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Il libro

«S ,
primo compito della giornata. Questo vi darà una sensazione di
orgoglio e vi incoraggerà a concluderne un altro, e poi un altro
ancora. Farsi il letto, inoltre, rimarca la consapevolezza che nella vita le
piccole cose contano. Se non sapete fare bene le piccole cose, non ne farete
mai di grandi».
Non è un’esperta di riordino o una madre esasperata a dettare questa
semplice regola, ma un ammiraglio a quattro stelle della Marina americana.
Nel suo discorso tenuto ai laureandi dell’università del Texas alla cerimonia
di consegna dei diplomi, William McRaven ha condiviso i dieci principi che ha
imparato durante l’addestramento da Navy SEAL e che lo hanno aiutato a
superare le sfide non solo nella sua carriera, ma lungo tutta la sua vita.
Perché non è necessario essere un Navy SEAL per trovarsi in situazioni
difficili, dover prendere decisioni complicate o affrontare compiti
apparentemente insormontabili. Chiunque, ha detto, può usare queste
semplici regole per migliorare se stesso, e il mondo.
Quel discorso, che ha avuto oltre cento milioni di visualizzazioni in rete, è
il punto di partenza di Fatti il letto, un bestseller diventato in breve un piccolo
classico, ai vertici delle classifiche per mesi e in corso di pubblicazione in 24
lingue. Intrise di empatia e coraggio, queste pagine hanno il contagioso
potere di ispirare il lettore a dare il meglio di sé e ottenere il massimo dalla
propria vita.
L’autore

William H. McRaven, attualmente rettore di quindici università del Texas, è


un ammiraglio a quattro stelle della Marina militare, ritiratosi nel 2014 dopo
36 anni di servizio. Nella sua carriera ha ricoperto incarichi a ogni livello, fino
a Comandante dell’US Special Operations Command, a capo delle
operazioni speciali condotte da tutte le forze dell’esercito. Ha preso parte alle
principali missioni americane in zone di guerra, dall’Operazione Desert
Storm, che aprì la prima guerra del Golfo, a Enduring Freedom in
Afghanistan, fino all’Operazione Lancia di Nettuno, in cui è stato ucciso
Osama bin Laden. Per il suo coraggio è stato insignito di due Bronze Star
Medal e due Legion of Merit, tra le onorificenze più alte dell’esercito
americano.
Fatti il letto, ispirato dal discorso che l’ammiraglio ha tenuto ai laureandi
dell’università del Texas, è diventato un fenomeno editoriale, bestseller n.1
del New York Times per mesi, in corso di pubblicazione in 24 lingue.
William H. McRaven

FATTI IL LETTO
Piccole cose che cambieranno la tua vita… e forse il mondo

Traduzione di Sara Puggioni


FATTI IL LETTO
Ai miei tre figli: Bill, John e Kelly. Nessun padre potrebbe essere più orgoglioso
dei propri figli di quanto lo sia io. Ogni momento della mia vita è stato reso
migliore dalla vostra presenza. E a mia moglie, Georgeann, la mia migliore
amica, che ha reso possibili tutti i miei sogni. Dove sarei senza di te?
PREFAZIONE

Il 17 maggio 2014 ebbi l’onore di pronunciare il discorso per la


consegna dei diplomi davanti ai laureandi dell’Università del Texas, a
Austin. Anche se l’università era la mia alma mater, ero preoccupato
dall’eventualità che un militare, la cui carriera era stata definita dalla
guerra, avrebbe potuto non trovare un pubblico bendisposto tra gli
studenti universitari. Ma, con mia grande sorpresa, i laureandi
apprezzarono il discorso. A quanto pareva le dieci lezioni che avevo
imparato durante l’addestramento nei Navy SEALS , che costituivano
la base delle mie osservazioni, esercitavano un fascino universale.
Erano lezioni semplici che parlavano di come superare le prove
dell’addestramento nei SEALS , ma avevano a che fare anche con
l’affrontare le prove della vita… indipendentemente da chi si è. Negli
ultimi tre anni sono stato fermato per strada da persone magnifiche
che mi hanno raccontato la loro storia, spiegandomi che non erano
arretrate davanti agli squali e non avevano suonato la campana, e di
come rifarsi il letto tutte le mattine li avesse aiutati a superare i
momenti difficili. Volevano tutti saperne di più sulle dieci lezioni che
hanno modellato la mia vita e sulle figure che sono state importanti
durante la mia carriera. Questo libretto è un tentativo di
accontentarli. Ciascun capitolo offre un po’ di contesto in più a ogni
lezione e contiene una breve storia che ha per protagoniste alcune
delle persone che mi hanno ispirato con la loro disciplina, la
perseveranza, il senso dell’onore e il coraggio. Spero che il libro vi
piaccia!
CAPITOLO UNO
Iniziate la giornata portando a termine un compito

Se volete cambiare il mondo…

cominciate col rifarvi il letto.

L’addestramento base dei SEALS avviene in un anonimo edificio a tre


piani che sorge sulla spiaggia di Coronado, in California, a solo un
centinaio di metri dall’oceano Pacifico. Non c’è aria condizionata e di
notte, con le finestre aperte, si sente la risacca della marea e lo
sciabordio delle onde sulla sabbia.
Le stanze sono spartane. Nell’alloggio degli ufficiali, che dividevo
con altri tre compagni di corso, c’erano quattro letti, un armadio per
appendere l’uniforme e nient’altro. Nel periodo che passai in
caserma, al mattino mi alzavo dalla “cuccetta” della Marina e iniziavo
immediatamente a rifarmi il letto. Era il primo compito della giornata.
Una giornata che, lo sapevo, sarebbe stata un susseguirsi di
ispezioni all’uniforme, lunghe nuotate, corse ancora più lunghe,
percorsi a ostacoli, il tutto condito dalle continue vessazioni degli
istruttori.
«Attenti!» urlò il capo delle reclute, il sottotenente di vascello Dan’l
Steward, mentre l’istruttore entrava nella stanza.
Battei i tacchi e raddrizzai la schiena mentre un sottufficiale della
Marina mi si avvicinava. L’istruttore, austero e impassibile, iniziò
l’ispezione esaminando il berretto verde per accertarsi che fosse
impeccabile e posizionato correttamente. Procedendo dall’alto verso
il basso, i suoi occhi analizzarono ogni centimetro della divisa. La
camicia e i pantaloni erano stirati alla perfezione? La fibbia d’ottone
della cintura era lucidata fino a brillare di luce propria? Gli stivali
erano puliti al punto che ci si poteva specchiare? Soddisfatto che
corrispondessi agli standard elevati che ci si aspettavano da una
recluta dei SEALS , passò a ispezionare il letto.
Il letto era essenziale come la stanza, una semplice intelaiatura
d’acciaio con un materasso singolo. Il materasso era ricoperto da un
lenzuolo e sopra c’era un copriletto. Una coperta di lana grigia
ricalzata alla perfezione sotto il materasso serviva a proteggere dal
fresco delle notti di San Diego. Una seconda coperta era piegata
abilmente in un rettangolo ai piedi del letto. Un cuscino, fabbricato
dall’associazione dei ciechi di San Francisco, stava al centro del
letto e formava un angolo retto con la coperta. Questo era lo
standard. Qualunque cambiamento da questi precisi requisiti mi
sarebbe costato quello che i Navy SEALS chiamano hit the surf,
ovvero gettarmi in mare per poi rotolarmi sulla spiaggia fino a essere
completamente ricoperto di sabbia bagnata… una condizione nota
come sugar cookie, biscotto allo zucchero.
In piedi, immobile, guardavo l’istruttore con la coda dell’occhio.
Lui osservò annoiato il mio letto. Si chinò per controllare gli angoli in
stile ospedale, dopodiché esaminò la coperta e il cuscino per
accertarsi che fossero allineati correttamente. A quel punto si mise
una mano in tasca e tirò fuori un quarto di dollaro che lanciò in aria
diverse volte per assicurarsi che avessi capito che stava arrivando il
test finale. Fece roteare per l’ultima volta la moneta, che cadde sul
materasso rimbalzando diversi centimetri sopra il letto, abbastanza
in alto perché l’istruttore la riprendesse al volo.
L’istruttore mi fissò negli occhi e annuì. Non disse una parola.
Rifarmi correttamente il letto non era un modo per ottenere un
elogio. Era ciò che ci si aspettava da me. Era il primo compito della
giornata ed era importante svolgerlo a dovere. Dava prova della mia
disciplina, mostrava la mia cura del dettaglio e alla sera mi ricordava
che avevo compiuto qualcosa di buono, qualcosa di cui essere
orgoglioso, indipendentemente dalla grandezza del compito.
Durante tutta la mia vita nei SEALS rifarmi il letto è stata l’unica
costante su cui potevo contare ogni giorno. Quando ero una giovane
guardiamarina a bordo dell’USS Grayback, un sottomarino per le
operazioni speciali, fui assegnato all’infermeria, dove c’erano letti a
castello di quattro piani. Il sardonico dottore a capo del reparto
insisteva che rifacessi la mia branda tutte le mattine. Ripeteva
spesso che se i letti non erano rifatti e la stanza non era pulita, con
quale fiducia i marinai potevano aspettarsi di ricevere cure mediche
adeguate? Come scoprii in seguito, questo senso di pulizia e ordine
veniva applicato a ogni aspetto della vita militare.

Trent’anni dopo, a New York crollarono le Torri Gemelle. Il


Pentagono venne colpito e alcuni americani coraggiosi morirono su
un aereo nei cieli della Pennsylvania.
In quel periodo ero convalescente da un grave incidente con il
paracadute. Nel mio alloggio era stato portato un letto da ospedale e
passavo la maggior parte del tempo sdraiato sulla schiena, tentando
di rimettermi in sesto. Volevo alzarmi da quel letto più di ogni altra
cosa. Come tutti i SEALS , anelavo a essere in battaglia al fianco dei
miei compagni.
Quando finalmente riuscii ad alzarmi da solo, la prima cosa che
feci fu tirare su le lenzuola ben diritte, sistemare il cuscino e
accertarmi che il letto fosse presentabile per tutti quelli che
entravano in casa mia. Era il mio modo di dimostrare che l’incidente
era superato e che ero pronto a riprendere la mia vita.
Quattro settimane dopo l’11 settembre fui trasferito alla Casa
Bianca, dove trascorsi i due anni successivi nel nuovo Office of
Combating Terrorism, l’ufficio antiterrorismo. Nell’ottobre del 2003
ero in Iraq al quartier generale improvvisato sul campo d’aviazione di
Baghdad. I primi mesi dormimmo su brandine. Ciò nonostante, ogni
mattina mi svegliavo, arrotolavo il sacco a pelo, piazzavo il cuscino
in cima alla branda e mi preparavo ad affrontare la giornata.
Nel dicembre del 2003 le forze americane catturarono Saddam
Hussein. Nel periodo in cui lo tenemmo prigioniero stava in una
stanzetta. Dormiva anche lui su una brandina, ma con il lusso di
lenzuola e di una coperta. Una volta al giorno andavo a fargli visita
per accertarmi che i miei uomini lo trattassero nel modo appropriato.
Notai, con un certo divertimento, che Saddam non si rifaceva il letto.
Le lenzuola erano sempre ammucchiate in disordine ai piedi della
branda e lui non sembrava interessato a sistemarle.
Nei dieci anni successivi ebbi l’onore di lavorare con alcuni degli
uomini e delle donne migliori del nostro Paese: da generali a soldati
semplici, da ammiragli a marinai, da ambasciatori a dattilografi. Gli
americani dispiegati oltremare a sostegno dello sforzo bellico erano
volontari che sacrificavano molto per proteggere la nostra nazione.
Erano tutti consapevoli che la vita è difficile e che talvolta si può
fare poco per cambiare il modo in cui andranno le cose. I soldati
muoiono in battaglia, le famiglie li piangono, le ore sono lunghe e
piene di angoscia. Cerchi qualcosa che possa offrirti consolazione,
che possa motivarti a iniziare la giornata, che possa costituire un
sentimento di orgoglio in un mondo spesso orribile. Ma questo non
vale solo per la battaglia. È la vita quotidiana che ha bisogno di
questo stesso senso dell’organizzazione. Nulla può sostituire la forza
e il conforto della propria fede, ma talvolta la semplice azione di
rifarsi il letto può offrire lo slancio necessario a iniziare la giornata e
dare la soddisfazione di finirla nel modo giusto.
Se volete cambiare la vostra vita e magari il mondo… cominciate
col rifarvi il letto!
CAPITOLO DUE
Non potete farcela da soli

Se volete cambiare il mondo…

trovate qualcuno che vi aiuti a pagaiare.

Durante l’addestramento dei SEALS ho imparato presto il valore del


lavoro di squadra, la necessità di contare su qualcun altro che ti aiuti
a portare a termine compiti difficili. Per insegnare questa lezione
vitale a noi “girini”, che speravamo di diventare uomini rana della
Marina, veniva usato un gommone lungo tre metri e mezzo.
Ovunque andassimo in questa prima fase dell’addestramento
dovevamo portarcelo dietro. Ce lo mettevamo in testa quando
correvamo dalla caserma alla mensa lungo il viale principale. Lo
sorreggevamo in posizione ribassata mentre correvamo su e giù per
le dune di sabbia di Coronado. Pagaiavamo all’infinito da nord a sud
lungo la costa e attraverso le onde martellanti: sette uomini che
collaboravano tutti insieme a portare il rafter a destinazione. Ma nel
nostro girovagare con il gommone imparammo anche qualcos’altro.
Di tanto in tanto uno dei membri della squadra era malato o ferito,
impossibilitato a dare il cento per cento. Spesso mi ritrovavo sfinito
dalla giornata di addestramento, o indebolito dal raffreddore o
dall’influenza. In quelle occasioni gli altri compagni intervenivano per
portare a termine il lavoro. Pagaiavano più energicamente.
Scavavano più a fondo. Mi davano le loro razioni perché avessi più
forze. E quando veniva il momento, ricambiavo il favore. Il gommone
ci servì a capire che nessun uomo può farcela a superare il training
da solo. Nessun SEAL può farcela da solo in combattimento, e per
estensione nella vita abbiamo bisogno degli altri perché ci diano una
mano a superare i momenti difficili.

La necessità di un aiuto mi fu più che mai chiara venticinque anni


dopo, quando comandavo tutti i SEALS della West Coast.
Ero il commodoro del Naval Special Warfare Group ONE di
Coronado. Capitano della Marina, a quel punto avevo trascorso gli
ultimi decenni a guidare i SEALS in ogni parte del mondo. Ero fuori
per un lancio di routine col paracadute quando le cose si misero
malissimo.
Eravamo su un Hercules C-130 che saliva a 3657 metri in
preparazione al lancio. Dalla coda dell’aereo, contemplavamo una
splendida giornata californiana. In cielo non c’era una nuvola.
L’oceano Pacifico era calmo e da quell’altitudine era possibile
scorgere il confine con il Messico a pochi chilometri.
«Stand by!» ci urlò l’istruttore. Adesso ero sul bordo della rampa e
vedevo il suolo. L’istruttore mi guardò negli occhi, sorrise e gridò:
«Vai, vai, vai!». Mi lanciai fuori dall’aereo, con le braccia distese e le
gambe leggermente piegate all’indietro. Lo spostamento d’aria
provocato dall’elica mi fece inclinare in avanti finché le mie braccia
trovarono portanza e mi raddrizzai.
Controllai velocemente l’altimetro, mi accertai di non spiralare, poi
verificai che non ci fosse nessun altro paracadutista troppo vicino.
Venti secondi dopo ero arrivato alla quota di apertura di 1676 metri.
All’improvviso guardai in basso e vidi che un altro paracadutista era
finito sotto di me, incrociando la mia traiettoria. Tirò il cavo di
apertura e la vela principale uscì dal suo zaino. Portai
immediatamente le braccia lungo il corpo, costringendomi a testa in
giù nel tentativo di evitare la calotta. Troppo tardi.
Il suo paracadute mi si aprì davanti come un airbag, colpendomi a
centonovanta chilometri orari. Rimbalzai sulla calotta e iniziai a
roteare fuori controllo, a malapena cosciente per l’impatto. Per
diversi secondi continuai a spiralare cercando di stabilizzarmi. Non
vedevo l’altimetro e non sapevo di quanti metri fossi precipitato.
D’istinto allungai la mano e tirai il cavo d’apertura. Il pilotino
estrattore uscì dalla piccola tasca nella parte posteriore del
paracadute, ma mi si attorcigliò alla gamba. Mentre cadevo verso il
basso e lottavo per liberarmi, la situazione peggiorò. La vela
principale si aprì parzialmente, ma mi si avvoltolò attorno all’altra
gamba.
Piegai il collo verso l’alto e vidi che avevo le gambe impigliate in
due lunghe cinghie di nylon che collegano il paracadute principale
all’imbragatura che portavo sulla schiena. Una delle bretelle si era
attorcigliata attorno a una gamba, l’altra all’altra gamba. La vela
principale era uscita completamente, ma penzolava da qualche parte
appesa al mio corpo.
Mentre lottavo per liberarmi dal groviglio, all’improvviso sentii la
vela scivolarmi via dal corpo e iniziare ad aprirsi. Guardandomi le
gambe, capii che cosa sarebbe successo.
Pochi secondi dopo la vela si distese. Le bretelle si separarono di
colpo e con violenza, trascinandosi dietro i miei arti. Il bacino venne
strattonato violentemente mentre il contraccolpo mi spezzava in due.
Le migliaia di muscoli che connettono il bacino al busto si
strapparono.
Spalancai la bocca lasciando uscire un urlo che forse sentirono
anche in Messico. Un dolore lancinante mi attraversò il corpo,
mandando fitte pulsanti verso il basso, al bacino, e verso l’alto, alla
testa. Violenti spasmi muscolari percorsero la parte superiore del
tronco, mandando altre stilettate di dolore a braccia e gambe. A quel
punto, quasi stessi vivendo un’esperienza extracorporea, mi resi
conto che stavo urlando e cercai di controllarmi, ma il dolore era
troppo intenso.
Ancora a testa in giù e precipitando troppo velocemente, mi
raddrizzai nell’imbragatura, alleviando parzialmente la pressione sul
bacino e sulla schiena.
Quattrocentosessanta metri.
Ero sceso di oltre centoventi metri prima che il paracadute si
aprisse. La buona notizia: avevo una calotta completamente aperta
sopra la testa. La brutta notizia: ero spezzato in due dalla violenza
dell’apertura.
Atterrai a più di tre chilometri dalla zona di lancio. Qualche minuto
dopo arrivarono gli addetti di terra e un’ambulanza. Fui portato
all’ospedale traumatologico del centro di San Diego. Il giorno dopo
uscii dalla sala operatoria. L’incidente mi aveva lacerato i muscoli del
bacino allontanandoli di quasi tredici centimetri. I muscoli dello
stomaco si erano staccati dall’osso pelvico e quelli della schiena e
delle gambe erano gravemente danneggiati dalla violenza del
trauma. Avevo una grossa piastra di titanio inchiodata al bacino e
una lunga vite scapolare piantata nella schiena per conferirle
stabilità.
Sembrava la fine della mia carriera. Per essere un SEAL in servizio
attivo devi essere fisicamente perfetto. La riabilitazione avrebbe
richiesto mesi, forse anni, e la Marina avrebbe dovuto eseguire una
valutazione medica per stabilire se ero adatto al servizio. Uscii
dall’ospedale sette giorni dopo, ma rimasi allettato a casa per altri
due mesi.
Per tutta la vita mi ero sentito invincibile. Ero convinto che le mie
doti atletiche innate potessero tirarmi fuori dalle situazioni più
pericolose. E, fino a quel momento, i fatti mi avevano dato ragione.
Nel corso della mia carriera avevo avuto incidenti potenzialmente
mortali: collisioni in aria con un altro paracadute, una discesa
incontrollata in un minisommergibile, per poco non ero precipitato da
una piattaforma petrolifera alta un centinaio di metri, ero rimasto
intrappolato sotto un’imbarcazione che affondava, ero scampato
all’esplosivo piazzato per una demolizione che era detonato in
anticipo, e innumerevoli altri: incidenti in cui una frazione di secondo
aveva deciso tra la vita e la morte. Tutte le volte ero riuscito in
qualche modo a prendere la decisione giusta, e tutte le volte la mia
preparazione fisica mi aveva permesso di superare la sfida. Non
quell’ultima volta.
In quel momento, sdraiato a letto, riuscivo solo ad
autocommiserarmi. Ma non sarebbe durato a lungo. A mia moglie
Georgeann erano stati assegnati compiti da infermiera. Mi medicava
le ferite, mi faceva le iniezioni quotidiane e mi cambiava la padella.
Ma soprattutto mi ricordava chi ero. Non mi ero mai arreso davanti a
niente in vita mia, e mi garantì che non avrei iniziato in
quell’occasione. Si rifiutò di lasciare che mi piangessi addosso. Era il
genere di amore tosto di cui avevo bisogno, e col passare del tempo
mi sentii meglio.
I miei amici venivano a trovarmi, chiamavano con regolarità e mi
aiutavano in tutti i modi possibili. Il mio superiore, l’ammiraglio Eric
Olson, trovò il modo di aggirare la politica che esigeva una
valutazione della mia capacità di continuare a fare parte dei SEALS . Il
suo appoggio probabilmente mi ha salvato la carriera.
Nel corso degli anni passati nei SEALS ho incontrato numerosi
ostacoli, e ogni volta qualcuno si è fatto avanti per darmi una mano:
qualcuno che ha avuto fiducia nelle mie capacità, ha visto del
potenziale dove altri non l’avrebbero visto, ha messo a rischio la
propria reputazione per far avanzare la mia carriera. Non ho mai
dimenticato queste persone, e so che tutti i traguardi che ho
raggiunto nella vita sono stati resi possibili dall’aiuto degli altri.
A nessuno di noi sono risparmiati i momenti tragici. Come nel
caso del gommone dell’addestramento di base, ci vuole una squadra
di persone valide per raggiungere gli obiettivi della vita. Non potete
pagaiare da soli. Trovate qualcuno con cui condividere l’esistenza.
Fatevi più amici possibili e non dimenticate mai che il vostro
successo dipende dagli altri.
CAPITOLO TRE
Quel che conta è la grandezza del cuore

Se volete cambiare il mondo…

misurate le persone dalla grandezza del cuore.

Corsi alla spiaggia con le pinne di gomma strette sotto il braccio


destro e la maschera nella mano sinistra. Prima di mettermi in
posizione di riposo, piantai le pinne nella sabbia appoggiandole l’una
all’altra a formare un triangolo. In piedi alla mia destra e alla mia
sinistra c’erano gli altri compagni di corso. Con indosso T-shirt verde,
costume cachi, stivaletti in neoprene e un piccolo giubbotto di
salvataggio, ci stavamo preparando alla nuotata mattutina di tre
chilometri e duecento metri.
Il giubbotto salvagente era una piccola sacca di gomma che si
gonfiava solo se tiravi la maniglia. Tra i compagni di corso era
ritenuto vergognoso dover usare il salvagente. Ciò nonostante, gli
istruttori dei SEALS dovevano ispezionare tutti i giubbotti prima di ogni
nuotata. L’ispezione offriva loro anche un’ulteriore occasione per
darti il tormento.
Quel giorno al largo di Coronado c’erano onde alte due metri e
mezzo che arrivavano in serie di tre con un ruggito che faceva
accelerare il battito cardiaco a tutti noi. L’istruttore si muoveva
lentamente lungo la fila e arrivò alla persona che stava proprio alla
mia destra. Il ragazzo, una recluta appena arrivata in Marina, sarà
stato alto un metro e sessantacinque. L’istruttore dei SEALS , un
veterano del Vietnam pluridecorato torreggiava su di lui con il suo
metro e novanta abbondante.
Dopo avergli ispezionato il giubbotto, l’istruttore si lanciò
un’occhiata alle spalle, in direzione delle onde, poi si chinò e prese
in mano le pinne del ragazzo. Gliele mise davanti alla faccia e disse
a bassa voce: «Vuoi davvero diventare un uomo rana?».
Il marinaio si raddrizzò, con un lampo di sfida nello sguardo. «Sì,
istruttore, lo voglio!» urlò.
«Sei un piccoletto» disse l’istruttore, facendogli dondolare le pinne
davanti al naso. «Quelle onde potrebbero spezzarti in due.» Fece
una pausa e guardò l’oceano. «Dovresti considerare di lasciar
perdere prima di farti male.»
Con la coda dell’occhio vidi che il ragazzo serrava la mascella.
«Io non rinuncio!» ribatté, calcando su ogni parola. A quel punto
l’istruttore si sporse in avanti e gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Non riuscii ad afferrare le parole sopra il rumore delle onde.
Dopo avere ispezionato tutte le reclute, l’istruttore ci diede ordine
di entrare in mare e noi iniziammo a nuotare. Un’ora dopo, quando
uscii dall’acqua, vidi il ragazzo in piedi sulla spiaggia. Era stato fra i
primi a completare la nuotata. Più tardi, lo presi da parte e gli chiesi
che cosa gli aveva sussurrato l’istruttore. Lui sorrise e mi disse con
orgoglio: «Dimostrami che sbaglio!».
L’addestramento dei SEALS aveva sempre a che fare con il
dimostrare qualcosa. Dimostrami che l’altezza non conta.
Dimostrami che il colore della pelle non è importante. Dimostrami
che i soldi non ti rendono migliore. Dimostrami che la
determinazione e il fegato sono sempre più importanti del talento.
Ero stato fortunato a imparare quella lezione un anno prima di
iniziare l’addestramento.

Ero salito sull’autobus in centro a San Diego eccitato alla prospettiva


di andare a visitare la caserma dell’addestramento base dei SEALS
dall’altra parte della baia, a Coronado. Ero un guardiamarina di
prima classe imbarcato nell’ambito del programma del Naval
Reserve Officers Training Corp (ROTC , il corpo di addestramento
degli ufficiali di riserva della Marina). Era l’estate prima dell’ultimo
anno di università e se tutto fosse andato bene speravo che l’anno
successivo sarei stato nominato ufficiale e mandato a fare il training
dei SEALS . Era un giorno feriale e avevo ricevuto il permesso dal mio
istruttore ROTC di saltare l’addestramento previsto a bordo di una
delle navi in porto per andare a Coronado.
Scesi dall’autobus davanti al rinomato Hotel del Coronado e
percorsi a piedi un chilometro e mezzo per arrivare al lato che dà
sulla spiaggia della Naval Amphibious Base. Oltrepassai diversi
edifici risalenti alla guerra di Corea che ospitavano gli Underwater
Demolition Teams Eleven e Twelve. Fuori da una delle costruzioni in
mattoni a un piano c’era un grande cartello di legno che raffigurava
Freddy the Frog, un grosso anfibio verde dai piedi palmati con un
sigaro in bocca e un candelotto di TNT in mano. Quella era la casa
degli uomini rana della West Coast, gli intrepidi guerrieri con
maschera e pinne i cui predecessori avevano liberato le spiagge di
Iwo Jima, Tarawa, Guam e Inchon. Il mio cuore accelerò i battiti. Era
esattamente lì che volevo essere nel giro di un anno.
Superato l’Underwater Demolition Teams, l’edificio successivo
apparteneva al SEAL Team One, all’epoca una nuova stirpe di
combattenti della giungla che in Vietnam si erano guadagnati la
fama di essere tra gli uomini più tosti dell’esercito. Un altro grande
cartello di legno raffigurava Sammy the Seal, una foca con un
pugnale e un mantello scuro sulle spalle. Come avrei scoperto in
seguito, gli uomini rana e i SEALS erano la stessa cosa. Tutti avevano
superato l’addestramento dei SEALS , tutti erano uomini rana fin nel
midollo.
Finalmente arrivai all’ultimo edificio governativo della base navale
che sorgeva sul lato della spiaggia. Sulla facciata si leggeva:
ADDESTRAMENTO BASE DI DEMOLIZIONE SUBACQUEA. Fuori dall’ingresso
principale c’erano due istruttori dei SEALS circondati da alcuni cadetti
della Marina delle scuole superiori. I due SEALS torreggiavano sui
ragazzi. Il capo di seconda classe Dick Ray era alto un metro e
novanta e aveva le spalle larghe, la vita stretta, un’abbronzatura
marcata e baffetti scuri. Assomigliava in tutto e per tutto all’idea che
avevo di un SEAL . Accanto a lui c’era il capo di terza classe Gene
Wence. Alto più di un metro e ottanta, Wence aveva la stazza di un
difensore di football americano, con bicipiti impressionanti e uno
sguardo d’acciaio che ammoniva chiunque a non avvicinarsi troppo.
I cadetti della Marina furono fatti entrare nell’edificio. Li seguii con
una certa trepidazione e mi fermai alla reception. Dissi al giovane
marinaio seduto dietro la scrivania che ero un guardiamarina
dell’Università del Texas e che speravo di poter parlare con qualcuno
riguardo all’addestramento dei SEALS . Il marinaio si allontanò dal suo
posto e quando tornò mi informò che il responsabile della prima
fase, il tenente Doug Huth, sarebbe stato lieto di incontrarmi.
Mentre aspettavo di essere chiamato nell’ufficio del tenente Huth,
camminai lentamente lungo il corridoio osservando le fotografie
appese alle pareti. Erano immagini dei SEALS in Vietnam, uomini che
avanzavano nel delta del Mekong immersi nel fango fino alla vita.
Istantanee di plotoni dei SEALS in mimetica di ritorno da una missione
notturna. Uomini con armi semiautomatiche e bandoliere di
munizioni che salivano a bordo di imbarcazioni leggere dirette nella
giungla.
Nel corridoio vidi un altro uomo che osservava le fotografie. A
giudicare dall’abbigliamento si sarebbe detto un civile: era magro,
quasi esile, e aveva una zazzera di capelli scuri che gli ricadeva
sulle orecchie in stile Beatles. Sembrava ammirare con stupore
reverenziale gli incredibili guerrieri ritratti nelle foto. Mi chiesi se
pensasse di avere ciò che serviva per essere un Navy SEAL .
Guardando quelle immagini, credeva davvero di essere abbastanza
duro da superare l’addestramento? Pensava che la sua costituzione
esile gli avrebbe permesso di portare un pesante zaino e migliaia di
munizioni? Non li aveva visti i due istruttori che stavano davanti
all’ingresso? Uomini massicci che chiaramente avevano tutte le cose
al posto giusto? Pensai con una fitta di dispiacere che qualcuno
doveva averlo indotto in errore, magari lo aveva incoraggiato a
lasciare la comoda vita da civile per tentare l’addestramento dei
SEALS .
Qualche minuto dopo il marinaio della reception arrivò per
scortarmi nell’ufficio del tenente Huth. Anche Doug Huth avrebbe
potuto comparire su un manifesto di reclutamento dei SEALS ; alto,
muscoloso, con i capelli castani ondulati, aveva un aspetto
impeccabile con l’uniforme cachi della Marina.
Mi sedetti davanti a lui alla scrivania e parlammo
dell’addestramento dei SEALS e dell’impegno richiesto dal
programma. Huth mi raccontò della sua esperienza in Vietnam e di
come sarebbe stato appartenere ai Teams se avessi superato il
training. Con la coda dell’occhio vedevo l’uomo magrolino in abiti
civili che continuava a osservare le fotografie sulla parete. Come me,
probabilmente aspettava di incontrare il tenente Huth sperando di
saperne di più sul training. La consapevolezza di essere
chiaramente più forte e più preparato di un altro convinto di poter
superare quel programma durissimo mi dava una bella sensazione.
Mentre parlavamo il tenente Huth tacque all’improvviso, alzò lo
sguardo e chiamò l’uomo che stava in corridoio. Io mi alzai mentre
Huth gli faceva cenno di entrare nel suo ufficio.
«Bill, questo è Tommy Norris» disse, abbracciando l’ometto.
«Tommy è stato l’ultima medaglia d’onore in Vietnam» aggiunse il
tenente. Norris sorrise, un po’ imbarazzato da quella presentazione.
Ricambiai il sorriso, gli strinsi la mano e risi di me stesso.
Quell’uomo apparentemente fragile e capellone che io dubitavo
potesse superare l’addestramento dei SEALS era Tom Norris. Il Tom
Norris che aveva prestato servizio in Vietnam, che per diverse notti
di seguito era penetrato in profondità nelle linee nemiche per
recuperare due aviatori abbattuti. Il Tom Norris che, in un’altra
missione, era stato colpito in faccia dalle forze nordvietnamite e dato
per morto prima di essere recuperato dal capo di terza classe Mike
Thornton, il quale aveva poi ricevuto la medaglia d’onore per le sue
azioni. Il Tom Norris che aveva lottato per guarire con tanta
determinazione da essere accettato nel primo Hostage Rescue
Team dell’FBI . Quest’uomo silenzioso, riservato e modesto era uno
dei SEALS più tosti della lunga storia dei Teams.
Nel 1969, Tommy Norris era stato quasi cacciato
dall’addestramento. Dicevano che era troppo piccolo, troppo magro
e non abbastanza forte. Ma proprio come il giovane marinaio del mio
corso, Norris dimostrò a tutti che si sbagliavano e provò ancora una
volta che a contare non sono le dimensioni delle pinne, ma solo la
grandezza del cuore.
CAPITOLO QUATTRO
La vita non è giusta: andate avanti!

Se volete cambiare il mondo…

accettate di essere uno sugar cookie e andate avanti.

Corsi in cima alla duna di sabbia e senza esitazione mi precipitai giù


dall’altro lato, diretto a tutta velocità verso l’oceano Pacifico. Vestito
da capo a piedi con l’uniforme verde, completa di berretto e stivali da
combattimento, mi tuffai di testa tra le onde che martellavano la
spiaggia di Coronado.
Emersi dall’acqua e vidi l’istruttore in piedi sulla duna. A braccia
conserte e con uno sguardo tagliente capace di perforare la foschia
mattutina, lo sentii urlare: «Sai che cosa fare, Mr. Mac!».
Lo sapevo.
Fingendo entusiasmo, urlai a squarciagola «Hooyah», il grido di
guerra dei Navy SEALS , e mi buttai a pancia in giù nella sabbia
soffice, rotolandomi da una parte all’altra per accertarmi di
insabbiare tutta l’uniforme. Poi, per non sbagliare, mi sedetti,
affondai le mani nella rena e gettai in aria manciate di sabbia per
essere sicuro che raggiungesse ogni angolo del mio corpo.
Chissà in che modo durante l’allenamento del mattino avevo
«commesso una violazione delle regole dell’addestramento dei
SEALS ». La punizione era gettarmi in mare, rotolarmi nella sabbia e
diventare uno sugar cookie.
Nel training dei SEALS non c’era nulla di più spiacevole che essere
uno sugar cookie, un biscotto allo zucchero. C’erano un sacco di
cose più penose e stancanti, ma quella metteva a dura prova la tua
pazienza e la tua determinazione. Non solo perché passavi il resto
della giornata con la sabbia nel collo, sotto le ascelle e in mezzo alle
gambe, ma perché diventare un biscotto allo zucchero era del tutto
casuale. Non c’era nessuna logica, se non il capriccio dell’istruttore.
Per molte reclute era difficile da mandare giù. Quelli che si
sforzavano di dare il meglio si aspettavano un riconoscimento per le
loro prestazioni eccezionali. Certe volte era così, altre no. Certe volte
l’unica cosa che ottenevi in cambio dei tuoi sforzi era sabbia
bagnata.
Ritenendomi insabbiato a sufficienza, corsi dall’istruttore, gridai di
nuovo «Hooyah» e mi misi sull’attenti. A ispezionarmi per controllare
che soddisfacessi i suoi requisiti di eccellenza in materia di biscotto
allo zucchero era il tenente Phillip L. Martin, che gli amici
chiamavano Moki. Io però non ero in confidenza con il tenente
Martin.
Moki Martin era la quintessenza dell’uomo rana. Era tutto quello
che io ambivo a essere come SEAL . Veterano del Vietnam, era
esperto di tutte le armi presenti nell’arsenale delle forze speciali. Era
uno dei paracadutisti più bravi dei Teams e, essendo originario delle
Hawaii, in acqua non c’era praticamente nessuno in grado di tenergli
testa.
«Mr. Mac, hai idea del perché sei un biscotto allo zucchero
stamattina?» disse Martin, in tono molto calmo ma inquisitorio.
«No, istruttore Martin» risposi diligentemente.
«Perché, Mr. Mac, la vita non è giusta e prima lo impari meglio
sarà per te.»

Un anno dopo il tenente Martin e io eravamo entrati in confidenza.


Io avevo completato il training di base e lui dal centro di
addestramento era stato riassegnato all’Underwater Demolition
Team Eleven di Coronado.
Più conoscevo Moki, più cresceva il mio rispetto per lui. Oltre a
essere un SEAL eccellente, era anche un atleta fenomenale. All’inizio
degli anni Ottanta fu tra i pionieri del triathlon. In mare aperto
nuotava uno stile libero superbo. Aveva cosce e polpacci muscolosi
che gli consentivano di correre senza sforzo per lunghe distanze, ma
il suo vero talento era la bicicletta. Lui e la bici erano fatti l’uno per
l’altra.
Tutte le mattine montava in sella e si faceva cinquanta chilometri
su e giù per il Coronado Silver Strand. C’era una ciclabile asfaltata
che correva parallela all’oceano Pacifico. Andava da Coronado a
Imperial Beach. Con l’oceano da una parte e la baia dall’altra era
uno dei tratti di spiaggia più belli della California.
Un sabato mattina sul presto Moki era fuori per allenarsi sul Silver
Strand. A testa bassa, pedalando veloce, non vide il ciclista che
arrivava dall’altra parte. Le due bici si scontrarono a circa quaranta
chilometri orari, si accartocciarono per l’impatto e mandarono a
sbattere i due ciclisti l’uno contro l’altro, facendoli finire sull’asfalto a
faccia in giù. Uno dei due rotolò di lato, si spolverò e riuscì a
rimettersi in piedi. Era un po’ ammaccato, ma non aveva danni seri.
Moki rimase a terra, incapace di muoversi. Pochi minuti dopo
arrivarono i paramedici, lo stabilizzarono e lo portarono all’ospedale.
All’inizio si sperava che la paralisi fosse temporanea, ma con il
passare dei giorni, dei mesi e poi degli anni, divenne chiaro che Moki
non avrebbe mai più riacquistato l’uso delle gambe. L’incidente lo
lasciò paralizzato dalla vita in giù, limitandogli anche i movimenti
delle braccia.
Moki ha trascorso gli ultimi trentacinque anni su una sedia a
rotelle. In tutti questi anni non l’ho mai sentito lamentarsi della sua
sfortuna. Non gli ho mai sentito dire: «Perché proprio io?». Non ha
mai mostrato la minima traccia di autocommiserazione.
Anzi, dopo l’incidente, Moki è diventato un pittore dotato, oltre che
padre di una bambina. Ha fondato e continua a presiedere la Super
Frog Triathlon che si tiene ogni anno a Coronado.
È facile dare la colpa delle vostre sventure a qualche causa
esterna, smettere di provarci perché credete che la sfortuna si
accanisca contro di voi. È facile pensare che siano stati il posto in
cui siete cresciuti, il modo in cui vi hanno trattato i vostri genitori o la
scuola che avete frequentato a determinare il vostro futuro. Nulla
potrebbe essere più lontano dal vero. La gente comune e gli individui
eccezionali sono tutti definiti dal modo in cui hanno affrontato le
ingiustizie della vita: Helen Keller, Nelson Mandela, Stephen
Hawking, Malala Yousafzai e… Moki Martin.
Certe volte, per quanto vi sforziate o per quanto siate bravi, vi
ritrovate lo stesso a essere uno sugar cookie. Non lamentatevi. Non
incolpate la sfortuna. Rimanete a testa alta, guardate al futuro e
andate avanti!
CAPITOLO CINQUE
L’insuccesso può rendervi più forti

Se volete cambiare il mondo…

non abbiate paura del Circo.

Il mare al largo di Coronado Island era mosso, le creste bianche


delle onde ci sferzavano il viso mentre nuotavamo alla marinara su
un fianco in direzione della spiaggia. Come al solito, il mio
compagno e io facevamo fatica a tenere il ritmo del resto della
squadra. Gli istruttori sulla barca di appoggio ci urlavano di
accelerare, ma sembrava che tutti i nostri sforzi non servissero ad
altro che a rimanere sempre più indietro.
Quel giorno il mio compagno era il guardiamarina Marc Thomas.
Come me, Marc aveva ricevuto l’assegnazione tramite il Reserve
Officers Training Corps (ROTC ). Si era laureato al Virginia Military
Institute ed era uno dei migliori corridori su lunga distanza della
classe.
Nell’addestramento dei SEALS il tuo compagno di nuoto era la
persona sulla quale facevi affidamento perché ti sostenesse. Era al
tuo compagno che eri legato fisicamente durante le immersioni. Era
il tuo compagno quello con cui facevi le lunghe traversate a nuoto. Il
tuo compagno ti aiutava a studiare, ti teneva motivato e diventava il
tuo alleato più stretto per tutto l’addestramento. E, in quanto
compagni di nuoto, se uno dei due falliva una prova, le conseguenze
sarebbero ricadute su entrambi. Era il modo con cui durante
l’addestramento si enfatizzava l’importanza del lavoro di squadra.
Quando arrivammo sulla spiaggia, ad aspettarci c’era un
istruttore.
«A terra!» urlò. Era l’ordine di mettersi in posizione per le
flessioni: schiena diritta, braccia distese e testa alta.
«E vi chiamereste ufficiali, voi due?» Rispondere era inutile.
Sapevamo che sarebbe andato avanti lo stesso.
«Gli ufficiali dei SEAL Teams stanno in testa. Non arrivano ultimi
alle nuotate. Non mettono in imbarazzo i loro compagni.»
L’istruttore ci girava attorno, gettandoci in faccia la sabbia con gli
stivali mentre camminava.
«Non penso che voi signori ce la farete. Non credo che abbiate
quello che serve per essere ufficiali dei SEALS .»
Tirò fuori un taccuino nero dalla tasca posteriore dei calzoni, ci
guardò disgustato e scrisse qualcosa. «Voi due siete appena finiti
sulla lista del Circo.» Scosse la testa. «Sarete fortunati a
sopravvivere un’altra settimana.»
Il Circo. Era l’ultima cosa che Marc e io volevamo. Il Circo si
teneva ogni pomeriggio alla fine dell’addestramento. Il Circo erano
altre due ore di esercizio fisico, unite a molestie ininterrotte da parte
dei veterani dei SEALS intenzionati a fare sì che solo i più forti
superassero l’addestramento. Se non raggiungevi gli standard
richiesti ogni giorno – ginnastica, percorso a ostacoli, corsa a
cronometro, nuoto – il tuo nome finiva sulla lista. Agli occhi degli
istruttori eri un fallito.
A rendere il Circo tanto temuto dalle reclute non era solo la
sofferenza in più, ma anche la consapevolezza che il giorno dopo
saresti stato talmente stanco che non saresti riuscito – di nuovo! – a
essere all’altezza degli standard. Perciò ti sarebbe toccato un altro
Circo, poi un altro e un altro ancora. Una spirale letale, una serie di
fallimenti che spingeva molti a mollare l’addestramento.
Mentre gli altri terminavano i compiti previsti per la giornata, Marc
e io, assieme a diversi compagni, ci ritrovammo sulla pista di asfalto
per iniziare un’altra lunga sessione di esercizi fisici.
Visto che eravamo arrivati ultimi alla nuotata, quel giorno gli
istruttori avevano personalizzato il Circo apposta per noi. Sforbiciate.
Le sforbiciate erano pensate per rafforzare i muscoli dello stomaco e
delle cosce in modo da reggere le lunghe nuotate in mare aperto.
Erano pensate anche per spezzarti.
L’esercizio richiedeva di stare sdraiato sulla schiena, con le
gambe stese davanti al corpo e le mani dietro la testa. Mentre
l’istruttore contava le ripetizioni, dovevi muovere alternatamente le
gambe su e giù come se stessi nuotando a dorso. Non era
assolutamente permesso piegare le ginocchia. Piegare le ginocchia
era ritenuta una debolezza tra gli uomini rana.
Il Circo era punitivo. Centinaia di sforbiciate, oltre a flessioni,
trazioni alla sbarra, sit-up e gli eight-count, un esercizio massacrante
in otto parti studiato apposta per i Navy SEALS . Entro il tramonto
Marc e io non riuscivamo praticamente a muoverci. Il fallimento
aveva un prezzo.
Il giorno dopo ci furono altri esercizi, un’altra corsa, un altro
percorso a ostacoli, un’altra nuotata e purtroppo un altro Circo. Sit-
up, flessioni e un sacco di sforbiciate. Ma con il susseguirsi dei turni
al Circo successe una cosa inaspettata. Le nostre prestazioni nel
nuoto migliorarono e Marc e io cominciammo a stare al passo con gli
altri.
Il Circo, iniziato come una punizione per avere fallito una prova, ci
stava rendendo più forti, più veloci e più sicuri in acqua. Mentre altri
compagni mollavano, incapaci di affrontare l’insuccesso occasionale
e la sofferenza che portava con sé, Marc e io eravamo decisi a non
permettere che il Circo l’avesse vinta su di noi.
Verso la fine dell’addestramento ci fu un’altra nuotata in mare
aperto, un percorso di otto chilometri al largo dell’isola di San
Clemente. Portarla a termine entro il tempo stabilito era essenziale
per superare il training dei SEALS .
Quando ci tuffammo dal molo l’acqua era gelida. Quindici coppie
di nuotatori entrarono in acqua e iniziarono la lunga traversata per
uscire dalla piccola baia, aggirare la penisola e passare sopra le
praterie di alghe. Dopo circa due ore eravamo così sparpagliati che
era impossibile capire in che posizione ci trovassimo rispetto agli
altri. Dopo quattro ore di nuoto, intorpiditi, esausti e sull’orlo
dell’ipotermia, Marc e io arrivammo sulla spiaggia. Ad aspettarci sul
bagnasciuga c’era l’istruttore.
«A terra!» urlò.
Avevo le mani e i piedi così freddi che non sentivo nemmeno la
sabbia sotto le dita. Facevo fatica a tenere su la testa e riuscivo a
vedere solo gli stivali dell’istruttore che camminava in tondo attorno a
Marc e a me.
«Voi due ufficiali avete messo un’altra volta in imbarazzo i vostri
compagni.» Vidi comparire un altro paio di stivali, e poi un altro. A
quel punto eravamo circondati da diversi istruttori. «Avete fatto fare
una figuraccia ai vostri compagni.» Si interruppe un momento. «In
piedi, signori!»
Marc e io ci rimettemmo in piedi e, quando ci guardammo attorno,
ci rendemmo conto all’improvviso che eravamo stati i primi a finire.
«Li avete messi in imbarazzo alla grande.» L’istruttore sorrise.
«La seconda coppia di nuotatori non si vede nemmeno.»
Marc e io ci girammo verso l’oceano, e in effetti non c’era nessuno
in vista.
«Ben fatto, signori. A quanto pare, tutta quella sofferenza in più è
servita.» L’istruttore fece una pausa, si avvicinò e ci strinse la mano.
«Sarò onorato di prestare servizio con voi quando entrerete nei
Teams.»
Ce l’avevamo fatta. Quella nuotata era la dura prova conclusiva
dell’addestramento. Diversi giorni dopo Marc e io superammo il
training.
Marc ha fatto una carriera eccellente nei SEAL Teams e siamo
rimasti amici fino a oggi.
Nel corso dell’esistenza vi toccherà affrontare molti Circhi.
Pagherete per i vostri fallimenti. Ma se perseverate, se permetterete
a quegli insuccessi di insegnarvi qualcosa e di rendervi più forti,
sarete preparati a fare fronte ai momenti più difficili della vostra vita.
Il luglio del 1983 fu uno di quei momenti. Mentre stavo in piedi
davanti all’ufficiale in comando, pensai che la mia carriera nei Navy
SEALS fosse arrivata al capolinea. Ero appena stato sollevato
dall’incarico di comandante del mio squadrone SEAL , licenziato per
avere cercato di cambiare il modo in cui era organizzato, veniva
addestrato e conduceva le missioni. Nell’organizzazione c’erano
ufficiali e soldati eccellenti, alcuni dei guerrieri più preparati che
avessi mai incontrato. Tuttavia, la mentalità era ancora radicata
all’epoca del Vietnam, e io pensavo fosse venuto il momento di
cambiare. Come avrei scoperto, il cambiamento non è mai facile,
soprattutto per chi comanda.
Per fortuna, anche se ero stato rimosso dall’incarico, il mio
superiore mi permise di trasferirmi a un altro SEAL Team, ma la mia
reputazione come ufficiale era gravemente compromessa. Ovunque
andassi, gli ufficiali e i soldati erano al corrente del mio insuccesso, e
ogni giorno giravano voci e velate allusioni al fatto che forse non ero
all’altezza.
A quel punto avevo due opzioni: mollare e tornare alla vita civile,
che sembrava la scelta logica alla luce del mio recente rapporto di
valutazione, oppure superare la tempesta e dimostrare agli altri e a
me stesso che ero un buon ufficiale dei SEALS . Scelsi la seconda.
Poco dopo essere stato sollevato dall’incarico, mi fu data una
seconda occasione: l’opportunità di essere mandato oltreoceano
come ufficiale responsabile di un plotone di SEALS . Nelle missioni
oltremare passavamo la maggior parte del tempo in località remote,
isolati e per conto nostro. Colsi al volo l’occasione per dimostrare
che sapevo ancora comandare una squadra di uomini. Quando vivi
gomito a gomito con dodici SEALS non c’è modo di nascondersi. Loro
sanno se dai il cento per cento nell’allenamento del mattino. Vedono
quando sei il primo della fila a lanciarti fuori da un aereo e l’ultimo
della coda in mensa. Ti osservano pulire l’arma, controllare la radio,
leggere i rapporti dell’intelligence e preparare le istruzioni per la
missione. Sanno quando hai lavorato tutta la notte in vista
dell’addestramento del giorno dopo.
Nei mesi che passai oltremare sfruttai il passo falso che avevo
commesso come motivazione per lavorare di più, impegnarmi di più
e dare prestazioni migliori di qualunque altro membro del plotone.
Certe volte non riuscivo a essere il migliore, ma non mancavo mai di
dare il massimo.
Con il tempo mi riguadagnai il rispetto dei miei uomini. Diversi
anni dopo fui scelto per comandare un SEAL Team. Alla fine sarei
stato a capo di tutti i SEALS della West Coast.
Nel 2003 andai a combattere in Iraq e in Afghanistan. Ormai ero
un ammiraglio a una stella che comandava truppe in zone di guerra
e ogni mia decisione aveva delle conseguenze. Negli anni successivi
commisi spesso degli errori. Ma per ogni fallimento c’erano centinaia
di successi: recuperammo ostaggi, fermammo attentatori suicidi,
catturammo pirati, uccidemmo terroristi e salvammo innumerevoli
vite.
Mi resi conto che gli insuccessi del passato mi avevano reso più
forte, mi avevano insegnato che nessuno è immune dagli errori. I
veri leader devono imparare dai propri fallimenti, usare gli
insegnamenti per motivarsi e non avere paura di riprovare o di
prendere la prossima decisione difficile.
Non potete evitare il Circo. A un certo punto finiamo tutti sulla
lista. Non abbiatene paura.
CAPITOLO SEI
Osate il massimo

Se volete cambiare il mondo…

dovete buttarvi giù dall’ostacolo a capofitto.

In piedi sul bordo della torre alta nove metri, afferrai la grossa corda
di nylon. Un capo della corda era legato alla torre e l’altro era
ancorato al suolo a un palo distante trenta metri. Ero a metà del
percorso a ostacoli dei SEALS e stavo procedendo a passo di record.
Agganciai le gambe attorno alla fune e, tenendomi stretto come se
ne andasse della vita, cominciai ad allontanarmi dalla piattaforma.
Ero appeso alla corda e muovendomi a mo’ di millepiedi raggiunsi
lentamente, un centimetro dopo l’altro, l’estremità del percorso.
Quando arrivai in fondo, mollai la presa, caddi sulla sabbia soffice
e corsi verso l’ostacolo successivo. I compagni di corso mi urlavano
incoraggiamenti, ma io sentivo l’istruttore SEAL contare i minuti.
Avevo perso un sacco di tempo sulla Slide for Life. La mia tecnica in
“stile opossum” per venire a capo della lunga corda era
semplicemente troppo lenta, ma non so perché non riuscivo a
indurmi a scivolare giù a capofitto. Buttarsi dalla torre a testa in giù,
con un metodo detto commando style, era molto più rapido, ma
anche più rischioso. Eri meno stabile sopra la corda che non appeso
sotto di essa, e se cadevi e ti facevi male, venivi sbattuto fuori dal
corso.
Tagliai la linea del traguardo con un tempo deludente. Mentre ero
piegato in due cercando di riprendere fiato, un veterano del Vietnam
brizzolato con gli stivali lucidissimi e un’uniforme verde tutta
inamidata mi guardò dall’alto. «Quand’è che imparerai, Mr. Mac?»
disse in chiaro tono di disprezzo. «Quel percorso a ostacoli ti
fregherà sempre a meno che non inizi a correre qualche rischio.»
Una settimana dopo ignorai le mie paure, salii sopra la corda e mi
gettai a capofitto lungo la Slide for Life. Mentre tagliavo il traguardo
con un record personale, vidi il veterano del Vietnam annuire in
segno di approvazione. Era una semplice lezione sul superare le
proprie paure e fidarsi delle proprie capacità per portare a termine il
lavoro. Mi sarebbe servita parecchio negli anni successivi.

Iraq, 2004. La voce all’altro capo della radio era calma, ma il tono
rivelava inequivocabilmente l’urgenza. I tre ostaggi che stavamo
cercando erano stati localizzati. I terroristi di al-Qaeda li tenevano in
un compound circondato da mura alla periferia di Baghdad.
Purtroppo le fonti dell’intelligence indicavano che i terroristi stavano
per spostare gli uomini e quindi dovevamo agire in fretta.
Il tenente colonnello dell’esercito a capo della missione di
recupero mi informò che avrebbero dovuto compiere un pericoloso
raid diurno. A peggiorare le cose, l’unico modo per riuscire
nell’impresa era far atterrare tre elicotteri Black Hawk, con a bordo le
forze d’assalto, nel bel mezzo del piccolo compound. Esaminammo
altre opzioni tattiche, ma era chiaro che il colonnello aveva ragione.
Era sempre preferibile condurre una missione di salvataggio di notte,
quando avevi dalla tua parte l’effetto sorpresa, ma questa era
un’opportunità che non si sarebbe ripresentata, e se non agivamo
subito gli ostaggi sarebbero stati trasferiti e magari uccisi.
Approvai la missione e nel giro di pochi minuti la squadra di
recupero era salita su tre Black Hawk ed era diretta al compound. A
una quota molto più alta, un altro elicottero eseguiva
videosorveglianza che veniva trasmessa direttamente al mio quartier
generale. Guardai in silenzio mentre i tre elicotteri sorvolavano il
deserto, a pochi metri dal suolo per non rivelare la loro presenza.
All’interno del cortile vedevo un uomo con un’arma automatica
che entrava e usciva dall’edificio, a quanto pare preparandosi ad
andarsene. Gli elicotteri erano partiti da cinque minuti e tutto quello
che potevo fare dal quartier generale era ascoltare le comunicazioni
interne mentre la squadra di recupero effettuava gli ultimi preparativi.
Non era la prima missione di recupero di ostaggi che avevo
diretto, e non sarebbe stata l’ultima, ma era chiaramente la più
audace, alla luce della necessità di sfruttare l’effetto sorpresa
atterrando all’interno del compound. Anche se i piloti dell’unità
dell’aeronautica militare erano i migliori al mondo, rimaneva
comunque una missione ad alto rischio. Tre elicotteri, con pale
lunghe oltre un metro e ottanta, stavano per atterrare in un’area
dove non c’era praticamente spazio di manovra. Come se non
bastasse, il compound era circondato da un muro di mattoni alto due
metri e mezzo, che costringeva i piloti a modificare bruscamente
l’angolo di avvicinamento. Non sarebbe stato un atterraggio morbido,
pensavo, mentre alla radio sentivo la squadra di recupero prepararsi
all’impatto.
Dalle immagini della videosorveglianza vidi la manovra di
avvicinamento degli elicotteri. Il primo arrivò in assetto orizzontale e
poi, mentre si avvicinava al muro, si impennò verso l’alto, atterrando
nel minuscolo cortile. Gli uomini della squadra si riversarono
immediatamente fuori dal Black Hawk ed entrarono nell’edificio. Il
secondo elicottero, che seguiva a brevissima distanza, atterrò a
pochi centimetri dal primo. Le pale dei due mezzi alzarono una
nuvola di terra che avvolse la zona di atterraggio. Mentre il terzo
velivolo si avvicinava al compound, un enorme pennacchio di
polvere accecò temporaneamente il pilota. Il muso dell’elicottero si
sollevò sopra il muro, ma la ruota posteriore urtò contro la sommità,
facendo schizzare mattoni dappertutto. Senza spazio per
manovrare, il pilota portò l’elicottero a terra con un tonfo, ma
nessuno degli uomini rimase ferito.
Pochi minuti dopo fui informato che tutti gli ostaggi erano sani e
salvi. Nel giro di mezz’ora la squadra di recupero e gli uomini liberati
erano in volo verso una località sicura. La scommessa aveva
pagato.
Nei dieci anni successivi sarei arrivato a capire che assumersi dei
rischi era tipico delle nostre forze operative speciali. Si spingevano
sempre oltre i limiti delle proprie possibilità e di quelle delle loro
macchine, per raggiungere l’obiettivo. In molti sensi è questo che li
rende differenti da chiunque altro. Tuttavia, contrariamente a quanto
potrebbe pensare un osservatore esterno, il rischio di solito era
calcolato, meditato e pianificato nei dettagli. Anche se era
improvvisato, gli uomini conoscevano i propri limiti, ma credevano
abbastanza in se stessi da provarci comunque.
Nel corso della mia carriera ho sempre nutrito grande rispetto per
lo Special Air Service britannico, il celebre SAS . Il motto del SAS era
«Chi osa vince». Il motto era così universalmente ammirato che
persino pochi momenti prima del raid contro bin Laden, il mio
sergente maggiore comandante, Chris Faris, lo citò ai SEALS che si
preparavano alla missione. Per me il motto non riguardava tanto il
modo in cui operano le forze speciali britanniche, quanto piuttosto il
modo in cui ciascuno di noi dovrebbe affrontare la vita.
L’esistenza è una lotta e l’insuccesso è sempre dietro l’angolo, ma
coloro che vivono nella paura di fallire, o nel timore delle difficoltà o
dell’imbarazzo, non raggiungeranno mai il proprio potenziale. Se non
mettete alla prova i vostri limiti, scegliendo ogni tanto di buttarvi giù
dalla corda a capofitto, se non osate il massimo, non saprete mai
che cosa è veramente possibile nella vostra vita.
CAPITOLO SETTE
Tenete testa ai prepotenti

Se volete cambiare il mondo…

non arretrate davanti agli squali.

Quando iniziammo la nuotata notturna di sei chilometri e mezzo, il


mare al largo dell’isola di San Clemente era mosso e l’acqua era
gelida. Il guardiamarina Marc Thomas si muoveva perfettamente
sincronizzato a me, una bracciata dopo l’altra. Con nient’altro che la
parte superiore della muta, una maschera e un paio di pinne,
nuotavamo faticosamente contro la corrente che portava in direzione
sud attorno alla piccola penisola. Le luci della base navale da cui
eravamo partiti iniziarono a svanire mentre ci dirigevamo verso il
mare aperto. Un’ora dopo eravamo a circa un chilometro e mezzo
dalla spiaggia e apparentemente soli. I nuotatori intorno a noi erano
stati inghiottiti dall’oscurità.
Vedevo gli occhi di Marc attraverso il vetro della maschera. La
sua espressione doveva essere identica alla mia. Sapevamo tutti e
due che lì le acque pullulavano di squali. Non squali qualsiasi, ma
grandi squali bianchi, i mangiauomini più grossi e aggressivi
dell’oceano. Prima della nuotata, gli istruttori ci avevano informati di
tutte le potenziali minacce che avremmo potuto incontrare quella
notte. C’erano squali leopardo, squali mako, squali martello, squali
volpe, ma quello di cui avevamo più paura era il grande squalo
bianco.
C’era qualcosa di inquietante nell’essere soli, di notte, in mezzo
all’oceano, sapendo che sotto la superficie era in agguato una
creatura preistorica che aspettava solo di spezzarti a metà con un
morso.
Ma entrambi eravamo così determinati a diventare SEALS che
niente avrebbe potuto fermarci. Se dovevamo combattere contro
degli squali, eravamo pronti a farlo. Il nostro obiettivo, che
ritenevamo onorevole e nobile, ci dava coraggio, e il coraggio è una
qualità straordinaria. Fa in modo che niente e nessuno possa
mettersi sulla tua strada. Senza di esso, saranno gli altri a stabilire il
tuo percorso. Senza di esso, sei alla mercé delle tentazioni della
vita. Senza coraggio, gli uomini saranno governati da tiranni e
despoti. Senza coraggio, non può fiorire nessuna grande civiltà.
Senza coraggio, saranno i prepotenti a comandare. Ma se si ha
coraggio, si può raggiungere qualunque obiettivo. Con il coraggio, si
può sfidare e sconfiggere il male.

Saddam Hussein, l’ex presidente iracheno, sedeva sul bordo di una


vecchia brandina dell’esercito con indosso una tuta arancione. Era
stato catturato dalle forze statunitensi ventiquattr’ore prima e adesso
era prigioniero degli Stati Uniti.
Quando aprii la porta per far entrare i leader del nuovo governo
iracheno, Saddam rimase seduto. Fece un sorrisetto, senza
mostrare alcun segno di rimorso né di sottomissione. I quattro
uomini si misero a urlargli contro, rimanendo però a distanza di
sicurezza. Con sguardo sprezzante, Saddam rivolse loro un sorriso
letale e fece cenno di sedersi. Ancora spaventati dall’ex dittatore,
presero tutti una sedia pieghevole e obbedirono. Continuarono a
urlare e a gesticolare contro Saddam, ma pian piano smisero
quando lui iniziò a parlare.
Sotto Saddam Hussein il partito Ba’th si era reso responsabile
della morte di migliaia di iracheni sciiti e di decine di migliaia di curdi.
Saddam aveva giustiziato personalmente un buon numero dei suoi
generali che riteneva sleali.
Benché fossi certo che Saddam non avrebbe più costituito una
minaccia per gli altri uomini presenti nella stanza, i leader iracheni
erano di tutt’altro avviso. La paura nei loro occhi era inequivocabile.
Quell’uomo, il macellaio di Baghdad, aveva terrorizzato per decenni
un’intera nazione. Il suo culto della personalità gli aveva attirato
seguaci della peggior specie. I suoi tirapiedi assassini avevano usato
violenza contro gli innocenti e costretto migliaia di persone a fuggire
dal Paese. Nessuno in Iraq aveva trovato il coraggio di sfidare il
tiranno. Non avevo alcun dubbio che quei nuovi leader fossero
ancora terrorizzati da ciò che Saddam avrebbe potuto fare… persino
da dietro le sbarre di una prigione.
Se lo scopo dell’incontro era mostrare a Saddam che non era più
al potere, poteva ritenersi fallito. L’ex dittatore era riuscito a intimidire
e spaventare la nuova leadership del suo Paese. Sembrava più che
mai sicuro di sé.
Quando i leader iracheni se ne andarono, diedi ordine ai miei
uomini di isolare l’ex presidente in una stanzetta. Non sarebbero
stati ammessi visitatori, e alle guardie presenti era vietato parlare
con lui.
Nel corso del mese successivo mi recai in quella stanza ogni
giorno. Ogni volta Saddam si alzava per salutarmi, e ogni volta,
senza parlare, io gli indicavo di rimettersi a sedere. Il messaggio era
chiaro. Non era più importante. Non poteva più intimidire nessuno.
Non poteva più instillare paura nei suoi sudditi. Il palazzo lussuoso
non c’era più, così come le serve, i servitori e i generali. Il potere gli
era stato tolto. L’arroganza e l’oppressione che avevano
caratterizzato il suo regime appartenevano al passato. Dei soldati
americani giovani e coraggiosi si erano opposti alla sua tirannia, e
adesso non costituiva più una minaccia per nessuno.
Trenta giorni più tardi, trasferii Saddam Hussein a una vera e
propria unità della polizia militare, e un anno dopo gli iracheni lo
impiccarono per i suoi crimini contro la nazione.
I prepotenti sono tutti uguali, che spadroneggino nel cortile di una
scuola, sul posto di lavoro o a capo di una nazione che governano
col terrore. Prosperano nella paura e nell’intimidazione. I prepotenti
ottengono la loro forza dalle persone timide e pavide. Sono come gli
squali, capaci di percepire la paura nell’acqua. Gireranno in cerchio
per vedere se la vittima si difende. Cercheranno di capire se è
debole. Se non trovate il coraggio di tener loro testa, vi colpiranno.
Nella vita, per raggiungere i vostri obiettivi, per portare a termine la
nuotata notturna, dovrete essere uomini e donne di grande coraggio.
Il coraggio è dentro ciascuno di noi. Scavate a fondo e ne troverete
in abbondanza.
CAPITOLO OTTO
Dimostratevi all’altezza

Se volete cambiare il mondo…

date il meglio di voi nei momenti più bui.

Ero in piedi sulla sottile lingua di sabbia a guardare la fila di navi da


guerra ancorate alla base navale di San Diego dall’altra parte della
baia. Fra le navi e il nostro punto di partenza c’era una piccola
imbarcazione alla fonda nella baia che quella sera sarebbe stata il
nostro “obiettivo”. Io e i miei compagni di corso avevamo passato gli
ultimi mesi a imparare le nozioni di base delle immersioni subacquee
e le tecniche più avanzate legate all’uso del respiratore Emerson a
circuito chiuso, che non rilascia bolle. Quella sera si sarebbe tenuto
l’evento conclusivo della Dive Phase, la parte tecnicamente più
difficile dell’addestramento base dei SEALS .
La nostra missione consisteva nel percorrere a nuoto sott’acqua i
duemila metri che ci separavano dall’imbarcazione. Una volta arrivati
sotto la barca, dovevamo piazzare sulla chiglia la nostra mina
magnetica da esercitazione e poi tornare alla spiaggia senza essere
individuati. Il sistema per la respirazione subacquea Emerson era
soprannominato, in modo piuttosto macabro, il “dispositivo mortale”.
Era risaputo che di tanto in tanto si guastava e secondo la leggenda
metropolitana che girava tra i SEALS nel corso degli anni aveva
provocato la morte di diverse reclute.
Di notte la visibilità nella baia di San Diego era così ridotta che
non riuscivi a vederti una mano piazzata davanti alla faccia. L’unico
strumento che avevamo era un minuscolo lightstick verde per
illuminare la bussola subacquea. A peggiorare le cose, stava
calando la nebbia, una foschia bassa sull’acqua che rendeva difficile
prendere il rilevamento iniziale dell’obiettivo usando la bussola. Se
mancavi il bersaglio ti saresti ritrovato nel canale di accesso, non
esattamente il posto migliore dove stare quando sta entrando in
porto un cacciatorpediniere della Marina.
Gli istruttori dei SEALS camminavano su e giù davanti alle
venticinque coppie di sommozzatori che si stavano preparando per
l’immersione notturna e sembravano nervosi come lo eravamo noi.
Sapevano che quella fase dell’addestramento presentava un rischio
piuttosto elevato che qualcuno si facesse male o morisse.
Il capo di terza classe responsabile dell’evento radunò tutti i
sommozzatori in uno stretto cerchio. «Signori» disse. «Stanotte
scopriremo chi tra voi marinai vuole davvero diventare un uomo
rana.» Fece una pausa a effetto. «È buio e fa freddo là fuori. Sotto la
nave sarà ancora più buio. Così buio che rimarrete disorientati. Così
buio che se vi separate dal vostro compagno, lui non sarà in grado di
ritrovarvi.» La nebbia si stava infittendo e avvolse anche la lingua di
sabbia dove eravamo riuniti. «Stanotte dovrete dare il meglio di voi
stessi. Dovrete superare le vostre paure, i vostri dubbi e la
stanchezza. Indipendentemente da quanto sia buio, dovete portare a
termine la missione. È questo che vi differenzia da chiunque altro.»
Quelle parole mi hanno accompagnato per i trent’anni successivi.

Mentre guardavo la nebbia scendere sul campo d’aviazione della


base aerea di Bagram, in Afghanistan, davanti a me si prospettava
un altro momento buio. Sulla pista era parcheggiato un gigantesco
C-17 con la rampa abbassata, in attesa di ricevere le spoglie di un
guerriero caduto.
Era una Ramp Ceremony, la cerimonia funebre per un soldato
caduto che si tiene prima della partenza del velivolo che ne riporterà
a casa il corpo. Era uno degli aspetti più solenni e
inequivocabilmente motivanti delle guerre in Iraq e in Afghanistan.
Era l’America al suo meglio. Ogni uomo, ogni donna,
indipendentemente dal loro background, indipendentemente da
quanto erano stati eroici nei loro ultimi momenti di vita, venivano
trattati con dignità e onore incredibili. Era il modo in cui la nostra
nazione riconosceva il loro sacrificio. Era l’ultimo saluto, l’ultimo
ringraziamento e una preghiera che li avrebbe accompagnati nel
viaggio di ritorno a casa.
Dalla rampa partivano due file parallele di soldati. In posizione di
riposo, formavano la guardia d’onore. Una banda di tre elementi alla
destra dell’aereo suonava in sordina Amazing Grace.
Io mi trovavo alla sinistra del velivolo con altre persone, mentre
lungo l’hangar erano schierati centinaia di soldati, marinai, avieri,
marines, civili e nostri alleati. Erano tutti lì per dare l’ultimo saluto.
Il veicolo tattico HUMVEE che portava le spoglie arrivò in perfetto
orario. Sei uomini dell’unità dell’eroe caduto scaricarono il feretro
avvolto nella bandiera e camminarono lentamente in mezzo alla
guardia d’onore, percorsero la rampa e salirono sull’aereo.
Posizionarono la bara al centro del vano di carico, si girarono con
un movimento elegante, si misero sull’attenti e fecero il saluto. Alla
testa della bara, il pastore chinò la testa e lesse da Isaia, 6,8.
«Poi udii la voce del Signore che diceva: “Chi manderò? E chi
andrà per noi?”. Allora io risposi: “Eccomi, manda me!”.»
Mentre risuonavano le note del silenzio, i volti dei soldati si
inondarono di lacrime. Non si sforzavano di nascondere il dolore.
Quando i portatori se ne furono andati, una alla volta le persone
allineate fuori salirono, facendo il saluto e inginocchiandosi presso la
bara per un ultimo pensiero.
Il C-17 sarebbe decollato quella mattina, facendo rifornimento in
volo e atterrando alla Dover Air Force Base. Lì un’altra guardia
d’onore, insieme alla famiglia del soldato caduto, avrebbe accolto la
bara e l’avrebbe scortata a casa.
Non c’è momento più buio nella vita che perdere una persona che
ami, eppure più e più volte vidi famiglie, unità militari, paesi e città,
un’intera nazione, unirsi per dare il meglio di sé in quei tempi tragici.
Quando un membro delle forze speciali di grande esperienza fu
ucciso in Iraq, suo fratello gemello rimase a testa alta, consolando gli
amici del soldato, tenendo unita la famiglia e affermando che il
fratello perduto sarebbe stato fiero della sua forza in quel momento
di bisogno.
Quando un ranger caduto fu riportato alla sua base a Savannah,
in Georgia, tutta la sua unità, con addosso l’uniforme migliore,
marciò dalla chiesa al bar preferito del soldato, in River Street. La
popolazione di Savannah si riversò nelle strade. Vigili del fuoco,
agenti di polizia, veterani, civili di ogni condizione sociale volevano
porgere il loro saluto al giovane soldato caduto eroicamente in
Afghanistan.
Quando un CV-22 si schiantò in Afghanistan, uccidendo il pilota e
diversi uomini dell’equipaggio, tutti gli avieri della loro unità vennero
a porgere i propri rispetti e ripartirono il giorno dopo… sapendo che i
fratelli caduti avrebbero voluto che loro volassero, continuando la
missione.
Quando lo schianto di un elicottero uccise venticinque membri
delle forze speciali e sei soldati della Guardia Nazionale, l’intera
nazione li pianse, ma si sentì anche incredibilmente fiera del
coraggio, del patriottismo e del valore dei guerrieri caduti.
A un certo punto tutti noi dovremo affrontare un momento buio
nella vita. Potrà essere la scomparsa di una persona cara o
qualcos’altro che ci annichilisce e ci lascia a domandarci che cosa
ne sarà di noi. In quel momento buio, attingete alla profondità della
vostra anima e date il meglio di voi.
CAPITOLO NOVE
Date speranza alle persone

Se volete cambiare il mondo…

quando siete nel fango fino al collo mettetevi a cantare.

Il vento notturno che proveniva dall’oceano soffiava a trentadue


chilometri orari. Non c’era luna e uno strato di nuvole basse
nascondeva le stelle. Ero seduto nel fango fino al petto, ricoperto
dalla testa ai piedi da uno strato di sporcizia. Con la vista offuscata,
scorgevo solo la sagoma dei miei compagni di corso allineati nella
buca accanto a me.
Era il mercoledì della Hell Week, la “settimana d’inferno”, e noi
eravamo nel famigerato pantano di Tijuana, la zona di costa lasciata
scoperta dalla bassa marea. La Hell Week era determinante nella
prima fase dell’addestramento dei SEALS . Sei giorni senza dormire e
con il continuo tormento degli istruttori. Corse su lunga distanza,
nuotate in mare aperto, percorsi a ostacoli, arrampicate sulla corda,
sessioni interminabili di ginnastica e continuo pagaiare sul canotto
gonfiabile (IBS ). Lo scopo della Hell Week era eliminare i deboli,
quelli non abbastanza tosti per diventare SEALS .
Statisticamente, mollano più reclute durante la “settimana
d’inferno” che in qualunque altro momento del training, e il litorale
paludoso di Tijuana era la parte più dura. Ubicata tra la zona
meridionale di San Diego e il Messico, era una zona di terre basse
dove gli scarichi della città creavano un’ampia porzione paludosa in
cui il fango – denso e profondo – aveva la consistenza di argilla
bagnata.
Quel pomeriggio avevamo pagaiato portando il canotto da
Coronado al pantano. Poco dopo essere arrivati ci era stato ordinato
di entrare nel fango ed erano iniziate una serie di gare e
competizioni individuali fatte apposta per tenerci al freddo, bagnati e
in condizioni pietose. Il fango ti si appiccicava addosso infilandosi
dappertutto. Era così denso che muoversi era sfiancante e metteva
a durissima prova la tua volontà di andare avanti.
I test continuarono per ore. Verso sera eravamo praticamente
paralizzati dal freddo e dalla stanchezza. Quando il sole tramontò la
temperatura scese di colpo, si alzò il vento e le cose parvero farsi
persino più difficili.
Avevamo il morale sotto i tacchi. Era solo mercoledì e sapevamo
tutti che ci aspettavano altri tre giorni di sofferenza e fatica. Era il
momento della verità per molti di noi. Scossi da un tremito
incontrollabile, con le mani e i piedi gonfi per lo sforzo ininterrotto e
la pelle così sensibile che il minimo movimento creava dolore,
stavamo rapidamente perdendo la speranza di portare a termine
l’addestramento.
Un istruttore dei SEALS di cui vedevamo solo la silhouette stagliata
contro le luci lontane della città si avvicinò al bordo della zona
fangosa. Si portò alla bocca un megafono e parlò in tono
amichevole, offrendo consolazione alle reclute in difficoltà.
Potevamo unirci a lui e agli altri istruttori intorno al fuoco, disse.
C’erano caffè caldo e zuppa di pollo. Potevamo rilassarci fino al
sorgere del sole. Tirarci un po’ su. Prendercela comoda.
Intuii che alcuni compagni erano pronti ad accettare l’offerta. In fin
dei conti, quanto potevamo ancora resistere nel fango? Un fuoco
caldo, caffè bollente e zuppa di pollo erano allettanti. Ma poi arrivò la
trappola. L’unica cosa di cui aveva bisogno era che cinque di noi
mollassero. Solo cinque e il resto della classe poteva godersi un po’
di sollievo dalla sofferenza.
Il ragazzo di fianco a me iniziò a muoversi verso l’istruttore. Lo
presi per il braccio e lo trattenni, ma l’impulso a uscire dal fango era
troppo impellente. Si liberò della mia stretta e si affrettò in direzione
del terreno asciutto. Vidi l’istruttore che sorrideva. Sapeva che ne
bastava uno, poi sarebbero arrivati anche gli altri.
All’improvviso udii una voce sopra l’ululato del vento. Cantava.
Era stanca e rauca, ma abbastanza forte perché tutti la sentissimo.
Le parole non erano adatte a orecchie sensibili, ma conoscevamo la
melodia. Alla prima voce se ne aggiunse una seconda e poi una
terza, e poco dopo stavamo cantando tutti.
Lo studente diretto verso l’istruttore fece dietrofront e tornò
accanto a me. Infilò il braccio sotto il mio e si unì alla canzone.
L’istruttore prese il megafono e ci intimò di smettere di cantare.
Nessuno gli diede retta. Urlò al responsabile di riprendere il controllo
della classe. Il canto non smise. A ogni minaccia dell’istruttore, le
voci si facevano più alte, la classe diventava più forte e la volontà di
andare avanti nonostante le avversità indomabile. Al buio il viso
dell’istruttore era rischiarato dal baluginio del fuoco e lo vidi
sorridere. Avevamo imparato un’altra lezione importante: il potere di
un singolo di compattare il gruppo, il potere che ognuno di noi ha di
ispirare i compagni, di dare loro speranza. Se quella persona poteva
cantare immersa nel fango fino al collo, allora potevamo farlo anche
noi. Se quella persona era in grado di resistere, allora ne eravamo in
grado anche noi.

La grande sala della Dover Air Force Base era piena di famigliari in
lutto: bambini inconsolabili fra le braccia delle madri, genitori che si
tenevano per mano nella speranza di farsi forza a vicenda e mogli
con un’espressione remota di incredulità. Solo cinque giorni prima
un elicottero pilotato da avieri dell’esercito che trasportava Navy
SEALS e i loro partner afghani delle operazioni speciali era stato
abbattuto in Afghanistan. Tutti i trentotto uomini a bordo erano
rimasti uccisi. Era la perdita più grave della Guerra al Terrore.
In meno di un’ora un grosso aereo da trasporto C-17 sarebbe
atterrato a Dover e le famiglie degli eroi caduti sarebbero state
scortate sulla pista per andare incontro alle bare avvolte dalla
bandiera. Nel frattempo, il presidente degli Stati Uniti, il segretario
alla Difesa, i vicesegretari e i capi militari di grado più elevato
sfilavano nella sala per porgere i loro rispetti e offrire conforto.
Avevo partecipato a una decina di cerimonie in onore dei soldati
caduti. Non era mai facile e spesso mi ero chiesto se le mie parole di
consolazione facessero qualche differenza per chi aveva perso i suoi
cari, o se invece lo shock della perdita rendesse incomprensibile ciò
che dicevo.
Quando io e mia moglie Georgeann iniziammo a parlare alle
famiglie lottai per trovare le parole giuste. Come avrei potuto capire
davvero il loro dolore? Come avrei potuto dire che il sacrificio del
loro figlio, marito, padre, fratello, amico era valso la pena? Feci del
mio meglio per consolare tutti. Li abbracciai. Pregai con loro. Mi
sforzai di essere forte per loro, ma sapevo che le mie parole non
erano all’altezza.
Poi, mentre mi inginocchiavo accanto a una donna anziana, notai
la famiglia di fianco a me che parlava con il tenente generale della
Marina John Kelly. Assistente militare del segretario alla Difesa,
Kelly era alto, snello, aveva i capelli grigi tagliati corti e indossava
un’uniforme immacolata. La famiglia era raccolta attorno a lui e mi
resi conto che le sue parole di empatia e incoraggiamento davanti
alla tragedia stavano avendo un profondo impatto sui genitori in lutto
e sui loro figli. Lui sorrideva e loro sorridevano. Lui abbracciava e
loro ricambiavano l’abbraccio. Lui tendeva la mano e loro la
stringevano con forza.
Dopo aver abbracciato i genitori un’ultima volta e averli ringraziati
per il loro sacrificio, Kelly si spostò al gruppo successivo di
sopravvissuti distrutti dal dolore. Nel corso dell’ora successiva John
Kelly parlò con quasi ogni famiglia presente nella sala. Quel giorno
le sue parole toccarono più profondamente di quelle di chiunque
altro ogni genitore, moglie, fratello e sorella, amico. Erano parole di
comprensione. Le sue erano parole di compassione e, soprattutto,
erano parole di speranza.
Solo John Kelly avrebbe potuto fare la differenza quel giorno. Solo
John Kelly avrebbe potuto dare loro speranza, perché solo John
Kelly sapeva che cosa significa perdere un figlio in combattimento.
Il primo luogotenente di Marina Robert Kelly era stato ucciso in
Afghanistan nel 2010 mentre prestava servizio nel terzo battaglione
del Quinto Marines. Il generale Kelly e la sua famiglia avevano
lottato contro la tragedia, esattamente come quelle famiglie alla base
aerea di Dover. Ma la famiglia Kelly era sopravvissuta. Erano riusciti
a superare il dolore, la tristezza e il terribile senso di perdita.
Quel giorno John Kelly diede forza anche a me. La verità è che
quando piangi un soldato provi dolore per la sua famiglia, ma hai
anche paura che un giorno la stessa sorte possa toccare a te. Ti
chiedi se riusciresti a superare la perdita di un figlio. O come la tua
famiglia se la caverebbe senza di te. Speri e preghi che Dio sia
misericordioso e che tu non debba portare quel fardello impensabile.
Nei tre anni successivi John Kelly e io diventammo amici intimi.
Era un ufficiale straordinario, un marito saldo per la moglie Karen, e
un padre amorevole per la figlia Kate e il figlio più grande, il
maggiore della Marina John Kelly. Ma soprattutto, senza nemmeno
rendersene conto, John Kelly dava speranza a tutti quelli che lo
circondavano. Speranza che nei momenti peggiori possiamo
superare il dolore, la delusione e la sofferenza, ed essere forti. Che
ciascuno di noi ha dentro di sé la capacità di andare avanti e non
solo di sopravvivere, ma di essere di ispirazione per gli altri.
La speranza è la forza più potente dell’universo. Con la speranza
è possibile portare le nazioni alla grandezza. Con la speranza si
possono risollevare gli oppressi. Con la speranza si può alleviare il
dolore di una perdita insopportabile. Certe volte basta una persona a
fare la differenza.
Tutti noi ci ritroveremo immersi nel fango fino al collo, prima o poi.
Quello è il momento di cantare a voce alta, di fare un gran sorriso, di
tirare su quelli che ci circondano e dar loro la speranza che domani
sarà un giorno migliore.
CAPITOLO DIECI
Non mollate mai!

Se volete cambiare il mondo…

non suonate la campana, mai e poi mai.

Ero in piedi sull’attenti con altri centocinquanta studenti che


iniziavano il primo giorno dell’addestramento dei SEALS . L’istruttore,
che portava stivali da combattimento, pantaloncini cachi e una T-
shirt blu e oro, attraversò l’ampio cortile di asfalto diretto a una
campana d’ottone visibile a tutti noi.
«Signori» esordì. «Oggi è il primo giorno del training dei SEALS .
Per i prossimi sei mesi affronterete il corso di addestramento più
duro dell’esercito degli Stati Uniti.»
Mi guardai intorno e vidi l’espressione preoccupata sul viso dei
miei compagni.
L’istruttore andò avanti. «Verrete messi alla prova come non vi è
mai capitato.» Fece una pausa e lasciò scorrere lo sguardo sulla
classe di nuovi “girini”. «La maggior parte di voi non ce la farà. Me
ne occuperò io personalmente.» Sorrise. «Farò qualunque cosa in
mio potere per spingervi a mollare!» Sottolineò le ultime tre parole.
«Vi darò il tormento senza pietà. Vi metterò in imbarazzo davanti ai
compagni. Vi spingerò oltre i vostri limiti.» Sul suo viso comparve un
ghigno. «E ci sarà sofferenza. Un sacco di sofferenza.»
Afferrò la corda della campana e le diede uno strattone, facendo
riecheggiare nel cortile un assordante clangore metallico. «Ma se
non gradite la sofferenza, se le molestie non vi piacciono, la via
d’uscita è facile.» Diede un altro strattone alla corda, provocando un
secondo scampanio che riverberò tra gli edifici. «Per andarvene, vi
basta suonare tre volte questa campana.»
Lasciò andare la corda legata al batacchio. «Suonate la campana,
e non dovrete alzarvi presto. Suonate la campana, e non dovrete
correre per chilometri, nuotare nell’acqua gelida o fare il percorso a
ostacoli. Suonate la campana, e potrete risparmiarvi tutta questa
sofferenza.»
A quel punto l’istruttore guardò in basso e parve deviare dal
monologo che si era preparato. «Ma lasciate che vi dica una cosa»
aggiunse. «Se mollate, lo rimpiangerete per il resto della vita.
Mollare non rende mai le cose più facili.»
Sei mesi dopo, a diplomarsi c’erano sono trentasette uomini.
Alcuni avevano scelto la via d’uscita facile. Avevano rinunciato e io
credo che l’istruttore avesse ragione: l’avrebbero rimpianto per tutta
la vita.
Di tutte le lezioni che ho imparato durante l’addestramento dei
SEALS , questa è la più importante. Non mollare mai. Non sembra
particolarmente profondo, eppure la vita ti mette di continuo in
situazioni dove mollare sembra tanto più facile che tener duro. Dove
le probabilità sono così sfavorevoli che rinunciare sembra la cosa più
ragionevole.
Nel corso della mia carriera, ho tratto continua ispirazione dagli
uomini e dalle donne che si sono rifiutati di arrendersi, che si sono
rifiutati di piangersi addosso, ma la lezione più preziosa me l’ha data
un giovane ranger dell’esercito che ho conosciuto in un ospedale in
Afghanistan.

Un pomeriggio sul tardi fui informato che uno dei miei uomini aveva
calpestato una mina a pressione ed era stato evacuato in elicottero
all’ospedale da campo vicino al mio quartier generale. Il comandante
di reggimento dei ranger, il colonnello Erik Kurilla, e io ci affrettammo
ad andare all’ospedale per fare visita al soldato.
Il ragazzo era sdraiato nel letto, con tubi che gli uscivano dalla
bocca e dal petto; aveva ustioni da esplosione sulle braccia e sul
viso. La coperta stesa sul suo corpo era piatta dove normalmente
avrebbero dovuto esserci le gambe. La sua vita era cambiata per
sempre.
Avevo fatto innumerevoli visite agli ospedali da campo in
Afghanistan. Quando ricopri un ruolo di comando in tempo di guerra
cerchi di non interiorizzare la sofferenza umana. Sai che fa parte del
combattimento. I soldati vengono feriti. I soldati muoiono. Se si
permette che ogni decisione venga influenzata dalle possibili perdite
di vite umane, si avranno enormi difficoltà a essere efficaci.
Eppure quella sera sembrava diverso. Il ranger sdraiato davanti a
me era così giovane, più giovane dei miei due figli. Aveva diciannove
anni e si chiamava Adam Bates. Era arrivato in Afghanistan solo da
una settimana e quella era stata la sua prima missione di
combattimento. Mi chinai e gli sfiorai la spalla con la mano. Pareva
che fosse sedato e incosciente. Rimasi assorto nei miei pensieri per
qualche minuto, dissi una preghiera e stavo per andarmene quando
entrò un’infermiera a controllare il paziente.
Sorrise, verificò i parametri vitali e mi chiese se avevo domande
sulle sue condizioni. Mi disse che gli avevano amputato entrambe le
gambe e che aveva gravi ferite da esplosione, ma che aveva buone
possibilità di cavarsela.
La ringraziai per le sue cure al soldato Bates e le dissi che sarei
tornato quando fosse stato sveglio. «Oh, ma è sveglio» disse lei.
«Anzi, sarebbe un bene se parlasse con lui.» Scosse delicatamente
il giovane ranger, che aprì gli occhi e riconobbe la mia presenza.
«In questo momento non può parlare» mi spiegò l’infermiera. «Ma
sua madre era sorda e lui conosce il linguaggio dei segni.» Mi porse
un foglio di carta con sopra dei simboli.
Riflettei per un po’, sforzandomi di trovare le parole giuste. Che
cosa puoi dire a un giovane che ha perso le gambe servendo il suo
Paese? Come puoi farlo sentire meglio riguardo al suo futuro?
Bates, con il viso gonfio per le conseguenze dell’esplosione, gli
occhi a malapena visibili a causa dei lividi e della fasciatura, mi fissò
per qualche istante. Doveva avere percepito la compassione che
sentivo per lui.
Alzò una mano e iniziò a formare dei segni.
Guardai i simboli sul foglio di carta che avevo davanti.
Lentamente e a fatica il ragazzo mi comunicò: «Io… starò… bene».
Poi richiuse gli occhi.
Quando lasciai l’ospedale quella sera non riuscii a trattenere le
lacrime. Nessuno delle centinaia di uomini a cui avevo fatto visita in
ospedale si era mai lamentato. Nemmeno una volta. Erano
orgogliosi di servire il proprio Paese. Accettavano il loro destino e
l’unica cosa che volevano era tornare alla loro unità, riunirsi ai
compagni che avevano lasciato. In qualche modo Adam Bates era
l’incarnazione di tutti quegli uomini che erano venuti prima di lui.
Un anno dopo partecipai a una cerimonia di passaggio di
consegne al Settantacinquesimo Reggimento Ranger. In tribuna
c’era il ranger Bates, impeccabile nell’alta uniforme e in piedi a testa
alta con le sue nuove protesi. Lo sentii sfidare parecchi dei
compagni a una gara di trazioni alla sbarra. Con tutto quello che
aveva passato – gli interventi chirurgici, la sofferenza della
riabilitazione e la fatica di adattarsi a una nuova vita – non aveva mai
mollato. Rideva, scherzava, sorrideva e – esattamente come mi
aveva promesso – stava bene!
La vita è costellata di momenti difficili. Ma c’è sempre qualcuno a
cui va peggio che a voi. Se passate le giornate a commiserarvi, a
lamentarvi per come siete stati trattati, a maledire il destino, dando la
colpa a qualcun altro o a qualcos’altro, allora la vita sarà lunga e
difficile. Ma se vi rifiutate di rinunciare ai vostri sogni e affrontate le
avversità a testa alta… allora la vita sarà ciò che voi ne fate… e
potete renderla eccezionale. Non suonate la campana, mai e poi
mai!

Ricordate: iniziate ogni giorno portando a termine un compito.


Trovate qualcuno che vi aiuti nel corso della vita. Rispettate tutti.
Sappiate che la vita non è giusta e che spesso fallirete. Ma se
correte qualche rischio, se reagite nei momenti più difficili, se
affrontate i prepotenti, vi schierate con gli oppressi e non rinunciate,
mai e poi mai… se fate queste cose, allora potrete cambiare la
vostra vita in meglio… e forse anche il mondo!
IL DISCORSO PER LA CONSEGNA DEI DIPLOMI
ALL’UNIVERSITÀ DEL TEXAS

Lo slogan dell’università è: «Ciò che comincia qui cambia il mondo».


Devo ammetterlo, mi piace proprio. «Ciò che comincia qui cambia il
mondo!»
Questa sera ci sono quasi ottomila studenti che si laureano
all’Università del Texas. Quel modello di rigore analitico che è
Ask.com riferisce che nella sua vita l’americano medio incontrerà
diecimila persone. È un sacco di gente. Ma se ognuno di voi ha
cambiato la vita di solo dieci persone, e ciascuna di queste persone
ha cambiato la vita di altre dieci persone – soltanto dieci – allora nel
giro di cinque generazioni, cioè centoventicinque anni, i laureati del
2014 avranno cambiato la vita di ottocento milioni di persone.
Ottocento milioni di persone. Pensateci: più del doppio della
popolazione degli Stati Uniti. Aggiungete un’altra generazione e
potete cambiare l’intera popolazione mondiale, otto miliardi di
persone. Se pensate che sia difficile cambiare la vita di dieci
persone, cambiarla per sempre, vi sbagliate.
L’ho visto succedere ogni giorno in Iraq e in Afghanistan. Un
giovane ufficiale dell’esercito decide di andare a sinistra anziché a
destra in una strada di Baghdad e i dieci soldati della sua unità
scampano a un’imboscata poco più avanti.
Nella provincia di Kandahar, in Afghanistan, un sottufficiale del
Female Engagement Team intuisce che qualcosa non torna e dà
ordine al plotone di allontanarsi da uno IED di oltre due chili,
salvando la vita a decine di soldati.
Se ci pensate, però, la decisione di un singolo non solo ha salvato
la vita di quei soldati, ma anche quella dei loro figli non ancora nati.
E quella dei figli di quei figli. Intere generazioni salvate da un’unica
decisione, presa da una sola persona.
Ma cambiare il mondo può verificarsi ovunque, e chiunque può
farlo. Perciò, quello che comincia qui può davvero cambiare il
mondo. La domanda cruciale, tuttavia, è: come sarà il mondo dopo
che l’avrete cambiato?
Be’, sono sicuro che sarà molto, ma molto meglio, eppure se
avete la pazienza di assecondare per un momento questo vecchio
lupo di mare, avrei qualche suggerimento che potrebbe aiutarvi nel
vostro progetto per un mondo migliore. E anche se queste lezioni
sono state apprese durante il tempo trascorso nell’esercito, vi posso
assicurare che non conta se abbiate indossato un’uniforme oppure
no.
Non contano neppure il genere, l’appartenenza etnica o religiosa,
l’orientamento sessuale o lo status sociale. Ciò con cui lottiamo
nell’esistenza è simile per ciascuno di noi e le lezioni per superare le
difficoltà e andare avanti – cambiando noi stessi e il mondo attorno a
noi – si applicano a tutti nello stesso modo.
Sono stato un Navy SEAL per trentasei anni. Ma tutto è iniziato
quando ho lasciato l’Università del Texas per fare l’addestramento
base dei SEALS a Coronado, in California. L’addestramento base dei
SEALS consiste in sei mesi di corse lunghe e tormentose nella sabbia
cedevole, nuotate notturne nelle acque gelide al largo di San Diego,
percorsi a ostacoli, sessioni interminabili di ginnastica, giorni e giorni
senza dormire, costantemente gelati e bagnati.
Sono sei mesi di continue molestie da parte di guerrieri
professionisti che cercano di scovare i deboli, sia nella mente sia nel
corpo, e di evitare che possano diventare Navy SEALS . Ma
l’addestramento cerca anche di individuare le reclute in grado di
comandare in condizioni di stress, caos, insuccessi e difficoltà
costanti. Per me l’addestramento base dei SEALS ha rappresentato
un’intera vita di sfide compressa in sei mesi.
Perciò, ecco qui le dieci lezioni che ho imparato in quel periodo e
che spero vi saranno d’aiuto nella vostra esistenza futura.
Quando frequentavo l’addestramento base dei SEALS , tutte le
mattine i miei istruttori, che all’epoca erano veterani del Vietnam,
comparivano nella mia stanza in caserma e la prima cosa che
facevano era ispezionarti il letto. Controllavano se lo avevi rifatto
correttamente, se gli angoli erano diritti, le coperte rincalzate strette,
il cuscino centrato proprio sotto la testata e la coperta in più piegata
accuratamente ai piedi della branda.
Era un compito semplice, banale. Ma ogni mattina ci veniva
richiesto di rifare il letto alla perfezione. Al tempo sembrava un po’
assurdo, soprattutto alla luce del fatto che aspiravamo a essere veri
guerrieri, SEALS tosti induriti dalle battaglie, ma ho avuto moltissime
riprove della saggezza di questa azione tanto semplice.
Se vi rifate il letto ogni mattina, avrete portato a termine il primo
compito della giornata. Vi darà una piccola sensazione di orgoglio e
vi stimolerà a portare a termine un altro compito e poi un altro e un
altro ancora. Alla fine della giornata, quel singolo compito portato a
termine si sarà trasformato in molti compiti portati a termine. Rifarvi il
letto rafforzerà inoltre l’idea che nella vita contano le piccole cose.
Se non riuscite a fare nel modo giusto le piccole cose, non farete
mai nel modo giusto le grandi cose. E se per caso avete avuto una
giornata pessima, tornare a casa e trovare un letto rifatto – da voi –
costituisce un incoraggiamento a sperare che domani andrà meglio.
Se volete cambiare il mondo, cominciate col rifarvi il letto.

Durante l’addestramento dei SEALS gli studenti vengono suddivisi in


equipaggi. Ciascun equipaggio è composto da sette uomini: tre da
ciascun lato del piccolo canotto di gomma e un timoniere per guidare
il gommone. Ogni giorno l’equipaggio si schiera sulla spiaggia e
riceve l’ordine di raggiungere la zona dei frangenti e pagaiare per
diversi chilometri lungo la costa.
D’inverno, le onde al largo di San Diego possono arrivare a tre
metri d’altezza ed è difficilissimo pagaiare dove le onde si frangono a
meno che tutti non si impegnino al massimo. Ogni colpo di remo
deve essere sincronizzato al ritmo scandito dal timoniere. Ognuno
deve metterci la stessa forza o l’imbarcazione si girerà puntando
contro l’onda e verrà ributtata sulla spiaggia senza tante cerimonie.
Perché il gommone arrivi a destinazione, devono pagaiare tutti.
Non potete cambiare il mondo da soli – vi servirà aiuto – perciò
per arrivare dal punto di partenza al traguardo portate con voi amici,
colleghi, estranei ben disposti e un bravo timoniere per guidarli.
Se volete cambiare il mondo, trovate qualcuno che vi aiuti a
pagaiare.

Dopo qualche settimana di duro addestramento dei SEALS , da


centocinquanta studenti che eravamo ci ritrovammo in quarantadue.
Adesso c’erano sei equipaggi di sette uomini ciascuno. Io ero
nell’imbarcazione delle reclute alte, ma l’equipaggio migliore che
avevamo era composto di ragazzi bassi… “l’equipaggio dei
piccoletti”, lo chiamavamo. Nessuno di loro superava il metro e
sessantacinque.
L’equipaggio dei piccoletti annoverava un nativo americano, un
afroamericano, un americano di origini polacche, uno di origini
greche, un italoamericano e due ragazzi tosti del Midwest.
Pagaiavano più forte, correvano e nuotavano più veloci di tutti gli altri
equipaggi.
Gli uomini alti degli altri equipaggi li prendevano in giro
bonariamente parlando delle pinnette che i piccoletti infilavano sui
piedini prima di andare a nuotare. Ma questi ragazzi, provenienti da
ogni angolo della nazione e del mondo, riuscivano sempre ad avere
l’ultima parola, nuotavano più veloci di tutti e raggiungevano la
spiaggia prima degli altri equipaggi.
L’addestramento dei SEALS era un grande livellatore. Non contava
nient’altro se non la volontà di farcela: non importavano il colore,
l’appartenenza etnica, l’istruzione, la condizione sociale.
Sevoletecambiareilmondo,misuratelepersone dalla grandezza del
cuore, non dalla lunghezza delle pinne.

Diverse volte alla settimana gli istruttori ci facevano mettere in fila


per l’ispezione dell’uniforme. Era eccezionalmente accurata. Il
berretto doveva essere perfettamente inamidato, l’uniforme stirata
alla perfezione e la fibbia della cintura lucida e senza macchie.
Ma sembrava che tutti gli sforzi di inamidare il berretto, stirare
l’uniforme o lucidare la fibbia non fossero mai sufficienti. Gli istruttori
trovavano sempre “qualcosa” che non andava.
Se non passavi l’ispezione dell’uniforme, ti toccava buttarti in
mezzo alle onde completamente vestito e poi, fradicio, rotolarti sulla
spiaggia finché non eri ricoperto di sabbia da capo a piedi. Risultato,
ti eri trasformato in uno sugar cookie, un biscotto allo zucchero. Ti
tenevi addosso l’uniforme conciata a quel modo per tutto il giorno:
fredda, bagnata e piena di sabbia.
Molti studenti non riuscivano ad accettare che tutti i loro sforzi
fossero vani. Che per quanto si impegnassero ad avere l’uniforme
immacolata, la cosa non venisse apprezzata. Quegli studenti non
superarono l’addestramento. Quegli studenti non avevano compreso
lo scopo di tutto quanto. Non ci saresti mai riuscito. Non avresti mai
avuto un’uniforme perfetta.
Certe volte, per quanto ci si sia preparati a fondo o si svolga una
prestazione perfetta, si finisce comunque per essere uno sugar
cookie. È così che va la vita.
Se volete cambiare il mondo, accettate di essere uno sugar
cookie e andate avanti.

Durante l’addestramento era necessario affrontare ogni giorno


diverse prove fisiche. Corse su lunga distanza, nuotate di chilometri,
percorsi a ostacoli e ore di ginnastica, tutto pensato per testare la
tua forza di carattere.
Ogni prova aveva degli standard: dei tempi che dovevi rispettare.
Se non riuscivi a soddisfarli, il tuo nome finiva su una lista e alla fine
della giornata quelli che erano sulla lista venivano invitati al Circo.
Il Circo erano due ore in più di ginnastica che avevano lo scopo di
sfinirti, spezzarti lo spirito, costringerti a rinunciare. Nessuno voleva il
Circo. Il Circo significava che per quel giorno non eri stato all’altezza.
Il Circo significava più stanchezza, e più stanchezza significava che
il giorno dopo sarebbe stato più difficile… e probabilmente ti saresti
ritrovato a un altro Circo.
Ma durante l’addestramento dei SEALS a un certo punto tutti – e
intendo proprio tutti – finivano sulla lista. E a coloro che ci finivano di
continuo succedeva una cosa interessante. Dopo un po’ questi
studenti che facevano due ore in più di ginnastica diventavano
sempre più forti. La sofferenza del Circo aumentava la forza interiore
e li rendeva più resistenti fisicamente.
La vita è piena di Circhi. Fallirete. Probabilmente fallirete spesso.
Sarà doloroso. Sarà scoraggiante. Talvolta vi metterà alla prova in
maniera radicale.
Se volete cambiare il mondo, non abbiate paura del Circo.

Almeno due volte alla settimana ci veniva chiesto di fare il percorso


a ostacoli, che prevedeva venticinque ostacoli tra cui un muro alto
tre metri e mezzo, una rete di nove metri e un filo spinato sotto cui
strisciare, solo per citarne alcuni.
L’ostacolo più difficile era la Slide for Life, costituita da una torre a
tre piani alta nove metri a un’estremità e da una torre a un piano
all’altra estremità. Tra le due torri era tesa una corda lunga trenta
metri.
Bisognava arrampicarsi sulla torre a tre livelli e, una volta in cima,
afferrare la corda, lasciarsi penzolare al di sotto di essa e spostarsi
muovendo una mano dopo l’altra fino ad arrivare all’estremità
opposta. Quando io e i miei compagni iniziammo l’addestramento,
nel 1977, il record del percorso a ostacoli resisteva da anni.
Sembrava imbattibile finché un giorno uno studente non decise di
affrontare la Slide for Life gettandosi a capofitto.
Anziché appendersi sotto la corda e spostarsi un centimetro alla
volta, lui ci si piazzò coraggiosamente sopra e si spinse in avanti.
Era una mossa pericolosa, apparentemente folle, e carica di rischi.
Fallire significava ferirsi e farsi sbattere fuori dal corso. Senza
esitazioni, lo studente scivolò lungo la corda a una velocità folle e
invece di parecchi minuti impiegò la metà del tempo. Alla fine del
percorso aveva battuto il record.
Se volete cambiare il mondo, certe volte dovete buttarvi giù
dall’ostacolo a capofitto.
Durante la fase dell’addestramento dedicata alla guerra terrestre le
reclute vengono portate all’isola di San Clemente, al largo della
costa di San Diego. Le acque intorno all’isola sono luogo di
riproduzione dei grandi squali bianchi. Per superare l’addestramento
dei SEALS bisogna affrontare una serie di lunghe nuotate che devono
essere portate a termine. Una di esse si svolge di notte.
Prima della prova gli istruttori informano allegramente le reclute
su tutte le specie di squali che abitano le acque al largo di San
Clemente. Però ti assicurano che nessuno dei loro studenti è stato
mangiato da uno squalo… non di recente, perlomeno.
Ma ti insegnano anche che se uno squalo inizia a girarti attorno
devi mantenere la tua posizione. Non allontanarti. Non comportarti
come se avessi paura. E se lo squalo, desideroso di uno spuntino di
mezzanotte, ti si avventa contro, tiragli un pugno sul naso con tutta
la forza che hai; a quel punto lui si girerà e se ne andrà.
Il mondo è pieno di squali. Se sperate di portare a termine la
nuotata, dovrete vedervela con loro.
Se volete cambiare il mondo, non arretrate davanti agli squali.

Uno dei nostri compiti come Navy SEALS è condurre attacchi


subacquei contro le navi nemiche. Durante l’addestramento di base
mettemmo ampiamente in pratica questa tecnica. La missione di
attacco a una nave prevede che un paio di sommozzatori dei SEALS
vengano fatti scendere in acqua fuori da un porto nemico e poi
percorrano a nuoto tre chilometri e mezzo sott’acqua equipaggiati
con nient’altro che un profondimetro e una bussola per raggiungere il
loro obiettivo.
Mentre nuoti, anche parecchio sotto la superficie filtra comunque
della luce. È confortante sapere che sopra di te c’è mare aperto. Ma
quando ti avvicini alla nave, ancorata a un molo, la luce inizia a
scemare. La struttura d’acciaio dello scafo impedisce il passaggio
alla luce della luna e dei lampioni circostanti. Blocca qualunque fonte
di illuminazione ambientale.
Per avere successo, devi nuotare sotto lo scafo e raggiungere la
chiglia, la parte centrale e più profonda dell’imbarcazione. È quello il
tuo obiettivo. Ma la chiglia è anche il punto più buio, dove non riesci
a vederti nemmeno la mano piazzata davanti alla faccia, dove il
rumore delle macchine è assordante e dove è facile perdere
l’orientamento e fallire.
Ogni SEAL sa che sotto la chiglia, nel momento più buio della
missione, è necessario essere calmi, controllati e chiamare a
raccolta tutte le abilità tattiche, tutta la forza fisica e tutta la saldezza
interiore che si possiede.
Sevoletecambiareilmondo,dovetedareilmeglio di voi nei momenti
più bui.

La nona settimana di addestramento è chiamata Hell Week,


“settimana d’inferno”. Sono sei giorni di deprivazione del sonno,
molestie fisiche e psicologiche ininterrotte, più un giorno speciale nel
“pantano”. Parliamo di una zona di costa lasciata scoperta dalla
bassa marea che si trova fra San Diego e Tijuana, dove il terreno è
paludoso e il fango ti inghiotte.
Il mercoledì della Hell Week si va in gommone al pantano e si
trascorrono le quindici ore successive a tentare di sopravvivere al
fango gelido, al vento sferzante e alle continue pressioni degli
istruttori che vogliono farti desistere.
Quel mercoledì sera, quando il sole cominciò a tramontare, a me
e ai miei compagni, che avevamo commesso una qualche
«vergognosa infrazione alle regole», fu ordinato di entrare nel fango.
Il pantano inghiottì gli uomini finché non rimase visibile altro che la
testa. Gli istruttori ci dissero che saremmo potuti uscire dal fango
solo se cinque di noi avessero rinunciato; soltanto cinque, e
saremmo stati liberi da quel freddo tremendo.
Mi guardai attorno e capii subito che alcuni dei miei compagni
erano pronti ad arrendersi. Mancavano otto ore al sorgere del sole,
altre otto ore di freddo che ti penetrava nelle ossa. Battevamo i denti
ed eravamo scossi dai brividi al punto che era difficile udire
qualcos’altro. E poi cominciammo a sentire una voce che
riecheggiava nella notte, una voce che cantava una canzone. Il suo
proprietario era terribilmente stonato, ma cantava con grande
entusiasmo. Alla prima voce se ne aggiunse una seconda e poi una
terza e di lì a poco stavamo cantando tutti.
Sapevamo che se un uomo era in grado di superare la
disperazione, avrebbero potuto farlo anche gli altri. Gli istruttori ci
minacciarono di lasciarci altre ore nel fango se avessimo continuato
a cantare, ma noi non ce ne curammo. E chissà come il fango
sembrò meno freddo, il vento meno implacabile e l’alba non così
lontana.
Se c’è una cosa che ho imparato girando il mondo, è il potere
della speranza. La speranza di un singolo, di un Washington, di un
Lincoln, di un King, di un Mandela e persino di una ragazzina
pakistana, Malala. Una persona sola può cambiare il mondo dando
speranza alla gente.
Se volete cambiare il mondo, quando siete nel fango fino al collo
mettetevi a cantare.

Infine, nell’addestramento dei SEALS c’è una campana, una campana


di ottone appesa al centro del cortile in modo che tutte le reclute
possano vederla. Tutto quello che devi fare se vuoi rinunciare è
suonare la campana. Suona la campana, e non dovrai più svegliarti
alle cinque. Suona la campana, e non sarai più costretto a nuotare
per ore nel mare gelido. Suona la campana, e non ti toccherà più
correre per chilometri, fare il percorso a ostacoli, sottoporti
all’addestramento fisico e sopportare le difficoltà del corso dei SEALS .
Basta suonare la campana.
Se volete cambiare il mondo, non suonate la campana, mai e poi
mai.

Voi state per laurearvi. State per cominciare il vostro viaggio


attraverso la vita. State per cambiare il mondo, in meglio. Non sarà
facile.
Cominciate ogni giorno portando a termine un compito. Trovate
qualcuno da aiutare nel corso dell’esistenza. Rispettate tutti.
Sappiate che la vita non è giusta e che fallirete spesso, ma se
correrete qualche rischio, se reagirete nei momenti più difficili, se
affronterete i prepotenti, vi schiererete con gli oppressi e non
rinuncerete, mai e poi mai… se farete queste cose, allora la
prossima generazione e la generazione che seguirà vivranno in un
mondo di gran lunga migliore rispetto a quello che abbiamo oggi. E
ciò che è cominciato qui avrà davvero cambiato il mondo, in meglio.
Grazie mille. Hook ’em Horns.
RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare la mia editor Jamie Raab per la pazienza e la


comprensione. Hai dato vita a un libro bellissimo che so supererà la
prova del tempo. Voglio ringraziare anche tutti i grandi amici che
hanno accettato di essere menzionati in questo libro. Il vostro
coraggio davanti a terribili avversità mi ha ispirato più di quanto
potrete mai sapere.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato,
riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o
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Fatti il letto
di William H. McRaven
© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano
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This edition published by arrangement with Grand Central Publishing,
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Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
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DI BRIAN LEMUS | © 2017 HACHETTE BOOK GROUP | ART DIRECTOR: CECILIA FLEGENHEIMER

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