Don Beretta era nato a Papozze nel 1735. Diacono nel 1757, in età matura si fregiò del
titolo onorifico di Professor humanarum litterarum, philosophiae et theologiae, come attestano i
documenti ecclesiastici all'epoca del suo trasferimento, sofferto ma tutto sommato inutile,
da Villanova Marchesana alla parrocchia di Cornacervina. Tale "passaggio" fu fortemente
voluto da don Beretta, che però immaginava foriero, per sé e per la sua carriera di
studioso, di ben altre soddisfazioni. Nel 1777 era divenuto parroco di Villanova
Marchesana, ma in quel "borgo" immerso nella campagna stava malvolentieri, perché la
meta agognata, sognata, desiderata oltre ogni dire era invece Ferrara, città in cui si vedeva
a contatto diretto con quei "dotti" della conversazione dei quali sentiva profondamente la
mancanza. In effetti, Don Beretta, oltre che essere dotato di una grafia bellissima [che si è
tentato di riprodurre nelle lettere al Bocchi], possedeva una cultura storica e letteraria ( a
quanto pare era anche autore di vari sonetti ) per quei tempi di buon livello, come del
resto si può facilmente intuire leggendo l'epistolario che egli indirizzò a Francesco
Girolamo Bocchi, al quale, in una prosa aulica e ricca di riferimenti dotti, chiedeva
insistentemente lumi e documenti per le sue ricerche.
Don Beretta non raggiunse mai Ferrara, perché il suo itinerario si concluse
malinconicamente a Cornacervina, ai primi di settembre del 1807. La sua opera, alla quale
aveva dedicato tutto se stesso scomparve con lui, finché, nel 1991, l'antico prete di
Villanova Marchesana ascese agli onori della cronaca erudita in un articolo di Bruno
Rigobello, che in quell'anno scoperse nell'Archivio Antico della Biblioteca di Adria alcune
lettere del Beretta indirizzate a Francesco Gerolamo Bocchi.(1) Rigobello lamentava però la
scomparsa delle opere erudite del Beretta, anche se si diceva certo del fatto che "pur
debbono esistere". In effetti B. Rigobello aveva ragione: almeno una parte dell'opera di
Giovan Battista Beretta non era andata perduta, ma si era quasi nascosta e sedimentata nel
luogo ad essa più naturale, in una biblioteca. E non in una qualunque, ma in quella
prestigiosa di Ferrara. Sappiamo altresì da una delle lettere del Beretta a F.G. Bocchi, del
15 dicembre 1788, che egli scrisse anche una storia dei Principi Estensi, che ebbe una
benevola accoglienza anche da parte di storici del calibro di un Baruffaldi, il quale, sulla
scorta di un'altra lettera al Bocchi, del 17 febbraio del 1789, l'ultima testimonianza presente
nell'Archivio Antico di Adria, sembrava in amichevoli rapporti epistolari con Don Beretta,
cui raccomandava di riportare i propri complimenti al Bocchi per la sua opera a stampa.
Nella stessa lettera, Don Beretta assicurava il Bocchi di essere letteralmente assediato dal
Frizzi, che lo incalzava di spedirgli le nuove opere a stampa dello stesso Bocchi.
Comunque sia, ciò che all'Arciprete di Villanova non riuscì mai, ovvero di raggiungere
Ferrara, accadde per avventura a un suo manoscritto, che venne catalogato dal famoso
bibliotecario Antonelli.
Acquistato, secondo la nota citata, dal Bocchi nel 1857, il manoscritto concluse il suo
errabondo itinerario nella Biblioteca Ariostea, dove lo individuai, seguendo le indicazioni
del Frizzi. Il quale, venendo a discorrere intorno alla fastosa cerimonia voluta dal Duca
Borso per la fondazione della Certosa di Ferrara, e riportando alcune notizie su Villanova
Marchesana, volle ringraziare " il dotto e cariss. amico... D. Gio. Battista Beretti (sic), che ivi
era Arciprete". (2) Poiché il Frizzi asserì di essere in rapporti di strettissima amicizia con il
"dotto" arciprete, si suppone che l'errore del cognome (Beretti anziché Beretta) fosse stato
dovuto a un disgraziato errore di stampa, in quanto esso suonerebbe per lo meno
irriguardoso nei confronti di un uomo che ci ha lasciato testimonianze tanto interessanti
sul Polesine medievale e moderno. Il manoscritto, che misura 10*16, con copertina in
cartone duro di colore marron scuro, non presenta numerazione di pagine, ma solo i
classici "riporti". Adottando, arbitrariamente certo, una numerazione moderna, si
conterebbero 60 pagine, senza la copertina. La grafia corsiva, molto bella e chiara, è di
mano del Beretta.
Si stralciano dal manoscritto alcune lettere dei Marchesi e Duchi estensi ai loro podestà
polesani ( Parte I, pp. 1-4); la storia di Villanova Marchesana (Parte VI, pp. 51-55); la
"Donazione del Duca Borso alli Padri Certosini di Ferrara" ( Parte III, pp. 20-25).
Si riportano infine tutte le lettere che Don Beretta scrisse a F. G. Bocchi presenti
nell'Archivio Antico di Adria (Busta 358. Fasc. 2c. Cfr. B. Rigobello, Dall'Epistolario di F.G.
Bocchi. Lettere di Giovanni Battista Beretta, in Note d'Archivio, n° 5, maggio 1991, pp. 21-23).
La prima lettera, del 24 aprile 1787, porta sul margine in alto a sinistra la seguente
segnatura: 223 (41), sulla destra, sul margine in alto il numero 30. La seconda lettera, del 7
maggio 1787, riporta in alto a sinistra la segnatura 224 (42), in alto a destra il numero 33.
La terza lettera, del 15 dicembre 1788, porta in alto a sinistra la segnatura 225 (43) e a
destra in alto il numero 47. L'ultima, del 17 febbraio del 1789, riporta in alto a sinistra la
segn. 226 (44), in alto a destra il num. 53.
Lettere dei marchesi
estensi ai propri podestà
polesani
Niccolò III (m. nel 1441) impone al podestà di Crespino di rispettare “ad
unguem”, in pieno, le esenzioni e le immunità di cui godono i Quirini a
Papozze, e inoltre gli ordina di non molestarli in futuro.
Leonello (m. nel 1450) scrive a T. Quirini rammaricandosi di non poter destituire per il momento il suo
podestà, in quanto ciò potrebbe avere riflessi negativi sulla sua stessa autorità. Assicura il Quirini di non
aver mai avuto sentore dei soprusi di cui sono stati vittime i di lui lavoratori, e che la cosa comunque non si
sarebbe ripetuta in futuro.
Nel giugno del 1461 il duca Borso, con una cerimonia imponente per
presenza di notabili e di funzionari laici ed ecclesiastici, dopo una
solenne messa officiata dal vescovo di Forlì, donava ai certosini di
Ferrara, a titolo dotale e perpetuo, una congrua serie di petie di
terra poste nel districtus di Ferrara: si trattava di appezzamenti
abbastanza vasti di terre arative, vineate, prative e boschive situate
in terre di bonifica tra Rovigo e Adria, lungo l'asse che da Crespino,
attraverso Villanova Marchesana e Papozze, porta fino a Corbola.
Non è qui nostra intenzione riprendere il discorso intorno alle
bonifiche estensi e veneziane, già trattato da studiosi eminenti e
sulla scorta di eccellenti documentazioni, anche se, avendo a che
fare con il Duca Borso, il cui simbolo gentilizio era il paraduro
[sorta di palizzata lungo gli argini], è giocoforza parlarne sia pure di
straforo. Il nostro vero intento è quello di forzare un po' il
documento borsiano nel tentativo di farlo parlare al di là delle cose
che egli dice, per ricostruire sulla base degli elementi che esso ci
fornisce, il mondo di quei "laboratores" che si trovarono a sudare
sulle terre che il duca donò ai certosini di Ferrara.
Dicevamo poc'anzi che è difficile parlare di Borso senza accennare alla
sua ideologia della bonifica, anche perché, senza tale supporto, non
si comprenderebbe il senso della sua donazione.
Come è noto, la signoria estense era molto disomogenea per territorio
e il controllo del contado era estremamente difficile. Le necessità
annonarie però erano talmente pressanti da costringere i duchi
d'Este a concessioni feudali, a permute o a donazioni che
indubbiamente mettevano in crisi il controllo ducale, che
spessissimo doveva scendere a patti con gli stessi beneficiari delle
terre, con grave danno del patrimonio familiare. Le necessità
annonarie di Ferrara, come dicevamo, costringevano però i duchi a
correre il rischio. La messa a coltura di nuove terre, attraverso la
concessione di esse a monasteri, era costume consuetudinario in
varie parti d'Italia, e il duca Borso lo inaugurò con tutti i crismi
anche per la sua casata. Proseguita poi la lotta contro l'incolto in
maniera massiccia dai suoi successori, il fenomeno divenne talmente
imponente da far diventare Ferrara un vero e proprio Principato
idraulico, per usare un'azzeccata espressione di Carlo Poni. Non
altro che un'accorta politica territoriale e annonaria fu quella che
spinse il duca Borso alla donazione ai padri certosini nel 1461.(3)
Sotto il linguaggio paludato, fortemente solenne e giuridico di essa,
si cela il vero intento di Borso, "nei cui occhi si trasfonde Dio Stesso".
Sta di fatto che, a parte l'indubbia ammirazione di Borso per l'ordine
certosino, manifestato sin dalla giovinezza, a un certo punto si dice
che il duca pose, all'atto della donazione, "umanissimamente le sue
mani in quelle dei padri certosini". L'imposizione delle mani era
infatti atto di investitura feudale. Come ci ricorda Duby, Luigi IX,
all'atto della donazione si compiacque di mettere le sue mani in
quelle dei padri.(4) E' quindi evidente che Borso "infeudava" i suoi
beni nella transpadana ferrarese, ben conscio che il suo potere sul
districtus non avrebbe subito almeno per il momento, dimidiazioni
di alcun tipo.
Stabiliti i reali contorni politici della "donazione", veniamo ora alla
parte che ci interessa più da vicino. La donazione è invero
estremamente meticolosa e precisa nell'indicare le varie petie di
terra, che in tutto sono circa una sessantina, ma ciò che è
interessante rilevare è che essa riporta i nomi di numerose
campagne, nomi che a tutt'oggi, per gran parte sono stati mantenuti,
e che costituiscono una fonte toponomastica di prim'ordine per
capire l'origine "idraulica" e "paludistica" delle nostre terre. Buono è
altresì il documento sotto il profilo antropologico, in quanto
vengono menzionati i nomi di alcuni possidenti, particolari tipi di
colture e strutture abitative.
Item una pezza di terra aratoria di tre moggi e due staia circa, detta La
Pezza de Casa, vicino al polesinetto infrascritto, ecc.
Item una pezza di terra aratoria di un moggio, staia due circa, detta El
Maso, vicino al canale di detta possessione, accanto al prato
chiamato Valanzenina, ecc.
Item una pezza di terra chiamata La Fassina, aratoria, di tre moggi e tre
staia circa, vicino al pezzo di terra chiamato La Pezza de casa.
Item una pezza di terra chiamata La Braia, aratoria, di tre moggi circa,
con dieci etc.
Item una pezza di terra a vigna, di tre miglia circa, aratoria, di uno
staio e mezzo, detta El Polesine de Casa, etc.
Item un cortile casamentivo di due case di canne, con corte, aia, orto e
forno, posto nel detto fondo di Villanova. etc.
Item una pezza di terra vineata di tre miglia circa, detta Le Vignole,
etc.
Item una pezza di terra prativa, di quattro staia circa, detta Li Dossi,
dentro dalli arzeni, etc.
Item una pezza di terra prativa, detta Li Dossi, di due staia e mezzo.
Item un cortile casamentivo di tre case di canna, con corte, aia, etc.
Item una pezza di terra aratoria , vineata e a pergole, aratoria per tre
moggi e sette staia circa.
Item una pezza di terra aratoria, di quattro moggi, quattordici staia , sei
a prato circa, cui è dato il nome di La pezza da Prà.
Item una pezza di terra aratoria e, per quanto in minima parte, anche
da far legna, una volta
chiamata La Navilia, un tempo piccolo e grazioso prato di cinque
moggi e quattordici staia, vicino al canale detto La Goresna.
Item una pezza di terra aratoria, di dieci staia circa, a vigna per due
miglia circa, da legna per una certa quantità, chiamata La Ceghina.
Item una pezza di terra prativa fra gli argini, di tre giornate di lavoro
circa, ivi detta Li Dossi dentro dali arzeni.
Item una pezza di terra aratoria, di venti staia circa, ivi detta Li dossi
dentro da li argini, accanto agli argini dei dossi di Cuorcrevà, uniti
ecc.
Item un cortile casamentivo, con tre case di canna, con corte, ecc.
Item una pezza di terra aratoria, di nove moggi e undici staia circa,
prativa, di due giornatee mezzo di lavoro.
Item una pezza di terra prativa e bassa, ivi detta Li Dossi, fra gli
argini, di sette giornate circa di lavoro, vicina agli stessi argini, unita
ecc.
Item una casa grande, con quattro case di canna, con corte, aia, ecc.
Item una pezza di terra aratoria, di due moggi e due staia circa, da
legna, ecc.
Item una pezza di terra aratoria, di quaranta staia circa, detta La Sorda,
ecc.
Item una pezza di terra vineata, di due miglia circa, detta La Vigna.
Item una pezza di terra prativa, di due giornate di lavoro circa, ivi
detta Li Dossi verso valle, ecc.
Enzo Sardellaro
Note
2) A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, 1848, vol. IV, pp. 45 sgg.