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Luciano Arcella

Carlo Michelstaedter. Il grave peso della retorica

Personaggi

Enrico Mreule, chiamato Rico: Amico e contemporaneo di Carlo


Michelstaedter, signore di 60 anni, età in cui morì.
Nino Paternolli: Amico e contemporaneo di Carlo Michelstaedter, circa 35
anni, etá in cui morí.
Argia Cassini: Fidanzata di Michelstaedter, ventenne.
Emilio Michelstaedter: Cugino di Carlo, 18 anni.

SCENA I

Ampio spazio in penombra occupato da un piano e alcune sedie disposte


attorno a questo. Dinanzi al piano, la ragazza Argia, immobile. A una certa
distanza un peso pende dal soffitto. Attorno a questo si muove lentamente
Enrico (Rico, vestito alla maniera di un gaucho) che lo osserva con curiosità.
Gli si avvicina, appare indeciso e finalmente lo tocca: il peso si abbassa. Lo
solleva per ricondurlo nella posizione precedete ma questo ricade. Compie
l’operazione varie volte nell’intenzione che il peso si ricollochi nella
posizione precedente senza riuscirci, per cui appare irritato. Rinuncia a
sollevare il peso, ma nel momento in cui si allontana il peso risale.
Voce fuori campo: Un pese pende ad un gancio, e per pendere soffre che non
può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende, e quanto
pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo
lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendente
sino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo
accontenta, e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza
quello che esso ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da
accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti più
basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni
attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei
punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un’ugual fame
del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in
un punto gli fosse finita, e in un punto potesse possedere l’infinito scendere
dell’infinito futuro, in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso.
Il peso non può mai essere persuaso.
Rico (Si guarda attorno con aria sorpresa per quanto ascoltato, quindi si
rivolge al pubblico): Che strano oggetto, chissà chi lo ha collocato in questo
salone della casa di Carlo. Ne sapete forse qualcosa? Qualcuno di voi forse…
Scusatemi, mi sto rivolgendo a voi senza avere l’accortezza di presentarmi,
senza aver comunicato i dati essenziali della mia biografia. Sono Enrico, per
gli amici Rico, molto legato a Carlo, amico di gioventù, di escursioni, di
progetti, di amori. Ora mi trovo qui per testimoniare, per capire soprattutto
quel che ha condotto Carlo al gesto finale. Non vi meravigli il mio abito
particolare, poi vi spiegherò; per ora sappiate che vengo da lontano dopo una
lunga assenza. Intanto voglio presentarvi quella persona che sta lì nel fondo
all’ombra. Si chiama Argia, è la ragazza di Carlo. È un po’ timida, preferisce
stare in disparte (si accende un faro che la illumina mentre rimane immobile
dinanzi al piano). A ciò si aggiungono le scarse notizie disponibili sulla sua
vita, la famiglia, gli studi, sì che il suo universo sembra chiudersi attorno alla
sua indecifrabile relazione col giovane Carlo. Ma intanto voglio mostrarvela
nella limpida bellezza della sua gioventù.
Rico: Signorina Argia, posso disturbarla? La prego, vorrei salutarla e
presentarle queste persone venute qui per conoscere la nostra storia.
Argia sia alza lentamente, si avvicina a Rico che con eleganza le bacia la
mano, quindi fa un inchino al pubblico, torna al piano e si appresta a
suonare.
Rico (Rivolgendosi al pubblico): Vi prego di rimanere in silenzio, perché la
signorina Argia suonerà come sua abitudine, quando Carlo, la sorella Paula e
noi, gli amici più cari rimanevamo ad ascoltarla o tal volta l’accompagnavamo
con il nostro canto. Potete rappresentarci, raccolti attorno a lei, nella nostra
spensierata gioventù.
Rico prende una sedia e si accomoda al lato di Argia che incomincia a
suonare. Al termine della breve esecuzione la ragazza rimanendo seduta al
piano fa un cenno col capo e sorride agli amici invisibili che hanno ascoltato
la sua esecuzione, quindi rimane seduta.
Rico (Si alza e si rivolge al pubblico): Capisco che vorreste sapere qualcosa di
più, sulla ragazza, sul tipo di rapporto che aveva con Carlo, se si amarono
realmente o se si trattò piuttosto di una affettuosa amicizia. Dubbi che la
qualifica di fidanzata non è certo in grado di risolvere. Per quanto concerne
Carlo, pur essendo una persona gioviale, aperta, era molto geloso dei suoi
sentimenti, evitò sempre di parlarmi di questo argomento, ed io, per giusta
delicatezza, evitai di porgli domande. Rimane così a me come a voi, con una
valutazione incerta, la dovuta curiosità, a meno che… a meno che… Abbiamo
con noi Argia, che, pur se persona riservata, per riguardo verso di voi, ospiti
graditi in questa casa, voglia aprirsi, parlarci di Carlo, del suo carattere,
magari rivelarci qualcosa di intimo che finora le biografie ufficiali hanno
trascurato.
Rico (Rivolgendosi ad Argia): I nostri ospiti vorrebbero sapere qualcosa di
più, su Carlo, sul vostro rapporto, ma soprattutto su di lei, sulla sua personalità
ed anche sulle vicende della sua vita. La sua figura non può esaurirsi nel ruolo
ufficiale di fidanzata di Carlo. Potrebbe raccontare, spiegare, fare capire
insomma come stavano davvero le cose? La prego, si avvicini a questo
rispettabile pubblico che ha anche pagato un biglietto per esaudire la sua
curiosità.
Argia si avvicina al pubblico
Argia: Non mi è facile confessare i miei sentimenti e soprattutto parlare di
Carlo. Confesso che a volte non lo comprendevo nel suo alternare effusioni
d’amore a una silenziosa distanza. Ed ora soprattutto, dopo tempo, mi risulta
ancor più difficile riassumere in frasi inadeguate emozioni che non so
decifrare. Tuttavia, qualcosa posso dirla con certezza per farvi capire il suo
stato d’animo, la sua nascosta angoscia, affidandomi alle parole dello stesso
Carlo attraverso alcuni versi di una delle poesie che dedicò a una misteriosa
Senia, nome sotto il quale credo o mi illudo si nascondesse il mio.
Ti son vicino e tu mi sei lontana,
mi guardi e non mi vedi, e s’io ti parlo,
pur quando ascolti, non però m’intendi.
Io non sono per te “io”, la mia vita,
io, questa mia volontà più forte,
il mio sogno, il mio mondo, il mio destino.
Io non sono per te: questo mio amore
Disperato e lontano e doloroso,
gli passi accanto e non lo senti amare.
Argia pronunzia con difficoltà gli ultimi versi, quasi è presa dal pianto.
Rico. È davvero singolare il fatto che questi versi esprimano una passione
disperata nei confronti di una donna assente, indifferente, mentre lei, Argia,
gli era vicina, lo comprendeva, lo amava.
Argia: Sì, io ero attenta, presente, tanto da non riconoscermi in quei versi e
sospettare che non fossero proprio dedicati a me, nonostante le indicazioni
delle bibliografie ufficiali.
Rico: Vuole dire che forse c’era di mezzo un’altra donna? Ci sta rivelando
qualcosa di straordinario che nessuno studio è stato in grado di riscontrare.
Vada avanti, ci dica di più che siamo tutti estremamente curiosi.
Argia: Non si tratta di una relazione nascosta, di un amore segreto: dovrebbe
saperlo anche lei, soprattutto lei, Rico, che come amico lo conosceva bene. Se
dico che quei versi non mi appartenevano, è perché in loro si rispecchiano
vaghe passioni che attraversarono la sua vita pur senza coinvolgerlo. Da una
signora russa che morì prematuramente ad una studentessa calabrese
conosciuta a Firenze; era altro che lo teneva lontano da me. Qualcosa che
compresi e potreste comprendere leggendo una lettera che scrisse a sua sorella
Paula.
Paula trae un foglio piegato, lo apre e si appresta a leggere.
Argia: È questa una delle lettere che Carlo scriveva alla sorella con la quale
aveva una profonda confidenza: di questo, di lei, della loro intesa ero gelosa,
piuttosto che di presunti amori. Prestate attenzione: “Mi fa paura di ritrovarmi
a casa senza di te, e mi dolgo di non aver sempre realizzato il piacere di averti
con me a Firenze…Il dolore è una diminuzione presente acuta, la gioia non è
che una vaga speranza nel futuro, ed è impossibile godere di quello che si ha
se non forse per ‘vanità’. Un fiasco vive solo nel desiderio del vino; del resto
tanto vale un fiasco pieno che un fiasco vuoto; il fiasco soffre quando viene
vuotato e potrebbe godere soltanto se si compiacesse davanti allo specchio di
vedersi pieno…” Non leggo oltre. Nei righi che seguono Carlo ribadisce il
desiderio di avere Paula vicino a sé. Comunque da queste poche parole è ben
comprensibile la sua angoscia, pur se non comprendo il fatto del fiasco, vuoto,
pieno, il fiasco che soffre e che vorrebbe essere pieno… Ci capite qualcosa?
Rico: Sí, il fiasco, il vuoto, la mancanza, il peso e la sua insoddisfazione: non
riesco a decifrare appieno quel che Carlo con questi simboli vuole
comunicarci, ma capisco la loro importanze e capisco che deve avere una
funzione, pur se non so quale, questo peso collocato nel mezzo del salone.
Forse è proprio questo strano oggetto che mantiene il segreto della morte di
Carlo. Ma veniamo ai fatti, come si fa in tutte le indagini di polizia finalizzate
a determinare la verità e soprattutto a scoprire il colpevole. Nell’analisi
bisogna essere scrupolosi, osservare con occhi attenti per poter vedere quel
particolare fondamentale che era stato trascurato. I fatti: Carlo decise di
lasciare Gorizia, la sua città, per frequentare l’università a Firenze. Gli esami
li superò agevolmente pur se soffriva di vivere lontano dalla sua famiglia. Sì
che appena poteva tornava a casa. Allora ci si ritrovava e si esprimeva tutta la
nostra allegria. Escursioni in campagna, vino e musica. Il mondo allora era
nostro, eravamo noi a guidare un destino che immancabilmente ci amava.
Almeno così ci sembrava. Diversamente quando era lontano Carlo mi
scriveva, esprimeva il suo desiderio di rivedermi, perché ero io il suo vero
amico. Io… io…io che l’ho tradito due volte. Sì, l’ho tradito! (gridando).
Entra in scena un signore benvestito di mezza età, che si guarda in giro
sospettoso, è Nino. Vede Rico e gli rivolge la parola.
Nino: Mi era sembrato di ascoltare una voce nota, l’ho riconosciuta anche se
sono passati anni. Rico, amico di Carlo ed anche mio, naturalmente: il grande
amico di Carlo, lo dicevi con vanto. Che amico! Nel momento difficile te ne
andasti per iniziare un’altra vita nelle terre lontane, dimenticando quel che era
successo, per mettere molte pietre sul tuo passato. Ed ora perché sei tornato?
Pensi di rimediare, di espiare, di essere perdonato?
Rico: È così, riconosco la mia colpa e la necessità d’essere perdonato,
soprattutto da Carlo. Per questo appunto sono tornato, per chiarire, capire, per
poi andarmene una seconda volta. Tu invece che cosa ci fai qui dopo tanti
anni?
Nino: Perché sono parte della storia che tu stai riproponendo e ci costringi a
rivivere: sono qui per tua iniziativa senza volerlo. Una storia in cui non sono
personaggio secondario (rivolgendosi al pubblico). Del resto anch’io ero
amico di Carlo, forse anche più intimo di lui (indicando Rico) e lo dimostrai
riemanandogli vicino. Attesi che tornasse da Firenze, dove frequentava
l’università, dopo aver terminato gli esami per preparare la sua tesi di laurea,
che compilava nella soffitta di casa mia, perché era tranquilla e poteva
concentrarsi. Vi trascorreva molto tempo ed oltre a scrivere gli piaceva
disegnare. Era molto bravo, ed uno dei disegni più riusciti rappresenta proprio
la soffitta.
Rico: Maledetta soffitta, dove si consumò il gesto finale!
Nino: Non dare la colpa a luoghi o a cose, che non possono avere coscienza.
O anzi, diamo pure colpa alle cose, per loro stesse, per il loro essere e la loro
funzione; ebbene, se vogliamo dare responsabilità alle cose, è di quella che gli
affidasti, per tenerla lontano da te, perché, conoscendo la tua debolezza e
confidando nella sua forza di carattere, non volevi correre rischi. Non pensasti
che era lui ora a correre il pericolo.
Rico: Come potevo prevederlo? Al contrario di me lui era una persona
equilibrata e pieno di vita.
Nino: Lui sì, ma la sua filosofia? Quella ricerca della quale ci parlava che lo
ossessionava? Quelle domande alle quali non trovava risposta?
Rico: Sì, filosofia, teoria, come immaginare che davvero coinvolgesse la sua
vita? E tu intanto?
Nino: Sì, anch’io avrei dovuto capire, ma il suo pessimismo era così pieno
d’ironia, così divertente direi. Ricordi quella storiella che scrisse per noi? Un
breve dialogo del quale eravamo i protagonisti: non era drammaticamente
comico?
Rico: Ora che me ne parli lo ricordo. Seriamente, tragicamente comico. Nino
e Rico, Rico e Nino, come due marionette di Platone, che si affannano
vanamente in cerca di una irraggiungibile verità. Io ne ricordo vari brani, in
quanto li recitavo per riempire la mia solitudine in quella poco ospitale terra
americana. Ovviamente interpretavo i due ruoli. Tu ricordi qualcosa o hai
voluto cancellare ogni ricordo?
Nino: Credo di ricordare abbastanza.
Rico: Allora, visto che una singolare evocazione ci ha riuniti, vogliamo
provare a riproporre quel dialogo cercando anche di ritrovare l’allegria di quel
tempo?
Nino: Pensi davvero di ritrovarla? Di mettere tra parentesi quel che è accaduto
nel frattempo e ricominciare daccapo? Come che sia, ci sto, accetto il gioco.
Sarà un modo grottescamente serio di rievocare il nostro Carlo. Visto che tu
Rico, hai buona memoria, incomincia che ti seguo.
Rico: Giusto, anche perché nella sceneggiatura scritta da Carlo, sono io a
guidare il dialogo, sono io Socrate, e tu mi segui. La scema iniziale descrive
due persone che escono a passi lenti da un cimitero, quando incontrano il
guardiano che dice loro qualcosa. Ricordi quello che dice?
Nino: Sì che lo ricordo, ma qui sorge un problema, perché ci manca una
persona che reciti la parte del guardiano, e credo che sia corretto essere fedeli
al copione.
Rico: Non credo che sia difficile superare questo piccolo intoppo; abbiamo
dinanzi un pubblico partecipe e generoso: chiediamo a un volontario di venirci
in aiuto. (Si rivolge al pubblico). Chi se la sente di svolgere questo compito?
Si tratta di dire solo una battuta. Non c’è bisogno di un attore, basta un
soggetto parlante. Lo faccia per Carlo, le assicuro che le sarà grato.
(Una persona del pubblico sale sul palcoscenico)
Nino (Incerto, dirigendosi a Rico): Gliela dico la battuta?
Rico: Digliela, che aspetti?
Nino (al volontario): Dio le dia la salute. Tutto qui. Non si sa di qual dio si
tratti. Cristiano, musulmano o ebreo; così lei non avrà difficoltà nel dirla, qual
che sia il monoteismo da lei scelto. Se invece è ateo, pensi a quel dio
universale che non esiste: lo pensi scritto con la d minuscola.
(Intanto il volontario saluta il pubblico, sorride e assume l’atteggiamento di
chi attende un applauso)
Nino (al volontario) Dica quel che deve dire e torni rapidamente al suo posto,
perché con questa frase termina la sua apparizione teatrale. Aggiungo che non
le spetta alcun compenso, nessun gettone di presenza e neppure un buono
pasto, perché a quest’ora lei dovrebbe aver già cenato.
Volontario: Che Dio le dia la salute.
Nino: Perché offende la nostra condizione di mortali? Lei sa che la salute non
esiste.
Volontario: Ma se è lei che m’ha detto di pronunziare questa frase!
Nino: La frase, sì, ma non le ho detto di rispondere. Il suo ruolo finisce qui,
come quello delle comparse, appaiono e rapidamente scompaiono senza
lasciare traccia della loro presenza. Se ne vada, torni al suo posto! (Nino
spinge il volontario fuori dal palcoscenico). Ecco quel che succede quando si
dà un poco di visibilità alla gente: all’inizio per timidezza non riescono
neanche a parlare, poi non la smettono più, e ti riempiono il mondo di parole.
Si sentono protagonisti, pensano di aver raggiunto la fama, fino a qualche
tempo fa sancita dalla tv, oggi da una invadente socialità.
Rico: Rispondo come dice la sceneggiatura. Sì che serve, perché una cosa è
essere sano, altro malato.
Nico: Vuoi dire che è meglio morire sano che malato? Dovrebbe invece essere
piú doloroso lasciare questo mondo con la gioia di chi è sano, che
abbandonare un luogo di tormento e farla finita con il dolore provocato dalla
malattia. Se la morte è il male più grande, altri mali mi preparerebbero a lei.
Rico: Ben detto. Ma come sopportare il male? Sopportandolo diventa forse
meno grave?
Nico: Non di certo, rimane tale, ma lo si sente in maniera diversa da come lo
si sentiva precedentemente.
Rico: Intendi dire che quando impari a sopportarlo non è più un male?
Nino: No, rimane com’è ma lo sento diversamente da come lo sentivo.
Rico: Vuoi dire che quando impari a sopportarlo non è più un male?
Nino: È così.
Rico: Quindi dici che gli accidenti, le malattie sono mali e che la morte è il
male supremo che elimina ogni differenza fra salute e malattia. Giusto?
Nino: Giusto.
Rico: Ora dimmi. Che cos’è la malattia? Che cosa sono i mali? Se esistono
devono essere pur qualcosa.
Nino: Certamente, come la tubercolosi, la polmonite o il covid.
Rico: Bene, ma ciascuna di queste malattie, che è?
Nino: si tratta di batteri o di virus.
Rico: Ma questi batteri o virus, perché sono mali? In che consiste il loro
essere mali?
Nino: Sono mali perché arrecano danno all’uomo.
Rico: Non sono quindi mali in sé, ma solo quando colpiscono l’uomo
diventano mali. Vuol dire cha abbiamo uomini malati ma non il male. Lo
stesso vale per la morte. Hai mai incontrato la morte?
Nino: No di certo, ma il mio errore e la tua ragione, sostenuta dalla tua
capacità dialettica, non ti danno il diritto di prendermi in giro. Aggiungo, fuori
dal copione scritto da Carlo, che che in questo dialogo si sia davvero divertito
nel farmi fare la parte dell’idiota.
Rico: Ruolo importante in quanto funzionale. Ora non lamentarti e non farmi
perdere il filo. A questo punto io dico: la morte a sua volta ci scivola dalle
mani: pensiamo di parlare della morte mentre parliamo di coloro ai quali è
negato continuare nel futuro.
Nino: Coerente il tuo discorso, ma intanto che diciamo a quelli che hanno
perduto persone care e cose belle della vita? Questi monti luminosi, cieli e
mari brillanti, e chi si perdono in un tramonto che non vedrà aurore? Costoro
non domandano che cosa sia la morte, ma sanno che nulla vale più della vita e
che non avranno mai indietro quel viene loro tolto.
Rico: Da ciò qual ´la massima che pensi di ricavare?
Nino: Una massima minima ma chiara. Vivete e godete, che il tempo si
esaurisce e si avvicina il momento in cui vi sarà tolta ogni cosa.
Rico (Cone si avesse dimenticato la arte): Il tuo principio è di godere il più
possibile ma… scusami, ho un vuoto di memoria (Al pubblico). Scusatemi, mi
sono perduto.
Nino: È naturale, è il lungo tempo trascorso che t’ha cancellato la memoria, e
oltre il tempo la distanza e ancor più di queste il senso di colpa che non t’ha
lasciato. Tu, l’amico più affidabile, più vicino a Carlo e alle sue idee, fuggisti
lasciandogli quell’oggetto che apparteneva al tuo destino. Ma adesso, chissà
perché proprio adesso, sei tornato per metterci a disagio. Non potevi lasciarci
tranquilli nel naturale oblio del tempo?
Rico: Sì proprio oggi, anno 1958 esattamente un giorno prima della data della
mia morte. Allora come oggi è una giornata piovosa di fine dicembre, quando
compii il mio secondo viaggio, quello definitivo. Ma tu non puoi saperlo, visto
che la tua vita non giunse oltre una matura gioventù.
Nino: Ti sembra una ragione valida? Ciò non dimostra altro che la tua mania
di protagonismo, la tua presunzione. Adesso pretendi che ti giustifichiamo per
poter avere una morte tranquilla, chiedi l’assoluzione finale per liberarti
d’ogni colpa. E, anziché riscattarti assumendo finalmente una posizione
umilmente secondaria, ti vuoi sentire protagonista proponendo un dialogo in
cui tu ti pavoneggi da moderno Socrate, salvo poi dimenticarne la
conclusione.
Rico: Solo un momento di smarrimento, se mi si dà un po’ di tempo posso
ricordare.
Nino: Non è questo il problema, che invece nasce dal tuo atteggiamento. Ci
hai evocato per rivivere quel tempo e purificarti della colpa che ti accompagna
sino ad oggi, ma invece di cercare una pur penosa giustificazione vorresti un
riconoscimento. Che considerassimo con ammirazione la tua avventura al di là
del mare, che ti celebrassimo come eroe di due mondi mentre non hai fatto
altro che percorrere il penoso cammino della retorica. (Rivolgendosi al
pubblico). Signori, chiedo un applauso per il nostro globe trotter, l’hippy
visionario, l’alternativo alla civiltà occidentale!
Le frasi concitate di Nino fanno sì che Argia, sinora in ombra e immobile
dinanzi al piano, si giri.
Nino: La vedo interessata, signorina Argia. Allora ci dica: che ne pensa?
Argia: La marginalità alla quale mi ha relegata la sceneggiatura non mi
permette di assumere una posizione. Io sono soltanto, come ripetutamente
dichiarato, la fidanzata di Carlo, quella ufficiale. Che opinione può avere una
fidanzata ufficiale nella sua tradizionale collocazione sociale? Non
rispondendo alla inutile domanda, posso solo ipotizzare quel che fu del resto
della mia vita, una volta consumato nel tempo corretto il dolore del lutto.
Passioni sbiadite e un tempo forse felice, perché protetta dalla discrezione
dell’anonimato. Per il resto non ho chiari ricordi, anche perché non posso
trovare riscontro in biografie inesistenti. Perciò preferisco mettere da parte i
ricordi futuri e tornare al mio piano e alla concretezza della musica.
Argia suona.
Nino: Risposta coerente, inappuntabile, signorina Argia. Diversamente da lei,
dato che in biografie di Carlo, esistono annotazioni sulla mia persona e la mia
vita, ho il diritto di trovarmi qui e la possibilità di dire qualcosa. Io non mi
realizzai in evasioni argentine, caro Rico, ma, superato il dolore del lutto,
cercai di godere delle cose buone della vita, almeno sino a che la mia breve
vita me lo consentì. Avevo appena 35 anni quando lasciai questo mondo e non
fu una mia decisione. Sì che con la ricerca di un pur moderato piacere, misi in
pratica quel che sostenevo nel nostro dialogo, mentre tu obbiettavi che l’uomo
non possiede le cose ma sono queste che lo tengono in loro potere? Non è
così?
Rico: Mi pare di sì, concludevo che proiettiamo il nostro possesso nel futuro
mentre rimaniamo come vuoti nel presente e con una fame insaziabile nel
sentire la mancanza d’ogni cosa.
Nino: Per concludere – recito il testo alla lettera. “Sino a che la morte,
togliendoci da questo gioco crudele, di fatto non ci toglie niente, in quanto non
abbiamo niente. La morte è come un ladro che spoglia un uomo nudo”. Sono
le parole esatte che non ricordi per aver vissuto tanti anni in una terra arida
che t’ha consumato vitalità e memoria.
Rico: È colpa mia se ho vissuto più a lungo ti te? Ne provi fastidio?
Nino: No è questo a darmi fastidio, ma la tua fuga e la tua incoscienza. Lo
mettesti nelle sue mani il dannato destino. Pare che la pistola avesse anche il
colpo in canna, sì che non dovette neppure perder tempo ad armarla. Gli
preparasti un cammino molto comodo: perché?
Improvvisamente si presenta in scena un giovane di 18 anni: è Emilio, cugino
di Carlo, che in quel tempo lo preparava all’esame di maturità. Fu l’ultimo a
vedere Carlo vivo. Si recò nella sua soffitta per la lezione, ma Carlo gli chiese
di lasciarlo solo. Fu allora che Carlo decise il suo destino.
Emilio: Che cos’è questa confusione? E queste grida? Possibile che non si
possa stare tranquilli neanche adesso, quando anche ogni residuo di memoria
dovrebbe essersi cancellato? Ed invece voi che litigate come due bambini che
si contendono un giocattolo.
Rico: Tu chi sei?
Nino: Che ci fai qua?
Emilio: Purtroppo siete stati voi a richiamarmi con le vostre grida, le
incomprensibili nostalgie, i rimorsi e la sciocca speranza che un rito
evocatorio possa purificarvi delle colpe. Poveri credenti, freudiani dilettanti!
Siamo onesti, siamo seri!
Rico: Ragazzino, come ti permetti di rivolgerti in questo modo a chi potrebbe
essere tuo padre?
Emilio: Lasci perdere il moralismo spiccio, ripeto, cerchiamo di essere seri,
visto che per cause non precisate ci ritroviamo qui, noi tre, diversamente legati
a Carlo e al tragico evento.
Rico: Parla allora, ma per buona educazione, prima di offrirci le tue sentenze,
dicci chi sei, che ci fai qui e che hai a che fare con Carlo.
Emilio: Sono Emilio e questo già dovrebbe bastare, Emilio Michelstaedter,
cugino di Carlo. Per quanto riguarda la ragione della mia presenza, forse
comune a noi tre, si tratta credo di dare un compimento, una soluzione al
dubbop ed eliminare un’angoscia che ancora non ci abbandona.
Nino: Emilio? Come potevamo riconoscerti? Sei rimasto così com’eri a
diciotto anni, senza recare alcun segno del tempo passato.
Rico: Proprio uguale, così com’eri, assolutamente impossibile riconoscerti da
parte di chi ha su di sé il passare del tempo.
Emilio: Vi do ragione e aggiungo che è assolutamente logico che io sia
rimasto com’ero, dato che la mia importanza biografica è legata
esclusivamente a quell’evento fatale. Sono per definizione il cugino
diciottenne al quale Carlo era molto affezionato e che preparava all’esame di
maturità.
Nino: Sì, ricordo quando vi ritiravate a studiare nella soffitta, tuttavia mi
chiedo qual sia la vera ragione che ti ha portato qui, oltre che il nostro vociare.
Emilio: In verità vi avrei volentieri lasciati da soli con la vostra volontà di
ricordare per espiare, con la vostra litigiosità, se non fosse stato per quel
dialogo che avete messo rozzamente in scena, e col quale avete dimostrato
tutta la vostra ignoranza, deformando brutalmente il pensiero di Carlo. Non ho
resistito, ho sentito che dovevo intervenire per mettere le cose a posto, i
puntini alle i e dare una versione corretta dei fatti e delle idee.
Rico: Capisco. Sei venuto per far sapere a noi ed a questo pubblico che sei tu
il solo e il vero interprete della filosofia di Carlo, la fonte corretta, l’esegeta
autorizzato.
Emilio: È proprio così, e posso dimostrare la fondatezza della mia ragione.
Perché mentre lei, Rico, vagava per le lande della Patagonia con la sua mente
confusa, e il signor Nino si occupava di faccende di cui non si sa niente, io
cercavo di mantenere viva la memoria di Carlo nell’unica maniera degna. Mi
occupavo della sua opera per consegnarla ai tempi a venire, alle nuove
generazioni affinché potessero trovare ragione ed emozione nella sua filosofia.
Nino: Mostri poca modestia ma ammetto che hai una certa ragione. Conosco
quella prima edizione che tu curasti della tesi di laura di Carlo, La
persuasione e la rettorica, Firenze 1922, dodici anni dopo la sua morte e poco
prima della mia. Fu una buona edizione critica, con note appropriate, mi
congratulo.
Rico: Dovrei congratularmi anch’io col giovane studioso?
Emilio: Signori, fate come più vi aggrada. Quel che importa è che non si
diffondano errate interpretazioni del pensiero di Carlo. È questa la vera
ragione della mia presenza.
Nino: Motivo grave, pesante direi.
Rico: Pesante…il peso, qui è forse la soluzione, questo oggetto inquietante
collocato al centro della stanza, che nel suo silenzio dice ben più di quanto
possiamo dire e pensare noi gli amici e tu, Emilio, che ascoltavi le sue lezioni.
Un peso che per il suo essere si ostina a scendere ma che chissà, per una
ragione incomprensibile, decide di arrestarsi o addirittura di ascendere
contraddicendo la retorica del suo essere e rendersi finalmente persuaso.
Nino (Con ironia): Qui la cosa sta diventando sempre più pesante!
Rico (Avvicinandosi al peso e lo tocca; il peso si abbassa): Guardate, per sua
natura va verso il basso, provo a sollevarlo ma lui continua a scendere, a meno
che. (Si allontana e il peso risale). Eccolo, se lo lascio libero mostra una
volontà propria sfuggendo alla legge che lo determina, alla naturale retorica
del suo essere. Come si spiega?
Nino: Posso pensare che in tal modo il peso rivendichi la sua autonomia, la
sua indipendenza rispetto alla funzione che noi gli attribuiamo. E che fu
proprio questo il risultato che Carlo raggiunse e non ci volle rivelare. Che il
peso, privo di ambizioni e desideri, di emozioni, di aspettative e rimpianti, e
finalmente dei pregiudizi umani, occupasse il suo spazio privo d’ogni
determinazione. Che ne pensi, tu che ne sai più di noi, giovane studente
Emilio, visto che andavi a lezione da Carlo? Che fra una lezione di italiano e
di storia, deve pur averti detto qualcosa sulla sua filosofia, magari quella più
segreta che non ha rivelato ad altri.
Emilio: Devo ammetterlo: fra una lezione di latino e una di greco mi diceva
qualcosa, mi parlava soprattutto di una cosa…
Nino: Di che cosa?
Emilio: Del peso.
Nino: In che senso?
Emilio: Fisico.
Nino: Con che scopo?
Emilio: Di convincerlo.
Nino: Di che cosa?
Rico: Di non pesare, ovviamente! Tutto qui diventa più chiaro, si piega forse
la collocazione di questo strano giocattolo al centro del salone, che se ne sta
tranquillo con la sua aria di sfida.
Nino: In che consisterebbe questa sfida?
Rico: Ci sfida a controllarlo, dominarlo, persuaderlo.
Emilio: Sfida che naturalmente vi vede sconfitti. Del resto come potreste
persuaderlo voi, vissuti nella facile e inconcludente retorica di progetti e
speranze giovanili? Tra l’ideale di una vita eroica e le ingenue promesse
d’amore?
Rico: Perspicace il ragazzo che si sente autorizzato a indossare i vestiti di
Carlo e magari si sente posseduto dal suo spirito. (Rivolgendosi a Emilio)
Allora, visto che hai capito tutto, ci riveli la soluzione finale?
Nino: Sì, la soluzione magica, la giusta combinazione, il catalizzatore efficace
per trasformare in oro la nostra grave mediocrità e farla finita con il peso che
pesa.
Emilio: Nella domanda che mi pone, signor Nino, manifesta la sua ignoranza.
Non siamo di fronte all’universalismo della scienza sperimentale: si dà la
formula e tutti, applicandola, giungono al risultato prestabilito. Questa è un
altro tipo di scienza, senza formule, o meglio per la quale ciascuno dovrebbe
avere una propria formula, secondo la quale mette in atto quel che gli detta il
suo spirito.
Rico: Giusto, ma proprio per questo Carlo doveva avere la sua formula per
mezzo della quale avrebbe ottenuto il risultato perseguito!
Emilio: Quasi, nel senso che aveva trovato quel cammino senza fine che
conduce alla soluzione, la sua illimitata via dell’oro, mentre, signor Rico gliela
ha troncata quella via…
Rico: Mi dispiace ma non potevo prevedere…
Emilio: Sempre a giustificarsi, la faccia finita, non si comporti come il
bambino che nell’oscurità grida per avere un segno della propria persona e che
nel non sentire più la voce delle cose che gli dicono “tu sei”, non ha il
coraggio di esistere e cerca la mano dell’amico e dice “Io sono, tu sei, noi
siamo”. Ed insieme ripetono: “Noi siamo, noi siamo perché sappiamo, perché
possiamo dire le parole del sapere…” Basta, sto ripetendo quello che Carlo ha
meditato e scritto nella sua tesi, e questo mi porta a rivivere quel momento in
cui…
Nino: Dicci, tu che sai perché l’hai vissuto, ma non parlarci di teorie, di
filosofia, vogliamo conoscere i fatti, quello che accadde qual giorno in cui
rimanesti con Carlo sino al momento…
Rico: Sei stato l’ultimo a vederlo, e se io sono colpevole per avergli lasciato
quell’oggetto con cui decise il suo destino, anche tu fosti colpevole per non
aver capito e averlo lasciato solo. Non pensasti a quel che sarebbe accaduto?
Non potevi prevederlo?
Emilio: Come prevederlo? Se neanche lui aveva coscienza di quel che
avrebbe fatto! Non è un atto che si possa programmare, è un atto che nasce dal
cuore, che scatena quella forza vitale che conduce all’azione.
Rico: Vitale? Ma se lo condusse alla morte!
Emilio: Vitale, vitale! Lei, Rico, è troppo lontano dalla sua gioventù, per
ricordare, per capire. Il giovane che compie l’atto non pensa di consumarsi, di
entrare nel cammino impronunziabile del non essere, piuttosto pensa di dare
intensità alle sue azioni, di accelerare il tempo con qualcosa di decisivo, di
aggiungere vita a vita. Lai Nino, che non si trova tanto lontano dall’età di
Carlo, potrebbe capire.
Nino: Potrei ma con troppi dubbi, e soprattutto incredulità e stupore per qual
che accadde. Carlo era una persona razionale, equilibrata e soprattutto
responsabile. Come è possibile che non pensò alle conseguenze, al dolore che
arrecava alla sua famiglia e a noi, gli amici?
Emilio: L’atto è definitivo, non prevede conseguenze: dopo il niente non c’è
niente. E per quel che concerne gli amici, abbiate la dignità di chiudervi fra
parentesi.
Rico: D’accordo, ma mi rendo conto che stiamo evitando i fatti: la vitalità
della morte, il niente dopo il niente: ancora filosofia! Vogliamo rimanere ai
fatti? A quelli che solo tu Emilio, puoi raccontare, in quanto fosti l’ultima
persona che vide Carlo, che gli parlò. Che cosa accadde quella sera?
Emilio: I fatti sono contenuti anche nelle biografie più trascurate, li conosco
persino i docenti universitari poco propensi ad avere a che fare con un non
accademico e per giunta di dubbio orientamento politico, ma c’è qualcos’altro
che non si trova in nessuna biografia.
Nino e Rico: Che? Che cosa?
Enrico: Il peso.
Rico: Richiamiamo in campo nuovamente quest’oggetto?
Emilio: Continuate a non capire? Pensate che se ne stia qui a pendere al centro
d’un salone solo per caso?
Rico: Inizialmente me lo sono chiesto e mi sono dato una risposta plausibile.
Ho pensato che si trattasse di una invenzione scenografica, una fantasia del
regista finalizzata ad accreditarsi una presunta geniale creatività.
Emilio: Tutto qui?
Rico: Allora di che si tratta?
Emilio: Che superficialità! Devo però ammettere che anch’io in un primo
momento non diedi importanza alla sua funzione e alla sua posizione, pensai a
un’invenzione con mire artistiche da parte di Carlo, che da parte sua dava
risposte ambigue alle mie insistenti domande. O meglio, risposte parziali,
suggerimenti, come se volesse mettermi sulla strada e fare in modo, da
coerente platonico, che fossi io ad arrivare alla corretta conclusione.
Nino: Bene. Mi sembra che siamo arrivati alla conclusione che non si tratta di
una creazione artistica moderna né di un gioco.
Emilio: Potrebbe essere un gioco, ma molto serio. Il gioco di un enigma, dalla
cui soluzione dipendeva la sorte di Carlo, e che ora si ripropone a noi per
sfidarci, per misurare la nostra intelligenza e il nostro spirito. Una sorta di
ingannevole canto circeo, che con la sua potenza ci ha attratto in questo luogo
al di là di una qualsiasi ragionevolezza temporale. Né Emilio, né Rico e
tantomeno io, siam stati i responsabili di questo ritorno, ma lui, con la forza
gravitazionale presente nella sua centralità. È lui, che stanco di pendere a
causa del suo inappagato desiderio del più basso, vuole mostrarci il cammino
della persuasione, di un essere che non era né sarà ma coniuga la sua sola
presenza.
Rico: Forse riesco a capire qualcosa, ma intanto sento la necessità di saperne
di più, i fatti una volta di più.
Emilio: Carlo quella sera non aveva voglia di darmi lezione, si sentiva stanco.
Mi chiese quindi di rimandare all’indomani, magari di mattina a mente più
fresca. Me ne andai lasciandolo solo, o forse no, perché nella sua stanza c’era
il peso e con lui la soluzione finale. (Si avvicina al peso sorridendo). Lui
sapeva che doveva fare. Immagino che Carlo si limitò a sfiorarlo, poi con un
leggero movimento, senza toccarlo, lo accompagnò al punto del suo
equilibrio, della sua persuasione, dal quale non avrebbe avuto più l’ansia di
scendere.
Il peso si solleva e sembra arrestarsi mentre i tra lo fissano con ansia.
Nino e Rico: e poi?
I tre osservano il peso che improvvisamente crolla al suolo, mentre si ascolta
un forte colpo di pistola.
Voce fuori campo: La morte come la vita contro di lui non ha armi, che non
chiede la vita e non teme la morte. E con le parole della nebbia, vita morte, più
meno, prima poi, di lui non puoi dire altro che nel punto della salute
consistendo, ha vissuto la bella morte.
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