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«S ,
primo compito della giornata. Questo vi darà una sensazione di
orgoglio e vi incoraggerà a concluderne un altro, e poi un altro
ancora. Farsi il letto, inoltre, rimarca la consapevolezza che nella vita le
piccole cose contano. Se non sapete fare bene le piccole cose, non ne farete
mai di grandi».
Non è un’esperta di riordino o una madre esasperata a dettare questa
semplice regola, ma un ammiraglio a quattro stelle della Marina americana.
Nel suo discorso tenuto ai laureandi dell’università del Texas alla cerimonia
di consegna dei diplomi, William McRaven ha condiviso i dieci principi che ha
imparato durante l’addestramento da Navy SEAL e che lo hanno aiutato a
superare le sfide non solo nella sua carriera, ma lungo tutta la sua vita.
Perché non è necessario essere un Navy SEAL per trovarsi in situazioni
difficili, dover prendere decisioni complicate o affrontare compiti
apparentemente insormontabili. Chiunque, ha detto, può usare queste
semplici regole per migliorare se stesso, e il mondo.
Quel discorso, che ha avuto oltre cento milioni di visualizzazioni in rete, è
il punto di partenza di Fatti il letto, un bestseller diventato in breve un piccolo
classico, ai vertici delle classifiche per mesi e in corso di pubblicazione in 24
lingue. Intrise di empatia e coraggio, queste pagine hanno il contagioso
potere di ispirare il lettore a dare il meglio di sé e ottenere il massimo dalla
propria vita.
L’autore
FATTI IL LETTO
Piccole cose che cambieranno la tua vita… e forse il mondo
In piedi sul bordo della torre alta nove metri, afferrai la grossa corda
di nylon. Un capo della corda era legato alla torre e l’altro era
ancorato al suolo a un palo distante trenta metri. Ero a metà del
percorso a ostacoli dei SEALS e stavo procedendo a passo di record.
Agganciai le gambe attorno alla fune e, tenendomi stretto come se
ne andasse della vita, cominciai ad allontanarmi dalla piattaforma.
Ero appeso alla corda e muovendomi a mo’ di millepiedi raggiunsi
lentamente, un centimetro dopo l’altro, l’estremità del percorso.
Quando arrivai in fondo, mollai la presa, caddi sulla sabbia soffice
e corsi verso l’ostacolo successivo. I compagni di corso mi urlavano
incoraggiamenti, ma io sentivo l’istruttore SEAL contare i minuti.
Avevo perso un sacco di tempo sulla Slide for Life. La mia tecnica in
“stile opossum” per venire a capo della lunga corda era
semplicemente troppo lenta, ma non so perché non riuscivo a
indurmi a scivolare giù a capofitto. Buttarsi dalla torre a testa in giù,
con un metodo detto commando style, era molto più rapido, ma
anche più rischioso. Eri meno stabile sopra la corda che non appeso
sotto di essa, e se cadevi e ti facevi male, venivi sbattuto fuori dal
corso.
Tagliai la linea del traguardo con un tempo deludente. Mentre ero
piegato in due cercando di riprendere fiato, un veterano del Vietnam
brizzolato con gli stivali lucidissimi e un’uniforme verde tutta
inamidata mi guardò dall’alto. «Quand’è che imparerai, Mr. Mac?»
disse in chiaro tono di disprezzo. «Quel percorso a ostacoli ti
fregherà sempre a meno che non inizi a correre qualche rischio.»
Una settimana dopo ignorai le mie paure, salii sopra la corda e mi
gettai a capofitto lungo la Slide for Life. Mentre tagliavo il traguardo
con un record personale, vidi il veterano del Vietnam annuire in
segno di approvazione. Era una semplice lezione sul superare le
proprie paure e fidarsi delle proprie capacità per portare a termine il
lavoro. Mi sarebbe servita parecchio negli anni successivi.
Iraq, 2004. La voce all’altro capo della radio era calma, ma il tono
rivelava inequivocabilmente l’urgenza. I tre ostaggi che stavamo
cercando erano stati localizzati. I terroristi di al-Qaeda li tenevano in
un compound circondato da mura alla periferia di Baghdad.
Purtroppo le fonti dell’intelligence indicavano che i terroristi stavano
per spostare gli uomini e quindi dovevamo agire in fretta.
Il tenente colonnello dell’esercito a capo della missione di
recupero mi informò che avrebbero dovuto compiere un pericoloso
raid diurno. A peggiorare le cose, l’unico modo per riuscire
nell’impresa era far atterrare tre elicotteri Black Hawk, con a bordo le
forze d’assalto, nel bel mezzo del piccolo compound. Esaminammo
altre opzioni tattiche, ma era chiaro che il colonnello aveva ragione.
Era sempre preferibile condurre una missione di salvataggio di notte,
quando avevi dalla tua parte l’effetto sorpresa, ma questa era
un’opportunità che non si sarebbe ripresentata, e se non agivamo
subito gli ostaggi sarebbero stati trasferiti e magari uccisi.
Approvai la missione e nel giro di pochi minuti la squadra di
recupero era salita su tre Black Hawk ed era diretta al compound. A
una quota molto più alta, un altro elicottero eseguiva
videosorveglianza che veniva trasmessa direttamente al mio quartier
generale. Guardai in silenzio mentre i tre elicotteri sorvolavano il
deserto, a pochi metri dal suolo per non rivelare la loro presenza.
All’interno del cortile vedevo un uomo con un’arma automatica
che entrava e usciva dall’edificio, a quanto pare preparandosi ad
andarsene. Gli elicotteri erano partiti da cinque minuti e tutto quello
che potevo fare dal quartier generale era ascoltare le comunicazioni
interne mentre la squadra di recupero effettuava gli ultimi preparativi.
Non era la prima missione di recupero di ostaggi che avevo
diretto, e non sarebbe stata l’ultima, ma era chiaramente la più
audace, alla luce della necessità di sfruttare l’effetto sorpresa
atterrando all’interno del compound. Anche se i piloti dell’unità
dell’aeronautica militare erano i migliori al mondo, rimaneva
comunque una missione ad alto rischio. Tre elicotteri, con pale
lunghe oltre un metro e ottanta, stavano per atterrare in un’area
dove non c’era praticamente spazio di manovra. Come se non
bastasse, il compound era circondato da un muro di mattoni alto due
metri e mezzo, che costringeva i piloti a modificare bruscamente
l’angolo di avvicinamento. Non sarebbe stato un atterraggio morbido,
pensavo, mentre alla radio sentivo la squadra di recupero prepararsi
all’impatto.
Dalle immagini della videosorveglianza vidi la manovra di
avvicinamento degli elicotteri. Il primo arrivò in assetto orizzontale e
poi, mentre si avvicinava al muro, si impennò verso l’alto, atterrando
nel minuscolo cortile. Gli uomini della squadra si riversarono
immediatamente fuori dal Black Hawk ed entrarono nell’edificio. Il
secondo elicottero, che seguiva a brevissima distanza, atterrò a
pochi centimetri dal primo. Le pale dei due mezzi alzarono una
nuvola di terra che avvolse la zona di atterraggio. Mentre il terzo
velivolo si avvicinava al compound, un enorme pennacchio di
polvere accecò temporaneamente il pilota. Il muso dell’elicottero si
sollevò sopra il muro, ma la ruota posteriore urtò contro la sommità,
facendo schizzare mattoni dappertutto. Senza spazio per
manovrare, il pilota portò l’elicottero a terra con un tonfo, ma
nessuno degli uomini rimase ferito.
Pochi minuti dopo fui informato che tutti gli ostaggi erano sani e
salvi. Nel giro di mezz’ora la squadra di recupero e gli uomini liberati
erano in volo verso una località sicura. La scommessa aveva
pagato.
Nei dieci anni successivi sarei arrivato a capire che assumersi dei
rischi era tipico delle nostre forze operative speciali. Si spingevano
sempre oltre i limiti delle proprie possibilità e di quelle delle loro
macchine, per raggiungere l’obiettivo. In molti sensi è questo che li
rende differenti da chiunque altro. Tuttavia, contrariamente a quanto
potrebbe pensare un osservatore esterno, il rischio di solito era
calcolato, meditato e pianificato nei dettagli. Anche se era
improvvisato, gli uomini conoscevano i propri limiti, ma credevano
abbastanza in se stessi da provarci comunque.
Nel corso della mia carriera ho sempre nutrito grande rispetto per
lo Special Air Service britannico, il celebre SAS . Il motto del SAS era
«Chi osa vince». Il motto era così universalmente ammirato che
persino pochi momenti prima del raid contro bin Laden, il mio
sergente maggiore comandante, Chris Faris, lo citò ai SEALS che si
preparavano alla missione. Per me il motto non riguardava tanto il
modo in cui operano le forze speciali britanniche, quanto piuttosto il
modo in cui ciascuno di noi dovrebbe affrontare la vita.
L’esistenza è una lotta e l’insuccesso è sempre dietro l’angolo, ma
coloro che vivono nella paura di fallire, o nel timore delle difficoltà o
dell’imbarazzo, non raggiungeranno mai il proprio potenziale. Se non
mettete alla prova i vostri limiti, scegliendo ogni tanto di buttarvi giù
dalla corda a capofitto, se non osate il massimo, non saprete mai
che cosa è veramente possibile nella vostra vita.
CAPITOLO SETTE
Tenete testa ai prepotenti
La grande sala della Dover Air Force Base era piena di famigliari in
lutto: bambini inconsolabili fra le braccia delle madri, genitori che si
tenevano per mano nella speranza di farsi forza a vicenda e mogli
con un’espressione remota di incredulità. Solo cinque giorni prima
un elicottero pilotato da avieri dell’esercito che trasportava Navy
SEALS e i loro partner afghani delle operazioni speciali era stato
abbattuto in Afghanistan. Tutti i trentotto uomini a bordo erano
rimasti uccisi. Era la perdita più grave della Guerra al Terrore.
In meno di un’ora un grosso aereo da trasporto C-17 sarebbe
atterrato a Dover e le famiglie degli eroi caduti sarebbero state
scortate sulla pista per andare incontro alle bare avvolte dalla
bandiera. Nel frattempo, il presidente degli Stati Uniti, il segretario
alla Difesa, i vicesegretari e i capi militari di grado più elevato
sfilavano nella sala per porgere i loro rispetti e offrire conforto.
Avevo partecipato a una decina di cerimonie in onore dei soldati
caduti. Non era mai facile e spesso mi ero chiesto se le mie parole di
consolazione facessero qualche differenza per chi aveva perso i suoi
cari, o se invece lo shock della perdita rendesse incomprensibile ciò
che dicevo.
Quando io e mia moglie Georgeann iniziammo a parlare alle
famiglie lottai per trovare le parole giuste. Come avrei potuto capire
davvero il loro dolore? Come avrei potuto dire che il sacrificio del
loro figlio, marito, padre, fratello, amico era valso la pena? Feci del
mio meglio per consolare tutti. Li abbracciai. Pregai con loro. Mi
sforzai di essere forte per loro, ma sapevo che le mie parole non
erano all’altezza.
Poi, mentre mi inginocchiavo accanto a una donna anziana, notai
la famiglia di fianco a me che parlava con il tenente generale della
Marina John Kelly. Assistente militare del segretario alla Difesa,
Kelly era alto, snello, aveva i capelli grigi tagliati corti e indossava
un’uniforme immacolata. La famiglia era raccolta attorno a lui e mi
resi conto che le sue parole di empatia e incoraggiamento davanti
alla tragedia stavano avendo un profondo impatto sui genitori in lutto
e sui loro figli. Lui sorrideva e loro sorridevano. Lui abbracciava e
loro ricambiavano l’abbraccio. Lui tendeva la mano e loro la
stringevano con forza.
Dopo aver abbracciato i genitori un’ultima volta e averli ringraziati
per il loro sacrificio, Kelly si spostò al gruppo successivo di
sopravvissuti distrutti dal dolore. Nel corso dell’ora successiva John
Kelly parlò con quasi ogni famiglia presente nella sala. Quel giorno
le sue parole toccarono più profondamente di quelle di chiunque
altro ogni genitore, moglie, fratello e sorella, amico. Erano parole di
comprensione. Le sue erano parole di compassione e, soprattutto,
erano parole di speranza.
Solo John Kelly avrebbe potuto fare la differenza quel giorno. Solo
John Kelly avrebbe potuto dare loro speranza, perché solo John
Kelly sapeva che cosa significa perdere un figlio in combattimento.
Il primo luogotenente di Marina Robert Kelly era stato ucciso in
Afghanistan nel 2010 mentre prestava servizio nel terzo battaglione
del Quinto Marines. Il generale Kelly e la sua famiglia avevano
lottato contro la tragedia, esattamente come quelle famiglie alla base
aerea di Dover. Ma la famiglia Kelly era sopravvissuta. Erano riusciti
a superare il dolore, la tristezza e il terribile senso di perdita.
Quel giorno John Kelly diede forza anche a me. La verità è che
quando piangi un soldato provi dolore per la sua famiglia, ma hai
anche paura che un giorno la stessa sorte possa toccare a te. Ti
chiedi se riusciresti a superare la perdita di un figlio. O come la tua
famiglia se la caverebbe senza di te. Speri e preghi che Dio sia
misericordioso e che tu non debba portare quel fardello impensabile.
Nei tre anni successivi John Kelly e io diventammo amici intimi.
Era un ufficiale straordinario, un marito saldo per la moglie Karen, e
un padre amorevole per la figlia Kate e il figlio più grande, il
maggiore della Marina John Kelly. Ma soprattutto, senza nemmeno
rendersene conto, John Kelly dava speranza a tutti quelli che lo
circondavano. Speranza che nei momenti peggiori possiamo
superare il dolore, la delusione e la sofferenza, ed essere forti. Che
ciascuno di noi ha dentro di sé la capacità di andare avanti e non
solo di sopravvivere, ma di essere di ispirazione per gli altri.
La speranza è la forza più potente dell’universo. Con la speranza
è possibile portare le nazioni alla grandezza. Con la speranza si
possono risollevare gli oppressi. Con la speranza si può alleviare il
dolore di una perdita insopportabile. Certe volte basta una persona a
fare la differenza.
Tutti noi ci ritroveremo immersi nel fango fino al collo, prima o poi.
Quello è il momento di cantare a voce alta, di fare un gran sorriso, di
tirare su quelli che ci circondano e dar loro la speranza che domani
sarà un giorno migliore.
CAPITOLO DIECI
Non mollate mai!
Un pomeriggio sul tardi fui informato che uno dei miei uomini aveva
calpestato una mina a pressione ed era stato evacuato in elicottero
all’ospedale da campo vicino al mio quartier generale. Il comandante
di reggimento dei ranger, il colonnello Erik Kurilla, e io ci affrettammo
ad andare all’ospedale per fare visita al soldato.
Il ragazzo era sdraiato nel letto, con tubi che gli uscivano dalla
bocca e dal petto; aveva ustioni da esplosione sulle braccia e sul
viso. La coperta stesa sul suo corpo era piatta dove normalmente
avrebbero dovuto esserci le gambe. La sua vita era cambiata per
sempre.
Avevo fatto innumerevoli visite agli ospedali da campo in
Afghanistan. Quando ricopri un ruolo di comando in tempo di guerra
cerchi di non interiorizzare la sofferenza umana. Sai che fa parte del
combattimento. I soldati vengono feriti. I soldati muoiono. Se si
permette che ogni decisione venga influenzata dalle possibili perdite
di vite umane, si avranno enormi difficoltà a essere efficaci.
Eppure quella sera sembrava diverso. Il ranger sdraiato davanti a
me era così giovane, più giovane dei miei due figli. Aveva diciannove
anni e si chiamava Adam Bates. Era arrivato in Afghanistan solo da
una settimana e quella era stata la sua prima missione di
combattimento. Mi chinai e gli sfiorai la spalla con la mano. Pareva
che fosse sedato e incosciente. Rimasi assorto nei miei pensieri per
qualche minuto, dissi una preghiera e stavo per andarmene quando
entrò un’infermiera a controllare il paziente.
Sorrise, verificò i parametri vitali e mi chiese se avevo domande
sulle sue condizioni. Mi disse che gli avevano amputato entrambe le
gambe e che aveva gravi ferite da esplosione, ma che aveva buone
possibilità di cavarsela.
La ringraziai per le sue cure al soldato Bates e le dissi che sarei
tornato quando fosse stato sveglio. «Oh, ma è sveglio» disse lei.
«Anzi, sarebbe un bene se parlasse con lui.» Scosse delicatamente
il giovane ranger, che aprì gli occhi e riconobbe la mia presenza.
«In questo momento non può parlare» mi spiegò l’infermiera. «Ma
sua madre era sorda e lui conosce il linguaggio dei segni.» Mi porse
un foglio di carta con sopra dei simboli.
Riflettei per un po’, sforzandomi di trovare le parole giuste. Che
cosa puoi dire a un giovane che ha perso le gambe servendo il suo
Paese? Come puoi farlo sentire meglio riguardo al suo futuro?
Bates, con il viso gonfio per le conseguenze dell’esplosione, gli
occhi a malapena visibili a causa dei lividi e della fasciatura, mi fissò
per qualche istante. Doveva avere percepito la compassione che
sentivo per lui.
Alzò una mano e iniziò a formare dei segni.
Guardai i simboli sul foglio di carta che avevo davanti.
Lentamente e a fatica il ragazzo mi comunicò: «Io… starò… bene».
Poi richiuse gli occhi.
Quando lasciai l’ospedale quella sera non riuscii a trattenere le
lacrime. Nessuno delle centinaia di uomini a cui avevo fatto visita in
ospedale si era mai lamentato. Nemmeno una volta. Erano
orgogliosi di servire il proprio Paese. Accettavano il loro destino e
l’unica cosa che volevano era tornare alla loro unità, riunirsi ai
compagni che avevano lasciato. In qualche modo Adam Bates era
l’incarnazione di tutti quegli uomini che erano venuti prima di lui.
Un anno dopo partecipai a una cerimonia di passaggio di
consegne al Settantacinquesimo Reggimento Ranger. In tribuna
c’era il ranger Bates, impeccabile nell’alta uniforme e in piedi a testa
alta con le sue nuove protesi. Lo sentii sfidare parecchi dei
compagni a una gara di trazioni alla sbarra. Con tutto quello che
aveva passato – gli interventi chirurgici, la sofferenza della
riabilitazione e la fatica di adattarsi a una nuova vita – non aveva mai
mollato. Rideva, scherzava, sorrideva e – esattamente come mi
aveva promesso – stava bene!
La vita è costellata di momenti difficili. Ma c’è sempre qualcuno a
cui va peggio che a voi. Se passate le giornate a commiserarvi, a
lamentarvi per come siete stati trattati, a maledire il destino, dando la
colpa a qualcun altro o a qualcos’altro, allora la vita sarà lunga e
difficile. Ma se vi rifiutate di rinunciare ai vostri sogni e affrontate le
avversità a testa alta… allora la vita sarà ciò che voi ne fate… e
potete renderla eccezionale. Non suonate la campana, mai e poi
mai!
www.edizpiemme.it
Fatti il letto
di William H. McRaven
© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Make Your Bed
Copyright © 2017 by William H. McRaven
This edition published by arrangement with Grand Central Publishing,
New York, USA. All rights reserved.
Interior design by Jason Heuer.
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788858519424