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PROGETTO DI SCRITTURA TEATRALE

ESERCIZIO 1: Racconto in prima persona

Confessione di Thair:
Mi sveglio di colpo non sapendo dove mi trovo esattamente. Sono coricato in un letto con le
coperte azzurre, le pareti della piccola stanza sono tutte bianche e c’è puzza di disinfettante.
Mi muovo leggermente per sollevarmi ma un dolore lancinante mi attraversa tutto il corpo.
Nel mio braccio vedo un ago infilato, collegato ad una sacca con del liquido bianco dentro.
Adesso ho capito dove mi trovo, sono in un ospedale. Ma non uno di quelli che ci sono nel
mio paese, questo è pulito e nuovo, non fa paura. Forse ci sono riuscito… Sì, ce l’ho fatta.
Sono fuggito dall’orrore della guerra che ha colpito il mio bellissimo paese, la Guinea,
quando avevo 13 anni. Sono sopravvissuto alla prigionia degli arabi in Libia durata quasi un
anno, alla sofferenza per la morte dei miei cari e al naufragio del barcone con cui sono
arrivato a Lampedusa. O forse sto sognando, forse in realtà sono morto annegato proprio
come mio fratello… Forse sono morto ancora prima fucilato come mio padre, o ucciso
dall’ebola come mia madre e mia sorella. I miei dubbi vengono scacciati via quando vedo
entrare nella stanza la mia insegnante d’arte Chinara con un bambino in braccio. Lei si è
salvata, il suo bambino anche, e quindi pure io sono finalmente salvo. Almeno noi ci siamo
riusciti. Siamo vivi. E adesso posso finalmente realizzare il mio sogno di diventare un’artista,
ciò per cui mio fratello si è sacrificato. E’ morto per farmi vivere il mio sogno. Ed è quello che
farò per lui e per tutta la mia famiglia.

CONFESSIONE DI CHINARA
La guerra non è come le persone che non l’hanno vissuta la descrivono. Si, è orrore, morte
e violenza, ma è anche molto di più. E’ devastazione mentale, decesso psicologico, è
stupro, è omicidio, suicidio, genocidio… E’ vedere negli occhi dei bambini spegnersi quella
speranza e quella ingenuità che tanto li caratterizza. E’ ciò che ho visto nei miei amati
studenti prima di perderli completamente chissà dove. Mi chiamo Chinara, ho 23 anni e sono
sbarcata a Lampedusa pochi giorni fa. Sono ancora ricoverata in ospedale insieme al mio
bambino appena nato. Lo amo come non ho mai amato nessuno al mondo, ma mi ricorderà
per sempre di essere stata vittima di violenza sessuale da parte degli Arabi. Non so chi sia
suo padre e non lo voglio sapere, so solo che lui crescerà con l’amore incondizionato di una
madre che gli insegnerà i valori e il rispetto per la vita. Mi manca il mio paese, la Guinea, e
mi mancano i miei familiari… So di non averli abbandonati, ma sento che è così. Li ho
lasciati prigionieri degli Arabi e, grazie al mio allievo Thair e all’aiuto di suo fratello, io sono
riuscita ad arrivare fin qui, ma la mia famiglia no. Non so come stiano, o se siano ancora vivi.
Voglio sperare che abbiano trovato la pace in qualche modo, che siano liberi e felici, lontani
dalla guerra. Vorrei provare a dormire ma proprio non ci riesco. Ho visto cose che non
auguro a nessuno al mondo… Ho assistito alla morte atroce di almeno ottanta persone, e
non riesco a togliermi dalla testa le immagini delle persone fucilate, del sangue, dei loro visi
privi di qualsiasi dignità. La morte peggiore a cui ho assistito non è stata quella di mio fratello
dovuta all’ebola, ma quella di un bambino annegato nelle acque gelide. Il barcone su cui ci
trovavamo poteva portare solo 60 persone, eppure eravamo in 143 là sopra. Sapevo, in cuor
mio, che era quasi impossibile arrivare tutti sani e salvi. Infatti fu così… Morì anche il fratello
di Thair. Per questo mi dovrò occupare io di lui. Sarà il mio secondo figlio, e farò l’impossibile
per renderlo felice.
RIBALTAMENTO DEL BARCONE

Il mare era tranquillo, c’era il sole e la leggera brezza mattutina della primavera era molto
piacevole. Il pescatore siciliano era di buon umore e aveva un buon presentimento: la prima
buona pesca dell’anno dopo l’inverno. D’inverno i pesci tendono ad essere inattivi, mentre
d’estate si ritirano nelle acque più profonde per avere più fresco essendo animali a sangue
fresco, per questo la pesca è ideale d’estate o in primavera. Specialmente all’alba o dopo il
tramonto. Il pescatore era pronto a calare la prima rete quando sentì delle grida in
lontananza. Inizialmente pensò che fossero dei ragazzi in una barca divertiti, ma le grida non
erano gioiose, erano tremendamente spaventate. Il pescatore ritirò subito la rete e si diresse
immediatamente verso le urla. Man mano che si avvicinavano le sentiva sempre più
strazianti, mescolate a singhiozzi di pianti incessanti. Sapeva di chi erano, ma aveva paura
di vedere l’orrore che da lì a poco gli sarebbe stato presentato davanti. Ed eccolo lì, un
barcone pieno di migranti stretti tra loro che faticavano a muoversi. Il barcone oscillava e
stava per ribaltarsi verso sinistra. Il pescatore voleva intervenire, ma non poté fare altro se
non chiamare la guardia costiera che non sarebbe arrivata prima del ribaltament. Avvenne
tutto in poco tempo. Vide i volti dei migranti terrorizzati che gli chiedevano aiuto e si sentiva
impotente. Lo scricchiolio del legno che si piegava era terribile, i migranti rassegnati che si
buttavano nell’acqua gelida nuotando verso la barca del pescatore che pian piano cercò di
farne salire alcuni. Ma non potevano salire tutti. Vide come molti vennero travolti,
affogavano, si dimenavano, e morivano… Morivano tra atroci sofferenze. La guardia costiera
riuscì ad arrivare dopo qualche minuto, ma molti migranti erano già morti. Il pescatore non
dimenticherà mai ciò che ha visto. Per fortuna furono salvate molte persone, tra cui molti
bambini, ma tanti erano comunque morti. Il pescatore aiutò la guardia costiera a portare a
riva i migranti che stavano nella sua umile barchetta, e si sentì fiero di ciò che stava
facendo. Il suo cuore però non era felice… Vedere quella disperazione e immaginare come
sarebbe stato essere lui un migrante o vedere la sua amata bambina di tre anni morire
annegata in quel modo o schiacciata dal barcone lo uccise dentro. Il mare era tranquillo, si
ridisse il pescatore, ma il mare era anche letale in ogni sua forma. Per quanto meraviglioso
fosse sapeva che non tutti avevano la fortuna di vederlo così. Per i migranti era la salvezza,
l’ultima speranza, ma per moltissimi di loro era la morte.

Thair si svegliò da un sonno agitato in stato confusionale. Il quindicenne non sapeva dove si
trovasse, finché non si rese conto che tutto intorno a lui era di colore bianco e puzzava di
disinfettante. Era in un ospedale, e nel suo braccio c’era un ago collegato ad una strana sacca
trasparente piena d’acqua. In quel momento una donna con un camice entrò nella sua stanza e
Thair si spaventò temendo di essere ancora prigioniero degli arabi, ma poco dopo vide che
dietro quella donna c’era l’unica persona che in quel momento poteva salvarlo dall'abisso in
cui stava sprofondando sempre più velocemente. Chinara, la sua insegnante di arte, aveva un
cerotto enorme sul viso e aveva tra le braccia un bambino appena nato. Si era salvata,
entrambi erano riusciti a sopravvivere all’orrore indescrivibile della guerra e di ciò che ne
conseguì.
Con il sollievo sul viso e una calma che non pensava di poter più provare, Thair si
riaddormentò pochi secondi dopo, ma il suo sonno non fu rilassato come avrebbe voluto.
Ripercorse ogni momento di quei terribili anni in cui la sua famiglia, i suoi amici, e la sua
vita fu devastata.
Era il 10 dicembre 2012, quando, in Guinea, scoppiò la guerra che segnò per sempre Thair e
Chinara. I due, prima di allora, avevano una vita semplice anche se in povertà, ma comunque
felice. Circondati entrambi dai loro cari e accompagnati dalla passione che li accomunava:
l’arte. Thair, a soli tredici anni, era un artista come pochi e aveva il desiderio di andare in
Italia e realizzare il suo sogno di dipingere, disegnare e lavorare nel mondo dell’arte, e
Chinara era fiera di essere la sua insegnante. La notte del 10 dicembre 2012 però quel sogno
fu spazzato via da una bomba e dal fuoco che si propagò vicino alla sua casa. Degli uomini
armati iniziarono a bruciare il paese, e Thair vide morire il suo papà davanti ai suoi occhi.
L’uomo uscì di casa per provare a parlare pacificamente con quegli uomini, aveva le mani in
alto e voleva solo proteggere la sua famiglia, ma quel gesto gli costò la vita. Non fece in
tempo a finire la frase che un proiettile gli trapassò il petto. Thair non riuscì a reagire a ciò
che aveva appena visto, sentiva solo le grida disperate di sua madre e sua sorella che la
teneva per non farle fare la stessa fine del padre. Passarono dei mesi e la guerra continuava
imperterrita a seminare odio e morte. Chinara, a soli 20 anni, non poteva più fare quello che
amava di più: insegnare arte ai ragazzi. Era dall’inizio della guerra che non vedeva più
nessuno dei suoi studenti, e sperava stessero tutti bene. Non aveva perso nessuno, la sua
famiglia era ancora tutta intera, ma sapeva che non potevano più stare lì, dovevano
assolutamente trovare un modo per fuggire dalla guerra e tornare a vivere. Dopo altre due
settimane suo fratello maggiore iniziò a sentirsi male, un terribile virus lo uccise, così come
uccise, nello stesso periodo, la mamma di Thair. L’ebola stava causando tantissimi morti,
esattamente come la guerra. Thai e Chinara videro la sofferenza nelle persone che amavano e
i loro cuori piano, piano, stavano perdendo le speranze. Si rividero dopo quasi un anno
dall’inizio della guerra in dei capannoni costruiti per le persone che erano state a contatto con
i malati di ebola, messi in quarantena in attesa di capire se fossero stati infettati. I due, dopo
un mese, tornarono all’aria aperta, ma ebbero molte altre perdite. Anche la sorella di Thair
morì a causa del virus, era rimasto solo. L’unica persona della sua famiglia ancora in vita era
suo fratello. L’unico problema era che viveva in Libia, perciò Thair voleva arrivare a tutti i
costi da lui. A quell’epoca aveva solo tredici anni, come poteva affrontare da solo un viaggio
del genere? Chinara, dal canto suo non perse nessun altro. Aveva ancora i suoi genitori e i
suoi nonni, e voleva portarli via dalla guerra il prima possibile.
Una sera, Thair, ormai ospite a casa di Chinara, riuscì a mettersi in contatto con suo fratello
che gli disse di aver finalmente racimolato i soldi necessari per farlo arrivare in Libia da lui e
per poi andare insieme in Italia per far realizzare il sogno a Thair di diventare un vero artista.
Thair si preparò subito alla partenza, ma non poteva e non voleva lasciare Chinara e la sua
famiglia a patire ancora le atrocità della guerra. Perciò, si incamminarono tutti verso quella
che pensavano sarebbe stata la loro salvezza. Purtroppo non fu così, si ritrovarono in mezzo
al deserto minacciati dagli arabi e fatti prigionieri. Camminarono per ore sotto il sole cocente
e con i piedi scalzi senza mai fermarsi o potersi lamentare. Chinara subì violenze sessuali da
parte di quegli uomini, così come altre ragazze prigioniere. Restarono nel deserto a patire la
fame, la sete e il caldo per tre mesi, quando finalmente gli arabi istituirono delle nuove
regole. Era concessa solo una telefonata ad ognuno di loro appena arrivava il proprio turno.
Arrivato quello di Thair chiamò immediatamente il fratello che negoziò con gli arabi per
lasciarlo libero e farlo arrivare da lui per imbarcarsi verso l’Italia. Ci riuscì, e ebbe il denaro
sufficiente da poter liberare anche Chinara, rimasta incinta da uno degli arabi che la
violentarono. Per i familiari della ragazza, però, non ci fu nulla da fare. Anche lei sarebbe
rimasta prigioniera degli arabi pur di stare con loro, ma glielo impedirono. Poche ore dopo
Thair si poté ricongiungere con il suo amato fratello e, insieme alla sua insegnante di arte, si
diressero verso il barcone che li avrebbe definitivamente resi liberi.
“Pensavo non saresti più arrivato fratellino, ero convinto fossi morto.”
“Lo so, ma ci siamo riusciti, siamo qui! Lei è Chinara fratello, la mia insegnante di arte. E’
grazie a lei se voglio diventare un artista.”
“Molto piacere di conoscerti Chinara. Grazie per aver badato al mio fratellino in attesa che
arrivassi.”
In quel momento intervenne Chinara che prima di allora non aveva ancora parlato: “E’ lui in
realtà che ha badato a me se devo essere sincera.”
“Immagino, è un piccolo adulto!”
“Mi sei mancato.”
“Anche tu Thair. Ma dimmi, mamma, papà e nostra sorella sono tutti…?”
Thair non riuscì a rispondere, abbassò soltanto lo sguardo cercando di trattenere le lacrime.
“Capisco - continuò il fratello - sono felice che tu stia bene. Ti prometto che ti porterò in
salvo. Devi realizzare il tuo sogno, vivere per il tuo sogno. Mi hai capito?”
“Si, certo. Grazie.”
Il ricongiungimento durò poco, perché furono zittiti dagli uomini che comandavano. Loro
erano cattivi, uccidevano senza pietà chiunque non rispettasse le regole, persino i bambini.
Thair, che bambino più non era, si sentiva piccolo come mai nella sua vita, debole e indifeso.
Chinara, che adesso aveva in grembo suo figlio, non sapeva cosa provare. Sarebbe morta per
proteggere Thair, per lei come un figlio, e il vero bambino che aveva dentro la pancia. Ma
aveva il terrore che andasse tutto male. Aspettarono la notte per imbarcarsi. Sul barcone
potevano starci solo sessanta persone, eppure gli uomini con i fucili continuavano a far salire
persone ammassate fra di loro. Si ritrovarono in 143, tutti attaccati e sofferenti. Chinara,
Thair e suo fratello si sedettero vicini, pronti ad andarsene da quell’orrore una volta per tutte.
Ma, purtroppo, il dramma non era ancora finito. Dopo poche ora dalla partenza, ormai in
mare aperto, iniziarono a imbarcare acqua: stavano affondando. Le persone gridavano e
piangevano disperatamente, a quel punto è nata una battaglia per riuscire a prendere i
salvagenti, pochissimi rispetto a quante erano le persone. La gente urlava e non si
capiva niente. Quando la barca è affondata Thair e suo fratello si aggrapparono ad
alcuni pezzi dell’imbarcazione, ma faceva molto freddo e Thair aveva anche bevuto
della benzina. Gli girava la testa e vedeva intorno a lui le persone morire annegate.
Alcune si lasciavano andare rassegnate, altre morivano nel modo più sofferente che
mai. Chinara era riuscita ad ottenere un salvagente e aveva il terrore di perdere il suo
bambino, doveva vivere per lui. Thair non riusciva a trovare un salvagente, così suo
fratello gli diede il suo. Gli disse di tenere duro e che a breve sarebbero arrivati i
soccorsi italiani a salvarli. Passò un solo istante e il fratello di Thair fu inghiottito
dalle onde, senza che se ne accorgesse. Scomparve come se non fosse mai stato lì, e
Thair svenne subito dopo. Forse dal freddo o forse rassegnato anche lui di non poter
sopravvivere si è lasciato andare. Chinare lo raggiunse e si aggrappò a lui. Il freddo
gelido le stava atrofizzando i muscoli, vedeva Thair sempre più pallido, le persone
intorno a lei morire congelate e annegate. Vide un bambino, poteva avere sì e no tre
anni, piangeva in braccio ad un uomo congelato che non reagiva. Era morto. Chinara
voleva avvicinarsi a prendere il bambino ma non riusciva a muoversi, forse stava per
morire anche lei. Non passò neanche un minuto che vide il bambino sprofondare in
acqua insieme all’uomo. Aveva solo pochi anni, e Chinara non riuscì a fare niente per
salvarlo. Controllò più volte il respiro di Thair, era ancora vivo, ma non sapeva
quanto ancora avrebbe resistito. O meglio quanto ancora avrebbero resistito
entrambi, sentiva di non avere più le forze. Quando stava per chiudere gli occhi e
abbandonarsi al suo destino vide una luce in lontananza. Una nave italiana si stava
avvicinando a loro per salvarli. Quando i soccorsi li raggiunsero Chinara non riuscì a
non sorridere. Erano salvi, almeno loro due. Svenne poco dopo che salì sulla nave
con a fianco Thair ancora addormentato. Chinara si risvegliò poche ore dopo in una
stanza d'ospedale. Ci mise un po’ a ricordare che non fosse più in pericolo, era in un
ospedale ed era viva. Entrò nella sua stanza una dottoressa, e ciò che accadde dopo fu
la cosa più bella che le capitò da tanto tempo.
“Ciao Chinara, come stai?” Disse la dottoressa.
“Adesso credo di stare bene, grazie. Ma, il mio bambino?”
“Sono felice che tu sia sveglia proprio perché volevo parlarti di questo.”
“Oh no, il mio bambino!” Chinara stava per disperarsi ma la dottoressa la fermò
prima.
“Il tuo bambino sta bene, è un maschietto. Ma purtroppo dobbiamo farlo nascere
subito. I suoi polmoni sono leggermente compromessi e dobbiamo praticare un parto
cesareo prematuramente per non fargli avere problemi in futuro. Sei pronta?”
“Non lo so… Io ho paura…”
“Lo so. Non posso neanche immaginare quanto sia stato difficile per te affrontare
tutto questo da sola…”
“Non ero da sola. Dov’è Thair?”
“Thair?”
“Si, era con me. Si è salvato? Dev’essersi salvato per forza!”
“E’ il papà del bambino? Se puoi descrivermelo vado a cercarlo tra i sopravvissuti.”
“No lui è un mio allievo, ha solo quindici anni. Il papà del bambino non esiste. E’ un
mostro, e spero che il mio bambino non diventi come lui.”
“Va bene, allora facciamo una cosa. Mando un infermiera a vedere come sta Thair e
nel frattempo io ti preparo per l’intervento e prima di operarti ti dirò come sta
Thair.”
“Ok, grazie.”
Dopo qualche minuto Chinara era pronta per dare alla luce il suo bambino, ma non
poteva farlo se non era sicura che Thair fosse salvo. Poco dopo l’infermiera che era
andata a cercarlo tornò con un sorriso stampato in faccia e le disse che Thair era vivo
e vegeto, stava bene. Non si era ancora svegliato dall’arrivo in ospedale, ma stava
fortunatamente bene, era sopravvissuto come lei.
Chinara diede alla luce un bellissimo bambino, fu la sua opera d’arte migliore.
Dopo il parto e i controlli al piccolo volle subito andare da Thair. Il ragazzo si svegliò
proprio appena arrivò lei e le lacrime sgorgarono copiose sulle guance di entrambi.
Thair era agitato e spaventato, e aveva bisogno di ulteriore riposo, infatti non
sorprese Chinara quando chiuse nuovamente gli occhi. Passò qualche ora e il ragazzo
si svegliò più tranquillo. Chinara era ancora lì, con un sorriso stupendo e con gli
occhi pieni di gioia. A Thair bastò questo per rendersi conto che finalmente erano in
pace.
Sono passati quattro anni dall’arrivo di Thair e Chinara nella costa di Lampedusa. Si
trasferirono a Bologna appena si ripresero in ospedale, con l’aiuto dei volontari. Là
Chinara trovò lavoro come commessa in un negozio, si innamorò di un professore di
arte, e poi riuscì ad aprire una sua attività in cui vendeva i suoi dipinti. Thair ottenne
una borsa di studio per l’accademia delle belle arti e diventò un vero artista come
Chinara. Lei l’ha preso con sé subito arrivati in Italia, come un secondo figlio. Non
sapeva come stessero i suoi familiari, e probabilmente non lo saprà mai, ma è felice
di non essere rimasta completamente sola. Thair ancora non riesce a rassegnarsi alle
perdite che ha subito. Sta riuscendo a realizzare il suo sogno grazie al grande
sacrificio di suo fratello. Non potrà mai essergli grato abbastanza per quello che ha
fatto.
Chinara e Thair adesso vivono una vita felice e appagata, con i loro sogni realizzati e
l’amore che non li abbandonerà mai più. Non dimenticheranno mai gli orrori visti,
subìti e sopportati, ma saranno comunque vivi grazie al sacrificio delle persone che li
amavano.

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