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LIVELLO BASE

GIOSUE CARDUCCI

Pianto antico

L'albero a cui tendevi


la pargoletta mano,
il verde melograno
da' bei vermigli fior,

nel muto orto solingo


rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta


percossa e inaridita,
tu de l'inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,


sei ne la terra negra
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

Nevicata

Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinereo: gridi,


suoni di vita più non salgono da la città,

non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,


non d'amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l'aere le ore


gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici


spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –


giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.

Marzo 1881
Il bove

T'amo, o pio bove; e mite un sentimento


Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,

O che al giogo inchinandoti contento


L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.

Da la larga narice umida e nera


Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aer si perde;

E del grave occhio glauco entro l'austera


Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.

GIOVANNI PASCOLI

Sera d’ottobre

Lungo la strada vedi su la siepe


ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.

Vien per la strada un povero che il lento


passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina!…

Novembre

Gemmea l’aria, il sole così chiaro


che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante


di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,


odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

GIUSEPPE UNGARETTI

La madre

E il cuore quando d'un ultimo battito


avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,


come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

UMBERTO SABA

La capra

Ho parlato a una capra


Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
alla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno


al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perchè il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita


sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
EUGENIO MONTALE

Portami il girasole ch'io lo trapianti


nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,


si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce


dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

SANDRO PENNA

La vita è… ricordarsi di un risveglio


triste in un treno all'alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell'aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l'azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

TRILUSSA

Er porco e er somaro

Una matina un povero Somaro


Ner vede un Porco amico annà ar macello,
Sbottò in un pianto e disse: - Addio, fratello,
Nun ce vedremo più nun c'è riparo!

- Bisogna esse' filosofo, bisogna:


- Je disse er Porco - via nun fa' lo scemo,
Chè forse un giorno ce ritroveremo
In quarche mortatella de Bologna!
LIVELLO AVANZATO

Giosue Carducci

ALLA STAZIONE

IN UNA MATTINA D'AUTUNNO

Oh quei fanali come s’inseguono


accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia


la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi


a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera


al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono


incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre


rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere


paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica


anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile


sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,


o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’ aere,


fremea l’estate quando mi arrisero:
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei


la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine


torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,


continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,


meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

RIMEMBRANZE DI SCUOLA

Era il giugno maturo, era un bel giorno


Del vital messidoro, e tutta nozze
Ne gli amori del sole ardea la terra.
Igneo torrente dilagava il sole
Pe’ deserti del cielo incandescenti,
E al suo divino riso il mar ridea.
Non rideva io fanciullo: il nero prete
Con voce chioccia bestemmiava Io amo
Ed un fastidio era il suo viso: intanto
A la finestra de la scuola ardito
S’affacciava un ciliegio, e co’ i vermigli
Frutti allegro ammiccava e arcane storie
Bisbigliava con l’aura. Onde, obliato
Il prete e de le coniugazïoni
In su la gialla pagina le file
Quai di formiche ne la creta grigia,

Io tutto desïoso liberava


Gli occhi e i pensier per la finestra, quindi
I monti e il cielo e quinci la lontana
Curva del mare a contemplar. Gli uccelli
Si mescean ne la luce armonizzando
Con mille cori: a i pigolanti nidi
Parlar, custodi pii, gli alberi antichi
Pareano, e gli arbuscelli a le ronzanti
Api ed i fiori sospirare al bacio
De le farfalle; e steli ed erbe e arene
Formicolavan d’indistinti amori
E di vite anelanti a mille a mille
Per ogni istante. E li accigliati monti
Ed i colli sereni e le ondeggianti
Mèssi tra i boschi ed i vigneti bionde,
E fin l’orrida macchia ed il roveto
E la palude livida, pareano
Godere eterna gioventú nel sole.
Quando, come non so, quasi dal fonte
D’essa la vita rampollommi in cuore
Il pensier de la morte, e con la morte
L’informe niente; e d’un sol tratto, quello
Infinito sentir di tutto al nulla
Sentire io comparando, e me veggendo
Corporalmente ne la negra terra
Freddo, immobile, muto, e fuor gli augelli
Cantare allegri e gli alberi stormire
E trascorrere i fiumi ed i viventi
Ricrearsi nel sol caldo irrigati

De la divina luce, io tutto e pieno


L’intendimento de la morte accolsi;
E sbigottii veracemente. Anch’oggi
Quel fanciullesco imaginar risale
Ne la memoria mia; quindi, sí come
Gitto di gelid’ acqua, al cor mi piomba.

Giovanni Pascoli

LA TOVAGLIA

Le dicevano: ― Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l’hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch’è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti.


Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte attorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta.

È già grande la bambina;


la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d’allora.

Pensa a tutto, ma non pensa


a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.

Oh! la notte nera nera,


di vento, d’acqua, di neve,
lascia ch’entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.

Dalla sera alla mattina,


cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!

― Pane, sì... pane si chiama,


che noi spezzammo concordi:
ricordate?... È tela, a dama:
ce n’era tanta: ricordi?...
Queste?... Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! ―

Giacomo Leopardi
A SILVIA

Silvia, rimembri ancora


quel tempo della tua vita mortale,
quando beltá splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventú salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
cosí menare il giorno.

Io, gli studi leggiadri


talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,


le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,


che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,


da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dí festivi
ragionavan d’amore.

Anche pería fra poco


la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negâro i fati
la giovanezza. Ahi, come,
come passata sei,
cara compagna dell’etá mia nova,
mia lacrimata speme!

questo è quel mondo? questi


i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

GABRIELE D’ANNUNZIO

L’onda

Nella cala tranquilla


scintilla,
intesto di scaglia
come l’antica
lorica
del catafratto,
il Mare.
Sembra trascolorare.
S’argenta? s’oscura?
A un tratto
come colpo dismaglia
l’arme, la forza
del vento l’intacca.
Non dura.
Nasce l’onda fiacca,
subito s’ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene,
rincalza, ridonda.
Altra onda s’alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, propende.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s’arruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L’onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s’infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l’alga e l’ulva;
s’allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui l’vento
diè tempra diversa;
l’avversa,
l’assalta, la sormonta,
vi si mesce, s’accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d’iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca.
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella, numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
E per la riva l’ode
la sua sorella scalza
dal passo leggero
e dalle gambe lisce,
Aretusa rapace
che rapisce le frutta
ond’ha colmo il suo grembo.
Sùbito le balza
il cor, le raggia
il viso d’oro.
Lascia ella il lembo,
s’inclina
al richiamo canoro;
e la selvaggia
rapina,
l’acerbo suo tesoro
oblìa nella melode.
E anch’ella si gode
come l’onda, l’asciutta
fura, quasi che tutta
la freschezza marina
a nembo
entro le giunga!

Musa, cantai la lode


della mia Strofe Lunga.

PIER PAOLO PASOLINI

(da Trasumanar e organizzar)

Bisogna essere molto forti


per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c'è;
specie d'inverno; col vento che tira sull'erba bagnata,
e coi pietroni tra l'immondizia umidi e fangosi;
non c'è proprio nessun conforto, su ciò non c'è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.

Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri


- e anche d'inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d'immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente, o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia solo una traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.

Un ragazzo ai suoi primi amori


altro non è che la fecondità del mondo.
È il mondo così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;
l'atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque
la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l'andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.

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