria anche l’idea che la
titolarità dello ius belli è una condizione necessaria per l’autosufficienza della comunità politica.
Pertanto ogni popolo, città o regno può proibire a qualsiasi persona straniera l’ingresso per
qualsiasi motivo.
Las Casa distingue quattro accezioni di “barbaro”, proponendo la tesi che “gli esseri umani sono
nati originariamente liberi in virtù della loro natura razionale”. Inoltre Las Casas denuncia gli effetti
di disumanizzazione: la servitù quotidiana, l’oppressione, i continui maltrattamenti. Per quanto
riguarda il potere, per Las Casas, il consenso è essenziale: ogni trasferimento o cambiamento di
giurisdizione non ha validità in assenza dell’esplicito consenso dei governati. Il tratto più
innovativo del suo pensiero sta nello sguardo sull’alterità e la capacità di riconoscere le differenze
fra popoli: Las Casas infatti si impegna nella comparazione dei modi di vita, dell’economia, delle
istituzioni politiche, delle norme giuridiche e morali. Tutto ciò che viene misurato sta alla base
delle teorie utilizzate dal filosofo. La teoria dimostra infatti che gli indiani sono dotati delle tre
forme di prudenza (politica, economia e monastica) che Aristotele considerava necessarie per
perseguire il bene. E’ proprio Aristotele che credeva che perché un principio raggiunga il massimo
di certezza conseguibile e necessario che sia approvato da tutti o dalla maggior parte di loro.
 Il modello hobbesiano:
Di fronte a questo nuovo pensiero, la teoria politico giuridica elabora un nuovo modello teorico,
che trova la sua prima formulazione nel pensiero del filosofo inglese Thomas Hobbes. Lui conosce
il tentativo dei sovrani inglesi di imporre un governo assoluto, la resistenza del parlamento, la crisi
che sfocia nella guerra civile, la condanna di Carlo I.
Mentre Aristotele aveva distinto il metodo della filosofia pratica da quello delle scienze teoretiche,
per Hobbes c’è un unico modello: la ragione si identifica con il calcolo. Per Hobbes la conoscenza
certa si dà solo alla matematica. Nella matematica è possibile la certezza perché i numeri e le
figure sono costruiti dagli uomini; lo stesso avviene anche nella morale e nel diritto: proprio per
questo la politica e la scienza del giusto e dell’equo possono essere dimostrate a priori. In
contrasto con Aristotele, la comunità politica non è un ente di natura, ma un prodotto umano, una
costruzione artificiale. La contrapposizione fra i due filosofi è netta anche per quanto riguarda la
concezione dell’uomo: per Hobbes infatti gli uomini sono uguali per natura poiché anche il più
forte e il più intelligente devono dormire. L’uguaglianza degli uomini significa che essi desiderano
le stesse cose: questi desideri non hanno limiti; infatti una volta soddisfatto un desiderio, ne nasce
uno nuovo, così all'infinito. A differenza degli animali gli uomini sono caratterizzati dalla
vanagloria, quella passione che deriva dall’immaginazione del nostro potere, superiore a quello di

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chi lo contende con noi. Anche il desiderio di gloria è illimitato poiché tutti vogliono sentirsi
migliori degli altri. Hobbes introduce anche l’idea dello “stato di natura”, la condizione naturale ed
originaria dell’umanità. Per Hobbes questa condizione è il conflitto generalizzato, una situazione di
costante esposizione alla minaccia della morte violenta.
 Diritti naturali e leggi di natura:
La distinzione fra diritto in senso oggettivo e legge, fra ius e lex, right e law, è ormai definita da
Hobbes nei termini di una contrapposizione: diritto è la libertà di fare o non fare; legge determina
libertà o astensione. Legge e diritto differiscono come l’obbligo e la libertà. Il diritto di natura,
inteso come facoltà potere e libertà, è l’immediata traduzione deontica del principio di
autoconservazione. Da questo derivano le prime due leggi di natura, che prescrivono la ricerca
della pace e la mutua rinuncia al diritto di appropriazione. Hobbes parla di legge di natura che
definiscono la giustizia, gratitudine, il perdono o l’arroganza. Queste però appaiono molto deboli:
la legge di natura è inefficace in assenza della comunità politica: si tratta di norme morali, che
obbligano solo in foro interno e che non sono valide se contrastano con principio di
autoconservazione.
 Il Leviatano:
E’ la passione politica della paura, la paura della morte violenta, a spingere gli individui ad
accordarsi per trasferire tutti i loro diritti/poteri a una persona o a un’assemblea: si costituisce così
il sovrano. Gli individui stabiliscono fra loro il patto di sottomettersi al sovrano, così la moltitudine
si trasforma in popolo. Il solo modo per istituire un potere comune è quello di conferire tutti i
poteri del popolo ad un uomo che possa ridurre tutte le loro volontà, ad una volontà sola. Così si
costituisce lo Stato, il Leviatano, come lo chiama Hobbes ispirandosi al libro il Dio mortale. Per
Hobbes ragione e scopo dello Stato ed unica legittimazione della sua esistenza è l’uscita dalla
condizione di guerra. I sudditi dello Stato godono dei diritti che il sovrano concede loro. Una volta
istituito lo Stato, il sovrano gode del diritto alla censura delle opinioni, del diritto di pace e di
guerra; è il sovrano a istituire la proprietà, assente nello stato di natura. Non c’è nessun potere dei
sudditi senza il sovrano che li tenga insieme con la minaccia della forza.
-- Hobbes rifiuta l’idea del rule of law, nel senso della sovraordinazione di una legge al potere
sovrano. Queste posizioni che Hobbes prende si contrappongono alle teorie repubblicane: per
Hobbes la libertà degli uomini è la stessa degli animali e dei corpi inanimati. Libertà significa
assenza di opposizione. Una volta costituita la società civile, la libertà dei sudditi si trova solo in
quella sfera privata che il sovrano lascia al di fuori della regolamentazione giuridica. I sudditi
godono di una libertà negativa, cioè di un’assenza di impedimenti nelle cose che il sovrano non ha
menzionato (sfera privata ed economica).
-- Per Hobbes l’idea che il diritto consuetudinario sia indisponibile, e che il parlamento sia titolare
del potere legislativo autonomo, mette a repentaglio la potenza e la questione dello Stato. Per
Hobbes legge civile è solo ciò che viene comandato dal sovrano. Le corti non hanno alcuna
autonomia e i giudici sono suoi funzionari, non vincolati dai loro precedenti. Hobbes limita la
funzione del parlamento ed esclude che esso rappresenta il popolo. Si assiste ad una sorta di
demolizione della common law mind.
-- Contro tutte le dottrine teologiche che affermano l’esistenza di obblighi religiosi superiori ai
doveri civili, Hobbes argomenta la sua tesi secondo la quale per salvarsi è sufficiente credere che
Gesù è il Cristo; dunque il sovrano può decidere come si pratica il culto, quali sono i sacramenti e
afferma che il potere del sovrano è assoluto anche in materia di culto.
-- Per Hobbes la legittimazione del potere deriva dal contratto sociale. Lui utilizza lo strumentario,
a cominciare dalla nozione di contratto sociale, per fondare l’assolutezza del potere. Hobbes attua
una radicalizzazione che è allo stesso tempo una neutralizzazione. Nello stato di natura, non è

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subordinata alcuna legge morale, in quanto i diritti sono facoltà e poteri del soggetto, egli ne ha
infatti la piena disponibilità. Hobbes esclude dal diritto di natura la proprietà in quanto nello stato
di natura vigeva il diritto di appropriarsi di tutte le cose utili per la propria conservazione. Al
suddito non rimane che il pieno diritto naturale a cercare di sottrarsi al potere sovrano, nel caso
estremo in cui esso minacci la sua vita. Tuttavia Hobbes esclude ogni possibilità che i sudditi si
coalizzano in gruppi o leghe per difendere i propri diritti.
 Giusnaturalismo e Giuspositivismo:
Sono fondati entrambi da Hobbes: egli elabora infatti il modello dello schema dicotomico stato di
natura-società civile = stato, del passaggio dalla condizione naturale alla costruzione artificiale
dello Stato mediante il contratto. Il giusnaturalismo di Hobbes è laico, prescinde dalla legge divina.
Una volta costruito, l’uomo artificiale diviene unico autore della legge ed unico titolare dei diritti.
Le azioni del sovrano non possono venire messe sotto accusa dai sudditi. La fonte delle leggi è la
ragione di questo nostro uomo artificiale, lo Stato, ed il suo comando. Per Hobbes
l’interpretazione di tutte le leggi dipende sempre dall’autorità sovrana: è la legge positiva a
stabilire il lecito e l’illecito. La legge civile è legge della civitas; e fra gli Stati non vige alcuna altra
legge che la legge di natura.
(pag.83-schema)
 Locke:
John Locke, filosofo inglese, si confronta con al trono la dinastia Stuart. Il contrasto con le
componenti della società si riaccende e precipita nella “controversia sull’esclusione”. Il potere dei
sovrani infatti è ereditato per discendenza da Adamo e dai patriarchi, ed è stato Dio a conferire
questo potere ad Adamo. Negli anni 80 Locke elabora i due trattati sul governo, che in una
situazione di grande tensione affermano il diritto di resistenza e legittimano la rivoluzione. Il primo
trattato è una critica articolata al patriarca; il secondo trattato tratta la materia di salvaguardare la
proprietà degli individui con i diritti fondamentali dei cittadini. Per Lock lo Stato esiste per
salvaguardare una serie di diritti che esistono indipendentemente dallo Stato, sono diritti naturali
e che non vengono trasferiti allo Stato.
Per Locke gli uomini sono tutti uguali e vivono in uno stato di uguaglianza, godono di una perfetta
libertà di regolare le proprie azioni. Nello stato di natura gli uomini tornano ad essere degli animali
sociali, come in Hobbes, e in questo stato si dispiega una socialità per il politico che lo differenzia
dallo stato di guerra. Per Locke è chiaro il divieto di minacciare la vita ed i diritti altrui. Ma la
fondazione lockiana dei diritti sembra andare dall’onnipotenza di Dio, alla legge di natura, ai diritti
soggettivi, invertendo il senso della fondazione di Hobbes e reintroducendo il riferimento
teologico. E’ chiara la priorità deontologica della legge di natura sui diritti naturali. Inoltre tutti gli
individui hanno il diritto di ottenere riparazione al torto (godono in un potere esecutivo). Questo
diritto/dovere di punire impedisce quella dissoluzione della legge di natura che abbiamo colto in
Hobbes: è proprio questa la differenza tra le due teorie. Lock inoltre afferma esplicitamente che
esistono dei diritti innati, riprendendo la tradizionale tesi secondo la quale il possesso comune dei
beni è fondato sulla legge naturale. Ma anche la proprietà privata è un diritto di natura, poiché si
tratta dell’esercizio del lavoro del corpo, l’opera delle mani. Questo principio si trova anche in altri
autori, ad esempio Grozio: per Locke il potere di lavorare è l’incorporazione di una capacità di una
persona, un suo potere sull’oggetto stesso; per Grozio invece, si tratta di una presa di possesso di
questa attività.
 Lo stato e il trust:
Nel secondo trattato al capitolo sulla proprietà segue immediatamente la discussione sulla
fondazione dello stato civile e del governo. La funzione del potere politico sta nella tutela della
property. E’ proprio l’adeguata salvaguardia della proprietà ad apparire il fine più importante dello
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Stato: viene sancita la pena di morte per l’inflazione della proprietà. Per la conservazione della
proprietà di tutti i membri della società lo Stato si costituisce, allo scopo di tutelare questi poteri-
diritti. Nello stato di natura infatti manca una legge stabile e si rischia di cadere nello stato di
guerra. A questo scopo viene istituito lo Stato, la società politica. Il potere legislativo ed esecutivo
sono distinti: al legislativo la legge di natura impone il rispetto della proprietà; il potere esecutivo è
subordinato al legislativo, secondo un equilibrio complesso che Locke costruisce con il suo
contrattualismo antiassolutistico. Infatti tra i sudditi e il sovrano si stabilisce un rapporto di Trust,
un vero e proprio rapporto fiduciario. Se il legislativo non rispetta le clausole del trust, il popolo ha
il potere di destituire i suoi titolari e di mutarlo.
Nei due trattati sul governo di Locke, i riferimenti alla condizione delle terre extra europee, ai loro
abitanti, alla loro conquista, sono frequenti. A lui è stata attribuita la stessa redazione delle
costituzioni fondamentali della Carolina, che tengono insieme il governo di un’oligarchia
ereditaria, la tolleranza religiosa, schiavitù ed espropriazione dei nativi. La teoria della conquista
del secondo trattato esclude che la vittoria militare comporti un potere assoluto sulle vite dei non
combattenti e sui beni del popolo conquistato. Locke afferma che il vincitore di una legittima
guerra di conquista ha un potere “dispotico” sugli sconfitti: chi ha commesso un “atto meritevole
della morte” dà la sua vita in balia di un altro, che lo può ridurre al suo servizio. Già nel primo
trattato Lock aveva riproposto l’iniuria come titolo legittimo della guerra di conquista. Locke
sostiene che chi viola la legge di natura, può essere “distrutto come un leone o una bestia
selvaggia” (Diritto che l’uomo ha di uccidere un ladro).
Locke dice che il conquistatore non ha il diritto di appropriarsi delle terre dello sconfitto quando il
popolo conquistato è in stato di natura e c’è più terra di quanto gli abitanti del paese possono
possedere e usare. Locke affronta anche il problema che la terra non può che essere considerata
come originaria proprietà comune di tutti gli uomini. Deve esserci per forza stato un mezzo che
abbia consentito agli individui di appropriarsi della terra. Il mezzo è “Il lavoro del suo corpo e
l’opera delle sue mani”. L’America è l’esempio indiscusso: con le sue foreste vergini incolte è il
paradigma della terra posseduta in comune, lo scenario della condizione primitiva dell’umanità.
Lock fa questo confronto con l’America e dà forza a chi lavora la terra poiché dona all’umanità acri
in più. Per Locke l’infelicità degli ‘indiani barbari’ di Vitoria deriva dai sacrifici umani ed al
cannibalismo, dall’ improduttività del lavoro dei barbari. Da qui nasce il diritto degli inglesi di
appropriarsi delle terre americane. Proprio su questo si basa uno dei contesti per l’elaborazione
della filosofia politica lockiana. Inoltre Lock si esprime riguardo alla coltivazione: “coltivare la terra
è un dovere naturale”. Della conquista spagnola dell’America meridionale non mette in questione
la conquista francese e inglese in quanto i selvaggi dell’America settentrionale, non avevano diritto
di appropriarsi di tutto questo vasto continente.
 Rousseau:
È un filosofo e intellettuale del settecento che partecipa al movimento illuministico. Nell’originario
stato di natura gli individui vivono isolati e sono caratterizzati più dalla pietà che dalla ragione. Con
l’invenzione di armi ed utensili e i progressi nelle forme produttive, si viene a creare una
condizione di diseguaglianza. Con questa condizione si sfocia nello stato di guerra. Per Rousseau il
contratto sociale comincia con la constatazione “l’uomo è nato libero e dovunque è in catene”. La
gravità del problema richiede secondo il filosofo una soluzione radicale. Questa soluzione è
proprio il contratto sociale. Con questo, l’alienazione dei diritti soggettivi di cui gli individui sono
titolari nello stato di natura è completa: in questo modo tutti si trovano nella stessa condizione.
Rousseau fonda la nozione di sovranità popolare. Questa nozione rappresenta una radicalizzazione
di quella hobbesiana. Rousseau vuole fare in modo che I cittadini riacquistino i loro diritti, in
maniera completa. Cedere completamente i diritti col contratto sociale significa recuperarli in

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pieno, come membri del corpo sovrano. Inoltre riguardo alla pena di morte, crede che sia giusta
nella misura in cui “un cittadino che deve morire, muoia poiché solo a questa condizione ha
vissuto sicuro fino ad allora” invece per Hobbes il cittadino aveva diritto di cercare di sottrarsi alla
morte.
Ovviamente il sovrano non può avere interessi contrari a quelli del singolo cittadino e il criterio di
maggioranza serve ad accettare qual è la volontà generale e chi si trova in minoranza esprimendo
la propria volontà, si sbaglia, e sarà costretto a conformarsi con la volontà generale. La volontà
generale e quindi indivisibile, inalienabile, infallibile. Questa parla attraverso la legge generale ed
astratta, per cui non può essere interpretata. Secondo il filosofo, per il raggiungimento di queste
condizioni generali, occorre abolire il divieto di associazioni intermedie, la negazione della
rappresentanza, l’esclusione della divisione dei poteri.
 Kant: diritto morale, legge e libertà:
Immanuel Kant è l’ultimo grande esponente della filosofia illuministica e l’autore dell’ultima
importante variante del modello contrattualistica. Per Kant gli uomini naturalmente non sono né
socievoli ne ostili: lui parla di ‘insocievole socievolezza’. Nello sviluppo delle tendenze naturali,
l’uomo tende ad associarsi, dal perseguimento dell’interesse individuale si sviluppano i talenti e le
capacità dell’uomo, la sua stessa razionalità. Per Kant è importante delineare un sistema politico
che garantisca il massimo di libertà e di uguaglianza compatibili con le caratteristiche
antropologiche dell’uomo: a questo fine utilizza lo schema stato di natura - contratto sociale -
società civile. Nella critica della ragion pratica Kant definisce i principi della morale e formula tre
versioni dell’imperativo categorico: si deve agire in modo che il principio che ispira la propria
azione possa essere anche il principio di una legge universale, da considerarsi gli uomini sempre
come un fine e mai come un mezzo. Nella metafisica dei costumi Kant affronta la distinzione fra
diritto e morale: nella morale la legislazione è fine a se stessa e identifica l’azione è buono;
abbiamo l’autonomia delle leggi create dall’uomo, il dovere per il dovere, gli imperativi categorici
(formula del tu devi) e non è coattiva. Nel diritto, la legislazione ammette anche un impulso
diverso dall’idea del dovere, abbiamo eteronomia con le fonti delle norme, abbiamo azioni esterne
e doveri esterni, è coattiva e abbiamo imperativi ipotetici (formula del se). Inoltre Kant propone
una definizione del diritto: è l’insieme delle condizioni per le quali l’arbitrio di ognuno può
accordarsi con l’arbitrio degli altri secondo una legge universale di libertà. Da qua la legge
universale del diritto: visione di tipo repubblicano: tra libertà e legge c’è un nesso. Un elemento di
distinzione fra morale e diritto è la connessione diritto/facoltà di costringere. Il diritto vige anche
nello stato di natura, in particolare il diritto privato. Abbiamo anche la libertà (primo diritto
umano) sempre connessa alla legge universale, da cui scaturiscono altri diritti impliciti. In quanto
lo stato di natura è condizione di giuridicità precaria, in cui il possesso è garantito solo
provvisoriamente. Però da questo giuridicità provvisoria, si fonda il diritto di pretendere il rispetto
da parte degli altri, di qui la necessità dello Stato per garantire i diritti agli individui liberi. Per Kant
vige il “postulato del diritto pubblico” che obbliga ad uscire dallo stato di natura per entrare in uno
stato giuridico. Il diritto pubblico è il diritto positivo, dello Stato. Il contratto originario consiste
nella rinuncia alla libertà esterna per riprenderla come membri di un corpo comune. Si tratta di
un’idea della ragione. Quest’idea obbliga il legislatore a fare le sue leggi come se fossero scaturite
dalla volontà comune del suo popolo. Per Kant il paternalismo del “Dispotismo illuminato” è la
peggiore forma di dispotismo. Bisogna rispettare la divisione dei poteri: sovrano o legislativo,
espressione della volontà del popolo, ma presuppone libertà uguaglianza e indipendenza.
Esecutivo e giudiziario.
 Ordine interno e anarchia internazionale:

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Per i giusnaturalisti moderni è necessario un contratto sociale attraverso il quale gli individui si
uniscono in una associazione politica e conferiscono al sovrano il loro potere perché sia
impossibile una convivenza pacifica ed ordinata. Questi però hanno visioni assai differenti dello
stato di natura: tutti condividono l’idea che ci siano delle leggi di natura precedenti la formazione
dello stato civile. Ma ci sono molte differenze riguardo al contenuto di queste leggi. Autori come
Gentile, Grozio, Wolff, associano lo stato di natura ad una condizione di pace, del quale lo stato di
guerra rappresenta una degenerazione. Ben differente è la posizione di Hobbes, che identifica lo
stato di natura con lo stato di guerra. Della legge di natura consegue che nello stato di natura non
ci sia né giusto né ingiusto: soltanto una volta che si costituisca lo Stato è possibile la pace. Dopo la
pace del 1648, i trattati di pace delineano il modello di Westfalia: con questo i soggetti di diritto
internazionale sono solo gli Stati, non esiste un legislatore internazionale, gli Stati non riconoscono
un potere superiore al loro, ogni Stato ha il pieno diritto di ricorrere alla guerra per difendere i
propri interessi. Per questi motivi in questo periodo ci furono numerose guerre, ma esse assunsero
un carattere molto più mite. Questa attenuazione della violenza bellica fu il risultato del processo
di incivilimento conseguente all’affermazione della ragione del secolo illuminista. Infatti la guerra è
vista come un fattore dannoso dal punto di vista economico, commerciale ed umano. Questa è
l’effetto di una degenerazione della natura, è concepito come una vera patologia. Per Kant, gli
Stati devono fare quello che i singoli individui hanno fatto per l’ambito interno: trasferire la loro
sovranità ad un’entità superiore, una lega di popoli, solo in questo modo ci sarà la forza necessaria
per mantenere la pace. Il filosofo quindi delinea 3 articoli definitivi per il mantenimento della pace:
1. La costituzione civile in ogni Stato deve essere repubblicana; 2. Il diritto dei popoli deve essere
fondato su una federazione di liberi Stati; 3. Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle
condizioni dell’ospitalità generale. Kant prospetta una libera federazione di Stati sovrani e realizza
il progetto di pace perpetua in un’opera poco successiva: nella metafisica dei costumi. Qua la pace
viene reinterpretata come un’”idea regolativa”: il mantenimento della pace sarà possibile se si
costruiranno istituzioni sopra nazionali cui gli Stati trasferiranno la loro sovranità (nuovo
modello del pacifismo).
 Codificazioni e giuspositivismi:
L’Illuminismo influenza profondamente anche la riflessione teorica sul diritto. Il caos delle
moltissime fonti, genera un’incertezza del diritto. Il diritto comune era affetto nel settecento da
una profonda crisi. La soluzione proposta dagli illuministi dinanzi a questa crisi è la riscrittura
dell’ordinamento normativo in modo che diventi conforme al diritto naturale. Dedotte dal diritto
naturale, le leggi saranno poche, semplici e chiare; saranno poi generali ed astratte. Inoltre in
questa impostazione è importante il divieto fatto al giudice dell’interpretazione creativa.
In Francia la situazione è estremamente complicata. Al diritto scritto, si affianca il diritto
consuetudinario: nel sud vige il diritto romano accanto alle leggi scritte; nel nord si trovano decine
di differenti consuetudini. La soluzione che viene individuata è quella indicata da Voltaire: la
redazione di un codice che raccolga tutto il diritto francese, derivandone i principi del diritto
naturale. Nel 1790 si decide di creare un codice generale, che diviene l’unica fonte del diritto.
Successivamente nel 1807 segue il codice di procedura civile, l’anno dopo quello di procedura
penale e il codice penale. La codificazione ha conseguenze molto importanti sulla teoria del diritto.
Nel corso della redazione del codice si pensò anche di introdurre un istituto che sanciva il fatto che
qualora un giudice avesse incontrato difficoltà nell’interpretazione, la decisione sarebbe spettata
al parlamento.
In Germania, Thibaut scrive la necessità di un diritto generale per la Germania: suggerisce ai
principi tedeschi di promuovere la redazione di un codice comune per tutti gli Stati tedeschi.
Contro questa tesi, Savigny paragona la diffusione del codice Napoleone in Europa alla diffusione

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di un cancro. Per lui il diritto nasce dalla coscienza comune di un popolo, quindi ogni popolo deve
avere un diritto diverso, non costruito artificialmente ma che nasce dalle consuetudini e in
costante evoluzione. Savigny delinea tre fasi nell’evoluzione del diritto: consuetudinario (il diritto
prodotto dallo spirito del popolo); diritto scientifico (il diritto rielaborato dai giuristi); diritto
legislativo (il diritto formulato in leggi e codici, delinea una fase di decadenza). Il codice civile
tedesco vedrà la luce solo nel 1900. I giuristi tedeschi costruiscono gli istituti giuridici, e con
Savigny si avvia la stagione della pandenttistica, che si occuperà di lavorare sul diritto attuale per
chiarirne i concetti.
In Inghilterra il sistema giuridico era caratterizzato dalla common law, in opposizione con il
diritto continentale e la statute law. Era opposta anche alla equity. Contro la tradizione giuridica
inglese prende posizione il filosofo Bentham, legato alla tradizione dell’Illuminismo, dice di
comprendere la differenza tra la ‘law’ del comando sovrano e ‘law’ come ordinamento giuridico.
Secondo Bentham gli uomini sono mossi dal dolore e dal piacere, che determinano le loro azioni.
L’utilitarismo identifica il bene con la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore,
ossia con il “principio della massima felicità per il maggior numero”. Il filosofo delinea il progetto
(fallito) di una riforma del diritto penale inglese e di una codificazione del diritto civile e
costituzionale. Infine Bhentam delinea il progetto di una teoria generale dei concetti giuridici che si
articolano in: analisi del diritto come è; critica del diritto esistente e definizione del diritto come
deve essere. Lui distingue anche l’analisi del diritto di un paese specifico, dall’analisi dei vari
sistemi giuridici. Un suo allievo, Austin, propone una sua versione dell’ utilitarismo detto ‘della
regola’. Per Austin la law è un comando sanzionato dal sovrano. Dal diritto si distinguono la legge
divina, la moralità positiva, che include diritto consuetudinario, internazionale, costituzionale.
Nell’ambito della giurisprudenza Austin distingue: particular jurisprudence (quella locale di
Bentham) e la general jurisprudence (punti in comune di common law e diritto romano e diritti
codificati).
 Hegel:
È la figura filosofica di maggior spessore. Nella sua opera lui esprime che “la scienza del diritto è
una parte della filosofia”: secondo Hegel per conoscere il diritto è insufficiente l’intelletto, bensì
occorre la ragione che adopera la logica dialettica. La realtà si identifica con lo spirito nella sua
articolazione dialettica che ha tre momenti: determinazione-negazione-negazione della negazione.
Per Hegel diritto significa almeno due cose: privato e penale. La realtà quindi è compresa come
sistema. Lo schema generale del sistema hegeliano è questo: scienza della logica, filosofia della
natura, filosofia dello spirito. La filosofia dello spirito si articola in spirito soggettivo, assoluto,
oggettivo.
La filosofia del diritto riguarda lo spirito oggettivo, si articola in tre momenti: diritto astratto,
eticità, moralità. Il diritto astratto esprime I diritti e i doveri del singolo. I suoi momenti sono 1.
Proprietà: affermazione della libertà 2. Contratto: la volontà riconosce altre volontà 3. Illecito:
frode o delitto, si ha risarcimento o una pena. Nella moralità la volontà si riflette in sé, si fa
interiore. Nell’eticità l’idea etica si realizza nelle istituzioni, dove gli individui possono realizzarsi. I
momenti sono: 1. Famiglia 2. Società civile: gli individui entrano in competizione con le loro
volontà particolari 3. Stato: Dove gli individui sono pienamente sviluppati dal punto di vista etico.
Solo nello Stato la libertà non è più astratta.
Sul piano del diritto internazionale Hegel attacca direttamente il progetto di Kant di pace
perpetua, dichiarandolo irrealistico. Proprio perché al di sopra degli Stati non c’è nessun giudice,
essi rimangono rispettivamente nello stato di natura. Se esiste la guerra, bisogna lasciare aperta
anche la possibilità della pace. La guerra assume così un significato etico. Per Hegel la guerra
consiste nell’evitare quella corruzione nella quale i popoli cadrebbero in conseguenza di una pace

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prolungata o perpetua. Inoltre ha il “superiore significato” di ricordare che le cose temporali sono
finite. Inoltre nella guerra avviene il reciproco riconoscimento degli Stati, quindi si può considerare
la pace.
In Hegel si assiste alla demolizione dei sistemi di diritto naturale: la totalità etica (il popolo)
precede l’individuo; in essa il tutto è superiore alle parti (critica del contratto sociale); è un evento
storico (critica dello stato di natura). Hegel elabora una legittimazione razionale dello Stato,
recuperando così dal giusnaturalismo la razionalità dello Stato.
 Marx:
Passato dagli studi giuridici a quelli filosofici, nei suoi primi scritti Marx affronta temi di critica del
diritto e della filosofia del diritto. Per il giovane Marx, Hegel ha il grande merito di aver colto nella
società la separazione dello Stato della società civile. Ma il suo limite consiste nel proporre una
soluzione arretrata per ricomporre questa separazione. Marx approfondisce la questione del
rapporto fra Stato e società civile, sostenendo che la “profondità” del pensiero di Hegel consiste
nell’aver colto come “contraddizione” il rapporto fra la società civile e la società politica. Hegel
però si accontenta di una soluzione apparente e surrettizia. Secondo Marx, l’individuo, per
comportarsi come effettivo e reale cittadino dello Stato, deve uscire fuori dalla sua condizione di
cittadino normale, deve quindi abbandonare la società civile. Da parte sua la società civile deve
compiere una completa “transustanziazione”. Nel saggio sulla questione ebraica, per Marx,
l’emancipazione politica è un grande progresso, ma non è l’ultimo stadio dell’”emancipazione
umana”: questa consiste nel riconoscere e nel ricomporre i diversi elementi dell’esperienza
dell’individuo, dal lavoro alle relazioni sociali.
Alcuni anni più tardi, nel contesto delle lotte rivoluzionarie del 1848, Marx pubblica insieme ad un
altro politico il manifesto del partito comunista. Un testo politico in cui i due autori delineano
l’immagine della storia come storia di lotta di classe, dello Stato come comitato di affari della
classe al potere. Con l’esilio a Londra Marx si concentra sul progetto della “critica dell’economia
politica".
Lui crede che gli uomini entrano in rapporti necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti
di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della
società, ossia la base sulla quale si eleva una struttura giuridica e politica. Ci sono altri scritti
occasionali e polemici come quello sulla comune di Parigi che offrono considerazioni interessanti
sul rapporto fra diritto, società, conflitti di classe: Marx infatti ipotizza la prima e la seconda fase
del comunismo e delinea il “superamento dell’angusto orizzonte giuridico borghese”; in questa
circostanza si avrà il superamento del diritto, in quanto questo sarebbe identificato con il diritto
alla disuguaglianza.
Nella teoria giuridica dell’ottocento si afferma il giuspositivismo formalistico: i teorici prestano
attenzione alle sole norme valide formalmente, a prescindere dalla loro osservanza ed ai valori che
rispecchiano; si ha: il rifiuto del diritto naturale, e il tentativo di ricostruire una scienza del diritto
come scienza formale. Nei corsi di diritto romano delle università tedesche si introdusse una parte
generale che ordina logicamente i concetti. Dopo, con il processo di unificazione nazionale, si ha la
trasposizione dei concetti di diritto privato (insieme delle facoltà conferite all’individuo) nel diritto
pubblico (insieme delle facoltà conferite allo Stato). Questa impostazione viene criticata da una
serie di giuristi “antiformalistici”. In particolare Ihering elabora la distinzione fra norme primarie e
secondarie (rivolte ai cittadini e le seconde ai giudici). Ancora, Heck rifiutò il dogma della
completezza dell’ordinamento e avvia la giurisprudenza degli interessi: le lacune devono essere
colmate mediante il legislatore.
 Sociologia del diritto:

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La definizione di sociologia è “teoria sociale” esiste già a partire dall’epoca del positivismo quando
Auguste Conte introdusse il termine come titolo di una sua opera. I fondamenti della sociologia del
diritto di Eugen Ehrlich possono essere considerati il testo che fonda la sociologia del diritto come
disciplina autonoma. Più che alla teoria delle fonti, Ehrlich è interessato all’individuazione delle
forze motrici del diritto. E’ l’organizzazione che trasforma un insieme di uomini in un gruppo.
Questa organizzazione avviene attraverso i fatti del diritto: consuetudine, dominio, possesso,
contratto. Il suo scopo è l’analisi del diritto vivente: il diritto vivente è in contrapposizione a quello
valido solo per i tribunali e per gli altri organi di autorità. Il diritto vivente è il diritto che regola
tutta la vita sociale.
 L’istituzionalismo: Santi Romano
L’istituzionalismo può essere visto come una risposta all’antiformalismo. Fra i suoi maggiori
esponenti, Santi Romano propone una considerazione del diritto “in sé e per sè” allo scopo di
concludere il diritto in un’entità obiettiva, che è il suo principio e la sua fine. Romano rivela
l’inadeguatezza della definizione del diritto come regola di condotta, norma; manifesta una presa
di distanza dalla definizione del diritto come norma azionabile davanti a un giudice. L’elemento
norma emerge solo nel diritto privato e nel diritto penale, non nel diritto costituzionale,
amministrativo e processuale. Anche per la definizione di ordinamento giuridico, per Romano è
inadeguato considerarlo come un insieme di norme, come se fosse una somma aritmetica, e non
un’unità concreta ed effettiva. Il concetto di diritto deve contenere alcuni elementi: riferirsi alla
società, contenere l’idea di ordine sociale, essere organizzazione, struttura della stessa società in
cui si svolge. Istituzione è ogni ente o corpo sociale che deve avere un’esistenza obiettiva,
concreta; deve essere un ente chiuso, che ha una propria individualità; non deve perdere la sua
identità; deve essere manifestazione della natura sociale dell’uomo.
 Hans Kelsen:
Nato a Praga, fu perseguitato dal nazismo ed esiliato negli Stati Uniti per via delle sue origini
ebree. È considerato da molti il massimo giurista e filosofo del diritto del 900. Lui ripropone alcune
tesi riguardanti il normativismo, formalismo e dell’autonomia della scienza giuridica. Secondo
Kelsen, per essere scientifica, una teoria del diritto deve essere pura: cioè deve trarre i suoi
concetti esclusivamente dalle norme, rivolgendosi ad un’analisi del diritto positivo. Kelsen inizia la
prima sezione del volume (nomostatica) distinguendo il diritto e la giustizia. Il concetto di diritto,
designa una tecnica specifica di organizzazione sociale e si distingue dalla giustizia in quanto è
diritto positivo. Per Kelsen non si può paragonare la giustizia al diritto naturale; ammette
comunque che solo un ordinamento giuridico che soddisfa gli interessi di una persona, senza
sopraffarne un’altra, può durare. L’efficacia dell’ordinamento giuridico riposa sulle sanzioni: sono
misure coercitive e si tratta di sanzioni organizzate socialmente. Facendo ciò il diritto assicura la
pace della comunità. La teoria pura si occupa delle norme, della loro validità, identificata con
l’esistenza della norma. Le sanzioni hanno la forma di giudizi ipotetici: “se X allora Y”.ma bisogna
fare una distinzione fra la legge naturale ( se X è, Y è) e norma giuridica ( se X è, Y deve essere).
Abbiamo quindi norme primarie (rivolte ai giudici) e norme secondarie (rivolte a cittadini). In
questa impostazione il dovere giuridico non è nulla di diverso dalla norma giuridica; per contro, il
diritto soggettivo consiste nella possibilità giuridica di mettere in moto la sanzione.
La Nomodinamica invece, considera le norme nei loro rapporti reciproci. Per Kelsen “il
fondamento della validità di una norma è sempre una norma”. Tutte le norme possono essere
ricondotte ad un’unica norma fondamentale, che conferisce validità alle norme e all’ordinamento.
Bisogna però distinguere i sistemi statici (dove le norme sono valide in virtù del loro contenuto) e i
sistemi dinamici (dove le norme non possono essere dedotte da quella fondamentale e che quindi
in base a quella fondamentale un’autorità competente crea delle norme). Il diritto è un sistema

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normativo dinamico. La norma fondamentale (non può essere né religioso né immorale) è dunque
il presupposto necessario di qualsiasi interpretazione del materiale giuridico. Lo schema è il
seguente: sentenza del giudice, legge, costituzione, norma fondamentale. Inoltre Kelsen condivide
l’idea che l’ordinamento non abbia lacune, rinunciando però al formalismo interpretativo. Il
giudice infatti crea diritto, nel senso che la sua decisione è una norma giuridica individuale.
 Schmitt: il diritto e il politico
Carl Schmitt insiste sulla politicità del diritto ed enfatizza il ruolo della sovranità. Per Schmitt è il
politico a fondare il diritto. Le norme generali ed astratte sono valide solo per il caso normale, non
per i casi eccezionali. Il caso eccezionale richiede la decisione del sovrano, lo stesso ordinamento è
risultato della decisione. Il caso di eccezione rende palese l’essenza dell’autorità statale. La
specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i movimenti politici è la
distinzione di amico e nemico, “nemico” in senso politico è solo un insieme di uomini che
combatte e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano. Lo Stato è l’unità politica
decisiva, ad esso compete il jus belli, di poter individuare il nemico e di combatterlo. Schmitt
critica la teoria della guerra giusta: non esiste uno scopo razionale né una norma giusta, che possa
far apparire giusto che gli uomini si ammazzino a vicenda. Inoltre il carattere politico implica la
pluralità degli attori: sulla terra mi saranno sempre più Stati e non può esistere un unico Stato
mondiale.
 Il neogiusnaturalismo:
Nel corso del 900 sono state elaborate alcune teorie neo-giusnaturalistiche. Lo shock del nazismo,
della Shoah e delle carneficine nella seconda guerra mondiale ha riproposto il problema della
giustizia delle norme. Per Gustav Radbruch fu grazie a due principi che il nazismo e socialismo
seppe incatenare a sé i suoi seguaci e i giuristi: “un ordine è un ordine, la legge è legge”. Secondo
Radbruch esistono una ingiustizia legale e un diritto sopra legale. Per questo la norma
caratterizzata da una “suprema ingiustizia” non è valida. Quello nazista era uno “stato di non
diritto”. Anche per questo occorre la massima cura nel salvaguardare la certezza del diritto. Nel
dopo guerra Fuller si schiera contro la tesi sulla separabilità fra diritto e morale. Per lui infatti vi è
una morale intesa come insieme di norme esterne al diritto, ed è una morale interna al diritto
positivo. Si tratta di una morale procedurale.
 Il realismo Giuridico:
È il complesso di concezioni del diritto, anche molto diverse tra loro, accomunate dal fatto di
attribuire rilevanza particolare all’effettiva operatività del diritto nella società e alla sua concreta
applicazione da parte dei giudici nei tribunali. In questo senso, tali correnti di pensiero si
contrappongono al formalismo giuridico e al legalismo tipici del giuspositivismo. Rientrano sotto la
generica denominazione di realismo giuridico 
— la giurisprudenza degli interessi e della sociologia;
— la teoria del diritto libero (ted. Freirecht)
— la teoria del rapporto giuridico; 
— la teoria istituzionale del diritto [vedi Istituzionalismo]; 
— il realismo giuridico in senso stretto (americano e scandinavo). 
Rispetto al giuspositivismo, alcune correnti «realiste» (ad es. la giurisprudenza sociologica) attuano
una diversa valutazione etico-politica del diritto, attribuendo maggiore rilevanza ai fatti, ai concreti
rapporti sociali e, quindi, alle norme effettive, per cui propongono una lista di fonti del diritto più
ampia, comprensiva anche delle consuetudini sociali, degli interessi diffusi.
Altri tipi di realismo accolgono una concezione predittiva della giurisprudenza, la quale dovrebbe
disinteressarsi del diritto meramente scritto e considerare solo quello effettivamente vivo e
operante nei tribunali. 

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La maggior parte dei giusrealisti ritiene che le leggi e tutte le norme giuridiche generali e astratte
abbiano scarsa rilevanza sui comportamenti giudiziari, i quali sarebbero invece più direttamente
influenzati dalle tendenze giurisprudenziali. Non mancano, tuttavia, coloro che considerano
innegabile l’influenza delle norme sul diritto vero e proprio. Tutte le correnti giusrealiste, ad ogni
modo, esprimono una concezione di estremo scetticismo nei confronti dell’interpretazione
giuridica; esse infatti lamentano l’ineliminabile indeterminatezza e vaghezza delle norme generali
nei confronti dei casi concreti e rimarcano la natura creativa dell’attività applicativa di tali norme ai
casi concreti. 
Di estremo scetticismo interpretativo è particolarmente intriso il realismo giuridico americano,
che annovera tra i principali esponenti Jerome Frank, Karl L. Llwellyn, Oliver W. Holmes.
Tali giuristi ritengono che il diritto non sia composto da norme generali e astratte ma dal
complesso delle decisioni concrete dei giudici. Le norme giuridiche, se non ricevono effettiva
applicazione nei tribunali, restano vuote formule. 
Il realismo giuridico scandinavo annovera tra i suoi maggiori esponenti Axel Hägerström, Vilhelm
Lundstedt, Karl Olivecrona, Alf Ross. 
Il fondamento di tale corrente realista è prevalentemente filosofico e metodologico, in quanto si
pone come obiettivo quello di correggere il discorso dei giuristi togliendo qualsiasi collegamento
ideologico e metafisico. In particolare, gli esponenti del realismo scandinavo rivolgono accuse ai
giuspositivisti, i quali, limitandosi a descrivere le norme per come devono essere applicate e non
per come lo sono di fatto, finiscono inevitabilmente col confondere tra descrizione dei fatti e
valutazione degli stessi, compiendo inevitabilmente un’opera ideologica. 
Obiettivo principale di tali autori è quello di restituire al discorso giuridico il carattere di discorso
scientifico, eliminando qualsiasi riferimento a concetti privi di valenza empirica e dotati di mera
funzione sistematica o persuasiva. La vera scienza del diritto deve essere sociologica e
previsionale, ossia deve descrivere esclusivamente quegli aspetti del diritto che hanno una
esistenza effettiva, in quanto realmente in grado di influenzare i comportamenti umani.
 Herbert Hart:
Hart propone una versione aggiornata del normativismo giuspositivistico. Dal punto di vista
metodologico, lui si rifà alla filosofia analitica del linguaggio: il suo scopo è analizzare il concetto:
gli usi del termine e le regole d’uso. Secondo Hart il diritto è formato da norme emerse fra i
consociati (consuetudine) e norme prodotte dai giudici. Accanto alle norme che impongono
obblighi (primarie) vi sono le norme che conferiscono poteri (secondarie, allora volta sono di tre
tipi: di riconoscimento, che servono a conferire validità; di mutamento, che stabiliscono le
procedure e attribuiscono i poteri per cambiare le norme; di giudizio, conferiscono ad organi il
potere di irrogare sanzioni.) e il diritto moderno è l’unione di queste due tipi di norme.
Hart elabora la sua critica del giusnaturalismo: non nega il rapporto fra diritto e morale, ma questo
non significa che un ordinamento giuridico mostri qualche specifico elemento di conformità con la
morale e la giustizia, o si basi sulla convinzione che vi è un obbligo morale di obbedirlo.
Hart propone anche una critica del giusrealismo: a suo avviso c’è differenza fra essere obbligati ed
avere un obbligo; lui elabora una teoria dell’interpretazione mista fra formalismo e realismo,
parlando di ‘trama aperta’ del diritto. Es. del non introdurre veicoli (che categoria di veicolo) nel
parco.
 Diritto, guerra e pace:
La prima guerra mondiale, seppur iniziata come una guerra fra stati sovrani, si conclude
assumendo un significato radicalmente differente. Con i trattati di Versailles le potenze alleate
criminalizzano gli imperi centrali come responsabili della guerra e, decidono di processare Kaiser
come principale responsabile. In questo contesto, Kelsen ripropone il progetto kantiano in forma

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aggiornata. Per lui vi è un solo ordinamento giuridico in un’unica struttura che include il diritto
statale e diritto internazionale. Nella Teoria generale il tema è ripreso negli stessi termini: in primo
luogo, Kelsen afferma la giuridicità dell’ordinamento internazionale. Le norme giuridiche
internazionali sono vere norme giuridiche in quanto dispongono di mezzi normativi di coercizione.
Dunque Kelsen riabilita la teoria della guerra giusta per assicurare all’ordinamento internazionale il
carattere di diritto vero e proprio. Propone una visione monistica dell’ordinamento globale, nella
quale il diritto internazionale è “ordinamento giuridico universale che comprende anche tutti gli
ordinamenti statali”. La norma fondamentale diventa allora quella dell’ordinamento
internazionale. Per Kelsen, il diritto internazionale è lo strumento essenziale per il mantenimento
della pace. Nel la pace attraverso il diritto, Kelsen riconosce le barbarie della guerra, la follia
nazionalistica e riconosce la guerra come la più grande disgrazia della nostra cultura. Infatti
nonostante in una società organizzata sia impossibile l’assenza assoluta della forza, si dovrebbero
autorizzare certi individui a compiere atti coercitivi per evitare i crimini e i delitti.
Riguardo al problema della pace, Kelsen rivendica la priorità dell’approccio giuridico su quello
economico. Il metodo più efficace per far rispettare gli ordini sarebbe la creazione di un potere
esecutivo centralizzato, di una forza di polizia internazionale che restringesse o distruggerebbe la
sovranità statale.
 Ortung e ordnung:
Nel 1950 Carl Schmitt scrive ‘il nomos della terra’: al centro del libro c’è il rifiuto delle tendenze del
diritto internazionale che emergono con la vittoria alleata nella seconda guerra mondiale. La terra
è la “madre del diritto”, risulta quindi strettamente legata al mondo del diritto ed è l’atto
primordiale da cui viene istituito il diritto stesso. Nel medioevo cristiano si definì un’ unità
complessiva di diritto internazionale e, con le scoperte geografiche e le conquiste del XVI secolo, si
pone il problema “di un ordinamento di diritto internazionale per l’intero mondo”. La prima
esigenza che si avvertì fu quella di tracciare linee globali per suddividere e delimitare lo spazio
globale. Attraverso la tracciatura di queste linee, viene divisa l’Europa dal “nuovo mondo”. Al di
qua della linea, in Europa, c’è la limitazione della guerra; oltre la linea c’è il libero e spietato uso
della violenza. Tuttavia entrambe le parti si riconoscono come Stati sovrani. Per limitare una
guerra e affermare lo ius in bello, si presuppone la sovranità e l’uguaglianza degli Stati, il
riconoscimento reciproco del giusto nemico, l’eliminazione della giusta causa.
Per Schmitt è impossibile abolire la guerra, l’ideale dell’abolizione rende impossibile la limitazione
della guerra e lascio il campo libero alla guerra di annientamento. Nello jus publicum europaeum
fu possibile una limitazione della guerra. Questa concezione viene elaborata da: Vitoria, crede che
il principe che muove guerra giusta è giudice legittimo fra le parti; Gentili, che muove polemica
contro le guerre di religione; Zouch, definisce i tipi di avversario con la consapevolezza della
struttura interstatale; Vattel, con “une guerre en forme”.
 Il ritorno della guerra giusta:
La teoria della guerra giusta a questo punto sembra sepolta per sempre. Norberto Bobbio da un
quadro della nuova situazione: muove dall’immagine della storia umana come un labirinto, nel
quale dopo il delinearsi dell’equilibrio del terrore, la guerra si rivela come una “via bloccata”.
Bobbio sostiene in particolare che la guerra atomica no il colpo di grazia alla teoria della guerra
giusta. Tale teoria, sostiene Bobbio, assimila la guerra ad un procedimento giudiziario. Ma tale
assimilazione è indebita. Infine la teoria della guerra giusta richiede una fondazione teorica di tipo
giusnaturalistico, mentre nella teoria contemporanea prevalgono tendenze giuspositivistiche. Al
momento dell’istituzione delle Nazioni Unite come garanti del diritto contro la guerra, nel dibattito
pubblico si è tornato ad utilizzare ampiamente la categoria della guerra giusta. In particolare
ricordiamo il dibattito sull’intervento della Nato contro la Repubblica jugoslava del 1999,

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giustificato sulla base di una concezione dei diritti umani visti come principi etici universali. Nel
frattempo però la tecnologia militare si evolve: nelle guerre contemporanee si assiste ad un
dispiegamento di mezzi tecnologici tali da rendere impropria l’espressione “guerra
convenzionale”. In questi sviluppi è stato letto un processo di transizione dalla guerra moderna alla
guerra globale. Su questo sfondo ricordiamo Walzer, che fin dagli anni 70 propone una
riappropriazione della nozione di guerra giusta. Infatti egli sostiene che la guerra è tutt’altro che
legibus soluta. Le norme sulla guerra acquistano pieno significato soltanto se attribuiamo a loro il
compito di riconoscere e rispettare i diritti dell’uomo collettivamente considerati. Infatti anche per
Walzer guerra giusta è la risposta ad un’aggressione.
 John Rawls:
L’opera del filosofo statunitense Rawls, e in particolare il suo libro ‘A theory of Justice’ marcano
una svolta nella filosofia politica contemporanea: l’opera di Rawls segna il rilancio in grande stile di
una ricerca etica che intende elaborare e chiarificare i principi, valori, giudizi morali. E’ come se i
contemporanei non disponessero di sufficienti certezze ideologiche; da qui lo sviluppo di nuove
branche dell’etica, le cosiddette ‘etiche applicate’. Negli anni 50 e 60 il campo della teoria politica
era stato caratterizzato da un predominio del modello epistemologico neo positivistico. E’ proprio
la pubblicazione di A Theory of Justice a segnare l’evento per la successiva espansione dell’ambito
di ricerca in filosofia politica normativa. Si potrebbe ipotizzare che l’emancipazione della teoria
politica si sia risolta nella sua riduzione ad un settore della teoria morale. L’opera di Rawls ha
suscitato l’interesse di autori filosofi del diritto ed anche di giuristi positivi. Che in etica si torni ad
elaborare un approccio tale da permettere di conoscere cosa dobbiamo fare, e che in filosofia
politica si tenti di costruire una teoria della società giusta, finisce per mettere in questione una
nozione accreditata di filosofia del diritto.
 La giustizia come equità:
A Theory of justice, muove da un’affermazione molto impegnativa: “la giustizia è il primo requisito
delle istituzioni sociali”; “ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia”. Dunque i
diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del
calcolo degli interessi sociali. Rawls costruisce una teoria della giustizia adoperabile, alternativa
all’utilitarismo e superiore adesso. Il suo interesse va in direzione della elaborazione dei principi
normativi generali e della loro legittimazione. Riconosce che abbiamo quotidianamente a che fare
con i problemi derivanti da un osservanza solo parziale delle norme. Il filosofo ritiene che prima si
devono elaborare i principi in condizioni ideali, e poi porre il problema della loro applicabilità nelle
condizioni reali. Per elaborare questa concezione, Rawls costruisce l’erede contemporaneo dello
‘stato di natura' che definisce “posizione originaria”. In essa gli individui si trovano in una
condizione di uguaglianza e scelgono insieme i principi che devono assegnare i diritti e i doveri
fondamentali. A differenza dei contrattualisti, Rawls non attribuisce agli individui nella posizione
originaria determinati diritti, questa attribuzione è successiva alla scelta dei principi di giustizia.
Nella posizione originaria gli individui sono dunque solo liberi ed uguali. Qui nessuno conosce il
suo posto nella società o il suo stato sociale, poiché ognuno gode di un’identica condizione.
Dobbiamo aggiungere che nella posizione originaria, le parti sono razionali e “reciprocamente
disinteressate”, gli individui non soffrono di invidia. Dunque nella posizione originaria le parti
cercano di individuare dei principi di giustizia che favoriscano più possibile i loro fini. Tutti gli
accordi raggiunti devono essere equi. Nessuno infatti deve essere avvantaggiato o svantaggiato
dalla scelta dei principi in ragione della sua condizione sociale o naturale.
Secondo Rawls, nella posizione originaria le parti sceglierebbero una concezione della giustizia
articolata in due principi: il primo attribuirebbe ad ogni individuo il diritto di massima libertà e
uguali diritti. Il secondo stabilisce che le ineguaglianze economiche e sociali devono essere:

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collegate a cariche e posizioni aperte a tutti, e per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati.
Infatti tutti i valori sociali devono essere distribuiti in modo uguale. Un individuo che si trova sotto
il velo di ignoranza infatti, sapendo di poter avere in sorte la condizione di lavoratore salariato,
adotterebbe questo principio, lo preferirebbe anche ad un principio egualitario. Ad un certo punto
diviene irrazionale accettare minore libertà nell’interesse di maggiori mezzi materiali e attività. La
teoria della giustizia come equità, afferma la priorità del giusto rispetto al bene, fa propria un’idea
che molti filosofi condividono con il ‘senso comune’: ogni individuo possiede un’inviolabilità
fondata sulla giustizia. Secondo Rawls sotto il velo di ignoranza le parti assumerebbero il punto di
vista degli individui meno avvantaggiati della società, perché sarebbero consapevoli che quella
sorte potrebbe toccarli. Quindi nella prospettiva dei meno avvantaggiati, i due principi appaiono
attraenti perché corrispondono alla soluzione di maximin. Questa soluzione implica il fatto che i
differenti criteri vengono classificati in base al peggior risultato possibile: la persona che sceglie
quindi, non si preoccupa per il suo guadagno, ma per le alternative che possono costituire gravi
rischi. Per questo per Rawls, i due principi verrebbero scelti nella posizione originaria.
Rawls considera il libero mercato come uno strumento necessario per massimizzare l’efficienza
economica del paese, inoltre questo è compatibile con l’uguale libertà e le uguali opportunità per i
cittadini. Un sistema economico giusto, per Rawls garantisce la libertà di pensiero e la libertà
politica, limita poi il diritto di proprietà e regola le successioni. Attraverso meccanismi di questo
tipo è possibile limitare gli effetti più alienanti del sistema di mercato e del lavoro salariato.
Ampio spazio è dedicato da Rawls al problema della disobbedienza civile, essa viene definita come
“un atto di coscienza pubblico, non violento, e tuttavia politico, contrario alla legge”.
Disobbedendo in questo modo alla legge, si manca di giustizia e non vengono rispettati i principi
della cooperazione sociale tra uomini uguali. Rawls Distingue fra i “doveri naturali” che non hanno
legame con le istituzioni, e gli obblighi derivanti dai principi di giustizia. Fra i doveri naturali c’è
quello di giustizia, cioè quello di obbedire alle leggi ingiuste e ad un’istituzione giusta.
 Le critiche:
A Theory of justice è stata oggetto di critiche e commenti: ci si chiede se e in quale misura la
filosofia politica debba essere considerata un’estensione della filosofia morale. I principi di Rawls
potrebbero risultare troppo astratti per valere come parametro normativo nella produzione di
leggi. Per Dworkin gli individui, in quanto persone morali, sono titolari di diritti inalienabili ed è su
questi che si può fondare la nozione di giustizia. Anche per Robert Nozick gli individui hanno dei
diritti, ci sono cose che nessuna persona può far loro senza violare i loro diritti. Costoro sono
chiamati libertarians, si basano infatti su una radicalizzazione dell’individualismo liberale. C’è
anche un altro gruppo, quello dei cosiddetti communitarians: l’elemento che li accomuna è una
presa di distanza dal metodo individualista. Sandel ha contestato la priorità del giusto sul bene;
come allo stesso modo Maclntyre, che sostiene che per fondare una morale è necessaria una
qualche concezione del bene e della vita buona.
Queste critiche hanno stimolato Rawls a ripensare la sua teoria della giustizia in una serie di
conferenze, che sono state raccolte nel volume Political Liberalism. Qua Rawls modifica
leggermente la formulazione del primo principio ed emergono revisioni, integrazioni o modifiche
delle argomentazioni presentate in A T. of justice, anche se i contenuti fondamentali rimangono gli
stessi. Le moderne società democratiche sono caratterizzate da un pluralismo di dottrine
filosofiche, questo è il risultato normale “dell’esercizio della ragione umana di un regime
democratico costituzionale”. La giustizia come equità non viene più presentata come una teoria
etica generale, si tratta di una concezione politica, nel senso che esprime un contenuto morale, ma
ha per specifico oggetto le istituzioni politiche sociali ed economiche; ed è una concezione
autonoma, riferibile a più dottrine diverse. Nonostante Rawls nega che le sue riformulazioni siano
una risposta alle critiche, solo riformulando la sua teoria ed adattandola alle più dottrine esistenti
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è possibile che questa risulti indipendente ed efficace. La giustizia come equità, intesa come
concezione politica, può quindi aspirare ad ottenere un overlapping consensus. La traduzione
italiana di questo termine è “consenso per intersezione” ed esprime l’idea di una convergenza
delle differenti dottrine comprensive su una concezione politica (la dottrina comprensiva può
essere immaginata come l’insieme risultante dall’unione di più insieme). Pertanto il consenso per
intersezione è qualcosa di più che un mero modus vivendi, che implica un’idea di equilibrio tra le
varie potenze. Nel consenso per intersezione ci si riferisce invece ad una concezione morale, il
consenso si fonda su motivi morali: “tutti coloro che affermano la concezione politica partono
dalla propria visione comprensiva e attingono alle motivazioni religiose, filosofiche e morali che
essa fornisce”. Ma è ipotizzabile che il consenso per intersezione si realizzi? Rawls è piuttosto
ottimista in proposito: confida sulla lezione della storia, che dimostra come forme di consenso su
principi politici fra dottrine non irragionevoli si siano effettivamente raggiunte. Assumendo il punto
di vista dei valori politici del rispetto e della famiglia, Rawls si pronuncia anche riguardo l’aborto,
stabilendo che la donna può liberamente decidere di abortire entro il primo trimestre.
Rawls inoltre ha proposto la “legge dei popoli”. Lui non prende in considerazione l’umanità nel suo
insieme, ma segue una procedura a più stadi: il primo stadio è quello della teoria ideale
dell’osservanza rigorosa: qua sono rappresentati i popoli liberaldemocratici. I rappresentanti dei
popoli formulerebbero dei principi di giustizia fra i popoli liberi ben noti e tradizionali, che
includano l’osservanza dei diritti umani. Poi Rawls indica con il termine “società gerarchiche
decenti” quelle società che accolte sotto il velo di ignoranza, darebbero la loro adesione ai principi
del diritto dei popoli. Lo strumento principe per rendere effettivo il diritto dei popoli sembra sia la
guerra. Nel secondo stadio abbiamo la teoria non ideale, nella quale si prendono in considerazione
le condizioni sfavorevoli che portano alla non osservanza. Rawls individua un insieme di diritti
umani, che i popoli sono tenuti a rispettare e nel caso in cui uno Stato sia fuorilegge, sono tenuti a
non tollerarlo.
 Ronald Dworkin:
L’introduzione di Taking Rights Seriously è molto esplicita: nella sua parte concettuale essa
“afferma che la verità delle proposizioni giuridiche consiste in fatti riguardanti le regole adottate
da specifiche istituzioni, e non consiste in nient’altro”. La sua idea centrale è che i diritti
prevalgono sugli scopi sociali e sui beni collettivi. I diritti individuali sono briscole politiche che gli
individui hanno in mano. Gli individui hanno diritti quando uno scopo collettivo non è una
giustificazione sufficiente per negare loro ciò che desiderano fare. Dworkin afferma con decisione
che vi è una connessione fra diritto e morale: le questioni di jurisprudence sono
fondamentalmente questioni di principi morali, non difatti legali. Questa tesi è motivata attraverso
un’analisi del funzionamento della giurisdizione dell’ordinamento americano, dove ha particolare
rilievo la distinzione fra rules e principles. Riguardo la posizione del giudice, per Dworkin, negli
hard cases, è compito del giudice scoprire quali siano i diritti delle parti, non inventare nuovi diritti.
Inoltre è la costituzione stessa a stabilire la priorità dei diritti fondamentali, dunque il sistema
costituzionale americano si fonda su una teoria morale, ossia che gli uomini hanno diritti morali
verso lo Stato. Dworkin introduce due importanti idee: la prima è l’idea della dignità umana, la
seconda è l’idea di uguaglianza politica. Violare uno di questi due principi significa commettere un
“crimine morale”. Dworkin esclude che si possa parlare di un diritto fondamentale alla libertà: i
diritti di libertà si basano piuttosto su un fondamentale diritto all’eguale considerazione, rispetto e
trattamento. Inoltre a Dworkin preme di precisare che i diritti non si hanno. Egli infatti utilizza il
termine diritti in un’accezione che evidenzia che la rivendicazione di un diritto è un tipo di giudizio
su ciò che è giusto o sbagliato per lo Stato fare. I diritti possono variare quanto a forza e carattere.
Dworkin fa anche una dettagliata analisi dei problemi della giurisprudenza, in particolare a quelli

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che vengono definiti hard cases. Ad esempio, nel discutere sull’esistenza di un diritto di infrangere
la legge, il filosofo pone la domanda in questi termini: “un americano ha mai avuto il diritto nel
significato forte di infrangere la legge?”. E inizia la risposta dalla costatazione che si suppone che
negli Stati Uniti i cittadini abbiano certi fondamentali diritti nei confronti del loro governo.
Contro le teorie “semantiche” e quelle “pragmatistiche”, Dworkin afferma che il diritto è un
‘concetto interpretativo’, rispetto al quale il valore dell’integrità assume un ruolo strategico, simile
al ruolo di giustizia ed equità. Dunque il diritto di un paese può essere interpretato alla luce di una
narrazione di autori che si succedono nel tempo. Si presuppone che sul diritto la forza non deve
essere utilizzata o negata. Il diritto di una comunità quindi è quello schema di diritti e di
responsabilità che soddisfa i requisiti richiesti da questo complesso modello. Inoltre Dworkin fa
riferimento al principio di eguaglianza fra i cittadini come qualcosa che “renda più autentica alla
loro comunità”; intende il diritto come integrità: “l’integrità ha validità all’interno delle comunità
politiche, non tra di esse”. Tutto questo rimanda ad un’integrazione di vita morale e di vita politica
alla luce della fedeltà ad un modello di principio che “ogni cittadino ha il dovere di riconoscere per
se stesso, come il modello della sua comunità”. Dunque riconoscere il nesso fra integrità,
comunità e obbligo politico, non significa accreditare gli aspetti meno gradevoli del nazionalismo;
in caso di conflitto i criteri di giustizia devono prevalere, per via del loro ruolo speciale. Dworkin
parla di ‘comunità’, con questo elabora il modello di una comunità di principio, nella quale gli
individui accettano che i loro destini siano legati fra loro. Nel criticare la nota sentenza nella quale
la corte suprema ha ammesso la costituzionalità della legge della Georgia contro la sodomia,
Dworkin dimostra che esiste una vita che non include la vita sessuale, ma piuttosto i suoi atti
politici ufficiali: legislazione, attuazione delle leggi e altre funzioni esecutive del governo.
 John Finnis:
Alcuni autori cercano di individuare una riedizione della legge di natura, su cui fondare i diritti. Tra
questi tentativi uno dei più sistematici è la New Natural Law Theory di Michael Finnis. Per lui
bisogna individuare determinati principi della legge naturali indimostrabili e, dedurne le
implicazioni. Finnis realizza così una sorta di traduzione della filosofia pratica platonico-
aristotelico-tomistica nel linguaggio della giurisprudenza analitica. È possibile apprendere sul piano
intellettuale i fini sui quali il nostro agire dovrebbe essere orientato, questo era l’autentico
approccio di Tommaso D’Aquino, che individuava i primi principi della legge naturali. Finnis
definisce secondo due termini la legge naturale: 1. Un insieme di principi pratici fondamentali che
indicano le forme fondamentali della fioritura umana come beni da perseguire; 2. Un insieme di
esigenze metodologiche della ragionevolezza pratica. Si tratta di principi validi per l’etica, per la
politica e per il diritto. Prendendo ad esempio la geometria euclidea, sappiamo che questa è uno
strumento perfettamente adeguato per una serie di compiti scientifici, però sappiamo che per
costruire palazzi, ad esempio, occorre far ricorso ad altre geometrie. L’utilizzazione dell’una o
dell’altra geometria dipende dagli scopi che ci si prefiggono. È lo stesso discorso che si fa per il
discorso di Finnis della legge naturale. Finnis stabilisce che le forme fondamentali di bene sono la
vita, la conoscenza, il gioco, la ragionevolezza e la religione. La conoscenza è il caso tipico
attraverso il quale Finnis mostra che cosa intende per valore fondamentale e per principio pratico
fondamentale. Il bene della conoscenza non può essere dimostrato e non ha bisogno di
dimostrazione: quindi la conoscenza è un bene.
La nozione di “bene comune” viene riaffermata con decisione da Finnis; ma i beni fondamentali
rappresentano per lui una pluralità incommensurabile irriducibile ad unità. Il bene comune
consiste semplicemente nella possibilità di partecipare alla varietà dei beni fondamentali. La
giustizia invece, è caratterizzata nei termini dell’Inter soggettività, del dovere e dell’uguaglianza.

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Finnis individua un vero e proprio spartiacque nella storia dei termini ius e right. Egli ha
indubbiamente una propensione per la nozione “classica” di ius (che tradizionalmente indicava la
giusta parte, in seguito diviene qualcosa che qualcuno ettaro, potere o libertà). Il linguaggio dei
diritti esprime adeguatamente “ciò che è dovuto” ad una persona: per Finnis il moderno linguaggio
dei diritti umani è un modo per delineare i contorni del bene comune e i diversi aspetti del
benessere dell’individuo. In particolare il linguaggio dei diritti sottolinea il valore dell’eguaglianza,
amplia il concetto di bene comune. E’ chiaro che Finnis propende per la nozione tomistica di ius:
questo si esprime nell’idea di una lineare traducibilità del linguaggio dei diritti in quello dei doveri.
D’altronde i beni umani fondamentali secondo Finnis hanno validità universale, ma a patto di
considerarli in un’accezione molto generale.
 Jurgen Habermas:
Habermas appartiene alla seconda generazione della “teoria critica” avviata negli anni 20 del 900.
Habermas prende progressivamente le distanze dal paradigma marxiano della produzione e
afferma il ruolo chiave della comunicazione, fino a scrivere una teoria dell’agire comunicativo. La
razionalità comunicativa ha bisogno di un radicamento: non è possibile pensare che l’interazione
comunicativa avvenga nel vuoto, che ogni volta si possa mettere in questione l’intera gamma delle
possibilità del mondo. Lui intende la società come “Lebenswelt” (ambiente di vita). Si tratta allora
di collegare i due paradigmi del sistema e della Lebenswelt, e di distinguere fra integrazione
sistematica e integrazione sociale. Il fatto è, secondo Habermas, che per garantire l’integrazione
sociale, il diritto deve mantenere una “indisponibilità” rispetto alle decisioni immediate del
sistema politico. In particolare è necessario che il sistema giuridico venga considerato legittimo e
mantenga una risorsa di giustizia. Se il diritto fosse totalmente messo a disposizione dello Stato,
non potrebbe svolgere la sua funzione nel sistema sociale. Il problema dell’indisponibilità del
diritto non si pone nelle strutture sociali elementari e nelle società arcaiche: in questa situazione si
obbedisce perché si teme la vendetta del potere e perché la sua legittimità non è messa in
questione. Con l’evoluzione storica le istituzioni perdono via via il loro carattere sacrale e si
diffonde nella società l’agire strumentale, finalizzato al successo individuale. Nella modernità
pertanto solo la garanzia dei diritti individuali può legittimare le istituzioni giuridiche. Dunque
l’ordinamento giuridico è accettato e considerato come legittimo se garantisce l’autonomia
privata.
Habermas argomenta l’idea che le modalità della situazione linguistica ideale vengono
presupposte ogni volta che nel linguaggio quotidiano si persegue un’intesa intersoggettiva. La
condizione è che ogni attore assume l’atteggiamento di un parlante che voglia mettersi d’accordo
con una seconda persona. A questo punto è possibile mostrare per lui come il sistema dei diritti
deve contenere precisamente i diritti fondamentali, cioè i diritti individuali, che sono un elemento
tipico e fondamentale della forma giuridica: una condizione necessaria perché possa svilupparsi
quel peculiare strumento di regolazione delle controversie, che è il diritto moderno.
Habermas ricostruisce la “genesi logica dei diritti” come un processo circolare nel quale il codice
giuridico e il principio democratico rimandano l’uno all’altro come co-originari. La genesi logica
fonda cinque categorie di diritti: le prime tre corrispondono ai diritti civili: 1. I diritti che tutelano la
libertà individuale; 2. I diritti che determinano lo status di membro associato alla comunità
giuridica; 3. I diritti che rendono possibile agire in giudizio. Poi abbiamo i diritti politici, 4. I diritti
derivanti dallo sviluppo politicamente autonomo dello status di membro associato; e infine 5. I
diritti fondamentali alla concessione di quelle condizioni di vita garantite sul piano sociale, tecnico
ed ecologico. Questi diritti fondamentali sono il risultato di un processo storico-evolutivo che ha
trasformato quei contenuti normativi che nelle società arcaiche erano stati fissati; rappresentano
inoltre un presupposto funzionale del diritto: occorre che siano garantite l’autonomia privata e

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l’autonomia pubblica affinché si costruisca il codice diritto; sono infine fondati, attraverso la genesi
logica, sul principio normativo generale della teoria del discorso, il principio D.
Le teorie universalistiche dei diritti umani sono state utilizzate per legittimare interventi militari e
azioni imperiali delle grandi potenze. Nella carta delle Nazioni Unite la fede nei diritti umani
fondamentali si collega all’impegno “a salvare le future generazioni dalla guerra”. Si delinea così
un modello giuridico, non morale, nel quale l’illegittimità della guerra è definita in base al diritto
internazionale e alla criminalizzazione dell’aggressione. Dopo la guerra del Golfo del 1991, nel
dibattito politico si è tornati ad utilizzare ampiamente la categoria della guerra giusta fino a
quando, negli anni successivi, l’accento si è spostato sulla guerra “umanitaria”. Nei primi anni del
terzo millennio si è arrivati a stabilire un nesso diretto fra la difesa di alcuni principi considerati
universali e la legittimazione di interventi che per il diritto internazionale costituiscono guerre di
aggressione. Dunque il nesso fra teoria universalistica dei diritti umani e guerra giusta emerge
sempre, nei documenti ufficiali della casa bianca; la stessa teoria della guerra giusta viene
reinterpretata: la legittima difesa, include gli attacchi preventivi di fronte alle nuove minacce.
Inoltre il rispetto della proprietà privata si pone sullo stesso piano della libertà di parola e di
religione, dell’uguaglianza. Durante l’aggressione all’Iraq, Habermas sviluppa la sua teoria del
diritto fino a sostenere che di fronte alla pluralità di interpretazione dei principi, solo un processo
comunicativo che si svolge all’interno di una cornice giuridica e segue procedure definite può
avere successo. Lui attribuisce ai diritti fondamentali una validità universale, proprio per questo,
va ripreso e radicalizzato il progetto kantiano di un ordinamento cosmopolitico. Ancora, nel 2003
Habermas condusse una campagna intellettuale contro l’occupazione anglo americana dell’Iraq, di
questo ricordiamo l’argomento principale contro la pretesa di esportare la democrazia. In
definitiva, solo procedure giuridiche inclusive, che coinvolgono tutte le parti, possono consentire
“ad un decentramento bella propria prospettiva di interpretazione”, anche se c’è un limite e
cognitivo che impedisce di attribuire validità universale a questa interpretazione.

"Utopia" di Tommaso Moro


Il titolo
Utopia ha una derivazione leggermente ambigua, poiché, anche se si è sicuri del fatto che l'ultima
parte del nome derivi dal greco topos (luogo), non si è certi da dove derivi la prima parte: questa,
infatti, potrebbe derivare dalla parola greca eu (bene), in questo caso utopia significherebbe
"luogo felice", oppure da ou (non), che in questo caso darebbe ad utopia il significato di "non
luogo", "luogo inesistente". Questa parola venne usata per la prima volta da Tommaso Moro, che
in una sua opera del 1516 esponeva le usanze, le abitudini e i costumi del popolo dell'isola di
Utopia, del quale sentì parlare da un marinaio; la controversia sull'origine del nome è dovuta al
fatto che nell'opera di Moro viene presentata una società che ha entrambe le caratteristiche.
L'origine più probabile rimane comunque quella di "non luogo", in quanto era intento dell'autore
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descrivere una società che fosse in qualche modo perfetta, ma che purtroppo fosse anche
impossibile da realizzare. Ad avvalorare quest'ipotesi c'è anche l'uso da parte di Moro di alcuni
nomi quali ademo (senza popolo) per designare il principe, Anidro (senz'acqua) per indicare il
fiume vicino ad Amauroto (città invisibile), la città principale dell'isola di Utopia, che in precedenza
fu chiamata Abraxa (dove non piove) di re Utopo. Il libro inizia con una lettera indirizzata ad un suo
amico, Pietro, con il quale ascoltò il racconto sull'isola di Utopia; in questa lettera Moro chiede se
per favore Pietro potesse correggere la sua trascrizione del racconto, allo scopo di evitare che ci
possano essere degli errori. Di seguito alla lettera inizia la vera opera, che è divisa in due libri. Nel
primo libro Moro descrive il suo incontro ad un ricevimento con l'amico Pietro, che coglie
l'occasione per presentargli un personaggio che sicuramente sarebbe interessato all'autore, un
marinaio esperto conoscitore di terre lontane a causa dei suoi lunghi ed innumerevoli viaggi:
Raffaele Itlodeo. Dopo aver fatto conoscenza i due, assieme a Pietro, decidono di ritirarsi in un
posto appartato e di iniziare a discutere. Durante la prima parte del dialogo vengono analizzati i
vari problemi della monarchia inglese, discussione che sorge dal diverbio successivo alla proposta
di Moro secondo cui Itlodeo poteva essere utile in carica di consigliere per un sovrano europeo in
quanto era dotato di buon senso e di esperienza, essendo rimasto per cinque anni nell'isola di
Utopia. In realtà il motivo per cui Itlodeo rifiuta ritenendo di non essere adeguato all'incarico è
proprio il fatto di aver vissuto per un così lungo tempo in quella società: egli sa bene, infatti, che il
modello utopico fosse irrealizzabile in qualsiasi altro stato a causa delle sue caratteristiche. Fra i
problemi individuati vengono messi in risalto: la nobiltà parassitaria e i lati negativi della proprietà
privati fra i quali, soprattutto, la divisione che faceva tra ricchi e poveri. Questi ultimi, infatti, erano
fortemente dipendenti dalla nobiltà che li costringeva a mendicare e a fare lavori poco retribuiti.
Inoltre viene trattato la questione della pena di morte e il fatto che, con questa, fossero puniti
anche i ladri che erano in molti casi costretti a rubare per necessità. In generale possiamo dire che
vengono trattai tutti quei problemi cui, nel secondo libro, tramite la narrazione del racconto di
Raffaele Itlodeo, Moro cerca di dare una soluzione pur sapendo che l'isola da lui ipotizzata è del
tutto irrealizzabile.
Nella seconda parte dell'opera - che coincide con il secondo libro - il discorso di Itlodeo si sposta
sulla descrizione dell'isola secondo i suoi più vari aspetti.
La società

I cittadini di Utopia sono secondo la legge tutti uguali, anche se in realtà all'interno della società
esistono delle differenze di classe. La divisione più sostanziale che possiamo trovare tra i cittadini è
sicuramente quella tra uomini liberi e schiavi. Secondo lo statuto utopico tutti gli uomini nascono
liberi; gli schiavi, infatti, non sono né prigionieri di guerra né figli d'altri schiavi, semplicemente
presso gli utopici la schiavitù è una pena assegnata per i reati più gravi. Agli schiavi sono destinati i
lavori più umili, mentre c'è l'uguaglianza tra gli altri cittadini. In realtà però anche tra i cittadini
liberi esistono delle differenze di classe, che comportano alcuni privilegi per una di queste. Tutti gli
uomini devono per legge avere un lavoro, anche se in realtà esiste una rotazione tra campagna e
città, in modo che nessuno sia costretto a svolgere solamente i lavori agricoli nella sua vita. La
società degli utopici è in realtà basata sul sapere, basti pensare alla classe sociale esente dal
lavoro: gli uomini di lettere o sifogranti. Infatti i lavoratori hanno a disposizione nella loro giornata
sei ore non lavorative, che possono dedicare allo svago o, se vogliono, allo studio; privilegiato è lo
studio della letteratura. Tra questi vengono scelti i più meritevoli e vengono esentati dal lavoro, ed
è da questa classe sociale che vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti e le persone facenti parte
delle istituzioni.
Le istituzioni

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L'isola di Utopia è una federazione di 54 città, in ognuna delle quali il potere legislativo, giudiziario
ed esecutivo è nelle mani del senato. Il senato in ogni città è formato da un principe (eletto a vita),
da filarchi e da un protofilarco, eletto ogni dieci filarchi. Il principe è eletto dai protofilarchi d'ogni
città che devono votare tra i quattro candidati che la città stessa designa. Oltre a questo senato
all'interno delle città, ogni anno si tieni un ulteriore senato ad Amauroto con tre rappresentanti di
ogni città. L'intero stato è basato sulla democrazia che viene materialmente rappresentata dai
comitia publica, sede e istituzione principale. Non esiste un capo assoluto, addirittura ci sono leggi
che evitano l'insediarsi di un potere tirannico, come per esempio il prendere decisioni politiche al
di fuori del senato. Le leggi sono poche e chiare, in modo che la reggenza dello stato sia basata su
pochi ma saldi pilastri, e che in questo modo possano essere tenuti bene a mente dai cittadini. Per
la difesa dell'isola non esiste un esercito stabile, di conseguenza, in caso di guerra saranno gli
stessi cittadini a difenderla. Preciso dicendo "difenderla" in quanto gli utopici non attaccano mai
una popolazione vicina, ma si limitano a difendere l'isola o le loro colonie quando queste vengono
attaccate. Il diverso modo di pensare influisce sugli utopici anche durante le guerre, in quanto essi
ritengono vergognosa una vittoria ottenuta con un grandissimo spargimento di sangue, poiché
secondo loro "sembra ignoranza pagar troppo caro una merce, per quanto di pregio". Secondo
questo loro modo di vedere è molto più gratificante una vittoria ottenuta con un inganno, ma che
riesca a ridurre le vittime.
La famiglia

Il nucleo fondamentale della società di Utopia è la famiglia, sia nel campo economico che politico.
Essa è unità base della politica, giacché decide per l'elezione dei filarchi (uno ogni trenta famiglie)
e dei candidati al principato. Questa è anche la prima tappa produttiva dell'agricoltura ed entità
fondamentale della società. All'interno della famiglia a comandare è il più anziano, o, in caso
disturbi dovuti ad una eventuale avanzata senilità, il parente prossimo più anziano. Anche
all'interno della famiglia perciò ci sono delle differenze, per esempio il fatto che i figli devono
ubbidire ai padri e le mogli ai mariti. Grande importanza è poi attribuita al matrimonio, tanto che
le leggi sono molto più severe su quest'argomento, anche allo scopo di preservare la famiglia e la
moralità. È per questo che come per qualsiasi altro "commercio", prima del matrimonio i due
interessati vengono spogliati nudi e fatti vedere all'altro per la decisione finale e per verificare che
nessuno dei due abbia imperfezioni fisiche che non aveva in precedenza fatto presente all'altro,
per evitare così che il rapporto sia contratto senza il pieno amore e conoscenza dell'altro, e che
sono vietati i rapporti precedenti il matrimonio.
L'economia

L'economia di Utopia è fondata sul lavoro, tanto che, come abbiamo già detto in precedenza,
ognuno ha il dovere nella propria vita di imparare un lavoro; nonostante questo tutti i lavoratori di
Utopia hanno il dovere, a rotazione, di lavorare in campagna; la rotazione è stata scelta affinché
nessuno debba lavorare ingiustamente più degli altri, anche se questa rotazione non è così rigida
come si potrebbe immaginare, e per rendersene conto basti tener presente il fatto che chiunque,
se mosso da vera passione per il proprio lavoro può ottenere dei cambiamenti, a volte anche di un
mese o più, sui turni. Preoccupazione dei sifogranti è che nessuno passi le sue giornate nell'ozio,
ma che tutti abbiano un'occupazione; preoccupazione di questa classe sociale è però anche che
nessuno debba fare più lavoro di quanto gliene spetti (a meno che non lo voglia lui di sua
spontanea volontà lavorando anche in una parte delle sei ore che ognuno ha a disposizione), e per
questo motivo la giornata lavorativa di ognuno è di sei ore. Moro precisa nella sua opera di non
lasciarsi ingannare dal fatto che la giornata lavorativa sia così brave, in quanto poiché tutta la
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popolazione lavora non c'è mai mancanza di generi di prima necessità. Un altro punto sul quale è
importante soffermarci è sicuramente l'atteggiamento degli utopici di fronte all'uso dei metalli e
delle pietre preziosi come per esempio l'oro. L'atteggiamento delle persone rispetto all'oro è di
rifiuto, siccome essi pensano che non sia necessari per il cittadino doversi abbellire con questo
genere di oggetti (l'unico uso che "rientri nella norma" è per gli scambi esteri con le altre
popolazioni), e perciò li usano in modi alternativi. Le pietre preziose vengono usate dai bambini
per giocare, in quanto non sono ancora in possesso del modo del modo di pensare delle persone
adulte, anche se verso i quindici anni anche loro le abbandonano; l'oro viene usato come
materiale per i più svariati oggetti - Moro cita addirittura vasi da notte - e anche per cingerei polsi
agli schiavi, perciò come segno di riconoscimento per loro.
La religione

In Utopia non vi è nessuna religione di stato ed è concesso a tutti di venerare il dio che ognuno
sceglie. Nonostante questo però l'ateismo non è accettato, in quanto secondo il loro modo di
vedere l'ateismo corrisponderebbe ad un abbassamento della natura dell'anima degli uomini, che
per loro invece deve essere rispettata.
Come abbiamo già affermato la parola "utopia" nasce con l'opera di Tommaso Moro, ma il
concetto che essa esprime è molto più antico. Infatti la nascita delle dottrine politiche utopistiche
viene comunemente associata con Moro, ma questo è in realtà un discorso valido solamente per il
periodo moderno, in quanto nell'antichità furono scritte altre opere a carattere utopistico. La
prima opera di questo genere che la storia ricordi è sicuramente la Repubblica di Platone, che,
anche se da un lato è connessa alla concreta base della polis greca, dà comunque un modello
idealizzato, in quanto per il filosofo l'uomo si poteva realizzare solamente come cittadino, non
come singolo individuo, e questo stato ideale era pensato proprio per questa funzione. Il mondo
romano, invece, è povero o addirittura privo di tendenze utopistiche. Il suo forte senso giuridico,
l'orgoglio realistico della civis, la scarsa propensione all'astrazione filosofica, la concretezza di
questo popolo, la stessa potenza politica e vastità territoriale non ne favorirono certo lo sviluppo.
Questa situazione continuò in seguito anche nel medioevo, dovendo perciò aspettare
l'umanesimo per rivedere altre opere utopiste. Queste opere vengono infatti riscoperte proprio in
questo periodo a causa del cambiamento culturale: difatti la seconda metà del cinquecento e
il seicento rappresentano il periodo immediatamente successivo all'umanesimo; una delle
conseguenze più importanti di questo movimento di pensiero fu sicuramente la valorizzazione
dell'uomo come essere razionale, concezione che portò poi all'affermazione della ragione. Questo
portò in seguito ad una più completa autonomia dell'uomo, che contribuì ad una laicizzazione del
sapere. Quest'evoluzione, che per alcuni storici segna il passaggio da pseudoscienze a scienze vere
e proprie, ebbe come conseguenza la formazione di nuove dottrine politiche e la rivoluzione
scientifica. Le dottrine politiche di questo periodo sono le utopie, e il realismo di Machiavelli, che
per le loro caratteristiche sono una l'opposto dell'altra; Machiavelli, infatti, preferì partire da
un'analisi della realtà, facendo riferimento in particolare alla situazione italiana, su cui poi
costruisce il suo pensiero politico. Nelle opere utopiste invece c'è la volontà di idealizzare la
società, creandone un'altra come secondo gli utopisti sarebbe dovuta essere; è da questo che
derivano le particolari caratteristiche di queste opere, come per esempio la mancanza di
distinzioni di classi sociali (anche se, come abbiamo visto per quest'opera, questo principio non
viene sempre rispettato). Dentro il modello ideale, che è possibile ricollegare a Platone, s'annida
un rifiuto della società da ricondurre alla storia del tempo. La ragione, con l'autorità che le
conferisce la sua conquistata autonomia, non accetta il dispotismo dei principi o le ingiustizie della
società; non riuscendo, da sola, a sanare quei mali contemporanei che tuttavia individua e
denuncia, ne trasferisce la soluzione al di fuori e al di sopra della storia.
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Le tre utopie

Ognuna delle tre opere del periodo (Utopia di Moro, Nuova Atlantide di Bacone e La città del sole
di Campanella) ha caratteristiche proprie, ma è possibile trovarvi degli elementi comuni. In tutte le
opere vi è una visione idealizzata del luogo, in quanto le società descritte dai tre autori sono tutte
poste su isole che vengono a loro volta collocate nell'emisfero australe del mondo, o comunque in
luoghi lontani dalle società europee. Questa decisione è un modo per far risaltare maggiormente i
caratteri di isolamento e di autarchia di questi popoli, che per la loro impostazione economica
appaiono totalmente indipendenti dagli stati confinanti. Inoltre le società appaiono fondatale sul
lavoro, e la sua razionalizzazione e la sua estensione all'intera comunità, anche alle donne,
permette di aumentare il livello della produzione a beneficio di tutti e permette a tutti, e non più
ad una sola minoranza privilegiata, di dedicare il tempo libero alla cultura. Si avverte qui la
protesta e la condanna, esplicita del resto, sia in Moro che in Campanella, contro una società
ancora gravata dal peso di parassiti e di oziosi. Le società utopistiche hanno la caratteristica di
essere società precomuniste, e la caratteristica più lampante di questa interpretazione è
sicuramente l'assenza di proprietà privata, per cui tutto appartiene a tutti ed è lo stato che
distribuisce per esempio il cibo o le abitazioni (che nel caso di Utopia vengono distribuite anche in
base ai "turni" di lavoro nelle campagne). Nel caso specifico dell'opera di Moro possiamo però
vedere che la società, oltre che precomunista, può anche essere interpretata come una forma di
socialismo, essendo una società meritocratica, dove i più capaci e più portati allo studio fanno poi
parte della classe sociale dei sifogranti. Quest'aspetto rispecchia il desiderio di nuove gerarchie
elettive fondate sul sapere, sul merito, sulla capacità, che ricorrono alla consultazione popolare,
non più sui principi di assolutismo, dei diritti del sangue, della fondatezza dei privilegi del censo.
Altri aspetti comuni alle tre opere sono il rifiuto della guerra, e la scomparsa del tempo: questo
stava a significare che in alcune di queste società la giornata delle singole persone era
preorganizzata, ovvero erano già decisi gli orari sia di lavoro sia quelli di tempo libero. Da notare
che, nonostante in questo periodo si assista alla rivoluzione astronomica (al tempo di Moro in
realtà iniziò semplicemente a circolare privatamente l'opuscolo De hypothesibus motuum
coelestium a Se constitutis commentariolus di Copernico, che lo tenne nascosto per molti anni per
timore delle possibili reazioni critiche), la scienza non è un aspetto cui gli autori dettero molto
importanza; l'unica opera che abbia queste caratteristiche è la Nuova Atlantide di Bacone, in
quanto nell'opera di Campanella, che pure ne intuisce le implicazioni sociali, ha ancora aspetti
magici e astrologici. Contro l'arbitrio dei singoli, contro la prepotenza dei principi, si leva il limite
dell'ostacolo di una razionalità comune a tutti gli uomini, cui ineriscono ormai diritti innati e
naturali, anche se la schiavitù, che Campanella respinge, è ancora accolta da Moro che leva
tuttavia la sua protesta contro la pena di morte.

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