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l’applicazione
su quel vecchio catorcio?
«Mamma, non puoi comprarmi un telefono nuovo? Ne va del mio futuro.» (da
Influencer, ma
non glielo dissi).
«Senti,» mi rispose «Ora non ho i soldi per comprartelo, dopo proverò a chiederli a
papà.»
Si, buonanotte, i miei avevano divorziato e mia madre si lamentava sempre che papà
non gli
pagava gli alimenti, figurati se mi comprava un cellulare taccagno com’era.
Ideona: «Perché non chiediamo i danni a chi mi ha investito? In fondo è stato lui
che mi ha
rotto tutto, compreso il mio smartphone.»
«Ma se sei stata tu a fermarti in mezzo alla strada» mi rispose «I testimoni
dell’incidente
hanno detto che stavi lì a ridere come una scema. Sa che sarà lui a chiederci i
danni?»
Fine della storia, non ne avrei avuto uno nuovo nei prossimi giorni, mesi o forse
anni... e
quello che usava mia madre era della ditta per cui lavorava, ossia off-limits.
A proposito di lavoro, l’indomani doveva svegliarsi presto, così mi salutò e mi
lasciò sola.
Veramente non era proprio sola.
In camera con me c’erano altri tre pazienti con le rispettive famiglie.
Di fronte a me c’era Matilde. Voglio specificare che tutti i dati da me raccolti
erano frutto
della noia e non di una mia morbosa curiosità. Matilde era una ragazzina di 12 anni
che si era
rotta una gamba cercando di fare un balletto acrobatico mentre si riprendeva con il
cellulare
per postarlo su TikTok, non voglio nemmeno immaginarmi la coreografia. Era
accompagnata
dalla mamma che non faceva altro che dire: «Hai fame?» oppure «Mangia, mangia che è
buono.» E dentro di me dicevo: si, si, era buonissimo il cibo dell’ospedale!
Alla mia sinistra riposava Tommaso, un povero bambino che se annusava una
nocciolina a
100 metri di distanza si riempiva di bolle. E che dire di sua mamma, una
centralinista del 118
parlava di meno al telefono.
Infine nell’angolo vicino alla porta c’era Asia, una bambina paffutella di 7 anni
che a solo
guardarla veniva voglia di coccolarsela. Lei aveva la “bua al pancino”, come diceva
la sua
mamma, e quando entrò l’infermiera con un enorme clistere in mano, rabbrividii.
Con tutto questo baccano chi riusciva ad appisolarsi per far passare il tempo?
Presi in mano il segnalatore di fumo portatile (ossia il mio telefonino che credo
usassero gli
antichi nativi d’America) e cercai di navigare nell’enorme menù di opzioni con solo
la mano
sinistra.
Borbottando sottovoce riuscii dopo qualche decina di minuti ad accedere alla mia
rubrica,
forse sarei riuscita a chiamare qualcuno per raccontargli le mie ultime disgrazie.
La mia SIM era riuscita a recuperarla mia madre, quindi tutti i miei contatti erano
lì.
Vediamo.
Sinceramente non me la ricordavo così.
In ordine alfabetico: mamma, papà, scuola. FINE
Beh, tutti i miei amici erano su Instagram, ben 1263, mica pochi.
Allora chi avrei chiamato?
La mamma lavorava sempre, meglio non disturbarla.
Mio papà faceva sempre finta di lavorare, meglio non disturbarlo.
La scuola, molto meglio non disturbarla.
Sconsolata misi via l’odiato aggeggio e chiusi gli occhi.
Erano passati due interminabili giorni e nel frattempo i miei coinquilini di stanza
erano
cambiati, ma ormai non me ne curavo più.
Mi avevano tolto la fasciatura alla testa, invece il gesso al braccio avrei dovuto
tenerlo,
purtroppo, ancora per 40 giorni; già adesso mi prudeva tutto da impazzire, come
avrei fatto a
sopravvivere?
Nonostante tutto era felicissima, oggi sarebbe stato il giorno più bello della mia
vita, no anzi
domani sarebbe stato il giorno più bello della mia vita: probabilmente oggi il
dottore mi
avrebbe detto che all’indomani sarei potuta tornare a casa!
Il piano di rientro che avevo escogitato in questi giorni era semplice ma geniale e
sicuramente
avrebbe funzionato.
L’indomani sera a casa, appena dopo cena, avrei fatto finta di essere molto stanca,
in fondo mi
ero ormai abituata alla vita ospedaliera che prevedeva di andare a dormire molto
presto, e mia
mamma mi avrebbe creduta.
Così anche lei, per non rischiare di disturbare una convalescente, sarebbe andata a
dormire
presto e, appena addormentata, vai con la festa!
Mi sarei intrufolata in camera sua e, con passo felpato, gli avrei sottratto il suo
smartphone dal
comodino; avrei potevo usarlo tutta la notte, non dovevo mica andare a scuola
l’indomani e,
prima che la sveglia di mamma suonasse, lo avrei rimesso al suo posto. Non si
sarebbe
accorta di niente, perfetto!
Mentre escogitavo questo elaborato piano d’azione, valutando tutti i possibili
imprevisti,
sentii una voce che mi chiamava.
«Signorina, oggi come sta? Tutto bene?»
Alzai lo sguardo e vidi il bel dottore che in questi giorni avevo imparato a
conoscere.
«Si, grazie» risposi. Era alto, capelli neri sempre un po’ spettinati, occhi verdi
e un sorriso
permanente. Era l’unica cosa bella di quest’ospedale.
Lui, con la mia cartellina in mano, sorrise se possibile ancora di più «Domani,
dopo l’ultima
visita di controllo, te ne potrai tornare a casa. Ci vedremo tra 40 giorni per
toglierti il gesso.
Avverti tu la mamma? Deve venire a prenderti e deve anche firmare le tue
dimissioni.»
«Certamente, l’avverto io. Grazie mille dottore.» Il suo sorriso era proprio
contagioso.
«Bene bene. Scusa ma non ho fatto a meno di notare che il tuo gesso è completamente
bianco.
Nessuno è venuto a trovarti e lo ha firmato? Di solito i ragazzi fanno così.»
In effetti, osservando bene, tutti i pazienti della pediatria che erano stati
ingessati avevano
delle scritte tanto ricercate che sembravano delle vere e proprie Street Arts.
«Non ancora, ma non si deve preoccupare, oggi mi vengono a trovare i miei amici e
vedrà
domani il mio gesso, non si vedrà nemmeno un centimetro quadrato di spazio libero
lasciato
in bianco!»
«Sono molto contento per te, ci vediamo domani, ciao ciao.»
Ma perché gli avevo risposto così, mi era fatta prendere dal panico, sapevo
benissimo che non
sarebbe venuto nessuno a trovarmi!
...Trovato!
Sicuramente le infermiere avranno avuto un pennarello nascosto nella loro stanza.
Stasera,
appena mi sarebbe stata portata la cena, glielo avrei chiesto. Gli avrei detto che
mi serviva per
lasciare un mio ultimo ricordo sui gessi degli altri bambini. Non mi avrebbero
detto di no!
Tutta questa fatica per avere cosa? Niente, adesso non avevo più niente, anzi molto
probabilmente non avevo mai avuto niente.
E in tutti questi anni cosa avevo perso?
L’amicizia, ecco cosa avevo perso, mi ero isolata da tutti senza prestare
attenzione alle
persone che mi stavano vicino e che, in un modo o nell’altro, mi volevano bene.
Subito mi venne in mente Lucia.
Era sempre stata carina con me, aveva sempre cercato la mia amicizia anche se ogni
volta la
trattavo male.
Presi il mio telefono, adesso era esattamente quello che mi serviva, non avevo
bisogno di
nessuna applicazione ultra tecnologica, volevo solo telefonare.
«Pronto Lucia, scusa per l’ora. E’ che avevo bisogno di sentire una voce amica.»
Mentre le parlavo e la ascoltavo con interesse, capii che una vera amica in carne
ed ossa non
poteva minimamente essere paragonata a 1263 finti amici in bit e byte.
FINE