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Finisterre (Appunti alla fine del

cammino di Santiago)*
di Christian Lehnert
Traduzione a cura di Piero Salabè

Piante nomadi, che siano sui bianchi vacuoli


del quarzo, su carcasse, catene arrugginite,
o sulla carapace di granchi morti, amarrano
il fondo sciolto, anorganico dei tuoi sguardi
con la memoria
di cellule racchiuse – valonie ventricose, fili, epiteli.
Celebrano l’origine del respiro fra la povertà
delle pietre – grigi prelati di stirpi longeve,
piloti nella corrente a getto, incistati nelle spore,
segnale in codice del futuro, quando nei pori duri come pietra
non ci sarà più nulla da sperare.
Ma la loro calligrafia resta eterna.
Fioriscono i corsivi verdi sconfessando
il loro disfacimento. Corpi che si replicano radicandosi
nei propri corpi, sciolgono macigni, aggrappati
per secoli allo scabro arcano di loro stessi:
Groviglio che si raccoglie nel proprio mistero
spandendosi in ogni dove.
(Licheni, sotto al Monte Louro)

***
La sera tardi, con la pioggia, la costa si sfiocca –
fondo di bottiglia nel gran vetro, fra le acque.
Impietosi ti frustavano i venti discendenti dalle scogliere.
Udivi come suoni ignoti alla tua lingua
sprofondavano muti nell’oscurità paurosa
prima che tu esistessi, rumore
che non sapevi confinare:

*
La selezione delle poesie qui presentate è a cura di Piero Salabè e Maria Borio.

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notte di un corpo che non era:
notte di un Dio che mai fu
ora buia in cui ti fu dato sangue da bere
e il tuo corpo venne nutrito in altro corpo.
Un raggio di luce estratto da un vuoto vibrante ha riacceso
la vita, ha spento te, acceso isole di cellule, canti di risurrezione
che brillano nella noia quotidiana dell’io …
Era una goccia in volo ingrandita
dalla lente del mare? Schiuma organica nei riflessi della foschia?
Eppure si fece luce nell’impercettibile fecondazione del sole
con la tua ombra.
(La mattina, sotto il Monte A Moa)
***
Quanto effimero saresti, svaniresti come il fiato
di una breve parola: via … effimero
come profumo di resina nel vento, come sillabe
divenute voce oltre i confini interiori,
canto adagio che si innalza contro i vocaboli stabiliti.
Immobili i segnavia, le croci, immobili
i suoni consecutivi degli uccelli,
le zolle aperte sulla pendice,
come cicatrici in una colata. Cosa hai detto?
Una parola di un’unica sillaba,
celata dietro a un banco di nebbia.
Per strada il cespuglio di ginestre si spegne.
L’andare e il parlare si intirizziscono la sera a fondovalle,
dove si inseguono le pietre, metrico rimbombare.
Fossati per drenare, non sarebbero
bastati, ed ecco anche le buche si mettono in marcia.
Alla fine vedresti solo il cavo di una mano,
la traccia di milioni di viandanti su una statua:
Vuoto che sorregge una volta …
(Cammino di Santiago, O Cebreiro)
***
Alla fine del verso scendeva la grandine, sminuzzando le isole di
terriccio,
gli infiniti resti di nomi sulla scala di roccia che dava sul mare.
Nella parola che la nominava svaniva la terraferma.
Nelle parole che li nominavano

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svanivano dalle piantine
la certezza di isole, bassifondi e scogliere.
La grandine scrosciava: flebile voce
che azzittiva la tua propria voce.
La pietra rossa, infuocata e pressata,
avvinghiata a quanto le onde divoravano.
Quella grandine senza tregua ti toglieva il senso del tempo,
si creava un vuoto
in cui qualcosa veniva taciuto.
C’era un altare celtico levigato come un masso delle streghe,
un crocifisso sfattosi in idolo di pietra. La grandine
aveva scavato la costa, abbandonata poi
per unirsi infine alla grandine sull’oceano.
E lentamente ti tornava in mente l’universo anteriore.
(Grandine sulla Sierra de la Capelada)
***
Verso occidente, oltre le scogliere, contro l’oblio,
dove le lapidi non hanno più nomi, solo
pupille cristalline che fissano il mare, dove gli spruzzi
rodono assidui il cemento,
e costole di terra, tarlate, riposano sotto schermi di nebbia,
hoc est corpus, rantolante,
eroso, dove terminano i cartelli stradali,
i punti trigonometrici,
quando il respiro soccombe nella bufera, tempo
che trasuda in una falda carsica, dove la notte nutre di ricordi
gli uccelli, dove solo i licheni
mantengono a galla l’acqua contro il risucchio
della solitudine, dove ti trascini come la citazione
di una frase incompresa, incerto, come le leggi
della geometria, della gravità, dove i cupi accordi
delle sirene da nebbia ti spingono senza pietà
verso il futuro …
(Finisterre)

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