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Giorgio Nardone, allievo di Paul Watzlawick, ha alle spalle

trent’anni di attività terapeutica e decine di migliaia di casi trattati con


successo. Ha fondato e dirige il Centro di Terapia strategica di
Arezzo che ha affiliati in tutto il mondo. Tra i suoi libri ricordiamo:
Correggimi se sbaglio, Il dialogo strategico, Cavalcare la propria
tigre, Gli errori delle donne, Psicotrappole, La paura delle decisioni,
La nobile arte della persuasione, Oltre sé stessi, Emozioni. Istruzioni
per l’uso, tutti pubblicati da Ponte alle Grazie.

Stefano Bartoli è psicologo, coach, direttore operativo del Centro di


Terapia Strategica e personal manager di Giorgio Nardone. Si
occupa, in qualità di consulente, di leadership, organizzazione
aziendale, alta performance nel mondo dello sport e nel business.
Insegna il modello strategico in tutto il mondo. Ha pubblicato,
insieme a Giorgio Nardone, Oltre sé stessi (Ponte alle Grazie, 2019).

Simona Milanese, oncologa e psicoterapeuta, è ricercatrice


associata e formatrice del Centro di Terapia Strategica di Arezzo.
Esercita attività di psicoterapia, coaching e formazione secondo il
modello strategico. Con Roberta Milanese ha pubblicato Il tocco, il
rimedio, la parola. La comunicazione medico-paziente come
strumento terapeutico (Ponte alle Grazie, 2015), e Alimentazione:
falsi miti e inganni del marketing (2019).
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In copertina: © 2020 Dan Bejar c/o theispot


Progetto grafico: theWorldofDOT

Ponte alle Grazie è un marchio


di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

© 2020 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano

ISBN 978-88-3331-627-7

Prima edizione digitale: dicembre 2020


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Introduzione

La tecnologia non tiene l’uomo lontano


dai grandi problemi della natura, ma lo
costringe a studiarli più approfonditamente.
Antoine de Saint-Exupéry

Dopo il Coronavirus nulla sarà come prima, fin troppi profeticamente


lo hanno detto. Di certo la pandemia ha spazzato via come un
uragano le nostre abitudini, modificando profondamente l’essenza
stessa della nostra vita di relazione. Stanno già cambiando,
all’insegna del distanziamento sociale, tutti i settori vitali della
società: sanità, commercio, trasporti, istruzione, economia, cultura,
politica, ambiente. Stiamo creando una nuova normalità, con nuove
modalità di connetterci, di relazionarci, di acquistare prodotti e
servizi, di apprendere, di divertirci.
Questa trasformazione così profonda sarà resa possibile dalla
tecnologia digitale che, già molto presente nelle nostre vite,
diventerà presto insostituibile. Se consideriamo che prima
dell’emergenza Coronavirus il 90% degli italiani usava Internet
quotidianamente, con un tempo medio di connessione di 6 ore al
giorno, di cui 2 sui social,1 abbiamo un’idea delle dimensioni che il
fenomeno acquisirà in futuro.
La digitalizzazione sta già dilagando in tutti i settori. In sanità viene
promossa a gran voce la «salute digitale» (e-health per gli
anglosassoni), cioè i servizi di telemedicina2 (cura a distanza),
teleconsulto (consulto a distanza tra sanitari) e telemonitoraggio
(monitoraggio di parametri come pressione, glicemia, battito
cardiaco, ecc.);3 anche i professionisti della salute mentale,
psicologi, psicoterapeuti e psichiatri stanno implementando le terapie
on line.
La scuola ha organizzato, seppure con qualche difficoltà, la
didattica a distanza; le aziende incentivano lo smartworking, e
piattaforme come Zoom forniscono un valido supporto alle attività di
formazione a distanza (e-learning).
Tuttavia, cambiare non è sufficiente, occorre essere certi di
cambiare in meglio: dobbiamo governare i venti del cambiamento,
per evitare di essere trascinati alla deriva.
Per questo dobbiamo considerare un altro cambiamento non facile
da realizzare. Infatti, per gestire efficacemente la nostra nuova
normalità non dobbiamo adeguare solo la tecnologia, ma anche e
soprattutto il nostro modo di utilizzarla. Che si tratti di una seduta
psicoterapeutica, di una lezione o di una riunione tra manager, la
comunicazione deve essere adeguata all’occasione, al contesto e al
mezzo utilizzato: è bene ricordare infatti che proprio l’avvento della
tecnologia ha prodotto in alcuni settori, come la medicina, un
deterioramento dell’approccio comunicativo e relazionale.
Ignorare l’aspetto comunicativo in questa rivoluzione sarebbe un
grave errore, perché la buona comunicazione è componente
essenziale di ogni attività e interazione umana.
Comunicazione e relazione nella cura sono alla base di qualunque
processo di guarigione, sia fisica che mentale; l’apprendimento non
può prescindere dalla comunicazione tra allievo e insegnante; nella
scienza della performance, la comunicazione tra tecnico e atleta o
artista è aspetto sostanziale; la comunicazione persuasoria è
indispensabile per il leader, il politico, il diplomatico, il venditore, il
formatore.
Cosa cambia nella comunicazione telematica? Sostanzialmente,
viene a ridursi in tutto o in parte il potere della comunicazione non
verbale. Non è cosa da poco, perché proprio la comunicazione non
verbale (sguardo, espressioni, gestualità) e quella paraverbale (ritmo
e volume della voce, inflessione, pause, silenzi) trasmettono l’80%
dell’emotività. Il loro contributo è così importante che, in caso di
incongruenze tra canale verbale e canale non verbale, è al secondo
che prestiamo fiducia.
Immaginate di incontrare una persona che, non vedendovi da
tempo, vi si avvicini dicendo: «È un piacere vederti!» guardandovi
negli occhi, con un sorriso aperto, e ponendo enfasi sulla parola
«piacere». Ora immaginate la stessa frase pronunciata a bassa
voce, con un sorrisetto sprezzante e sguardo sfuggente: l’effetto è
diametralmente opposto, e la contraddizione tra il contenuto verbale
e gli aspetti non verbali viene risolta automaticamente prestando
fede ai secondi. Infatti, mentre il contenuto verbale è facilmente
falsificabile, gli aspetti non verbali lo sono molto meno, ed è per
questo che li usiamo istintivamente come bussola per orientarci nelle
complessità della comunicazione.
Come brillantemente esposto da Paul Watzlawick nella sua
Pragmatica della comunicazione umana, ogni messaggio ha una
parte di contenuto (verbale) e una di relazione (non-verbale e
paraverbale), ed è la seconda che codifica la prima, dando
significato e colore a tutto il messaggio (II assioma della Pragmatica
della comunicazione) (Watzlawick et al., 1967).
In un contesto telematico vengono persi alcuni aspetti significativi
del messaggio ed è più facile incorrere in fraintendimenti che, con la
tipica circolarità della comunicazione, possono generare altri
fraintendimenti, propagandosi e amplificandosi come nel famoso
gioco del telefono senza fili.
Inoltre, laddove l’empatia e la partecipazione emotiva sono
particolarmente importanti per il buon esito dell’intervento, come ad
esempio in una visita medica o in una seduta di psicoterapia, il
terapeuta deve sapere gestire l’emotività trasferendola negli altri
canali, in modo da mantenere l’efficacia dell’intervento.
Qualunque sia la nostra professione o lo scopo della nostra
comunicazione, è fondamentale che questa sia adattata al contesto
telematico. Sguarniti di buona parte della comunicazione non
verbale, dobbiamo quindi potenziare tutti gli altri aspetti: scelta delle
parole, costruzione delle frasi, modulazione della voce. Questo libro
esplora il tema della comunicazione telematica in generale e delle
sue applicazioni nei vari settori (medico, psicoterapico, manageriale,
formativo), fornendo indicazioni su come adattare la comunicazione
al contesto e al mezzo utilizzato, sulla base di un’ampia esperienza
sul campo e di sperimentazioni specifiche che hanno condotto a
elaborare una vera e propria moderna Pragmatica della
comunicazione telematica.
«La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte
oscura. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi
strategie» (Albert Einstein).
Capitolo 1
La realtà nello schermo

La realtà esiste nella mente umana e non altrove.


George Orwell

Un bambino sta camminando accanto a sua madre.


I due arrivano davanti a un semaforo rosso; la madre si ferma
mentre il bambino continua a camminare.
Un’auto suona il clacson e la madre con un balzo riesce
fortunatamente a salvare il figlio.
«Ma non hai visto che era rosso?!» esclama la donna, impaurita.
«Sì, ho visto che era rosso, perché?» risponde il bambino, stupito.
Questo semplice esempio illustra un fenomeno che è alla base
della nostra percezione della realtà: un fatto normale, vissuto nello
stesso momento, può avere significati diversi per coloro che lo
stanno vivendo.
Pur avendo visto chiaramente il semaforo rosso, il bambino, a
differenza della madre, non attribuiva a tale colore il comando
implicito «fermati».
Lo stesso oggetto, il semaforo rosso, viene vissuto e interpretato in
maniera diversa dai due soggetti, e di conseguenza le loro azioni
non possono che essere differenti.
Molto spesso in ambito sia psicologico sia scientifico confondiamo
due aspetti molto differenti di quella che chiamiamo realtà: il primo
concerne le proprietà puramente fisiche, oggettivamente discernibili,
delle cose; il secondo consiste nell’attribuzione di significato e di
valore a queste cose (Watzlawick, 1976, p.129).
La realtà può essere quindi divisa in due ordini: la realtà di primo
ordine, ovvero l’oggetto o il fatto in sé, e la realtà di secondo ordine,
ovvero come viene percepito il fatto o l’oggetto e le reazioni
conseguenti alla percezione.
Se il primo aspetto è collegato alla percezione sensoriale di ciò
che ci accade, il secondo, ovvero come noi reagiamo, si basa sulla
comunicazione.
Il pittore Pablo Picasso ha affermato: «Tutto ciò che puoi
immaginare è reale»; noi preferiamo dire che tutto ciò che viene
percepito è reale, come già aveva ben descritto il filosofo Berkeley:
«Esse est percipi», «essere è essere percepito».
Il fatto che io mi getti in acqua per salvare una persona che sta
annegando è un evento oggettivamente reale; ma se il mio gesto sia
stato fatto per carità, oppure per apparire eroico, o perché sapevo
che l’uomo che stava annegando era milionario e contavo in una
ricompensa, è una questione per la quale non esiste una prova
oggettiva, ma soltanto attribuzioni soggettive di significato. Lo
scrittore francese Raymond Queneau, nel suo Esercizi di stile, riesce
a dare di un semplice evento come il litigio banale tra due persone
ben novantanove diverse rappresentazioni di significato. Secondo la
moderna epistemologia costruttivista non esiste una realtà
ontologicamente vera, ma tante realtà soggettive a seconda del
punto di vista che si adotta.
Se osserviamo un bicchiere con dentro un liquido trasparente
automaticamente pensiamo che sia acqua quando potrebbe essere
anche altro; se poi il bicchiere fosse stato riempito a metà allora
avremmo chi lo percepirebbe mezzo pieno e chi mezzo vuoto. A
essere ancora più precisi, già definire il contenitore come
«bicchiere» è un’attribuzione di significato all’oggetto, ovvero è la
nostra esperienza empirica che ci porta a dire che un contenitore
con una certa forma ha il nome di «bicchiere».
Con le parole di Paul Watzlawick: «L’illusione più pericolosa
dell’essere umano è che esista soltanto una sola e unica realtà».
La realtà che ogni soggetto vive ed esperisce è comunque il frutto
dell’interazione tra il punto di osservazione assunto e la
comunicazione, tanto che la modalità che ogni soggetto ha di
comunicare con sé stesso, gli altri e il mondo ne influenzerà la
percezione e di conseguenza le reazioni. A tale proposito riportiamo
un esempio di come una comunicazione distorta verso gli altri e il
mondo possa creare delle «realtà inventate» i cui effetti concreti
durano anche per molti anni.
Nel 1925, in Alaska, la cittadina di Nome fu colpita da una
gravissima epidemia di difterite. L’unica possibilità di salvezza era un
siero sviluppato in una città distante centinaia di chilometri.
A causa delle rigide condizioni climatiche e di una tempesta di
neve inaspettata le vie di comunicazione più rapide divennero
inaccessibili. L’unico modo per raggiungere la lontana cittadina era
ricorrere alle slitte trainate da cani, così venne organizzata una
staffetta per percorrere i quasi 1100 chilometri tra andata e ritorno;
tra coloro che parteciparono a questa impresa vi fu Leonhard
Seppala con il suo cane leader Togo, un siberian husky poco
addestrabile e sopravvissuto a una malattia gravissima.
Leonhard e Togo percorsero i tratti più pericolosi rischiando più
volte la vita e percorrendo a -40° un totale di 480 chilometri contro i
circa 50 degli altri partecipanti alla disumana sfida. La loro impresa
fu qualcosa di incredibile e, grazie al loro coraggio e ai loro sforzi, il
siero venne recuperato.
L’ultimo tratto della staffetta, quello che avrebbe riportato la
medicina nella cittadina di Nome, fu percorso da Gunnar Kaasen
insieme a un cane chiamato Balto.
La stampa che aspettava il momento della conclusione della
staffetta intervistò l’ultimo conduttore di slitta chiedendo come si
chiamasse il cane leader della sua tratta.
Il risultato fu che la comunicazione di massa promosse Balto a
eroe dell’impresa, tanto che a Central Park, a New York, è tutt’oggi
presente una statua in suo onore come simbolo di coraggio e lealtà.
Di Togo, il vero eroe della vicenda, nessuno seppe mai niente.
Nel 2011 il settimanale «Time» ha riportato alla luce la vera storia
e ha dichiarato Togo l’animale più eroico di tutti i tempi.
L’ultima nota curiosa della vicenda è questa: Togo condusse la
staffetta all’età di dodici anni, quando i cani da slitta sono ormai
considerati anziani e già «in pensione». Balto invece morì molti anni
dopo, all’età di undici anni.
Questo è solo uno dei tanti esempi di mistificazione della realtà
attraverso la comunicazione.
Altro esempio è quando comunichiamo con noi stessi in maniera
inefficace, tanto da diventare sia vittima che carnefice di noi stessi.
Particolarmente interessante a tale proposito è la «storia del
martello».

Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne


ha uno, così decide di andare da lui e farselo prestare. A questo punto gli sorge un
dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena.
Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto e ce l’ha con me. E
perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se
qualcuno mi chiedesse un utensile io glielo darei subito. E perché lui no? Come si
può rifiutare al prossimo un piacere così semplice? Gente così rovina l’esistenza
degli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché
possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre,
e prima ancora che questi abbia il tempo di dire buongiorno, gli grida: «Si tenga
pure il suo martello, villano!» (Watzlawick, Nardone, 1997).

Nelle sue opere il filosofo Epitteto evidenzia la possibilità che ogni


soggetto ha di vivere in maniera diversa lo stesso fatto, e chiama
questo processo, attraverso il quale l’uomo riesce a definire e dare
un certo significato alle esperienze sensibili, proairesi.
Nel suo Enchiridion (Epitteto, 2006) l’autore dimostra come non
sono le cose in sé a smuovere certe sensazioni, bensì il giudizio che
abbiamo di esse.

Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle
cose. Per esempio, la morte non ha nulla di temibile, altrimenti sarebbe sembrata
tale anche a Socrate. Ma è il giudizio che noi formuliamo sulla morte. Pertanto,
quando incontriamo delle difficoltà o siamo turbati o tristi, non attribuiamone la
responsabilità a un altro, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi: è proprio di chi non
è ancora stato educato, attribuire agli altri la responsabilità dei suoi mali; è proprio
di chi è all’inizio della propria educazione attribuirne la responsabilità a sé stesso;
è proprio di chi ha completato la propria educazione non attribuire la responsabilità
né ad altri né a sé stesso.

La dimostrazione di come ogni soggetto esperisce ciò che


percepisce anche quando le alle sue percezioni non corrisponde una
realtà oggettiva trova straordinaria evidenza nella «sindrome
dell’arto fantasma». In seguito all’amputazione di un arto, il soggetto
continua a percepirne i movimenti, le sensazioni e molto spesso il
dolore, come se l’arto fosse ancora presente.
Una dimostrazione ancor più sconvolgente, a riguardo, la fornisce
la terapia della Mirror Box introdotta dal neuroscienziato indiano
Vilayanur S. Ramachandran (Ramachandran, 2000).
La Mirror Box è una scatola all’interno della quale sono posizionati
due specchi, a formare una parete divisoria. Attraverso due fori, il
paziente introduce l’arto sano da un lato della parete di specchi, e
l’arto amputato dall’altro lato. Osserva poi lo specchio dalla parte
dove è stato inserito l’arto sano e inizia a eseguire dei movimenti
che, riflessi nello specchio, risulteranno speculari e simmetrici. In
quel momento si crea una vera e propria illusione che farà sembrare
al paziente che il movimento sia quello dell’arto mancante.
Dato che il nostro sistema neurologico crea delle sensazioni reali
di dolore percepite in una zona del corpo non più presente – l’arto
amputato –, il feedback visivo artificiale della Mirror Box, oltre a
integrare un’immagine visiva dell’arto fantasma, comporta una
riduzione notevole delle sensazioni dolorose. La soluzione consiste
nell’ingannare le nostre percezioni con l’utilizzo di uno specchio e del
suo riflesso, rendendo reale ciò che non è.
In entrambi gli esempi siamo davanti a sensazioni vissute come
reali indipendentemente dalla condizione oggettiva del soggetto.
Anche le moderne neuroscienze hanno ormai dimostrato che ogni
soggetto è ideatore e creatore della propria realtà. Prendiamo ad
esempio il processo che uno stimolo esterno compie fino a diventare
una reazione: uno stimolo, come può essere la luce, è catturato dagli
organi di senso, i quali attraverso un processo chiamato
«trasduzione» trasformano lo stimolo iniziale in una sensazione.
Quest’ultima a sua volta dà vita a una percezione che porterà a una
reazione.
Se questo processo è uguale per tutti, come è possibile che le
reazioni siano diverse tra loro?
Se un musicista professionista ascolta un brano dove vi sono delle
stonature o degli errori ritmici se ne accorgerà immediatamente e
tenderà a migliorarlo o correggerlo, a differenza del non esperto che
non se ne accorgerà. Un altro esempio potrebbe essere quello di un
maestro di arti marziali che, grazie all’apprendimento e allo studio di
tecniche specifiche, è riuscito a sviluppare una maggiore sensibilità
e prontezza alle situazioni di pericolo rispetto a una persona che non
ha mai praticato nessuna disciplina marziale. L’esperto
psicoterapeuta riuscirà, grazie all’esperienza sul campo, a
individuare il tipo di intervento più efficace rispetto al giovane neo-
specializzato.
Questi esempi, e potremmo farne innumerevoli, indicano che il
bagaglio di esperienze funzionali che ogni soggetto ha sperimentato
nel corso della propria vita modificherà l’interpretazione e di
conseguenza la reazione a ciò che percepisce. Il problema nasce
nel momento in cui i nostri copioni di reazione si irrigidiscono fino a
diventare disfunzionali, poiché non più in grado di adattarsi ai
continui mutamenti delle cose. Non a caso il vecchio adagio ci
insegna che siamo «vittime dei nostri successi»: se abbiamo avuto
successo in qualcosa tenderemo a ripetere il comportamento che ha
portato a tale esito, anche quando non sarà più funzionale (Nardone,
2013).
La ripetizione di certi schemi comportamentali o di ragionamento
irrigiditi può far nascere delle vere e proprie «teorie forti», lenti
deformanti della nostra percezione.
Già Schopenhauer sottolineava l’influenza esercitata dalla teoria e
dai modelli nel rapporto degli individui con le realtà che hanno di
fronte. Ciò è stato riconfermato di recente, dal principio di
indeterminazione di Heisenberg e dalla moderna epistemologia
costruttivista: è sempre più chiaro quanto la scelta di una teoria
possa rivelarsi determinante nell’interpretazione dei fenomeni a cui
viene applicata (Nardone, Portelli, 2015). Con le parole dello
scrittore Chuck Palahniuk: «Si può trascorrere una vita intera a
costruire un muro di certezze tra noi e la realtà».
Se i meccanismi che abbiamo descritto fin qui valgono nella
creazione della realtà di ciascuno, diventano decisivi nella gestione
della relazione con l’altro quando questa avviene per via telematica,
attraverso uno schermo.
Al giorno d’oggi fare una videochiamata è normale, ma
bisognerebbe fare con la mente un salto indietro di poco più di dieci
anni per ricordarsi che questa tecnologia non era ancora ben
sviluppata e che la maggior parte delle interazioni telematiche erano
le normali chiamate audio.
Se pensiamo al mondo dei messaggi, la situazione è ancora più
sconvolgente: le moderne app permettono un’interazione continua a
costi praticamente nulli, mentre pochi anni fa sms e mms venivano
calibrati sulle necessità e i costi. Tutto questo ci rende sempre più
connessi e in maniera sempre più rapida, tanto da essere in grado di
portare avanti numerose chat contemporaneamente o di intrattenere
conversazioni a colpi di messaggi a qualunque ora del giorno e della
notte: la percezione di invasione e intrusione da parte nostra e dei
nostri interlocutori si è azzerata quasi del tutto. Trascorriamo gran
parte del tempo curvi su uno schermo, che sia di un computer, di un
telefono o di un tablet, e se aggiungiamo a questa iperconnettività le
varie piattaforme social e una globalizzazione lavorativa on line il
risultato è che una persona normale passa gran parte del proprio
tempo e della propria vita connesso alla rete.
Lo schermo diventa una nuova realtà da dover gestire per non
esserne gestiti. Come accennato nell’Introduzione, quando
comunichiamo lo schermo può omettere elementi importanti da far
giungere al destinatario della comunicazione e farci credere cose
ben diverse dalla realtà: il virtuale diviene più «vero» del reale.
Il continuo progresso tecnologico e la sempre più incalzante
necessità di risposte immediate hanno alzato il livello dell’interazione
telematica ma hanno alterato la qualità comunicativa; per questo se
non si è in grado di gestire questo cambiamento qualitativo del
comunicare si finisce per esserne manipolati, ovvero artefici di ciò
che poi rende vittime.
Testimonianza di ciò sono l’aumento dei fraintendimenti e delle
conseguenti decisioni sbagliate: manager che non riescono a
delegare efficacemente e collaboratori che interpretano male le
indicazioni, rapporti di coppia messi in crisi da messaggi mal
compresi o da litigate in video call, innamoramenti e tradimenti
virtuali, sessioni di allenamento eseguite guardando video di
personal trainer e senza possibilità di correzione degli esercizi,
programmi di dimagrimento tramite app validi per tutti, comunicazioni
scientifiche mandate in chat, propaganda politica tramite «dirette
social», per non parlare dell’aumento dei disturbi psicologici causati
dall’eccessivo e distorto uso del Web. Benché se ne parli utilizzando
l’aggettivo «virtuali», tutte queste sono in realtà vere e proprie
esperienze concrete e come tali in grado di modificare la percezione
della realtà da parte dell’individuo e di provocare un vero e proprio
cambiamento a livello emotivo, cognitivo e comportamentale; la
realtà virtuale è sia creata, sia creatrice delle realtà soggettive
dell’individuo.
Con le parole di Von Neumann: «Gli esseri sono in continuo
divenire e non esiste alcuna realtà aprioristica». Nemmeno quella
virtuale.
Capitolo 2
La pragmatica della comunicazione
telematica

Metà della popolazione mondiale è composta


da persone che hanno qualcosa da dire
ma non possono. L’altra metà da persone che
non hanno niente da dire e continuano a parlare.
Robert Frost
La forma crea il contenuto. Gli assiomi della
comunicazione umana e la loro applicazione digitale
Il mondo della comunicazione negli ultimi anni ha visto un’impennata
di testi e corsi di formazione che spesso sfocia in vere e proprie
aberrazioni.
Nel mondo aziendale gran parte degli imprenditori e dei manager
si è convinto che la comunicazione coincida con la pubblicità e che
le relazioni interpersonali all’interno del mondo del lavoro siano il
risultato di procedure o articolati processi di leadership. Per non
parlare poi dei corsi di comunicazione efficace, assertiva e public
speaking nei quali fantomatici formatori, al ritmo di musiche da
discoteca, propinano ricette comunicative valide per tutti e in tutte le
situazioni come se fossero comandamenti scolpiti nella pietra.
Per fare chiarezza su questo punto è doveroso ritornare alle origini
dello studio di cosa sia e di come utilizzare la comunicazione
dividendo la materia in semantica, sintassi e pragmatica.
La semantica studia il significato di ciò che viene comunicato
mentre la sintassi è lo studio di come i codici linguistici vengono
assemblati per dare vita a una proposizione. Per quanto riguarda la
pragmatica, si tratta dell’effetto che la comunicazione crea nelle
sensazioni e nel comportamento di chi riceve il messaggio; questo
ultimo diventa l’aspetto fondamentale da prendere in considerazione
per la gestione di sé stessi e degli altri.
L’autore che più di ogni altro ha studiato tale fenomeno è Paul
Watzlawick. La sua Pragmatica della comunicazione umana, scritta
in collaborazione con altri esperti della Scuola di Palo Alto e
pubblicata nel 1967, è considerata la «Bibbia» da tutti coloro che
vogliono studiare gli effetti della comunicazione sull’agire umano. Gli
autori infatti formulano gli assiomi della pragmatica dimostrandone
l’applicazione in numerosi contesti e inaugurando una nuova
stagione nello studio del linguaggio e dei suoi effetti nella realtà che
gli individui continuamente costruiscono, subiscono e/o gestiscono
(Nardone, 2015). Ne riportiamo un passaggio:

La ricerca condotta è stata orientata ad occuparsi degli effetti pragmatici


(comportamentali) della comunicazione umana, con particolare attenzione ai
disordini del comportamento. Finora non si è neanche provveduto a formalizzare i
codici verbali e sintattici ed è sempre più diffuso lo scetticismo sulle possibilità di
porre le basi di una strutturazione esauriente della semantica della comunicazione
umana… va da sé che la comunicazione è una conditio sine qua non della vita
umana e dell’ordinamento sociale. Ed è pure evidente che un essere umano è
coinvolto fin dall’inizio della sua esistenza in un complesso processo di
acquisizione delle regole della comunicazione, ma di tale corpo di regole, di tale
calcolo della comunicazione è consapevole solo in minima parte. (Watzlawick,
Beavin, Jackson, 1976)

Raccogliendo l’eredità di quest’opera fondamentale, riprendiamo la


formulazione dei «cinque assiomi della pragmatica della
comunicazione umana» assumendo un nuovo punto di vista: quello
della comunicazione digitale.
Il primo assioma recita: Non si può non comunicare. Qualsiasi
comportamento, compresa la mancanza di comunicazione, è un atto
comunicativo.

L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda
affollata, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi
comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro
la parola, e i vicini di solito ‘afferrano il messaggio’ e rispondono in modo adeguato
lasciandoli in pace. Questo ovviamente è proprio uno scambio di comunicazione
nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.

La comunicazione ha luogo anche quando non è intenzionale o non


è conscia, tanto che l’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno
tutti valore di messaggio: influenzano gli altri, i quali, a loro volta, non
possono non rispondere a questi messaggi e in tal modo
comunicano anche loro.
Quindi tutto è comunicazione e di conseguenza tutto è
influenzamento.
Riprendendo le parole di Watzlawick, questa volta in ambito
clinico:
Se il comportamento schizofrenico è osservato lasciando ogni considerazione
eziologica, sembra che lo schizofrenico cerchi di non comunicare. Ma poiché
anche le assurdità, il silenzio, il ritrarsi, l’immobilità (il silenzio posturale), o ogni
altra forma di diniego sono essi stessi comunicazione, lo schizofrenico si trova di
fronte al compito impossibile di negare che egli sta comunicando e al tempo
stesso di negare che il suo diniego è comunicazione. Il prendere atto di questo
dilemma fondamentale della schizofrenia offre una chiave per molti aspetti della
comunicazione schizofrenica che altrimenti resterebbero oscuri.

Se contestualizziamo questo assioma nel mondo della


comunicazione web la regola non cambia. Qualsiasi cosa facciamo,
ogni contenuto che pubblichiamo come qualsiasi interazione di
natura tecnologica diventano un atto comunicativo che influenza
l’altro. Se poi aggiungiamo che la maggior parte dei contenuti
possono essere rivisti più e più volte va da sé che l’attenzione alla
nostra comunicazione dovrà essere sempre maggiore.
Il secondo assioma recita: Ogni comunicazione ha un aspetto di
contenuto e uno di relazione, in modo che il secondo classifica il
primo ed è quindi meta-comunicazione. Ovvero: il come viene
passato un messaggio risulta determinante nella relazione tra due o
più soggetti allo stesso titolo del contenuto del messaggio stesso. Lo
stesso contenuto detto in modi o in contesti diversi definisce diverse
relazioni tra chi comunica. Questo spiega perché le relazioni
problematiche sono caratterizzate da una continua ridefinizione della
relazione e dei suoi confini mettendo in secondo piano i contenuti;
spesso si finisce per litigare più sul come stiamo discutendo che sul
cosa.
Nella comunicazione telematica questo aspetto risulta ancor più
determinante: ascoltare una persona parlare attraverso uno schermo
è decisamente più faticoso che farlo dal vivo. A fronte di questa
riduzione della qualità dell’interazione rispetto alla comunicazione in
presenza, sapere come comunicare è indispensabile sia per tenere
alta l’attenzione dell’uditorio, sia per gestire noi stessi che stiamo
comunicando. Nei capitoli successivi verranno spiegati in dettaglio
tutti gli aspetti paralinguistici e non verbali da utilizzare in una
comunicazione telematica efficace, ma possiamo già anticipare che
variazioni del ritmo e del tono della voce uniti a un linguaggio
analogico e a un uso sapiente dei silenzi sono ingredienti
fondamentali.
Il terzo assioma recita: La natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.
In altre parole, il flusso comunicativo è influenzato dal punto di
vista delle persone che comunicano, le quali tendono a interpretare il
proprio comportamento non come causa, ma come conseguenza del
comportamento dell’altro. Immaginiamo una coppia che litiga; uno
dei due si chiude in sé stesso perché l’altro alza la voce; l’altro
potrebbe dire che alza la voce poiché non riceve risposte alle sue
domande. Da una parte abbiamo «rimango in silenzio perché tu urli»
e dall’altra «urlo perché tu rimani in silenzio». «Punteggiare» male
una relazione può portare a fraintendere la comunicazione dell’altro
creando una dinamica paradossale, in cui la mia reazione alla
comunicazione dell’altro manterrà ciò che vorrei cambiare.
Nei capitoli successivi vedremo come evitare e gestire i
fraintendimenti; in ambito telematico, dove non è possibile usare
risposte non verbali (il gioco degli sguardi, la prossemica e il contatto
fisico) che nella loro immediatezza permettono di ristabilire certi
equilibri, saper punteggiare le relazioni, utilizzando bene la voce e
strutturando gli enunciati per evitare che diventino equivoci, è
essenziale fin dalle prime battute.
Il quarto assioma sostiene che: Gli esseri umani comunicano sia in
maniera digitale che analogica. Ovvero, possiamo riferirci agli oggetti
in due modalità: dando loro un nome (modalità digitale) oppure
creando un’immagine che li rappresenti o attraverso la
gesticolazione (modalità analogica). Quest’ultima, più arcaica, è
sicuramente meno precisa di quella digitale, ma più radicata nel
nostro DNA. L’uomo riconosce molto più le forme rispetto ai
contenuti e la maggior parte dei processi mnemonici e di pensiero
sono elaborati tramite immagini visive. Se è vero che il «non
verbale» risulta notevolmente ridotto nella video comunicazione,
sapersi muovere in modo adeguato davanti a una telecamera e
saper creare immagini attraverso un linguaggio evocativo potenzia il
nostro impatto sullo schermo.
L’ultimo assioma sostiene che: Tutti gli scambi di comunicazione
sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati
sull’uguaglianza o sulla differenza.
La simmetria si basa sull’uguaglianza o sulla riduzione ai minimi
termini della differenza, mentre il processo inverso rappresenta la
relazione complementare.
Le due posizioni relazionali dove possiamo muoverci sono definite
one-up e one-down; se entrambi siamo in una delle due posizioni
siamo in fase simmetrica; al contrario quando tra one-up e one-down
vi è una sinergia siamo nella sfera della complementarietà. In uno
scambio simmetrico i due interlocutori sono sullo stesso piano,
mentre in uno scambio complementare uno è in una posizione
cosiddetta «one-up», cioè di superiorità, e l’altro in una posizione
cosiddetta «one-down», cioè di inferiorità.
C’è da dire che sia la comunicazione simmetrica sia quella
complementare possono essere funzionali, a seconda del momento,
del contesto, dell’interlocutore e dell’obiettivo che vogliamo
raggiungere: ad esempio, davanti a un soggetto particolarmente
resistente dovrò selezionare il tipo di relazione più funzionale da
scegliere per aggirare tale resistenza. La possibilità di cambiare
rapidamente da simmetrico a complementare e viceversa richiede
però grande flessibilità emotiva, cognitiva e comportamentale. Nella
comunicazione telematica è consigliato mantenere una relazione il
più possibile complementare, oscillando tra one-up e one-down,
poiché una simmetria troppo accentuata limiterebbe la possibilità
della ricerca di una soluzione o di un accordo a causa dei limiti dello
strumento che utilizziamo; cosa che non accadrebbe se fossimo dal
vivo. Dovremmo sempre ricordare che lo strumento utilizzato, sia
questo uno smartphone, un tablet o un computer, è sempre e
comunque un filtro attraverso il quale la nostra comunicazione
subisce un processo di codificazione, elaborazione e trasmissione, e
quindi viene in qualche modo modificata.
Gli assiomi della comunicazione umana sono una competenza
ineludibile, da mettere in gioco anche nel mondo telematico.
Conoscerli e saperli utilizzare porta il professionista a gestire la
propria comunicazione anziché subirne gli effetti come troppo
spesso vediamo accadere. Perché, come sostiene Bauman, «Il
fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di
comunicazione».
La superficie è l’anticamera della profondità. La
creazione della prima impressione

Un migliaio di parole non lasciano un’impressione


tanto profonda quanto una sola azione.
Henrik Ibsen

La possibilità di influenzare un interlocutore o un gruppo di persone


passa attraverso un insieme di elementi comunicativi di tipo non
verbale che precedono l’interazione verbale. L’insieme di questi
fattori comunicativi costituiscono quella che viene definita «prima
impressione».
Ancora prima di iniziare l’interazione vera e propria, infatti,
molteplici elementi concorrono alla formazione di un primo e
immediato giudizio implicito riguardante il modo di essere e le
possibili caratteristiche della persona che abbiamo di fronte (Arcuri,
1994; Salvini, 1995).
Questi elementi sono sensazioni e percezioni per la maggior parte
automatiche, che non rientrano cioè nella sfera della
consapevolezza e del ragionamento, e che andranno a condizionare
la relazione nelle sue fasi iniziali.
Se camminando per strada vedo venirmi incontro un individuo
incappucciato con grandi occhiali da sole e dal passo risoluto, il mio
istinto sarà quello di tenerlo d’occhio per evitare un potenziale
pericolo, se non addirittura di cambiare marciapiede. Ciò che vedo
ha fatto scattare nel mio paleoencefalo una sensazione di pericolo
alla quale non posso non reagire.
Se al contrario mi trovassi davanti un individuo vestito
elegantemente e che cammina rilassato, le mie sensazioni
sarebbero totalmente diverse, così come le mie reazioni.
In entrambi i casi è la percezione di ciò che vedo a determinare
una sorta di valutazione e giudizio dell’altro, pur ignorandone le reali
caratteristiche.
L’uomo incappucciato potrebbe infatti essere un adolescente
assorbito nei suoi pensieri e che sta ascoltando musica, mentre il
tizio elegante potrebbe essere un sicario.
«Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze» ammonisce
Oscar Wilde con la sua arguzia: l’essere umano è costruito per
riconoscere la forma e la superficie delle cose e non il suo
contenuto; quest’ultimo viene colto solo successivamente, una volta
stabilita la relazione.
Se pensiamo al mondo animale, la necessità di giudicare dalla
prima impressione è ancora più palese. Quando due maschi alfa di
una certa specie vogliono stabilire una gerarchia, prima di
combattere fanno sfoggio di una serie di rituali di comunicazione
finalizzati alla resa del contendente.
Pensiamo a un cane: dapprima alzerà la coda, poi il pelo, per
apparire più grande, e infine mostrerà i denti. Se tutto questo
cambiamento di «forma» non sarà sufficiente a intimidire l’altro, si
passerà allo scontro fisico.
All’opposto, certi ragni strategicamente fanno finta di essere prede,
mostrandosi inoffensivi, per poi uccidere il predatore che li aveva
sottovalutati.
Negli esseri umani il processo di valutazione iniziale dell’altro
funziona nel solito modo ed è un meccanismo atavico che ha
permesso all’uomo di sopravvivere nel corso dei millenni. Se non
fossimo stati capaci di giudicare il pericolo dalla sua forma –
pensiamo a un predatore o a un serpente velenoso – con molta
probabilità ci saremmo estinti.
Se questo meccanismo della prima impressione è così radicato
nell’uomo da essere una vera e propria dinamica, per non subirlo
non rimane che imparare a gestirlo, sapendo che le sensazioni
suscitate dalla vista dell’altro si tradurranno in una vera e propria
credenza che, una volta formata, sarà difficile da modificare. Ne
consegue che i primi trenta secondi di interazione sono
fondamentali, poiché sono quelli in cui coloro che ci osservano
struttureranno le loro idee su di noi; una volta formata la prima
impressione, andranno alla ricerca di tutti gli elementi che la
confermino o la smentiscano, creando così una vera e propria
profezia che si autodetermina – una supposizione che, per il solo
fatto di essere stata formulata, fa realizzare l’avvenimento presunto,
aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità e
producendo una realtà che senza di essa non si sarebbe verificata
(Watzlawick, 1981).
Immaginiamo per esempio di entrare in ufficio e di scoprire che
due colleghi stavano bisbigliando e che appena ci hanno visto hanno
smesso di farlo. La prima impressione potrebbe essere che stessero
parlando male di noi; se le diamo retta, con molta probabilità il nostro
atteggiamento nei confronti dei colleghi risulterà freddo e distaccato,
inducendo in loro la stessa freddezza e lo stesso distacco. In questo
modo avremo la conferma che i due stavano tramando qualcosa.
Saper gestire quindi la prima impressione rappresenta una
fondamentale competenza per qualunque interazione strategica, che
questa sia un dialogo o una conferenza. Se trascurato, questo
aspetto prioritario del comunicare può dare esiti disastrosi, poiché
per quanto le mie ragioni possano apparire buone e utili, le
impressioni che avrò suscitato nell’altro ne condizioneranno
pesantemente il giudizio.
Se, come visto in precedenza, l’uomo riconosce le forme molto
meglio dei contenuti, quali sono gli elementi che dovranno essere
strategicamente gestiti per creare una buona prima impressione?
La risposta è semplice e al tempo stesso complessa: Tutti quegli
elementi prevalentemente non verbali e visivi che precedono la
comunicazione verbale vera e propria.
In ogni caso, dovremo fare un saltus di paradigma logico,
abituandoci a pensare che una video call ha esattamente lo stesso
valore di un incontro dal vivo, per certi aspetti potenziato, per altri
limitato. Se quindi per un incontro formale dal vivo – meeting
professionale, consulenza aziendale, lezione universitaria, sessione
di psicologia o di coaching o conferenza – ci prepariamo scegliendo i
vestiti da indossare o cercando di curare il nostro aspetto, lo stesso
dovremmo fare per una sessione on line; in entrambi i casi, stiamo
parlando della cosiddetta comunicazione non verbale statica.
Il fatto di essere seduti comodamente sulla sedia della propria
scrivania di casa non deve farci sottovalutare l’impatto del nostro
aspetto sull’altro. Se pensiamo poi che on line possiamo arrivare a
migliaia di persone connesse, prendersi cura della nostra estetica
diventa un must. Questo non vuol dire che dobbiamo vestirci sempre
allo stesso modo, anzi: selezioneremo abbigliamento e accessori in
relazione al tipo di lavoro che andremo a fare e alla tipologia di
persone che andremo a incontrare.
Entrare in scena telematicamente è molto differente dal farlo dal
vivo. Prima di tutto, nella maggioranza dei casi, quella che viene
esposta è la parte superiore del corpo, dalla cintola alla testa, ed è
quindi quella alla quale va prestata particolare attenzione. La postura
delle spalle e quella della testa sono particolarmente influenti; per
renderle erette ma non rigide è importante guardare nello schermo
come se guardassimo all’orizzonte, realizzando ciò che gli
antropologi fisici definiscono «visione vestibolare» (Nardone, 2020),
ovvero allineare lo sguardo con i vestiboli auricolari; questo, infatti,
permette di apparire morbidamente eretti, interessati e accoglienti.
Considerando poi che le attuali videocamere dei pc o dei vari
dispositivi hanno una risoluzione altissima, diventa fondamentale
curare tutti gli aspetti del nostro look: a cominciare dal nostro outfit –
stile e abbinamenti di colore – passando all’acconciatura, al trucco,
ai gioielli, alla barba, agli occhiali, agli orologi e a tutti gli accessori
che possiamo indossare. Tenendo presente che in ambito
telematico, dove l’impatto visivo è amplificato, un’estetica troppo
curata e caricata nei dettagli produce effetti non positivi, è quindi da
preferire un look più sobrio, attento più che altro alla combinazione
dei colori. In altri termini non si dovrebbe apparire in «stile
presidenziale» ma in modalità confidenziale, più «sciolta» e meno
formale, altrimenti la distanza viene rimarcata, divenendo distanza
relazionale. Evitare di essere eccessivamente precisi e
standardizzati nel look protegge da quell’eccesso di perfezione che
crea un senso di irrigidimento nell’interlocutore, che potrebbe
percepirci come «perfettini». Questo, va chiarito, non accade solo
quando si è eleganti, ma anche quando si è «conformisti
nell’anticonformismo».
Al contrario se inseriamo dei piccoli contrasti, come ad esempio
per l’uomo un po’ di barba o un capello più lungo del normale su un
abito elegante, o dei pendenti particolari per una donna, queste
piccole dissonanze susciteranno curiosità o fascinazione. Sono
infatti i contrasti a stimolare la curiosità e non le assonanze formali;
la nostra percezione si ottunde, infatti, di fronte a fenomeni visivi non
stimolanti, mentre attiva le emozioni quando incontra contrasti
all’interno di un contesto armonico.
La comunicazione non verbale statica è ritenuta spesso, a torto,
l’aspetto più controllabile e consapevole, quando in realtà la
percezione che abbiamo della nostra estetica raramente coincide
con ciò che arriva agli altri. E se dal vivo possiamo prestare
attenzione al feedback che riceviamo, on line questa interazione si
riduce al minimo; la maggior parte delle piattaforme permette di
vederci mentre stiamo parlando ma non di vedere il pubblico, o al
massimo di vederne una piccola parte. Quindi, se possiamo
osservare la nostra immagine mentre stiamo lavorando – cosa che
spesso crea più imbarazzo che possibilità di valutazione critica – non
possiamo interagire né misurare il nostro impatto. Questo limite
rende ancor più necessaria un’adeguata preparazione della nostra
immagine.
Dopo aver valutato e pianificato la forma del nostro apparire
entreranno in gioco nella creazione della prima impressione tutti
quegli elementi di comunicazione non verbale dinamica come i gesti,
lo sguardo, la nostra postura dinamica, la mimica facciale e tutti gli
aspetti paralinguistici: il suono della voce, le pause, i toni, i timbri e i
ritmi del nostro eloquio, elementi che verranno analizzati nel
dettaglio nei paragrafi successivi.
Per concludere è bene ricordare che la prima impressione, per
quanto possa essere studiata e pianificata, dovrà sembrare del tutto
normale, spontanea, come se non nascondesse alcuna costruzione,
e che dovrà armonizzarsi con ciò che andremo a dire, ovvero con la
nostra comunicazione verbale. Ciò richiede molto esercizio, sotto
supervisione di un esperto prima e da soli poi, fino a ottenere un
modo di comunicare insieme nuovo e naturale.
Teniamo sempre presente che le sensazioni e le impressioni sono
spesso verità preannunciate che noi stessi creiamo. Con le parole di
Fernando Pessoa: «Tutto ciò che sappiamo è una nostra
impressione, e tutto quello che siamo è una impressione altrui».
Costruire il proprio palcoscenico. Il setting telematico

Il test di ogni casa è se fa sentire


il visitatore a proprio agio.
Philippa Tristam

Se la cura di noi stessi nell’apparire nello schermo rappresenta un


aspetto cruciale del comunicare telematico, non da meno è il setting
da dove ci colleghiamo.
Lo sfondo del collegamento, ovvero ciò che si vede alle nostre
spalle, gioca un ruolo tanto importante quanto troppo spesso
sottovalutato.
Nella maggioranza dei casi, infatti, la cura dell’ambiente che viene
ripreso dalla videocamera viene trascurato e, per quanto possa
apparire un aspetto superficiale, ciò che il soggetto osserva alle
nostre spalle parla per noi nella stessa misura degli altri fattori
comunicativi: la cornice fa cambiare la percezione del quadro.
Vista l’impossibilità per alcuni di organizzare uno spazio idoneo
nelle proprie abitazioni, molte piattaforme danno la possibilità di
inserire sfondi fittizi. A nostro parere è comunque preferibile un
contatto «vero» anche con l’ambiente, e questa soluzione dovrebbe
essere adottata solo in caso di estrema necessità.
Anziché descrivere come organizzare al meglio lo sfondo,
preferiamo stilare qui una lista di elementi da evitare nella creazione
del setting di lavoro.
Per una comunicazione telematica ottimale è meglio eliminare:

Finestre, specchi o pareti di vetro. Dovremmo evitare di


lavorare con alle spalle qualsiasi cosa possa riflettere in
maniera anche minima le immagini. È possibile, soprattutto
quando le videochiamate avvengono in ambito domestico, che
qualcuno della famiglia possa passare nella stanza. Se alle
nostre spalle c’è un vetro o uno specchio, l’immagine potrebbe
essere catturata dalla camera e vista dall’altro infrangendo la
sua privacy e facendoci percepire poco professionali.
Porte o ambienti aperti al passaggio. Per lo stesso motivo,
bisogna assolutamente evitare di posizionarci con alle spalle
una porta o un ambiente sufficientemente grande per far
circolare le persone. Per quanto possiamo essere sicuri che
nessuno ci interromperà, sono ormai innumerevoli i video, alcuni
divertenti ma altri decisamente imbarazzanti, che circolano su
YouTube e sui vari social in cui si vedono passare mogli, figli,
mariti, domestici e via dicendo. La cosa migliore è posizionarci il
più possibile vicino a una parete, in modo da essere certi di non
essere sorpresi «alle spalle».
Luci inadeguate. La luce con la quale la videocamera
riprodurrà la nostra immagine diventa fondamentale. Proprio
come in uno studio televisivo, dovremmo creare un gioco di luci
che restituisca un’immagine nitida di noi. Dovremmo evitare
quindi di lavorare in ambienti troppo bui o con luci che mettano
in ombra parte del nostro volto. La miglior cosa è prediligere
situazioni nelle quali la nostra immagine possa essere vista
senza eccessi di luminosità o di oscurità. Per ottenere questo
risultato è bene fare delle prove e se necessario acquistare luci
diffuse adeguate alle riprese video. Nel caso si voglia
approfondire questo argomento, in rete si trovano numerosi
tutorial; le luci possono essere acquistate a poche decine di
euro.
Sfondi inappropriati. Anche se disponiamo di una stanza o di
uno studio che dal vivo sono molto belli, dobbiamo focalizzarci
esclusivamente sul segmento ripreso dalla videocamera. Se
quindi dietro di noi abbiamo un mobile che si intona benissimo
all’ambiente stanza ma che visto on line sembra un pensile da
cucina, dovremo cambiare sfondo. Potrebbe funzionare meglio
una tenda da pochi euro, che dal vivo ci sembra orribile ma che
on line si intonerà all’ambiente. In generale, eviteremo addobbi
troppo vistosi o fuori contesto.
Posizionarci in modo asimmetrico. Molto spesso si
osservano video call in cui il soggetto è inquadrato male, ovvero
troppo a destra o a sinistra dell’inquadratura. Quello che
dovremmo prediligere è una ripresa centrale in cui il volto non
rischi di essere tagliato fuori dall’inquadratura danneggiando
fortemente l’impatto della nostra comunicazione.
Essere troppo vicini o troppo lontani dalla videocamera.
Nonostante non vi siano regole rigide a proposito della distanza
dalla quale dobbiamo essere ripresi, dovremmo evitare tutte le
posizioni che risultano poco armoniose o troppo artificiali. Anche
in questo caso la miglior cosa è fare delle prove e trovare la
giusta misura che valorizzi la nostra immagine.
Non essere al 100% in quello che stiamo facendo. Può
accadere che, in virtù del fatto che la persona (o le persone) con
cui stiamo interagendo possono vederci solo parzialmente, ci
riteniamo autorizzati a svolgere attività diverse – scrivere un
messaggio sul cellulare, controllare la notifica di un social
network o addirittura scrivere una e-mail. Anche se ci sembra
che queste attività possano passare inosservate, consigliamo di
non farlo: non solo infatti rischiamo di perdere l’attenzione a ciò
che l’altro sta dicendo, ma nel caso fossimo scoperti
perderemmo credibilità. Di nuovo, dobbiamo pensare che
l’incontro virtuale ha la stessa valenza di un incontro dal vivo, e
dal vivo non ci metteremmo (almeno si spera) a guardare il
cellulare mentre l’altro ci sta parlando.
Eccedere nei controlli tecnici. Saper dominare la piattaforma
con la quale lavoriamo è un elemento essenziale. Se decidete di
utilizzarne una nuova e non siete ancora esperti dovete fare
pratica per risolvere eventuali problematiche tecniche. Una volta
che inizia un’interazione dovremmo evitare di eccedere con frasi
del tipo «Mi senti bene?» o «Mi vedi?» che dovrebbero essere
utilizzate solo quando è veramente necessario. Le piattaforme
attuali, se supportate da una buona connessione Internet, non
danno particolari problemi. Anche in questo caso l’obiettivo è
rendere il più naturale possibile l’interazione telematica.
Non essere puntuali. In ambito telematico l’appuntamento
dovrebbe essere rispettato il più possibile nei suoi orari. Se dal
vivo, secondo alcune teorie di management un po’ sui generis
degli anni Ottanta e Novanta, il far aspettare l’interlocutore era
una puntualizzazione su chi deteneva il potere relazionale, in
ambito on line l’attesa è vista in modo pessimo. L’essere
puntuali all’appuntamento telematico è sinonimo di
professionalità e affidabilità proprio per il fatto che l’altro si è
predisposto alla video call. Farlo aspettare davanti a un
computer o a un cellulare non è come farlo aspettare nella sala
di attesa del proprio studio. Nel caso in cui per qualche motivo
fossimo davvero in ritardo, la miglior cosa è avvertire
tempestivamente anche tramite un semplice messaggio. In un
mondo sempre più veloce e sempre più connesso il rispetto del
tempo altrui diventa la colonna portante della professionalità.

Per riassumere, create un setting che vi rappresenti tenendo bene a


mente che l’ambiente parla per e di voi; selezionate quindi cosa
volete che comunichi.
Del resto, con le parole del poeta Wilde: «Non avremo mai una
seconda occasione per fare una buona prima impressione».
Il canto delle sirene. L’utilizzo strategico della voce

Un uccello non canta perché ha una risposta.


Canta perché ha una canzone.
Proverbio cinese

Come vedremo nel paragrafo successivo, il nostro impatto non


verbale, tipicamente l’elemento predominante in un contatto dal vivo,
in ambito telematico perde gran parte della sua forza. È quindi il
paraverbale l’atto comunicativo che predomina da un punto di vista
di influenzamento e persuasione.
Se iniziamo ad ascoltare una voce calda e profonda che
dolcemente ci suggerisce di chiudere gli occhi e ci guida a
visualizzare immagini, alternando un ritmo lento a dolci accelerazioni
e parole sussurrate ad altre ben scandite, nell’arco di pochi minuti ci
troveremo in uno stato di profondo rilassamento e di trance.
Ascoltare la voce del nostro cantante preferito può indurre in noi una
sensazione di piacere che dà i brividi, mentre discutere con una
persona dalla voce stridula potrebbe risultarci insopportabile.
L’utilizzo della voce influenza fortemente i nostri sensi e orienta le
nostre reazioni, e quindi riveste un’importanza fondamentale in
ambito comunicativo.
Saper utilizzare bene la voce non è un dono riservato a pochi eletti
ma il frutto di un apprendimento che può essere allenato con un
esercizio costante.
Roman Jacobson definisce tutti gli elementi che danno vita alla
musicalità del nostro eloquio «aspetti soprasegmentali del
linguaggio», che consistono in pause, ritmo, tono della voce,
immedesimazione e interpretazione di quello che stiamo dicendo.
Analizzando più nel dettaglio tali aspetti dobbiamo tener presente
che il timbro, il tono e il volume della voce dovranno essere modulati
per essere complementari ai movimenti del corpo, ai gesti e
ovviamente al contenuto del discorso, quindi alla parte verbale.
Facciamo alcuni esempi. Se il dialogo che sto tenendo è rilassato
e la mia postura lo è altrettanto, anche il mio paraverbale dovrà
avere un ritmo né troppo veloce né troppo lento, un tono adeguato e
un volume senza sbalzi.
Se dovrò dire qualcosa di importante che rimanga impresso nella
mente dell’altro dovrò fare una piccola pausa, poi aumentare un po’
il volume e abbassare il tono, scandire bene le parole e fare un’altra
pausa alla fine dell’enunciato.
Per far sentire a suo agio colui che ascolta l’eloquio dovrà essere
rallentato, il volume abbassato e il suono della voce moderato.
Se l’obbiettivo invece è stimolare, motivare e «svegliare» l’altro
dovrò aumentare sia il ritmo delle parole sia il volume della voce, ma
in modo armonico, musicale; a tale proposito basta osservare famosi
trainer e coach americani che hanno fatto propria l’arte di utilizzare il
paraverbale tanto da far commuovere intere platee più per come
dicono le cose che per cosa dicono. Del resto, nell’arte teatrale
questa è una delle competenze fondamentali che l’attore deve
acquisire per smuovere l’emozione del pubblico. Anche se stiamo
leggendo delle slide dovremmo ricorrere a un’interpretazione idonea,
evitando una lettura meccanica e priva di enfasi.
Allenare la nostra voce non vuol dire tuttavia seguire corsi di
dizione, anzi: imparando a recitare rischiamo di far sentire la nostra
comunicazione artificiosa, creando diffidenza negli interlocutori.
L’eloquio deve apparire naturale, anche nelle sue più funamboliche
espressioni. Piuttosto, saper gestire la propria voce significa saper
dominare il respiro, poiché è il controllo della respirazione che ci
permette, prima di ogni altra tecnica, di modulare il suono e le
variazioni ritmiche e di volume. In questo senso, l’addestramento
non è lontano da quello di un attore o di un cantante ma, lo
ribadiamo, tutto dovrà apparire naturale senza alcuna finzione
(Nardone, 2015).
Se il nostro lavoro è su scala nazionale o internazionale dovremo
cercare di ridurre ai minimi termini le inflessioni dialettali ed evitare di
«mangiarci le parole» imparando a scandirle per tutta la loro
lunghezza senza tagliarne il suono in fase finale.
Un esercizio molto utile per imparare a gestire la propria voce è la
lettura a voce alta. In questo caso leggendo non ci limiteremo a
riprodurre quanto è scritto ma metteremo in atto una vera e propria
interpretazione, immedesimandoci in ciò che stiamo leggendo ed
esprimendo tutte le emozioni che proviamo, dando enfasi ad alcuni
punti e passando rapidi su altri.
Non è un caso che in quasi tutte le religioni una delle tecniche di
meditazione sia la lettura dei testi sacri a voce alta; così facendo la
possibilità di immedesimarsi in quanto è scritto e il potere suggestivo
della scrittura stessa aprono a nuove comprensioni e nuove
sensazioni. Pensiamo alla ripetizione di mantra o del rosario, di
particolari testi del Talmud o di specifici versi del Corano, in grado di
suscitare uno stato ipnotico sia in chi li recita sia in coloro che
ascoltano, a conferma che l’uso sapiente del paraverbale potenzia
l’effetto suggestivo del nostro parlare e aumenta la nostra capacità di
persuasione.
Un ultimo aspetto da non sottovalutare è che la modulazione della
voce influenza anche lo stato emotivo del parlante. Se aumento il
ritmo del parlato e alzo il volume della voce, si innalzeranno tutti i
miei parametri fisiologici, come in una reazione di forte ansia. Le
stesse sensazioni, per effetto dei cosiddetti «neuroni specchio»
(Rizzolatti, Sinigaglia, 2006, 2019; Rizzolatti, Vozza, 2007) si
trasmetteranno a chi ci ascolta, ovvero si agiterà in quanto ci sente
agitati e ci rifiuterà perché ansiogeni, o semplicemente ci giudicherà
in modo squalificante. Se al contrario rallento l’eloquio e abbasso il
volume, scandendo bene le parole, mi calmerò e aumenterò la
sensazione di autocontrollo. Quando regoliamo la voce controlliamo
indirettamente anche la respirazione (Nardone, 2015).
Per questo motivo se prima di un’esposizione in pubblico, sia
questa dal vivo oppure on line, sentiamo di essere agitati e di
provare ansia, dovremo iniziare il nostro discorso cercando di
parlare lentamente e senza alzare il volume della voce.
Tutto ciò risulta ancora più determinante quando si lavora on line:
dobbiamo imparare a gestire la nostra voce poiché sarà proprio la
sua musicalità a fare la differenza: l’effetto musicale del nostro
eloquio è considerato in ambito telematico l’elemento fondamentale
del processo di persuasione.
L’armonia sonora che le parole creano, unita alla dissonanza
musicale delle frasi pronunciate, toccherà le sensazioni di chi ascolta
molto di più di qualsiasi sofisticata argomentazione; quando stiamo
davanti a uno schermo dovremo tenere sempre a mente che se il
contenuto può influenzare la comprensione è il suono delle parole
che fa «sentire» ed emoziona. Saper quindi selezionare le giuste
parole e saperle interpretare correttamente diventa il cuore della
persuasione on line.
Del resto, con le parole di Victor Hugo: «Ciò che non si può dire e
ciò che non si può tacere, la musica lo esprime».
A me gli occhi, a te il sorriso. Lo sguardo e la mimica
facciale

Si limitò a guardarmi. Quello sguardo


mi disse tutto quello che c’era da dire.
Charles Bukowski

In un’interazione non filtrata da strumentazione tecnica lo sguardo è


indubbiamente l’elemento di comunicazione non verbale più potente
di cui disponiamo.
Facciamo un salto indietro nel tempo e immaginiamo i consiglieri
degli imperatori cinesi che solo con lo sguardo facevano intendere
che una determinata scelta era corretta oppure doveva essere
scartata.
Pensiamo alla suggestione che oggi, attraverso il contatto oculare,
esperti psicoterapeuti strategici riescono a indurre nell’altro, tanto da
creare velocemente uno stato ipnotico (Nardone, 2020).
Infine, ricordiamo la pregnanza degli sguardi di due innamorati o
tra madre e figlio: senza dirsi niente comunicano un sentimento
profondo.
Questi esempi ci mostrano come il contatto oculare sia lo
strumento più potente che possiede un essere umano per
influenzare le altre persone o gli altri esseri. Del resto, la vista è il
senso che maggiormente ha permesso la sopravvivenza del nostro
genere.
Se ben calibrato uno sguardo può provocare, sedurre, infastidire
come anche creare dubbi, rattristare, incutere paura o angoscia; una
sapiente gestione dello sguardo è fondamentale quindi per stabilire
una buona relazione.
In altre opere (Nardone 2020; Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick,
2006) vengono ampiamente descritte le tecniche grazie alle quali,
dal vivo, ci è permesso utilizzare lo sguardo affinché esprima tutta la
sua formidabile potenza nei processi di influenzamento: ma le cose
cambiano quando siamo on line.
La strumentazione tecnologica riduce l’impatto dello sguardo e
azzera il potere suggestivo e ipnotico del gazing, ovvero del contatto
oculare persistente, e la mancanza di profondità dovuta
all’appiattimento delle proporzioni nella visione bidimensionale, unita
al fatto che l’immagine è una riproduzione, per quanto ben fatta,
della nostra immagine, ci impedisce di utilizzare in maniera efficace
quello che è stato per millenni il caposaldo della comunicazione
umana e di tutti gli animali. È per questo che abbiamo dato grande
risalto, nel paragrafo precedente, all’utilizzo della voce: poiché è
quest’ultima che on line assume il ruolo di elemento dominante nella
persuasione e nell’influenzamento dell’altro.
In ambito telematico è praticamente impossibile essere certi che
chi abbiamo virtualmente di fronte ci stia guardando negli occhi; e se
anche così fosse, l’effetto sarebbe del tutto differente rispetto a una
comunicazione one to one «live».
Dal vivo, infatti, guardare fisso e prepotentemente negli occhi una
persona provoca in lei una sensazione di irrigidimento che fa
emergere una sensazione atavica di fuga o aggressione; a prova di
ciò, basterebbe una citazione etologica: se tu punti il tuo sguardo
dritto negli occhi di un cane sicuro di sé e tendenzialmente reattivo,
questi ti aggredirà per difesa, poiché tale comunicazione
rappresenta una vera e propria sfida aggressiva (Nardone, Loriedo,
Zeig, Watzlawick, 2006). Ma lo sguardo è anche in grado di sedurre
più di ogni altro tipo di comunicazione – si pensi al colpo di fulmine,
quella sorta di rapimento dei sensi che ha luogo in un attimo di
incrocio di sguardi. Uno sguardo intenso, dolce e appassionato è in
grado di sciogliere qualunque gelo relazionale, di commuovere, farci
sentire uniti all’altro e compresi anche nelle nostre fragilità. In ambito
digitale questo non accade; on line ci possiamo vedere ma non
possiamo stabilire un contatto oculare interattivo.
Quello che viene al contrario evidenziato in una comunicazione
telematica sono le microespressioni facciali (Ekman, 1975). Questo
per due motivi: il primo è che la comunicazione digitale è rallentata
rispetto a quella dal vivo, e ciò permette di osservare meglio l’altro.
In secondo luogo, poiché siamo meno impegnati da un punto di vista
sensoriale, la nostra attenzione è maggiore e quindi è maggiore la
nostra capacità di osservazione.
Per questo lo strumento, assieme alla voce, sul quale dobbiamo
puntare per ottenere una comunicazione efficace on line è l’insieme
dei movimenti e delle espressioni del nostro volto, a cominciare dal
sorriso.
Appare lapalissiano affermare che un sorriso attenua le eventuali
tensioni e predispone al contatto interpersonale, così come i cenni di
conferma da parte del nostro ascoltatore ci fanno sentire sicuri e
gratificati (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). Dobbiamo
però stare attenti a non esagerare con il sorriso: se eccessivo o
ostentato potrebbe essere percepito come falso, ottenendo così un
effetto di rifiuto e resistenza (pensiamo a certe figure del mondo
politico).
Vediamo nello specifico tre tipologie di sorriso:

Sorriso a bocca aperta. In questo caso il sorriso è il preludio a


una vera e propria risata e andrebbe utilizzato solo nei casi in
cui ci sia veramente da ridere.
Sorriso a bocca chiusa. È la tipologia di sorriso che
consigliamo di usare di più. La sua poliedricità permette un
utilizzo in più contesti e situazioni: ad esempio, può essere
utilizzato per ricercare un accordo, per smorzare una situazione
di tensione, in fase di accoglienza o di saluto come per creare
sintonia ed empatia.
Sorriso con la bocca chiusa e le labbra rivolte verso
l’interno della bocca. Questa tipologia di sorriso va utilizzata
solamente in quelle situazioni in cui l’altro ci sta raccontando
qualcosa di triste o doloroso. Accennare il sorriso rivolgendo le
labbra verso l’interno, accompagnando il gesto con gli occhi
chiusi, trasmette nell’altro le sensazioni di condivisione e
comprensione del proprio dolore.

In ogni caso è bene ricordare che l’impatto del sorriso cambia in


relazione al tipo di sguardo che utilizzerò: infatti basterà aprire o
chiudere di più gli occhi per cambiare il significato del nostro sorriso.
Di particolare importanza è «l’effetto pupilla dilatata» (Nardone,
2020; Sirigatti et al., 2008), ovvero l’associare al sorriso uno sguardo
che dilata le pupille e le rende più luminose, sperimentato come uno
dei più potenti effetti suggestivi e seduttivi. Non è facile imparare a
riprodurre volontariamente questa espressione non verbale che ci
viene naturale nei momenti di intenso piacere o sorpresa, ma con un
buon addestramento ci si può riuscire; i risultati renderanno merito
allo sforzo.
Un altro elemento importante da utilizzare in ambito telematico è
l’ammiccamento.
Gladwell (2000) ha evidenziato che se durante una negoziazione
riusciamo a stabilire una dinamica di ammiccamento non verbale
con l’altro le possibilità di riuscita e di trovare un accordo aumentano
del 70%.
Per quanto riguarda la mimica facciale, non necessariamente
dobbiamo rispettare i criteri di coerenza con il verbale, anzi: talvolta
sono proprio il contrasto o la contraddittorietà di questi due piani a
produrre un grande impatto comunicativo.
In particolare, ci sono situazioni in cui comunicare in maniera
ambivalente può servire a sbloccare le rigidità dell’interlocutore: ad
esempio, dire qualcosa di tagliente con un sorriso sereno, una
mimica facciale rilassata e uno sguardo dolce (Nardone, Loriedo,
Zeig, Watzlawick, 2006).
Un uso sapiente di mimica facciale unita e paraverbale ci permette
di aumentare la capacità di suggestione nell’altro anche on line.
Anche in questo caso andiamo a indicare gli errori da evitare quando
siamo davanti a una videocamera.
Guardare fuori dallo schermo. Può capitare che durante il
lavoro on line il nostro sguardo sia catturato da qualcosa nella
stanza. Dovremmo evitare il più possibile di girare lo sguardo
distogliendolo dallo schermo poiché l’interlocutore non può
capire cosa stia accadendo. Questo porta a una perdita
dell’attenzione e può provocare nell’altro l’idea che qualcuno di
estraneo stia ascoltando. Se invece abbassiamo lo sguardo e lo
riportiamo alla camera, daremo l’impressione che stiamo
riflettendo e che siamo interessati, ma non dobbiamo esagerare,
cercando di rivolgere il più possibile lo sguardo alla
videocamera.
Guardare lontano dalla videocamera. Anche se manteniamo il
nostro sguardo all’interno dello schermo ma l’immagine che
stiamo osservando è lontana dalla videocamera, l’interlocutore
noterà chiaramente che non siamo allineati e si troverà costretto
a interloquire con qualcuno che guarda altrove. Si dovrebbe
guardare il più possibile la videocamera; per semplificarci
questo compito, dovremmo posizionare l’immagine dell’altro o la
nostra in prossimità della videocamera stessa.
Giocare con le espressioni facciali. Osservando la nostra
immagine sullo schermo potremmo essere incuriositi dal vedere
come appariamo e divertirci a modificare le nostre
microespressioni facciali. Meglio evitare questo «gioco», che
può facilmente rapirci e distoglierci dal contatto con gli
interlocutori. Se è vero che on line le espressioni facciali
risultano più evidenti e potenti, dovremmo evitare di ripeterle
troppo spesso: ciò infatti ne sminuisce l’effetto, rendendole
prevedibili invece che stimolanti e sorprendenti.

Per concludere: saper utilizzare il nostro sguardo, adeguatamente


combinato con il sorriso e la mimica facciale, è importante per
comunicare efficacemente on line, anche se la potenza di questi
strumenti risulta ridotta rispetto a quella che esprimono in un
incontro dal vivo.
Riprendendo le parole del famoso poeta persiano Abu Mohammad
Mosleh ebn Abdolla¯h, più conosciuto come Shira¯zi: »Un bel viso è
la chiave di molte porte chiuse».
Il corpo come strumento. La prossemica, la postura e
i gesti

Ogni gesto di un essere umano


è sacro e pregno di conseguenze.
Paulo Coelho

Della comunicazione non verbale fa parte anche l’insieme di


posizioni e movimenti di tutto il corpo. Se è vero che essi segnalano
lo stato emotivo del soggetto, bisogna mettere in conto che la
postura, i gesti delle mani come i movimenti della testa o dei piedi
cambiano significato a seconda del contesto culturale. Per questo
non se ne può avere un sistema di decodifica unica e replicabile,
come invece riportano molti testi sull’argomento che, non a caso, il
più delle volte non sono redatti da studiosi qualificati ma da coach,
motivatori e altre figure nel campo della crescita personale e del
coaching. Pensare che certe posture possono avere un significato
univoco – come quando si associano invariabilmente le braccia
conserte a un atteggiamento di chiusura – significa basarsi su
credenze infondate, come dimostrato da Ekman e Friesen (1975).
Basti pensare che se nel mondo occidentale per annuire è ormai
codificato il movimento dell’abbassare e alzare la testa un paio di
volte, in India per annuire si sposta la testa di lato, movimento che
nella nostra cultura fa pensare molto più a un gesto di diniego.
La convenzionalità di certi gesti insegna a non temere che cose
come toccarsi il naso, sistemarsi i capelli o accarezzarsi la barba
indichino per forza che una persona stia mentendo o che sia agitata,
come sostengono alcune credenze popolari. Al contrario, se sono
armonizzati con gli altri aspetti comunicativi, questi gesti ci faranno
apparire interessati e coinvolti nell’esposizione dell’altro. Analizzare
un solo fattore e i suoi possibili effetti senza considerare il contesto e
la sua interazione con il fluire costante del comunicare è
un’operazione riduzionista e poco utile alla effettiva conoscenza
operativa di questa parte dellla comunicazione non verbale
(Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006).
In ambito telematico, dato che la maggior parte delle volte la
ripresa è a mezzo busto, dovremo gestire bene i movimenti della
testa e delle mani, sapendo mantenere una postura adeguata.
Se vogliamo entrare in sintonia con l’altro i movimenti della testa
dovranno essere morbidi, in un’alternanza di immobilità e di cenni di
assenso; se desideriamo far trasparire interesse possiamo inclinare
leggermente la testa verso destra o verso sinistra per qualche
secondo, per poi ritornare al centro.
Al movimento della testa possiamo aggiungere il toccarsi il volto; in
questo caso i movimenti dovranno essere lenti e circolari, come
quelli di un massaggio, evitando gli scatti e la rapidità tipici del
grattarsi.
Quando gesticoliamo dobbiamo prestare attenzione che il gesto
sia catturato dalla videocamera. Può capitare infatti, trascinati dal
flusso della comunicazione, di rafforzare la parte verbale con
movimenti delle mani, che però non vengono colti dall’interlocutore
perché non vengono ripresi dalla telecamera.
Attenzione anche che il movimento delle mani non copra il nostro
volto: il risultato, in una rappresentazione priva di tridimensionalità,
sarebbe quello di mettere un’immagine sopra un’altra, nascondendo
il viso.
La postura dovrebbe essere plastica, mai forzata o rigida;
dovremmo mantenerci centrati, evitando rilasciamenti e
«sbracamenti» disarmonici. Ricordiamo che l’interlocutore non ci
vede nella nostra interezza, e che potremmo trasmettere
un’immagine di svogliatezza, eccesso di relax e, per questo, di
scarsa professionalità.
Nella stessa misura, un eccesso di rigidità nella postura trasmette
tensione e quindi una sensazione di scarsa sicurezza da parte di chi
comunica.
Per quanto riguarda la prossemica, dovremo avvicinare il corpo
allo schermo quando vogliamo trasmettere interesse o quando
stiamo per dire qualcosa di importante, sempre mantenendo
flessibilità e armonia nei movimenti.
Di particolare rilievo nella comunicazione corporea telematica sono
i movimenti della testa, sia in alto e in basso che di lato e in avanti e
indietro, non solo perché lo schermo mette in risalto questa parte del
corpo, ma anche perché, come è ben noto agli esperti ipnotisti, certi
movimenti sono decisamente suggestivi nel mantenere l’attenzione
dell’interlocutore e nell’influenzarlo. Mai dimenticarsi, a questo
riguardo, degli incantatori di serpenti, i quali ipnotizzano l’animale,
sordo, non con il suono del flauto bensì con i loro movimenti della
testa associati allo sguardo, in costante contatto oculare con quello
del rettile.
È bene sottolineare ancora che tutti gli elementi fin qui analizzati
devono armonizzarsi con i cambiamenti nel tono della voce e con le
pause, le accelerazioni e i rallentamenti dell’eloquio; in altre parole
gli aspetti non verbali, paraverbali e verbali dovranno essere
sintonizzati e armonizzati tra loro per ottenere un’interazione
suggestiva e persuasoria.
Del resto è noto che «l’insieme è molto più della somma delle
parti».
Capitolo 3
La persuasione digitale

Quando si vuole rimproverare con utilità, e mostrare


a un altro che egli si inganna, bisogna osservare
da qual verso egli considera la cosa, perché generalmente
da quel verso lì essa è giusta, e riconoscergli questa verità,
ma svelargli quell’altro verso da cui essa è falsa.
Blaise Pascal
Fraintendimenti, ripetizioni e ridondanze
Un uomo cammina per strada avendo dimenticato il telefono e l’orologio a casa.
Temendo di fare tardi al lavoro e non sapendo che ore siano, ferma una passante
e le chiede: «Mi scusi, sa che ore sono?»
La donna si gira, lo guarda negli occhi e risponde: «Certo che so che ore sono».
L’uomo aspetta qualche secondo, speranzoso, dopodiché chiede: «Può dirmi che
ore sono?»
«Sì, posso dirglielo».
L’uomo interdetto replica: «Ha un orologio?»
«Sì, certo! Ho un orologio».
L’uomo stupefatto ribadisce: «Ha capito cosa le ho chiesto?»
«Certo che ho capito».
A questo punto, attonito l’uomo esclama: «Che ore sono?!»
«Le otto e cinquanta» risponde la donna tranquillamente.

Questo esempio evidenzia come la nostra intenzione di comunicare


qualcosa non necessariamente coincida con l’effetto che creiamo.
Questo simpatico dialogo risulta un po’ sui generis, ma non è raro
imbattersi in dinamiche di fraintendimenti comunicativi di questo tipo
nel nostro quotidiano.
Tutti abbiamo discusso almeno una volta nella vita con il nostro
partner su qualcosa che era stato frainteso; oltre il 90% dei litigi che
avvengono dentro le mura domestiche sono basati più sul «come» è
stata detta una certa cosa rispetto al «cosa» è stato detto.
Frasi del tipo «hai ragione, ma il tono con il quale mi hai detto
quella cosa mi ha fatto arrabbiare» oppure «il mio capo ha detto di sì
al progetto ma non mi sembrava convinto. Proverò a chiederlo di
nuovo» esprimono interpretazioni, spesso erronee, che abbiamo
dato a una certa comunicazione. Risposte del tipo «Perdonami, non
era mia intenzione farti stare male. Volevo solo dirti che…» oppure
«Mai avrei voluto farti pensare questo di me per quello che ho
detto…» sono le classiche reazioni di chi, volendo trasmettere un
certo messaggio, ne fa arrivare un altro. Nella comunicazione conta
molto di più ciò che arriva, ovvero la sensazione che si attiva nel
destinatario del messaggio, dell’intenzione di chi comunica.
Certamente le intenzioni personali sono determinanti e non vanno
trascurate, ma in un processo di comunicazione, nei suoi effetti
pragmatici, ciò che innesca il senso della relazione e determina
l’efficacia del comunicare è ciò che l’altro effettivamente percepisce,
non ciò che io avrei voluto che capisse o sentisse.
Quando comunichiamo dobbiamo cercare di essere il più strategici
possibile rispetto all’effetto che vogliamo ottenere.
A tale proposito Platone ammoniva: «Un discorso chiaro e perfetto
è determinato da quattro cose: da ciò che bisogna dire, da quanto
bisogna dire, dalle persone a cui bisogna rivolgersi e dal tempo in
cui bisogna dirlo. Quello che bisogna dire deve apparire utile a chi
ascolta; quanto bisogna dire deve essere né più né meno di quello
che è sufficiente per farsi capire; quanto alle persone a cui ci si
rivolge, bisogna tenerne bene conto; quanto al tempo, bisogna
parlare nel momento opportuno, né prima né dopo. Diversamente
non si parlerà bene e si andrà incontro a un insuccesso» (cit. in
Roncoroni, 1993).
Il frainteso è alla base di qualsiasi insuccesso relazionale e
comunicativo; al contrario, saper comunicare efficacemente significa
raggiungere gli obiettivi prefissati nel minor tempo possibile e con la
massima efficacia.
A tale proposito vale l’esempio della coppia di giovani che esce a
cena per la prima volta.

Lei molto curata, amante dello sport e del tenersi in forma; lui più intellettuale e
meno incline allo sforzo fisico, tanto da essersi sempre vergognato di un corpo
magro e tutt’altro che atletico.
La serata è perfetta e culmina con un ultimo drink a casa di lui, preambolo di
quella che sarà una notte di passione.
La mattina successiva, mentre stanno facendo colazione, tra un gesto di affetto e
una battuta lei pronuncia questa frase: «Per me l’aspetto fisico è la cosa più
importante».
Per lui è come ricevere un colpo da k.o. da un peso massimo. Una doccia fredda.
Pensa al suo corpo, non proprio tonico, agli addominali inesistenti e ai pettorali
invisibili. Si blocca e non riesce a rispondere.
Dopo una cena meravigliosa e una notte stupenda sente di non meritare un tale
affronto. La colazione finisce e i due si salutano.
Lui decide di non richiamarla, ritenendo di non essere all’altezza degli standard di
lei; probabilmente, pensa, era abituata a uomini palestrati, e la notte trascorsa
insieme è stata solo divertimento. Al contrario, lei sta volando al settimo cielo,
idealizzando nel pensiero il suo fascinoso intellettuale. Non vede l’ora di ripetere
l’esperienza.
Nei giorni seguenti aspetta una chiamata di lui, che puntualmente non arriva.
Prova quindi a chiamarlo ma niente da fare: non riceve risposta.
Triste e delusa, decide di lasciar perdere: lui è come gli altri, pensa.
Se solo lui avesse capito che con la frase «Per me l’aspetto fisico è la cosa più
importante intendeva che aveva decisamente apprezzato gli abbracci e le carezze
della notte appena trascorsa, ovvero il contatto, non l’estetica bensì la relazione
fisica, si sarebbe comportato in modo totalmente differente.
Allo stesso modo, se lei avesse scelto con più cura le parole e i modi per
comunicare ciò che voleva trasmettere, il fraintendimento non avrebbe avuto luogo
e la relazione sarebbe continuata.

Se la possibilità di essere fraintesi è già alta in una interazione dal


vivo, le cose si complicano quando stiamo comunicando davanti a
uno schermo; se la precisione strategica di una comunicazione è
sempre necessaria lo diventa ancora di più quando comunichiamo in
via telematica.
Purtroppo la correttezza del linguaggio, come si potrebbe pensare,
non può essere il solo rimedio alla possibilità di fraintendimenti, e per
questo dobbiamo utilizzare di più quella che, nello studio della
comunicazione strategica, viene definita ridondanza, da non
confondere con la ripetizione.
Se quest’ultima è la possibilità di intensificare un concetto
utilizzando le stesse strutture linguistiche, la ridondanza si concentra
sull’evidenziare lo stesso messaggio utilizzando schemi comunicativi
simili o del tutto differenti. Se la ripetizione si focalizza sugli aspetti
sintattici, la ridondanza si concentra sull’aspetto semantico, ovvero
sul significato che vogliamo trasmettere, riproposto in forme diverse
e suggestive.
Aggiungiamo anzi che le ripetizioni, da un punto di vista strategico,
sono da evitare poiché provocano nell’interlocutore un effetto
esattamente opposto a quello che vogliamo ottenere, ovvero il rifiuto
o la censura per avversione dell’enunciato ribadito. Ad esempio, se
vogliamo vendere qualcosa il modo migliore non riuscirci è di
ripetere le stesse frasi usando le stesse modalità comunicative: in
quanto verremo percepiti come insistenti e fastidiosi. Se invece ci
focalizziamo sui benefici che l’acquisto porterebbe e li descriviamo
più volte ma usando modi e termini differenti faremo entrare più in
profondità il messaggio senza risultare pressanti, creando così una
suggestione persuasoria. In questo caso stiamo usando la
ridondanza.
A scopo didattico è utile distinguere l’uso della ridondanza durante
la fase di ascolto e comprensione dall’uso nell’ingiunzione di
un’indicazione.
Paul Watzlawick descrive il concetto di ridondanza come l’insieme
di schemi comunicativi osservabili durante un’interazione. Osservare
ciò che viene ripetuto a livello linguistico e comportamentale
permette di delineare le caratteristiche generali di un sistema o di un
singolo soggetto nei confronti della propria realtà.
In altre parole, essere capaci di osservare le ridondanze
comunicative dell’altro aiuta a intuire quello che è il suo sistema
percettivo reattivo,4 ovvero il suo modello di percezione e reazione
nei confronti della realtà. Quest’intuizione dovrà essere poi
comprovata dall’analisi delle ridondanti strategie di tentata
soluzione5 da lui adottate per affrontare le sue problematiche o
difficoltà.
Per descrivere l’effetto che produce l’osservazione della
ridondanza, Watzlawick usa il gioco degli scacchi.
Assumiamo il gioco degli scacchi come un modello concettuale e
supponiamo che vi sia un soggetto esterno che osserva la partita in
corso senza conoscere le regole.
L’osservatore noterà presto che il comportamento dei giocatori
mostra diversi gradi di ripetizione e di ridondanza, da cui si possono
trarre conclusioni abbastanza indicative. Ad esempio, si potrà
facilmente notare che vi è un susseguirsi di mosse, ovvero che dopo
una mossa di un giocatore è l’altro che deve muovere un pezzo sulla
scacchiera.
Più difficoltoso, ma comunque possibile, sarà dedurre le regole
che i giocatori seguono per muovere i pezzi: osservando, per
esempio, che gli alfieri si muovono solo in diagonale mentre le torri
lo fanno solo in orizzontale, e così via. Minore è la ridondanza
osservata, maggiore sarà la difficoltà di comprensione: in questo
caso dipenderà sia dall’irregolarità della frequenza con cui si
spostano i singoli pezzi, sia dalla quantità di mosse che si possono
fare. Estremamente complesso sarà quindi identificare e dedurre le
regole di mosse poco frequenti come per esempio l’arrocco
(Watzlawick, 1971).
La cosa che più meraviglia nel saper osservare le ridondanze è la
possibilità di dedurre regole o schemi senza chiedere alcuna
informazione; l’osservatore potrà dedurre in maniera corretta le
regole generali del gioco degli scacchi senza aver chiesto niente.
Sviluppare la capacità di osservare le ridondanze diventa quindi un
elemento essenziale per comunicare efficacemente, poiché ci
permette di sintonizzarci con i modelli mentali, emotivi e
comportamentali dell’altro e quindi di attivare con lui un processo
comunicativo persuasorio.
Del resto, già Aristotele così ammoniva i suoi allievi: «Coloro che
scrivono discorsi ottengono successo più per l’elocuzione che per il
pensiero».
L’argomentazione, la retorica e la sintonia

Le affinità cominciano a essere interessanti


quando producono separazioni.
Johann Wolfgang von Goethe

Dammi grazia, o Signore, di riconoscere appieno, se prima ti si debba lodare o


invocare, se la conoscenza di Te debba precedere l’invocazione.
Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare
una cosa per un’altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti?
Ma come si invocherà colui in cui non si crede?
E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?

Sant’Agostino apre così le sue Confessioni (sant’Agostino, 1974),


con una serie di domande e risposte che magistralmente portano il
lettore a riflettere sulla propria conoscenza di Dio, in un monologo
che appare molto più di una semplice riflessione poiché mette in
dubbio la certezza della conoscenza di Dio fino a introdurre la
necessità di una guida: «E come si può credere senza qualcuno che
ti faccia conoscere?» Il lettore è dolcemente indotto a lasciarsi
condurre nel cammino di conoscenza di ciò che non sa.
Se il santo vescovo di Ippona avesse iniziato la sua opera
affermando che il lettore non conosceva Dio, e che ciò che credeva
di sapere erano semplicemente fantasie prodotte dalla sua
ignoranza, probabilmente il suo testo avrebbe avuto molto meno
successo; al contrario è considerato una pietra miliare della
cristianità.
Questo splendido esempio ci introduce all’argomento della nobile
arte della persuasione e in particolare dell’abilità di condurre a sé
l’altro attraverso sofisticate manovre di argomentazione.
Ricordando l’affermazione del barone Thomas Macaulay: «Lo
scopo dell’arte oratoria presa di per sé non è la verità ma la
persuasione», in accordo con Elster (1979) riteniamo che siano due
le grandi scuole di questa disciplina: quella che fa capo a Cartesio,
di matrice aristotelica razionalista, e quella che fa capo a Pascal, di
natura sofista e suggestiva (Watzlawick, Nardone, 1997). La prima
fonda il processo persuasivo sulla ragionevole dimostrazione
intellettuale: in altri termini, l’argomentazione e la dimostrazione
razionale, fondate sulla logica aristotelica dei principi di identità, di
non contraddizione e del terzo escluso, divengono il cardine del
convincimento dell’altro. Si ritiene così che, una volta condotta la
persona a conoscere il «vero», a evitare le contraddizioni e a essere
coerente con tali presupposti, il processo persuasorio sia realizzato.
La persuasione passa cioè attraverso la condivisione dei contenuti
semantici proposti, raggiunta dialetticamente mediante una disputa o
negoziazione razionale e dimostrativa (Nardone, Mariotti, Milanese,
Fiorenza, 2000).
La prospettiva strategica, al contrario, si fonda sulla retorica sofista
e sull’uso di suggestioni e quindi non si baserà sui contenuti, quanto
piuttosto sulla forma della comunicazione in grado di produrre
determinati effetti pragmatici (Nardone, 2020).
Un esempio illuminante di questa attenzione alla forma la fornisce
Cicerone nel suo De oratore, elencando le modalità per rendere
un’argomentazione persuasoria: assumere inizialmente una
posizione dimessa per poi esporre le tesi forti, convalidandole con
citazioni o esempi di grandi personaggi; sorvolare velocemente sugli
argomenti deboli; indugiare e tornare su quelli forti cambiando le
parole usate, ma mantenendone fermo il senso; chiudere con un
suggestivo «effetto eco» tramite un’immagine o una formula
evocativa che si fissi nella mente di chi ascolta (Nardone, 2015).
Saper argomentare in maniera efficace è dunque la modalità con
la quale si presenta una determinata tesi per renderla accettabile. Il
primo obiettivo da raggiungere in un processo di argomentazione
strategica è quello di rendere la propria posizione prima affascinante
e poi ragionevole, successivamente avvincente e infine quella più
corretta tra tutte le possibili; si tratta quindi di cambiare il significato
delle cose attraverso la forma con cui vengono organizzate e
presentate (Nardone, 2015). Possedere una buona capacità retorica
di questo tipo significa anche sviluppare quella flessibilità nella
comunicazione tale per cui possiamo adattare il nostro eloquio in
relazione a chi abbiamo davanti. Gli oratori esperti sanno valutare
molto bene il contesto e il pubblico al quale si stanno rivolgendo e
per questo sanno modulare il proprio parlare: in modo semplice con
persone semplici e in modo articolato con un pubblico più
specialistico.
Altra caratteristica fondamentale della capacità retorica è il saper
esprimere compiutamente il proprio pensiero e le proprie posizioni
senza mai farle apparire le uniche valide, ma semmai le più efficaci.
Questo vuol dire evitare sentenze dirette e, al contrario, argomentare
in forma raffinata attraverso un sapiente uso del linguaggio, che
deve essere chiaro e accessibile ma fare anche uso di parafrasi,
analogie, antinomie logiche sorprendenti e proporre diversi punti di
vista, il tutto in modo da convogliare «naturalmente» verso ciò che si
vuole far sentire e comprendere all’interlocutore. Un’argomentazione
strategica deve riuscire a produrre un effetto di naturalezza, come di
acqua che scende dall’alto al basso.
A tale scopo, come abbiamo trattato in altri testi dedicati a questo
tema (Nardone, 2015; Nardone, 2020; Nardone, Watzlawick, 1990),
il comunicatore strategico deve possedere oltre che notevoli abilità
da performer del linguaggio non verbale e paraverbale, elevate
competenze retoriche. Tutto ciò rappresenta la base necessaria
perché il comunicare, che come abbiamo visto è un atto complesso,
sia svolto fluidamente e con naturalezza e che, in virtù di ciò, tra gli
interlocutori si crei un’atmosfera di sintonia. Una particolare
connessione relazionale che non è empatia, bensì interazione che fa
convergere il sentire degli interlocutori; un flusso comunicativo grazie
al quale tra i soggetti coinvolti si crea una sorta di armonica e
compiaciuta danza che potrà evolvere in relazione empatica oppure
rimanere una semplice emozione di piacevole contatto con l’altro.
Con il quale possiamo continuare ad avere anche opinioni differenti
e discutere, godendo dello scambio di vedute. Il dialogo così fluisce
senza ostacoli e vi è un armonico scambio relazionale e intellettuale
dove sia noi che l’altro siamo concentrati ma senza sforzo, attenti
ma non controllanti, focalizzati ma percettivi, pertanto aperti allo
scambio emozionale e cognitivo e per questo al cambiamento.
Favorire la sintonia è una parte importante dell’arte retorica, e a tal
scopo si deve strategicamente assumere la posizione relazionale
complementare a quella dell’altro e non necessariamente ricalcarne
le modalità: divenire l’altra parte del dialogo, dello scambio di vedute
e di intelligenze, come indica l’etimo di questa parola. Creare questo
armonico scambio dà la possibilità di aprire a nuove prospettive
entrambe le menti in interazione. Per farlo, piuttosto che andare alla
ricerca di un accordo negoziale sui contenuti o fare da specchio
all’altro senza aggiungere nulla allo scambio comunicativo, come
viene indicato dai fautori dell’empatia, sarà decisiva la forma della
propria comunicazione.
Parafrasando Goethe, ci si associa più per affinità che per
somiglianza. E, come insegna l’antica saggezza cinese, «La parola
qui non serve a parlare, ma a indurre l’altro a farlo; essa non mira a
esprimere il proprio sentire, ma a fare in modo che l’altro mostri il
suo: così da poter adattarsi a lui e, di conseguenza, essere bene
accolti e, conseguenza ulteriore, creduti» (Jullien, 1996).
All’inizio era il Verbo.
La parola, il linguaggio e la struttura dell’eloquio

I limiti del mio linguaggio costituiscono


i limiti del mio mondo. Tutto ciò che io
conosco è ciò per cui ho delle parole.
Ludwig Wittgenstein

La potenza della parola e delle sue conseguenze è nota sin


dall’antichità, basti pensare alle parole con cui si apre il Vangelo di
Giovanni: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo
era Dio».
«Noi viviamo in un universo semantico» osservavano Maturana e
Varela (1984), ovvero la costruzione della nostra realtà è un continuo
scambio tra percezione, reazione e la sua espressione linguistica
che a sua volta ridetermina una nuova percezione – ovvero il
percepito – dove ciò che vogliamo comunicare viene trasformato in
linguaggio attraverso la parola.
Va da sé che scegliere determinate parole piuttosto di altre per
descrivere un certo fenomeno creerà effetti differenti sia
sull’interlocutore che su noi stessi. Una comunicazione efficace
richiede un’adeguata selezione delle parole nella composizione
dell’enunciato. Dire a una persona «Il tuo problema è…» invece di
«La tua criticità è…» traccerà una differenza e provocherà un
cambiamento nella percezione della realtà che sta vivendo.
«Le parole in origine erano magiche» è la citazione biblica che
Freud utilizzava per evidenziare il potere della parola e del dialogo
tra l’analista e il paziente. La magia della parola consiste quindi nella
creazione di sensazioni, percezioni e immagini che andranno a
costituire la realtà soggettiva di ogni individuo.
In ottica strategica i problemi e le soluzioni sono il prodotto
dell’interazione tra il soggetto, la realtà percepita e la comunicazione
che si instaura con sé stessi, gli altri e il mondo. Austin asseriva che
la nostra interpretazione della realtà dipende dalle categorie che noi
imponiamo al mondo, e quelle sono per la maggior parte linguistiche:
ovvero, la nostra realtà è prodotta dal nostro linguaggio.
Un avvenimento cambia di significato in relazione a come noi lo
descriviamo, ed è qui che nasce la realtà di molte realtà: non esiste
un mondo, ma tanti mondi diversi, un numero immensamente
grande di mondi e realtà da comunicare e da comunicarsi
(Skorjanec, 2000).
L’insieme delle parole e dei loro effetti forma il linguaggio. Il
linguista Roman Jacobson si è occupato delle funzioni del linguaggio
suddividendole per categorie; di particolare rilievo per la
comunicazione telematica sono quelle che Jacobson definisce la
funzione fatica, la funzione conativa, quella referenziale e infine
quella evocativa.
Per funzione fatica si intende la cattura dell’attenzione attraverso
l’utilizzo di suggestioni o enunciati che sorprendano l’interlocutore.
Dovremmo sempre iniziare il nostro eloquio con un enunciato
evocativo: un aforisma sorprendente, un breve racconto, una
massima illuminante o una citazione potente. L’obiettivo è svegliare
l’interesse di colui o coloro che si sono collegati per ascoltarci e
catturarne immediatamente l’attenzione.
Un’altra modalità consiste nel porre un dubbio e stimolare una
riflessione su un determinato argomento, come abbiamo visto fare
magistralmente da sant’Agostino nell’incipit delle Confessioni. Si
tratta di una tecnica in cui erano maestri gli oratori della Scolastica
medievale.
Dopo aver catturato l’attenzione dell’uditorio dovremmo passare
alla fase successiva, quella in cui opera la funzione conativa: qui
esporremo l’oggetto della nostra comunicazione nel modo più
semplice ed esplicito possibile, utilizzando esempi concreti o calzanti
analogie per rafforzare le argomentazioni logiche e descrittive. Far
ricorso all’utilizzo di citazioni ed esempi illustri dà maggior vigore e
credibilità ai significati espressi.
Per potenziare questa fase è molto utile la funzione referenziale:
per esempio citare precise fonti storiche e dati di ricerca, fornendo i
«numeri» e gli esiti degli studi sistematici relativi al tema, per poi
procedere con esempi di esperienze dirette o reali casi trattati.
In tutto questo, fondamentale è l’utilizzo di un linguaggio sia logico
sia analogico. Questa sofisticata tecnica retorica necessita di
un’esposizione particolareggiata e verrà spiegata nel dettaglio nel
prossimo paragrafo.
Infine dovremo concludere il nostro intervento con un enunciato
che rimanga nella mente di chi ci ascolta, creando il cosiddetto
effetto eco (Nardone, 2015).
Possiamo cosi riassumere la struttura di un eloquio strategico in
ambito telematico:

Aprire l’intervento in modo tale da catturare l’attenzione e


sorprendere l’uditorio.
Esporre in maniera semplice e concisa l’obiettivo e i concetti
principali.
Argomentare le nostre tesi attraverso l’utilizzo di referenze
storiche, scientifiche, aneddoti personali e storie reali.
Utilizzare un linguaggio sia logico che analogico.
Chiudere con un enunciato a effetto eco.

Sebbene questa struttura possa essere valida ed efficace anche in


ambito non telematico, lo diventa ancor di più in tutte quelle
comunicazioni dove la potenza della comunicazione non verbale
viene ridotta. Diventa quindi elemento fondamentale del nostro
successo oratorio la modalità con la quale organizzeremo il nostro
eloquio e il linguaggio che selezioneremo.
Non solo: come ci ricorda Wittgenstein: «Il linguaggio che utilizzi,
alla fine ti utilizza».
Saper ben parlare, scegliere le giuste parole e la loro
composizione per il nostro intervento non sarà una semplice
questione di stile, ma di successo nel raggiungimento degli obiettivi
che ci siamo prefissati; oltre a ciò, a nostra volta ci lasceremo
utilizzare, lasciandoci andare al flusso del nostro stesso eloquio e
dando vita ad atti linguistici spontanei che volontariamente non
saremmo in grado di produrre: ciò che abbiamo definito altrove
(Nardone, Bartoli, 2019) «educata incoscienza» e «trance
performativa», fenomeni autosuggestivi che ci permettono di andare
oltre i nostri limiti nel performare anche come oratori.
Evocare sensazioni
«Prima di convincere l’intelletto occorre toccare e predisporre il
cuore». Con queste parole Pascal ci apre al mondo dell’evocare
emozioni e sensazioni attraverso la comunicazione, un aspetto che
abbiamo visto elencato da Jacobson quando parla di funzione
evocativa.
Condurre un dialogo efficace significa, come ormai comprovato
dalle moderne neuroscienze oltre che dalla psicoterapia, creare
nell’altro dei cambiamenti non attraverso la comprensione bensì
attraverso un modo diverso di sentire la situazione.
Evocare significa suscitare sensazioni attraverso la forma che
diamo alle nostre argomentazioni, grazie alla scelta del linguaggio
che utilizziamo e a come le accompagniamo, «interpretandole» a
livello non verbale e paraverbale.
Il linguaggio evocativo ha la capacità di proiettarci all’interno di
un’atmosfera che tocca le emozioni. Tuttavia, non basta certo usare
affascinanti storie o intriganti metafore per rendere davvero efficace
il nostro dialogo, poiché a questo scopo dobbiamo avere un obiettivo
chiaro da raggiungere e individuare le difficoltà da superare per
ottenerlo. Non sarà quindi sufficiente creare una generica
evocazione: questa dovrà essere orientata all’effetto che vogliamo
produrre nell’interlocutore.
Se tutte le figure retoriche e le forme poetiche possono essere un
valido alleato per toccare le emozioni altrui, quando stiamo
comunicando attraverso lo schermo, come già evidenziato, è di
particolare importanza alternare un linguaggio descrittivo, tipico della
spiegazione, con uno più analogico che evoca sensazioni.
Per i concetti di minor importanza sarà sufficiente avvalersi di una
descrizione logica; per quelli più importanti si utilizzeranno entrambe
le modalità.
La creazione di immagini analogiche durante il dialogo rafforzerà il
concetto che vogliamo trasmettere oltre a mantenere alta
l’attenzione dell’interlocutore. Per facilitare l’utilizzo dell’analogia nel
dialogo, quest’ultima dovrebbe essere introdotta dalla parola
«come». Ad esempio, a una persona indecisa potremmo dire:
«Quando indugi in questo modo sei come il naufrago che non sa
dove sia la terra e che, per paura di sbagliare direzione, affoga
senza provare a nuotare»; al manager troppo controllante e che si
sostituisce ai suoi collaboratori diremo: «Quando non deleghi e non
permetti loro di sbagliare fai come il padre di famiglia che vuole
controllare i propri figli, ma quelli riescono lo stesso a fare i comodi
loro».
Tecnicamente l’analogia dovrà calzare esattamente alla
precedente enunciazione logica, in modo da ridurre ai minimi termini
il processo interpretativo e lasciando pieno spazio all’impatto
evocativo. Dovremo orientare i suoi effetti in direzione avversiva
rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti che devono essere
interrotti o cambiati, e rafforzativa nei confronti dei comportamenti da
incentivare o incrementare (Nardone, Salvini 2004).
Sia che scegliamo di utilizzare un’analogia, un aforisma, un
aneddoto o una metafora, l’importante è che provochi l’effetto
evocativo pianificato; in altre parole non sarà importante la figura
retorica o l’immagine scelta, quanto il suo effetto pragmatico. In
quest’ottica dovrà essere, è bene sottolineare, in sintonia con lo stile
comunicativo e le caratteristiche personali del soggetto. Ad esempio,
non sarà efficace narrare a una persona iper-razionale una storiella
zen, in quanto si sentirà trattato da ignorante, mentre sarà folgorato
da un dotto aforisma mitteleuropeo (Nardone, Salvini 2004).
In ogni caso, l’utilizzo di aforismi dovrà essere centellinato e
orientato all’obiettivo. Un loro abuso ci farà sembrare inutilmente
eruditi, come chi parla per frasi fatte o sentenze calate dall’alto.
L’utilizzo strategico dell’aforisma è da considerarsi come il colpo
singolo di un cecchino: ben ponderato, sparato nel momento giusto
e irripetibile.
La stessa accortezza dovrà essere usata nei riguardi degli
aneddoti, che si tratti di esperienza altrui o nostra. L’aneddoto ha
una potente funzione referenziale nella creazione della fiducia e
della sintonia con l’interlocutore, ma il suo abuso, specialmente se si
eccede nel parlare di sé, crea esattamente l’opposto: la sensazione
di parlare con un egocentrico primo della classe.
Particolare attenzione dovrà essere posta anche all’utilizzo della
metafora. A differenza dell’analogia, dovrà calzare alla logica
razionale dell’argomentazione trattata ma non vi aderirà
completamente, poiché il suo scopo è proprio quello di produrre una
decontestualizzazione. Il soggetto andrà alla ricerca del significato
insito alla metafora stessa.
Se con l’analogia sappiamo cosa andremo a colpire, con la
metafora lasciamo che sia il soggetto a «prendere» ciò di cui ha
bisogno. Questo processo interpretativo porta automaticamente a
una perdita di controllo dell’effetto evocativo da parte dell’oratore, e
per questo l’utilizzo massiccio di metafore in ambito aziendale e nei
processi di team building è sconsigliato.
Infine, la forma comunicativa prescelta, oltre ad adattarsi
all’interlocutore, dovrà essere allineata con lo stile personale di chi
ne fa uso: un soggetto gracile e privo di muscolatura sarà poco
credibile se narrerà di battaglie sanguinolente e guerrieri eroici; lo
stesso accadrà a chi cita dotti studiosi o eleganti personaggi storici
con fare rozzo e poco educato.
Concludendo: saper utilizzare il linguaggio evocativo in maniera
efficace non è solo un esercizio tecnico ma anche un allenamento
continuo di sensibilità, cultura e attenzione ai particolari. Ripetere a
pappagallo formule prefissate non produrrà lo stesso effetto che
sentirle in prima persona e poi trasmetterle. Improvvisarsi retori e
poeti è il miglior modo per fallire nella nostra efficacia comunicativa.
Saper influenzare l’altro, toccare le corde giuste e farlo
emozionare richiede padronanza tecnica, un esercizio continuo e
infine una propensione alla creatività.
Con le parole di Protagora: «Non esiste arte senza sapere ed
esercizio del sapere».
Il dialogo strategico telematico

Nel vero dialogo, entrambe le parti


sono disposte a cambiare.
Thich Nhat Hanh

Se quanto abbiamo visto può essere valido nel momento in cui


esponiamo le nostre tesi durante una conferenza o una lezione on
line, le cose cambiano quando stiamo dialogando con una persona o
un piccolo gruppo.
Una delle prime testimonianze dell’utilizzo di un dialogo finalizzato
alla persuasione e al cambiamento risale a Protagora, che nelle sue
Antilogie dimostrò come su uno stesso argomento si potesse
dimostrare una cosa e il suo esatto contrario. Il suo genio lo portò a
creare una tecnica grazie alla quale, rispondendo a una serie di
domande, l’interlocutore finiva per cadere in contraddizione con le
proprie affermazioni e cambiava opinione in merito alla sua
personale scoperta (Nardone, Salvini, 2004). Tale arte fu definita
eristica. La capacità di fare le domande eristiche è l’abilità principale
di colui che vuole influenzare strategicamente l’altro.
Per molto tempo, sia in ambito scientifico sia psicologico si è
pensato che sono le ipotesi che noi formuliamo a fare scaturire le
domande, come se queste ultime fossero la parte finale di un
ragionamento, al contrario sono proprio le domande ben costruite
che aprono a riflessioni nuove e introducono nuovi ragionamenti.
Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pratica, secoli dopo,
dimostra come la maggior parte dei problemi non deriva dalle
risposte che ci diamo ma dalle domande che ci poniamo.
Aprire un dialogo telematico con delle domande invece che
affermando la propria tesi diviene il primo passo per condurre lo
scambio in maniera efficace. Dovremo quindi partire con quesiti
ampi e generali, indagando il punto di vista dell’altro e cercando di
capire le sue convinzioni e le sue rappresentazioni mentali e, solo
dopo esserci sintonizzati con esse, iniziare, sempre con domande
strategiche, a orientare il nostro interlocutore verso il cambiamento
di prospettiva.
Le domande più efficaci saranno quelle all’interno delle quali si
offrono due possibilità di risposta. Ciò riduce lo sforzo cognitivo di chi
interagisce con noi e agevola il processo di persuasione.
Se ci limitiamo a chiedere «Cosa pensa sia accaduto?», lasciamo
che l’interlocutore sia libero di divagare, rischiando di perdersi. Se
invece proponiamo un’alternativa di risposta: «Pensa che sia
accaduto questo» – indicando una possibilità – «oppure
quest’altro?» – proponendo un’alternativa valida – lo aiutiamo a
scegliere, offrendo alla sua mente un «frame cognitivo» rassicurante
ma al tempo stesso orientante.
Il processo di costruzione di due alternative di risposta dovrà
essere estremamente preciso e calibrato: proporre una seconda
opzione troppo lontana dagli schemi di rappresentazione della realtà
dell’altro risulterà fallimentare. Per questo motivo le domande così
costruite dovranno essere inizialmente finalizzate all’analisi e
comprensione della situazione e del suo funzionamento;
successivamente si passerà a formulare quesiti che permettano di
discriminare bene gli argomenti, ciò che è da ciò che non è, in modo
tale da restringere il campo di azione focalizzandosi verso l’obiettivo
da raggiungere.
Una volta inquadrate bene la situazione e le credenze dell’altro si
andrà avanti con domande che orientino punti di vista alternativi e
che infine influenzino le scelte, poiché conducono ad assumere
quelle prospettive che fanno scoprire all’altro ciò che per lui è più
vantaggioso e funzionale (Nardone, 2015).
La potenza delle domande così costruite e messe in sequenza
strategica è tale che possiamo indurre nell’altro svariati effetti
pragmatici: far nascere dubbi, far provare esaltazione, avversione,
creare una paura più grande, far divertire o commuovere, alleggerire
o intristire, motivare o smontare, fino a potenziare o ridurre certe
sensazioni.
Vediamo le diverse tipologie di quesiti che possiamo introdurre nel
nostro dialogare in forma strategica, così come le ha definite con
precisione Camillo Loriedo (Loriedo, Sale, 2004).

Domande retoriche. Appartengono a questa categoria tutte


quelle domande la cui risposta non ha particolare importanza,
poiché è implicita nella domanda stessa: «Mi permette di farle
una domanda o preferisce continuare a raccontarmi ciò che è
accaduto?» «Posso provare ad avanzare un’idea o preferisce
non valutare un’opzione diversa dalla sua?» «Posso dirle quello
che ritengo giusto o è meglio che non mi esprima?» Questa
tipologia di quesito tende ad abbassare la resistenza
dell’interlocutore, e risulta quindi utile per gestire la relazione
quando quello si sta irrigidendo sulle proprie posizioni o contro
di noi. Un utilizzo eccessivo potrebbe però farlo sentire preso in
giro.
Domande generanti quesiti o domande che creano nuove
domande. «Da quanto ci siamo detti fin qui, le è venuta in
mente qualche domanda da farmi o preferisce che sia io a
continuare a chiedere?» «Se si trovasse in quella situazione e
potesse chiedere, vi è una domanda che vorrebbe fare o
preferirebbe rimanere in silenzio?» Ci sono dei dubbi che
devono essere sciolti o posso continuare nella mia
esposizione?» Questo stratagemma retorico del fare una
domanda per generare una nuova domanda è molto utile
quando vogliamo capire meglio una persona. Domandare
qualcosa espone la persona che chiede a mostrarci quale è il
suo interesse e dove è la sua focalizzazione; possiamo capire
una persona molto meglio dalle domande che pone rispetto alle
risposte che fornisce. Questo tipo di domande può essere
utilizzato anche per sorprendere l’interlocutore che si aspetta di
essere interrogato da noi, capovolgendo totalmente
l’interazione.
Domande referenzializzanti o con carattere di referenza
esterna. Appartengono a questa tipologia tutte quelle domande
che conducono a una riflessione mai presa prima in
considerazione. «Pensa che il suo maestro di yoga/arti marziali
sarebbe d’accordo con quanto lei ha fatto o la
rimprovererebbe?» «Se potesse parlare con il signor X, che lei
stima, pensa che lui le suggerirebbe di continuare a fare ciò che
sta facendo o le suggerirebbe di cambiare?» Per essere efficaci,
queste domande dovranno essere costruite utilizzando soggetti
esterni alla situazione ma non lontani dalla persona. Va da sé
che potremo utilizzarle solamente dopo aver instaurato con
l’altro un rapporto di sintonia e conoscenza tale da poter
scegliere e mettere in gioco il «personaggio» giusto. Questa
tipologia di domande può aprire scenari nuovi tanto da creare
delle vere e proprie esperienze emotive. Dato il loro forte
carattere di ristrutturazione non dovremmo mai abusarne, bensì
utilizzarle in maniera parsimoniosa e al momento giusto.
Domande autoriflessive. Sono quesiti nei quali chiediamo
all’altro di pensare cosa dovremmo chiedergli noi, ovvero
chiediamo di suggerci quali domande porre. «Dopo tutto quello
che mi hai raccontato, cosa dovrei chiederti: questo o
quest’altro?» «Pensi che la risposta che mi hai appena dato sia
appropriata o è meglio che tu ci rifletta ancora un po’?» Questo
tipo di quesiti aiutano l’altro a ragionare su quanto gli sta
accadendo mettendolo nei nostri panni; vengono utilizzati con
persone che non hanno difficoltà a ragionare in forma critica sui
propri comportamenti e che dimostrano sufficienti risorse per
mettersi in gioco. Molte volte, proprio per la loro caratteristica di
autoriflessione, il soggetto può non trovare una risposta
adeguata. Per questo motivo dovrebbero essere utilizzate solo
in quei casi in cui vogliamo far sentire all’altro che il suo punto di
vista è totalmente disfunzionale; in tal modo assumono una
valenza retorica e di provocazione.
Domande con messaggio nascosto. Questa tipologia prevede
che nella costruzione del quesito si introduca un messaggio,
solitamente inserito in forma di premessa o altrimenti implicito,
che risulti essere utile al cambiamento della situazione o al
raggiungimento dell’obiettivo. Per esempio, potremmo chiedere
a un soggetto che ha paura di esporsi in pubblico: «Potrebbe
cercare di cambiare solamente piccole cose del suo quotidiano
senza che queste la espongano direttamente al pubblico o
anche questo è troppo per lei?» Benché, posta in questo modo,
la domanda sembri non chiedere all’altro di esporsi, contiene in
modo implicito il messaggio di cambiamento: anche se questo
sembra non agire sul problema, in realtà lo farà, in modo
indiretto. Cosi facendo aggireremo la resistenza del soggetto ad
affrontare in maniera diretta la sua problematica e introdurremo
dei cambiamenti apparentemente non collegati a ciò che teme.
In ottica strategica abbiamo solcato il mare all’insaputa del cielo,
inducendo a fare proprio quello che la persona teme di fare
senza che questi se ne renda conto.

In tutti i casi, sia la sequenza sia le domande non dovranno seguire


un processo rigido e prestabilito ma dovranno essere calzate alla
situazione e alla logica dell’interlocutore e, quindi, calibrate in
relazione all’obiettivo che vogliamo raggiungere. Come abbiamo già
evidenziato in precedenza, le domande strategiche dovranno
condurre l’interlocutore a scoprire in quale maniera egli sia artefice
del proprio destino (Nardone, Salvini, 2004) e come possa gestirlo
nel modo più funzionale possibile.
Già Epicuro osservava che: «Non bisogna far violenza alla natura
ma persuaderla».
Ogni due o tre domande sarà necessario procedere con parafrasi
che aiutino e verifichino la comprensione; la miglior cosa è iniziare il
parafrasare ripetendo esattamente le risposte che l’interlocutore ci
ha fornito, in modo da creare una serie di accordi relazionali e
favorire la sintonia. A mano a mano che ci addentriamo nel dialogo
dovremmo inserire nella parafrasi elementi nuovi, allo scopo di
orientare le percezioni verso il cambiamento, passando da un
semplice riassumere quanto ascoltato a un processo di
ristrutturazione. Oltre a riprendere le risposte e riordinarle in una
sequenza coerente e congruente, aggiungeremo una serie di
immagini analogiche che calzino con i significati logici (Nardone,
2015).
L’altra manovra possibile nella creazione di una parafrasi
ristrutturante consiste nel cambiare l’ordine delle risposte che
l’interlocutore ci ha dato, creando così una trama differente della sua
storia. Come sosteneva Blaise Pascal, «Le stesse parole in
sequenza diversa daranno risultati differenti».
L’effetto congiunto di un processo di domande strategicamente
orientate e di parafrasi sempre più ristrutturanti, unito all’utilizzo del
linguaggio evocativo, conduce elegantemente il nostro interlocutore
a scoprire nuovi punti di vista attraverso le sue stesse risposte
(Nardone, 2015). Riuscire a far sperimentare al soggetto tali
esperienze emozionali correttive durante il dialogo rappresenta
l’essenza del processo eristico.
In ambito telematico, data la maggiore difficoltà nel mantenere un
alto grado di concentrazione e attenzione, diventa decisiva la tecnica
del «riassumere per ridefinire» nel momento in cui stiamo per
chiudere il dialogo. Si tratta di riassumere tutti i punti essenziali
emersi durante il colloquio, «incorniciandoli» in modo tale da chiarire
quanto fatto e da far sentire, quando necessario, l’ineluttabilità di un
cambiamento come effetto naturalmente logico.
Questa manovra è una sorta di iper-parafrasi che ri-denota l’intero
processo consolidandone gli effetti (Nardone, Salvini, 2004).
Concludiamo questa parte dedicata alla persuasione con l’invito a
leggere uno dei più bei dialoghi mai scritti, quello tra la volpe e il
piccolo principe (de Saint-Exupéry, 1943), dove il susseguirsi di
domande e risposte apre a nuovi scenari e profonde riflessioni.

In quel momento apparve la volpe.


«Buon giorno», disse la volpe.
«Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide
nessuno.
«Sono qui», disse la voce, «sotto il melo…»
«Chi sei?», domandò il piccolo principe. «Sei molto carino…»
«Sono una volpe», disse la volpe.
«Vieni a giocare con me», le propose il piccolo principe, «sono così triste…»
«Non posso giocare con te», disse la volpe, «non sono addomesticata».
«Ah! Scusa», fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: «Che cosa vuol dire
‘addomesticare’?»

[…]

«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’…»


«Creare dei legami?»
«Certo», disse la volpe. «Tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale
a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io
non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi,
avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te
unica al mondo».

[…]

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:


«Per favore… addomesticami», disse.
«Volentieri», rispose il piccolo principe, «ma non ho molto tempo, però. Ho da
scoprire degli amici e da conoscere molte cose».
«Non si conoscono che le cose che si addomesticano», disse la volpe. «Gli uomini
non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già
fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici.
Se tu vuoi un amico, addomesticami!»
«Che bisogna fare?», domandò il piccolo principe.
«Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti siederai un po’
lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai
nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’
più vicino…»
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
«Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe. «Se tu vieni, per
esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col
passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò
ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità. Ma se tu vieni non si
sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… ci vogliono i riti».

[…]

Così il piccolo principe addomesticò la volpe.


Capitolo 4
Ippocrate telematico: le cure mediche a
distanza

Le parole sono lo strumento più potente


che un medico possiede, ma le parole,
come una spada a doppio taglio,
possono mutilare così come guarire.
Bernard Lown
La cura è un atto di relazione
Fin dall’antichità, i guaritori hanno sempre posto grande attenzione
alla comunicazione con il paziente, ben consapevoli della sua
importanza nel mantenimento o nel recupero della salute. Ippocrate,
padre della medicina, considerava «il tocco, il rimedio, la parola» i
tre pilastri dell’agire medico, mentre per Platone «Il più grande errore
nel trattamento delle malattie è che ci sono medici per il corpo e
medici per l’anima, mentre le due cose non dovrebbero essere
separate».
In tempi più recenti, Sigmund Freud (Freud, 2012) sosteneva che
ogni trattamento medico è in fondo un trattamento psichico:

Psiche significa «anima», perciò si potrebbe pensare che trattamento psichico sia
il trattamento dei fenomeni patologici dell’anima. Ma il significato è diverso.
Trattamento psichico vuol dire trattamento a partire dall’anima, trattamento dei
disturbi psichici e somatici, con mezzi che agiscono in primo luogo e direttamente
sulla psiche umana. Questo mezzo è costituito anzitutto dalla parola, e le parole
sono anche strumento fondamentale del trattamento psichico. Certo, difficilmente il
profano potrà comprendere come le «sole» parole del medico possano rimuovere
disturbi patologici somatici e psichici. Penserà che gli si chieda di credere nella
magia. E non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi di tutti i giorni sono solo
magia attenuata.

Purtroppo, questa antica sapienza è andata progressivamente


perduta, e il potere «magico» della parola è stato deliberatamente
abbandonato con il riduzionismo scientifico e con la separazione
artificiosa tra corpo e mente, poi esasperata fino
all’iperspecializzazione della medicina d’organo.
Questo modello, se efficace in certe circostanze, come traumi o
malattie acute, si rivela fallimentare, ad esempio, nell’approccio alle
malattie cronico-degenerative come tumori, malattie cardiovascolari
o diabete, che sono le principali cause di malattia e morte nel mondo
occidentale.
Se di fronte a una persona con una frattura a un polso non sono
necessarie particolari abilità comunicative ma una buona
ingessatura, di fronte alla persona diabetica o cardiopatica le cose
sono ben diverse.
Queste malattie richiedono, sia per essere prevenute che per
essere trattate, complessi interventi basati su cambiamenti dello stile
di vita, strategie che, per essere seguite alla lettera, richiedono al
medico di possedere notevoli capacità persuasorie. Purtroppo, come
tutti sappiamo, limitarsi a dire a una persona di smettere di fumare o
di cambiare radicalmente la propria alimentazione non raggiunge
quasi mai l’effetto desiderato; nei rari casi in cui questo accade, la
motivazione è quasi sempre la paura di una malattia già conclamata
e avanzata, laddove i danni più gravi sono fatti e le possibilità di
recupero ridotte.
Senza voler quindi negare i meravigliosi progressi della scienza e
della tecnica, soprattutto in ambito diagnostico o chirurgico, è ormai
chiaro ai più che la medicina concentrata su parametri biologici e
sulla malattia d’organo ha un’efficacia limitata.
Se Ippocrate osservasse il nostro modello medico noterebbe che
abbiamo abbandonato sia l’approccio comunicativo, cioè la parola,
sia la dimensione del tocco, cioè l’esame obiettivo: la moderna
medicina si regge prevalentemente, se non esclusivamente, sul
rimedio, che sia farmacologico, chirurgico o riabilitativo.
Le falle di questo modello sono state tragicamente evidenziate
dalla pandemia da Coronavirus, che ha spazzato via, tra le altre
cose, la fiducia illimitata nel potere della scienza e della tecnica che
ha caratterizzato gli ultimi due secoli. Fiducia incondizionata nel
potere della razionalità e del progresso da portare alcuni a ipotizzare
addirittura di poter sconfiggere il grande nemico, cioè la morte,
sconfinando in una sorta di delirio di onnipotenza nel quale si
negano le leggi basilari della natura.
La pandemia da Coronavirus, purtroppo, ci ha messo bruscamente
di fronte alla nostra piccolezza nel grande ordine naturale, con le
nostre società messe in ginocchio dal più piccolo degli esseri viventi,
un virus. Fieri del nostro progresso scientifico, ci siamo di colpo
ritrovati a ricorrere a presidi di stampo medievale, come il lavaggio
delle mani e il distanziamento sociale.
Del resto, i segni dell’inadeguatezza del modello basato solo sul
rimedio erano presenti ben prima della pandemia.
«La natura è causa e cura delle malattie» diceva Paracelso, e i
rimedi infatti spesso facilitano, ma da soli non bastano a garantire la
guarigione. Se di fronte a una persona con appendicite acuta tutto
quello che serve è un intervento di urgenza, in corso di infezione
anche l’antibiotico più moderno e potente non è sufficiente se il
sistema immunitario è depresso, come l’epidemia di AIDS ha
tragicamente dimostrato. L’ingessatura per un arto rotto crea le
condizioni ideali perché l’osso si saldi, non causa di per sé la
guarigione; l’insulina in corso di diabete abbassa il livello di glucosio
nel sangue, non cura la disfunzione sottostante; e gli esempi
potrebbero continuare.
È per questo che, per riacquistare il loro potere di intervento, è
fondamentale che i medici recuperino gli altri due pilastri del loro
agire, il tocco e la parola.
Fortunatamente, negli ultimi tempi si è assistito a un risveglio di
interesse nella comunicazione medica e alla nascita e allo sviluppo
di nuovi approcci che mettono al centro la persona, e non la malattia,
come la medicina narrativa e la medicina centrata sul paziente.
Per quanto importante sia la dimensione umana, tuttavia, non
bisogna dimenticare che saper comunicare con il paziente non
significa solo prendersi cura della persona sofferente, ma anche
avere un impatto concreto sulla sua salute. La comunicazione è
essa stessa strumento di cura, e trascurando questa competenza, i
medici di fatto riducono notevolmente il loro potere di intervento.
Come i più recenti studi hanno ormai inequivocabilmente
dimostrato (Milanese, Milanese, 2015) la comunicazione ha un
effetto potente sulla salute del paziente, tramite diversi meccanismi,
sia diretti che indiretti.
Indirettamente, perché la comunicazione del medico influenza
fortemente l’osservanza del paziente alle indicazioni; direttamente,
perché la comunicazione medica è in grado di attivare aspettative di
miglioramento e di guarigione che possono favorire il miglioramento
stesso (effetto placebo). Ecco perché la comunicazione non può
essere considerata una componente accessoria della professionalità
del medico ma deve tornare a essere parte integrante del suo agire.
La compliance
Per «compliance» si intende «la misura in cui il comportamento del
paziente, in termini di assunzione di farmaci, mantenimento di una
dieta o di altra variazione dello stile di vita, coincide con le
prescrizioni del medico»6 (Sackett, 1979).
La compliance non si riferisce solo all’osservanza della
prescrizione medica (ad esempio prendere un farmaco), ma anche
al fatto che il paziente aderisca completamente e precisamente
all’indicazione (nel caso del farmaco, assumerlo per tutto il periodo
indicato, nel momento giusto, con la modalità corretta, e così via). La
compliance, infine, non riguarda solo il momento terapeutico, ma
anche tutto l’iter diagnostico e riabilitativo che spesso si
accompagna al trattamento (Milanese, Milanese, 2015).
Gli studi mostrano che la compliance del paziente al trattamento è
molto più bassa di quello che i medici immaginano: solo il 50-70%
dei pazienti prende i farmaci come prescritto dal medico, e gli
interventi di modificazione dello stile di vita, così importanti in ambito
preventivo, sono seguiti solo dal 10% delle persone (Milanese,
Milanese, 2015).
È facile immaginare le enormi ripercussioni di ciò sui costi sanitari
e sulla salute della popolazione, tanto che l’OMS ha dichiarato che
«Qualunque intervento volto ad aumentare la compliance avrebbe
un impatto sulla salute delle popolazioni maggiore di qualunque altro
intervento» (Sabatè, 2003).
Poco dunque conta che il medico abbia fatto una diagnosi corretta
e prescritto la terapia appropriata se poi non è in grado di far sì che il
suo paziente segua le indicazioni.
La maggior parte dei medici sovrastima la compliance dei pazienti,
anche perché questi a volte mentono sulla loro effettiva aderenza
per imbarazzo, per risparmiarsi una paternale o per non inimicarsi il
medico.
Inoltre, quasi universalmente, i medici ritengono che la compliance
dipenda principalmente dal paziente: in realtà gli studi mostrano che
le caratteristiche del paziente – età, genere, estrazione
socioculturale – hanno un’importanza piuttosto bassa; la compliance
è influenzata dal tipo di malattia (le malattie gravi o acute o con
sintomi importanti hanno compliance più alta), dal tipo di terapia (le
terapie brevi, con pochi effetti collaterali, facili da seguire hanno
compliance più alta), ma anche e soprattutto dalla relazione con il
medico, che ha un’importanza pari ai fattori legati alla terapia. Il
paziente che non osserva le indicazioni può farlo perché non le ha
comprese o non le ricorda (mancata compliance involontaria), o per
scelta deliberata (mancata compliance volontaria).
Nel primo caso, basta che il medico parli più lentamente, eviti il
linguaggio tecnico specialistico e verifichi l’avvenuta comprensione
del paziente: è esperienza comune, infatti, che l’ansia offusca le
capacità cognitive e che in caso di malattie gravi da metà a due terzi
dei pazienti non ricorda tutto quanto detto dal medico.
Più complesso è gestire la non compliance volontaria, che è legata
a vari fattori. Il medico può aver dato un’indicazione percepita dal
paziente come troppo «costosa» in termini di fatica o di riduzione del
piacere (basti pensare alle indicazioni dietetiche, o di smettere di
fumare); oppure la prescrizione si scontra con una credenza forte del
paziente (paziente «ideologico»), come ad esempio prescrivere
antibiotici a chi si vuole curare solo con metodi naturali, o i vaccini a
un esponente del movimento no-vax; in molti casi, tuttavia, il motivo
della non aderenza è una cattiva relazione con il medico, nella quale
il paziente non si sente ascoltato e compreso, o si sente addirittura
squalificato (Milanese, Milanese, 2015).
L’effetto placebo
«Le parole sono azioni» diceva Ludwig Wittgenstein, e in quanto tali
hanno effetti concreti e misurabili. In medicina, questo concetto è
ampiamente dimostrato dall’effetto diretto della comunicazione sulla
salute del paziente, che si rifà al noto effetto placebo.
Nella ricerca clinica si definisce «effetto placebo» qualunque
miglioramento di un sintomo in assenza di un trattamento specifico;
in psicologia e nelle neuroscienze, invece, l’effetto placebo è il
miglioramento di uno o più sintomi legati al puro evento mentale
dell’aspettativa di miglioramento, escludendo quindi la remissione
spontanea del sintomo o il desiderio di compiacere il medico.
L’effetto non riguarda solo poche persone facilmente
suggestionabili: noi tutti possiamo essere suscettibili, a seconda
delle circostanze e delle fasi della vita, all’effetto placebo, che è stato
descritto anche negli animali. Si tratta in realtà di una famiglia di
effetti, alla cui base ci sono meccanismi diversi che si possono
attivare, insieme o separatamente, in circostanze diverse (Benedetti,
2015). Uno di questi è l’effetto aspettativa: l’aspettativa di un
miglioramento attiva i circuiti cerebrali dopaminergici della
ricompensa fino a generare il miglioramento stesso.7 Questi circuiti,
analogamente ai circuiti di riduzione dell’ansia, sono gli stessi attivati
dai farmaci: poiché l’effetto placebo è antico quanto l’uomo, molto
più antico dei correnti farmaci, potremmo meglio dire che i farmaci
utilizzano le stesse vie dell’effetto placebo.
Capita spesso, infatti, che un sintomo presente da tempo cominci
a migliorare o addirittura scompaia del tutto appena il paziente
prende l’appuntamento dal medico, prima ancora di consultarlo:
l’aspettativa di trovare sollievo al suo disturbo, concretizzata dal
prendere l’appuntamento, attiva il sopracitato meccanismo,
alleviando il sintomo. Naturalmente questo è tanto più probabile
quanto più la persona ha fiducia nel medico e nella terapia che verrà
prescritta.
Essendo il sollievo dal sintomo legato all’aspettativa di
miglioramento, qualunque cosa in grado di attivare questa
aspettativa, inclusa la comunicazione del medico, è in grado di
produrre l’effetto. Possiamo spingerci fino a dire che se il farmaco
non è sempre necessario, la buona comunicazione lo è sempre: in
caso venga somministrata una terapia, la comunicazione ne
potenzia l’effetto; in caso la terapia non sia necessaria, la buona
comunicazione può dare comunque sollievo.
Un esempio eclatante della potenza dell’aspettativa di
miglioramento, indotta peraltro involontariamente, viene da un
curioso episodio raccontato da Gordon Allport, psicologo
statunitense (Allport, 1964).

In un ospedale austriaco un uomo gravemente malato è in punto di morte. I medici


curanti l’hanno informato, conformemente al vero, che non sono in grado di
diagnosticare la sua malattia, ma che probabilmente potrebbero aiutarlo se
conoscessero la diagnosi. Inoltre, gli hanno comunicato che uno specialista
famoso avrebbe fatto visita all’ospedale nei giorni successivi e che forse sarebbe
stato in grado di riconoscere la malattia. Pochi giorni dopo arriva effettivamente lo
specialista e fa il suo giro di visite nel reparto. Arrivato al letto del malato getta su
di lui un rapido sguardo mormorando «moribundus» e prosegue. Alcuni anni dopo
l’uomo fa visita allo specialista e gli dice: «È da molto che volevo ringraziarla per la
sua diagnosi. I medici mi avevano detto che avrei potuto farcela se lei fosse stato
in grado di diagnosticare la mia malattia: nel momento in cui lei ha detto
«moribundus» ho saputo che ce l’avrei fatta.

Indurre aspettative di miglioramento va differenziato dal «pensare


positivo» (Nardone, 2018), cioè dall’ingiunzione diretta. Ingiungere al
paziente di pensare in positivo usando argomentazioni logico-
razionali rischia infatti di innescare un effetto paradosso. Immaginate
di dire a una persona angosciata per un problema di salute che deve
cercare di non abbattersi, che la sua salute è nelle sue mani, o
magari di «pensare a chi sta peggio di lei». Incapace di «tirarsi su» a
comando, la persona si sentirà responsabile di un eventuale
peggioramento, penserà di non avere le risorse adeguate o magari
si sentirà in colpa perché fa star male i propri cari.
L’aspettativa deve invece essere indotta in maniera suggestiva e
indiretta tramite il rituale dell’atto terapeutico, del quale la
comunicazione del medico è un aspetto fondamentale. Il rituale è
composto da tutto quello che circonda la somministrazione di una
terapia: la figura del medico, l’ambiente in cui il medico riceve, le sue
modalità comunicative, tutto contribuisce a indurre l’aspettativa
stessa.
A questo proposito Fabrizio Benedetti (2016), grande studioso
dell’effetto placebo, ne descrive una funzione evolutiva. Secondo
Benedetti l’evoluzione avrebbe selezionato come più adatte alla
sopravvivenza le persone che sono in grado di affidarsi a un
terapeuta e, conseguentemente, di essere curate con successo. Il
processo si svolge in quattro fasi: nella prima fase la persona
percepisce un disagio; nella seconda si attiva per ottenere sollievo,
vale a dire cerca un terapeuta; nella terza fase, la più delicata, la
persona incontra il terapeuta, che può qui gettare le basi per
generare l’effetto placebo, inducendo nel paziente aspettative di
miglioramento; se questo accade, nella quarta fase, cioè la
prescrizione della terapia, si potrà dispiegare il massimo potenziale
dell’effetto placebo.
Curare a distanza
La cura a distanza era stata già predetta circa un secolo fa da Hugo
Gernsback, inventore ed editore di Science and Invention, la prima
rivista americana di fantascienza, quando, nel lontano febbraio 1925
predisse che «Man mano che la civiltà progredisce, sarà sempre più
necessario agire a distanza… avremo sempre meno tempo per
spostarci… Il dottore impegnato non sarà in grado di visitare i suoi
pazienti come fa adesso».
E puntualmente diversi decenni fa, con l’avvento della tecnologia
informatica e di telecomunicazione, la sua applicazione all’ambito
della salute – «salute digitale» – è cominciata, procedendo con ritmi
diversi nei diversi Paesi.
In Italia gli investimenti nella salute digitale cominciano nel 2014,
ma è stata la pandemia da Coronavirus a dare un formidabile
impulso a questa tendenza: ai benefici già noti, come l’assistenza a
chi non può spostarsi, il taglio dei costi, la riduzione delle liste
d’attesa, il monitoraggio delle malattie croniche, l’ottimizzazione dei
tempi degli operatori, si aggiunge adesso la necessità di minimizzare
i rischi di infezione sia per i pazienti che per i medici.
La cura a distanza diventerà quindi parte della nuova normalità,
complice anche l’attesa impennata nella domanda dei servizi
sanitari, legata all’ondata di ritorno di tutte le patologie accantonate
per far fronte all’emergenza COVID-19 e ad eventuali prossime
recrudescenze.
È imperativo dunque che i medici padroneggino la comunicazione
telematica in modo da far fronte a questa importante tendenza,
cambiando il loro modo di raccogliere l’anamnesi, di condurre il
colloquio col paziente e di dargli le indicazioni.
Come un non vedente che, per compensare la sua cecità, deve
acuire tutti gli altri sensi, nel contesto telematico il medico dovrà
porre molta più attenzione al canale verbale (scelta delle parole e
delle argomentazioni, domande, parafrasi), e paraverbale (ritmo,
volume e velocità della voce, pause, esitazioni e silenzi), per
sopperire alla mancanza del canale non verbale che, anche in
videochiamata, ha una potenza fortemente diminuita. Questi
argomenti sono stati descritti in dettaglio nei capitoli precedenti; qui
analizziamo solo la loro applicazione al contesto medico.
L’anamnesi
Ogni medico sa che una buona anamnesi (dal greco anamnesis,
ricordo), cioè una raccolta esaustiva e completa di informazioni sulla
malattia, è essenziale per un intervento efficace; non tutti però
tengono in considerazione il fatto che, accanto all’obiettivo
informativo, l’anamnesi ha un’altra fondamentale funzione, quella
relazionale.
Dopo le prime battute del colloquio, infatti, questo è il momento nel
quale medico e paziente gettano le basi per la loro futura relazione,
dalla quale dipenderà gran parte dell’efficacia dell’intervento.
Durante il primo incontro il paziente ha bisogno di sentirsi ascoltato
e compreso per potersi affidare al medico; in caso contrario, il rischio
che non segua le indicazioni o che addirittura cambi professionista è
alto. Perché l’intervento sia efficace, il medico dovrà quindi porsi un
duplice obiettivo: da una parte raccogliere i dati sulla malattia,
dall’altra porre le basi per l’indispensabile rapporto di fiducia col suo
paziente. Gli anglosassoni, con il loro abituale pragmatismo,
distinguono infatti due tipi di malattia: la patologia vista dal medico,
fatta di sintomi, segni, esami diagnostici (disease) e la condizione
percepita dal paziente, l’impatto che ha sulla sua vita, le sue
emozioni, idee e convinzioni (illness).
Abitualmente il medico concentra la sua indagine sul disease, cioè
sulla malattia biologica: quali sono i sintomi, quando sono comparsi,
con che frequenza, intensità e durata si presentano. L’indagine
segue una mappa ben precisa che aiuta il medico a orientarsi
nell’immensa varietà della patologia umana e spesso si compone di
domande chiuse, che cioè richiedono risposte definite e precise.
Da parte sua il malato porta nello studio del medico la sua storia
personale, cioè la illness, e riferisce i sintomi in base all’impatto che
hanno sulla sua vita, agganciandoli a episodi personali e spesso
aggiungendo dettagli che a lui sembrano importanti ma che possono
apparire al medico come inutili divagazioni.
In alcuni casi la raccolta dell’anamnesi diventa così una specie di
duello nel quale il medico cerca di riportare la conversazione sul
terreno dei dati oggettivi («Da quanto tempo ha mal di stomaco?») e
il paziente continua a riferirsi alla sua storia personale («Dal
matrimonio di mia figlia»), e mentre il medico non capisce perché il
paziente divaghi inutilmente, il paziente non si sente ascoltato e
accolto.
Ecco che, per centrare sia l’obiettivo conoscitivo che quello
relazionale dell’anamnesi, il medico dovrà essere in grado di
esplorare entrambe le dimensioni, prima permettendo al paziente di
raccontare la sua storia (illness), poi approfondendo le parti
importanti con domande specifiche (disease). Durante la narrazione
si dovrebbe evitare di interrompere il paziente, ma quando il tempo
stringe o il paziente è molto prolisso, si possono usare accorgimenti
comunicativi come «Perdoni se la interrompo, ma quello che dice è
molto importante e avrei bisogno di farle qualche domanda specifica
per approfondire». Una volta che il paziente si è sentito ascoltato e
compreso, sarà ben felice di rispondere alle domande del medico
che verranno adesso viste come segno di interesse.
Comprendere la percezione del paziente e al tempo stesso
analizzare i parametri biologici della malattia sono i due pilastri sui
quali poggia tutto il lavoro successivo: l’approfondimento
diagnostico, la creazione dell’accordo e la prescrizione della terapia.
Nella raccolta anamnestica a distanza, la prima competenza da
padroneggiare è la capacità di ascolto. Abilità che non si apprende
né alla facoltà di Medicina, né durante la specializzazione, e che ha
un’importanza fondamentale, amplificata dal contesto telematico.
I medici generalmente sottovalutano moltissimo i benefici
dell’ascolto: infatti, complici anche i vincoli di tempo, di solito
interrompono il paziente dopo una ventina di secondi (Milanese,
Milanese, 2015), cominciando a fare domande, dando il via a quella
che è stata definita da alcuni la «trappola anamnestica», cioè una
serie serrata di domande chiuse che non lasciano al paziente modo
di spiegare e descrivere il suo problema.
Interrompere il paziente ha due importanti conseguenze: fa
perdere al medico informazioni potenzialmente utili alla diagnosi, e
ha un forte impatto negativo sul piano relazionale, perché se il
paziente non si sente ascoltato fino in fondo, non si sente compreso
e farà quindi più fatica ad affidarsi.
La percezione di non potersi affidare non deriva tanto dal fatto che
il paziente si senta poco considerato, anche se questo è certamente
possibile: le persone si affidano anche a un medico ritenuto
scortese, se hanno l’impressione che abbia capito fino in fondo il loro
problema e che li possa aiutare. La percezione di non potersi
affidare è legata al fatto che il paziente che non ha potuto dire tutto
quello che riteneva necessario dubita che il medico possa aver
compreso tutte le sfumature della sua situazione. Il «non mi fido di
questo medico» non è qui inteso come un giudizio sulla competenza
del medico in generale, ma è «non credo che questo medico abbia
capito fino in fondo i miei sintomi e la mia malattia»: da questa
percezione non sono esenti nemmeno i medici stessi, quando
consultano un collega per un problema di salute.
D’altra parte, anche il totale silenzio, soprattutto al telefono, può
venir interpretato come segno di disinteresse. In mancanza del
contatto visivo, il paziente si può domandare se il medico lo stia
veramente ascoltando con attenzione, e può avere difficoltà a
continuare a parlare, magari inserendo nel discorso pause ed
esitazioni. È quindi importante punteggiare l’ascolto con interiezioni
di incoraggiamento, come parole («sì, capisco»), ma anche suoni
(«ah», «mmm»), che comunicano interesse e partecipazione.
Una volta che il paziente ha completato la sua apertura iniziale,
che di solito dura 1-2 minuti, il medico inizia a fare domande per
esplorare le caratteristiche della malattia. È importante, soprattutto a
distanza, che le domande siano perfettamente udite e comprese. Il
volume della voce dovrà essere adattato al paziente e al contesto, le
parole scandite, la velocità rallentata. Spesso è utile inserire due
alternative di risposta, che aiutano il paziente a orientarsi e facilitano
la successiva comunicazione, ad esempio:
«Il dolore che prova le permette di riposare la notte o la tiene
sveglio?»
«Riesce a sopportarlo o deve prendere dei farmaci?»
«Ha sempre la stessa intensità̀ o comincia piano e poi aumenta?»
Ogni 2-3 domande è utile parafrasare, cioè riassumere quanto è
stato detto, riordinandolo in una trama coerente: «Se ho ben
compreso, lei mi sta dicendo che…».
La parafrasi ha un triplice obiettivo: permette al medico di
verificare se è sulla strada giusta, fungendo così da base per le
domande successive; fa sentire al paziente che è ascoltato e
valorizzato, incrementando la sua collaborazione; innesca nel
paziente un processo di sottile auto-persuasione, tramite la
creazione di tanti piccoli accordi progressivi. Condurre l’anamnesi
con una sapiente sequenza di domande e parafrasi conduce
naturalmente all’accordo finale, che aprirà la strada alla prescrizione
(Nardone, Salvini, 2004).
L’esame obiettivo
L’esame obiettivo, cioè la «visita» vera e propria, è il «grande
assente» della comunicazione telematica, limitandosi al massimo
alla visione di foto o filmati inviati dal paziente.
Peraltro, anche dal vivo ha progressivamente perso di importanza
negli ultimi decenni, parallelamente al progredire della tecnologia:
TAC, risonanze magnetiche, esami endoscopici, ecografie,
elettrocardiogrammi forniscono al medico informazioni molto più
complete e precise rispetto all’esame obiettivo. Se si escludono
alcune specialità come la dermatologia, nella quale la visione diretta
del problema è indispensabile, la visita del paziente è stata
progressivamente sostituita dalla diagnostica di laboratorio e per
immagini.
Se questo è sufficiente per il medico, non sempre lo è per il
paziente, che spesso non si sente curato a sufficienza se non è stato
anche visitato. Manca, dal suo punto di vista, sia l’interesse
percepito verso la sua malattia sia il tocco del terapeuta che ha in sé
potere taumaturgico.
Se il tocco del terapeuta non può essere sostituito in alcun modo,
l’interesse del medico verso la malattia può essere espresso ad
esempio chiedendo al paziente di inviare foto o filmati, o anche
registrazioni audio.
Prendere visione di una foto relativa al suo problema (ad esempio
edemi agli arti, o un problema cutaneo), o ascoltare una
registrazione, ad esempio della sua respirazione, anche se non
strettamente necessario per il medico, fa sentire il paziente
rassicurato e ha un impatto positivo sulla relazione.
Il colloquio
Un altro scoglio comunicativo molto comune, amplificato dal
contesto telematico, è l’uso del linguaggio tecnico-specialistico. Gli
studi mostrano che spesso i pazienti non capiscono fino in fondo
quanto detto dal medico, ma sono reticenti a chiedere spiegazioni
per imbarazzo o paura di apparire ignoranti; i medici, d’altra parte,
sovrastimano il livello di conoscenze linguistiche dei pazienti,
contribuendo ad alimentare un circolo vizioso di incomprensione
reciproca (Milanese, Milanese, 2015). La mancata comprensione
delle indicazioni e delle informazioni fornite dal medico ha un impatto
negativo sull’aderenza alla terapia, oltre a mantenere le distanze
relazionali.
Nel contesto telematico, mancando la comunicazione non verbale,
è più difficile accorgersi se il paziente ha qualche dubbio o non ha
compreso qualcosa. È quindi fondamentale che il medico adoperi il
più possibile parole di uso comune, evitando termini tecnici come
«dispepsia», «extrasistoli», «sincope», ma anche termini stranieri
(«follow-up», «core biopsy») o sigle (MRGE, BPCO),8 spesso
abbondantissime sui referti.
Inoltre, ogni volta che il medico dà una spiegazione o esprime un
concetto importante, è utile verificare con domande che il paziente
abbia compreso, facendo però attenzione a non apparire
paternalistico: se alla domanda «Ha capito quanto ho appena
detto?» la maggior parte delle persone risponderà comunque di sì, e
qualcuno potrebbe irritarsi sentendosi squalificato, chiedere «C’è
qualcosa che vorrebbe aggiungere o approfondire?» di solito mette il
paziente a proprio agio permettendogli di esprimere liberamente i
suoi dubbi.
Offrirsi di rispondere alle domande ha anche un impatto
relazionale molto positivo, indicando disponibilità da parte del
medico, ed è un ottimo modo per concludere ogni fase del colloquio.
Tra i possibili equivoci, amplificati dal contesto telematico, spicca
quello legato all’uso del termine «positivo», molto presente nei referti
(«l’ecografia è positiva», «la biopsia è positiva»). Se per il medico il
termine indica che il sospetto diagnostico è stato confermato (di
solito brutte notizie per il paziente), la parola viene generalmente
interpretata dai non addetti ai lavori come indicazione che tutto vada
per il meglio (positivo, appunto). Per evitare di cadere in questa
trappola, occorre verificare che il paziente abbia compreso il
significato del termine nel particolare contesto, soprattutto quando si
inviano referti per e-mail.
La comunicazione paraverbale
«Col tono giusto si può dire tutto, col tono sbagliato nulla: l’unica
difficoltà consiste nel trovare il tono», diceva George Bernard Shaw,
e, come abbiamo visto in precedenza, il «come» dico qualcosa
connota emotivamente e dà significato al «cosa» dico, denotando il
tipo di relazione (II assioma della Pragmatica della comunicazione
telematica). La frase «dovrebbe proprio smettere di fumare»
pronunciata con tono arrogante o paternalistico rischia di irritare il
paziente scatenando il desiderio di trasgredire all’imposizione; la
stessa frase pronunciata con tono partecipe e preoccupato avrà un
effetto diametralmente opposto. Tuttavia, anche i medici più attenti
alla comunicazione si concentrano prevalentemente su cosa dire, e
non su come dirlo.
La ricerca sulla comunicazione medico-paziente ha mostrato come
la capacità del medico di modulare tono, ritmo, volume della voce,
correli fortemente con la soddisfazione del paziente e lo sviluppo
della fiducia nel medico, rivelandosi a volte anche più importante
della comunicazione verbale e delle informazioni fornite (Larsen,
Smith, 1981; Di Matteo et al., 1986; Griffith et al., 2003). La
soddisfazione è massima quando la voce del medico denota
interesse e partecipazione emotiva.
La comunicazione paraverbale in medicina è così importante da
correlare addirittura con la probabilità di essere citati in giudizio,
come dimostra un brillante studio eseguito dalla psicologa sociale
Nalini Ambady (Ambady, 2002). Il campione studiato comprendeva
66 chirurghi, metà dei quali non erano mai stati citati in giudizio;
l’altra metà aveva ricevuto almeno due denunce.
Estratti di conversazioni tra i medici e i loro pazienti, filtrati in modo
da essere privati del contenuto verbale, furono fatti ascoltare a
persone senza una particolare formazione in comunicazione. Gli
ascoltatori, quindi, percepivano la prosodia, il tono e il volume del
discorso, senza riconoscere le parole. Tutti gli ascoltatori furono
comunque in grado di distinguere i medici denunciati dai non
denunciati, basandosi solo sulle caratteristiche della comunicazione
paraverbale. In particolare, i medici denunciati trasmettevano
elementi di «dominanza», «mancanza di interesse» e «indifferenza»,
al contrario dei non denunciati che venivano percepiti come «caldi»
e «interessati».9
Nel contesto telematico, mancando i segnali non verbali che
comunicano interesse, come sguardi e ammiccamenti, la
comunicazione paraverbale acquisisce un’importanza ancora
maggiore.
Il medico dovrà quindi, durante tutto l’incontro, curare tono, ritmo,
volume, prosodia della voce, pause, silenzi, in modo da esprimere
interesse, partecipazione e competenza.
La creazione dell’accordo
Prima di arrivare alla prescrizione, culmine e atto conclusivo della
visita, occorre aver creato con il paziente l’accordo sul trattamento.
Spesso i medici saltano questa fase, passando direttamente dalla
comunicazione della diagnosi alla prescrizione, che può essere un
farmaco, un intervento di qualunque tipo, o ulteriori esami di
approfondimento o di controllo; tuttavia, in assenza di un accordo
con il paziente, la prescrizione rischia di non essere seguita, o di non
essere seguita alla lettera.
Per la creazione dell’accordo si rimanda a quanto detto nei capitoli
precedenti riguardo la comunicazione persuasoria, aggiungendo qui
alcuni accorgimenti comunicativi specifici.
Il primo accorgimento è il parlare il linguaggio del paziente, sia
evitando il linguaggio tecnico-specialistico sia adattandosi al suo stile
comunicativo. Ad esempio, con le persone che si esprimono in
maniera precisa e linguaggio logico si potrà formulare un discorso
più diretto, mentre con chi si esprime in maniera più fantasiosa si
può utilizzare uno stile più creativo.
Un’altra regola fondamentale è evitare le formule negative, cioè
evitare di negare, contraddire o squalificare il punto di vista del
paziente. Dire a una persona che ha sbagliato o che sta sbagliando,
oppure che una sua idea o credenza sulla malattia non ha senso,
rischia di alienarla completamente. Infatti non bisogna dimenticare
che, se il medico è l’esperto della malattia, il paziente è l’esperto di
sé stesso, ruolo a cui non è di solito disposto a rinunciare.
Prendiamo ad esempio il caso di Rita che si reca dall’otorino per
un fastidioso disturbo alle orecchie. Dopo aver ascoltato il resoconto
preciso del disturbo di Rita, il medico perplesso si lascia sfuggire un
«mi pare strano». Rita si alza in piedi indignata e, prima di uscire
dallo studio del medico, dichiara: «Dottore, io posso accettare che lei
mi dica che non conosce il mio disturbo, ma non posso accettare di
sentirmi dire che non so quello che provo».
Un altro accorgimento importante è evitare le evocazioni negative,
spesso sotto forma di messaggi troppo ansiogeni o allarmistici, che
corrono il rischio di venir rifiutati totalmente, come nel seguente
esempio:

Il signor Armando è dall’oculista per un controllo di routine. Nel corso della visita il
medico riscontra un leggero aumento della pressione oculare e prescrive
immediatamente delle gocce da mettere negli occhi vita natural durante,
indicazione che lascia Armando perplesso, dal momento che non ama prendere
farmaci, e certamente non per tutta la vita. Il dialogo si svolge su questi toni:
Medico: «La sua pressione degli occhi è alta e va trattata immediatamente, non
c’è tempo da perdere!»
Paziente: «Ma, dottore, i valori non sono così alti, sono al limite, magari scendono,
non potremmo aspettare e monitorare?»
Medico: «Io non ho bisogno di aspettare, la pressione non scende, casomai salirà
ancora».
Paziente (spaventato ed esitante): «Ma non potremmo fare altri esami, per
approfondire, che so, l’esame del campo visivo…»
Medico (irritato): «Senta, come le ho detto, io la diagnosi l’ho fatta e non ho
bisogno di altri elementi. Lei farebbe bene a preoccuparsi di più della sua vista, è
giovane e se non fa come dico io, tra qualche anno si troverà cieco!» (evocazione
negativa forte)
Il signor Armando ringrazia il dottore, lo saluta, e appena fuori dallo studio straccia
in mille pezzi il referto della visita, pensando: «Io da questo dottore non tornerò
mai più». Il giorno dopo prende appuntamento da un altro oculista.

Qui l’evocazione negativa forte, deliberatamente usata dal medico


per convincere il paziente a seguire la terapia, ha sortito l’effetto
diametralmente opposto: i toni eccessivamente allarmistici del
messaggio («diventerà cieco») e l’atteggiamento paternalistico («se
non fa come dico io»), uniti a una comunicazione paraverbale che
indicava irritazione, hanno generato nel paziente il totale rifiuto sia
della terapia sia del medico stesso.
A volte l’evocazione negativa è più sottile e del tutto involontaria,
come nel caso della signora Donatella che, casualmente in una
visita di controllo e in pieno benessere, scopre di essere affetta da
fibrillazione atriale.10
Questo il dialogo col cardiologo, persona molto attenta alla
comunicazione, ma senza un training specifico:

Paziente: «Dottore, come è possibile che non mi sia mai accorta di avere la
fibrillazione?»
Medico: «Può capitare, signora… Sa, molti pazienti col suo problema hanno il
cuore che batte veloce e possono avere mancanza di respiro (evocazione
negativa), ma in molti casi la frequenza è normale e lei è una di questi.
Paziente (allarmata): «Allora potrebbe venirmi una fibrillazione rapida!»
Medico: «Non credo, ma tutto è possibile. Se capitasse, si faccia sentire che le
darò dei farmaci per rallentarla».

L’evocazione negativa del cuore che batte troppo rapidamente


togliendo il respiro, non necessaria ai fini della spiegazione del
disturbo, getta benzina sul fuoco dell’ansia della signora Donatella,
costringendola a controlli compulsivi del polso per timore di aver
sviluppato la fibrillazione «rapida».
La prescrizione
L’atto della prescrizione va curato nei dettagli, perché è
fondamentale per garantire la memorizzazione e l’aderenza del
paziente alle indicazioni.
Se l’incontro è stato effettuato in videochiamata, occorre adattare
la comunicazione non verbale: adottare una postura leggermente
protesa in avanti per catturare l’attenzione del paziente e aumentare
il potere ingiuntivo della prescrizione; lo sguardo deve essere diretto
e regolato su quello del paziente.
In ogni caso, ma soprattutto al telefono, la prescrizione deve
essere ingiunta in maniera lenta, scandita e ridondante: ripetere la
prescrizione, cambiando la formulazione ma ribadendo le parti
cruciali, sopperisce alla mancanza della comunicazione non verbale
e favorisce la memorizzazione (Nardone, 1994, Nardone et al.,
2006). Tono e ritmo di voce devono essere modulati, con enfasi sulle
parti importanti del messaggio.
I concetti più importanti devono essere «incorniciati» da una pausa
prima, che crea aspettativa, e una dopo, che ha effetto eco. Ad
esempio, in caso di farmaco da prendere rigorosamente a stomaco
pieno, il medico può sottolineare l’importanza del concetto «dopo i
pasti» facendo una piccola pausa prima, ponendo l’enfasi sulla
parola «dopo», rallentando leggermente, e lasciando un’altra piccola
pausa prima di continuare il discorso («la pastiglia va presa… dopo i
pasti…»).
In un contesto telematico è anche importante dare al paziente il
tempo per prendere eventuali appunti e verificare con domande
l’avvenuta comprensione.
È molto utile anche offrire al paziente la possibilità di un
successivo contatto, via e-mail o telefono, anche al di fuori degli
appuntamenti programmati.
Nel proporre un ulteriore contatto, bisogna però fare attenzione a
evitare di indurre aspettative negative, che possono risultare in una
profezia che si autoavvera.11 Dire «Se il mal di stomaco peggiora, si
faccia sentire», può far sì che il paziente si metta «in ascolto» del
suo stomaco, aumentando il livello di attenzione e di ansia fino a
suggestionarsi nella percezione del sintomo. Molto più utile rendersi
disponibile con «Se c’è qualche novità nel suo stato di salute, mi
chiami pure».
La differenza sembra minima, ma bisogna sempre ricordare che,
soprattutto in caso di disturbi di una certa entità, o quando il paziente
è molto ansioso, il ruolo di «esperto di malattia» conferisce al medico
un potere non dissimile da quello occupato in alcune civiltà primitive
dagli sciamani, capaci di provocare malattie anche gravi con riti e
profezie voodoo.
I medici generalmente sottostimano molto questo loro potere,
finendo a volte per indurre inconsapevolmente profezie negative che
possono suggestionare i pazienti, soprattutto se ansiosi o
ipocondriaci, a percepire determinati sintomi.
Con le parole di Thomas Szasz: «Un tempo, quando la religione
era forte e la scienza debole, l’uomo scambiava per medico lo
stregone; oggi che la scienza è forte e la religione debole, l’uomo
scambia per stregone il medico»
Prendiamo il caso di Sara, 55 anni, ipocondriaca, che si reca
dall’oculista per una visita di controllo, più volte posticipata per la
paura appunto di avere qualche grave problema agli occhi.

L’oculista riscontra solo minime alterazioni compatibili con l’età, e le consiglia una
nuova visita di controllo dopo un anno. Mentre saluta una Sara visibilmente
sollevata, l’oculista aggiunge, quasi come un ripensamento: «A proposito, se mai
dovesse vedere dei lampi di luce, si faccia rivedere immediatamente!» Tanto basta
perché Sara venga rigettata nella paura: «Se dice questo, è perché prevede che io
debba vedere dei lampi di luce. E se prevede questo, probabilmente ha visto
qualcosa di potenzialmente pericoloso che non vuole dirmi per non spaventarmi».
A nulla valgono le rassicurazioni del medico di non aver visto assolutamente nulla
di grave: il seme del dubbio è stato gettato e germoglia nella mente ipocondriaca
di Sara che, puntualmente, dopo qualche tempo, comincia a vedere occasionali
puntini luminosi.
Sara adesso è certa che le stia capitando qualcosa di grave, come predetto dal
medico, e vorrebbe tanto farsi controllare di nuovo, ma la paura della condanna è
troppo grande e quindi posticipa per ben tre anni, al termine dei quali finalmente
trova il coraggio di tornare dal medico e scoprire che la tanto temuta malattia
grave non c’è. Ancora turbata, chiede spiegazioni sul misterioso avvertimento; il
medico risponde di aver l’abitudine di avvisare in questo modo tutti i pazienti, dopo
una certa età, per essere sicura che non sottovalutino certi sintomi. Nel frattempo,
Sara ha vissuto tre anni di terrore.

Occorre quindi che il medico sia ben consapevole del potere della
sua comunicazione: al di là del contenuto del discorso, che parla alla
parte razionale della mente, le immagini negative suscitate dalle sue
parole, come il battito rapido o i lampi di luce, vanno direttamente al
paleoencefalo, la mente antica, colpendola come una lama,
suggestionando il paziente e gettandolo, a seconda dei casi,
nell’apprensione o nell’angoscia.
«La figura del medico è uno psicofarmaco, cui conseguono effetti
principali e secondari, ed è da scegliere e da dosare
individualmente. È il medicamento più nobile e più stabile, ma non è
facile da somministrare. La parola del medico può guarire ma può
anche fare ammalare» (Luban-Plozza, Pöldinger, 1971).
Le comunicazioni scritte
Il dilagare della comunicazione telematica ha fatto crescere in
maniera esponenziale le comunicazioni medico-paziente via e-mail o
tramite i vari servizi di messaggistica. Mentre questi ultimi sono
adoperati prevalentemente per concordare o rinviare appuntamenti,
le e-mail sono di solito utilizzate dal paziente per aggiornare il
medico sul suo stato di salute e dal medico per dare indicazioni e
prescrizioni.
In questo contesto, mancando totalmente sia la comunicazione
non verbale sia la paraverbale, tutto il significato della
comunicazione è caricato sulla parte verbale, che deve essere
quindi curata al massimo.
Prendiamo ad esempio il caso di Stefano, un ragazzo seguito dallo
psichiatra per un disturbo d’ansia legato alla paura di essere
depresso. Il medico prescrive un antidepressivo SSRI a dose ridotta
del 50%, e chiede a Stefano di mandare una e-mail dopo qualche
settimana per riferire il suo stato di salute ed eventuali effetti
collaterali del farmaco.
Alla comunicazione di Stefano di sentirsi meglio e di non aver
avuto effetti collaterali dal farmaco, lo psichiatra risponde dando
indicazione di aumentare la dose, gettando così Stefano nello
sconforto per la paura di essere peggiorato. Dopo diverse notti
insonni, Stefano contatta il medico telefonicamente e scopre che la
dose ridotta inziale era stata prescritta per saggiare la tolleranza al
farmaco, e che una volta appurato che questo era ben tollerato, è
stato portato alla dose piena.
Spesso questo tipo di equivoco, oltre a generare inutilmente ansia
nel paziente, porta a ridotta aderenza alle indicazioni.
«Il dottore è un esperto di relazioni umane», sosteneva Michael
Balint, e anche nel contesto telematico la comunicazione è uno
strumento terapeutico a tutti gli effetti. Non utilizzarne appieno il
potenziale equivale ad affrontare una battaglia con le armi spuntate.
Nonostante la sua indubbia e comprovata importanza, i medici non
vengono formati all’uso strategico della comunicazione, e devono
quindi acquisire questa competenza «strada facendo». Alcuni
professionisti non si pongono il problema o ritengono che le abilità
comunicative nel contesto medico siano «accessorie» e non
indispensabili, continuando a comunicare «spontaneamente»
secondo il loro stile personale.
Anche quando sono naturalmente empatici, la comunicazione di
questi professionisti non è gestita in maniera consapevole per
ottenere l’effetto desiderato. Può quindi capitare che anche frasi
apparentemente innocue preoccupino o spaventino il paziente,
spesso fungendo da seme per lo sviluppo di un disturbo d’ansia,
come nell’esempio della signora Donatella.
Per fortuna l’interesse per la comunicazione in medicina è molto
aumentato negli ultimi anni, complici anche gli sviluppi delle
neuroscienze e della medicina integrata che ogni giorno di più
dimostrano l’importanza degli atteggiamenti mentali nel
mantenimento della salute e chiariscono molti meccanismi alla base
delle interazioni mente-corpo.
Molti professionisti quindi stanno investendo tempo ed energie
nello sviluppo di competenze comunicative e relazionali, traendone,
insieme ai loro assistiti, enormi benefici nella pratica clinica.
La profonda modificazione cui stiamo assistendo, legata
all’implemento della cura a distanza nel contesto telematico,
aggiunge a questa sfida un nuovo livello di complessità: saper
comunicare telematicamente richiede al medico una particolare
attenzione per adattarsi al contesto.
«Ogni paziente dovrebbe sentirsi un po’ meglio dopo la visita del
medico, a prescindere dalla natura della sua malattia», diceva
Warfield Theobald Longcope. Possiamo aggiungere che di una
comunicazione efficace, anche nel contesto telematico, beneficerà
oltre al paziente anche il medico, perché nel rapporto terapeuta-
paziente si vince o si perde entrambi.
Capitolo 5
La psicoterapia telematica: le sfide del
setting a distanza

Le statistiche sulla salute mentale dicono


che una persona ogni quattro soffre
di qualche forma di malattia mentale.
Pensa ai tuoi tre migliori amici.
Se sono a posto, allora sei tu quello matto!
Rita Mae Brown
«Non esiste salute senza salute mentale»
Con queste parole Tedros A. Ghebreyesus, direttore generale
dell’OMS, ammonisce i governi e le istituzioni a occuparsi e
preoccuparsi immediatamente delle conseguenze psicologiche
dell’epidemia di Coronavirus.
Ora che la prima ondata di emergenza è passata, che le terapie
intensive si sono svuotate e che la preoccupazione per i contagi si
sta progressivamente attenuando, possiamo e dobbiamo occuparci
di tutte le altre conseguenze dell’epidemia.
Lo tsunami della pandemia ha travolto l’umanità con ondate
successive di paura, angoscia, dolore, rabbia, dilagate
parallelamente al dilagare del virus. E come ogni tsunami che si
rispetti, anche questo, ritirandosi, lascia dietro di sé un’immensa scia
di distruzione e desolazione.
Solitudine, lutti, incertezza, crisi economica, paura dell’infezione,
paura dell’ignoto alimentano ansia, angoscia, stress, disturbi del
sonno, che possono dare origine a ipocondria, disturbi di ansia,
disturbi ossessivo compulsivi, disturbi post-traumatici, depressione.
Anche la «nuova normalità», all’insegna dell’isolamento e del
distanziamento sociale, richiederà una capacità di adattamento che
non tutti hanno; potranno quindi nascere e svilupparsi nuovi disagi e
disturbi.
Sono a rischio i soggetti più fragili, gli anziani, quelli con precedenti
disturbi mentali o quelli che hanno lavorato in prima linea, ma
nessuno di noi può considerarsi completamente immune.
Per questo motivo, il direttore dell’OMS esorta tutti i Paesi a
rafforzare i loro sistemi di salute mentale, preparandoli all’impatto,
ricordando anche che «La cattiva salute mentale è associata a una
ridotta adesione verso gli interventi riguardanti la salute fisica in
generale» (e quindi il contenimento del contagio).12
In Italia, il Ministero della Salute ha istituito un numero verde al
quale tutti i giorni professionisti della salute mentale rispondono alle
richieste di aiuto; analoghe iniziative sono state prese da vari gruppi
di professionisti su base volontaria.
La necessità di fornire assistenza a fasce molto ampie di
popolazione ha portato anche allo sviluppo di specifici programmi,
detti chatbot (assistenti virtuali), scaricabili su tablet o smartphone,
che, simulando una conversazione tra persone, fanno una prima
analisi dei sintomi, valutandone la gravità, suggerendo poi alla
persona come comportarsi.13
I professionisti della salute mentale sono quindi in pieno stato di
allerta, pronti a diventare la nuova «prima linea» di intervento; anche
per loro, tuttavia, si pone la necessità di limitare le occasioni di
contagio, di curare persone che non possono spostarsi agevolmente
e di ottimizzare le risorse. Verrà quindi privilegiata la cura
psicoterapica a distanza e il contesto telematico.
Effettuare una psicoterapia «a distanza» e per via telematica
rappresenta una sfida ancora maggiore rispetto a quella di eseguire
una visita medica.
Non tutte le visite mediche hanno infatti un’alta intensità emotiva e
non sempre al medico sono richieste raffinate abilità persuasorie.
Pensiamo, ad esempio, al medico consultato per una gastrite, un
controllo di routine della pressione o del colesterolo, un certificato di
idoneità sportiva o un controllo oculistico, tanto per citare alcuni
esempi. Quando il disturbo è lieve, la diagnosi è semplice, e la
prescrizione di un farmaco risolve il problema; saper gestire le
emozioni del paziente e possedere raffinate capacità comunicative
può essere utile, ma non è strettamente indispensabile.
In psicoterapia, al contrario, la comunicazione è il metodo principe
sia dell’indagine del problema, sia della sua soluzione: l’intensità
emotiva è spesso alta, la relazione terapeutica è sempre
fondamentale.
Una disciplina che basa gran parte della sua efficacia sulla
comunicazione e sulla relazione non può che risentire maggiormente
del contesto telematico, ed è per questo che occorre fare ogni sforzo
possibile per adattare a questo particolare contesto la modalità con
cui si conduce la terapia, affinché mantenga intatta la sua efficacia.
L’arte di curare con le parole
«La potenza della parola nei riguardi delle cose dell’anima sta nello
stesso rapporto della potenza dei farmaci nei riguardi delle cose del
corpo» diceva Gorgia da Lentini, il primo grande «psicoterapeuta»
dell’antichità.
La parola è per lo psicoterapeuta l’equivalente del farmaco per il
medico, e il cambiamento terapeutico l’equivalente della guarigione.
Per cambiamento terapeutico non si intende un generico
miglioramento che avvenga nella vita del paziente in corso di
psicoterapia, ma un «Cambiamento non casuale, ma focalizzato in
una direzione ben precisa, che dovrebbe essere definita a priori
come obiettivo terapeutico» (Nardone, 2013).
I tre pilastri su cui poggia ogni psicoterapia, indipendentemente
dalla teoria di riferimento, sono tecnica, comunicazione e relazione.

La tecnica è uno «strumento psicologico dell’interazione


terapeutica, formalizzato, ripetibile e trasmissibile, la cui
applicazione si è dimostrata efficace nel produrre un
cambiamento e/o nel risolvere o gestire una forma di sofferenza
psicologica. La tecnica comprende l’applicazione sia di
procedure di problem solving,14 sia di modalità̀ comunicative e
relazionali» (Nardone, 2013). Ogni modello si struttura intorno a
un insieme di tecniche, che lo caratterizzano e che vengono
insegnate a chi si forma in quel particolare modello. Ne sono
esempi la tecnica delle associazioni libere di Freud (Freud,
1900), l’immaginazione attiva per la comprensione dei sogni di
Jung (Jung, 1977), le tecniche corporee di Lowen (Lowen,
1975), l’ipnoterapia di Milton Erickson (Erickson, 1948), le
tecniche di problem solving strategico (Nardone, 2009), solo per
citarne alcune.
La comunicazione è il veicolo principale della psicoterapia.
Ogni modello ha formalizzato tecniche di comunicazione
differenti per guidare il paziente a superare il proprio disturbo. Al
di là delle singole tecniche, tuttavia, è importante distinguere
due grandi modelli comunicativi: il convincimento e la
persuasione.
– Il convincimento (dal latino cum-vincere, cioè prevalere con le
proprie tesi sulle posizioni altrui) si basa sulla dialettica, cioè la
contrapposizione di due tesi. Come in un duello, ogni
contendente porterà a favore della propria posizione il massimo
numero di argomentazioni possibile, fino a che uno dei due
interlocutori prevarrà sull’altro, che si arrenderà schiacciato dal
peso delle prove. Chi viene convinto sposerà la tesi altrui, ma
non potrà scacciare del tutto la sottile impressione di essere
stato in qualche modo «sconfitto». Il convincimento si basa
soprattutto sui contenuti razionali delle argomentazioni,
prestando poca o nessuna attenzione alla forma; il linguaggio è
informativo e descrittivo, concreto e diretto. Il convincimento si
adatta bene alle discussioni di tipo scientifico, laddove vince chi
riesce a produrre il maggior numero di prove a sostegno della
propria posizione.
– La persuasione, al contrario, si rifà all’arte della dialogica, e si
distingue dal convincimento perché riesce a condurre
l’interlocutore a cambiare la propria posizione dolcemente e
senza forzature. Etimologicamente, infatti, persuadere è
«condurre soavemente a sé» (Nardone, 2015). Tuttavia, proprio
nella dolcezza sta la potenza della persuasione. Con le parole di
Gorgia, uno dei grandi persuasori dell’antichità: «In tal modo si
constata il dominio della persuasione, la quale pur non avendo
l’aspetto della necessità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti, un
discorso che abbia persuaso un’anima la costringe a credere
nei detti e a consentire nei fatti» (Encomio a Elena). Uno degli
esempi più eleganti di processo persuasorio viene da un altro
grande persuasore, Blaise Pascal, con la sua famosa
«scommessa». Pascal pone la questione se sia più
conveniente, in assenza di prove definitive, credere o non
credere nell’esistenza di Dio: argomenta poi che è di gran lunga
più conveniente credere, perché se Dio non esiste avremo solo
perso la scommessa, ma se esiste e non abbiamo creduto,
avremo perso la beatitudine eterna. Dopo l’argomentazione
iniziale propone una prescrizione per rendere la scelta naturale
e spontanea: «Andate in chiesa, onorate i sacramenti anche se
avete dubbi, comportatevi come se già credeste, e la fede non
tarderà ad arrivare». Il cambiamento di prospettiva seguito
dall’esercizio reiterato costruisce gradualmente una nuova
credenza, cioè persuade. Sempre con le parole di Pascal,
«Bisogna mettersi nei panni di coloro che devono ascoltarci e
saggiare sul proprio cuore l’effetto che farà il giro che si darà al
discorso, per vedere se l’uno è fatto per l’altro e se si può star
certi che l’uditore sarà forzato ad arrendersi» (Nardone, 2015).
Nel modello strategico la comunicazione terapeutica coincide
con la comunicazione persuasoria: si tratta di una
comunicazione che elicita la collaborazione del paziente, aggira
le sue resistenze, e attiva le sue risorse verso la risoluzione del
problema. Il linguaggio persuasorio comprende due componenti,
entrambe essenziali per raggiungere l’obiettivo desiderato: il
linguaggio indicativo e descrittivo, che spiega, descrive e
trasmette informazioni, e il linguaggio performativo15 che fa
sentire, persuade, prescrive e guida l’altro a cambiare. Il
linguaggio persuasorio utilizza entrambe le forme, a seconda
della persona, del tipo di problema e della fase della terapia.
Spiegazioni, immagini evocative e ingiunzione di comportamenti
sono sapientemente miscelate e alternate per ottenere l’effetto
desiderato. Immaginiamo di avere un paziente ipocondriaco
che, temendo di ricevere una diagnosi infausta, eviti in maniera
sistematica ogni visita o analisi medica, anche quando
sarebbero indicate. A questo paziente si può dare una
spiegazione: «Sa, se lei continua a fare così rischia veramente
di non accorgersi in tempo di quello che accade nel suo corpo, e
prima o poi se ne pentirà amaramente!», argomentazione del
tutto logica e razionale con la quale il paziente non potrà che
essere d’accordo, salvo poi rimanere inesorabilmente bloccato
dalla propria paura. Oppure si può usare un’immagine analogica
dicendo: «Sa, lei mi ricorda tanto lo struzzo che mette la testa
sotto la sabbia per non vedere il leone… poi il leone arriva e se
lo mangia». La potenza di questa immagine avversiva, più di
ogni argomentazione logica, aggira la resistenza del paziente,
persuadendolo a sottoporsi agli accertamenti necessari. Dare
alla persona la descrizione logica e poi l’immagine analogica
della sua situazione aumenta il potere persuasorio e
performativo del linguaggio e favorisce il cambiamento.
La relazione terapeutica, infine, è la «somma delle regole che
governano l’interazione tra terapeuta e paziente e che
stabiliscono qual è il significato che va attribuito al messaggio
contenuto nella comunicazione» (Nardone, 2013).Riprendendo
quanto già esposto nei capitoli precedenti sugli assiomi della
comunicazione, le relazioni possono essere simmetriche, cioè
basate sull’uguaglianza, o complementari, cioè basate sulla
differenza. In questo ultimo caso uno dei partecipanti assume la
posizione one-up e l’altro la posizione one-down. Nella
relazione, il terapeuta può assumere l’una o l’altra posizione
comunicativa a seconda del contesto e dell’effetto desiderato.
Nel modello strategico, ad esempio, all’inizio di una seduta, il
terapeuta si pone prima in posizione di ascolto, poi comincia a
fare domande, mettendosi in una posizione apparentemente
one-down, lasciando la scena al paziente che si trova quindi in
posizione one-up. Questo porsi inizialmente one-down permette
però al terapeuta di condurre il dialogo e di arrivare prima alla
definizione del problema, secondo l’antico stratagemma di
«Partire dopo per arrivare prima» (Nardone, 2010). Altro
esempio di relazione apparentemente one-down è quando il
terapeuta, attraverso una raffinata sequenza di domande e
parafrasi, permette alla persona di scoprire la via di uscita dal
suo problema invece di indicarla direttamente (Nardone, Salvini,
2004). Citiamo qui ancora Pascal: «Ci si persuade meglio con le
ragioni che abbiamo trovato da noi, che con quelle che si son
presentate all’intelletto di altri».
I fattori terapeutici
Cosa rende efficace una psicoterapia e quanto peso hanno
rispettivamente la tecnica, la comunicazione e la relazione nel
determinare il cambiamento?
La teoria dei fattori comuni si propone di rispondere a questa
domanda. Questa teoria si rifà al «verdetto di Dodo» secondo il
quale tutte le terapie hanno efficacia simile, dato che un’ampia
percentuale degli esiti terapeutici dipende dal paziente16 (Luborsky
et al., 2002; Luborsky, Singer, 1975).
Partendo da diverse meta-analisi17 condotte su numerosi studi sul
cambiamento terapeutico, provenienti da ambiti anche molto
differenti, questo modello ha cercato di analizzare quali siano i
«fattori terapeutici comuni» a tutte le psicoterapie e che peso
abbiano nel creare il cambiamento.
Lambert e Barley (2001) hanno così identificato quattro fattori
responsabili del cambiamento:

1. Fattori extra terapeutici, cioè le caratteristiche intrinseche dei


pazienti: livello di sofferenza, risorse, motivazione, resistenza al
cambiamento: impatto del 40%.
2. Aspettativa del paziente ed effetto placebo: impatto del 15%.
3. Tecniche terapeutiche: impatto del 15%.
4. Fattori comuni alle varie terapie: la relazione, l’alleanza
terapeutica, l’empatia del terapeuta, le sue caratteristiche
personali, la sua capacità di catturare il paziente, le sue abilità
comunicative e persuasorie: impatto del 30%.

Gli autori sottolineano come comunicazione e relazione terapeutica


siano i principali determinanti dell’esito di una terapia. La stessa
cosa sosteneva anche Carl Gustav Jung: «Conosci tutte le teorie.
Domina tutte le tecniche. Tuttavia, per toccare un’altra anima umana,
devi semplicemente essere un’altra anima umana».
Questa posizione è stata poi disconfermata dalle ricerche
empiriche più recenti; esse dimostrano che sebbene l’aspettativa e
la relazione siano fattori importanti, le tecniche specifiche elaborate
per le particolari psicopatologie incrementano significativamente
l’efficacia del trattamento (Castelnuovo, Molinari, Nardone, Salvini,
2013). Si deve inoltre considerare che anche il modo di comunicare
e di relazionarsi con il paziente, se adattato sia alla persona sia al
tipo di disturbo, garantisce migliori risultati terapeutici (Nardone,
2020).
Ed è proprio l’aspetto comunicativo e relazionale quello che risente
maggiormente del contesto telematico. La perdita del canale non
verbale e la mancanza di un rigido setting terapeutico come quello
dei modelli psicodinamici cambiano profondamente il modo in cui
terapeuta e paziente si relazionano. La sfida dunque è adattare ogni
modello in modo che mantenga il più possibile intatta la propria
efficacia.
L’adattamento dei vari modelli al contesto telematico non è però
uguale per tutti. Alcuni, come il modello strategico e il modello
cognitivo-comportamentale, si strutturano attorno a un corpo di
tecniche di problem solving e possono compensare meglio le
differenze nelle modalità di comunicazione e relazione. Buone
strategie di problem solving, infatti, potenziano la relazione,
incrementando l’aspettativa del paziente e favorendo il crearsi
dell’alleanza terapeutica (Nardone et al., 2000). Una buona tecnica
può anche aggirare le resistenze del paziente e attivarne le risorse,
che non sono quindi da considerarsi sue caratteristiche
«intrinseche», ma possono variare all’interno di una relazione
terapeutica.
Il modello strategico in particolare ha formalizzato, oltre alle
tecniche di problem solving, anche tecniche comunicative raffinate,
di stampo persuasorio, che sono veri e propri strumenti terapeutici.
I principi alla base di queste tecniche sono:

1. Assunzione del linguaggio e del punto di vista del paziente.


2. Adattamento del linguaggio al tipo di disturbo: caldo e
avvolgente con, per esempio, un’anoressica, tecnico e
distaccato con un ossessivo compulsivo.
3. Utilizzo in seduta di molteplici tecniche (suggestioni dirette o
indirette, metafore, uso del linguaggio non verbale e
paraverbale) allo scopo di raggiungere l’obiettivo persuasorio.
4. Ingiunzioni di comportamento da mettere in atto al di fuori delle
sedute (prescrizioni).

Il compito dello psicoterapeuta […] non è affatto quello di «trovare» cosa è che
non va nel paziente per poi poterglielo «dire» […] Il lavoro dello psicoterapeuta
non consiste nemmeno nell’imparare cose riguardo al paziente per poi
insegnargliele, bensì insegnare al paziente come imparare ciò che concerne sé
stesso […] e questo avviene sulla base di esperienze concrete e non verbali».

Queste parole di Fritz Perls (Perls, 1969) bene illustrano la


processualità strategica. Non una diagnosi da rivelare al paziente
per poi dirgli cosa deve fare, ma una scoperta congiunta, tra
paziente e terapeuta, sia di cosa non funzioni per quella particolare
persona in quel particolare momento, sia di come fare per risolvere il
problema. I cambiamenti terapeutici avvengono in virtù di esperienze
reali vissute nel presente, o durante l’incontro col terapeuta o nella
vita quotidiana, tramite le prescrizioni di comportamento. È questo il
concetto di «esperienza emozionale correttiva»,18 cardine della
psicoterapia strategica: un’esperienza concreta ottenuta mediante
eventi casuali «pianificati», ovvero situazioni che appaiono casuali al
paziente ma sono in realtà attentamente predisposte dal terapeuta
per produrre l’effetto correttivo desiderato (Nardone, 2013). Secondo
l’ottica strategica, infatti, il problema o disturbo nasce quando la
persona in una determinata situazione è intrappolata in un punto di
vista rigido che gli impedisce di vedere la via d’uscita. Scopo della
terapia è, partendo dal punto di vista del paziente, fargli assumere
dolcemente e senza forzature punti di vista alternativi che gli
permettano di gestire la sua realtà in maniera più funzionale, vale a
dire costruire, mediante la comunicazione, realtà inventate che
producono effetti concreti (Watzlawick, Nardone, 1997).
Adattarsi al contesto telematico
Ma in che modo tecniche specifiche, comunicazione e relazione
agiscono e interagiscono tra loro, e come vengono modificate nel
contesto telematico?
Anche in questo caso, come nella visita medica, il limite principale
che il terapeuta deve superare è la perdita del canale non verbale.
Perdendo buona parte del potere suggestivo di sguardo, sorriso,
espressioni e gestualità, il terapeuta dovrà trasferire tutta la potenza
persuasoria della comunicazione sul canale verbale (selezione delle
parole, ristrutturazioni, argomentazioni) e sul paraverbale (musicalità
della voce, silenzi, pause).
Il modello strategico, che ha formalizzato sia tecniche di problem
solving sia tecniche comunicative basate sul potere performativo
della parola, si adatta facilmente al contesto telematico, a patto che il
terapeuta adotti alcuni accorgimenti e si mantenga flessibile durante
tutta l’interazione.
Molto è stato detto nei capitoli precedenti su come adattare la
comunicazione in generale al contesto telematico.
In questa sede sottolineiamo l’importanza di porre ancora più
attenzione all’uso del linguaggio performativo, sia nella sua parte
evocativa che nella sua parte ingiuntiva.
Il linguaggio evocativo (aforismi, ristrutturazioni, analogie e
metafore, storie e narrazioni) serve a creare nell’interlocutore
sensazioni, indurre l’esperienza emozionale correttiva e aggirare
eventuali resistenze razionali.
Come evidenziato, usare un linguaggio evocativo non significa fare
sfoggio di dotte citazioni, ma utilizzare strategicamente una modalità
linguistica che deve sia aderire alle modalità percettive dell’altro, per
fargli sentire che abbiamo compreso la sua posizione, sia
raggiungere lo scopo desiderato, come aggirare le resistenze e
indurre all’azione. Non una freccia scagliata a caso, dunque, ma una
freccia costruita ad hoc per quel particolare paziente e diretta verso
un preciso bersaglio. Perché le evocazioni colpiscano nel segno, è
fondamentale anche il timing, cioè che siano utilizzate al momento
giusto.
Un detto ebraico recita così: «Una parola detta al momento giusto
è come un diamante incastonato nell’oro». E il medico e
drammaturgo austriaco Arthur Schnitzler ha scritto: «Essere pronti è
molto, saper attendere è meglio, ma sfruttare il momento è tutto».
Le prescrizioni, o ingiunzioni di comportamento, andranno
pronunciate con voce lenta e ben scandita, ripetendo gli enunciati
più importanti. Frasi brevi e ridondanti, scandite, vengono recepite e
memorizzate più facilmente di periodi lunghi e convoluti.
La comunicazione paraverbale, come già illustrato nei capitoli
precedenti, acquista ancora più importanza, e va regolata in maniera
suggestiva: i cambi di tono, di velocità, di ritmo e le pause catturano
e mantengono l’attenzione; un tono basso, caldo ed empatico
comunica interesse e partecipazione, mentre un tono acuto
comunica ansia o preoccupazione.
Un volume troppo alto comunica ansia, irritazione o dominanza,
troppo basso disinteresse o noia; l’eloquio lento ha effetto calmante,
mentre parlare troppo rapidamente comunica ansia, fretta o
preoccupazione.
Per sintonizzarsi con il paziente e le sue emozioni, in mancanza
del canale non verbale, acquista particolare importanza l’ascolto:
occorre quindi fare molta attenzione alle parole che il paziente usa,
all’organizzazione dei significati, al ritmo e volume della sua voce,
alle pause, e ai silenzi.
«Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile
dalla magia» ha scritto Arthur C. Clarke. I mezzi tecnologici a nostra
disposizione certamente a volte danno questa impressione,
permettendoci di condurre a distanza anche un’attività comunicativa
complessa come la psicoterapia. Tuttavia, per quanto avanzati o
perfezionati, i mezzi tecnologici mai potranno uguagliare, tanto meno
superare, l’interazione umana diretta.
Per tale motivo, per essere efficace una psicoterapia a distanza
deve basarsi su un modello con tecniche comunicative e di problem
solving strutturate che possano essere adattate al mezzo e alla
circostanza, mantenendo intatta la relazione terapeuta-paziente che
abbiamo visto essere uno dei principali fattori determinanti del buon
esito di una terapia.
Tale modello utilizzerà in pieno il potere performativo e, perché no,
anche «magico» della parola. Riportiamo per intero il pensiero di
Freud sull’argomento, a cui più volte abbiamo fatto riferimento:

Originariamente le parole erano magiche e, ancor oggi, la parola ha conservato


molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice
l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo
sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditorio e ne determina i
giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il
quale gli uomini si influenzano tra loro. Non sottovaluteremo quindi l’uso delle
parole nella psicoterapia (Freud, 1933).
Capitolo 6
La formazione a distanza

Dimmi e io dimentico; mostrami


e io ricordo; coinvolgimi e io imparo
Benjamin Franklin

La moderna formazione a distanza (FAD) non è una cosa così


moderna come si potrebbe pensare: ha origine nella prima metà
dell’Ottocento quando, parallelamente alla nascita dei servizi postali
moderni, appaiono nei paesi anglosassoni i primi «corsi per
corrispondenza». Successivamente, a metà del secolo scorso,
compaiono i programmi radiotelevisivi, come quello mandato in onda
dalla RAI negli anni Sessanta, per insegnare agli analfabeti a
leggere e scrivere.19 Negli anni Ottanta, con l’avvento e la diffusione
dei personal computer, la FAD entra nella sua seconda fase,
caratterizzata da un uso integrato di fascicoli, programmi televisivi,
audiocassette e, successivamente, videoregistrazioni e software
didattico (floppy, CD-Rom). La terza e più moderna generazione di
FAD, quella attuale, utilizza il world wide web, cioè la Rete, e prende
il nome di «formazione in rete» o e-learning, che ha soppiantato
pressoché interamente le altre modalità. Tramite la Rete si possono
così gestire a distanza interi corsi di laurea universitari, master,
programmi di formazione continua di diverse categorie professionali,
programmi di formazione aziendale e di formazione personale.
La progressiva e naturale espansione della FAD, che è andata in
parallelo con lo sviluppo della tecnologia, ha subito un’impennata
durante la pandemia da Coronavirus, quando si sono trasferite «a
distanza» gran parte delle attività formative precedentemente fatte
«in presenza».
Anche le persone più diffidenti o meno tecnologiche si sono così
trovate costrette a utilizzare la formazione in Rete, e ben presto
hanno cominciato ad apprezzarne i numerosi vantaggi: risparmio di
tempo e risorse, sia per gli utenti che si collegano da casa o dal
luogo di lavoro, sia per gli organizzatori che non devono ospitare in
presenza gli iscritti al corso; ampio margine di autonomia
nell’organizzazione di tempi e modi di studio; personalizzazione del
percorso formativo; interazione con altri studenti e con i docenti
tramite strumenti come le FAQ,20 la chat,21 la VoIP22 o il Web
forum;23 facile ricorso a esperti anche geograficamente lontani;
possibilità di arricchire, espandere, revisionare o aggiornare
rapidamente i materiali didattici. Non ultima, l’estrema versatilità che
caratterizza la FAD nasce dalla selezione e dalla combinazione di
varie tipologie formative: intervista, videocorso, videoconferenza,
presentazione su slide sono utili per il trasferimento di conoscenze e
l’acquisizione di nozioni; corsi più interattivi favoriscono
l’acquisizione di nuove abilità; strumenti utilizzabili in gruppo, come
lavagne condivise, forum on line, ambienti di simulazione, sono
indispensabili per generare collaborazione all’interno di un gruppo di
lavoro.
Nell’intervista formativa un intervistatore lancia il tema della
conversazione, lasciando poi la parola all’esperto. Nel mondo social
le interviste in diretta permettono al pubblico di fare domande
direttamente all’intervistato, accorciando notevolmente le distanze
tra pubblico ed esperti.
Il videocorso è una modalità di grande successo: visionabile nei
contesti più disparati, come ad esempio durante gli spostamenti
quotidiani, ottimizza i tempi della formazione. Aprendo una semplice
app sul proprio smartphone si può accedere a ore e ore di contenuti
riguardanti un’immensa varietà di temi. La video-pillola è un breve
video gratuito che stimola la curiosità dell’ascoltatore, invogliandolo
ad acquistare un videocorso o una consulenza. Molto versatile è
anche la presentazione tramite slide, che possono essere di
appoggio a un relatore, o visionabili da sole, accompagnate o meno
da una voce narrante. In alcuni casi i contenuti delle slide vengono
creati in diretta (live), inquadrando un foglio bianco, versione
tecnologica della lavagna, sul quale il relatore scrive in diretta i
concetti chiave. Nella videoconferenza uno o più relatori, dopo aver
discusso un tema, possono interagire con il pubblico, mentre nella
tavola rotonda digitale più speaker intavolano un dibattito formativo
per chi ascolta. Molto usati sono anche i tutorial, piccoli video gratuiti
caricati sul Web, per spiegare come fare qualsiasi cosa, dal
cambiare una ruota all’auto, a mettersi una cravatta, a cucinare un
determinato cibo. La principale finalità dei tutorial è catturare l’utente
e costruire un pubblico. La formazione ibrida integra momenti
telematici e momenti di formazione dal vivo, inserendo l’utente in un
percorso di formazione variegato e di lungo periodo. Il docufilm, una
combinazione di filmati e interviste, supportate da narrazione, è una
modalità estremamente potente poiché associa le esperienze
emotive, evocate con l’utilizzo sapiente di musica, immagini e di una
trama avvincente, all’acquisizione di nozioni tecniche, fornite dalle
spiegazioni e dalle interviste a professionisti.
Un esempio di questa modalità formativa a cui abbiamo preso
parte è il docufilm Covid-19 – il virus della Paura, prodotto da
Consulcesi, una delle più importanti società di formazione a distanza
(che, non a caso, durante il periodo di lockdown ha registrato un
incremento dell’attività di FAD del 40%24), avvalendoci sia della
forza comunicativa del cinema, i cui professionisti – registi,
sceneggiatori e montatori – sanno meglio di chiunque altro usare le
immagini e la trama per creare forti emozioni nel pubblico, sia del
supporto scientifico di esperti che intervenivano alternandosi a
personaggi rappresentativi dei profili psicologici espressione delle
differenti reazioni emotive e comportamentali alla pandemia. Il
docufilm si propone così come una nuova modalità formativa, che fa
leva non solo sui contenuti da passare ma anche sulle emozioni da
evocare strategicamente per influenzare il comportamento di chi lo
guarda. Nel caso di Covid-19 – il virus della Paura l’alternanza di
linguaggio tecnico delle interviste e dell’impatto emotivo scaturito da
un uso sapiente di trama, musica e scene suggestive mette in atto
una vera e propria esperienza di cambiamento emozionale, che fa sì
che lo spettatore non possa non esserne influenzato.
Sempre per Consulcesi il Centro di Terapia Strategica ha
realizzato corsi on line sulla comunicazione medico-paziente, sulla
comunicazione per gli informatori medici scientifici e sulla
pragmatica della comunicazione a distanza. In questo caso la
modalità più efficace è risultata la creazione di slide costruite ad hoc
per ogni modulo con spiegazioni tecniche supportate da esempi
pratici unite a immagini evocative che aiutano il processo di
apprendimento e l’esperienza formativa. Ogni modulo è introdotto da
un breve video esplicativo sulle tematiche trattate. Questa unione di
slide e video introduttivi-esplicativi si è dimostrata estremamente
efficace: se ben strutturati e organizzati, i due supporti, video e slide,
rappresentano uno strumento di apprendimento rapido, versatile e di
grande impatto.
La tecnologia incontra l’arte della persuasione: la
formazione strategica a distanza

La mente non è una nave da caricare


ma un fuoco da accendere.
Plutarco

Apprendere, sia a distanza che in presenza, significa molto di più


che acquisire nozioni. Secondo il paradigma costruttivista,25 al quale
questo lavoro fa riferimento, gli allievi non devono essere considerati
«contenitori» passivi da riempire con informazioni, ma costruttori
attivi di conoscenza: ogni apprendimento parte da un’esperienza, a
cui la persona attribuisce un significato, per poi analizzarla e
integrarla nei propri schemi mentali, contribuendo così a costruire
nuovi modelli mentali o rinforzare quelli già esistenti. Questi modelli,
a loro volta, vengono utilizzati per interpretare le successive nuove
esperienze, in un continuo processo circolare di costruzione della
realtà.26 È noto infatti che, senza esperienze emozionali concrete,
non si realizzano effettivi cambiamenti e, pertanto, nemmeno
effettive acquisizioni. Impariamo prima ciò che percepiamo come
importante o significativo, memorizziamo meglio ciò che ci
emoziona27 o che si adatta bene ai nostri schemi mentali.
L’apprendimento quindi, per essere efficace ed efficiente, deve
seguire il normale funzionamento del cervello, applicando il concetto
di esperienza emozionale già illustrato nei capitoli precedenti:
un’esperienza percepita come significativa e che generi un’emozione
viene appresa e memorizzata; con la ripetizione, l’apprendimento
viene consolidato in acquisizione.
Esperienze e apprendimento arrivano infatti a plasmare
letteralmente il cervello (neuroplasticità), come hanno dimostrato le
moderne neuroscienze, creando anche nell’adulto collegamenti
neurali che diventano sempre più efficaci con la ripetizione
dell’esperienza (Gazzaniga, 1999, 2009, 2011).
La processualità di una formazione efficace, dunque, parte sempre
dal «sentire». «Nulla è nell’intelletto che non si trovi prima nei
sensi», diceva Tommaso d’Aquino, e i discenti devono sentire che
stanno per apprendere qualcosa di interessante, importante e
significativo. Correttezza e completezza dei contenuti, per quanto
indispensabili, non sono sufficienti se negli allievi non si evoca il
desiderio di imparare o di approfondire l’argomento. A tal scopo, nel
contesto telematico un’esperienza sensoriale ricca e significativa si
costruisce facendo ampio uso della multimedialità, cioè utilizzando
più canali (visivo, uditivo) e più formati (parola scritta e parlata,
immagini, video, musica), il tutto adattato naturalmente all’uditorio e
al contesto. Immagini, musica, fotografie, filmati possono mescolarsi
e alternarsi ai contenuti scritti o parlati, in una varietà pressoché
infinita di combinazioni, modulabili in modo da ottenere l’effetto
desiderato.
La sfida per il formatore è trovare il giusto equilibrio, cioè
selezionare, nella profusione di possibilità, il materiale utile a
evocare sensazioni, catturare e mantenere l’attenzione, evitando al
tempo stesso di farsi prendere la mano e appesantire inutilmente la
presentazione.
Il «sentire» non si applica solo ai contenuti della formazione, ma
anche alla figura del formatore che deve catturare l’interesse fin
dall’inizio, entrando direttamente nel tema con una massima, un
aforisma, una riflessione, un gesto, e presentarsi, come già esposto
nei capitoli precedenti, armonizzando gesti, postura, movimenti e
linguaggio. L’armonia del tutto deve affascinare, cioè creare un
effetto suggestivo e ipnotico: con le parole di Martin Luther King, «I
grandi oratori incantano anche con le banalità».
Dal «sentire», cioè dall’aspetto evocativo ed emotivo, si passa poi
al «comprendere». Nella programmazione del corso occorre
attenersi a un principio strategico molto importante: conosci il tuo
pubblico e parla la sua lingua. Ogni aspetto della formazione, dalla
scelta del formato da utilizzare (docufilm, slide, videocorso…), alla
struttura logica, alla selezione delle immagini, all’utilizzo del
linguaggio, deve essere pensato con l’uditorio e il contesto in mente,
in modo che la lezione sia interessante, accessibile e utile per quel
particolare pubblico. Una presentazione sulla fisica quantistica per
fisici sarà strutturata in maniera molto differente da un corso di
formazione sulla leadership o da un corso di aggiornamento per
medici. Inoltre, sia in fase di programmazione che di erogazione del
corso occorre attenersi al principio della semplicità: niente di
superfluo, solo l’essenziale. Troppi contenuti confondono e
affaticano l’uditorio, troppi dettagli (abuso di grafica o effetti speciali,
testi prolissi e verbosi, grafici e tabelle complicate) appesantiscono
la presentazione e ostacolano l’apprendimento. Scopo della
formazione, infatti, non è che tutti ricordino tutto, ma che in ogni
persona rimanga il messaggio essenziale, che deve risuonare a
corso finito, lasciando agli allievi spunti di riflessione e desiderio di
approfondire l’argomento.
L’interesse catturato con gli aspetti evocativi ed emotivi va
mantenuto alto sia con la qualità dei contenuti, sia con l’interazione:
il formatore deve punteggiare il corso con domande o affermazioni
che aprano dei varchi, prima facendo sentire agli allievi che c’è
qualcosa che non sanno, poi guidandoli a trovare le risposte,
conducendoli in un vero e proprio viaggio di scoperta.
Sentire e comprendere sfociano naturalmente nell’agire. Un
apprendimento veramente efficace opera un cambiamento su due
livelli: a livello di contenuti, i discenti sentono che quanto appreso
cambierà in meglio le loro attività e le loro vite; a livello più profondo,
l’apprendimento si identifica col cambiamento, spingendo la persona
a mettere in pratica quanto imparato e a condividerlo con altri.
Supervisioni cliniche
Vale la pena di soffermarsi su una particolare applicazione
dell’intervento strategico a distanza, data la sua complessità e
rilevanza: la supervisione, sia in ambito psicoterapeutico che di
problem solving.
La supervisione va distinta dalla consulenza, nella quale un
terapeuta o un coach in difficoltà nel gestire un particolare caso
chiede un parere a un collega che, perché più esperto o perché
riesce a cogliere punti di vista differenti, può aiutarlo a sciogliere i
nodi. Si tratta di uno scambio tra due professionisti alla pari, che si
svolge in presenza, oppure via e-mail, telefono o collegamento
video, e non richiede particolari abilità comunicative, se non quelle di
una corretta presentazione del caso.
Nella supervisione, invece, un docente o professore esperto
supervisiona i casi più difficili portati dai suoi allievi e collaboratori,
costruendo con loro nuove strategie di soluzione e guidandoli in un
processo di apprendimento.
La supervisione si distingue dalle altre forme di FAD perché ha un
duplice obiettivo: da una parte fornire all’allievo in difficoltà una
strategia efficace per risolvere il caso; dall’altra, guidarlo in un
processo di apprendimento e di cambiamento, individuando
eventuali sue difficoltà ridondanti e aiutandolo a superarle, in un
continuo processo di crescita e miglioramento sia personale che
professionale.
Considerando quanto abbiamo detto sui processi di
apprendimento, il supervisore deve far vivere al suo allievo una vera
e propria esperienza emozionale, adattandosi ai suoi schemi
mentali, punti di vista e idiosincrasie culturali e, anziché fornirgli la
soluzione preconfezionata, condurlo in un viaggio di scoperta.
Se il processo è gestito bene, il terapeuta supervisionato, in virtù
dell’esperienza emozionale vissuta, sarà in grado di generare a sua
volta un’esperienza emozionale nel proprio paziente, favorendo così
il cambiamento desiderato.
Per questo motivo il supervisore va considerato un vero e proprio
maestro, nel suo significato originale di «colui che è superiore» (il
latino magister deriva da magis, «di più, maggiormente»), dovendo
possedere sia un’approfondita conoscenza della materia, sia la
capacità di trasmetterla evocando sensazioni e suscitando emozioni
mediante l’uso sapiente del linguaggio.
L’interazione tra supervisore e supervisionato è simile
all’interazione tra terapeuta e paziente, e ne segue la processualità:
il supervisore deve indagare il problema del suo collaboratore, cioè
le caratteristiche del caso non risolto, ponendosi dal suo punto di
vista; deve poi analizzare le «tentate soluzioni fallimentari»
dell’allievo, cioè i tentativi di soluzione che non hanno funzionato, o
hanno funzionato solo parzialmente; deve poi costruire, con il
collaboratore supervisionato, una strategia di soluzione alternativa,
adattandola alle peculiarità sia del caso presentato che del terapeuta
stesso, dando infine al collaboratore indicazioni di comportamento.
L’esperienza del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, dove da
anni si svolgono sessioni di supervisione avvalendosi anche del
supporto telematico, dimostra che non solo è possibile realizzare
interventi altrettanto efficaci ed efficienti che dal vivo, ma anche
sperimentare ulteriori modalità sia di comunicazione che di relazione
con le persone.
Consulenza, coaching e marketing
Benché dal punto di vista della comunicazione segua gli stessi
principi, la consulenza telematica è differente dalla formazione. Se
quando stiamo insegnando possiamo permetterci di fare delle
sessioni di spiegazione teorica abbastanza lunghe, nel caso della
consulenza le spiegazioni dovranno essere ridotte a pochi minuti,
ricercando una massima interazione con gli interlocutori. Sarà
proprio dall’interazione, generata dall’uso sapiente di domande
strategiche, parafrasi e tecniche di problem solving, che il consulente
potrà arricchire il suo intervento con le spiegazioni necessarie al
raggiungimento dell’obiettivo consulenziale.
Dovremo quindi iniziare con una breve premessa che possa
portare gli utenti a riflettere per poi cercare velocemente i feedback e
da lì costruire l’intervento.
Questa modalità è indubbiamente più difficile e faticosa rispetto a
una classica consulenza in aula, dove possiamo ammaliare il
pubblico con storie e spiegazioni. Per questo la consulenza
telematica è molto più complessa e richiede da parte del consulente
abilità tecniche e comunicative superiori.
L’intervento dovrà poi chiudersi con l’assegnazione di consegne da
realizzare e obiettivi da raggiungere prima dell’intervento successivo.
Buona prassi è supervisionare il cliente in questa fase dando la
nostra disponibilità o pianificando dei rapidi follow up.
Se stiamo facendo un coaching le cose non differiscono da quanto
detto finora, tenendo conto che nella forma telematica il coaching
accentua le caratteristiche e le qualità dell’individuo.
Se un professionista era solito far fare ai clienti esperienze
emozionanti ma fini a sé stesse, come camminare sui carboni
ardenti o far seguire corsi di sopravvivenza per promuovere il team
building o la resilienza, si troverà in serie difficoltà nel condurre delle
consulenze di qualità on line. Chi al contrario ha basato la propria
professionalità sullo studio, la scienza e la capacità di raggiungere
pragmaticamente gli obiettivi ne sarà facilitato. Con le parole di Louis
A. Berman: «Un buon insegnante è un maestro di semplificazione e
un nemico del semplicismo».
Un’ultima considerazione la rivolgiamo al marketing on line.
Negli ultimi anni si è osservato un incremento vertiginoso di video,
dirette social e webinar da parte di improbabili consulenti, marketer
dell’ultimo minuto e autoproclamati guru.
L’on line è un acceleratore di possibilità e opportunità, e per questo
dobbiamo porre molta attenzione alla costruzione della nostra
immagine e reputazione, al nostro posizionamento e alla qualità del
servizio che vogliamo proporre.
Nel mondo americano della formazione vi è uno slogan che recita:
«There are no shortcuts», ovvero «Non ci sono scorciatoie». Chi
vuole avere successo, raggiungere obiettivi ambiziosi e superare sé
stesso deve sacrificarsi, studiare, migliorarsi costantemente e
imparare a rialzarsi dopo una caduta.
Per concludere: ricercate la qualità, e se ancora non ne avete
abbastanza impegnatevi a realizzarla; quando l’avrete realizzata
cercate di migliorarla e, se ritenete di averla ottenuta al meglio,
occupatevi di qualcosa d’altro da migliorare. Mai dimenticare le
parole di F. Nietzsche: «Tutto ciò che non eleva inesorabilmente
abbassa».
Conclusioni

La pandemia ha forzato tutti a un adattamento alle circostanze come


pochi altri eventi negli ultimi decenni, nel nostro caso a rivedere
alcuni metodi per mantenerne l’efficacia e l’efficienza. Come sempre
è accaduto nella storia della umanità i devastanti accadimenti hanno
condotto a successivi slanci verso il miglioramento degli esseri
umani e dei loro comportamenti. Dal canto nostro cerchiamo di dare
il nostro umile contributo in questa direzione in virtù delle nostre
limitate capacità. Dobbiamo imparare da ciò che ci insegna la
natura: le aquile nel mezzo della tempesta, non si nascondono negli
anfratti per proteggersi, bensì volano più in alto dei venti e delle
piogge.
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https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019
https://web.stanford.edu/group/ipc/pubs/2002AmbadySurgery.pdf
https://www.sanitainformazione.it/formazione/emergenza-
coronavirus-picco-della-formazione-a-distanza-40-burnout-il-corso-
piu-seguito/
https://it.wikipedia.org/wiki/Non_è_mai_troppo_tardi_(programma_tel
evisivo)
Note

1 https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019.
2 «Erogazione di cura e assistenza, quando la distanza è un fattore critico,
attraverso tecnologie informatiche e della comunicazione» è la definizione
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
3 Frontiere ancora in esplorazione sono i chatbot, o assistenti virtuali, software che
analizzano tramite parole chiave i sintomi del paziente, e gli danno indicazioni di
comportamento (richiesta di aiuto, monitoraggio del sintomo, ecc.).
4 Il sistema percettivo-reattivo in psicoterapia breve strategica è la modalità
ridondante di percezione e reazione di un individuo nei confronti della realtà, che si
esprime nel funzionamento delle tre fondamentali tipologie di relazione
interdipendenti: la relazione tra il Sé e il Sé, la relazione tra il Sé e gli altri, la
relazione tra il Sé e il mondo.
5 La tentata soluzione definisce i tentativi fatti, sia dalla persona che presenta un
problema sia da quelle con cui è in relazione (inclusi i partner, gli amici, i
precedenti terapeuti, lo staff medico), per cercare di risolvere, ma
infruttuosamente, il problema stesso.
6 In alcuni casi si distingue il termine «aderenza», che indica un ruolo più attivo
svolto dal paziente nel prendersi cura della propria salute, da quello di
«compliance», che indica una condizione più passiva. In questa sede, per
semplicità, i due termini verranno utilizzati come sinonimi.
7 Altri meccanismi sono la riduzione dell’ansia, l’apprendimento e l’apprendimento
sociale.
8 MRGE: Malattia da Reflusso Gastro-Esofageo; BPCO: Broncopneumopatia
Cronica Ostruttiva.
9 https://web.stanford.edu/group/ipc/pubs/2002AmbadySurgery.pdf
10 La fibrillazione atriale è un’aritmia cardiaca a decorso benigno che, spesso ma
non sempre, causa una frequenza cardiaca accelerata.
11 Il verificarsi di effetti negativi legati all’aspettativa mentale di un peggioramento
prende il nome di «effetto nocebo», ed è speculare all’effetto placebo, utilizzando
gli stessi meccanismi e le stesse vie neurali.
12 http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato9565072.pdf
13 Ne è un esempio woebot (da woe = dolore, dispiacere), programma progettato
dall’Università di Stanford che utilizza i principi della terapia cognitivo-
comportamentale, dando le prime indicazioni alle persone su come comportarsi
per gestire i disagi mentali.
14 Si definisce problem solving l’insieme di procedimenti orientati alla soluzione
dei problemi. Esistono vari modelli di problem solving, ma i più noti sono il problem
solving strategico e quello cognitivo.
15 Il linguaggio performativo si può suddividere in linguaggio evocativo, che evoca
sensazioni, e linguaggio ingiuntivo, che induce all’azione. Entrambe le forme
favoriscono il cambiamento.
16 Il «verdetto di Dodo» si riferisce all’episodio narrato da Lewis Carroll in Le
avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, in cui l’uccello Dodo indice una gara
tra i vari personaggi, senza specificare con quali parametri avrebbe attribuito la
vittoria. Alla fine della gara, per accontentare tutti, Dodo dichiara: «Tutti hanno
vinto e tutti devono essere premiati».
17 La meta-analisi è una tecnica statistica di analisi che permette di combinare i
dati di più studi condotti su di uno stesso argomento, generando un unico dato
conclusivo e permettendo così di dare significato a dati provenienti da un gran
numero di ricerche differenti.
18 Concetto introdotto da Franz Alexander nel 1946 per indicare le esperienze
emotive concrete che permettono al paziente di «correggere» l’influenza di
esperienze negative precedenti.
19 https://it.wikipedia.org/wiki/Non_è_mai_troppo_tardi_(programma_televisivo)
20 Frequently Asked Questions, ovvero domande frequenti.
21 Chat: servizio offerto da Internet, che permette a più interlocutori di conversare
in tempo reale tramite messaggi scritti.
22 Voice over IP (VoIP): tecnologia che rende possibile effettuare una
conversazione telefonica sfruttando una connessione Internet, anziché passare
attraverso la rete telefonica tradizionale.
23 Forum: servizio Internet che permette di inviare e leggere messaggi su un
argomento specifico, che restano a disposizione per i commenti altrui,
24 https://www.sanitainformazione.it/formazione/emergenza-coronavirus-picco-
della-formazione-a-distanza-40-burnout-il-corso-piu-seguito/
25 Il costruttivismo è un approccio che considera la conoscenza una costruzione
dell’esperienza personale anziché la rappresentazione di una realtà indipendente
dall’osservatore.
26 Questo processo prende spunto dal modo in cui il bambino costruisce i concetti
base e le forme del pensiero attraverso l’interazione con l’ambiente, come
brillantemente evidenziato da Jean Piaget, uno dei padri del costruttivismo.
27 Le strutture cerebrali coinvolte nel processo di memorizzazione sono
l’ippocampo e l’amigdala, parti del sistema limbico. L’ippocampo gioca un ruolo
primario nella formazione della memoria a breve termine, mentre l’amigdala
attribuisce il significato emotivo all’informazione ricevuta.
Indice

Introduzione
Capitolo 1. La realtà nello schermo
Capitolo 2. La pragmatica della comunicazione telematica
La forma crea il contenuto. Gli assiomi della comunicazione
umana e la loro applicazione digitale
La superficie è l’anticamera della profondità. La creazione della
prima impressione
Costruire il proprio palcoscenico. Il setting telematico
Il canto delle sirene. L’utilizzo strategico della voce
A me gli occhi, a te il sorriso. Lo sguardo e la mimica facciale
Il corpo come strumento. La prossemica, la postura e i gesti
Capitolo 3. La persuasione digitale
Fraintendimenti, ripetizioni e ridondanze
L’argomentazione, la retorica e la sintonia
All’inizio era il Verbo. La parola, il linguaggio e la struttura
dell’eloquio
Evocare sensazioni
Il dialogo strategico telematico
Capitolo 4. Ippocrate telematico: le cure mediche a distanza
La cura è un atto di relazione
La compliance
L’effetto placebo
Curare a distanza
L’anamnesi
L’esame obiettivo
Il colloquio
La comunicazione paraverbale
La creazione dell’accordo
La prescrizione
Le comunicazioni scritte
Capitolo 5. La psicoterapia telematica: le sfide del setting a distanza
«Non esiste salute senza salute mentale»
L’arte di curare con le parole
I fattori terapeutici
Adattarsi al contesto telematico
Capitolo 6. La formazione a distanza
La tecnologia incontra l’arte della persuasione: la formazione
strategica a distanza
Supervisioni cliniche
Consulenza, coaching e marketing
Conclusioni
Bibliografia
Note
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