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Luciano Arcella

Personaggi:
Chiara: ragazza ventenne
Heinrich, professore: uomo anziano

Opera al bianco
Ampio spazio racchiusa tra pareti di polistirolo bianco. Abbastanza
scarno, nel quale tuttavia figurano attrezzature alquanto singolari, che
dovrebbero suggerire tecniche molto avanzate nel loro barocchismo
fantascientifico ed allo stesso tempo un senso di inquietudine. Nello spazio si
muove lentamente un signore alquanto anziano che indossa un camice bianco
quale uniforme da tecnico. Si ascolta una leggerissima musica di fondo alla
quale il signore presta l’orecchio mostrando però un certo disappunto.
Improvvisamente risuona una voce femminile proveniente dall’esterno, che si
avvicina annunciando l’ingresso nello spazio scenico.

Chiara (ragazza ventenne): C’è nessuno? Permesso! Posso entrare? Qualcuno


mi sente? (quasi gridando).

La ragazza entra in scena con passo deciso. Indossa un vestito rosso che la
rende molto appariscente. Vede il signore che a sua volta, distolto dai suoi
pensieri, la osserva inizialmente sorpreso, ma poi non le presta attenzione.

Chiara (continua a parlare a voce molto alta): Mi sente signore? Dico a lei,
mi sente? Mi scusi se entro senza essere annunciata ma lì fuori non c’è
nessuno. Il gabbiotto all’ingresso degli uffici è vuoto, perciò mi sono
permessa di entrare, anche perché si tratta di qualcosa di molto importante, di
urgente direi, o addirittura decisivo.

Heinrich: Venga pure con il suo caso urgente o decisivo se preferisce, ma non
gridi: non sono sordo e l’altezza del tono di voce non faciliterà certo la
risoluzione del suo caso.
Chiara: Mi scusi ma so che questa stanza è speciale, insonorizzata, così si
dice, per impedire rumori molesti, e per questo ho sentito la necessità di
parlare forte, per essere certa di essere udita. Ma se mi dice che posso parlare
normale lo faccio, anche perché a me non piace gridare. (Intanto la donna
percorre la stanza guardandosi attorno, tocca le pareti, le apparecchiature
presenti nella stanza). Interessante, non ero mai stata in uno studio di acustica;
davvero singolari queste apparecchiature, devono essere elaborazioni
moderne, probabilmente molto costose (Intanto tocca e maneggia gli oggetto
con poca cura).

Heinrich: Appunto, eviti di maneggiarle, sono costose e delicate.

Chiara: Lei invece non indossa nessuna tuta speciale, nessun casco o altre
protezioni che la salvaguardino da possibili radiazioni. Solo un camice, che
piuttosto la fa sembrare sì e no, un infermiere. Con ciò non intendo mancarle
di rispetto, ma voglio essere sincera: la forma è importante e per il valore del
suo lavoro credo che occorrerebbe una presentazione più degna.

Heinrich: Non rispondo alle sue stupide considerazioni, perché qui non ci
sono radiazioni, ma solo onde. Piuttosto mi dica chi l’ha fatta entrare, che ci fa
qui.

Chiara: Ecco che non mi ha ascoltato, nonostante parlassi forte e chiaro.


Allora le ripeto: nessuno. Da quando sono entrata nell’edificio non ho
incontrato guardiani e così ho fatto da sola. Anzi, le suggerisco di fare un
controllo: lei è il capo qui? Dove sono gli impiegati? Non dovrebbero
lavorare? O fanno come quelli che timbrano e poi non li sente più nessuno? A
questo servono le stanze insonorizzate? Bella trovata perché ognuno faccia i
propri affari indisturbato.

Heinrich: Risparmi le sue considerazioni volgarmente populiste e mi dica che


vuole, perché è venuta qui, a fare che cosa.

Chiara: Prima di risponderle, penso sia educato presentarmi: io sono Chiara, e


lei?

Heinrich: Professor Heinrich.


Chiara: Straniero?

Heinrich: No, solo il nome, per volere di mia madre, tedesca, ma sono nato in
Italia e sono italiano.

Chiara: Professore e quasi tedesco, mi congratulo, e visto che il suo nome è


complicato, oltre che per educazione mi limiterò a rivolgermi a lei col suo
titolo accademico.

Heinrich: Lasciamo stare il modo in cui lei mi vorrà chiamare, anche perché
non individuo la ragione per la quale lei dovrebbe chiamarmi. Quindi la prego
di giustificare rapidamente la sua invadenza e di spiegarmi la sua urgenza,
signorina...

Chiara: Chiara, le ripeto.

Heinrich: Bene, Chiara, signorina Chiara, in quanto tale, chiarisca.

Chiara: Finalmente un po’ di spirito ed io le tengo il passo, sono Chiara e


sono assolutamente pronta a chiarire. E seriamente, molto seriamente (Chiara
assume un’aria drammatica). Deve sapere che alcuni giorni fa sono andata dal
dentista, niente di grave, una leggera trapanazione, una capsula, qualcosa di
scarso rilievo, mentre è importante quello che mi è successo dopo.

Heinrich: Le ricordo, prima che proceda col suo racconto, che questo è uno
studio di acustica e che io sono dottore in fisica non in odontoiatria.

Chiara: Sì professore, lo so, per questo sono da lei: mi ascolti per favore. Le
dicevo che sono stata dal dentista per un lavoretto sbrigativo, una carie, una
trapanazione, una cosa semplice insomma. Nessun dolore, data anche
l’abituale iniezione di anestetico, e poi il facile ritorno ad una masticazione
regolare.

Heinrich: E allora?
Chiara: Allora, giusto allora, o esattamente un giorno dopo è quel che mi è
accaduto e mi ha spinta a cercare il suo famoso centro di acustica ed a
rivolgermi a lei, data la sua esperienza e la sua fama.

Heinrich: Lasci perdere la fama che non ho e venga rapidamente al punto,


altrimenti…

Chiara: Vengo al punto se lei non mi interrompe; un poco di pazienza e


ascolti. Le parlo di cose importanti, riservate: siamo davvero soli? Siamo ben
isolati in questa stanza o è tutta una messa in scena come tante cose in questo
paese? Questi pannelli troppo semplici, di scadente qualità, non mi danno
sicurezza. Meglio che parli a bassa voce: giusto?

Heinrich: Parli come preferisce, ma si sbrighi che non ho tempo da perdere.

Chiara: Le assicuro che non sarà tempo perduto, perché le dirò qualcosa che
arricchirà i suoi studi, le sue conoscenze. Bene: il giorno dopo, ecco che
qualcuno mi chiama, con voce leggera, quasi infantile, e mi dice: “Chiara, tu
sei Chiara”. Mi guardo in giro, perché non capivo da dove provenisse la voce.
Per giunta fioca, infantile appunto. Guardo nella stanza affianco, vado anche
in cucina, cerco sotto il letto, persino nell’armadio, ma niente. Nessuno, e la
voce scompare. Penso che sia qualcosa venuto da fuori, che abbia avuto un
momento di rilassamento con la conseguenza di una leggera allucinazione,
come quella sensazione del dejà vu, il già vissuto che ti abbaglia per un
momento e sparisce senza lasciare impronta. Ma no, la cosa non è finita qui:
ecco che mentre sto agitandomi nel letto in cerca del sonno, ancora una voce,
ma non è la stessa. Questa volta è grave, lenta, stanca direi. Non ricordo le
parole esatte: forse mi chiede se sto per dormire, poi mi dice di stare attenta, o,
ecco, ecco, ora ricordo; esattamente mi ha detto: “Dormi pure, ma non
chiudere completamente i tuoi occhi. Tieniti pronta nel caso…”

Heinrich: Nel caso? In che caso?

Chiara: Non me l’ha detto, o forse non ho capito, perché la voce è diventata
più fioca e non riuscivo a percepire un significato che andasse oltre un greve
mormorio.
Heinrich: Tutto qui? Lei ovviamente ci ha dormito su, un sonno profondo con
entrambi gli occhi ben chiusi, le orecchie tappate e ovviamente non è successo
niente. È così, ci scommetto, per cui non capisco perché si sia presentata qui a
farmi perdere tempo.

Chiara: Non è così, al momento non è successo niente; mi sono addormentata


ed ho trascorso una buona notte di sonno, per svegliarmi però al mattino con
un sonoro “buon giorno!”

Heinrich: Tutto normale quindi, qualcuno della casa l’ha risvegliata come si
fa di solito, con l’augurio di una buona giornata. Che cerca di meglio?

Chiara: Magari, ma purtroppo vivo da sola e il buon giorno, chiaro, forte,


sonoro, mi è rimbombato nell’orecchio destro. Questa volta una voce di
donna, squillante, musicale. Si è trattato di un “buuuoon gioorno!” Tanto che
con estrema naturalezza ho risposto con un “buuuoon gioorno” dalla
medesima intonazione e sonorità.

Heinrich: (con tono ironico): Ed è stata davvero per lei una buona giornata?

Chiara: Lei ci scherza su ma per me non è stato affatto piacevole verificare


l’esistenza di voci che mi stavano perseguitando. Voci delle quali non capivo
la provenienza né l’intenzione. Qualcuno voleva spaventarmi? A qual fine?
Che cosa pensava di ottenere?

Heinrich: Che cosa? Le ha chiesto per caso dei soldi?

Chiara: Lei insiste a scherzare. Ho continuato ad ascoltare voci diverse,


differenti in tono, timbro e frequenza, vibrare fra le bocca e il timpano. In
verità non mi hanno chiesto niente, ma da allora mi seguono, mi
accompagnano, mi perseguono. Anche adesso, una voce pressoché melodica,
soave direi, è qui, con me, al mio lato, presente, costante, assillante
esattamente, che però non vuole niente, se non affermare la sua presenza. Lei
non la sente? In questo momento forse no, anche perché siamo distanti, ma se
si avvicinasse un poco…
Heinrich: Lasciamo stare; che vuole che senta? Capisco piuttosto che in
questo, come professore di fisica, studioso d’acustica, audiometrista e per
motivi pratici audioprotesista, non posso proprio aiutarla, ma posso darle un
buon consiglio in quanto esponente del senso comune. Si rivolga a un esperto
della psiche, a uno psicologo se cerca compagnia, a uno psicoanalista se
desidera soltanto essere ascoltata, a uno psichiatra se sente un vero disagio.
Vada da uno di questi tipi di terapeuta e riferisca loro quel che mi ha
raccontato. Magari non potranno trovarle una soluzione, ma certamente
potranno ascoltarla, e sono certo che si accontenterebbero di un compenso
modesto, vista la grande crescita dell’offerta con pacchetti tutto incluso.

Chiara: Andrei da uno di questi terapeuti che lei menziona, se si trattasse di


una fantasia, un’illusione, e so che in tal caso potrei essere aiutata, ma
purtroppo si tratta di una cosa reale, un fatto fisico: sono onde che
raggiungono il mio complesso uditivo che non hanno niente a che fare con
astratte costruzioni mentali. Loro ci sono ed io sono venuta da lei perché le
ascolti e mi dia una spiegazione che magari potrebbe permettermi di trovare
una soluzione. Anzi, visto che ha dei dubbi, come le ho accennato
precedentemente, le voglio dare la prova. Venga qui vicino, voglio
approfittare del fatto che proprio in questo momento ascolto qualcosa. Non si
tratta di un suono molto forte, ma si sente, è chiaro, la voce ora parla.

Il professor Heinrich mostra disappunto e cerca di allontanarsi da Chiara


che gli afferra un braccio e lo avvicina a sé. Esattamente lei colloca il suo
viso accanto a quello del professore, affinché ascolti.

Heinrich: È assurdo quel che sta facendo: crede di essere un cellulare o una
stazione radio?

Chiara: Non c’è niente di assurdo in quel che sto facendo, voglio solo che
appuri con le sue orecchie quel che le dico. Ecco, accosti il suo orecchio al
mio, o forse è meglio che lo accosti alla mia bocca, perché è da lì che sento
partire la voce. La sente? È una voce maschile, pacata, calma, ma pare che
voglia minacciarmi. Dice che non devo comunicare a nessuno quel che mi sta
accadendo, se non vorrò subire pesanti conseguenze, ma sono sicura che lo fa
per intimidirmi, mentre rimane occulta. “Non farlo, non farlo, altrimenti…”
La sente la voce? Altrimenti che? Non è la prima volta che mi minaccia. Che
sia una setta segreta? Una confraternita? Una loggia? Una di quelle antiche,
che si mantengono ancora oggi e fanno cose terribili! O, ancor peggio, un
partito politico o un movimento?

Heinrich (divincolandosi da Chiara che lo teneva accanto a sé): Non sento


nessuna voce; sono certo che è solo la sua fantasia a parlarle; è qualcosa che
proviene dalla sua mente e non certo dall’esterno. Torno a consigliarle di
rivolgersi a un centro di psicologia o di psichiatria, che forse potranno
risolvere il suo problema nella maniera più consona.

Chiara: Davvero lei non sente niente? E dire che le ultime parole sono state
pronunziate ad alto volume… a meno che…

Heinrich: A meno che io abbia ragione in quanto essere ragionevole e lei stia
sragionando. Le voci non esistono, sono frutto del suo inconscio, fantasiose
costruzioni dei suoi drammi interiori.

Chiara: A meno che, invece… Cerchi di capire, professore, mi segua. Del


resto le parlo di qualcosa che è di sua specifica competenza: il suono. Lei mi
insegna che le voci, i suoi, sono onde, e si muovono all’interno di uno spazio
riempito d’aria, così come fa l’acqua colpita da un sasso, che dal centro
espande la sua circonferenza verso l’esterno fino a dileguarsi. Si tratta, lei
m’insegna, di vibrazioni meccaniche, che si propagano esclusivamente
all’interno di mezzi materiali, ma con diversa frequenza ed ampiezza, ed è
proprio dalla frequenza che si determina la possibilità e la chiarezza
dell’ascolto. La loro misura, lei lo sa molto meglio di me, professore, ma
voglio essere chiara, anche a costo di apparire pedante, si fa in Hertz, sigla Hz,
e prende il nome da un fisico molto più importante di lei, che, caso singolare,
si chiamava Heinrich, proprio come lei. Sarà forse un suo parente?

Heinrich: Certamente no, ma lei come mai ha questa conoscenza? Si tratta di


conoscenze elementari tuttavia non molto diffuse nel volgo né negli
opinionisti televisivi, e che lei ora viene ad elargirmi assumendo il ruolo di un
saggio scienziato dinanzi a un alunno incolto. Sta esagerando.

Chiara: Il poco che so lo sto apprendendo sulla mia pelle, molto poco del
resto, come lei dice, ma sufficiente per pormi domande e per venire da lei che
ne sa tanto di più. So che un Hertz ha la durata d’un secondo, un ticchettio
d’orologio, ma noi non lo sentiamo, o meglio non lo percepiamo, e quindi
deduco che ci sono tanti rumori, sibili, mormorii, sussurri, brusii, bisbigli,
fruscii, flati e perché no, silenzi, che le persone normali non sono in grado di
raccogliere…

Heinrich: Lei invece li raccoglie?

Chiara: Qui sta la diversità, la particolarità, la mia curiosità e la mia ansia,


sentimenti che mi hanno spinto da lei. Prima le ho detto di accostare il suo
orecchio al mio viso, pensando che avrebbe sentito qualcosa, in quanto
studioso del suono che nel corso degli anni dovrebbe aver acquisito una
sensibilità superiore rispetto a resto dell’umanità.

Heinrich: Proprio perché sono uno studioso, uno scienziato, mi attengo alla
realtà e non elaboro fantasie visionarie. Con questo non voglio dire che sono
chiuso difronte alle novità, anzi sono sempre disposto a imparare, a patto però
che non mi si raccontino fantasie. Ho bisogno di fatti per poterci ragionare.

Chiara: Io le porto un fatto: voci che mi accompagnano, mi seguono, mi


perseguono, ma che sento solo io: vengono dalla mia bocca e percorrono il
mio corpo, non interessano solo l’udito. Lei m’insegna che la minima
frequenza udibile dagli esseri umani è di 20 Hertz: al di sotto per loro c’è il
silenzio, che non è del tutto silenzioso, ed infatti è fatto di suoni, di infrasuoni,
lei m’insegna: meno di uno, meno meno, molto meno, un uno preceduto da
zeri con virgola. Tuttavia bisogna spingersi ancora al di sotto di questa cifra
infinitesimale per incontrare il vero silenzio e con questo la pace. Lei,
professore, studioso del suono, non ci ha mai pensato? Non ha mai desiderato
la pace?

Heinrich: (appare turbato): La pace…no, non è possibile, non si può pensare.


O forse con altri mezzi. Come vede per i miei studi mi devo accontentare di
questa sala ufficialmente insonorizzata dove si dovrebbe stare in pace, almeno
fino a che non è arrivata lei gridando per espormi il suo presunto caso
paranormale, una vera follia.
Chiara: Non ha risposto alla mia domanda: nei suoi studi non ha mai pensato
all’idea di silenzio? Ossia alla possibilità dell’esistenza di un silenzio
assoluto? Lei ancora mi insegna che noi umani in termini sonori ci troviamo a
vivere fra limiti espressi da due semplici formule: 20 Hz e 20 KHz. Al di sotto
del primo indice gli infrasuoni, al di sopra del secondo gli ultrasuoni, e noi in
mezzo, nell’illusione e nella presunzione di sentire tutto, di percepire tutti i
rumori dell’universo.

Heinrich: Adesso lei sta finendo nella filosofia, e non capisco alla fine dove
vuole arrivare. Forse si sente perseguitata dalle voci che le ronzano in corpo,
come lei dice, e non solo nelle orecchie? Ha difficoltà di addormentarsi con
tutti questi intrusi che la agitano? Intrusi, che, da come posso rendermi conto,
è lei ad animare, lei che dà loro voce. Si tratta, come si suol dire in forma
piuttosto letteraria con schizzi psicologici, di quelle voci di dentro che nel
migliore dei casi si traducono nella coscienza, nel peggiore nello spirito,
nell’accezione più deleteria nell’anima.

Chiara: Effettivamente, nonostante la mia particolarità, la voce dell’anima


non l’ho ancora sentita, magari si trova sotto di almeno uno zero virgola, così
come non ho mai percepito la voce della coscienza, anch’essa troppo fioca per
la mia pur acuta sensibilità. E lei?

Heinrich: Io non ho niente a che fare con le sue fantasie, ed ora vedo che è
piuttosto tardi; abbiamo chiacchierato abbastanza, ed ho un lavoro in sospeso:
devo terminarlo prima di andare a cena.

Chiara: Pensavo che il nostro colloquio potesse interessarle più di una cena
da posticipare di pochi minuti.

Heinrich: Non nego che trovo interessanti le sue idee, ma non capisco che
cosa cerca, e dato che è tardi, le confermo, vorrei che la smettessimo qui. Che
sia per lei una serata piacevole e che siano gradevoli le voci che
l’accompagneranno; magari le offriranno una bella canzone. O meglio che
assieme alla voce ci sia un essere umano concreto, un bel ragazzo che la inviti
a cena in un elegante ristorante. Anzi, sono certo che ci sono tanti ragazzi che
vorrebbero invitarla. Accetti allora i piacevoli inviti e invece di stare dietro a
queste strane fantasie, viva la sua vita, la bellezza della sua gioventù, ne
approfitti!

Chiara: Ha ragione, è giusto quel che lei dice, ma perché lei non lo fa? Perché
si ostina nel suo pessimismo, nel suo misero stato di abbandono e di
autocompatimento?

Heinrich: Che sta dicendo? Chi l’autorizza a questa azzardata supposizione?

Chiara: Me lo autorizza il fatto che la conosco bene. Lei ha detto che ha da


fare, dei compiti importanti da svolgere prima di lasciare il lavoro per tornare
a casa, magari a cenare per godersi una serata tranquilla. Ma quale lavoro?
Quale casa? Da tempo lei non sta lavorando, si limita alla presenza nel suo
laboratorio solo per giustificare lo stipendio; le sue lezioni sono la ripetizione
di precedenti dispense con tutti i vecchi errori.

Heinrich: Lei chi è? Che cosa ci fa qui? Che vuole?

Chiara: Sono una sua studentessa e lei non mi riconosce, e non perché di
studenti ne abbia tanti, ma solo perché lei entra in aula e non guarda nessuno,
se non la tavola sulla quale traccia segni che si limita a copiare dalle stesse
dispense. Invece di spiegare, di ampliare il discorso, legge quello che c’è
scritto in quei fogli consumati dall’uso. Poi, anche prima che finisca l’ora, se
ne va senza rivolgerci neppure lo sguardo a noi studenti, e se qualcuno mostra
disagio, cerca di comunicare con lei, lei si limita a dirgli di studiare di più se
vuole davvero conoscere la materia e superare l’esame.

Heinrich: Il fatto, signorina, studentessa Chiara, è che io sono un docente di


fisica e non un confessore né uno psicologo. Sono tenuto a spiegare le basi di
una materia scientifica e non a dare sostegno a persone problematiche.

Chiara: In questo ha ragione, ma ora è lei, professore, che ha bisogno di un


sostegno, di chi sappia ascoltarlo e darle forza.

Heinrich: Che ne sa lei?


Chiara: Lo so e le dico il perché. È fatto noto in facoltà che alcuni mesi fa lei
ha perduto sua moglie: una malattia e la fine dopo una sofferenza prolungata.
Ma lei in quel tempo, ossia quando sua moglie era ammalata e si consumava
non era abbattuto, anzi, mostrava forza, energia, insegnava con impegno e con
passione, e a proposito dei suoni, della frequenza delle onde, per chiarirci le
differenze, per farci intendere vibrazioni, toni e volumi, ci faceva ascoltare
della musica magnifica. Tanto che a volte ci dimenticavamo dello specifico
della lezione e trascorrevamo l’intera ora ad ascoltare, a godere dei brani che
lei ci offriva.

Heinrich: Lo facevo a scopo didattico, si trattava di descrivere le frequenze,


di analizzare le variazioni, anche se poi ci si perdeva nell’ascolto e l’ora
passava rapida.

Chiara: Solo questo? O cercava qualcosa, e lei stesso non sapeva che cosa?
Forse i rumori dell’universo? O quel solo rumore che ne esprime l’essere e
che non siamo in grado di udire, dal momento che le sue onde affondano nel
vuoto e soffocano? Lei, credo, fosse angosciato da questa domanda, tuttavia
era vivo, così come doveva esserlo stando accanto a sua moglie sofferente. Se
ne parlava in facoltà, i suoi colleghi elogiavano la sua dedizione all’ammalata,
la sua forza d’animo e soprattutto ammiravano e forse invidiavano il suo
amore. Ma poi, quando la sua donna cedette definitivamente alla malattia,
assieme all’amore perduto lei perdette ogni volontà di vita. Effettivamente
nessuno aveva avuto notizia diretta della morte della sua signora, ma tutti lo
capimmo, ci rendemmo conto dell’accaduto dal suo cambiamento. Da allora
non ascoltammo più musica ma solo la sua voce monotona che leggeva quanto
era scritto nelle dispense.

Heinrich: Apprezzo il suo sforzo nella ricostruzione dei fatti, che in ogni caso
è arbitraria, ed aggiungo che nessuno l’ha autorizzata ad entrare nella mia vita.
Tantomeno essendo lei una semplice studentessa che ha il dovere di limitarsi
al suo ruolo. Agisca quindi correttamente ed io non terrò conto di questo suo
comportamento ove dovesse capitarmi davanti per a prova d’esame.

Chiara: No professore, questo non è da lei! Mi vuole minacciare con la scure


del voto? La prego, questo comportamento non le si addice, è del tutto
estraneo alla sua condizione.
Heinrich: Di che condizione parla? La mia condizione personale non la
riguarda, quel che la riguarda è il mio ed il suo ruolo, non vada oltre.

Chiara: Purtroppo per lei già siamo oltre, lei è andato oltre.

Heinrich: In che cosa? Annoterebbe un mio comportamento equivoco? Vuole


rivolgermi un’accusa di abuso? Forse è stata mandata da qualcuno per
infangarmi?

Chiara: Lei abuso? Sarebbe assurdo. Chi mi crederebbe? La sua serietà in


quest’ambito non permette dubbi. Tantopiù nel suo stato attuale. Qua si tratta
di qualcosa di molto più grave. Non sia diffidente, abbia la pazienza di
ascoltarmi, tantopiù che non ha nessun lavoro da terminare e tantomeno un
piacevole prosieguo della sua serata. Dubito che a casa possa trovare la cena
pronta e ancor più che abbia la forza di andarsene a un ristorante. Ad
aspettarla, se si può dire, ci sarebbe la sua solitudine nella buona compagnia di
cattivi pensieri.

Il professore non risponde, si guarda attorno perduto


.
Heinrich: Potrebbe anche essere, ma questo non la riguarda. Trascorrerò la
serata che mi compete, che mi consegna questa ultima parte della vita. Sono
solo e non cerco nessuno, non chiedo, non prego, non imploro. Accetto
tranquillamente la mia condizione.

Chiara: Permetta che sollevi dei dubbi sul tranquillamente: la sua apparente
calma non è tranquillità, piuttosto è soffocata disperazione.

Heinrich: Ora basta, lei sta esagerando; la mia serata sarà una merda, come lei
direbbe nella piena condivisione della modernità, comunque è la mia, me la
costruisco io, e date le mie convinzioni non ho neanche degli dei ai quali dare
la colpa.

Chiara: Certamente non è un credente, perché lei da scienziato ha bisogno di


prove e le religioni richiedono fede.
Heinrich: Mi permetta una leggera correzione: le religioni non richiedono
fede, perché mostrano inequivocabili prove della loro esistenza.

Chiara: Vuole dire che ci sono delle dimostrazioni valide sull’esistenza di


dio?

Heinrich: Questo non l’ho mai pensato né detto. Le religioni offrono molte
prove, non però dell’esistenza di dio, ma, ripeto, di sé stesse. Per essere
sintetico, dico che non so se dio o gli dei esistano, ma so, e ne ho le prove
evidenti, che esistono le religioni, perché sono concrete, presenti, qui fra di
noi.

Chiara: Ecco uno dei suoi tanti paralogismi, validi intellettualmente ma


incapaci di darle sostegno, speranza, e liberarlo dell’impulso di morte che
l’accompagna, questa sera più d’altre volte.

Heinrich: Che ne sa lei di questa sera? Non penserà che voglia suicidarmi, e
che magari sia venuto qui per l’addio al mio mondo di studioso proprio nel
mio campo di battaglia, in questo laboratorio di suoni e di silenzi che mi
hanno accompagnato in un lungo corso di vita? Non mi identifichi con il
povero professore innamorato d’una ballerina e tradito, che va a suicidarsi
avvinghiato alla sua cattedra… anche perché oggi una ballerina non
scapperebbe mai con un vecchio professore, ma piuttosto lo farebbe con un
campione di calcio.

Chiara: Eppure io la vedrei in fuga con una ballerina, anche se poi finirebbe
col parlarle di fisica, azione inizialmente seduttrice ma poi assolutamente
noiosa.

Heinrich: Lasciamo da parte improbabili ballerine e veniamo al punto. A che


si deve questa intuizione relativa a un mio suicidio, o piuttosto si tratta di una
illazione?

Chiara: Nessuna delle due determinazioni, perché si tratta di un dato


elementare, evidente, distintamente sonoro direi.
Heinrich: Ci risiamo con i suoni, con l’acustica, con le sue allucinazioni
uditive!

Chiara: Le spiego, o detto più correttamente, mi spiego. Non ero venuta qui
con l’intenzione di parlarle, ma solo spinta dalla curiosità di sapere perché lei,
terminata la lezione, è venuto nel laboratorio. Magari, ho pensato, per mettere
a punto una ricerca, forse quella che sta portando avanti da tempo senza
riuscire a trovare una soluzione. Catturare quel suono minore rispetto allo
0,001, o infinitamente maggiore di quel che si possa umanamente percepire, in
somma quell’indeterminabile silenzio che dovrebbe rappresentare il ritmo
dell’universo e la sua verità. Magari sbaglio, mi esprimo in maniera
imperfetta, comunque mi capisce, lei sa a che cosa mi riferisco. Per questo
l’ho seguita, ma una volta arrivata sulla soglia del laboratorio, badando di
tenermi nascosta, ecco che la sento parlare fra sé e sé, mormorare, lanciare in
somma onde di bassa frequenza, ma da me chiaramente udibili.

Heinrich: Avrei parlato da solo? Assurdo. É vero che sono rimasto colpito
dalla morte di mia moglie, ma non sono diventato idiota. Vada avanti
comunque: che cosa avrei detto di tanto interessante?

Chiara: Non era interessante ma terribile, qualcosa che non poteva lasciarmi
indifferente, che mi ha convinta a farmi avanti anche se con il sostegno di una
bugia. Qualcosa della quale lei deve avere piena coscienza, anche se non vuole
ammetterlo.

Heinrich: Prima che mi dica che cosa, perché lei ci tiene a dirmelo, permetta
che le esprima ancora la mia contrarietà. Sono entrato in questa stanza e mi
sono guardato attorno, cercando proprio nel silenzio di dare ordine ai mei
pensieri. Vuole ora dirmi che sa anche a che cosa ho pensato?

Chiara: Lo so perché, come le ho accennato, lei non solo l’ha pensato ma l’ha
anche pronunziato, magari sottovoce, comunque l’ha espresso in maniera che
io potessi sentire. Lei ha parlato di suicidio, anzi ha descritto nei particolari il
suo piano suicida assieme ai momenti della sua realizzazione. Li ricordo e
posso raccontarglieli. Cercava una soluzione che non comportasse danno ad
altri, quindi ha escluso anzitutto il gas, che nella migliore delle ipotesi ti fa
crollare un palazzo e compie una strage. Ha scartato la soluzione del salto nel
vuoto, anche perché vive al primo piano e avrebbe rischiato di finire
imbracato in diverse ingessature. La pistola? Idea quasi romantica nella sua
dinamica, ma dipendente dal possesso dell’arma e dalla complicazione di
doversela procurare. Muovendosi, come si potrebbe dire, a tentoni, lei andava
avanti con disparate ipotesi, scartandole una ad una, sino a che ho udito
chiaramente pronunciar ripetutamente un nome, il nome Seneca ed ho capito.
In casa la deve avere una vasca da bagno e non le mancherà l’acqua calda, né
avrebbe difficoltà a procurarsi una lametta, per la quale non c’è bisogno di
porto d’armi. Ipotizzo, ma con ragione, che altro principio da rispettare per il
suo suicidio fosse quello di non deformare il suo corpo, cosa che accadrebbe
con una pallottola in testa o una caduta dall’alto, e di non soffrire troppo a
causa di un impatto violento. Ebbene, la lenta perdita di sangue favorita da un
piacevole bagno caldo l’avrebbe consegnata ad una morte, se si può dire,
serena. E addirittura ancor più romantica di una pallottola nel cuore.

Heinrich: Io avrei detto tutto questo in un vano soliloquio che lei, grazie alle
sue straordinarie capacità auditive, avrebbe recepito?

Chiara: Non tutto, non in maniera così esplicita: ha indicato solo i punti
nodali, le consonanti con solo qualche vocale fortemente marcata, come nella
scrittura araba. Le altre vocali, ossia i collegamenti, sono opera
dell’intuizione, della mia capacità di completare il quadro.

Heinrich: Potrei dirle che una certa ragione ce l’ha, ma nello stesso tempo
dubito della sua buona fede, dell’aver percepito un mio soliloquio fatto di
soffocati mormorii. È vero, stasera e non solo, ho pensato al suicidio, ma
stasera più d’altre volte, e sono venuto in questo laboratorio per una sorta di
addio rituale, un commiato patetico, un finale da scena, appunto sul
palcoscenico del mio teatro dove ho avuto il ruolo di personaggi meno miseri
di quello che sto interpretando stasera. Ho pensato anche ai modi di
realizzarlo, ma non credo di averli menzionati ad alta voce, o almeno in
maniera da raggiungere quei 20 Hz che le avrebbero permesso di udirmi. Ma
lei è speciale, o almeno così fa intendere, tuttavia mi nasconde qualcosa.

Chiara: Specifico che una parte delle mie asserzioni è dipesa da un azzardo,
da una intuizione, ma confesso che c’è dell’altro, qualcosa che ha a che vedere
con l’acustica, e che si traduce effettivamente nella mia capacità di percepire
onde più lente di quelle udibili da orecchio umano, e che prima di disperdersi
nel lago d’aria nel quale allargano il loro ciclo, mi mandano messaggi
decifrabili. Lei mi chiederà come sia possibile: le rispondo che questo è il suo
campo di studi e che soprattutto è un tema attorno al quale da tempo conduce
le sue ricerche. Com’è possibile? Dovrebbe chiederselo e darsi una risposta,
magari scientifica.

Heinrich: Ha ragione, ma non ho una risposta, tantomeno scientifica, e per


questo dubito che lei sia in grado di andare oltre le capacità umane, anzi penso
che mi stia ingannando, si stia prendendo gioco di me, addirittura si stia
vendicando per qualcosa che…Un brutto voto? Una mancanza di attenzione
alle sue istanze culturali o miglior detto, alla sua ambizione di carriera? Come
lei sa, sono anni che insegno e pur se lei è solo studente, conosce le brutture
dell’ambiente accademico, la difficoltà di emergere, i favoritismi, gli scambi e
le riconoscenze obbligate, le ambizioni esagerate e le delusioni, le invidie e le
false amicizie, e tutto l’insieme dei derivati rancori. Lei ambisce a un posto da
ricercatrice? Le hanno promesso qualcosa che non si è realizzato? Qualcuno
della mia cerchia ha preteso da lei un compenso erotico per un eventuale
favore? Mi dica la verità, ossia la ragione per la quale oggi mi ha cercato. Non
credo che fosse tanto preoccupata per me e il mio futuro, o meglio questo mio
presente che dovrebbe consegnarmi alla morte.

Chiara: La verità, lei mi parla di verità, ma si ostina nella sua interpretazione


del docente compenetrato nel ruolo di valutatore, di esaminatore di studenti,
dei quali, con i suoi numeri cardinali, decide il destino. Pensa che con un
trenta potrebbe regalare la felicità? Fosse davvero così facile! Io non cerco
niente, sono qui da lei per la motivazione che le ho detto e non mi tiro
indietro, perché lei ha bisogno d’aiuto ed in questo momento sono la sola che
possa sostenerla, evitarle che la sua ricerca si concluda nella miseria del
suicidio, con cui rinuncerebbe non solo alla sua vita, ma a quello che cercava,
per il quale ha continuato a studiare, a indagare, a interrogare libri ed
esperienze, la sapienza accumulata e quella corrente, il passato e il suo
presente.

Heinrich: Che ne sa delle mie ricerche? Non ne ho mai parlato a lezione. Non
ho mai reso partecipi i miei studenti di saperi che non competono loro. Ha
forse spiato, guardato fra le mie carte, frugato fra i miei documenti? O mi
avrebbe sentito bisbigliare le mie ipotesi col il favore del vento, quale propizio
portatore di onde?

Chiara: Ascoltando il suo discorso sommesso nei moment in cui, nel corso
della lezione, lei si isolava dopo averci indicato le pagine da leggere delle sue
dispense. Ci diceva di farlo proprio in classe, ciascuno per suo conto, in
maniera che, abbandonandoci a noi stessi, potesse liberarsi dell’incombenza
delle spiegazioni e badare ai fatti suoi, o meglio alle sue ipotesi di ricerca.
C’era silenzio nell’aula in quei momenti di studio autonomo, sì che per lei era
più agevole concentrarsi e a me di ascoltare. Traeva il suo quaderno di note,
scriveva qualcosa, ne sussurrava altre, cambiava continuamente d’espressione
e quindi d’umore, a seconda che fosse o non soddisfatto dei risultati raggiunti.
Vuole ancora sapere se abbia una dote particolare nel percepire quei mormorii
inconsci che lei emetteva, e che probabilmente non raggiungevano la soglia
della percezione uditiva umana? Potrebbe essere, ma è una domanda che mi
sono posta ed alla quale, come le ho già detto, cerco da lei una risposta. Ma
veniamo a lei: perché vuole farla finita? Con la sua vita ma soprattutto con la
sua ricerca.

Heinrich (assume un atteggiamento diverso, mettendo da parte quello


autoritario del docente): Mi rendo conto che non posso esporle argomenti
falsi, dato che lei, con la sua capacità di calarsi al di sotto dei venti Hz, può
percepire anche i mormorii emanati dalla mia mente, e dato inoltre che con la
decisione relativa alla mia vita mi trovo oltre il vantaggioso e il dannoso,
parlo. Chiaramente, in tonalità compatibile con la usuale soglia umana, e non
solo con la sua del tutto particolare, per essere ben udito e per evitare
equivoci. Da tempo mi occupo di infrasuoni, e questo lei lo sa, ma c’è
qualcosa che mi interessa maggiormente, e lei in parte mi sembra che l’abbia
compreso: il concetto di silenzio, che secondo me dovrebbe coincidere con
l’essere dell’universo o anche dire, col niente. Quello che esisteva prima della
creazione e che esisterà dopo, ossia quella calma che dovremmo poter
raggiungere con la morte, ma che non sarà possibile sperimentare in quanto
non si è, non si è più. Insomma, il silenzio si coniuga naturalmente col non
essere, ma come poterlo coniugare con l’essere? È questa la mia domanda, a
questo ho dedicato gli anni della mia ricerca.
Chiara: Ha forse tentato di parlare con sua moglie? Da morta intendo: ha
cercato di comunicare con quel che arbitrariamente chiamiamo spirito? Ed è
ciò che stava ancora tentando di fare in questa sala di acustica, allorché le
comunicava la sua decisione di farla finita? Pensava magari di usare qualche
strumento particolare che le permettesse un’efficace comunicazione?

Heinrich: Non è il silenzio della morte che cerco, bensì un silenzio di vita, la
pace dell’essere e non del niente. Per quanto concerne l’avanzamento della
ricerca, le confesso che a un certo momento della mia vita di studioso decisi di
applicarmi solo marginalmente all’insegnamento, e quindi divenni un docente
mediocre – ciò accadde quando morì mia moglie – per limitarmi alla mia
personale ricerca. Ma ecco che in questi giorni, oggi in particolare, metto via
curiosità e desiderio di scoperta a causa della nuova disfatta che non mi lascia
scampo.

Chiara: Quale disfatta? Lei è vivo, ha capacità, può e deve andare avanti con
la sua ricerca, oltre che con la sua vita. Ed ovviamente le due operazioni sono
strettamente legate.

Heinrich: Tanto legate che, rinunciando all’una elimino anche l’altra: non
potrei operare in modo diverso. Questa parte della mia vita, svaniti gli affetti –
mi riferisco a mia moglie come al mio desiderio di offrire conoscenza ai miei
studenti – si era afferrata alla pura conoscenza, all’entusiasmo in chi pensa di
poter arrivare a una importante scoperta, nella stupida convinzione di
consegnarsi all’eternità.

Chiara: Vuol dire che non ha scoperto niente e che pensa che non potrà mai
riuscirci?

Heinrich: Non solo: ho finito col credere che non ci sia niente da scoprire se
non la mia ambiziosa illusione di oscurare anche i minimali fruscii
dell’universo per raggiungere il silenzio originario.

Chiara: Perché secondo lei rivelare l’inascoltabile suono dell’universo


significherebbe scoprire il suo essere, il senso, l’origine, il termine, tutti
racchiusi in una sorta di musica, meglio dire in un’armonia senza suono che
non dà spiegazioni ma solo offre se stessa in quanto verità?
Heinrich: Più o meno, anche se la verità è una costruzione metaforica basata
su parole, mentre il silenzio non può essere tradotto: è il dato finale, il sé.
Lasciamo però da parte queste dotte e forse mediocri elaborazioni per venire a
noi. È vero che stasera non ho niente di significativo e tantomeno di piacevole
da fare, che troverei una casa che reca solo il mio odore, quello che uno da sé
non sente, soprattutto se è vecchio, e che potrei arrivare alla conclusione che
lei ha ipotizzato, ma non sarà lei ad impedirmelo, anche perché la serata è
lunga e con lei la notte, e non so quale sarà il mio desiderio di non esistere,
quale il desiderio di esistere ancora un po’ per assaggiare nuovi sapori – di
qualsiasi genere voglio dire, anche alimentari – quale la forza di vita per
mettere in atto il lento, poetico, aristocratico suicidio così pieno di nostalgie.

Chiara: La capisco, lo so che non posso impedirle di procedere nella sua


ambigua decisione, ma, data appunto l’ambiguità del nostro essere e del suo in
particolare in questo caso, credo e voglio fare qualcosa, almeno parlarle
ancora un po’.

Heinrich: Parlarmi di che?

Chiara: Di musica!

Heinrich: Quale musica?

Chiara: Quella che lei cerca di evitare, che è il dato reale, la vita.

Heinrich: Della musica non si parla, al massimo si ascolta, se si è in grado di


farlo. A condizione che le sue note di muovano fra le 20 e le 20mila Hz, dato
che il meno ed il più non sono udibili, a meno che…

Chiara: Lei trovasse il sistema di ascoltare il non udibile, onde praticamente


impercettibili.

Heinrich: Sbaglia: non sono alla ricerca neppure di quel che romanticamente
è stato chiamato il battito del cuore della terra, onde ELF, fra 7 ed 8 Hz. Io
cerco, ho cercato e non cercherò più, di creare il silenzio. Senza l’illusione di
crearlo con la morte, che è ancora un momento di vita, un momento
estremamente sonoro, perché la vita nel lasciarci emette le sue grida di
disperazione. Momento terribile, gonfio di suoni, baccano, richiami disperati,
straziante dolore, altro che silenzio!

Chiara: Allora qual è la soluzione alternativa?

Heinrich: Non lo so e a questo punto rinuncio a scoprirlo, lascio la partita e


mi dedico alla composizione dell’illusione d’una morte serena. Il mito, la
poesia, l’equilibrio, e come accompagnamento una semplice musica umana e
un canto, magari a bassa frequenza, comunque sempre ben lontano da quello
che fu il silenzio dell’universo prima che risuonasse una parola. Come
racconta la Bibbia e magari anche qualche altra mitologia, per la quale la
creazione nasce da una maledetta parola. Ossia, il mondo non c’era, non c’era
niente, neppure l’idea dell’essere, poi arriva uno che non se ne sa stare zitto al
suo posto e decide di dire qualcosa, così parla e dice.

Chiara: Che cosa?

Heinrich: Non è importante che cosa dice, o forse dice soltanto “è”, parla,
emette voce, suono, ed ecco che scatena il putiferio. Il mondo, i mondi, la
sequenza delle trasformazioni, scoppi e botti, patatrac e diluvi, fuochi e crolli,
distruzioni e sconquassi, crescite abnormi, pianeti e luci, silenziosi boati e tu
con la tua giovane e illusa speranza di vita, che curi me perché prossimo a
lasciarla e per dare senso o addirittura piacere alla tua. Sarebbe potuta morire
un po’ dopo, solo un po’ dopo, dice Macbeth osservando la moglie ferita a
morte. In somma, perché dovrei disperarmi, lui dice, se muore proprio adesso?

Chiara: Non m’illudo d’essere eterna, ma credo che anche per quel poco che
abbiamo valga la pena, la vita, l’amore, la gioia.

Heinrich: E perché no, anche la felicità? Disgraziatamente però ci è stata


messa addosso l’inguaribile malattia dell’eternità, o meglio il desiderio di un
andare avanti senza fine, pur se in maniera mediocre, come diceva il grande e
infelice Achille, sbiadita ombra nell’Ade. Meglio essere lo schiavo dell’uomo
più povero del mondo, comunque vivo, che l’eroe più grande morto.
Chiara: E la sua ricerca? I suoi studi? Ci rinuncia senza essere arrivato a
nessuna conclusione?

Heinrich: Non è detto, a una conclusione ci sono arrivato: non si può tornare
indietro. Nella nostra vita non è possibile riproporre il grande silenzio, ovvero
la salute, quella che doveva essere prima che un malcreato decidesse di
riempire lo spazio di suoni, dicendo quella parola che distrusse il silenzio.

Chiara: Poetica e patetica la sua spiegazione, ma se non c’era niente e questo


si rappresentava nel silenzio, come poté essere lanciata una parola se non
esisteva nessun mezzo meccanico nel quale il suono potesse muovere le sue
onde?

Heinrich: Semplice: nel lanciare la parola creò il mezzo meccanico affinché


potesse diffondersi, ovvero produrre, e lo spazio, inizialmente vuoto nel modo
più assoluto, si riempì di parole e di cose. Lui riempì, contaminò la purezza
del vuoto.

Chiara: Ed ora lei che intende suicidarsi vuole ricreare il vuoto e il silenzio?

Heinrich: Come le ho detto, non è possibile: il mio suicidio avrebbe un suono,


fatto di voci lontane, di richiami emotivi, di paure sonore, non sarebbe fatto di
silenzio. Sarebbe qualcosa e di molto grave, ben altro che il niente.

Chiara: Allora a che serve?

Heinrich: A ingannarmi, a produrre altro dannoso pieno, a riempire di parole


il deserto, riproducendo quella disgraziata truffa originaria. A condizione che
ne abbia la forza, che la mia decisione attuale divenga azione, una volta che
sarò a casa. Dove è vero che non troverò nessuno, ma accenderò il televisore
per soddisfare la mia curiosità di ascoltare il notiziario, e poi magari di vedere
un buon film. Per la cena? C’è sempre qualcosa di buono nel mio frigo che
potrebbe sedurmi. Scarterò invece la fatica della vasca da riempire, la lametta
da trovare perché con l’usa e getta non è facile suicidarsi, ed il sangue: finirei
con lo sporcare l’intero bagno e lasciare dietro di me una scia colorata ha ben
poco a che fare con la purezza del niente.
Il professore fa per andarsene. Torna a rivolgersi a Chiara.

Heinrich: Che farà invece lei che ama la vita, ne ama i suoni, le voci, i
rumori, al punto di ascoltarli anche oltre la capacità umana? Non pensa che
nella sua euforia sonora, sta rinunciando alla impalpabile felicità del silenzio?

FINE

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