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Personaggi:
Chiara: ragazza ventenne
Heinrich, professore: uomo anziano
Opera al bianco
Ampio spazio racchiusa tra pareti di polistirolo bianco. Abbastanza
scarno, nel quale tuttavia figurano attrezzature alquanto singolari, che
dovrebbero suggerire tecniche molto avanzate nel loro barocchismo
fantascientifico ed allo stesso tempo un senso di inquietudine. Nello spazio si
muove lentamente un signore alquanto anziano che indossa un camice bianco
quale uniforme da tecnico. Si ascolta una leggerissima musica di fondo alla
quale il signore presta l’orecchio mostrando però un certo disappunto.
Improvvisamente risuona una voce femminile proveniente dall’esterno, che si
avvicina annunciando l’ingresso nello spazio scenico.
La ragazza entra in scena con passo deciso. Indossa un vestito rosso che la
rende molto appariscente. Vede il signore che a sua volta, distolto dai suoi
pensieri, la osserva inizialmente sorpreso, ma poi non le presta attenzione.
Chiara (continua a parlare a voce molto alta): Mi sente signore? Dico a lei,
mi sente? Mi scusi se entro senza essere annunciata ma lì fuori non c’è
nessuno. Il gabbiotto all’ingresso degli uffici è vuoto, perciò mi sono
permessa di entrare, anche perché si tratta di qualcosa di molto importante, di
urgente direi, o addirittura decisivo.
Heinrich: Venga pure con il suo caso urgente o decisivo se preferisce, ma non
gridi: non sono sordo e l’altezza del tono di voce non faciliterà certo la
risoluzione del suo caso.
Chiara: Mi scusi ma so che questa stanza è speciale, insonorizzata, così si
dice, per impedire rumori molesti, e per questo ho sentito la necessità di
parlare forte, per essere certa di essere udita. Ma se mi dice che posso parlare
normale lo faccio, anche perché a me non piace gridare. (Intanto la donna
percorre la stanza guardandosi attorno, tocca le pareti, le apparecchiature
presenti nella stanza). Interessante, non ero mai stata in uno studio di acustica;
davvero singolari queste apparecchiature, devono essere elaborazioni
moderne, probabilmente molto costose (Intanto tocca e maneggia gli oggetto
con poca cura).
Chiara: Lei invece non indossa nessuna tuta speciale, nessun casco o altre
protezioni che la salvaguardino da possibili radiazioni. Solo un camice, che
piuttosto la fa sembrare sì e no, un infermiere. Con ciò non intendo mancarle
di rispetto, ma voglio essere sincera: la forma è importante e per il valore del
suo lavoro credo che occorrerebbe una presentazione più degna.
Heinrich: Non rispondo alle sue stupide considerazioni, perché qui non ci
sono radiazioni, ma solo onde. Piuttosto mi dica chi l’ha fatta entrare, che ci fa
qui.
Heinrich: No, solo il nome, per volere di mia madre, tedesca, ma sono nato in
Italia e sono italiano.
Heinrich: Lasciamo stare il modo in cui lei mi vorrà chiamare, anche perché
non individuo la ragione per la quale lei dovrebbe chiamarmi. Quindi la prego
di giustificare rapidamente la sua invadenza e di spiegarmi la sua urgenza,
signorina...
Heinrich: Le ricordo, prima che proceda col suo racconto, che questo è uno
studio di acustica e che io sono dottore in fisica non in odontoiatria.
Chiara: Sì professore, lo so, per questo sono da lei: mi ascolti per favore. Le
dicevo che sono stata dal dentista per un lavoretto sbrigativo, una carie, una
trapanazione, una cosa semplice insomma. Nessun dolore, data anche
l’abituale iniezione di anestetico, e poi il facile ritorno ad una masticazione
regolare.
Heinrich: E allora?
Chiara: Allora, giusto allora, o esattamente un giorno dopo è quel che mi è
accaduto e mi ha spinta a cercare il suo famoso centro di acustica ed a
rivolgermi a lei, data la sua esperienza e la sua fama.
Chiara: Le assicuro che non sarà tempo perduto, perché le dirò qualcosa che
arricchirà i suoi studi, le sue conoscenze. Bene: il giorno dopo, ecco che
qualcuno mi chiama, con voce leggera, quasi infantile, e mi dice: “Chiara, tu
sei Chiara”. Mi guardo in giro, perché non capivo da dove provenisse la voce.
Per giunta fioca, infantile appunto. Guardo nella stanza affianco, vado anche
in cucina, cerco sotto il letto, persino nell’armadio, ma niente. Nessuno, e la
voce scompare. Penso che sia qualcosa venuto da fuori, che abbia avuto un
momento di rilassamento con la conseguenza di una leggera allucinazione,
come quella sensazione del dejà vu, il già vissuto che ti abbaglia per un
momento e sparisce senza lasciare impronta. Ma no, la cosa non è finita qui:
ecco che mentre sto agitandomi nel letto in cerca del sonno, ancora una voce,
ma non è la stessa. Questa volta è grave, lenta, stanca direi. Non ricordo le
parole esatte: forse mi chiede se sto per dormire, poi mi dice di stare attenta, o,
ecco, ecco, ora ricordo; esattamente mi ha detto: “Dormi pure, ma non
chiudere completamente i tuoi occhi. Tieniti pronta nel caso…”
Chiara: Non me l’ha detto, o forse non ho capito, perché la voce è diventata
più fioca e non riuscivo a percepire un significato che andasse oltre un greve
mormorio.
Heinrich: Tutto qui? Lei ovviamente ci ha dormito su, un sonno profondo con
entrambi gli occhi ben chiusi, le orecchie tappate e ovviamente non è successo
niente. È così, ci scommetto, per cui non capisco perché si sia presentata qui a
farmi perdere tempo.
Heinrich: Tutto normale quindi, qualcuno della casa l’ha risvegliata come si
fa di solito, con l’augurio di una buona giornata. Che cerca di meglio?
Heinrich: (con tono ironico): Ed è stata davvero per lei una buona giornata?
Heinrich: È assurdo quel che sta facendo: crede di essere un cellulare o una
stazione radio?
Chiara: Non c’è niente di assurdo in quel che sto facendo, voglio solo che
appuri con le sue orecchie quel che le dico. Ecco, accosti il suo orecchio al
mio, o forse è meglio che lo accosti alla mia bocca, perché è da lì che sento
partire la voce. La sente? È una voce maschile, pacata, calma, ma pare che
voglia minacciarmi. Dice che non devo comunicare a nessuno quel che mi sta
accadendo, se non vorrò subire pesanti conseguenze, ma sono sicura che lo fa
per intimidirmi, mentre rimane occulta. “Non farlo, non farlo, altrimenti…”
La sente la voce? Altrimenti che? Non è la prima volta che mi minaccia. Che
sia una setta segreta? Una confraternita? Una loggia? Una di quelle antiche,
che si mantengono ancora oggi e fanno cose terribili! O, ancor peggio, un
partito politico o un movimento?
Chiara: Davvero lei non sente niente? E dire che le ultime parole sono state
pronunziate ad alto volume… a meno che…
Heinrich: A meno che io abbia ragione in quanto essere ragionevole e lei stia
sragionando. Le voci non esistono, sono frutto del suo inconscio, fantasiose
costruzioni dei suoi drammi interiori.
Chiara: Il poco che so lo sto apprendendo sulla mia pelle, molto poco del
resto, come lei dice, ma sufficiente per pormi domande e per venire da lei che
ne sa tanto di più. So che un Hertz ha la durata d’un secondo, un ticchettio
d’orologio, ma noi non lo sentiamo, o meglio non lo percepiamo, e quindi
deduco che ci sono tanti rumori, sibili, mormorii, sussurri, brusii, bisbigli,
fruscii, flati e perché no, silenzi, che le persone normali non sono in grado di
raccogliere…
Heinrich: Proprio perché sono uno studioso, uno scienziato, mi attengo alla
realtà e non elaboro fantasie visionarie. Con questo non voglio dire che sono
chiuso difronte alle novità, anzi sono sempre disposto a imparare, a patto però
che non mi si raccontino fantasie. Ho bisogno di fatti per poterci ragionare.
Heinrich: Adesso lei sta finendo nella filosofia, e non capisco alla fine dove
vuole arrivare. Forse si sente perseguitata dalle voci che le ronzano in corpo,
come lei dice, e non solo nelle orecchie? Ha difficoltà di addormentarsi con
tutti questi intrusi che la agitano? Intrusi, che, da come posso rendermi conto,
è lei ad animare, lei che dà loro voce. Si tratta, come si suol dire in forma
piuttosto letteraria con schizzi psicologici, di quelle voci di dentro che nel
migliore dei casi si traducono nella coscienza, nel peggiore nello spirito,
nell’accezione più deleteria nell’anima.
Heinrich: Io non ho niente a che fare con le sue fantasie, ed ora vedo che è
piuttosto tardi; abbiamo chiacchierato abbastanza, ed ho un lavoro in sospeso:
devo terminarlo prima di andare a cena.
Chiara: Pensavo che il nostro colloquio potesse interessarle più di una cena
da posticipare di pochi minuti.
Heinrich: Non nego che trovo interessanti le sue idee, ma non capisco che
cosa cerca, e dato che è tardi, le confermo, vorrei che la smettessimo qui. Che
sia per lei una serata piacevole e che siano gradevoli le voci che
l’accompagneranno; magari le offriranno una bella canzone. O meglio che
assieme alla voce ci sia un essere umano concreto, un bel ragazzo che la inviti
a cena in un elegante ristorante. Anzi, sono certo che ci sono tanti ragazzi che
vorrebbero invitarla. Accetti allora i piacevoli inviti e invece di stare dietro a
queste strane fantasie, viva la sua vita, la bellezza della sua gioventù, ne
approfitti!
Chiara: Ha ragione, è giusto quel che lei dice, ma perché lei non lo fa? Perché
si ostina nel suo pessimismo, nel suo misero stato di abbandono e di
autocompatimento?
Chiara: Sono una sua studentessa e lei non mi riconosce, e non perché di
studenti ne abbia tanti, ma solo perché lei entra in aula e non guarda nessuno,
se non la tavola sulla quale traccia segni che si limita a copiare dalle stesse
dispense. Invece di spiegare, di ampliare il discorso, legge quello che c’è
scritto in quei fogli consumati dall’uso. Poi, anche prima che finisca l’ora, se
ne va senza rivolgerci neppure lo sguardo a noi studenti, e se qualcuno mostra
disagio, cerca di comunicare con lei, lei si limita a dirgli di studiare di più se
vuole davvero conoscere la materia e superare l’esame.
Chiara: Solo questo? O cercava qualcosa, e lei stesso non sapeva che cosa?
Forse i rumori dell’universo? O quel solo rumore che ne esprime l’essere e
che non siamo in grado di udire, dal momento che le sue onde affondano nel
vuoto e soffocano? Lei, credo, fosse angosciato da questa domanda, tuttavia
era vivo, così come doveva esserlo stando accanto a sua moglie sofferente. Se
ne parlava in facoltà, i suoi colleghi elogiavano la sua dedizione all’ammalata,
la sua forza d’animo e soprattutto ammiravano e forse invidiavano il suo
amore. Ma poi, quando la sua donna cedette definitivamente alla malattia,
assieme all’amore perduto lei perdette ogni volontà di vita. Effettivamente
nessuno aveva avuto notizia diretta della morte della sua signora, ma tutti lo
capimmo, ci rendemmo conto dell’accaduto dal suo cambiamento. Da allora
non ascoltammo più musica ma solo la sua voce monotona che leggeva quanto
era scritto nelle dispense.
Heinrich: Apprezzo il suo sforzo nella ricostruzione dei fatti, che in ogni caso
è arbitraria, ed aggiungo che nessuno l’ha autorizzata ad entrare nella mia vita.
Tantomeno essendo lei una semplice studentessa che ha il dovere di limitarsi
al suo ruolo. Agisca quindi correttamente ed io non terrò conto di questo suo
comportamento ove dovesse capitarmi davanti per a prova d’esame.
Chiara: Purtroppo per lei già siamo oltre, lei è andato oltre.
Chiara: Permetta che sollevi dei dubbi sul tranquillamente: la sua apparente
calma non è tranquillità, piuttosto è soffocata disperazione.
Heinrich: Ora basta, lei sta esagerando; la mia serata sarà una merda, come lei
direbbe nella piena condivisione della modernità, comunque è la mia, me la
costruisco io, e date le mie convinzioni non ho neanche degli dei ai quali dare
la colpa.
Heinrich: Questo non l’ho mai pensato né detto. Le religioni offrono molte
prove, non però dell’esistenza di dio, ma, ripeto, di sé stesse. Per essere
sintetico, dico che non so se dio o gli dei esistano, ma so, e ne ho le prove
evidenti, che esistono le religioni, perché sono concrete, presenti, qui fra di
noi.
Heinrich: Che ne sa lei di questa sera? Non penserà che voglia suicidarmi, e
che magari sia venuto qui per l’addio al mio mondo di studioso proprio nel
mio campo di battaglia, in questo laboratorio di suoni e di silenzi che mi
hanno accompagnato in un lungo corso di vita? Non mi identifichi con il
povero professore innamorato d’una ballerina e tradito, che va a suicidarsi
avvinghiato alla sua cattedra… anche perché oggi una ballerina non
scapperebbe mai con un vecchio professore, ma piuttosto lo farebbe con un
campione di calcio.
Chiara: Eppure io la vedrei in fuga con una ballerina, anche se poi finirebbe
col parlarle di fisica, azione inizialmente seduttrice ma poi assolutamente
noiosa.
Chiara: Le spiego, o detto più correttamente, mi spiego. Non ero venuta qui
con l’intenzione di parlarle, ma solo spinta dalla curiosità di sapere perché lei,
terminata la lezione, è venuto nel laboratorio. Magari, ho pensato, per mettere
a punto una ricerca, forse quella che sta portando avanti da tempo senza
riuscire a trovare una soluzione. Catturare quel suono minore rispetto allo
0,001, o infinitamente maggiore di quel che si possa umanamente percepire, in
somma quell’indeterminabile silenzio che dovrebbe rappresentare il ritmo
dell’universo e la sua verità. Magari sbaglio, mi esprimo in maniera
imperfetta, comunque mi capisce, lei sa a che cosa mi riferisco. Per questo
l’ho seguita, ma una volta arrivata sulla soglia del laboratorio, badando di
tenermi nascosta, ecco che la sento parlare fra sé e sé, mormorare, lanciare in
somma onde di bassa frequenza, ma da me chiaramente udibili.
Heinrich: Avrei parlato da solo? Assurdo. É vero che sono rimasto colpito
dalla morte di mia moglie, ma non sono diventato idiota. Vada avanti
comunque: che cosa avrei detto di tanto interessante?
Chiara: Non era interessante ma terribile, qualcosa che non poteva lasciarmi
indifferente, che mi ha convinta a farmi avanti anche se con il sostegno di una
bugia. Qualcosa della quale lei deve avere piena coscienza, anche se non vuole
ammetterlo.
Heinrich: Prima che mi dica che cosa, perché lei ci tiene a dirmelo, permetta
che le esprima ancora la mia contrarietà. Sono entrato in questa stanza e mi
sono guardato attorno, cercando proprio nel silenzio di dare ordine ai mei
pensieri. Vuole ora dirmi che sa anche a che cosa ho pensato?
Chiara: Lo so perché, come le ho accennato, lei non solo l’ha pensato ma l’ha
anche pronunziato, magari sottovoce, comunque l’ha espresso in maniera che
io potessi sentire. Lei ha parlato di suicidio, anzi ha descritto nei particolari il
suo piano suicida assieme ai momenti della sua realizzazione. Li ricordo e
posso raccontarglieli. Cercava una soluzione che non comportasse danno ad
altri, quindi ha escluso anzitutto il gas, che nella migliore delle ipotesi ti fa
crollare un palazzo e compie una strage. Ha scartato la soluzione del salto nel
vuoto, anche perché vive al primo piano e avrebbe rischiato di finire
imbracato in diverse ingessature. La pistola? Idea quasi romantica nella sua
dinamica, ma dipendente dal possesso dell’arma e dalla complicazione di
doversela procurare. Muovendosi, come si potrebbe dire, a tentoni, lei andava
avanti con disparate ipotesi, scartandole una ad una, sino a che ho udito
chiaramente pronunciar ripetutamente un nome, il nome Seneca ed ho capito.
In casa la deve avere una vasca da bagno e non le mancherà l’acqua calda, né
avrebbe difficoltà a procurarsi una lametta, per la quale non c’è bisogno di
porto d’armi. Ipotizzo, ma con ragione, che altro principio da rispettare per il
suo suicidio fosse quello di non deformare il suo corpo, cosa che accadrebbe
con una pallottola in testa o una caduta dall’alto, e di non soffrire troppo a
causa di un impatto violento. Ebbene, la lenta perdita di sangue favorita da un
piacevole bagno caldo l’avrebbe consegnata ad una morte, se si può dire,
serena. E addirittura ancor più romantica di una pallottola nel cuore.
Heinrich: Io avrei detto tutto questo in un vano soliloquio che lei, grazie alle
sue straordinarie capacità auditive, avrebbe recepito?
Chiara: Non tutto, non in maniera così esplicita: ha indicato solo i punti
nodali, le consonanti con solo qualche vocale fortemente marcata, come nella
scrittura araba. Le altre vocali, ossia i collegamenti, sono opera
dell’intuizione, della mia capacità di completare il quadro.
Heinrich: Potrei dirle che una certa ragione ce l’ha, ma nello stesso tempo
dubito della sua buona fede, dell’aver percepito un mio soliloquio fatto di
soffocati mormorii. È vero, stasera e non solo, ho pensato al suicidio, ma
stasera più d’altre volte, e sono venuto in questo laboratorio per una sorta di
addio rituale, un commiato patetico, un finale da scena, appunto sul
palcoscenico del mio teatro dove ho avuto il ruolo di personaggi meno miseri
di quello che sto interpretando stasera. Ho pensato anche ai modi di
realizzarlo, ma non credo di averli menzionati ad alta voce, o almeno in
maniera da raggiungere quei 20 Hz che le avrebbero permesso di udirmi. Ma
lei è speciale, o almeno così fa intendere, tuttavia mi nasconde qualcosa.
Chiara: Specifico che una parte delle mie asserzioni è dipesa da un azzardo,
da una intuizione, ma confesso che c’è dell’altro, qualcosa che ha a che vedere
con l’acustica, e che si traduce effettivamente nella mia capacità di percepire
onde più lente di quelle udibili da orecchio umano, e che prima di disperdersi
nel lago d’aria nel quale allargano il loro ciclo, mi mandano messaggi
decifrabili. Lei mi chiederà come sia possibile: le rispondo che questo è il suo
campo di studi e che soprattutto è un tema attorno al quale da tempo conduce
le sue ricerche. Com’è possibile? Dovrebbe chiederselo e darsi una risposta,
magari scientifica.
Heinrich: Che ne sa delle mie ricerche? Non ne ho mai parlato a lezione. Non
ho mai reso partecipi i miei studenti di saperi che non competono loro. Ha
forse spiato, guardato fra le mie carte, frugato fra i miei documenti? O mi
avrebbe sentito bisbigliare le mie ipotesi col il favore del vento, quale propizio
portatore di onde?
Chiara: Ascoltando il suo discorso sommesso nei moment in cui, nel corso
della lezione, lei si isolava dopo averci indicato le pagine da leggere delle sue
dispense. Ci diceva di farlo proprio in classe, ciascuno per suo conto, in
maniera che, abbandonandoci a noi stessi, potesse liberarsi dell’incombenza
delle spiegazioni e badare ai fatti suoi, o meglio alle sue ipotesi di ricerca.
C’era silenzio nell’aula in quei momenti di studio autonomo, sì che per lei era
più agevole concentrarsi e a me di ascoltare. Traeva il suo quaderno di note,
scriveva qualcosa, ne sussurrava altre, cambiava continuamente d’espressione
e quindi d’umore, a seconda che fosse o non soddisfatto dei risultati raggiunti.
Vuole ancora sapere se abbia una dote particolare nel percepire quei mormorii
inconsci che lei emetteva, e che probabilmente non raggiungevano la soglia
della percezione uditiva umana? Potrebbe essere, ma è una domanda che mi
sono posta ed alla quale, come le ho già detto, cerco da lei una risposta. Ma
veniamo a lei: perché vuole farla finita? Con la sua vita ma soprattutto con la
sua ricerca.
Heinrich: Non è il silenzio della morte che cerco, bensì un silenzio di vita, la
pace dell’essere e non del niente. Per quanto concerne l’avanzamento della
ricerca, le confesso che a un certo momento della mia vita di studioso decisi di
applicarmi solo marginalmente all’insegnamento, e quindi divenni un docente
mediocre – ciò accadde quando morì mia moglie – per limitarmi alla mia
personale ricerca. Ma ecco che in questi giorni, oggi in particolare, metto via
curiosità e desiderio di scoperta a causa della nuova disfatta che non mi lascia
scampo.
Chiara: Quale disfatta? Lei è vivo, ha capacità, può e deve andare avanti con
la sua ricerca, oltre che con la sua vita. Ed ovviamente le due operazioni sono
strettamente legate.
Heinrich: Tanto legate che, rinunciando all’una elimino anche l’altra: non
potrei operare in modo diverso. Questa parte della mia vita, svaniti gli affetti –
mi riferisco a mia moglie come al mio desiderio di offrire conoscenza ai miei
studenti – si era afferrata alla pura conoscenza, all’entusiasmo in chi pensa di
poter arrivare a una importante scoperta, nella stupida convinzione di
consegnarsi all’eternità.
Chiara: Vuol dire che non ha scoperto niente e che pensa che non potrà mai
riuscirci?
Heinrich: Non solo: ho finito col credere che non ci sia niente da scoprire se
non la mia ambiziosa illusione di oscurare anche i minimali fruscii
dell’universo per raggiungere il silenzio originario.
Chiara: Di musica!
Chiara: Quella che lei cerca di evitare, che è il dato reale, la vita.
Heinrich: Sbaglia: non sono alla ricerca neppure di quel che romanticamente
è stato chiamato il battito del cuore della terra, onde ELF, fra 7 ed 8 Hz. Io
cerco, ho cercato e non cercherò più, di creare il silenzio. Senza l’illusione di
crearlo con la morte, che è ancora un momento di vita, un momento
estremamente sonoro, perché la vita nel lasciarci emette le sue grida di
disperazione. Momento terribile, gonfio di suoni, baccano, richiami disperati,
straziante dolore, altro che silenzio!
Heinrich: Non è importante che cosa dice, o forse dice soltanto “è”, parla,
emette voce, suono, ed ecco che scatena il putiferio. Il mondo, i mondi, la
sequenza delle trasformazioni, scoppi e botti, patatrac e diluvi, fuochi e crolli,
distruzioni e sconquassi, crescite abnormi, pianeti e luci, silenziosi boati e tu
con la tua giovane e illusa speranza di vita, che curi me perché prossimo a
lasciarla e per dare senso o addirittura piacere alla tua. Sarebbe potuta morire
un po’ dopo, solo un po’ dopo, dice Macbeth osservando la moglie ferita a
morte. In somma, perché dovrei disperarmi, lui dice, se muore proprio adesso?
Chiara: Non m’illudo d’essere eterna, ma credo che anche per quel poco che
abbiamo valga la pena, la vita, l’amore, la gioia.
Heinrich: Non è detto, a una conclusione ci sono arrivato: non si può tornare
indietro. Nella nostra vita non è possibile riproporre il grande silenzio, ovvero
la salute, quella che doveva essere prima che un malcreato decidesse di
riempire lo spazio di suoni, dicendo quella parola che distrusse il silenzio.
Chiara: Ed ora lei che intende suicidarsi vuole ricreare il vuoto e il silenzio?
Heinrich: Che farà invece lei che ama la vita, ne ama i suoni, le voci, i
rumori, al punto di ascoltarli anche oltre la capacità umana? Non pensa che
nella sua euforia sonora, sta rinunciando alla impalpabile felicità del silenzio?
FINE